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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Premessa: un avvertimento *** Capitolo 2: *** 20. L'ingrediente speciale *** Capitolo 3: *** November 8 (Sunday) *** Capitolo 4: *** November 8/9 (Sunday/Monday) *** Capitolo 5: *** 19. La paura *** Capitolo 6: *** November 9 (Monday) ***
“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
PREMESSA:
“un avvertimento”
Weiß volle essere
sincero con lui: «È una scelta inutile, la tua.»
«Ti sbagli» ribatté Cédric.
Sospirò, rassegnato dalla sua
testardaggine.
«Come fai a sapere cosa c’è dopo la morte?
Qualcuno è tornato per raccontartelo?» Il tono era sarcastico, acido, pungente
e Weiß ne era disgustato.
«È così. Devi fidarti di me.»
«Quindi finiamo tutti in un posto e poi
veniamo smistati? I cattivi tra le fiamme e i buoni tra le nuvole?»
«Certo che no! Non ti ho mica detto di
credere a quei luoghi comuni!»
Che idioti, penso Weiß, non hanno
capito nulla! L’albino si massaggiò la fronte con aria avvilita, tenendo
gli occhi chiusi. Poi riprese: «Gli uomini non vengono puniti o premiati in
base al loro comportamento. Quando il loro corpo muore l’anima è destinata a
reincarnarsi, scegliendo la vita successiva in base a ciò che deve ancora
imparare per raggiungere la pace interiore.»
«E poi? Quando si raggiunge questo equilibrio?
Quando non si ha più nulla da imparare, cosa succede dopo questo?»
Weiß si strinse nelle spalle.
«Non sono sicuro di aver capito cosa
c’entri questo con il mio… Con la mia intenzione di… suicidarmi.»
Disse quell’ultima parola con difficoltà.
Non era ancora pronto. Meglio così, pensò Weiß.
«È semplice: hai ancora molto da imparare
in questa vita, che tu ci creda o no.»
«E se io non volessi? Ho imparato
abbastanza, non voglio sapere più nulla.»
«Non puoi abbandonare questo gioco: quando
una persona muore non fa altro che cambiare storia.»
«Bene, perché questa mi ha già stancato.»
«E se fosse peggiore di quella attuale?»
ipotizzò l’uomo interamente vestito di bianco, e per un attimo Cédric ebbe l’impressione di aver visto una luce minacciosa
nel suo sguardo.
«Tentar non nuoce» rispose con voce
tremante.
«È solo uno stupido detto» la sua voce e la
sua espressione erano diventati altezzosi, arroganti.
«Ma almeno potrò dire di aver tentato!»
Weiß si alzò, non aveva altro da dirgli.
Raggiunse la porta e, prima di andarsene, sussurrò: «Non potrai scappare per
sempre.»
Chiuse la porta e non tornò mai più.
Forse avrebbe dovuto dirgli che i suicida
son costretti a rivivere la vita che hanno cercato di evitare.
“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
20. L’ingrediente
speciale.
Bussò alla sua porta con mano
tremante, sentendo una o due gocce di sudore scivolargli lungo la fronte. Era
davvero pronto? La sua anima impura avrebbe trovato pace o ne sarebbe rimasta
macchiata per sempre?
Chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e bussò ancora.
Finalmente lei
venne ad aprirgli. Non l’aveva mai vista
prima d’ora, ma qualcosa nel suo sguardo gli fece capire che era quella giusta.
Forse fu merito dell’ombra di rassegnazione che le incupiva le iridi verdi, o
magari dell’accenno di paura riflesso nelle pupille scure.
Si fece audace e chiese: «Sono arrivato in ritardo?»
Lei scosse la testa, ma non osò proferir parola; imbarazzata, abbozzò un
sorriso di cortesia e lo invitò ad entrare. Il giovane avanzò di qualche passo,
sentendo la porta chiudersi alle sue spalle, e istintivamente si lasciò
sfuggire qualche commento sul grazioso arredamento, intavolando una discussione
banale che sfociò in argomenti altrettanto miseri come le terribili condizioni
climatiche e le ultime news della BBC. Cosa l’aveva spinto a perder tempo con
simili convenevoli quando era giunto lì per tutt’altro scopo? La paura, l’indecisione… Gli stessisentimenti che attanagliavano la mente di lei. Il giovane non sapeva come agire, non aveva preparato un discorso –
credendo di avere buone capacità di improvvisazione – e ora si trovava lì, a
contemplare i quadri appesi alle pareti del salotto mentre la povera ragazza
attendeva, impaziente, un qualche segnale di salvezza da parte sua. Aveva
elaborato un piano piuttosto semplice ed efficace, lavorando esclusivamente
sulla parte tecnica, mentre aveva trascurato del tutto il modo in cui avrebbe
dovuto esporre i suoi pensieri a Alice. Eppure lui era sempre stato bravo a
consolare amici e conoscenti. Avrebbe dovuto pensare a cosa dire in questa
situazione, invece si sentiva come un alunno che si era limitato a ripassare
distrattamente la sera prima dell’interrogazione senza aver realmente studiato
la lezione. Nessuno in queste condizioni avrebbe potuto prendere una A.
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime, le labbra contratte in una
smorfia e le mani artigliate alla camicia di lui, che sobbalzò a quel contatto
inaspettato.
«Alice?» mormorò cauto, voltandosi per asciugarle il viso.
«Mi dispiace, mi dispiace…» continuava a
ripetere tra i singhiozzi, rischiando di soffocarsi per l’impeto con cui
piangeva. «Ti prego,» lo implorava «ti prego, aiutami…»
«Ti preparo un tè, così ne discutiamo con calma, va bene?» La sua voce
era melliflua e calda, impossibile opporsi.
