Aforismi

di Clockwise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il violino ***
Capitolo 2: *** Un messaggio ***
Capitolo 3: *** La cravatta ***
Capitolo 4: *** Il diapason ***
Capitolo 5: *** Palinsesto ***
Capitolo 6: *** Re Lear ***
Capitolo 7: *** Re nero ***
Capitolo 8: *** Il giglio ***
Capitolo 9: *** Amanda ***



Capitolo 1
*** Il violino ***


Edit del 5.11: era nata come one-shot, poi però ho letto altri aforismi, e sono nate altre idee, così è diventata il primo capitolo di una piccola long. 
Sette capitoli salvo imprevisti, missing moments (anche da scene di una ipotetica quarta stagione). Ho cercato di incentrare ogni one-shot sul rapporto fra Sherlock e qualche altro personaggio. 
Fatemi sapere che ne pensate =) 
-Clock 


Nota: questi personaggi non mi appartengono, sono della BBC e di Sir Arthur Conan Doyle e io mi ci sto solo divertendo.

Storiella nata da un aforismo di Oscar Wilde - ho una mezza idea di scriverci su una raccolta, ma si vedrà. 
Fra "The Sign of Three" e "His Last Vow". Slash per chi vuole leggercelo.
Ciao!
-Clock


 
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Il violino
(andante espressivo)

 


La musica ci crea un passato che ignoriamo e ci infonde un senso di dolore finora celato alle nostre lacrime.
Oscar Wilde


 
Sherlock suona, le spalle alla stanza, quando John entra.
John ha sentito Sherlock suonare innumerevoli volte ma, nonostante abbia fatto del suo meglio per imparare, non riconosce ancora la maggior parte dei pezzi che ascolta – spesso confonde addirittura quelli composti da Sherlock con brani classici, guadagnandosi un’occhiataccia gelida dal detective.
I suoi preferiti, comunque, sono i brani composti da lui.
Come il brano per la Donna? O lo struggente valzer per il tuo matrimonio? 
Ok, forse non proprio quelli, che gli strizzano lo stomaco in uno spiacevole nodo ogni qual volta ci ripensa, ma…
«Componi?» domanda, più per zittire la sua mente importuna che per altro. Se ne pente all’istante quando l’archetto stride sulle corde interrompendo bruscamente una nota e Sherlock si volta, una ruga – fastidio? irritazione? – fra le sopracciglia.
«John.»
«Ciao.»
Sherlock sbatte le palpebre un paio di volte.
«Sì, componevo» mormora, sovrappensiero. Rimane a fissarlo in silenzio per un paio di secondi, poi annuisce e appunta delle note sul pentagramma, ancora immerso nella musica.
«Qual buon vento?» chiede, senza guardarlo. Sente John togliersi la giacca.
«Speravo in una tazza di tè» risponde. Sherlock non ha bisogno di alzarsi per sapere che sorride. Si raddrizza e gli lancia una breve occhiata prima di risistemarsi il violino sotto il mento.
«Sai come prepararlo, suppongo.»
John scuote la testa, sbuffando una risata a metà fra il divertito e l’esasperato e si dirige in cucina.
Sherlock sorride e torna alla finestra.
 
~~~ 
 
Sherlock suona, in piedi accanto alla finestra, una precoce ruga di concentrazione fra le sopracciglia e le labbra strette.
Mycroft sfoglia pigramente una rivista accademica, seduto sul divano. Dondola il piede a tempo, preciso e puntuale come un metronomo.
«Si bemolle» dice ad un tratto. L’archetto stride sulle corde e Sherlock si interrompe.
«È bequadro» sibila, risentito. Mycroft volta una pagina.
«Era bequadro, alla battuta precedente; ora è tornato bemolle» dice, in tono distratto. Gli occhi di Sherlock guizzano sul pentagramma e stringe le labbra ancora di più quando deve constatare che Mycroft ha ragione.
Stizzito, posiziona di nuovo il violino e riprende a suonare con più foga di prima, gli occhi ridotti a due fessure. Mycroft alza gli occhi su di lui.
«Non c’è bisogno di suonare ancora, Sherlock» dice, uno sprazzo di affetto fraterno guizzante nel solito tono di indolente rimprovero.
«Devo imparare» sputa fuori l’altro, secco. Mycroft posa la rivista e si alza.
«Hai suonato per due ore, è sufficiente per oggi. Continuerai domani» dice in tono fermo. Sherlock continua imperterrito, come se non l’avesse sentito.
E poi sbaglia di nuovo, alla stessa nota.
Chiude gli occhi per una frazione di secondo, deluso e arrabbiato.
«Sherlock
Vuole rimettersi a suonare, provare ancora e ancora finché non prenderà quella maledetta nota come si deve…
«Basta così.»
No. Deve riuscirci, deve imparare a suonare e diventare bravo, non solo bravo, il migliore, perché è questo che gli altri (lui) si aspettano (pretende) e perché il violino è l’unica cosa che lo tenga impegnato, lo sfidi continuamente, impetuoso e inflessibile e fatalmente elegante.
E lui vuole diventare esattamente come il violino, l’anima fragile difesa da una solida cassa armonica di legno pregiato, intoccabile per chiunque non sappia maneggiarlo, dalle corde taglienti sulle dita del musicista inesperto, portatrici di piaghe per i polpastrelli callosi del concertista superbo, elegante e malinconico e struggente e orgoglioso e superbo e infinitamente distante. Solo così potrà essere al sicuro, e il suo cuore non si spezzerà più, e non dovrà più incurvare le spalle per proteggersi dagli insulti, dalle critiche, dagli sguardi maligni. Perfetto, come un violino.
Quindi deve finire quello stramaledettissimo Studio e farà meglio a suonare quello stupido Si naturale come si deve altrimenti non sarà mai…
Solo quando Mycroft gli toglie il violino e l’archetto di mano, Sherlock si accorge di aver stretto i pugni sugli strumenti, rischiando di rovinarli, e di aver chiuso forte gli occhi. Abbassa la testa e sbatte velocemente le palpebre per scacciare delle lacrime sleali.
Mycroft, con tatto, fa finta di nulla e ripone lo strumento nella custodia.
«Che ne dici se ti trovo uno spartito di Bach, per domani? Questo Studio era noioso» propone, con tono disinvolto. Sherlock solleva la testa.
«Non devi tornare a Cambridge, oggi?» chiede, astioso. Mycroft sospira, raddrizzandosi e guardando il fratello. Sherlock assottiglia gli occhi, infastidito da quel sospiro che sa di compassione (lui non ne ha bisogno, non ne ha chiesta e soprattutto non ne vuole da Mycroft).
«Possiamo andare insieme a cercare lo spartito domani mattina prima che io prenda il treno» propone. «Potranno fare a meno di me per una mattinata.»
«Bene» borbotta Sherlock, volgendo il capo verso la finestra. Mycroft allunga una mano con l’intenzione indefinita di fargli una carezza sui capelli arruffati o di posargliela sulla spalla, ma la mano rimane sospesa a mezz’aria per qualche secondo, poi ricade, sconfitta. Si volta ed esce, il cuore pesante.
Vorrebbe fare di più per lui, ma sa che non si farà mai aiutare. Sherlock si sta indurendo, corazzando, e presto o tardi chiuderà l’intero mondo fuori da sé, si seppellirà in un Palazzo Mentale custodendo il suo cuore ferito nelle segrete e Mycroft non sa ancora se sia giusto così, se gli faccia bene, ma pensa che per gente come lui – come loro, solo che Mycroft ha seppellito il suo cuore già molto prima – forse non c’è altro modo per sopravvivere.
Per questo, il mattino dopo, gli prende uno spartito e ne ordina di nascosto altri sette, da recapitare a casa la settimana seguente, mittente sconosciuto. Bach, Vivaldi, Čajkovskij, Paganini – è ora di iniziare come si deve, Sherlock è più che stufo dopo due mesi di banali studi e pezzi di tecnica.
Il cuore di Mycroft è muto per la gran parte del tempo; quello di Sherlock grida, strepita, piange e canta da un violino. Melodrammatico, Mycroft gliel’ha sempre detto.
 
~~~ 
 
«Come si intitola?» chiede John, dopo che Sherlock ha posato lo strumento e si è seduto davanti al tè.
«Non ha un titolo» risponde, soffiando sulla bevanda. John corruga le sopracciglia.
«Non è finita? A me sembrava finita.»
Sherlock alza gli occhi su di lui. John si chiede che cos’abbia, perché quel giorno sia così… triste, sì, triste è probabilmente la parola giusta, anche se mai l’ha associata a Sherlock.
Sherlock abbassa di nuovo gli occhi e sorseggia il suo tè.
Mentre cercava qualcosa che lo intrattenesse nella noia dilagante di quel giorno, ha ritrovato un vecchio Studio per violino, uno dei primi pezzi che avesse mai suonato, a tredici anni. Ha trovato una foto di lui, Mycroft e Redbeard – Sherlock ha cinque anni, Mycroft dodici, Redbeard è ancora un cucciolo, in grembo a Sherlock; il più piccolo sorride contento, gli occhi del maggiore si stanno già freddando. Il silenzio opprimente dell’appartamento non ha impedito a dei ricordi dolorosi di tornare a galla.
Posa la tazza ancora piena sul tavolino.
«Ti va un po’ di Vivaldi?» propone, afferrando il violino dal pavimento dove l’aveva appoggiato. John solleva un sopracciglio.
«È inutile che sfoggi la tua aria da musicista colto con me, lo sai che potresti benissimo suonare una robetta per bambini e spacciarmela per Vivaldi, perché io ci cascherei con tutte le scarpe.»
Sherlock sorride di quel suo sorriso sghembo, passando la pece sull’archetto.
«Quindi no, niente Vivaldi» dice John, nascondendo male un sorriso.
Sherlock solleva lo sguardo, il sorriso che scivola in un’espressione incuriosita.
John, compiaciuto per aver avuto l’ultima parola sul detective, tira fuori il cellulare di tasca e mostra lo schermo all’altro.
«Lestrade. Io direi che è un sette pieno» afferma. Sherlock solleva lo sguardo, sollevando un sopracciglio.
«Arriva a malapena a cinque e mezzo.»
John rotea gli occhi divertito e fa per protestare, ma Sherlock lo precede.
«Ma verrò con te, perché mi rendo conto di quanto tu sia disperatamente annoiato e bisognoso di un caso per sollevarti dal tedio di questa vita…»
«Stai parlando di me o di te?» scherza John, rimettendosi in tasca il telefono, mentre l’altro si alza e si libera della vestaglia.
Sherlock si ferma per lanciargli un’occhiata scettica.
«Di sicuro un paio di corsette e pedinamenti per Londra non ti farebbero male, considerando che assistere la tua moglie molto incinta non sta giovando alla tua silhouette, Dottore. A proposito, come sta?» chiede, con aria amabile.
«Molto molto incinta.»
«Non dirmi che stai scappando dalla tua dolce consorte solo perché ha qualche sbalzo ormonale perfettamente comprensibile dato il suo stato, per il quale, vorrei ricordarti, non è l’unica responsabile…» continua Sherlock in tono colloquiale, infilandosi il cappotto.
«Sherlock!»
Gli lancia un’occhiata maliziosa e divertita da sotto in su, allacciandosi la sciarpa. John non resiste e sorride anche lui, guardando subito altrove.
«Beh, non ho fatto niente di così grave per meritarmi di dover correre in giro alla ricerca di fragole ad ottobre!» protesta, tornando a guardare Sherlock. Questi apre la bocca per ribattere, ma John non gliene lascia il tempo.
«Lestrade!» gli ricorda, sventolandogli il cellulare sotto il naso, per poi aprire la porta e uscire. Sherlock nasconde un sorriso nel bavero del cappotto e lo segue.
Lo spartito rimane davanti alla finestra. Redbeard, il titolo.
 
Sherlock aveva composto per sé, quel giorno, per quel bambino solo, quell’uomo perso, quel violino scheggiato che era stato fino a che non aveva incontrato John.
John, che non sa nemmeno la differenza – lampante! – fra un Mozart e un Wagner. O fra un Čajkovskij e uno Sherlock – come è possibile?.
John, che piomba in casa sua e lo ascolta suonare e gli porta un caso – banale, è vero, ma grazie del pensiero – perché ha bisogno tanto quanto lui di bere un po’ di adrenalina sana, una volta ogni tanto – ma si tratta davvero solo di questo? (Forse no, forse sì, in ogni caso va bene).
John, che ha accarezzato il collo del violino con un tocco così bello e gentile che le corde si sono subito rilassate sotto il suo tocco e non gli hanno ferito le dita; John, che ha imbracciato il violino e guidato l’archetto sulle corde nell’unico modo giusto e il violino ha cantato, finalmente.
Ogni tanto, il violino è ancora solo, abbacchiato e depresso, ma basta lo sfiorare leggero di quella mano su quelle corde perché torni alla vita.
John ha fatto suo quel violino, ne ha presa l’anima e la tiene vicino al cuore. E al violino va bene così, perché è di John che si parla. E John è John.

 
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Capitolo 2
*** Un messaggio ***


Secondo capitolo, speriamo bene. Fatemi sapere le vostre opinioni! =)
-Clock

 
Un messaggio
(la cena dei fantasmi)
 
 
 
Il mondo è un palcoscenico, ma le parti vi sono male distribuite.
Oscar Wilde
 
 
 
Il ristorante è raffinato, con una vista mozzafiato sulla baia – Sherlock ha buon gusto, deve riconoscere.
Si sistema il foulard intorno ai capelli e si avvicina alla ringhiera, godendosi il tramonto. Tamburella distrattamente con le dita.
Sente, senza bisogno di girarsi, che lui è arrivato.
«Abbiamo due posti riservati.»
Quella voce. Chiude gli occhi per un istante, per assaporarne anche il più piccolo riverbero nell’aria.
«Hai fatto le cose per bene» commenta, voltandosi e puntando gli occhi sul suo viso fiero. I capelli tagliati corti, la barba lunga, una informale giacca a vento: non sembra affatto Sherlock. Neppure lei, si rende conto, deve ricordargli molto la donna di un tempo, con quel vestito a mezzo polpaccio che la invecchia, il foulard, il trucco sobrio e la treccia castano chiaro.
«Considerato che è l’unica cena che ti concederò mai, ho pensato che tanto valeva impegnarsi.»
Irene sorride, perché ha notato la piega divertita nel suo viso, lo prende a braccetto e si lascia condurre nel locale.
 
~~~
 
«Auguri!»
«Auguri!»
I bicchieri tintinnano, ma l’atmosfera rimane tesa, i volti spettrali: che anno sarà mai, quello che li attende? In che mondo vivrà la piccola Watson?
Sherlock si allontana dal caminetto e si avvicina alla finestra, mentre gli altri continuano a scambiarsi gli auguri. Da sociopatico che è, le feste sono sempre state un incubo: hanno la capacità di acuire la distanza che sente fra sé e gli altri e metterlo addirittura a disagio. Sì, anche lì nel salotto di casa sua, con le persone che preferisce al mondo. Forse, sono semplicemente un po’ troppe, non è abituato.
Sente una mano posarglisi esitante sul braccio.
«Buon anno, Sherlock.»
Il volto si addolcisce al sorriso timido di Molly Hooper.
«Buon anno, Molly.»
La ragazza solleva il bicchiere al suo indirizzo e beve un sorso, ma non sembra volersene andare. A Sherlock sembra ora di una domanda.
«Tutto bene, Molly?»
«Oh, sì, sì, t-tutto bene. Pensavo solo, un po’, sai… Vecchi Capodanni. Non esattamente felici. Non sono granché il tipo da festa.»
Fa una risatina nervosa, e Sherlock si chiede perché non possa ridere e basta, sarebbe molto più utile – perché sprecare energia con risate fasulle?
«Io sono l’anima della festa, invece» fa Sherlock, sarcastico, e stavolta il sorriso di Molly è più sincero.
«Oh, io ho esperienza pluriennale in tappezzeria alle feste del liceo, imbattibile» ribatte Molly, sullo stesso tono. Sherlock la guarda cercando di non mostrarsi troppo sorpreso.
«Io neanche ci andavo, alle feste del liceo.»
«Io sì, speravo sempre che Bobby Fellon, della mia classe di francese, mi chiedesse di ballare. Ma lui ballava solo con Debbie Cardiff, di spagnolo. Si sono messi insieme, sposati con tre bambini. Poi hanno divorziato perché lei lo tradiva con Jimmy Simmons, di tedesco.»
Sherlock nasconde un sorriso, tornando alla finestra.
«Quindi alla fine, non so chi abbia vinto, insomma… Forse se mi avesse invitata a ballare…»
«Avresti potuto invitarlo tu» obietta Sherlock. Molly ci pensa su per un istante.
«Nah, quella è fantascienza.»
Ride, finalmente, e Sherlock sorride. L’atmosfera fra loro due è diventata rilassata e amichevole. Piacevole, si ritrova a pensare il detective.
 «Torno da Mary» dice Molly e si allontana con un ultimo sorriso. Sherlock la guarda allontanarsi e torna alla finestra.
 
