La Comitiva degli Aspiranti Suicidi

di Experiment 513
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa: un avvertimento ***
Capitolo 2: *** 20. L'ingrediente speciale ***
Capitolo 3: *** November 8 (Sunday) ***
Capitolo 4: *** November 8/9 (Sunday/Monday) ***
Capitolo 5: *** 19. La paura ***
Capitolo 6: *** November 9 (Monday) ***



Capitolo 1
*** Premessa: un avvertimento ***


 

── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

──────────────────────────

 

 

 

 

“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

 

PREMESSA:

“un avvertimento”

 

 

 

 

Weiß volle essere sincero con lui: «È una scelta inutile, la tua.»

    «Ti sbagli» ribatté Cédric.

    Sospirò, rassegnato dalla sua testardaggine.

    «Come fai a sapere cosa c’è dopo la morte? Qualcuno è tornato per raccontartelo?» Il tono era sarcastico, acido, pungente e Weiß ne era disgustato.

    «È così. Devi fidarti di me.»

    «Quindi finiamo tutti in un posto e poi veniamo smistati? I cattivi tra le fiamme e i buoni tra le nuvole?»

    «Certo che no! Non ti ho mica detto di credere a quei luoghi comuni!»

    Che idioti, penso Weiß, non hanno capito nulla! L’albino si massaggiò la fronte con aria avvilita, tenendo gli occhi chiusi. Poi riprese: «Gli uomini non vengono puniti o premiati in base al loro comportamento. Quando il loro corpo muore l’anima è destinata a reincarnarsi, scegliendo la vita successiva in base a ciò che deve ancora imparare per raggiungere la pace interiore.»

    «E poi? Quando si raggiunge questo equilibrio? Quando non si ha più nulla da imparare, cosa succede dopo questo?»

    Weiß si strinse nelle spalle.

    «Non sono sicuro di aver capito cosa c’entri questo con il mio… Con la mia intenzione di… suicidarmi.»

    Disse quell’ultima parola con difficoltà. Non era ancora pronto. Meglio così, pensò Weiß.

    «È semplice: hai ancora molto da imparare in questa vita, che tu ci creda o no.»

    «E se io non volessi? Ho imparato abbastanza, non voglio sapere più nulla.»

    «Non puoi abbandonare questo gioco: quando una persona muore non fa altro che cambiare storia.»

    «Bene, perché questa mi ha già stancato.»

    «E se fosse peggiore di quella attuale?» ipotizzò l’uomo interamente vestito di bianco, e per un attimo Cédric ebbe l’impressione di aver visto una luce minacciosa nel suo sguardo.

    «Tentar non nuoce» rispose con voce tremante.

    «È solo uno stupido detto» la sua voce e la sua espressione erano diventati altezzosi, arroganti.

    «Ma almeno potrò dire di aver tentato!»

    Weiß si alzò, non aveva altro da dirgli. Raggiunse la porta e, prima di andarsene, sussurrò: «Non potrai scappare per sempre.»

    Chiuse la porta e non tornò mai più.

    Forse avrebbe dovuto dirgli che i suicida son costretti a rivivere la vita che hanno cercato di evitare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Avevo già pubblicato questa storia tempo fa, ma ho deciso di

riscriverla da capo e perfezionarla, dunque eccomi qui!

Spero sia di vostro gradimento, perché tengo moltissimo a questo

racconto e vorrei con tutto il cuore riuscire a far un buon lavoro.

Ammetto di aver quasi paura nel pubblicarla e non sono molto

convinto che la mia sia stata una buona idea: non ho ancora

concluso questa storia, è in fase di lavorazione, motivo per cui volevo

tenerla “segreta” finché non fosse stata ultimata e io fossi stato

soddisfatto del risultato, tuttavia speravo che - ricevendo qualche

recensione - fossi più motivato a continuarla e magari qualcuno di

voi potrebbe perfino darmi degli spunti interessanti o delle critiche

per render migliore il mio lavoro. Inoltre, essendo un giallo, sarebbe

molto utile per me sapere cosa ne pensano i lettori e capire se sto

“usando i trucchi giusti” per far cadere i sospetti sulle persone

sbagliate, rendere l’atmosfera, donare una buona dose di suspense

und so weiter...