La fece accomodare su una delle poltrone disposte di fronte al
televisore e si avventurò nel corridoio alla ricerca della cucina; quando il tè
fu pronto si premurò di aggiungere quell’ingrediente indispensabile per
l’occasione, poi portò la tazzina fumante ad Alice e si accomodò accanto a lei,
che gli sorrise con innocente riconoscenza. Basandosi sulle consuete leggi
morali prefissate dalla società, qualcosa gli suggeriva che avrebbe dovuto
provare sentimenti di vergogna, un moto di colpevolezza, invece non sentiva
nulla. Assolutamente nulla.
Alice – mentre il tè si raffreddava – gli parlò dei suoi problemi, della
sua vita disgraziata, della madre che non la capiva, del bambino che non
sarebbe mai arrivato, dell’enorme vuoto che provava…
Poi dopo aver ringraziato ancora una volta il giovane per la sua disponibilità,
sorseggiò il tè tra le lacrime, ma il sapore della bevanda fu accompagnato da
un retrogusto acido ed un insopportabile bruciore all’esofago – e in quel
momento lui si domandò se non si fosse accorta
dell’odore di mandorle. Il giovane le tenne una mano dietro la testa e con
l’altra la costrinse a finire la bevanda, spingendo con forza la tazzina contro
la bocca dischiusa. Dopo un primo tentativo di ribellione il corpo di lei si
adagiò esanime sullo schienale della poltrona, pendendo da un lato con lo
sguardo vitreo rivolto verso il nulla. Sorpreso dalla velocità con cui era
avvenuto il tutto, si concesse un attimo per osservarle le labbra corrose, poi
si accertò che fosse morta.
Niente battito.
Fino a quel momento la sua mente non aveva realizzato cosa stava
accadendo e la consapevolezza di averla uccisa lo colpì con una fitta al petto,
come un fastidioso dolore intercostale. Aveva preannunciato una reazione
devastante, invece si sentiva più calmo di quanto avesse potuto immaginare,
eppure il presentimento di aver dimenticato qualcosa lo tormentava. E se si
fosse risvegliata? Impossibile, era morta! Libera da ogni vincolo e
responsabilità, libera dalle bugie e dalla sofferenza. Un limbo di pace e
silenzio l’attendeva, proprio come nei suoi sogni.
Tentò invano d’ingoiare il groppo che gli si era formato in gola,
impedendogli di respirare regolarmente, e proseguì con simulata sicurezza versò
l’uscio, ma prima di varcare la soglia un antiquato oggetto catturò la sua
attenzione: un giradischi. Lo esaminò qualche istante, poi diede un’occhiata
alla pila di dischi sul mobile a fianco e ne scelse uno: “La gazza ladra”, uno
dei suoi brani preferiti. Perché lo fece, tuttora non saprebbe dirlo con
certezza, ma di fronte alla buona musica non sapeva fermarsi, ne era attratto
come un insetto dalla luce.
Qualcuno prima o poi se ne sarebbe accorto. I vicini avrebbero sentito
il tanfo del cadavere una volta che il corpo avesse cominciato a decomporsi; i
colleghi avrebbero fatto caso all’assenza prolungata di Alice dal lavoro e la
madre non avrebbe ricevuto alcuna risposta alle sue chiamate, lasciando
messaggi preoccupati alla segreteria telefonica. Ma la teoria del suicidio era
piuttosto credibile, doveva solo sperare che nessuno si fosse accorto della sua
presenza in quel palazzo.
Prima di lasciare l’appartamento posò una lettera blu e un fiore di
campo sul tavolo.
“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
November 8
SUNDAY
Diventò
amico di Heinrich per mera fortuna o fu
un complesso artificio del causalismo?
Quando Peter si trasferì in Inghilterra era
equipaggiato di buone intenzioni, voglia di cambiare e un’abbondante dose di
speranza. Null’altro se non tanti umili sentimenti che miravano a cause
lodevoli come l’adempimento della virtù nella propria vita e la pace nel mondo.
Lui era fatto così.
Aveva deciso che sarebbe tornato in
Inghilterra perché era da lì che venivano i suoi bisnonni, due giovani
coraggiosi che avevano deciso d’imbarcarsi – con tutti i rischi che questo
comportava – in un’avventura verso il Nuovo Mondo alla ricerca di ricchezza e
fortuna. Non si aspettava di essere ben accolto in quella che sarebbe divenuta
la sua nuova patria, ma confidava nel suo temperamento tranquillo e socievole per
stringere presto delle nuove amicizie che lo avrebbero aiutato durante il nuovo
capitolo della sua vita. E così fu. Prima ancora di giungere a Londra fece la
conoscenza di un ragazzo che divenne uno dei suoi amici più fidati: era il suo
compagno di viaggio, Heinrich, un giovane violinista di
ritorno da uno spettacolo tenutosi a New York. Parlava un inglese molto
personale, lento e cantilenante, ma con la cadenza tipica di uno straniero e un
lieve accento che svelava le sue origini. Si era trasferito a Londra da Luzern perché “l’aria inglese lo rendeva più ispirato” – così
gli aveva confidato – e aveva preso alloggio in una piccola villa in periferia,
mentre Peter si era limitato ad affittare una modesta casetta a schiera in una
delle tante vie della città.
«È così suoni il violino, eh?» domandò
Peter, nel disperato tentativo di dimenticare i chilometri che lo speravano
dalla terra ferma. «Dev’essere difficile.»
«Quando si ama qualcosa nulla è impossibile!»
L’americano sorrise alle sue parole. Era la
prima volta che lo incontrava, ma gli stava già incredibilmente simpatico:
tutto in lui irradiava innocenza, bontà e un eccessivo ottimismo, uno di quei
caratteri socievoli dei quali è difficile diffidare. In un certo senso si
potrebbe dire che si somigliassero.