~~~
 
«Allora» esordisce più tardi Irene, sfogliando il menù. «Ho passato gli ultimi due mesi ad annoiarmi a morte in Perù per una situazione un po’ troppo… calda a Singapore, dove vivo, quindi non ho idea di cosa sia successo nel mondo civilizzato. Raccontami: come sei finito nel mondo dei morti?» domanda, abbandonando il menù e appoggiando il mento su entrambe le mani con fare civettuolo, i gomiti sul tavolo. Sherlock le rivolge uno sguardo seccato senza interrompere la sua analisi del ristorante e dei clienti intorno a loro.
«Il gran finale del gioco di Moriarty» risponde, atono. Irene assottiglia gli occhi, un imperituro sorriso sibillino.
«Il gioco non finisce mai, con lui.»
«Si è sparato in bocca.»
La donna spalanca gli occhi sorpresa.
«Allora è vero. Credevo fosse soltanto una diceria. C’è stato parecchio scompiglio fra le sue fila, ultimamente.»
Sherlock volta la testa verso di lei, interessato.
«Scompiglio? Cosa sai? Hai qualche nome?»
Irene si ritrae e torna composta, le sopracciglia corrugate.
«Oh, ma che maleducato! Pensavo volessi portarmi a cena per fare il galante, non per aprire un’inchiesta sull’armata di Moriarty!» protesta, fingendosi offesa. Sherlock sogghigna.
«Pensavo mi conoscessi.»
Irene assottiglia gli occhi e scuote la testa, un sorriso sghembo.
«Che cattivo ragazzo, avrei proprio voglia di darti una bella lezione alla vecchia maniera…»
Sherlock sbuffa e alza gli occhi.
«Ma il povero John mi ucciderebbe, poi. A proposito, come sta?»
Sherlock si irrigidisce, i suoi occhi si fanno distanti.
«Un suo amico si è suicidato davanti a lui. Ha avuto giorni migliori.»
Irene corruga le sopracciglia.
«Non sa che sei vivo?»
«Troppo pericoloso.»
Rimangono entrambi in silenzio per un po’. Irene giocherella con le dita sulla tovaglia candida, la mano vicina a quella di Sherlock, ferma accanto al piatto.
«Sai, vi ho sempre invidiati: avrei voluto avere anch’io qualcuno di cui fidarmi, da cui tornare sempre, come tu avevi John Watson. Certo, magari non mi sarei limitata ad una cosa pudica e platonica come voi due…»
Sherlock la fredda immediatamente con un’occhiata.
«Non so di cosa tu stia parlando.»
Irene rotea gli occhi con fare teatrale, maliziosa e chiaramente divertita.
«Oh, per l’amor del cielo, Sherlock, non anche tu! Capivo John Watson, ma tu, la mente più brillante del secolo, cieca di fronte all’evidenza…»
«Stai parlando come una vera adolescente in crisi ormonale, puntando la conversazione sul campo sentimentale per sviare le mie domande sulla rete di Moriarty di cui tu chiaramente sai qualcosa, avendo molto probabilmente soddisfatto lo stesso in più di un’occasione, senza tenere conto del fatto che John è eterosessuale…»
«Non vedo come questo possa essere un ostacolo, caro mio» commenta placida Irene, tornando a poggiare il mento sulle mani. «John sarebbe gay per te, così come tu saresti potuto essere etero per me, se non ci fosse stato John di mezzo.»
Sherlock spalanca gli occhi, ricordando ad Irene un’oltraggiata dama ottocentesca.
«Considero me stesso sposato al mio lavoro» proclama il detective a denti stretti. Irene potrebbe giurare che è arrossito, sotto tutta quella barba che non gli dona affatto.
«Una frase talmente ridicola, soprattutto adesso che sei, tecnicamente, morto e, di conseguenza, disoccupato» gli fa notare. Sherlock mette il broncio e incrocia le braccia al petto e Irene vorrebbe tanto sporgersi e…
Ma non può. Diamine, l’ha pagata cara l’ultima volta che ha provato ad aprire il suo cuore a Sherlock Holmes, non può cascarci di nuovo.
«Quello che dici non ha alcun senso…»
«Oh, non si è mai tanto sinceri come quando si è incoerenti.(1)»
Sherlock aggrotta le sopracciglia.
«Oscar Wilde» spiega Irene. «Ho sempre pensato saresti stato un bellissimo Dorian Gray. Ora chiama il cameriere, per cortesia, vorrei ordinare.»
Sherlock scuote la testa ed alza una mano.
«Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese.(2)»
«Mh, non la migliore scelta per fare colpo, potrebbe generare sia un bacio che una sberla. Nel mio caso entrambi.»
Si scambiano un’occhiata e nascondono i rispettivi sorrisi, accordati alla stessa frequenza.
Il sole cala, le ombre scolorite si concedono un’ultima cena.
 
~~~
 
«Allora, noi andiamo Sherlock, buona notte!» lo saluta Mary, baciandolo sulle guance. «Buona notte» risponde, ricambiando il saluto.
«Abbiamo lasciato un disastro, domani manderò John a pulire» continua Mary, guardandolo preoccupata. John fa una faccia offesa, da dietro le sue spalle. Sherlock lo nota e sorride.
«Un ritorno ai vecchi tempi» commenta. Mary si volta verso il marito.
«Pulivi a Baker Street? E com’è che a casa non alzi mai un dito?» lo rimprovera, divertita. John scuote la testa e le indica la macchina.
«Sherlock ha bevuto, non sa di che parla, era lui a pulire e lucidare qualsiasi cosa quando era in astinenza da casi.»
Mary ride e saluta Sherlock con la mano mentre entra in macchina. John si avvicina al suo amico. Esita per qualche attimo, indeciso, aprendo e chiudendo la bocca.
«Grazie di essere rimasto» dice infine. Sherlock solleva le sopracciglia.
«Non potevo fare diversamente.»
«Senti, so quanto ti piacciano le feste, e la lettera…» si schiarisce la voce, mentre Sherlock si irrigidisce. «Non hai altre notizie, eh?»
«No.»
John annuisce.
«Ok. Meglio che vada. Buon anno, amico.»
«Buon anno, John.»
John fa per andarsene, ma all’ultimo cambia idea e cattura l’amico in un mezzo abbraccio impacciato, a cui entrambi si abbandonano per un istante di più.
Sherlock lo guarda allontanarsi, torna nell’appartamento vuoto e sente freddo. Tira fuori la lettera dalla vestaglia e la getta sulle braci. Poi tira fuori il cellulare e manda un messaggio di auguri.
 
~~~
 
Mio carissimo Sherlock,
non sono improvvisamente diventata una stucchevole romanticona: ho semplicemente ritenuto questo il metodo più sicuro per parlarti. Qualsiasi telefonata, mail o messaggio potrebbe essere intercettato mentre così, oltre al rischio di venire invitata a prendere il tè dalla tua petulante padrona di casa, siamo al sicuro. E confido che tu non sia diventato così sentimentale da voler conservare la lettera.
Sono a Londra solo di passaggio, ma potrei essere costretta a tornare. Per il mondo, sono morta anni fa a Karachi, ma se lui dovesse venire a sapere che in realtà ho vissuto in reclusione a Singapore – una noia mortale –, potrebbe reclutarmi, e io sarei costretta a seguirlo. Nel qual caso, temo di dover accettare il tuo invito per il tè – la cena ormai è superata, non è così?
Stai in guardia, non voglio rivederti per puntarti una pistola addosso: sarebbe un peccato sprecare quegli zigomi.
Buon anno, Sherlock.

Irene.






(1), (2): entrambi aforismi di Wilde.
 

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Capitolo 3
*** La cravatta ***


Di nuovo qui. Un po' di Sherlock&Mycroft, stavolta. 
Un grazie gigante alle meravigliose persone che hanno recensito/preferito/ricordato/seguito! 
Stay tuned e buona domenica.
-Clock



 
La cravatta
(Holmes boys)
 
 
 
Londra abbonda troppo di nebbie e di gente seria. Se siano le nebbie che producono la gente seria o se sia la gente seria che produce le nebbie, non saprei dire.
Oscar Wilde
 
 
 
 
Un meraviglioso color ardesia, una pregiata stoffa lucente; la Regina ha buon gusto.
Mycroft Holmes stringe le labbra in una smorfia mentre fa scorrere la cravatta fra le dita.
Sherlock detesta le cravatte: è uno spirito troppo indomito per lasciarsi aggiogare da una striscia di stoffa e, inoltre, una cravatta rovinerebbe la sua aria di trascurata eleganza alla Lord Byron.
Con un gesto aggraziato, Mycroft se la fa passare intorno al collo.
Nemmeno a lui piacciono granché, ad essere onesti, eppure le ha sempre portate, sin da giovane. Gli conferiscono autorevolezza e serietà, e sono il completamento della sua austera mise.
Le dita sottili annodano i due lembi.
La cravatta lo aiuta a rimanere nei limiti, a non eccedere mai, ad essere sempre perfettamente preciso, puntuale, schematico, pragmatico, ragionevole e critico, una fredda macchina mai preda di emozioni – è l’uomo che regge in piedi il Regno Unito, non deve vacillare.
Con dei volteggi raffinati, i due lembi della cravatta si stringono in un perfetto nodo.
Mycroft si specchia e, come in un rituale, compone il viso nella solita maschera di gelida calma e severità, ormai quasi interamente cucita ai suoi lineamenti (non è sempre stato così – Sherlock lo sa meglio di chiunque altro).
Afferra il suo fidato ombrello, raddrizza la testa e cammina fuori dalla stanza, dritto nel mondo, nel solito caos nebuloso che, come ogni giorno, è suo compito disperdere.
Questa mattina tocca al compleanno della Duchessa di Cambridge. Oh, e al ritorno di Jim Moriarty.
 
~~~ 
 
«Mycroft, che fai?»
Mycroft abbassa la testa verso Sherlock, che fa capolino dalla porta socchiusa.
«Niente.»
Si allontana dallo specchio, abbassando il capo per nascondere il rossore diffuso sulle guance. Sherlock avanza nella stanza.
«Che cos’hai al collo? È la cravatta di papà? Perché hai la cravatta di papà?»
Mycroft si sfila rabbioso la cravatta slacciata e se la ficca in tasca, voltando le spalle al fratello.
«Non sono fatti tuoi.»
«Perché ti stavi provando la cravatta? Non sei capace ad annodarla?»
Mycroft fa un sospiro irritato e alza gli occhi al cielo. Come spiegare ad un bambino di sei anni gli oscuri moti dell’animo adolescenziale che lo avevano spinto a passare quasi l’intero pomeriggio davanti allo specchio ad armeggiare con la bilancia, il gel per capelli e la cravatta di suo padre?
«Sherlock, vai a giocare.»
Come chiedere alla Terra di fermarsi.
«Perché non chiedi aiuto alla mamma se non sai allacciarti la cravatta? Te la devi mettere per la scuola?»
«No» mormora soltanto, sedendosi sul letto. Sherlock si arrampica accanto a lui, senza staccargli gli occhi di dosso.
«Be’, lasciatelo dire: sembri un pinguino, con la cravatta.»
Il tono serio di Sherlock gli fa incurvare le labbra in un microscopico sorriso.
«Anzi, secondo me le cravatte fanno schifo, andrebbero bene solo per farci bende da pirati» continua Sherlock. Il sorriso timido di Mycroft si allarga, nonostante gli occhi rimangano distanti, così Sherlock approfitta dell’occasione, afferra la cravatta che sbuca ancora fuori dalla tasca del fratello e salta giù dal letto, raggiungendo la porta in un balzo. Mycroft salta su allarmato.
«Ok, Sherlock, ridammela.»
«No!» sorride il piccolo, nascondendola dietro la schiena.
«Sherlock, non sto scherzando, ridammela» ordina. Eppure non è irritato, sa che Sherlock vuole giocare ed è disposto a stare al gioco.
«Vieni a prendertela!»
Con una linguaccia, Sherlock si precipita fuori dalla porta e giù per le scale, correndo e ridendo come uno spiritello. Mycroft lo insegue, fingendosi più piccolo di quello che è, fingendo, per un pomeriggio, di poter giocare ancora: le cravatte lo aspetteranno tutta la vita.
 
~~~ 
 
L’inno nazionale accoglie la sua entrata nel 221b.
«Sono lusingato, fratellino, ma non c’è bisogno di tante cerimonie.»
Sherlock, con uno svolazzo della vestaglia, si volta verso di lui. Gli lancia un’occhiata annoiata, poi sprofonda nella sua poltrona, il violino ancora sotto il mento.
«Peccato, tu adori le cerimonie. Com’era la torta dei Windsor?»
Mycroft si siede composto nella poltrona di John, accavallando le gambe.
«Conosci il nome della famiglia regnante, complimenti Sherlock.»
Sherlock rotea gli occhi.
«Cosa vuoi?»
«Garantire la tua sicurezza…»
«Sto benissimo, come puoi vedere, ora puoi andare.»
«… E quella di chi ti sta intorno.»
«Cosa vuoi che ti suoni per la grande uscita?» chiede, sottolineando le parole con lunghe note cupe.
«Sherlock.»
«La cavalcata delle Valchirie? Così parlò Zarathustra? Il volo del calabrone?»
Accenna una rapida scala.
«Sherlock
Si arrende.
«Bene» esala, alzando gli occhi al cielo. Posa il violino e incrocia le braccia al petto. Osserva il fratello con astio, acuito dall’espressione soddisfatta dell’altro.
«Non ti aspetti che ti faccia il tè, vero?»
Mycroft lo ignora.
«Ti suggerisco caldamente di parlare al più presto con Greg Lestrade sui movimenti della popolazione criminale di Londra, e di contattare la dottoressa Hooper, per assicurarti che la sua abitazione sia provvista di adeguate misure di sicurezza: l’ultima volta è stata ignorata da Moriarty, non ripeterà lo stesso errore. Anzi, sarebbe una buona idea addirittura che si trasferisse qui, Baker Street è ragionevolmente sicura…»
«Non si può.»
Mycroft solleva un sopracciglio; Sherlock appunta ostinatamente lo sguardo alla sua destra, sulla mensola.
«La stanza al piano di sopra è libera, mi pare…»
«Non disponibile.»
Mycroft stringe le labbra, ma non commenta.
«Il 221c, sono certo che Mrs Hudson non avrà problemi a…»
«Non disponibile.»
«Non è una ristrutturazione il problema, Sherlock.»
Sherlock torna a posare gli occhi su di lui.
«Già occupato.»
Mycroft stringe gli occhi per poi spalancarli subito, sorpreso, quando realizza.
«Non mi dirai che è ancora lì…»
«‘Giorno, Doc!»
Sherlock solleva le sopracciglia e deforma il viso in un sorriso largo e grottesco.
«Buongiorno, Wiggins.»
L’uomo avanza nell’appartamento.
«Ah, c’è anche il grande Holmes! ‘Giorno, capo!»
Mycroft non sposta gli occhi da Sherlock.
«Sherlock, non puoi lasciare che…»
Ma Sherlock si alza in piedi e si libera della vestaglia.
«Mi stupisce che non lo sapessi. Stai diventando vecchio, fratellino. Wiggins, c’è del caffè sul tavolo. Nero, due zollette, grazie. Per Mycroft niente zucchero» ordina, prima di sparire nella sua camera. Wiggins ridacchia e si dirige in cucina. Mycroft chiude un istante gli occhi, stringendo le labbra.
Wiggins ricompare pochi secondi dopo allungandogli una tazza. Mycroft la accetta con circospezione, borbottando un ringraziamento fra i denti. L’altro si accomoda con la propria tazza sulla poltrona di Sherlock, perfettamente a suo agio.
«Allora…» esordisce Wiggins, prima di lanciargli una breve occhiata. «Bella cravatta. La Regina ha buon gusto.»
«Grazie» sputa fuori Mycroft, aggiungendo lo zucchero al caffè. Wiggins solleva le sopracciglia e si dondola un po’ avanti e indietro.
«Allora… Novità su Moriarty?»
«Questo non è affar tuo.»
«Perché no?» protesta l’altro. «Sono uno di voi anch’io…»
Mycroft appunta gli occhi su di lui, freddandolo come una cascata di azoto liquido.
«Non provare a dirlo mai più, o ti faccio sparire dalla faccia della Terra. L’ho fatto una volta, posso rifarlo, molto più efficientemente» minaccia a bassa voce, il tono freddo e controllato. Wiggins annuisce e abbassa lo sguardo, abbattuto.
«Capito. Peccato, poteva farti comodo una mano in più. Non puoi fare tutto da solo, Myc.»
«Mycroft
Sherlock torna in soggiorno e la sua rumorosa e plateale presenza zittisce gli altri due. Solleva un sopracciglio all’improvviso silenzio, ma non si dà troppa pena. Si allaccia velocemente la sciarpa al collo mentre prende la sua tazza di caffè.
«Hai trovato quello che ti ho chiesto?» domanda, rivolto a Wiggins. Lui fa cenno con la testa verso la porta.
«Ho tutto giù di sotto.»
Sherlock annuisce.
«Di che cosa si tratta, Sherlock?» chiede Mycroft, controllando l’ansia nella voce.
«Niente che ti riguardi» risponde secco l’altro, trangugiando il caffè. «Ora, se non hai altro da dire, posso suonarti Il volo del calabrone mentre esci.»
Mycroft si alza in piedi e cammina intorno alla poltrona fino a fronteggiare il fratello.
«Sherlock, smetti di giocare. La vita di molte persone è in pericolo, non fingere che non ti importi.»
«Oh, lo so benissimo, ma, vedi, Mycroft, ci sono cose che tu non puoi capire. Ad esempio, oggi è il compleanno di Mary e se io e Wiggins non ci sbrighiamo ad ultimare i preparativi per la sua festa a sorpresa, John ci ucciderà. Vedi, io mi preoccupo della mia incolumità…»
Posa la tazza sul tavolo e stira le labbra in un finto ampio sorriso, poi arraffa il cappotto e lo indossa. Wiggins lo attende davanti alla porta, un piede già oltre la soglia.
«Sherlock, per favore. Stai attento.»
Sherlock si volta, rughe preoccupate a solcargli la fronte. Ecco che gli occhi si velano di rabbia, tristezza e malinconia, e Mycroft si odia per aver portato a galla quelle emozioni, ma non può farci niente: Sherlock non capisce quanto la situazione sia grave.
«Quella cravatta non ti si addice.»
Con uno svolazzo del cappotto, sparisce giù per le scale, seguito da Wiggins, seppur con qualche esitazione e un’ultima occhiata verso Mycroft. Questi, rimasto solo, si lascia cadere su una delle sedie della cucina, appoggiando la fronte ad una mano, il gomito sul tavolo. Con l’altra mano allenta la cravatta.
È stanco, Mycroft, e, per la prima volta in vita sua, si sente vecchio. Non ha più voglia di combattere. Mycroft è privo di legami, perfettamente autonomo e indipendente; se non fosse per Sherlock. Lui, nonostante quello che pensa di sé, è totalmente incapace di prendersi cura di sé stesso, figurarsi di altri – lascia il compito a Mycroft. Ma lui è stanco e la sua più grande paura, nonostante ciò, è di non riuscire a proteggere suo fratello a dovere. L’educazione di Sherlock e Mycroft è stata piuttosto carente riguardo alla parte “fondiamo il nostro rapporto su del vero affetto fraterno” e lui si sente in dovere di rimediare, in qualche modo, mostrare a Sherlock il suo affetto. E c’è anche Wiggins, adesso, come se non avesse già abbastanza a cui pensare…
Infila due dita sotto la cravatta e la allenta ancora.
Se solo quelle stramaledette cravatte non lo soffocassero così – ma toglierle è impossibile, fanno parte di lui. 
Spera solo che Sherlock stia bene.
 