 

 

                                                     Christopher

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Capitolo 2
*** 20. L'ingrediente speciale ***


 

── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

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“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

 

20. L’ingrediente speciale.

 

 

Bussò alla sua porta con mano tremante, sentendo una o due gocce di sudore scivolargli lungo la fronte. Era davvero pronto? La sua anima impura avrebbe trovato pace o ne sarebbe rimasta macchiata per sempre?

    Chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e bussò ancora.

    Finalmente lei venne ad aprirgli. Non l’aveva mai vista prima d’ora, ma qualcosa nel suo sguardo gli fece capire che era quella giusta. Forse fu merito dell’ombra di rassegnazione che le incupiva le iridi verdi, o magari dell’accenno di paura riflesso nelle pupille scure.

    Si fece audace e chiese: «Sono arrivato in ritardo?»

    Lei scosse la testa, ma non osò proferir parola; imbarazzata, abbozzò un sorriso di cortesia e lo invitò ad entrare. Il giovane avanzò di qualche passo, sentendo la porta chiudersi alle sue spalle, e istintivamente si lasciò sfuggire qualche commento sul grazioso arredamento, intavolando una discussione banale che sfociò in argomenti altrettanto miseri come le terribili condizioni climatiche e le ultime news della BBC. Cosa l’aveva spinto a perder tempo con simili convenevoli quando era giunto lì per tutt’altro scopo? La paura, l’indecisione… Gli stessi  sentimenti che attanagliavano la mente di lei. Il giovane non sapeva come agire, non aveva preparato un discorso – credendo di avere buone capacità di improvvisazione – e ora si trovava lì, a contemplare i quadri appesi alle pareti del salotto mentre la povera ragazza attendeva, impaziente, un qualche segnale di salvezza da parte sua. Aveva elaborato un piano piuttosto semplice ed efficace, lavorando esclusivamente sulla parte tecnica, mentre aveva trascurato del tutto il modo in cui avrebbe dovuto esporre i suoi pensieri a Alice. Eppure lui era sempre stato bravo a consolare amici e conoscenti. Avrebbe dovuto pensare a cosa dire in questa situazione, invece si sentiva come un alunno che si era limitato a ripassare distrattamente la sera prima dell’interrogazione senza aver realmente studiato la lezione. Nessuno in queste condizioni avrebbe potuto prendere una A.

    Gli occhi di lei si riempirono di lacrime, le labbra contratte in una smorfia e le mani artigliate alla camicia di lui, che sobbalzò a quel contatto inaspettato.

    «Alice?» mormorò cauto, voltandosi per asciugarle il viso.

    «Mi dispiace, mi dispiace…» continuava a ripetere tra i singhiozzi, rischiando di soffocarsi per l’impeto con cui piangeva. «Ti prego,» lo implorava «ti prego, aiutami…»

    «Ti preparo un tè, così ne discutiamo con calma, va bene?» La sua voce era melliflua e calda, impossibile opporsi.

    La fece accomodare su una delle poltrone disposte di fronte al televisore e si avventurò nel corridoio alla ricerca della cucina; quando il tè fu pronto si premurò di aggiungere quell’ingrediente indispensabile per l’occasione, poi portò la tazzina fumante ad Alice e si accomodò accanto a lei, che gli sorrise con innocente riconoscenza. Basandosi sulle consuete leggi morali prefissate dalla società, qualcosa gli suggeriva che avrebbe dovuto provare sentimenti di vergogna, un moto di colpevolezza, invece non sentiva nulla. Assolutamente nulla.