Dopo aver trascorso quasi otto ore di volo
insieme dovettero separarsi all’aeroporto, ma il violinista insistette affinché
si scambiassero i numeri di telefono per tenersi in contatto; così, anche se
non era un grande intenditore di musica classica, Peter finì per assistere a
diversi dei suoi spettacoli e rafforzare il loro legame di amicizia. Heinrich gli presentò alcuni dei suoi amici più intimi per
integrarlo nel gruppo e farlo sentire meno solo: quando si alloggia in una
nuova città e non si conosce nessuno ci si sente un po’ spaesati, e Peter era
stato tanto buono e gentile con lui che non meritava una simile sfortuna.
***
Uno
scroscio di applausi instancabili annunciò la fine dello spettacolo e tutti i
musicisti s’inchinarono di fronte al pubblico entusiasta. Heinrich
fece volare lo sguardo sui presenti, cercando il gruppo di amici che avevano
promesso di assistere alla sua esibizione; a volte si sentiva come un bimbetto
durante il giorno della recita. “Dove sono la mamma e il papà? Non sono venuti
a vedermi?”.
Il
sipario si chiuse e lui poté raggiungere Peter, Franklin, Gregor, Edward e… Dov’era Mark?
«Ehi,
Wolfie!» esultò Frank, un ricco avvocato marpione dal sarcasmo facile. «Sei
stato fantastico!». Frank adorava affibbiare nomignoli e quello di Heinrich fu uno dei più semplici: aveva deciso di chiamarlo
Wolfie per le sue prodigiose abilità sinfoniche e il
suo amore incondizionato per le opere di Mozart.
«Grazie, grazie mille, sono felice che siate venuti.»
«Figurati, a noi fa sempre piacere» lo rassicurò Edward.
«Su, tutti al bar, offre la casa!» esclamò
Gregor, incoraggiandoli a seguirlo con un gesto ripetitivo del braccio, come se
quello bastasse a radunarli tutti e trascinarseli dietro.
Era tarda sera e capirono di essere vicini al
bar quando cominciarono a sentire odore di ciambelle fritte e brioche calde. Il loro profumo era talmente forte e inebriante che
perfino i passanti, sentendolo, entravano per ordinarne una; Gregor, dopo
averle sfornate, ne teneva qualcuna vicino la finestra che affiancava
l’entrata, in modo da diffondere la dolce fragranza anche al di fuori del
locale.
Gregor salutò i colleghi e si fece spazio
nel retro del bancone, prendendo una cassetta di birra e diversi bicchieri di
vetro; mentre gli altri bevevano, Frank non era riuscito a placare la fame e
cedette alla tentazione di comprare una terza brioche, sotto lo sguardo
nauseato di Peter che – tra le altre
cose – era famoso per avere lo stomaco piccolo quanto una ciliegia.
«Ehi, Frankie-Frank, siamo venuti qui per
bere, non per mangiare!» lo rimproverò scherzosamente Gregor.
«Ma sono così buone…!
Questa è l’ultima, poi basta, promesso.»
Il giovane sorrise e riempì per l’ennesima
volta i bicchieri di tutti con della birra fredda; brindarono per la
meravigliosa esibizione di Heinrich e poi brindarono
ancora, perdendosi in sproloqui sulla musica, sulle brioche, sulla libreria di
Edward e sulle pessime abitudini di Frank. Poi Heinrich
si fece audace e domandò: «Come mai Mark non è venuto? Sta bene?»
«Era andato a trovare Agnes e Morgan. È
tornato stamattina e ha detto di essere troppo stanco per venire» rispose
Peter.
«Dove
vivono?» intervenne Frank, l’impiccione della combriccola.
«In
Svezia.»
«Ma
sono solo due ore di volo!»
Peter si passò una mano tra i capelli scuri e
si strinse nelle spalle con aria mortificata, neanche fosse stata colpa sua.
«Ho fame» li interruppe Gregor. «Vi va una
pizza?»
«Ma è
mezzanotte…» protestò Edward.
«Oh,
sì, una bella pizza, mi è venuta un’idea!» esclamò l’avvocato. «Peter, vieni
con me! – voi rimanete qui.»
«Frank, ma che cosa…»
Troppo tardi, l’amico era già uscito dal locale. «Ehi, aspetta!»
“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
November 8/9
SUNDAY/MONDAY
Arrivato a
casa, la prima cosa che fece fu controllare la segreteria telefonica. Non
frequentava molta gente, ma quelle poche persone che conosceva, per motivi a
lui oscuri, ritenevano opportuno intasargli il telefono con i loro stupidi
messaggi. Si sedette su una sedia della cucina e ascoltò:
“Mark, ciao, sono
io, Peter. Volevo chiederti se oggi ti andava di venire allo spet-tacolo di
Heinrich. Chiama, se vuoi.”
Sono
troppo stanco, magari un’altra volta.
“Salve, signor Williams! Sono la signora
McGravy, la vicina! Dei parenti mi hanno portato delle mele buonissime e volevo
dargliene un po’. Lei è sempre così stanco che un po’ di frutta le farà senz’altro bene!”
Quella
vecchietta è davvero adorabile…
“Ehi, Marcolino,
come va? Sono Frank. Volevo dirti che ho sistemato quelle scar-toffie che mi
avevi dato. Se vieni allo spettacolo poi ne parliamo con calma… Ma so che non lo
farai. A lunedì!”
Già.
Non verrò. Allora perché me lo chiedi?
“Ciao papà, sono
Morgan. Qui tutto bene, mamma è felice perché finalmente è riu-scita a far
fiorire il pesco. Voleva ringraziarti per essere venuto e dirti che hai
dimenti-cato un cappello: te lo spedisce o puoi farne a meno fino alle prossime
vacanze? Ciao.”
Chi se
ne frega del cappello…
Staccò il filo del
telefono con uno strattone e andò a farsi una doccia; passando dal soggiorno vide
che Lù – un meticcio che tempo prima aveva trovato
all’incrocio di casa sua – si andava ad accucciare sul divano, cercando di
coprirsi alla bell’e meglio con una coperta scovata chissà dove.
Stare sotto il getto dell’acqua calda lo
rilassava, come se quello bastasse a ripulirlo da tutti i pensieri e le energie
negative: era uno dei pochi metodi che conosceva per calmarsi e placare la
rabbia che gli avvelenava il sangue.