«Fai meglio a correre, Sherlock!»
«Non mi prenderai mai!»
«Lo vedremo!»
«Non correte così veloci, vi farete male! Sherlock!»
«Tranquilla mamma, non mi acchiapperà mai! Mycroft è una tartaruga panzona…»
«Ritira quello che hai detto!»
 
Mycroft avrebbe solo voglia di tornare a giocare.
 









"La cavalcata delle Valchirie", di Wagner, la conoscete sicuramente tutti, anche se magari il nome non vi fa pensare a nulla; "Così parlò Zarathustra" è Buzz Lightyear, per intenderci, e "Il volo del calabrone" è un pezzo molto famoso, noto per essere velocissimo – non sono pezzi da violino solista, tranne forse l'ultimo, ma mi divertiva pensarli in relazione a Sherlock e Mycroft – io darei un ascolto, sopratutto all'ultimo :)
 

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Capitolo 4
*** Il diapason ***


Di nuovo qui, altro capitolo. Sono davvero nervosa per questo, spero lo apprezziate.
Un grazie a chi legge, segue, preferisce e commenta, e uno un po' più grande a _Koa_ per la sua meravigliosa recensione che mi ha spronato a rivedere tutto e fare di meglio.
Alla prossima!
-Clock 




Il diapason
 (S. A. H. Watson)
 
 
 
Coloro che vogliono frugare al di sotto della superficie delle cose, lo fanno a loro rischio e pericolo.
Oscar Wilde
 
 
 
Il sangue gli martella nelle orecchie, il polmoni sembrano essere sul punto di lacerarsi da un momento all’altro, i muscoli delle gambe tremano di adrenalina e fatica.
Diamine, è fuori allenamento.
«Muoviti, John!»
Sente l’amico gemere dietro di lui, ma accelera. L’hanno quasi preso, non dovrebbe essere tanto lontano ormai…
Salta su una scala antincendio e si arrampica rapido fino sul tetto; i loro passi fanno un rumore d’inferno sul metallo. Scorge l’assassino in un vicolo pochi edifici più avanti; a loro basterà saltare di tetto in tetto, mentre lui sarà rallentato dal traffico e dalla folla di gente che popola quelle strade.
Un telefono squilla.
«John!» lo rimprovera. Diamine, gli sembra questo il momento?
«Devo… Mary, devo rispondere!» ansima John, rallentando. Sherlock emette un verso di fastidio.
«Cosa sarà mai di così importante… Non stai certo per avere un figlio!» gli urla dietro, voltando appena la testa. Ha svoltato, devono trovare il modo di scendere…
John intanto è rimasto diversi metri indietro. Sherlock si volta, stizzito.
«John, cosa stai aspettando?»
«Sherlock! Sherlock, fermati!» grida John. «Mary, lei… sta nascendo, per la miseria, Sherlock!»
Sherlock si ferma tutto d'un tratto.  Getta la testa all’indietro. Non ci crede. Almeno due settimane di anticipo. Se non sapesse che è impossibile, direbbe che è un dispetto di Mycroft.
«Muoviti, John!» urla, e salta giù dal cornicione, sulla scala antincendio. John si sporge sopra di lui, affannato.
«Dove vai? Sherlock…»
«All’ospedale, dove altro? Stai per diventare padre, muoviti!» urla Sherlock, già catapultato giù per la scala, l’assassino ormai lontano anche dalla sua mente. Un sorriso gioca sulle labbra di John mentre salta giù dietro di lui.
 
~~~
 
«Sherlock.»
Il tono di sua madre è dolce, ma fermo; gli occhi, identici ai suoi, perforanti.
«Non mentire a te stesso: è il più grave torto che tu possa farti.»
Sherlock alza gli occhi, maledicendo il sangue che gli affluisce alle guance, impietoso.
«E adesso fatti un esame di coscienza e poi dimmi se sei ancora convinto di aver fatto bene a rifiutare l’invito di quel ragazzino per fare i compiti.»
Sherlock stringe i pugni, frustrato.
«Ma io non ho bisogno di fare i compiti con nessuno, non ho affatto bisogno di fare i compiti, e di sicuro non con Trevor, che non la smette mai di parlare e…»
«Ma hai bisogno di un amico» lo interrompe la madre. Sherlock abbassa la testa.
«Non è vero.»
«
Non mentire a te stesso
 
~~~
 
Il palazzo di bugie che Sherlock si era costruito, ammantato di tante belle frasi, di tante belle speranze, si sta sgretolando come pan di zenzero.
Sherlock&John contro il resto del mondo non esistono più. John sta avendo una figlia, adesso. E Sherlock che pensava che le cose sarebbero cambiate solo con il matrimonio… Non aveva messo in conto tutto questo. Adesso sì che niente sarà come prima. E Sherlock sa di averlo sempre saputo, ha solo fatto finta di niente, ha continuato a correre con una pistola in mano e il suo blogger a fianco, ancora una volta… 
Finché un muro non gli ha sbarrato la strada all’improvviso: John è da una parte, lui dall’altra. Niente più Sherlock&John. John, Mary e la bambina; Sherlock.
Il detective si raddrizza sulla seggiolina di plastica. Coglie il riflesso del suo volto e sussulta: è il viso di un uomo triste, malinconico, quasi arrabbiato. Da quando in qua lascia trasparire emozioni? Si affretta a ricomporre uno sguardo glaciale e per distrarsi scannerizza gli occupanti della sala d’aspetto: alla sua destra un uomo, sulla quarantina, in attesa del secondo figlio, appena scaricato dall’amante, moglie ignara, fumatore; di seguito, donna, quasi trent’anni, fumatrice in astinenza, in attesa del nipote, situazione familiare problematica; alla sua destra, uomo, ventenne, in attesa del primo figlio, gravidanza indesiderata, appena laureato, precario, tendenza a bere, potrebbe diventare alcolismo; quindi due ragazzini…
La porta di una delle sale parto si apre per farne uscire John. Sherlock scatta in piedi – troppo velocemente – e gli si avvicina. John si abbassa la mascherina e rivela un sorriso radioso. E non importa niente. Non importa di Mary, di come il suo rapporto con John sia ancora instabile, di Moriarty, del futuro di quella bambina, del loro futuro, di rimpianti e rimorsi e paure, c’è solo il sorriso del suo migliore amico. E Sherlock sorride di riflesso.
 
~~~
 
I neonati non sono esattamente un prototipo di bellezza, Sherlock se ne rende perfettamente conto – del resto, venire al mondo è un lavoraccio. Inoltre, secondo una stima approssimativa, la piccola Watson è anche piuttosto paffuta. Eppure, è una delle cose più belle che Sherlock abbia mai visto. Il che è assurdo. Non c’è alcuna logica nel ragionamento che l’ha portato a quest’affermazione. Però è così.
Ancora più assurdo: per quella bambina ribalterebbe il mondo. La ama di già. Amore platonico, s’intende. Platonicissimo. Come dire, un sentimento forte che…
Non trova più le parole. Ma poi, ci si può innamorare di una bambina? Anche ammesso che Sherlock Holmes si innamori – e questo solleva un gran polverone nel Mind Palace – è possibile che una bambina così…
È la figlia di John, dice una voce, a mo’ di spiegazione. E allora? fa un’altra, con un’alzata di spalle. È la figlia di John e Mary, puntualizza una terza e Sherlock sente il dolce peso fra le sue braccia farsi più grave. Si sente all’improvviso inadatto, inadeguato… (del resto, non ha alcuna esperienza con i bambini, di solito li allontana perché così rumorosi e irrequieti… simili a lui nei suoi momenti peggiori.)
Probabilmente sarà bionda, ma spera che non erediti l’altezza di John – l’altezza è un carattere ereditario? Sì, certamente. Tre leggi di Mendel, mitosi, meiosi, sintesi proteica…
Il suo cervello è in tilt ed è tutta colpa di Sheridan Amanda Hope Watson qui presente. 
Il La argentino che accorda tutti loro, li fa tornare alla loro propria frequenza, a loro stessi.
Diamine, sta diventando un sentimentale senza speranza.
 
Lei dorme, ma agita i pugnetti verso il viso di Sherlock, che sorride.
John china il capo, sentendosi fuori luogo a guardare quel sorriso troppo intenso e privato, una cosa fra loro due. Li invidia, quasi, perché capisce che avranno un’intesa e un rapporto che lui non avrà mai. Brillano, quei due, per la miseria.
Con delicatezza, Sherlock la posa nella culla, ammirandola con reverenza.
«È molto bella» mormora poi, rivolto a John. Lui lo raggiunge accanto alla culla, le mani dietro la schiena. Sorride, orgoglioso (Sì, è sua figlia, quella lì, è sua figlia).
«Peccato per il nome.»
John alza la testa di scatto, ma Sherlock è già uscito. Si affretta a riporre il camice e a seguirlo nella sala adiacente.
«Che cosa… cos’ha che non va?»
Sherlock si volta, infilandosi i guanti.
«Sheridan? Seriamente, John? Avreste dovuto lasciar scegliere me o…»
«Chiamarla "Sherlock"?» scherza John. Sherlock sorride, guardandolo da sotto in su.
«"Ophelia" sarebbe stato un bellissimo nome.»
«Ma piantala!» ride John. «No, davvero, cos’ha che non va?» chiede poi, tornato serio. L’altro sposta gli occhi di lato.
È simile a “Sherlock” ma non è Sherlock, risponde la sua mente, inesorabile, e lui scaccia il pensiero come un insetto, non si pena nemmeno di indagare più a fondo.
«"Amanda" è molto meglio. Un po’ comune, ma migliore di Sheridan» dice, calcando ironicamente sul nome. «Io la chiamerò Amanda.»
«Non possiamo chiamarla in modi diversi, il suo primo nome è Sheridan!» protesta John, perdente in partenza. Sherlock solleva le sopracciglia, con finto rammarico e una punta nascosta di divertimento.
«E allora la chiamerete tutti Amanda.»
John lo guarda allontanarsi, il lungo cappotto svolazzante dietro di lui. Sherlock si volta un istante prima di aprire la porta.
«Rinnova i miei migliori auguri alla mamma» dice, per poi sparire alla sua vista.
John accenna ad un saluto con la mano e, tornando da Mary, lancia un’ultima occhiata a sua figlia oltre il vetro.
Sheridan – che è simile a “Sherlock” ma non è Sherlock (non ha voluto dargliela vinta), proposta di Mary; Amanda – altra idea di Mary, molto ferma su questo punto, accordato una volta scoperto il significato grazie a Molly; Hope, perché è ciò di cui tutti hanno bisogno, idea sua; Watson.
Con una strana sensazione alla bocca dello stomaco che non vuole identificare, John spinge la porta e va da sua moglie.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il nome Sheridan per la piccola Watson non mi convinceva molto, quindi sono andata a farmi un giro su internet per ispirarmi ed ho scoperto che Sheridan Hope era il primo nome con cui Conan Doyle aveva chiamato Sherlock in Uno studio in rosso, che allora si chiamava A Tangled Skein, con Ormond Sacker come Dottor Watson – meno male che ha cambiato idea. Non so quanto sia vero, perché ho sentito anche altre leggende simili, ma mi è piaciuta l'idea ed ho tenuto il nome.
Amanda, dal latino: "da amare"; Hope, in inglese "speranza". 

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Capitolo 5
*** Palinsesto ***


Di nuovo qui, nuovo capitolo bello lungo uscito fuori da chissà dove, totalmente fuori dai piani. Ma vabbè, ormai dovrei saperlo che i piani non li rispetto mai. Noticine alla fine perché fanno molto professionale. Per qualsiasi dubbio, non esitate a chiedere!
Grazie infinite a chi legge, segue, recensisce, preferisce, ricorda.
A voi, ditemi che ne pensate.
Ciao ciao! =)
-Clock

 

Palinsesto
(in gioventù)

 
 
 
Gli uomini invecchiano, ma non migliorano.
Oscar Wilde
 
 
 
«Toc toc?» trilla Mrs Hudson, facendo capolino dalla porta con un vassoio per il tè. Sherlock alza la testa, sbattendo le palpebre da dietro la mascherina da sub – il meglio che abbia trovato, dopo che uno schizzo di acido ha distrutto la lente dei suoi occhiali protettivi, l’ultima volta.
«Ti ho portato il tè, ho fatto tardi perché non sentivo rumore e pensavo dormissi, e mi sono detta “per una volta che Sherlock dorme non andrò a disturbarlo”…» chiacchiera la donna, posando il vassoio sul tavolino ed entrando in cucina, dove lui è seduto.
«Che ore sono?» chiede Sherlock, sollevando gli occhiali.
«Le otto, caro» risponde lei, raddrizzandosi e guardandosi intorno, le mani sui fianchi.
«Oh, ma che cosa hai fatto, Sherlock? Guarda che disastro, avevo pulito tre giorni fa… Non sono la tua governante, signorino, non sto qui a pulire i tuoi pasticci… Oh, guarda il mio povero lavandino…»
Sherlock si alza, i muscoli indolenziti, e prende una tazza di tè, rimanendo però in piedi. Sono già cinque ore che è lì seduto e non se ne è accorto affatto.
Mrs Hudson, rassegnata a dover pulire e disinfettare di nuovo, scuote la testa, sospira, si accomoda sulla poltrona di John e prende la sua tazza di tè.
«A cosa stavi lavorando, Sherlock?»
«Analisi biochimica di un pacco che mi è stato recapitato la scorsa notte, una pagina del Primo Folio di Shakespeare, chiaramente un falso…»
«Che cos’è il Primo Folio?» domanda candidamente l’anziana donna, sorseggiando il suo tè.
Sherlock si avvicina alla finestra.
«La prima pubblicazione delle opere complete di William Shakespeare, 1623. Risulterebbe autentica al carbonio 14, ma è assolutamente impossibile, e per di più questa parte dell’opera è andata perduta.»
Mrs Hudson prende un sorso di tè, sbattendo le palpebre.
«Hai ritrovato un’opera perduta?»
L’uomo scuote la testa, impaziente.
«Il Cardenio1, recitato dai King’s Men nel 1613, ispirato da un passo del Don Chisciotte, attribuito a Shakespeare, non se ne è mai trovato il copione. Fino ad ora.» Solleva le sopracciglia con ironia, fissando il tè fra le sue mani che va freddandosi.
«Molly non può darti una mano?» chiede la donna, posando tazza e piattino sul vassoio. Sherlock emette un verso di fastidio.
«No, perché Molly è in vacanza e il laboratorio è off-limits finché non torna lei. Ordini di Mycroft» spiega, amaramente sarcastico. Si decide a prendere un sorso di tè e storce involontariamente il naso – è freddo.
«Oh, a proposito, come sta la cara Molly? È da Capodanno che non la sento più, è tanto dimagrita, peccato per quel suo fidanzato, sembrava un bel tipo…»
«è stata lei a lasciarlo» la informa seccamente Sherlock, posando la tazza quasi piena sul vassoio e posizionandosi davanti alla finestra. La signora Hudson sgrana gli occhi.
«Ma davvero? E io che ho sempre pensato fosse una ragazza giudiziosa…» commenta, scuotendo la testa. Sherlock solleva le sopracciglia.
«Oh, ma lo è.»
La signora Hudson assume un’espressione confusa.
«Non capisco, che vuoi dire…»
«Niente, niente. In ogni caso, devo andare a fare delle ricerche» annuncia Sherlock, liberandosi della vestaglia mentre si dirige nella sua camera.
«A proposito di Shakespeare?» indaga Mrs Hudson, alzandosi e prendendo il vassoio. Sherlock fa un verso di assenso, infilandosi una giacca mentre torna in soggiorno.
«Perché non chiedi a John di aiutarti? Sono sicura che gli farebbe piacere» tenta la donna, scrutandolo attenta. Sherlock si irrigidisce per un momento, il suo sguardo si vela; l’attimo passa e riprende ad abbottonarsi la giacca, gli occhi mascherati.
«Probabilmente è impegnato.»
Mrs Hudson sente un tonfo al petto.
«Sherlock» sussurra, avvicinandosi, allungando la ‘o’ con una nota di dispiacere. L’uomo alza lo sguardo su di lei. «Da quando ti sei arreso?»
Sherlock abbassa di nuovo gli occhi, consapevole di essere un libro aperto per lei, e sorride appena.
Vuole dire qualcosa di arguto, ironico e pungente, ma non ci riesce. Perché ha perso il conto delle volte in cui si ritrova a chiedere il parere di John durante una qualsiasi riflessione, a fare una richiesta sovrappensiero, allungando la mano che però rimane vuota e si ritrova a fissarla stordito, a sentire la polvere cadere nell’appartamento silenzioso. Gli manca così tanto John che si vergogna ad ammetterlo perfino con sé stesso. Con la signora Hudson, però, apparentemente non c’è mai stato bisogno di confessioni: lei ha sempre saputo, e basta.
«Devo andare» mormora roco, e si scosta garbatamente. La donna lo guarda prendere il manoscritto e altre scartoffie dalla cucina e scendere giù, con la stessa malinconia del ragazzo geniale che aveva conosciuto tanto tempo prima. Pensava che fosse guarito, e invece…
 