    Alice – mentre il tè si raffreddava – gli parlò dei suoi problemi, della sua vita disgraziata, della madre che non la capiva, del bambino che non sarebbe mai arrivato, dell’enorme vuoto che provava… Poi dopo aver ringraziato ancora una volta il giovane per la sua disponibilità, sorseggiò il tè tra le lacrime, ma il sapore della bevanda fu accompagnato da un retrogusto acido ed un insopportabile bruciore all’esofago – e in quel momento lui si domandò se non si fosse accorta dell’odore di mandorle. Il giovane le tenne una mano dietro la testa e con l’altra la costrinse a finire la bevanda, spingendo con forza la tazzina contro la bocca dischiusa. Dopo un primo tentativo di ribellione il corpo di lei si adagiò esanime sullo schienale della poltrona, pendendo da un lato con lo sguardo vitreo rivolto verso il nulla. Sorpreso dalla velocità con cui era avvenuto il tutto, si concesse un attimo per osservarle le labbra corrose, poi si accertò che fosse morta.

    Niente battito.

    Fino a quel momento la sua mente non aveva realizzato cosa stava accadendo e la consapevolezza di averla uccisa lo colpì con una fitta al petto, come un fastidioso dolore intercostale. Aveva preannunciato una reazione devastante, invece si sentiva più calmo di quanto avesse potuto immaginare, eppure il presentimento di aver dimenticato qualcosa lo tormentava. E se si fosse risvegliata? Impossibile, era morta! Libera da ogni vincolo e responsabilità, libera dalle bugie e dalla sofferenza. Un limbo di pace e silenzio l’attendeva, proprio come nei suoi sogni.

    Tentò invano d’ingoiare il groppo che gli si era formato in gola, impedendogli di respirare regolarmente, e proseguì con simulata sicurezza versò l’uscio, ma prima di varcare la soglia un antiquato oggetto catturò la sua attenzione: un giradischi. Lo esaminò qualche istante, poi diede un’occhiata alla pila di dischi sul mobile a fianco e ne scelse uno: “La gazza ladra”, uno dei suoi brani preferiti. Perché lo fece, tuttora non saprebbe dirlo con certezza, ma di fronte alla buona musica non sapeva fermarsi, ne era attratto come un insetto dalla luce.

    Qualcuno prima o poi se ne sarebbe accorto. I vicini avrebbero sentito il tanfo del cadavere una volta che il corpo avesse cominciato a decomporsi; i colleghi avrebbero fatto caso all’assenza prolungata di Alice dal lavoro e la madre non avrebbe ricevuto alcuna risposta alle sue chiamate, lasciando messaggi preoccupati alla segreteria telefonica. Ma la teoria del suicidio era piuttosto credibile, doveva solo sperare che nessuno si fosse accorto della sua presenza in quel palazzo.

    Prima di lasciare l’appartamento posò una lettera blu e un fiore di campo sul tavolo.

    Ammirò il suo lavoro, sorrise e uscì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La “vittima” si chiama Alice perché odio “Alice in Wonderland”, mi

sembrava giusto specificarlo.

 

 

                                                     Christopher

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Capitolo 3
*** November 8 (Sunday) ***


 

── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

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“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

November 8

SUNDAY

 

 

Diventò amico di Heinrich per mera fortuna o fu un complesso artificio del causalismo?

    Quando Peter si trasferì in Inghilterra era equipaggiato di buone intenzioni, voglia di cambiare e un’abbondante dose di speranza. Null’altro se non tanti umili sentimenti che miravano a cause lodevoli come l’adempimento della virtù nella propria vita e la pace nel mondo. Lui era fatto così.