«Lù, vieni qui!» gridò dal bagno, poggiando
la fronte contro la superficie fredda e liscia della doccia mentre un’infinità
di gocce d’acqua gli scivolava lungo il corpo. Ancora gli doleva la guancia
dove Agnes gli aveva dato uno schiaffo quando lui, in un nostalgico slancio di
affetto, aveva cercato di baciarla su un angolo delle labbra.
Il cane corse subito da lui, aprendo a
fatica la porta della stanza con il muso e le zampe anteriori.
«L’accappatoio. Prendi l’accappatoio, Lù.»
L’animale lo fissò qualche istante, poi il
padrone lo vide sparire nel corridoio.
Aveva solo un anno e da qualche tempo Mark
avevo preso l’abitudine di portarlo da un ragazzo che si divertiva ad
insegnargli alcuni giochetti, come stare dritto su due zampe o riportare gli
oggetti; lo aveva incontrato al parco, mentre portava Lù a sgranchirsi un po’
le zampe. Andrew – così si chiamava – era un eccentrico e distratto ragazzino
dai luminosi occhi verde acqua e i capelli viola (“È pervinca, non viola!”,
continuava a ripetere, ma per Mark le graduazioni dei vari pigmenti si limitavano
ai colori primari e secondari).
«Oh, l’hai portato davvero,» constatò
sorpreso quando vide il cucciolo spuntare con l’accappatoio tra le zanne.
«bravo!» Gli accarezzò la testa e attese che uscisse, invece la bestiola rimase
lì, a fissare il padrone in attesa di una ricompensa. «Ok, bravo. Sei stato
molto bravo, ma ora devi uscire, su, va’ via.»
L’uomo agitò una mano in direzione della
porta, ma il cane rimase immobile. Rassegnato, Mark uscì dalla doccia e si
avvolse nel morbido accappatoio di tela. Non perse tempo ad asciugare i corti
capelli scuri, arrancando fino in camera da letto per cercare qualcosa da
mettersi. Dopo un’attenta analisi ad un mucchio di vestiti sulla sedia vicino
all’armadio, scelse d’indossare una vecchia tuta dall’aspetto vergognoso,
consumata e di una taglia più grande del dovuto. Quindi si mise davanti lo
specchio, fissando il suo riflesso con aria assente, poi si tastò il viso ed
imprecò contro le occhiaie. Aveva un aspetto orribile, stanco e trascurato, ma
non se ne badava più del dovuto, vivendo un’esistenza dissoluta in cui l’unica
cosa degna di attenzione era il lavoro.
Più tardi, quando si sorprese a girovagare
per casa senza nulla da fare, decise di andare a dormire. Si distese sul letto,
sotto le coperte calde, fissando le crepe nel soffitto (erano così tante che,
durante le notti insonni si divertiva ad associarle alle costellazioni). Lù
venne subito ad accucciarsi accanto a lui, sollevando le lenzuola con il muso
per poimettersi con la testa sul cuscino
e la schiena contro il braccio sinistro del padrone; chiuse gli occhi e
dimostrò la sua approvazione con un versetto acuto e inarticolato,
addormentandosi poco dopo. Mark sentiva la cassa toracica dell’animale
gonfiarsi con regolarità mentre lui s’intratteneva contando le pecore: una
volta arrivato alla numero settecentono-vantanove si rese conto che, invece di
cominciare a contare le decine successive, ripartiva da seicento, ritornando a
settecentonovantanove per ripetere l’operazione errata ancora una volta, finché
non perse il conto e decise di mandare al diavolo quelle stramaledettissime
pecore. Innervosito da quella sciocca faccenda, si alzò; il cane si destò anche
lui, lanciandogli un’occhiata infastidita. Il moro presi un taglierino nascosto
tra i vestiti della cassettiera e lo analizzò alla luce della piccola lampada
sul comodino, seduto sul bordo del letto, mentre con mano tremante ne
accarezzava la lama affilata. Il cane scostò le coperte per raggiungerlo,
incuriosito da quell’oggetto luccicante; si rannicchiò vicino al padrone,
poggiando il muso sulla sua coscia e stette in silenzio, con gli occhietti
marroni fissi sulle mani dell’uomo, che premette la punta della lama sul
pollice finché non lo vide arrossarsi; spostò il taglierino verso il basso,
lasciando un piccolo taglio sul polpastrello. Osservò il sangue raggrumarsi
sulla superficie e poi colare lentamente lungo il dito. Rimase lì, fermo,
guardando quell’inutile spettacolo senza alcun intento apparente.
Mark possedeva un carattere iracondo, il
suo corpo era come un involucro di rabbia compressa, pronto ad esplodere ogni
volta che si apriva uno spiraglio; si alterava per le ragioni più frivole ed
ogni problema gli suscitava una voglia irrefrenabile di distruggere tutto ciò
che lo circondava. Frank l’aveva soprannominato Hulk, ma utilizzava quel
nomignolo di rado per timore d’innervosire l’amico. Occasionalmente gli
capitava di ripensare a tutti gli errori commessi nella sua vita, a tutte le
persone che aveva fatto soffrire, tutte le volte che aveva picchiato Peter,
l’unico che gli era sempre stato a fianco, che non l’aveva mai abbandonato
neanche nei periodi più bui; gli capitava di pensare ai litigi con Agnes, al
piccolo Morgan che lo guardava spaventato e al giorno in cui perse tutto ciò che
aveva. In quei momenti provava un moto di repulsione per sé stesso e desiderava
punirsi per ogni sua azione sconveniente.