~~~
 
«Sherlock! Sherlock è per te!»
Sherlock si volta infastidito, gli occhi saettano fino a trovare l’imprudente che lo ha distratto dalle sue riflessioni. Victor Trevor2. Rotea gli occhi e afferra la lettera che il ragazzo gli tende, rosso fino alle orecchie.
«Che cos’è?» chiede, esaminando l’involucro. L’altro si stringe nelle spalle.
«N-non lo so, me l’ha data Gloria Scott, dice che è per te.»
«E perché non me l’ha data lei stessa?» domanda l’altro, assottigliando gli occhi mentre strappa un lembo della busta con precisione. La campanella suona e la classe inizia a riempirsi di studenti ciarlieri. Sherlock rivolge loro un’occhiata ostile e torna alla lettera.
Victor si stringe nelle spalle, lanciando occhiate nervose intorno a loro.
«N-non lo so, dice che si vergognava…»
Sherlock sbuffa e capovolge la busta, lasciando cadere sul palmo aperto quello che ha tutta l’aria di essere un biglietto d’auguri. Gli studenti intorno a lui iniziano ad additarlo e a darsi di gomito, vociando.
«Ooh, Holmes ha ricevuto un biglietto!»
«Ooh, chi è la sfortunata, Holmes?»
«O lo sfortunat-o
«Ehi, è Trevor!»
«Trevor, ti fai Holmes? Che coraggio, Trevor…»
Sherlock corruga le sopracciglia, salvo poi distenderle un attimo dopo: oggi è il 14 febbraio, san Valentino. Fra tutte le feste stupide, questa è la più insulsa di tutte.
Victor incassa la testa fra le spalle, pigolando in sua difesa. Sherlock non si pena neanche di aprire il biglietto; lo lascia cadere nella pattumiera con tutta la busta e si siede al suo posto, apparentemente sordo agli schiamazzi, le battute e i commenti dei suoi compagni.
Ne ha ricevuti e riceve talmente tanti, che se ci prestasse attenzione farebbe marcire il suo Mind Palace. In questo, e solo in questo, sia chiaro, prende un po’ esempio da Mycroft: si lascia scivolare tutto addosso. Mycroft lo fa con eleganza e un sorriso tagliente e superiore, sottilmente velato di minaccia, mentre Sherlock si limita a drizzare le spalle e camminare dritto per la sua strada, gli occhi duri. Deve affinare la sua tecnica, lo ammette. Certo è, che non è poi tanto facile sopportare tanta stupidità tutta insieme, e non c’è giorno in cui Sherlock non si chieda quando potrà finalmente abbandonare quella scuola terribile. Camminare da soli è così faticoso: le spalle devono essere doppiamente robuste.
Victor viene presto dimenticato e passa la lezione a nascondere il suo viso paonazzo dietro il manuale di biologia. Soltanto nella ressa di fine lezione riesce ad avvicinare di nuovo Sherlock.
«Comunque io volevo dirti che non mi importa di cosa dicono gli altri e che tu sei un bravo ragazzo e non è giusto che ti prendano in giro perché non te lo meriti e tu sei molto meglio di tutti loro messi insieme» sputa fuori tutto d’un fiato. Sherlock solleva un sopracciglio.
«Hai detto un’intera frase senza balbettare una volta» osserva.
«L’ho preparata durante la lezione.»
Sherlock, che nel frattempo l’aveva dedotto, alza alche l’altro sopracciglio, mentre le orecchie di Victor virano ad un bel rosso veneziano. Poi lascia, indulgente, che Victor lo accompagni alla mensa.
 
~~~
 
Sa benissimo che non appena Mycroft lo scoprirà – e lo scoprirà presto – verrà a fargli il terzo grado, ma non gli importa: ha bisogno del laboratorio. Anche Molly gli sarebbe di grande aiuto, ma è in vacanza. Davvero non capisce come le persone vogliano riposarsi: una volontaria condanna ad un tedio senza fine, cosa ci sarà mai di allettante. Se poi è Molly a farlo, adesso che gli serve, diventa davvero una seccatura.
Tamburella le dita sul tavolo, stringendo gli occhi dietro le lenti del microscopio. C’è una labile traccia di un elemento che non riesce ad identificare nell’inchiostro…
«Sherlock, hai mai avuto…»
«Non ora, Molly.»
Sherlock alza la testa dal microscopio e sbatte le palpebre. Bene, ora comincia anche ad avere allucinazioni.
«Hai mai avuto una fidanzata? Fidanzato? Voglio dire, quand’eri più giovane, prima che John…»
«Molly, perché stiamo avendo questa conversazione?»
«N-niente, io volevo solo… Mi sembri così solo, mi chiedevo se tu sia sempre stato così solo.»
«Carino da parte tua.»
«N-no, no, io non volevo dire…» la ragazza chiude gli occhi ed inspira. «Niente, lascia perdere.»
Sherlock risponde qualche ora dopo, quando Molly si sta infilando la giacca per tornare a casa.
«Non sono fatto per andare d’accordo con le persone.»
Molly alza gli occhi su di lui, sorpresa di incontrarli così vulnerabili.
«Io non…» tace, incerto. Redbeard. Victor. E adesso John. Sono venuti, gli hanno carpito un sorriso, e se ne sono andati.
A Molly sembra improvvisamente così giovane, così simile allo Sherlock che ha conosciuto tanti anni fa.
La ragazza non chiede altro, non ha più importanza. Si avvicina, stringendo il manico della borsa, esitante. Sherlock sbatte le palpebre e si focalizza sulle mani che stringono il manico della borsa: unghie laccate, rosa pallido, limate e levigate, manicure fatta in casa, un buon lavoro, unghia del pollice mordicchiata. È stata Molly a scaricare Tom, ma ha ancora dei ripensamenti.
Sherlock solleva lo sguardo sul suo viso. Non è più la ragazza goffa e impacciata che parla con i cadaveri e ha una cotta per lui, è cresciuta, si è fatta più disillusa, più combattiva. Lui invece? A tratti gli sembra di essere tornato ragazzo, così maledettamente solo – aveva creduto, per diverso tempo, giorni assolati, che non lo sarebbe mai più stato (illuso).
«Ma adesso non sei più solo. Ci siamo noi.»
Sherlock corruga le sopracciglia e sbatte le palpebre. Perché sta divagando? Deve rimanere concentrato.
Con un sospiro di frustrazione, torna al microscopio.
 
~~~
 
Greg beve l’ultima goccia del suo caffè, sperando gli dia la forza di affrontare tutto quello che c’è oltre il bicchierino di carta. Strizza le palpebre, deglutendo a fatica. È davvero disgustoso.
Sally marcia nell’ufficio, trascinando quasi letteralmente per la collottola quello che a tutta prima Lestrade non esita a definire un caso perso.
«Ecco a te, Greg, tutto tuo. Divertitevi, tu e lo strambo
«Io non userei questo linguaggio se la mia ambizione fosse quella di fare carriera, Constable3 Donovan» dice il ragazzo, con voce strascicata, senza neanche voltarsi verso la donna, accasciandosi su una sedia.
«Io non parlerei, sei fossi in te, considerata la tua posizione e che…»
«Tutto quello che dico potrà essere usato contro di me in tribunale? Ops, ti ho rubato la battuta. Quanto tempo è che aspetti di dirla?»
Sally fa per replicare e Greg, che riconosce i segni di una sfuriata, mette le mani avanti.
«Ok, ok, basta così. Sally, vai pure, grazie.»
La donna fulmina il ragazzo con un’ultima occhiata e marcia fuori dalla porta. Il ragazzo, dal canto suo, rotea gli occhi con un mezzo sorriso strafottente, stravaccato sulla sedia di plastica verde dell’ufficio dell’Ispettore di Scotland Yard. Greg assottiglia gli occhi, studiandolo. Pallido e longilineo, troppo magro, zigomi sporgenti, zazzera di ricci scuri, abiti larghi ma tenuti con cura, profonde occhiaie e occhi arrossati. E un inconfondibile odore di erba.
«Allora, mister Holmes, io sono…»
«So benissimo chi sei. E io non sono mister Holmes, quello è mio fratello. Chiamami Sherlock.»
Greg deglutisce.
«Come vuoi, Sherlock. Io sono…»
«Sergente Lestrade, sì, lo so. Fidanzato, tifoso dell’Arsenal4, ex-suonatore di trombone nella banda della scuola, in attesa di promozione, sveglio ma non particolarmente acuto, anche se qualcosa deve esserci, per ambire con diritto alla posizione di Ispettore, no, Detective Ispettore, come ho detto c’è un minimo di perspicacia…»
Greg corruga le sopracciglia, cercando di tenere dietro al fiume di parole che escono piatte dalle labbra del ragazzo.
«Aspetta, aspetta… Mi hai dato dello stupido?»
Il ragazzo rotea gli occhi.
«Meno stupido della media nazionale. Che è comunque spaventosamente alta» dice, con una serietà tale che Greg non può fare a meno di scoppiare a ridere. Il ragazzo, Sherlock, assottiglia gli occhi. Sputerebbe fuori insulti degni di una vipera, se solo non fosse così maledettamente stanco…
«Ok, scusa, scusa. Senti, non so chi tu sia, o quale trucco di magia abbia usato, ma non abbiamo tempo per queste cose. Dobbiamo sapere chi è il ricettatore…»
«Non ve lo dirò mai» afferma Sherlock, incrociando le braccia al petto. Lestrade si raddrizza e gli punta un dito contro.
«Senti, sei in un brutto guaio, per possesso di droga è previsto l’arresto, ma se ci dici chi è il pesce grosso e che cosa ci facevi su una scena del crimine, che è zona riservata, magari chiudo un occhio…»
«Non se ne parla» proclama lapidario Sherlock. «A meno che non possa indagare su quel crimine.»
Greg spalanca gli occhi.
«Drebber e Stangerson in Brixton Road5, posso trovarvi il colpevole entro la fine della giornata.»
Greg solleva le sopracciglia, lanciando un’occhiata all’orologio. Sono le sei, gli farebbe comodo una notte di straordinari in meno.
«Come sapevi di Brixton Road? Perché eri lì? Cosa stavi facendo?» chiede, incrociando le braccia al petto.
«Investigavo, visto che voi siete tanto inetti da non vedere a un palmo di naso e non riconoscere il colpevole nemmeno se vi ballasse la salsa davanti con un gonnellino di banane» sputa fuori, velenoso. «Per esempio, avete notato il segno rosso sulla nuca di Drebber e le scarpe sporche di fango? Chiaramente è stato assassinato da Stangerson, ma…»
«Ah, la coca ti ha sciolto la lingua, eh?» contrattacca Greg, notando con soddisfazione che il ragazzo chiude la bocca infastidito.
«Spiegami un po’, perché dovrei lasciare venire un cocainomane con me su una scena del crimine? Cosa sei, un genio?»
«Sì» risponde Sherlock, sicuro. «Io deduco. Dall’osservazione di dettagli. Come ho fatto prima, e so di non aver sbagliato.»
Greg riflette. Effettivamente, non ha sbagliato nulla, riguardo lui stesso. E probabilmente, gli dice una vocina nella testa, neanche su Drebber e Staggerson. Si fida e non si fida, non sa che fare.
«Allora facciamo così» inizia, posando le mani sulla scrivania e guardando Sherlock dritto negli occhi. «Tu vieni con me a Brixton Road, ma in cambio mi fai il nome del ricettatore e non tocchi coca per il resto della tua vita. Sono stato chiaro?»
Sherlock assottiglia gli occhi, valutando la proposta.
«Un caso ogni giorno.»
«Sei pazzo? Questa è la prima e l’ultima volta.»
«Allora puoi sognarti il ricettatore.»
Greg grugnisce.
«Uno al mese.»
«Ogni tre giorni.»
«Alla settimana, e niente coca, eroina né fumo di qualsiasi tipo. Quella roba ti uccide.»
«Andata.»
Greg allunga la mano e Sherlock, dopo qualche incertezza, la stringe. Greg sente una stretta fiacca che l’altro cerca di rendere baldanzosa invano con gli occhi sbiaditi ma fieri, e la mano è fredda. Si chiede se stia facendo la cosa giusta, fidandosi di quel ragazzo, eppure qualcosa gli dice che c’è una grande mente, là sotto. Di solito il suo istinto non sbaglia e rischiare, buttarsi, gli dà una scossa di adrenalina assolutamente piacevole.
 
~~~
 
«Mrs Hudson! L’ho trovato! Mrs Hudson, è iniziata!»
La signora Hudson sobbalza, voltandosi verso la porta. Si alza dalla poltrona, abbandonando la sciarpa per Amanda che sta lavorando a maglia, e si dirige nel corridoio, stringendosi lo scialle sulle spalle. Sherlock, dopo aver lasciato sbattere la porta dietro di sé, sta salendo le scale con foga inusitata.
«Sherlock, caro? Che succede?»
La testa ricciuta dell’uomo fa capolino dalla ringhiera, capovolta. Sventola un foglio.
«L’ho trovato, l’ho trovato! È un palinsesto! Oh, è fatto così bene…!»
La testa scompare e il tono concitato si affievolisce in un vago mormorio. La signora Hudson sale lentamente le scale, incuriosita.
Nel soggiorno, Sherlock è impegnato a tirare giù metà dei libri sulla sua mensola, aprendoli, sfogliandoli voracemente, e poi gettandoli dietro di sé. La donna guarda il disordine che si va creando, con un sospiro. Finalmente, Sherlock interrompe la sua ricerca, alzando in aria un volumetto rilegato in pelle.
«Amleto! Ma certo, chi altri… Poi vediamo… Oh, detesto gli indovinelli, ma questo è fatto su misura… Wilde, Byron…»
«Cosa succede, Sherlock, cos’hai scoperto?» si avvicina la donna, cauta. Il detective si volta verso di lei, entusiasta.
«Un palinsesto! Il foglio è un originale del seicento, ma il testo antico è stato cancellato e sostituito con un altro. Quando ho fatto le prime analisi ho utilizzato un angolo del foglio senza scritte, ecco perché sembrava autentico, invece è un falso. Il mistero sta in quello che c’è scritto» spiega, piazzando il foglio sotto il naso della donna.
Cardenio: “è giunta l’età infelice dei nostri inganni, il mondo piange la nascita della rosa, il cielo si oscura nel bacio taciuto.
Oh, povero Cardenio! Ingannato, tradito, misero Cardenio! Povero, pazzo Cardenio!
Ma basta lacrime: si alza il vento, la battaglia si approssima. Alle armi i vinti! Si proteggano le rose, si tolgano le maschere: la verità si mostri, impavida e mortifera! Si brucino i cuori, perché l’amore cessi di essere dolore.”
La donna si porta una mano al petto, alza lo sguardo su Sherlock, cercando spiegazioni. Ma il detective corruga le sopracciglia e piega la testa di lato. Sotto il titolo, una dedica: “all’eroe senz’ali.”
Sherlock si raddrizza, uno sguardo fiero negli occhi pallidi. Un sorriso felino gli incurva le labbra.
«È ora di chiamare John. Gli piacerà: ama fingersi scrittore.»
Sorride, lasciando una pacca gentile sulla spalla della donna e si allontana, tornando a razziare la libreria, cercando chissà cosa, il cellulare in una mano. La donna scuote la testa, poi torna giù.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 Il palinsesto è una pagina di manoscritto o libro il cui testo originale è stato cancellato e sostituito.
  1. Stando a Wikipedia, è un’opera perduta attribuita a Shakespeare, di cui non si ha il copione. Cardenio è un personaggio del Don Chisciotte. Il testo, ovviamente, l'ho inventato.
  2. Compagno di università di Sherlock, nel canone.
  3. Grado minore di Sergente nella polizia londinese – mi è sembrato verosimile che sia Donovan che Lestrade abbiano fatto progressi nelle rispettive carriere. Non sapevo tradurlo e l’ho lasciato così.
  4. Che squadra tifa Lestrade?
  5. Da “Uno studio in rosso”.

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Capitolo 6
*** Re Lear ***


Hello folks!
Avvertenze: forse ho esagerato un po' con Shakespeare, può essermi sfuggito di mano. In caso sia così, fatemelo notare. 
Grazie infinite a chi legge, recensisce, preferisce, segue <3
In fondo, una trama in parole povere del Re Lear. 
Fatemi sapere cosa ne pensate, mi aiuterebbe parecchio.
Ciao!
-Clock


 
Re Lear
(Verità delle maschere)
 
 
 
L’uomo è tanto meno sé stesso quanto più parla in persona propria; dategli una maschera e vi dirà la verità.
Oscar Wilde
 
 
 
«Noi dobbiamo sopportare il peso di questo tempo triste.
Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire.
I più vecchi hanno sopportato di più: noi che siamo giovani non vedremo tanto né tanto a lungo vivremo.1»
Sherlock sottolinea i versi con la matita e fa un orecchio alla pagina. Chiude il libro e lo scansa, stiracchiandosi pigramente. Rotola sulla schiena e socchiude gli occhi contro il sole del pomeriggio. Sa bene che dovrebbe alzarsi e andarsene, è vietato stare lì. Se Gregson lo beccasse finirebbe in punizione, sicuro come la morte. Ma è in assoluto il posto migliore della scuola, chi se ne importa di Gregson.
Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire.
Il vecchio Billy Shakespeare non ha tutti i torti. Certo, forse non c’era bisogno che morissero tutti per farlo notare, ma tant’è… Fossero almeno state morti interessanti: niente, tutti passati a fil di spada. Un po’ di inventiva, Billy…
L’unica degna di nota era la morte di Lear, dato che non aveva alcuna ferita fisica e non si capisce come…
«Sherlock?»
Sherlock chiude gli occhi e si trattiene dal grugnire.
«Cosa c’è, Victor?»
Un ragazzo magrolino dai capelli biondi fa capolino dalle scale e si guarda intorno finché non trova Sherlock, sdraiato a pancia in su sul tetto dell’edificio di Scienze.
«Ciao, Sherlock. T-ti cerca la signorina Southerland… P-per il Re Lear» balbetta, imporporandosi tutto. Sherlock non accenna a muoversi.
«Dille che non ci sarò.»
«M-ma ha detto che devi andare all’auditorio p-perché vuole parlarti e…»
«Ho detto che non ci sarò» ribadisce Sherlock, scandendo bene le parole. «Non ho nessuna intenzione di mettermi in calzamaglia per recitare quattro versi che nessuno capirebbe e venire applaudito senza motivo.»
Victor, se possibile, diventa ancora più rosso.
«Ma lei ha detto che saresti un bravo attore e…»
«Lo so benissimo. Al contrario di voi tutti, so perfettamente fin dove arrivano le mie capacità e non ho problemi ad ammetterlo, la falsità e la finta modestia mi disgustano, e recitare e fingere tutto il tempo di essere qualcun altro è ripugnante, un esercizio di vanità insopportabile. Per cui, dille pure che può trovarsi un altro Lear, o Edgar.»
Victor, che aveva abbassato la testa, la rialza di scatto.
«Lei veramente… Ha detto che voleva assegnarti la parte di Kent» balbetta. Sherlock cela il suo disappunto e la sua presunzione e arraffa un altro dei libri sparpagliati intorno a sé.
«In ogni caso non ha importanza, non parteciperò lo stesso.»
Kent.
Il nobile e fedele Kent bandito. Il suo delitto? L’onestà.
Perché proprio Kent?
Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire.
Victor farfuglia un saluto e si eclissa, ma Sherlock lo nota appena, fissando la pagina del Candido senza vederla.
Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire.
È in quel preciso momento che Sherlock decide di diventare un bardo della verità.
 