Stava posizionando la lama sul palmo della
mano, quando Lù gli diede un colpetto sul braccio, come ad intimargli di
smettere. Mark gli accarezzò distrattamente la testa e posò il taglierino dove
l’aveva preso, macchiando accidentalmente di sangue una maglietta conservata
nello stesso cassetto. Leccò il polpastrello per pulirlo, facendo un salto in
cucina per saccheggiare il frigorifero (forse il cibo l’avrebbe distratto da
quei tristi pensieri). L’aprii, guardò dentro senza prendere nulla, poi lo
richiuse. Ripeté la stessa operazione un paio di volte, sperando forse che,
riaprendolo, comparisse qualcosa capace di stuzzicargli l’appetito. Purtroppo
non successe nulla del genere e fu costretto a tornare sotto le coperte,
appuntandosi mentalmente di fare la spesa e comprare qualcosa capace di
stuzzicare la sua gola. Tentò dunque di arrovellarsi il cervello con pensieri
noiosi e questioni futili per alimentare la sonnolenza, ma non riuscii
ugualmente a prender sonno, allora si mise seduto, accese il lume e aprii il
cassetto del comodino: prese la sua copia di “David Copperfiel” e iniziò a
leggere. Adorava quel romanzo, uno dei pochi che avesse mai letto in vita sua.
Dopo svariati minuti si rese conto di star leggendo la stessa pagina per la
quinta volta senza riuscire a comprenderne il significato; posò il libro sul
ripiano del comodino, lasciando il cassetto aperto, e si rannicchiò sotto le
coperte con il fiato di Lù che gli solleticava la nuca.
Sul punto di addormentarsi, dopo ore di
tentativi, sentì bussare alla porta. Imprecò ad alta voce, scostando le coperte
con tanta veemenza da disfare tutto il letto. Si alzò e raggiunse l’ingresso in
un attimo, pronto a picchiare l’idiota che lo aveva svegliato.
«Chi cazzo è il genio che bussa a quest…?!»
Davanti la porta c’erano Peter, il suo
amico d’infanzia; quel biondino riccone di Frank; Heinrich, al quale doveva
subito chieder scusa; Gregor, il barista, ed Edward, un conoscente simpatico
che gestiva una piccola libreria in centro.
Mark si massaggiò la fronte sospirando.
«Ehi, non c’è bisogno di urlare» disse
Peter mentre reggeva tre cartoni di pizza. «Visto che tu non sei venuto da noi,
Frank ha pensato di venire da te.»
«Se Maometto non va dalla montagna…» aveva
cantilenato l’avvocato.
Perché Frank non si fa mai i cazzi suoi?,
penso Mark, che in realtà si limitò ad abbozzare un sorrisetto mortificato,
grattandosi distrattamente la nuca mentre sentiva Lù trottare dalla camera da
letto fino alla porta principale per fare le feste agli ospiti – la comune
prassi canina di ogni quadrupede da compagnia che si rispetti.
«Oh, ciao bello! Ma come siamo fatti
grandi, eh?» Frank, con la voce più stupida che potesse fare, s’inginocchiò per
grattare il ventre del cane.
«Che schifo, Frank! Non ti fare leccare
sulla faccia!» lo rimproverò Peter, entrando in casa con lo sguardo di una
mamma premurosa che studia l’intero arredamento della dimora del figlio con
aria circospetta.
A Peter piacevano gli animali, ma aveva un
rigido codice igienico, a differenza di Frank e Mark, che a confronto erano dei
luridi sciattoni, soprattutto il moro, perché l’avvocato non faceva dormire
nessuna bestia sul letto – eccezion fatta per le ragazze dai facili costumi con
cui era solito copulare.
«Altrimenti non mi baci più, tesoruccio?»
rispose sprezzante l’altro, facendo gli occhi da cerbiatto mentre sporgeva il
labbro inferiore.
Peter e Frank trascorrevano metà del loro
tempo a prendersi in giro, anche in ambiti amorosi et similia. Peter avrebbe
dovuto sposarsi diversi anni prima, ma il fatidico giorno la sposa – per
circostanze che il giovane poliziotto ritenne opportuno non divulgare – non si
fece viva. Da allora nessuno lo vide più in compagnia di una ragazza e questo
è, tutt’oggi, uno dei motivi principali per cui Peter viene deriso
dall’avvocato. Mark, invece, divorziò dopo un anno di matrimonio per colpa del
suo grosso problema nel gestire la rabbia; Heinrich era troppo impegnato con il
violino e la musica per perder tempo in faccende tanto frivole – anche se
occasionalmente usciva con qualche collega, una in particolare, bionda e con
dei bellissimi occhi verdi –, mentre Edward era un tipo molto silenzioso e
introverso, di cui nessuno sapeva molto, situazione sen-timentale compresa.
Franklin era l’unico, tra di loro, che non aveva questo tipo di problema: ogni
volta che qualche conoscente lo incontrava era in compagnia di una ragazza
diversa – e occasionalmente anche qualche ragazzo, visto che quando si parlava
di sesso non faceva discriminazioni di alcun tipo – e più il tempo passava, più
le sue compagnie diventavano giovani e belle. Aveva una predilezione per le
rosse – ancor meglio se piene di lentiggini –, ma anche per le donne dalla
pelle scura, color cioccolato, e per qualunque tipo di straniera.
«Abbiamo preso sei pizze diverse» spiegò
Heinrich, che teneva gli altri tre cartoni in mano.
Frank, dopo aver elargito la giusta
quantità di coccole a Lù, raggiunse la cucina con nonchalance, prendendo posto
al piccolo tavolo mentre gli altri si premuravano di apparecchiare. Tipico di
lui.
Peter aveva trovato da sé piatti di plastica
e tovaglioli ed era aiutato da Heinrich, mentre Edward si guardava con aria
curiosa in giro: non era mai stato in casa di Mark e, da libraio, si dispiacque
nel notare quanti pochi romanzi campeggiavano abbandonati sulle mensole,
divorati dalla polvere, ma non se ne sorprese più del dovuto, dopotutto Mark
non sembrava un gran lettore. Probabilmente il suo lavoro a Scotland Yard lo
teneva troppo occupato per lasciargli il tempo di addentrarsi tra le pagine di
un libro.
«Mark, dov’è l’apribottiglie?» chiese Gregor
con la testa dentro il frigorifero, intento ad ispezionare le misere provviste
congelate del poliziotto.
«Cercalo.»
«Come sei gentile…!» rispose seccato il
barista, riempiendo il congelatore di bottiglie di birra che aveva portato dal
suo locale. Successivamente controllò i vari cassetti dei banconi, finché non
urlò: «Trovato!»
Trionfante, il moro alzò le braccia,
reggendo il cavatappi come un trofeo di guerra; nello stesso istante vide Mark
intento ad aprire una birra con un coltello. Allo schiocco del tappo che
saltava in aria il barista scoppiò in una sonora risata. Forse era un po’
brillo.
«Mi dispiace che tu non sia venuto allo
spettacolo» confesso il violinista con un sorrisetto intimidito, da bambino.
«Scusami, Heinrich,» rispose Mark,
mortificato, «non me la sentivo di venire. Il viaggio non è andato molto bene.»
Sospirò stancamente e si voltò verso la bestiola che guaiva ai piedi del
tavolo: probabilmente voleva un po’ di pizza anche lui e, nonostante Edward
insistesse per dargliela, Mark glielo proibì.
«Guarda come ti fissa, come fai a
resistergli?»
«La cipolla gli fa male e non voglio che si
prenda cattive abitudini.»
«Come il padrone?» bofonchiò Frank,
sistemandosi gli occhiali con aria compiaciuta.
Mark lo fulminò con lo sguardo e l’avvocato
non aprì più bocca per i successivi dieci minuti – che furono relativamente
brevi –; nel frattempo Edward e Peter si apprestavano a tagliare le pizze per
creare dei piatti misti.
«Ah, Mark!»
«Sì, Frank?»
«Per quella cosa che mi avevi chiesto… Be’,
ho risolto tutto io. Come sempre. Sono un genio, lo sai. I documenti sono tutti
nella mia valigetta, ci sono anche delle copie, se le vuoi.»
«Grazie» mormorò con scarso entusiasmo il
padrone di casa. Aveva chiesto a Franklin di aiutarlo con un piccolo malinteso
che aveva avuto con un cliente di Gregor: per colpa di questo tale dal buffo
accento era scoppiata una rissa nel suo bar e Mark, nel tentativo di placare lo
straniero, aveva finito per azzuffarsi con quest’ultimo, provocando diversi
danni al locale, troppi per poterli pagare tutti. Fortunatamente Frank era un
avvocato famoso e dal talento innato, capace di far passare per innocente
perfino un assassino seriale, e non gli ci volle molto per far ricadere la colpa
sul turista olandese (“Questo non è un comporta-mento molto inglese! Noi siamo
dei gentlemen”, protestava Edward ad ogni suo imbroglio; “Invece è
assolutamente inglesissimo” era solito ribattere Franklin).
Tra un sorso di birra e l’altro parlarono del
più e del meno, del lavoro, di ragazze, del tempo che scorre… Sciocchezze,
insomma, nulla degno di nota, le solite chiacchiere tra amici. Erano un
gruppetto piuttosto buffo e squinternato. Mark li aveva conosciuti tramite
Peter, che a sua volta era stato introdotto nel gruppo da Heinrich; Frank era
l’avvocato di quest’ultimo e da anni frequentava con assiduità il bar di Gregor
e la libreria di Edward. Un intreccio piuttosto curioso.
Fu una conversazione leggera, piacevole, e
per qualche ora tutti riuscirono a distrarsi e ridere un po’. Sfortunatamente
finirono per essere abbastanza alticci da non poter guidare fino a casa,
costringendo così Mark ad ospitarli per la notte; anche se avesse avuto voglia
di farsi il giro della città per lasciarli ognuno nelle proprie dimore, era
troppo ubriaco perfino per riconoscere che la macchina posteggiata nel garage
era la sua, ma a discapito di ciò casa sua era troppo piccola e non aveva un
numero sufficienti di letti. Aveva sonno, desiderava solo accasciarsi su qualunque
superficie glielo consentisse e addormentarsi fino a mezzo giorno, ma doveva
trovare una collocazione a quei cinque idioti. Ac-compagnò Peter ed Edward in
camera sua e li mise alla bell’e meglio sul letto, facendo attenzione a
coprirli per bene (o almeno questo è ciò che tentò di fare, visto che la
coperta continuava a cadergli dalle mani). Prima di uscire gli lanciò
un’occhiata: Edward si era avvinghiato a Peter, che teneva una gamba fuori dal
materasso e aveva già cominciato a russare. Mark sorrise a quello spettacolo,
lasciando la porta aperta nel caso uno di loro si fosse sentito male per la
sbronza. A quel punto tornò in cucina e disse a Gregor ed Heinrich che loro due
avrebbero potuto dormire sul divanoletto della cucina.
«E Frank?» chiese il barista, lanciando
un’occhiata al biondo che giaceva su una sedia con la fronte poggiata contro il
tavolo.
«Lasciatelo lì» borbottò, poi prese uno dei
piumoni più leggeri che aveva e se ne andò in salotto senza aspettarli,
convinto di poter dormire sul divano del soggiorno, peccato che lì ci fosse
niente di meno che Lù, con tanto di cuscini e coperta. Rassegnato e troppo
stanco per ribattere, si avvolse nel piumone e si sedette sulla poltrona,
tentando di addormentarsi con l’aiuto di qualche Xanax, pur consapevole che il
giorno successivo si sarebbe svegliato con un gran mal di testa.
“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
19. La paura.
L’ho uccisa.
Sono forse
impazzito? Mi troveranno. Mi arresteranno.
Cosa dice il codice
penale? Mi spetta forse la pena di morte? Non so neanche se è ancora in vigore.
Dio mio, non voglio morire!
Stai calmo.
Va tutto bene. Puoi farcela.
Ho lasciato
impronte? No, ho usato i guanti.