~~~
 
«Sherlock, te lo chiedo per l’ultima volta.»
Il tono di John è perentorio, ma né Sherlock né Mary si scompongono. Intorno a loro, gli spettatori iniziano ad alzarsi e a parlare, approfittando dell’intervallo.
«Cosa diavolo stiamo facendo qui? Perché ci sono Irene Adler, Wiggins, l’ex di Molly e gli irregolari di Baker Street su quel palco e perché…»
Mary, seduta fra i due, volta la testa verso Sherlock.
«Irene mi ha sorpresa, pensavo fosse a Singapore.»
Sherlock si limita ad unire le mani davanti alle labbra, facendo un verso di assenso. John sgrana gli occhi.
«E tu come fai a conoscere Irene?» domanda alla moglie, sbigottito. Lei fa spallucce.
«Chi non la conosce? Siamo state compagne di stanza per sei mesi, ad Atalanta, tempo fa. Oh, non fare quella faccia» dice, agitando la mano davanti all’espressione sconcertata di John. «Andresti a prendermi della liquirizia, per favore?»
«Compagne di stanza? A fare cosa?»
«Oh, matricole di Harvard, piani missilistici, rossetto, una lunga storia, non abbiamo tempo, più tardi. Liquirizia?» ritenta Mary. John sbatte le palpebre più volte, basito. Poi sembra riscuotersi e torna alla carica.
«Comunque non mi avete risposto, cosa stiamo facendo qui, perché conosciamo metà degli attori che non sono veramente attori, cosa stanno facendo…»
Mary si sporge in avanti per interporsi fra lui e Sherlock.
«Liquirizia» cantilena, con un amabile sorriso vagamente minaccioso. «Dopo avrai tutte le tue informazioni.»
John si alza, scuotendo la testa.
«Perché voi due sapete sempre quello che succede e io no, non è affatto giusto…»
«John, liquirizia. E noccioline per me» comanda secco Sherlock. John apre la bocca e punta un dito verso di lui pronto a lanciarsi in una bella sfuriata, ma Mary lo afferra per i lembi della giacca e lo fa ruotare su se stesso, per poi spingerlo leggermente verso il corridoio. John inciampa e rischia di finire addosso ad una signora anziana, che lo guarda indignata; lui fa un gesto di scuse. Poi si volta e minaccia con il dito Sherlock e Mary, sillabando un “non finisce qui”. I due salutano con la mano sfoggiando due identici sorrisoni. John scuote la testa e si chiede cosa abbia mai fatto di male – o di bene, perché, contro ogni logica, è divertito – per meritarsi tutto questo.
Mary lo guarda allontanarsi, con un vago sorriso, poi si volta verso Sherlock, incontrando il suo sguardo, a sua volta rivolto a John. Sherlock, colto in fallo, si affretta a ritornare alla sua posizione iniziale. Mary fa finta di nulla e apre il programma della serata.
Un “Re Lear” non convenzionale, adattato, diretto e interpretato da James Altamont, veterano del teatro di Shakespeare, recitato quasi esclusivamente da attori non professionisti, in un distopico mondo moderno. Billy Wiggins in Edmund; Tom, l’ex-fidanzato di Molly Hooper, in Edgar; gli Irregolari di Baker Street in Reagan, Goneril, Gloucester, i duchi di Albany e Cornovaglia, il re di Francia, il matto; Irene Adler, sotto il nome di Anna Reynolds e con i capelli tinti di un rosso scialbo, in Cordelia. Mary chiude il programma e controlla l’orologio, chiedendosi se sia il caso di chiamare Jeanine o no.
«Amanda starà dormendo, non è il caso di svegliarla.»
La voce di Sherlock le giunge improvvisa, ma non inaspettata. Sospira.
«Non so se abbiamo fatto bene a lasciarla con Jeanine, in fondo è quasi un’estranea…»
«Non c’erano altre soluzioni possibili.»
«No, perché tu sei piombato nel mezzo della nostra cena, spingendo me e John fuori dalla porta e gridando alla povera Jeanine di fare da baby-sitter!» sghignazza Mary. «John non ti perdonerà facilmente per aver di nuovo sconvolto la sua quiete familiare.»
Il labile sorriso che aveva increspato le labbra di Sherlock svanisce. Mary se ne accorge e si affretta a rimediare.
«Scherzo, ovviamente. Non esiste quiete familiare a casa nostra, siamo un ex-soldato e un’ex-agente segreto e il padrino di nostra figlia è un sociopatico iperattivo che corre dietro a criminali con un ridicolo cappellino da caccia.»
Non ha avuto effetto, c’è una ruga in più sulla fronte di Sherlock, che ha abbassato le mani e la testa. La donna sospira.
«Sherlock… Perché non parli mai di quello che veramente provi? Potremmo risolvere, sai. Tanti problemi non sarebbero mai neanche esistiti.»
Sherlock rialza la testa, gli occhi strenuamente rivolti al palco.
«Non c’è nulla di cui parlare.»
Inspiegabilmente, Irene, nelle vesti di Cordelia, recita tremante nel privato palcoscenico della sua mente:
«Che mai potrà fare Cordelia? Amare e tacere.2»
Sherlock sbatte le palpebre e si rimprovera: non è proprio questo il momento. Mary lo redarguisce silenziosamente con gli occhi, ricordandogli molto sua madre, poi tira fuori il cellulare e manda un messaggio a Jeanine.
 
 
John passeggia avanti e indietro, con tutta l’aria di voler scavare un tunnel solo pestando l’asfalto.
Non un buon segno.
«Questa me la paghi. Stavolta l’hai fatta davvero grossa, Sherlock. Davvero, davvero grossa.»
Il detective muove solo gli occhi per seguire il suo andirivieni, il volto impassibile.
«Hai. Avvelenato. Mary!» esplode John, fermandosi. Sherlock gli intima di fare silenzio, spalancando gli occhi, allarmato.
«Non dirmi di stare zitto, Sherlock, non provarci nemmeno, io ti…»
«John, era tutto calcolato: Mary sapeva benissimo a cosa andava incontro.»
«Le hai fatto mangiare noccioline! LEI è ALLERGICA!»
«Lei mi ha sparato una pallottola nel petto, direi che siamo pari» commenta Sherlock, alzando le spalle. John si ferma davanti a lui, incredulo e con un crescente desiderio di schiaffeggiare quegli zigomi alti fino all’osso.
Emette un vero frustrato e seppellisce il viso fra le mani. Sherlock rotea gli occhi.
«Hai piagnucolato tutta la sera per farti spiegare cosa stesse succedendo, mi lascerai parlare adesso?» chiede, osservando la zona adiacente l’uscita secondaria del teatro, brulicante di poliziotti, spettatori, attori, paramedici. Per fortuna, nessuno sembra essersi accorto della scenata di John. John grugnisce in assenso e Sherlock attacca a spiegare, prendendo a malapena fiato.
«Irene Adler, sotto il nome di Anna Reynolds, in una produzione teatrale nel West End, la donna più pericolosa del Regno Unito, presunta morta: perché? Lavora, ovvio. Non è per Mycroft, lo saprei, quindi è per Moriarty, o meglio, ciò che rimane della sua rete. Il suo compito: uccidere James Altamont,  sessantatre anni, asmatico, lunghissima carriera quasi esclusivamente teatrale, re Lear stasera, uso ai servigi di Jim Moriarty senza particolari problemi, pagamenti regolari e buoni rapporti. La rete deve aver chiesto aiuto ad Altamont, che l’ha negato, e si è messa in pericolo: Altamont deve uscire di scena. Ed ecco la mossa di Irene: entra nella compagnia,  Altamont non la conosce, si fa assegnare il ruolo di Cordelia. Un paio di gocce di un veleno qualsiasi lo ucciderebbero senza tanti complimenti, ma sarebbe banale, e Irene ha classe. Inoltre, il suo datore di lavoro la sta tenendo d’occhio, deve essere brava. Quindi, cosa fa?, lo uccide sulla scena: la morte di Lear è la morte di Altamont. Quasi alla fine del quinto atto Lear entra tenendo fra le braccia la morta Cordelia e muore poco dopo: non difficile fargli ingerire un qualsiasi veleno – arsenico – dalla bottiglietta d’acqua proprio prima che entri e lasciarlo morire in scena, soprattutto se si è Irene Adler e si ha accesso alla corsia preferenziale.»
John incrocia le braccia sul petto e si ferma davanti a lui.
«Per cui è stata lei a tentare di ucciderlo?»
«No.»
Solleva le sopracciglia.
«Ma… Hai appena detto che…»
«Irene non sa uccidere» proclama Sherlock, sicuro, guardando altrove.
«Come fai a dirlo, perché non potrebbe essere stata lei, sembra che…»
«Perché è venuta a prendere il tè» è la risposta, che lascia John a bocca aperta.
 
~~~
 
«Spero non ti dia fastidio il fumo» l’accoglie Sherlock, in piedi davanti alla finestra, senza voltarsi. Irene sorride e avanza nell’appartamento.
«Pensavo non fumassi più.»
Sherlock espira e scruta il mozzicone che tiene fra le dita.
«Una sigaretta è il prototipo perfetto del piacere perfetto. è squisita e ci lascia insoddisfatti3» recita. Irene si spoglia del cappotto e lo posa sul divano, insieme alla borsa, nascondendo un sorriso.
«Ci siamo messi a studiare, eh? Bravo ragazzo.»
Sherlock sogghigna e riporta il mozzicone alle labbra. Irene gli si avvicina da dietro e inspira il suo odore di tabacco, muschio e dopobarba.
«Non c’è il blogger? Il consulente lavora anche da solo?»
«Si è dovuto adattare.»
Irene gli posa una mano sul braccio, glielo stringe, lo massaggia e accarezza, con affetto – sì, affetto.
«Per fortuna ci sono io con un bel caso interessante, allora. Via quella sigaretta.»
 
~~~
 
«Irene ti ha ingaggiato? Per investigare?» domanda John, incredulo. Sherlock fa spallucce.
«Era in debito. E mi doveva una cena.»
«Quindi sta facendo il doppiogioco, adesso? Fa finta di stare con Moriarty, ma in realtà sta con te?»
Sherlock stringe le labbra.
«Non credo che collaborerà più con me, troppo rischioso. Ma mi ha fornito indizi preziosi, e sono riuscito a sventare l’attentato: Altamont è salvo, a casa troverà Mycroft ad aspettarlo, Irene ha le mani pulite e, cosa più importante, Moriarty sa che io so.»
John annuisce.
«Pensi che anche la lettera te l’abbia mandata lui? Il manoscritto di Shakespeare, quello che era. Credi veramente sia vivo?»
«Sono pronto a credere a tutto ciò che è incredibile4» risponde Sherlock, sollevando un sopracciglio. John annuisce e abbassa il capo, riflettendo. Quindi lo rialza, incrociando le braccia al petto.
«Quindi fammi capire: tu hai infiltrato i senzatetto e Wiggins nello spettacolo per tenere sotto controllo Altamont, hai convinto Mary a mangiare noccioline, l’hai fatta andare in shock anafilattico per interrompere lo spettacolo, causando un attacco di asma ad Altamont, che ha preso le sue medicine e non l’acqua, e hai chiamato l’ambulanza in modo che fosse qui per Mary appena ne avesse avuto bisogno.»
Sherlock annuisce e chiude gli occhi, una punta di soddisfazione.
«Esattamente.»
Sherlock riapre gli occhi aspettandosi il sorriso ammirato di John, ma John non ha la minima intenzione di sorridere.
«Tu hai fatto andare in shock anafilattico mia moglie. Forse non ti rendi conto…»
«Sh-Sherlock Holmes? E il Dottor Watson?»
Entrambi si voltano verso l’uomo che ha parlato. Sherlock corruga le sopracciglia.
«Tom.»
«Edgar?»
Sherlock e Tom, l’ex-fidanzato di Molly, si voltano verso John, che ha parlato.
«Nello spettacolo. Faceva Edgar» spiega. Tom annuisce sorridendo, ma Sherlock non muove gli occhi da John, pensieroso.
«Sì, sì, ero Edgar. E Tom. Quando diventa matto, Edgar diventa Tom, Tom O’ Bedlam. Il povero Tom ha freddo.5 Il demonio perseguita il povero Tom6» recita, in falsetto. Sherlock porta gli occhi duri, indagatori, su di lui.
«Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire» recitano lui e Tom, all’unisono. Un guizzo di sorpresa balena negli occhi di entrambi. Sherlock stringe le palpebre, Tom sorride impacciato.
«Fan di Shakespeare, eh?»
John sbuffa, alzando gli occhi, consapevole della mania di Sherlock di mettersi in mostra e basta, altro che fan di Shakespeare.
«In ogni caso, forse è meglio che vada…» inizia Tom, abbassando il capo. John si ricorda improvvisamente delle buone maniere.
«Ah, bella interpretazione, comunque.»
«Grazie…»
«Come è finita fra te e Molly Hooper?» chiede a bruciapelo Sherlock. John allarga gli occhi in segno di rimprovero e avvertimento, ma lui lo ignora, come al solito.
«Oh, beh, hem… è finita di comune accordo, noi non… Non andavamo più bene, ecco.» Si schiarisce la voce e sorride impacciato.
«Comunque, io vado, grazie di essere venuti!»
John si volta verso Sherlock pronto a ricevere spiegazioni, ma l’uomo guarda ancora Tom, e declama:
«Attento al frastuono degli eventi, e rivelati quando la falsa calunnia, i cui pensieri ingiusti ti diffamano, sarà smentita dalla verità delle tue prove, e tu riabilitato.7»
Tom si ferma, poi si volta lentamente.
«Cosa? Ancora cattivi pensieri? Gli uomini debbono attendere l’ora dell'uscita da qui come quella della loro entrata. Esser maturi è tutto.8»
La voce è grave e c’è un lampo nei suoi occhi, una fierezza, una brama tale che a John scende un brivido lungo la schiena, e si chiede chi diavolo è quel ragazzo.
Sherlock guarda John, chiedendosi dove è andata a finire la verità e quand’è iniziato lo spettacolo.
 
~~~
 
Forza, Sherlock. La verità.
«John, c’è qualcosa… che dovrei dirti; ho sempre voluto dirtelo e poi non l’ho mai fatto. Ma dato che è improbabile che ci rivedremo mai, tanto vale dirtelo adesso.»
La verità, almeno una volta. Quello che senti.
«Sherlock in realtà è un nome da femmina.»
 