Capelli? Avevo una
cuffia e una parrucca, neanche questo dovrebbe essere un problema. O forse sì?
Se qualche capello è caduto dalla parruca… potrebbe
essere un indizio rilevante?
Forse qualcuno dei
vicini mi ha visto entrare in casa sua! Oddio.
Forse dovrei
tornare a controllare che… Ma cosa sto dicendo, non
posso. È risaputo che tutti gli assassini tornano sul luogo del delitto, non
posso incastrarmi da sol… Assassini? Aspetta, io non
sono un assassino.
Ma l’hai
uccisa.
Sì, è vero, però…
Però…?
Io sono innocente.
Sciocchezze.
Devo pregare che non mi trovino.
Oh, Dio, ti prego, giuro su tutto ciò che vuoi che non farò mai più una cosa
del genere, ma ti prego – ti prego! –, salvami. Non lasciare che mi prendano.
Non voglio. Non voglio marcire in una cella per chissà quanti anni. Non me lo
merito, lo so, ho sbagliato, ma non lo farò mai più. Mai più.
“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
November 9
MONDAY
Quando Mark si svegliò era ancora sulla poltrona.
Aveva perso la sensibilità ad una gamba e il dolore al braccio destro si era
fatto insopportabile. Appena provò ad alzarsi sentì una terribile fitta alla
testa e ricadde sulla poltrona con un tonfo. Proprio in quel momento arrivò Lù a dargli il buongiorno, pulendogli per bene il viso e le
mani con la sua lingua ruvida (una cosa disgustosa, che aveva sempre detestato,
ma era talmente stanco da non avere nemmeno la forza di protestare). Alla fine
si dovette alzare e raggiunse la cucina strisciando i piedi sul pavimento,
seguito da Lù che probabilmente doveva ancora
mangiare. Mise la caffettiera sul fuoco e riempii una vecchia ciotola in
alluminio di croccantini. Solo dopo si accorse che sul tavolo c’erano un
thermos pieno di caffè e un bigliettino.
Buongiorno!
Vi ho preparato
del caffè, spero vi piaccia
(ma certo che vi piace, io sono
bravissimoJ).
Mi sento un po’
stordito, ma devo andare ad
aprire il bar.
Scusatemi.
Gregor
Mark lasciò il foglietto bianco
sulla tavola e si versò una tazza di caffè. Un attimo dopo notò che Frank non
era più accasciato con la fronte contro il tavolo e non poté fare a meno di
domandarsi dove fosse finito.
Lanciò un’occhiata al divanoletto e vide
che Heinrich stava ancora dormendo. Successivamente
andò a dare un’occhiata in camera da letto per assicurarsi che Peter ed Edward
stessero bene: il primo era in bagno per colpa della nausea, l’altro teneva il
cuscino sopra la faccia e si lamentava della luce che entrava dalla finestra.
Mark chiuse le tende e tornò in cucina per fare colazione. Mentre si versava
un’altra tazza di caffè, ancora mezzo addormentato e con i sintomi
post-sbornia, Lù gli portò il giornale. Lo sfogliò
distrattamente, ignorando i segni dei denti dell’animale e i residui di saliva
che erano rimasti attaccati alle pagine, mangiucchiando un paio di biscotti tra
una notizia e l’altra. La nausea era talmente forte che pregò di non vomitarli
tutti.
«Buongiorno.»
La voce assonnata di Frank lo destò dai
suoi pensieri. Piegò il giornale e lo spostò verso il centro del tavolo.
«Come ti senti?»
«Mah, solo un po’ di mal di testa.»
Mark si aspettava un “E tu?”, ma Frank non
aggiunse altro, servendosi del caffè come se fosse a casa sua.
«Dove hai dormito?»
«Nella vasca da bagno.»
«… Ah.»
Peter li raggiunse poco dopo, con il volto
pallido e le labbra serrate in unasmorfia disgustata. Era evidente che non si sentisse bene, dopotutto non
era mai riuscito a reggere l’alcool e, nonostante fosse il primo ad accorgersene,
si ostinava sempre a berne in grandi quantità.
«Eccomi» annunciò con voce funebre,
riuscendo a stento a sedersi sulla sedia. «Credo di non sentirmi molto bere.»
«Bere? »
«Bene.
Volevo dire bene.»
Appoggiò il capo sulla superficie in legno
del tavolo e chiuse gli occhi, proprio nella posizione in cui Frank si era
addormentato la notte precedente. Markdiede una tazza di caffè al moro e insistette affinché la bevesse tutta.
«Lasciami stare, per favore» mugugnò Peter.
«Dobbiamo andare a lavoro» protestò Mark,
poi si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento e si avviò in camera da
letto barcollando. Il dolore alla testa era lancinante, come se le pareti del
suo cranio si stessero stringendo verso l’interno. Davvero poteva andare a
lavoro in quelle condizioni?
Quando Edward si svegliò salutò
tutti con discrezione, poi tornò a casa sua per farsi una doccia e cambiarsi;
successivamente avrebbe fatto colazione e sarebbe andato ad aprire la libreria,
scusandosi per il ritardo col nipote Andrew che lo aiutava durante la settimana
in cambio di un modesto stipendio.
Heinrich, che non
doveva lavorare, rimase a poltrire placidamente sullo scomodo divanoletto,
rotolandosi di tanto in tanto tra le lenzuola per cambiare posizione. Mark non
osava svegliarlo, ma una parte di lui avrebbe voluto cacciarlo e rispedirlo
alla sua dimora.
Frank, che non voleva lasciare Lù da solo, decise di portarselo e passare a casa sua per
prendere Mozart, il suo altezzoso cocker spaniel inglese; li avrebbe portati
entrambi al parco e dopo un paio d’ore avrebbe fatto ritorno nella sua
abitazione. Mark e Peter, invece, si sbrigarono per arrivare in orario a
Scotland Yard. O almeno è quello che cercarono di fare.