~~~
 
«Abbiamo visto il meglio dei nostri anni. Macchinazioni, vuoto, tradimento e ogni sorta di disordini rovinosi ci accompagnano, senza requie, alle nostre tombe.9»
Sherlock volta la testa sorpreso verso Mary, che ha recitato con lo sguardo sul palco vuoto dell’intervallo. La donna si volta verso di lui e sorride triste.
«E il nobile e fedele Kent bandito! Il suo delitto? L'onestà. È strano.10»
Sherlock abbassa il capo e tace, aspettando che torni John (la verità è diventata difficile da affrontare).
 

 





 
 
 



Re Lear in soldoni, nel caso non ci aveste capito niente per colpa mia: Lear è l'anziano re di Britannia; Goneril, Reagan e Cordelia le sue tre figlie, l'ultima delle quali, la più buona e onesta, incapace di elogiare il padre spudoratamente come le altre due per accaparrarsi un pezzo di regno, cade in disgrazia e viene bandita. Kent è un nobile al seguito di Lear, bandito pure lui per averlo rimproverato del suo comportamento; fedele al suo re fino alla fine, si traveste da gentiluomo e continua a seguire il suo signore, tendando di consigliarlo e tenerlo, per quanto riesca, fuori dai guai. Il duca di Gloucester è un anziano nobile amico del re, con due figli: Edgar ed Edmund. Edmund, illegittimo, trama per uccidere il padre e screditare il fratello: Gloucester arriva a temere Edgar, convinto che lui voglia ucciderlo, ed Edgar fugge e si traveste da mendicante pazzo, Tom O'Bedlam. Peregrinando nella brughiera, incontra Lear, completamente impazzito dopo aver scoperto che le due figlie maggiori non lo amano come avevano detto. Vicissitudini varie, fine della storia: muoiono tutti, meno Kent, Edgar e il duca di Albany, marito di Goneril.
Non ho reso affatto giustizia all'opera, povero Shakespeare: qui avete Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Re_Lear
 




Note: (del tutto inutili) (messe così perché fa molto figo) (tutto il capitolo è praticamente un frullato di citazioni)
 
  1. William Shakespeare, Re Lear, Atto V Scena III (Edgar)
  2. Atto I Scena I (Cordelia)
  3. Wilde, Aforismi
  4. Idem
  5. Re Lear, Atto III Scena IV (Edgar/Tom)
  6. Atto III Scena VI (Edgar/Tom)
  7. Idem (Edgar)
  8. Atto V Scena II (Edgar)
  9. Atto I Scena II (Gloucester)
  10. Idem (Gloucester)

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Capitolo 7
*** Re nero ***


Bonne soir a voi!
Prima di quanto avessi previsto, con un capitolo nato da sè senza che nessuno lo avesse chiamato. Infinite ricerche su Bach e complicati parallelismi e partite di scacchi e alla fine questo. Speriamo vi piaccia.
Grazie infinite a chi legge, segue, recensisce, preferisce <3
-2 alla fine.
Ciao!
-Clock


 
Re nero
(Bohemian Rhapsody)
 
 
 
Non suono con scienza - chiunque può suonare con molta scienza - ma suono con sentimento meraviglioso. In fatto di musica, il sentimento è il mio forte. Riserbo la scienza per la vita.
Oscar Wilde
 
 
 
John chiude gli occhi soddisfatto. Ah, erano secoli che non riascoltava quella musica. Gli ricorda la sua giovinezza, gli anni di università, le serate al pub, i vecchi amici… Fa appena in tempo a chiudere la custodia del cd e riporlo sopra lo stereo, che la porta della stanza di Sherlock si apre e ne emerge la testa ricciuta e corrucciata del detective.
«Che cos’è questo rumore? Sto catalogando i miei calzini.»
John si volta verso di lui sollevando le sopracciglia con sarcasmo.
Ah, la mia musica è rumore? E non il tuo violino alle quattro di notte?
Stringe le labbra, armato di buoni propositi perché è domenica mattina e vuole passarla in tranquillità, e non dice quello che veramente pensa.
«È musica. La musica che ascoltavo anni fa» risponde. Per una volta che mette su un suo disco, non vuole proprio stare a sentire i borbottii di Sherlock.
Tuttavia, quando diventa evidente che Sherlock è così annoiato da voler discutere anche su questo, John si getta nella discussione con furore; invano Freddie Mercury e Bono uniscono le voci nel tentativo di farsi sentire sopra il baccano.
Risultato della mattinata: un John soddisfatto e canticchiante per tutto il giorno e uno Sherlock sul divano imbronciato e molto, molto seccato, costretto ad ascoltare quell’ “infernale frastuono”.
Sherlock non ammetterà di aver sgraffignato il cd e averlo ascoltato numerose volte, quando la sua testa era troppo rumorosa – o il cuore, o il fegato, o chiunque diavolo urlasse, lì dentro.
John se ne è accorto, ma non ha mai detto nulla. Gli è rimasto solo il desiderio, muto, di avere anche lui un po’ della musica di Sherlock con sé, ogni tanto, invece del silenzio.
 
~~~
 
L’ultima nota della Partita sfuma nel silenzio e Sherlock riapre gli occhi, riprendendo a respirare.
Non suona spesso Bach: difficile, estremamente tecnico e matematico. Di solito preferisce improvvisare, o lasciarsi andare a qualcosa di più romantico (artisticamente parlando, s’intende); in questo momento, però, Bach è esattamente quello che gli ci vuole, dei lineari binari armonici su cui far scorrere i suoi pensieri irrequieti.
Inspira profondamente e richiude gli occhi. Sonata numero tre. E uno, due…
Is this the real life? Is this just fantasy?
Corruga le sopracciglia, infastidito. Che diamine…
Caught in a landslide. No escape from reality.
Coro di voci maschili, effetto da chiesa. È familiare…
Open your eyes… Look up to the skies and see…
Non è possibile.
«Bohemian Rhapsody? Seriamente?» dice, la voce grondante sarcasmo, mentre si volta. Jim Moriarty sorride.
«Ti ho stupito, non è vero? Non te l’aspettavi, ammetti.»
Le mani nelle tasche, avanza sul tetto fino a trovarsi a pochi passi da lui.
«Adoro sorprenderti.»
Sherlock non risponde, solleva il mento. Moriarty lo guarda dal basso, un sorriso lascivo e gli occhi voraci, neri come l’anima di un dannato.
«Allora» esordisce dopo qualche istante, avanzando ancora e passeggiando per il tetto del Bart’s, girando intorno a Sherlock come una fiera in gabbia.
«Ti è piaciuto l’indovinello che ti ho mandato? Il Cardenio? Ci hai messo un po’ per arrivarci, eh?»
«Detesto gli indovinelli» risponde Sherlock, atono. Rimane rigido, dritto, tutti i sensi all’erta. Fiuta una trappola.
«Ma io li adoro. E mi sono davvero impegnato per il tuo, Sherlock, l’ho preparato su misura.»
«Allora potrai anche spiegarmelo.»
«Oh, Sherlock
C’è come una nota di delusione e dispiacere nella sua voce cantilenante, a cui Sherlock non riesce a credere.
«Ma tu sai che vuol dire, lo capisci benissimo. Non ti va di ammetterlo» spiega Jim, stringendo le labbra in una smorfia di sconforto.
Sherlock solleva il mento, stringendo gli occhi.
«“è giunta l’età infelice dei nostri inganni,”»
«Andiamo, questa è facile: è giunta l’ora di smetterla con le bugie o di iniziare a dirne di belle, per continuare a proteggere i tuoi pesci rossi. Mai letto Pinocchio?»
«“Il mondo piange la nascita della rosa,”»
«Una rosa concimata con menzogne non può che essere infelice. E con quella sequela di nomi improponibili che le hanno affibbiato…»
«“Il cielo si oscura nel bacio taciuto.”»
«Non mi pronuncio, non vorrei far arrossire le tue guance da verginella.»
Sherlock gli lancia un’occhiataccia, ma continua.
«“Oh, povero Cardenio! Ingannato, tradito, misero Cardenio! Povero, pazzo Cardenio!”»
«Di nuovo, non commento. Sono un bravo poeta, però, non trovi?»
«“Ma basta lacrime: si alza il vento, la battaglia si approssima.”»
«The East Wind is coming, dicono. Mycroft è la mia musa.»
«“Alle armi i vinti! Si proteggano le rose, si tolgano le maschere: la verità si mostri, impavida e mortifera!”»
«Un po’ di sincerità è cosa pericolosa, molta sincerità è assolutamente fatale,1 dicevano»
«“Si brucino i cuori, perché l’amore cessi di essere dolore.”»
«Odio ripetermi: te l’avevo detto tanto tempo fa. Sai com’è: bisogna strappare il ramo malato perché la rosa torni a fiorire.»
Sherlock abbassa gli occhi su di lui, grave del peso della consapevolezza.
«“L’eroe senz’ali”.»
Moriarty rotea gli occhi.
«Mai sentito parlare di metafore? Non posso spiegarti anche questa, togli tutto il piacere della poesia…»
In due balzi, Sherlock è a pochi centimetri da Moriarty, piegato in avanti su di lui, i visi vicini.
«Chi sei? Perché hai mandato quella lettera, cosa vuoi da me?» ringhia.
Jim sbatte le palpebre, calmo, un principio di sorriso.
«Dovresti ringraziarmi, Sherlock. Ti sto aiutando. Ti ho portato uno specchio, perché non vuoi vedere?»
Sherlock si raddrizza e indietreggia, con la confusa sensazione – illogica, per di più – che il suolo si inclini all’indietro, e lui scivoli con esso. Moriarty fa un passo avanti, grande e imponente.
«Ti mando lettere, ti ho anche portato a teatro. Davvero, non capisco cosa ti aspetti di più da me, sono l’uomo perfetto…»
Thunderbolt and lightning,
very very frightening me!
Sherlock è ormai in ginocchio, infernali cori di voci che rassomigliano ad organi gli riempiono la testa.
«Hai un teschio sul caminetto: se non sei tu un fan di Shakespeare…»
«Irene» ansima Sherlock, gli occhi paralizzati sui piedi di Moriarty, il corpo scosso da tremori. «Irene, lei è in pericolo. Si è esposta troppo, rischia…»
«Povera Irene. Ha commesso due volte lo stesso errore. Ma forse questa volta non ci sarà nessun eroe per lei, chissà…»
Sherlock spalanca gli occhi, terrorizzato.
«Qual’era il senso di quella rappresentazione? Non di uccidere Altamont, non c’era bisogno di un piano tanto elaborato... Volevi attirare la mia attenzione.»
«E tu la mia. O credi che non mi sarei accorto che metà dei barboni di Londra si erano improvvisamente riscoperti attori? Quel Wiggins, poi. Il mio preferito. Abita ancora al 221c, suppongo. Almeno quando non è in giro a subire gli effetti di quella dolce amica bianca, che tu conosci bene… Ha una storia così interessante. Chiedi a Mycroft di fartela raccontare, prima di andare a dormire.»
«Di che cosa stai parlando?»
Moriarty sfodera un sorriso da Stregatto.
«Il caro vecchio Billy Wiggins, dalla mente geniale, così geniale da aver svelato molte verità scomode ai piani alti di Westminster, così geniale che andava taciuta… Ed ecco che Mycroft Holmes cala la spada della giustizia e Billy Wiggins scompare…»
Il detective deglutisce, smarrito, mentre tanti gesti e frasi smozzicate si uniscono in un quadro sensato.
«Allora è vero, Mycroft...»
Jim rotea gli occhi.
«Certo che è vero. Oh, Sherlock, mi deludi, pensavo ci fossi già arrivato da tempo…»
«Ma perché nascondermelo, perché…»
«Oh, brutte storie, Sherlock. Storie che non si raccontano ai bambini.» Stringe le labbra e solleva le sopracciglia con fare dispiaciuto.
Sherlock deglutisce, cercando di rimanere aggrappato alla realtà, di scacciare dalla sua mente gli infernali cori lirici.
Galileo Figaro
Magnifico…
«Mary» annaspa alla fine. «E Amanda, loro…»
Moriarty alza le spalle.
«Cara dolce Mary. E quella tenera bambolina dalle guance di rosa. Assomiglia alla mamma, non trovi? Speriamo suo padre le insegni a non dire le bugie, però» commenta, in tono casuale, le mani in tasca. «Perché John è sempre onesto, non è così? Dice sempre quello che pensa.»
«Non è vero» dice immediatamente Sherlock, senza nemmeno riflettere. Si puntella con le mani sul pavimento, tentando di rialzarsi. Eppure c’è come una forza nella terra e un’estrema debolezza nelle sue membra che glielo impedisce.
«John dice sempre quello che è opportuno dire» esala fra i denti. Jim annuisce, soddisfatto.
«E bravo Sherlock. Un più per te.»
«John… Non indaga più a fondo. Si accontenta della superficie.»
«Fugge dal vero volto dietro la maschera» annuisce Moriarty, unendo le mani dietro la schiena. «La façade, ricordi? Leinster Gardens, davvero una bella trovata… Anche tu stai attento alla poesia della vita, eh? Non è John il romanziere, tra voi due…»
Sherlock scuote la testa, la gola riarsa.
«John… Non c’è nulla… su cui indagare. Io e lui…»
«Chi ti ha detto che si trattasse di te e lui? Non vedi? Sempre, in ogni tua frase, c’è un John e uno Sherlock: sempre insieme. Lui ha una figlia con un’altra donna e tu sei ancora qui a sospirare…»
«Io non sospiro» ringhia Sherlock, ritrovando un barlume di forza. Si rialza, finalmente, assordato dalle grida rauche di una chitarra distorta.
«Io non sospiro per nessuno. Quello che provo per John…» stringe i denti alle sue stesse parole, inadatte ad esprimere la ricercata sfumatura del suo sentimento. «… esula da qualsiasi definizione o categoria, il nostro rapporto va al di là delle artificiose convenzioni sociali, noi…»
«Voi, voi, voi… Non esiste alcun voi!» grida Jim, il volto sfigurato. Sherlock si ritrae, fuori dall’orbita della sua improvvisa furia nera.
«Perché diavolo non vuoi capire che non esiste alcuna poesia, le avventure di Sherlock e John non sono un romanzo per bambini, solo uno stupido blog su internet tenta di rendere appassionante la vostra patetica vita, non ci sono sottintesi, né metafore o belle parole: la verità è cruda e aspra e la verità è che non esiste nessun “Sherlock&John”; rassegnati, sei solo, più solo di quanto tu sia mai stato, ancora più solo perché hai provato cos’è l’amore, cos’è provarlo ed esserne circondati, e tutto ciò che sei stato capace di fare è stato conficcarti una siringa in vena o gettarti da un tetto. Sei un misero mortale, Sherlock: non esistono né angeli né eroi.»
Una lacrima cade dall’occhio cristallino; una goccia di sangue dal buco nero. Il suolo si tinge, le macchie si allargano e si moltiplicano, sotto i piedi di Sherlock e Jim.
«In posizione. Il re nero è in E-8.»
Il tono è quello stanco di un generale anziano, rassegnato, ferito. Jim sogghigna.
«Oh, vuoi davvero iniziare questo gioco, Sherlock? Lo sai che io adoro giocare. E vinco sempre.»
Sherlock si raddrizza, finalmente, unisce le mani dietro la schiena e solleva il mento. Sorride, quieto.
«Ma io ho un ottimo schieramento.»
«Irene è mia» sputa Jim, assottigliando gli occhi velenosi.
«Puoi tenerla. Ho un ex-soldato, il governo britannico, un ex-agente segreto, un medico legale, un ispettore, una governante-non-governante e un quasi-coinquilino. Direi che sono abbastanza protetto.»
Jim sogghigna. Si sfila una pesante corona di ossidiana e la soppesa. Davanti a loro, gli eserciti rifulgono sotto il primo sole del mattino: di fredda ossidiana quello di Moriarty, di raffinato alabastro quello di Sherlock.
«Ma chi si sacrificherà per te?» domanda Jim, guardandolo con apparente calma.
«Anyway the wind blows…» canticchia e Sherlock si fa di marmo si frantuma e precipita, di nuovo e ancora, giù, nel buio, negli organi infernali…
 
~~~
 
John sorride e scuote la testa. Con delicatezza, sfila il violino e l’archetto da sotto le sue mani e li posa sul tavolo, cercando di fare meno rumore possibile. Recupera una coperta da una sedia e la stende sopra il detective addormentato. Sherlock ha un fremito, trasale e stringe un pugno. John si immobilizza, curvo sopra di lui, temendo di averlo svegliato. Il detective si rilassa e il respiro torna regolare. John approfitta di quegli attimi per scrutare il viso dell’amico da vicino, prendere nota delle nuove rughe, dei riccioli scomposti troppo lunghi, del principio di barba, delle labbra screpolate. Fremono e John freme di riflesso, e si ritrova a ripensare… No, ormai sono passati anni, troppi eventi sono capitati nel mezzo. Eppure l’antica inespressa sensazione si risveglia nel suo petto e John si allontana, lentamente, quasi spaventato. Dopo un ultimo sguardo e un “sogni d’oro” a fior di labbra, chiude la porta dietro di sé.
 
~~~
 
Sherlock annaspa ed apre gli occhi. Sbatte le palpebre più volte, riprendendo fiato. Strizza gli occhi e si solleva, passandosi una mano sul volto. La schiena protesta a gran voce, i muscoli si lamentano: neanche a loro è piaciuta quella nottata sul divano, è chiaro.
Si tira a sedere, scansando la coperta, appoggia i gomiti sulle ginocchia e le dita sulle labbra, tentando di decifrare il sogno. Passano cinque minuti, poi si dichiara sconfitto e si alza in piedi: la psicanalisi è scomoda.
Si dirige in bagno e vorrebbe prendersi a randellate: invece di escogitare un piano, un modo per proteggere i suoi amici e capire a che gioco sta giocando Moriarty, si perde in disquisizioni labirintiche e assurde, vergognose.
Si sciacqua la faccia con acqua fredda apposta, anche se fanno sette gradi e sta congelando.
Si spalma la schiuma da barba con aria torva, evitando il riflesso dei propri occhi, servendosi dello specchio il meno possibile.
Una cosa è certa, pensa, aprendo il rubinetto al massimo per attutire lo scompiglio dei suoi pensieri: mai più Queen prima di andare a dormire.
 
 



1. Wilde, ovviamente.
Le frasi in corsivo in inglese non sono sproloqui della mia mente malata, ma pezzi di Bohemian Rhapsody, dei Queen. Questa, per chi non la conoscesse: https://www.youtube.com/watch?v=irp8CNj9qBI  

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Capitolo 8
*** Il giglio ***



Il giglio
(silenzi)
 
 
 
Le domande non sono mai indiscrete; a volte lo sono le risposte.
Oscar Wilde
 
 
 
L’erba scricchiola sotto le loro scarpe; l’unico rumore oltre quello dei loro respiri. Sherlock si arresta e fa un gesto vago con la mano, la testa bassa. John annuisce e continua a camminare.
Sherlock sente di avere bisogno di un attimo per raccogliere i pensieri e le emozioni, riportarli all’ordine sugli scaffali del suo Mind Palace, sotto il suo controllo; al momento, cavalcano impazziti, scalpitando sul suo cuore.
 