Quando Mark fu pronto avvisò Peter, ancora
accasciato sulla sedia; la faccia pallida e l’aria assonnata non l’avevano
abbandonato. Lo intimò di alzarsi, trascinandolo in bagno dove si diede una
ripulita. I vestiti che indossava puzzavano di vomito e di birra, quindi gliene
prestò dei suoi.
«Mark, questi vestiti sono enormi!»
«Non ho altro,» protestò l’omaccione con
aria infastidita «accontentati.»
Quando Mark lo vide si rese conto che
effettivamente quegli abiti lo rendevano ridicolo ed era necessario fare un
salto a casa sua per renderlo presentabile.
«Ma perderemo troppo tempo!»
«Vuoi davvero uscire conciato così?»
«No.»
«Allora andiamo.» Aprì la porta di casa,
aspettando che Peter uscisse per poi richiuderla e andare a mettere in moto
l’auto. «Merda, ho dimenticato le chiavi del garage!» esclamò, frugandosi nelle
tasche.
«Ecco, lo sapevo.»
«Sta’ zitto! Vado a prenderle. Tu aspetta
qui.»
«Chi si muove...»
Rientrò in casa lasciando la porta aperta;
andò in cucina e guardò dappertutto: sui banconi, negli stipetti, sul tavolo… Le chiavi non c’erano. Passò in rassegna anche la
camera da letto, ma senza risultati. Allora perlustrò il soggiorno – sotto il
divano, dietro la televisione, sotto il tavolino e dietro i cuscini -, ma le
chiavi non erano neanche lì. Controllò le tasche di tutti i vestiti che aveva
nell’armadio, poi diede un’occhiata in bagno e nel ripostiglio. Nulla. Erano
sparite. Stava per urlare la sua disperazione a tutto il vicinato, quando
ricevette una chiamata da Frank. Ovviamente riversò la sua rabbia su di lui,
anche se non aveva nulla a che fare con quella sciocca questione.
«Pronto.»
«Sei arrabbiato? Hai la voce incazzata.»
«No.»
«Certo, e io sono la Regina d’Inghilterra.»
«Che cazzo vuoi, Frank?!»
«Non ti scaldare! Volevo solo chiederti una
cosa.»
«Be’,
fallo in fretta.»
«Non mi va di tornare a casa tua per
lasciare Lù. È un problema se lo tengo con me e te lo
riporto stasera?»
Mark non poté fare a meno di notare che,
detto in quel modo, sembravano quasi una coppia divorziata intenta a discutere
sull’affidamento del figlio.
«No. Va benissimo. Ciao.»
«Ciao, Mar...»
Riattaccò.
Stava per mettersi alla ricerca delle
chiavi, ma Peter lo precedette.
«Le ho trovate.»
«Dov’erano?»
«… Nella tasca del pantalone che mi hai
prestato.»
Gli lanciò uno sguardo omicida, convinto
che fosse indirettamente colpa sua per non essersene accorto prima, ma l’amico
sfoderò un sorriso innocente, porgendogli le chiavi; Mark andò ad aprire il
garage, ma prima di poter entrare sentì la voce della vicina, la signora McGravy, che lo chiamava dal suo giardino.
«Mark, tesoro!»
Il poliziotto radunò tutte le forze che
avevo in corpo per sorridere.
«Salve, signora McGravy!»
«Come sta? Come si sente oggi? Sembra
stanco.»
Secondo la signora McGravy
Mark sembrava sempre stanco. Elo era per davvero.
«Benissimo, grazie, ma ora devo scappare a
lavoro, sono già in ritardo.»
«No, aspetti un attimo! Prendo le mele.
Gliene do qualcuna, le faranno bene. Ha sentito il messaggio che le ho lasciato
in segreteria? Gliel’avevo detto che gliene avrei messe un po’ da parte! Torno
subito.»
«Sì, sì, l’ho sentito…
No, no! Non si scomodi!» cercò di fermarla, ma lei era già rientrata in casa.
«Peter,» bisbigliò con tono confidenziale, aprendogli lo sportello per poi
spingerlo delicatamente dentro
l’abitacolo «salta in macchina, andiamocene prima che ritorni.»
«Mark! È da maleducati andarsene così.»
«Lo so, ma quella ci farà perdere un’ora in
chiacchiere. Dobbiamo andare.»
Peter acconsentì, suo malgrado,
mostrando ostinatamente il suo dispiacere con un sonoro sospiro indignato;
fecero una brevissima sosta a casa di Peter e subito dopo s’impegnarono in una
corsa contro il tempo per arrivare a Scotland Yard in un margine di tempo
accettabile.
Inevitabilmente ritardarono di quasi
quaranta minuti – forse cinquanta – e la prima a sgridarli per la loro
negligenza fu Kerstin, una stramba ragazzina che
aveva l’abitudine di tingersi i capelli di tonalità assurde: quel mese, ad incorniciarle
il viso e a metterle in risalto gli occhi verdi, c’era una folta chioma fucsia
tenuta ritta sulla testacome la schiena
di un porcospino. I suoi colleghi l’avrebbero vista meglio come artista che
come poliziotta, ma in quella stazione molti di loro erano fuori posto. Kerstin si lamentò per più di dieci minuti su quanto i due
fossero distratti, pigri e… E qualcos’altro che i due
non si presero la briga di ascoltare.
Mentre la ragazza continuava il suo
affascinante discorso sulla disciplina, l’ispettore Bernard Fraser spalancò la
porta del suo ufficio, richiamando la loro attenzione. Era un uomo alto, con
spalle larghe e occhi infossati, una persona solitamente tranquilla e pacata,
ma l’espressione dipinta sul suo volto in quell’istante non era delle più
rassicuranti. Kirsten, intimorita, si zittì immediatamente, tornando alla sua
postazione senza neanche salutare.
«Mark, Peter» chiamò l’ispettore,
avvicinandosi con passo svelto. «abbiamo un caso.»