~~~
 
«Ecco, laggiù, Amanda, abbiamo un bellissimo esemplare di sociopatico iperattivo brontolone…»
Sherlock solleva la testa di scatto, corrucciato, salvo poi distendersi immediatamente. Si alza sorridente.
«Per il bene della scienza, è giusto conoscere ogni forma di creatura vivente.»
Si avvicina alla bambina e abbassa il viso alla sua altezza. Lei lo accoglie con un gridolino entusiasta, schiaffando le manine paffute sulle sue guance.
«Hai imparato a dire “assassinio” oggi?»
Mary, divertita, fa una faccia scandalizzata e copre gli occhi alla bambina, che ride.
«Sherlock! La sua prima parola non sarà “assassinio”.»
«“Sociopatico iperattivo”, allora.»
«Veramente pensavo a “incompetenti agenti di polizia”, ma se insisti…»
Sherlock sogghigna e si raddrizza, pronto a ricevere la bambina che ha spalancato le braccia verso di lui. Mary gliela porge, con gran sollievo della sua schiena.
«John?»
«Di sopra» risponde Sherlock, sistemandosi Amanda fra le braccia e passeggiando per la stanza. «Sta cercando non so quale libro che aveva lasciato qui… No, Amanda, non i capelli, non sai quanto ci vuole a sistemarli…» protesta debolmente, mentre Amanda sembra intenzionata a portarsi a casa un ricciolo di Sherlock, emettendo versetti soddisfatti. Mary ride. Lo sguardo le cade sul tavolo.
«Gigli?» chiede, incuriosita. Sherlock allontana gentilmente le mani di Amanda dalla sua chioma e porta lo sguardo sul tavolo.
«Esperimento.»
«Senza dubbio.»
Sherlock prende un fiore e lo solleva davanti a sé, con immensa gioia di Amanda, che allunga subito le mani.
«Voglio vedere se sia possibile veicolare qualche tipo di veleno nel polline dei gigli e… No, non è per te» dice, allontanandolo quando arriva troppo vicino alla bocca della bambina. Lei mette su il broncio, avvicinandosi alla soglia del pianto, e Mary vede Sherlock andare in panico.
«Va bene, va bene, tienilo. Donne» borbotta, lasciando che la bambina lo prenda. Lei sorride contenta e colpisce ripetutamente la testa del padrino con il fiore, premurandosi di mettere al corrente la madre della sua gioia. Sherlock si irrigidisce ma mantiene stoicamente la calma, mentre Mary scoppia a ridere.
«Sherlock, ho sentito parlare… Oh, tesoro, ciao. Amanda, cosa…»
John, appena sceso con un libro polveroso in mano, si blocca sulla soglia del suo vecchio appartamento, guardando Sherlock e sua figlia con un sorriso in volto. Non sa perché gli faccia così bene, vederli insieme, lei che ride e lui che non emette un suono, tutto sommato divertito, John lo conosce…
Mary volta gli occhi su di lui e coglie il suo sguardo e non le piace troppo ciò che legge. Ed è con un’allegria un po’ faticosa che si rivolge a Sherlock.
«Sicuro di riuscire a tenerla a bada per tutto il pomeriggio?» domanda. Sherlock annuisce, ignorando la gragnola di gigli che gli piove in testa.
«Le insegnerò a dissezionare rane» afferma, tranquillo.
«Sherlock…» inizia John, non sicuro che stia scherzando. Il detective gli lancia un’occhiata seccata.
«Voi due andate pure a divertirvi, io e Amanda staremo una favola» dice. Mentre Mary posa la borsa con il necessario per la bambina sul divano, John ne estrae un orsacchiotto e si avvicina ai due.
«Lascia perdere il tuo povero padrino, che ne dici? E niente rane» dice, sfilando gentilmente il fiore dalla mano della figlia e sostituendolo con l’orsetto, che la bambina stringe a sé, piegandosi sul petto di Sherlock come a volervisi nascondere. Lui, istintivamente, le poggia la mano libera sulla schiena con fare protettivo. John sorride e lascia un bacio sulla tempia della figlia. (Sherlock trattiene il fiato.)
«Ci vediamo più tardi, allora. Fai la brava. E anche tu» ammonisce, rivolto a Sherlock.
«Brontolone.»
«Sherlock, seriamente, niente esperimenti…»
«John! Andiamo, è un adulto…» interloquisce Mary. John si volta verso di lei.
«Io non ne sarei così sicuro…»
«Molte grazie, John, ricordati che è tua figlia che mi stai affidando…»
«Sherlock…»
«John, andiamo.»
«Saluta, Amanda.»
La bambina sorride e agita la mano, la testa ancora china sul petto di Sherlock.
 
~~~
 
Tre colpi alla porta. Sherlock non dà segno di turbamento e continua a preparare il tè: sa benissimo chi sia.
La porta si apre delicatamente.
«È permesso?»
«Sempre» risponde Sherlock, in tono leggero, senza neanche alzare la testa. Mary posa la borsa e si affaccia alla cucina.
«John?» domanda, esitante.
«In ambulatorio, ha avuto un’emergenza» risponde lui, posando teiera, tazzine e zuccheriera in un vassoio. Lo solleva e lo trasporta in soggiorno, sistemandolo sul tavolino davanti al divano. Si siedono entrambi, Sherlock con qualche esitazione: è uscito dall’ospedale solo pochi giorni fa, alcuni movimenti gli procurano dolore. Mary ringrazia e soffia sulla sua bevanda; Sherlock non accenna a muoversi. Tranne il televisore acceso a volume basso, silenzio.
«Doctor Who?» domanda Mary, sollevando un sopracciglio. Sherlock le rivolge un’occhiata di pigro fastidio.
«Lo sto guardando per John, devo raccontargli cosa succede.»
Mary solleva anche l’altro sopracciglio, ma non commenta. Sherlock le lancia una rapida occhiata.
«Come è andata l’ecografia?»
Mary annuisce, niente affatto stupita.
«Bene, bene. È soltanto la prima.»
Tante parole rimangono non dette, perché Mary suppone non sia quello il momento adatto. Tiene per sé, quindi, la sua tristezza nel guardare le prime immagini di suo figlio da sola, con un medico sconosciuto, senza la dolce mano di John stretta nella sua.
«John ha dormito qui, queste notti, non è così?» chiede, piano, sorseggiando il tè. Sherlock annuisce brevemente.
«La stanza al piano di sopra non era stata granché toccata. Il letto è ancora lì.»
Omette di dire che, le ultime notti, in cui entrambi sono stati a casa, Sherlock ha suonato per la gran parte del tempo e John è rimasto ad ascoltarlo per ore, finendo per addormentarsi in poltrona o sul divano; la mattina si alzava sempre per primo e nessuno dei due faceva parola sulla notte trascorsa. Sherlock è quasi sicuro che, mentre era ricoverato, quando non ha passato la notte con lui, John abbia dormito nella sua stanza, a Baker Street – giura di aver sentito un odore diverso sulle lenzuola.
Mary annuisce.
«Mi perdonerà mai?» domanda, e Sherlock prova un moto di tenerezza verso di lei (questa cosa dei sentimenti non promette affatto bene).
La domanda non cerca risposta. È ancora troppo fresca in entrambi quella notte di poche settimane prima, quando John aveva scoperto la verità su sua moglie.
Mary sbatte le palpebre per scacciare le lacrime e torna composta dopo un respiro profondo.
«Solo… Sherlock, so benissimo che per te John non è soltanto un amico qualsiasi.»
Sherlock trattiene impercettibilmente il respiro e attende. È tentato di negare, rifugiarsi nel comodo bozzolo di imperturbabilità che ormai ha fatto suo – ma è diventato irrespirabile lì dentro ormai.
Alza il mento, invitando tacito Mary ad andare avanti. Lei lo guarda seria.
«John… Non mi ha mai detto niente, ma quando l’ho conosciuto, tre mesi dopo il tuo finto suicidio… Era distrutto. Molto più distrutto di un uomo che abbia perso il suo migliore amico. Sherlock, non eri solo il suo migliore amico, io credo che lui…»
Sherlock alza gli occhi su di lei. Forse non si rende conto di quello che ha appena detto, questo può voler dire paradiso e inferno, condanna e salvezza.
«Non dirlo.»
è appena un sussurro roco, gli occhi si sono chiusi per un attimo infinitesimale, ma si sono riaperti pieni di paura (una voragine di dolore potrebbe aprirsi da un momento all’altro), ma a Mary è sufficiente. Abbassa gli occhi e stringe le dita sulla tazza. Prende un respiro e ricomincia.
«Non ti chiedo di fare quello che credi meglio per me, o per John: pensa a te stesso. Per una volta, Sherlock, sii egoista: io lo sono stata, ora hai tu la tua occasione.»
Sherlock la guarda, stupito. Il cuore gli batte come un forsennato – quel traditore. Gli occhi di Mary scintillano di emozioni (rimpianto, orgoglio, delusione, tristezza, senso di colpa, amore) che Sherlock non riesce a catalogare per bene.
«Io… Potrei sparire, cambiare nome e città. L’ho già fatto, e lo rifarei, perché amo John e mi fido di te, ma non posso togliergli suo figlio: lo distruggerebbe.»
La mente di Sherlock corre per tener dietro a quelle parole, registrarne la piena portata e comprenderne appieno il significato, osservare Mary e cercare di capire cosa le passi nella mente e nel cuore attraverso il volto, ma è difficile, è inaspettatamente difficile, e il cuore si agita sempre di più.
«Non puoi andartene» dice d’un tratto, come riscuotendosi. Ha capito.
Mary alza gli occhi su di lui.
«Non puoi far nascere il bambino, lasciarlo a John e andartene, te lo impedisco. John sarebbe devastato se tu te ne andassi.»
Mary abbassa gli occhi, colpita e affondata.
«Con il mio passato… Potrebbe essere la soluzione migliore per tutti…» mormora, e solo adesso la sua voce trema.
«Per quanto mi riguarda, farò il possibile perché tu, John e il bambino siate al sicuro. Lui ti ama, Mary, e tornerà da te.»
Brillano, gli occhi di Sherlock, brillano di tante, tantissime emozioni – Mary si chiede come sia possibile che lo abbiano chiamato macchina, sociopatico, non umano: mai visti occhi più umani di quelli, occhi che sfavillano come gemme grezze dotate di anima.
Abbassa le ciglia ed espira, rendendosi conto solo ora di aver trattenuto il fiato. è profondamente toccata, commossa quasi (scompensi ormonali, quasi sicuramente).
Sherlock è un eroe, uno stramaledettissimo angelo, e non c’è verso che qualcuno possa convincerla del contrario. Le sta regalando una seconda opportunità, e lei non riuscirà mai a ripagarlo abbastanza. è una donna che detesta avere debiti, ma per Sherlock non le importa, lui lo merita.
«Grazie, Sherlock.»
Un sorriso vola sulle labbra del detective.
«Dovere.»
Ci sono tante cose che Sherlock vorrebbe dire, tante cose che potrebbe fare – e gli spetterebbe; sarebbe da egoisti, tuttavia, e Sherlock si accorge con sgomento di non esserlo più, di anteporre qualcun altro a sé stesso – maledetti sentimenti, la falla nel sistema, ecco dove lo portano (è tutta colpa di John).
«Ma voglio una promessa» continua, e Mary alza i grandi occhi sfavillanti su di lui. Sherlock si perde per un istante a guardarli, e sa che la sua scelta è stata giusta: Mary è la donna per John, e lui farà il possibile perché anche John lo capisca – e cucirà la bocca al suo cuore e non importa (è abituato al silenzio, non protesterà più di tanto).
«Il bambino avrà il mio nome. Oppure potrò sceglierglielo io.»
Mary getta indietro la testa e ride.
«Neanche per idea!»
Sherlock nasconde un sorriso dietro la tazza di tè.
 
~~~
 
John si allontana dalla lapide e Sherlock capisce che tocca a lui. Non va dall’amico, sa che ha bisogno di stare da solo – lasciare che il Capitano Watson rimetta in riga il reggimento e cancelli le lacrime dal suo volto – e si avvicina. Posa il suo mazzo di gigli bianchi, poi infila le mani nelle tasche. Troppe le cose da dire, inutilmente ormai. Non gli resta che agire, e fare del suo meglio.
Posa per un istante le dita sul marmo freddo, poi torna da John, che l’aspetta.












Il giglio è simbolo di purezza, innocenza, nobiltà e fierezza d'animo.

Grazie di cuore a chi legge/recensice/segue/preferisce. Mangiate cioccolata e siate felici.
A presto!
-Clock
 

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Capitolo 9
*** Amanda ***



Amanda
(eroi bucati, eroi dorati)
 
 
 
Ogni volta che uno ama, è la sola volta che egli è amato.
Oscar Wilde
 
 
 
Sposta il teschio leggermente più a sinistra. Ecco, era esattamente così quando l’ha trovato; con un po’ di fortuna, nessuno si accorgerà che ci ha giocato di nuovo.
«Amanda?»
La bambina si volta di scatto, con l’espressione di chi è stato colto con le mani nella marmellata – o, in questo caso, sul teschio di Sherlock.
«Ciao, zio Myc! Ciao, zio Greg!»
La bambina sorride e corre incontro ai due uomini, saltando in braccio a Greg Lestrade, che l’aspetta a braccia spalancate.
«Amanda, ti ho ripetuto decine di volte che non devi chiamarmi “Myc” e non sono tuo zio…» inizia Mycroft, avanzando nell’appartamento.
«Sei il fratello di Sherlock, quindi mio zio. E poi sei sempre qui, come lo zio Greg, quindi zio» argomenta la bambina, dalla sua posizione privilegiata nelle braccia del poliziotto. Questi solleva le sopracciglia divertito, mentre Mycroft stringe le labbra e fa oscillare l’ombrello, infastidito.
«In ogni caso, dove sono Sherlock e John? Sei da sola?»
La bambina scuote la testa.
«Pa- Sherlock è andato a fare la spesa e papà in lavanderia.»
I due sollevano le sopracciglia.
«A fare la spesa? Sherlock?» chiede Greg, incredulo. La bambina rotea gli occhi.
«È un codice. Quando dicono: “siamo andati a comprare una cravatta per Mycroft”, vuol dire “caso con la polizia”, visto che hanno fatto il nome dello zio Myc. Quindi “Sherlock è andato a fare la spesa” e “papà in lavanderia” vuol dire che papà e Sherlock sono insieme da qualche parte e io non posso venire. Pensano che io sia ancora una bambina, ma ho sei anni ormai!» spiega, con l’aria annoiata – tipicamente sherlockiana – di chi constata l’ovvio. Greg sorride e nota con la coda dell’occhio che anche Mycroft nasconde un sorriso.
«E ti hanno lasciata da sola?»
«C’è Mrs Hudson. È scesa un attimo perché doveva chiamare qualcuno al telefono.»
Greg annuisce.
«Bene, dovrò chiamarli, allora. Intanto lascio questi…» dice, facendo scendere la bambina e posando una scatoletta di cartone sul tavolo del soggiorno. Lei si solleva sulle punte per guardare, curiosa.
«Cosa sono?» domanda.
«Denti» risponde lui. «Da parte di Molly. Penso glieli avesse chiesti Sherlock…»
«Oh, tu e Molly vi sposerete e farete tanti bambini con cui potrò giocare, un giorno?» chiede Amanda, con fare innocente. Greg lancia un’occhiata a Mycroft, arrossendo in maniera esponenziale.
«I-io e M-Molly non… Cosa diavolo te lo fa pensare, insomma… N-noi non…»
«Sherlock dice che saresti il tipo perfetto per una come Molly» spiega Amanda, tranquilla. «Anormale al punto giusto. E poi ha detto qualcosa sullo zio Mycroft, ma non ho capito bene…»
«Parlerò con mio fratello e gli chiederò di non immischiarsi nelle questioni altrui, non tema, Ispettore Lestrade» assicura Mycroft, in tono professionale. Amanda fa una smorfia.
«Secondo me ci ha preso… Ma forse non si riferiva a Molly, ma a voi due!» esclama, illuminandosi. «Anche se sareste una coppia un po’ strana: insomma, tu sei vecchio» constata con una smorfia, all’indirizzo di Mycroft. Questi, al contrario di Greg, che assomiglia ad una teiera pronta a fischiare, non si scompone e sospira.
«Crescere con Sherlock lascia i suoi segni…»
Si volta verso la porta, facendo ondeggiare l’ombrello all’avambraccio.
«Di’ a Sherlock, per favore, che si occupi del caso Von Bork e dei suoi pesci rossi.»
«Signorsì signor capitano!» esclama lei, portandosi una mano alla fronte. Greg sorride e le scompiglia i capelli, ancora piuttosto rosso intorno al collo e alle orecchie.
«Devo andare anche io, piccola peste. Non combinare guai. E sta attenta a quello che dici» l’ammonisce benevolmente, abbassandosi alla sua altezza per guardarla negli occhi.
«Io dico la verità!» protesta la bambina. Lui scuote la testa sorridendo, dirigendosi verso la porta.
«Salutami Sherlock e John, anche da parte di Molly.»
Amanda annuisce. Quando la porta si richiude, zampetta di verso la libreria, chiedendosi dove siano questi pesci rossi.
 
~~~
 
«Greg era passato per dei denti.»
«Chi?»
John rotea gli occhi.
«Greg Lestrade
«Oh, già. Me li ha procurati Molly, devo metterli in quella soluzione acida per studiare che effetti ha il…»
«Ceniamo insieme?»
Sherlock si blocca. Sposta gli occhi verso John, il resto del corpo paralizzato.
«Cosa?»
John si stringe nelle spalle, le mani dietro la schiena, e gli rivolge un sorriso affabile.
«Ceniamo insieme. Da Angelo. Il caso è risolto. A Mrs Hudson non dispiacerà badare ad Amanda un altro paio d’ore: la adora.»
«Oh.» Sherlock annuisce, sentendosi improvvisamente stupido. A cosa diamine aveva pensato. «Certo.»
 
~~~
 
Amanda analizza con occhio critico il suo lavoro. Le proporzioni sono giuste, i colori anche, il chiaroscuro ben fatto… Oh, a Sherlock manca un braccio.
Si affretta a rimediare al suo errore, lanciando un’occhiata a Mrs Hudson, che smanetta con pentole e fornelli, canticchiando. Torna al suo disegno, sul retro di uno spartito: – spera Sherlock non si arrabbi, ma non c’era altra carta in giro – su uno sfondo multicolore, Sherlock, papà e lei nel mezzo.
Amanda non è un’esperta di relazioni interpersonali, ma conosce un po’ di biologia e sa che i bambini nascono da un uomo e da una donna – niente cicogne, Sherlock è stato chiaro a riguardo – e nel suo disegno una donna non c’è. Perché Amanda non ricorda nessuna donna che non sia Mrs Hudson o Molly, e nessuna delle due è la sua mamma. Ha conosciuto anche una strana donna con un bel nome, un rossetto rosso e un profumo molto buono, che sembrava essere molto amica di Sherlock e poco di papà, ma neanche lei è la sua mamma.
Non sa molto di lei – papà si arrabbia se Amanda fa domande sulla mamma. Ha soltanto una favola, che Sherlock le ha raccontato quella mattina, quando papà era uscito.
Inizia con c’era una volta, come tutte le favole, ma non finisce con vissero per sempre felici e contenti, perché è una favola vera.
 
~~~
 
«Mi dispiace. Abbi cura di loro.»
Le ultime parole, sussurrate a fior di labbra, in un viso calmo, sereno – tutto sommato, si fidava, si era sempre fidata.
«Mary…»
Una preghiera.
«Mary!»
Una supplica.
I grandi occhi chiari spalancati come pozze di cristallo.
«Cardenio
3-1-18-4-5-14-9-15: la chiave.
«NO!»
Silenzio.
 
~~~
 
Gli occhi di Sherlock erano distanti, come velati, mentre le raccontava le vicende di una coraggiosa Fata che aveva finto di parteggiare con il Mago cattivo per proteggere coloro che amava, combattendo in prima linea con un Cacciatore di Draghi e il Capitano dei Centauri; le labbra tese mentre descriveva gli ultimi istanti di una partita sanguinosa che era durata troppo a lungo e non aveva lasciato né vincitori né vinti. Alla fine aveva deglutito, la fronte corrugata, come chi cerchi di scacciare dalla bocca il sapore amaro di una medicina.
Amanda, seduta in grembo a lui, aveva reclinato la testa sul suo petto, in una posa che le era usuale, ormai.
«Perché papà non ne parla mai? Se la mamma era coraggiosa, perché non ne parla mai?» aveva chiesto la bambina, con un filo di voce. Sherlock l’aveva circondata con un braccio, strofinandole la schiena.
Come spiegarle tutte le aggrovigliate oscure vicissitudini che avevano preceduto e seguito la sua nascita?
Mary aveva fatto il doppiogioco sin dall’inizio, cambiando bandiera in corso d’opera, finendo per passare dalla parte degli angeli insieme a Sherlock; era stata punita.
Tom Butcher, figlio non riconosciuto di Lord Moran, braccio destro di Moriarty, ex-fidanzato di Molly Hooper, aveva eseguito la sentenza; la vendetta immediata di John non aveva consentito di capire per conto di chi avesse agito.
Moriarty rimaneva un’incognita che avrebbe perseguitato Sherlock fino alla fine dei suoi giorni, vivo nella sua mente, immortale doppio della sua anima.
John aveva odiato Mary, i primi tempi, non aveva nemmeno visitato la sua tomba, doppiamente tradito. Poi era giunto il perdono, le lacrime, un silenzio e una solitudine impenetrabili; solo Sherlock, ogni tanto, riusciva a fare capolino in quelle tenebre, per pochi, fugaci istanti. E poi, lentamente, giorno dopo giorno, la luce era ritornata nella vita di John, man mano che i ricordi e il dolore sbiadivano, e sorridenti sprazzi di presente avevano la meglio: il primo giorno di scuola di Amanda, un folle caso in cui si erano portati dietro la bambina, un assurdo Natale a casa Holmes, con tanto di Greg, Molly e Wiggins. E John si era riaffacciato alla vita.
Dopo un silenzio troppo lungo, Amanda si era offerta di preparargli una tazza di tè. Sherlock aveva aggrottato le sopracciglia.
«Papà prende sempre il tè quando è triste. Io lo so che non ha senso perché non c’è la setonina perché sta nel cioccolato…» aveva spiegato lei, stringendosi nelle spalle.
«Serotonina, non setonina» l’aveva corretta lui. Lei aveva fatto un gesto stizzito con la mano.
«Dettagli irrilevanti.»
Sherlock l’aveva sorpresa avvolgendola in un abbraccio – quand’è che avesse iniziato ad elargire abbracci a creature in miniatura comodamente acciambellate sul suo grembo era ancora da stabilire.
 
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John non ha spostato la candela, stavolta. Sherlock non riesce a smettere di fissarla.
Effettivamente è un po’ presto per l’ora di cena, sono appena le sei, il locale è semivuoto –chissà cosa è preso a John.
«Ottime le lasagne» bofonchia John, la bocca piena. Sherlock mugugna il suo assenso, assorto, le lasagne appena toccate.
«Sherlock, non puoi continuare a non mangiare niente, capisco che la tua dieta fosse diversa, ma per una volta che non cucino io e il cibo è più che commestibile…»
«Tu non cucini male» lo interrompe Sherlock, serio. John fa un piccolo sorriso, scuotendo la testa.
«Meglio del take-away.»
«Oh, grazie» fa John, sarcastico, guadagnandosi un piccolo sorriso mentre l’altro si porta una forchettata alle labbra.
«È stasera, non è così?» domanda Sherlock di punto in bianco, dopo qualche istante di silenzio. John solleva lo sguardo.
«Mary» chiarisce, anche se non ce n’è bisogno. John annuisce, abbassa gli occhi.
«Sei anni oggi.»
Rimangono in silenzio; la candela brucia tutto l’ossigeno fra loro e a Sherlock sembra difficile respirare.
«Sarebbe così fiera di Amanda…» John prende un sorso di vino, gli occhi lucidi. «Sai, a volte mi chiedo dove abbiamo sbagliato, se avremmo potuto fare le cose diversamente, se avrei potuto salvarla, nonostante tutto…»
«Hai ucciso Butcher: hai salvato tutti noi.»
«Lei ha salvato tutti noi: se non avesse capito il collegamento, il codice… Credevo fosse al sicuro con Amanda, invece lei era con Mycroft e… Ci stava aiutando da lontano. Doveva dirlo ad alta voce, non poteva uccidere un uomo a cuor leggero, non più, lei…»
«Smettila, John.»
«è colpa mia, Sherlock…»
«Ho detto smettila.»
John rialza lo sguardo verso di lui. Piange. Anche Sherlock è scosso: ha serrato le dita intorno alla forchetta e stretto la mascella. Il suo senso di colpa è sconfinato, John non può neanche immaginare.
«Mi dispiace, io… Cambiamo argomento, scusa» dice John, facendo un gesto vago con la mano, prendendo un altro sorso di vino.
«Parlarne non ha più senso, lei…»
«Lo so, lo so, appunto, noi… Basta. Parliamo d’altro» mormora John, schiarendosi la gola.
Rimangono entrambi in silenzio per un po’.
«Amanda mi ha chiamato “pa’” l’altro giorno. Suppongo stesse per “papà”» racconta Sherlock, in tono apparentemente casuale. John saetta lo sguardo verso di lui.
«Lo faceva anche quando era più piccola, ma le ho insegnato subito a chiamarmi “Sherlock”: non volevo… si confondesse.»
I suoi occhi incontrano quelli di John; la luce della candela impallidisce a confronto.
«Non pensavo avrei mai detto una cosa del genere, ma…»
È il momento, non può più tirarsi indietro, ha rimandato troppo a lungo. Si è gettato, non si torna indietro (ha una paura folle, è terrorizzato) (lui non conosce l’amore, i sentimenti li ha sempre fuggiti, non li capisce, li teme, ha conosciuto soltanto il dolore che ne è derivato).
Gli occhi di John sono come il sole, fanno male, eppure non riesce a separarsene.
«Amanda è come una figlia per me. Ovviamente non posso sostituire Mary, ma lei non c’è. Ha dato la vita per noi, John. Io…»
Sarebbe bello che continuasse a chiamarmi “pa’”.
Fa un grande respiro. Sono così tante le cose che vorrebbe dirgli, le tiene dentro da anni, e ora sono tutte lì, sulle sue labbra, pronte a uscire fuori, ma gli occhi di John tremano alla luce della candela, lui rivede il sorriso di Mary e le parole battono in ritirata: non ancora. (Forse, un giorno. Per ora va bene così.)
John rimane in silenzio a lungo, abbassando gli occhi. Ripensa improvvisamente a quando l’ha conosciuto, ai sentimenti senza nome che ribollivano nel suo petto, che metteva a tacere nel silenzio della notte, alla voragine in lui dopo la caduta, alla burrasca tumultuosa quando l’ha rivisto. Quando parla, la voce è un po’ roca.
«È una bambina intelligente, non è vero?»
Sherlock sorride – anni e anni in quel sorriso.
«Tutta sua madre.»
John abbassa lo sguardo sulla sua mano, ed è come se le imponesse di muoversi solo guardandola. La mano si solleva e va a posarsi su quella di Sherlock, abbandonata accanto al piatto. Prima esitante, poi acquistando via via più ardore, la mano del detective freme e si gira sotto quella del dottore. Con una naturalezza sorprendente, le due mani si stringono, come se non avessero fatto altro tutta la vita.
E solo allora hanno entrambi il coraggio di guardarsi negli occhi, finalmente, nella luce abbagliante della verità, che era sempre stata lì, sin dall’inizio.
Impetuosamente, si alzano entrambi, incuranti dello stridere delle sedie e dei bicchieri traballanti, del generale frastuono del mondo, e si aggrappano l’uno all’altro in un abbraccio che sa di disperazione, perdono e attesa. John seppellisce il viso nel petto di Sherlock, come aveva osato sperare di fare tanti e tanti anni prima; Sherlock tiene le testa di John ferma lì, vicino al suo cuore, come non ha mai cessato di sperare.
 
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«Ah, Molly si è superata: denti nuovi di zecca. Beh, tecnicamente non sono nuovissimi… Dovrò procurarle due entrate al compleanno del marmocchio reale della prossima settimana, sembra apprezzare questo genere di cose…»
«Sturati bene le orecchie: guai a te se uno di quei denti arriva anche solo vicino al frigorifero, il microonde, il forno o…»
«Veramente pensavo alla caldaia.»
«Non puoi dire sul serio.»
«Papà, posso giocarci anch’io?»
«NO!»
«Io non ci gioco
John e Sherlock si voltano contemporaneamente l’uno verso l’altro. Amanda sbatte le palpebre.
«Bisogna trovare due nomi, avete ragione. Allora, tu sei papà» proclama, indicando un basito John. «E tu babbo, perché non sei il mio papà blologico» continua, rivolta a Sherlock.
«Biologico» la corregge lui con calma, tornando ad ispezionare il contenuto della scatola di Molly. Lei fa un gesto annoiato con la mano.
«Dettagli irrilevanti.»
Sherlock nasconde un sorriso, poi prende in braccio la bambina e la solleva in aria, facendola volare e volteggiare per la stanza; lei strilla deliziata e John li osserva dallo stipite della cucina.
Sherlock raggiunge il caminetto e qualcosa attira la sua attenzione, perché si ferma all’improvviso.
«Ha toccato il teschio. Amanda, hai giocato con Billy?» indaga, duro.
«No» mente la bambina, arrossendo.
«Devi migliorare la tua recitazione, ti chiederei di prendere lezioni dallo zio Mycroft se non fosse che poi dovrei vederlo anch’io» commenta Sherlock. Tende le braccia e lascia la presa sulla bambina, che cade sulla poltrona di John con un gridolino sorpreso.
«Sherlock!» lo rimprovera allarmato John, accorrendo a controllare che Amanda stia bene. «Che diavolo hai, poteva farsi male…»
Sherlock lo ignora e si volta verso la bambina con le mani sui fianchi.
«Ti ho detto centinaia di volte che non devi giocare con quel teschio…»
«Oh, per l’amor del cielo, Sherlock, è solo un teschio…» tenta John, troppo felice per mettersi a discutere con Sherlock.
«Era mio amico!»
«Oh, ma per favore…» ride John. Sherlock scuote la testa, arraffando un foglio dimenticato sulla sua poltrona.
«E hai anche disegnato sui miei spartiti, non avevo finito di comporre…» poi però volta il foglio e smette di brontolare. John lancia un’occhiata da sopra la sua spalla e sorride. Poi si china e prende Amanda in braccio.
«Dì scusa al babbo» le chiede. Sherlock sente il cuore fare un balzo (deve smetterla con questa cosa delle metafore, lui è un uomo di scienza, per la miseria).
Amanda esibisce una faccia contrita.
«Scusa, pa’. Posso ancora giocarci con i denti?»
«Certo, domani mattina.»
«Sherlock!»
Sua figlia ride – ricorda tanto Mary – e anche Sherlock sorride – uno di quei suoi sorrisi che sono come squarci del cielo dritto nel cuore di qualche stella.
John non sa cosa succederà domani, chi saranno lui e Sherlock d’ora in poi. Può farsi qualche idea, nulla più, ma è fiducioso. Le cose non andranno sempre bene e i guai non tarderanno a bussare al 221b, come al solito, ma adesso ha Sherlock, ha Amanda: non ha bisogno d’altro.
John chiude gli occhi in un sorriso e nell’animo di Sherlock suona una sinfonia: mai più silenzio d’ora in poi.
 
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It was worth a wound; it was worth many wounds; to know the depth of loyalty and love which lay behind that cold mask.
A. C. Doyle, The Adventure of the Three Garridebs
 
Fine
 
 
 







Siamo arrivati quaggiù, e mi sento quasi emozionata. 
Un enorme grazie a chi legge, segue, preferisce: siete un'enorme stimolo ad andare avanti e migliorare! Un grazie un po' più grande ad H., che si sorbisce tutte le mie bozze, paranoie, piani malvagi, e _Koa_, che mi ha lasciato bellissime recensioni che mi hanno spinta a mettere in discussione la storia e portarla ad un livello un po' più alto. Grazie a Wilde, insperata fonte d'ispirazione.
Spero di non aver deluso nessuno con questo capitolo, l'ho scritto almeno sette volte nel corso degli ultimi quattro mesi. Per qualsiasi dubbio, non esitate a chiedere.
A presto, spero!
Buon Natale!
-Clock

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