   Aveva deciso che sarebbe tornato in Inghilterra perché era da lì che venivano i suoi bisnonni, due giovani coraggiosi che avevano deciso d’imbarcarsi – con tutti i rischi che questo comportava – in un’avventura verso il Nuovo Mondo alla ricerca di ricchezza e fortuna. Non si aspettava di essere ben accolto in quella che sarebbe divenuta la sua nuova patria, ma confidava nel suo temperamento tranquillo e socievole per stringere presto delle nuove amicizie che lo avrebbero aiutato durante il nuovo capitolo della sua vita. E così fu. Prima ancora di giungere a Londra fece la conoscenza di un ragazzo che divenne uno dei suoi amici più fidati: era il suo compagno di viaggio, Heinrich, un giovane violinista di ritorno da uno spettacolo tenutosi a New York. Parlava un inglese molto personale, lento e cantilenante, ma con la cadenza tipica di uno straniero e un lieve accento che svelava le sue origini. Si era trasferito a Londra da Luzern perché “l’aria inglese lo rendeva più ispirato” – così gli aveva confidato – e aveva preso alloggio in una piccola villa in periferia, mentre Peter si era limitato ad affittare una modesta casetta a schiera in una delle tante vie della città.

    «È così suoni il violino, eh?» domandò Peter, nel disperato tentativo di dimenticare i chilometri che lo speravano dalla terra ferma. «Dev’essere difficile.»

    «Quando si ama qualcosa nulla è impossibile!»

    L’americano sorrise alle sue parole. Era la prima volta che lo incontrava, ma gli stava già incredibilmente simpatico: tutto in lui irradiava innocenza, bontà e un eccessivo ottimismo, uno di quei caratteri socievoli dei quali è difficile diffidare. In un certo senso si potrebbe dire che si somigliassero.

   Dopo aver trascorso quasi otto ore di volo insieme dovettero separarsi all’aeroporto, ma il violinista insistette affinché si scambiassero i numeri di telefono per tenersi in contatto; così, anche se non era un grande intenditore di musica classica, Peter finì per assistere a diversi dei suoi spettacoli e rafforzare il loro legame di amicizia. Heinrich gli presentò alcuni dei suoi amici più intimi per integrarlo nel gruppo e farlo sentire meno solo: quando si alloggia in una nuova città e non si conosce nessuno ci si sente un po’ spaesati, e Peter era stato tanto buono e gentile con lui che non meritava una simile sfortuna.

  

 

***

 

Uno scroscio di applausi instancabili annunciò la fine dello spettacolo e tutti i musicisti s’inchinarono di fronte al pubblico entusiasta. Heinrich fece volare lo sguardo sui presenti, cercando il gruppo di amici che avevano promesso di assistere alla sua esibizione; a volte si sentiva come un bimbetto durante il giorno della recita. “Dove sono la mamma e il papà? Non sono venuti a vedermi?”.

    Il sipario si chiuse e lui poté raggiungere Peter, Franklin, Gregor, Edward e… Dov’era Mark?

    «Ehi, Wolfie!» esultò Frank, un ricco avvocato marpione dal sarcasmo facile. «Sei stato fantastico!». Frank adorava affibbiare nomignoli e quello di Heinrich fu uno dei più semplici: aveva deciso di chiamarlo Wolfie per le sue prodigiose abilità sinfoniche e il suo amore incondizionato per le opere di Mozart.

    «Grazie, grazie mille, sono felice che siate venuti.»

    «Figurati, a noi fa sempre piacere» lo rassicurò Edward.

    «Su, tutti al bar, offre la casa!» esclamò Gregor, incoraggiandoli a seguirlo con un gesto ripetitivo del braccio, come se quello bastasse a radunarli tutti e trascinarseli dietro.

    Era tarda sera e capirono di essere vicini al bar quando cominciarono a sentire odore di ciambelle fritte e brioche calde. Il loro profumo era talmente forte e inebriante che perfino i passanti, sentendolo, entravano per ordinarne una; Gregor, dopo averle sfornate, ne teneva qualcuna vicino la finestra che affiancava l’entrata, in modo da diffondere la dolce fragranza anche al di fuori del locale.

    Gregor salutò i colleghi e si fece spazio nel retro del bancone, prendendo una cassetta di birra e diversi bicchieri di vetro; mentre gli altri bevevano, Frank non era riuscito a placare la fame e cedette alla tentazione di comprare una terza brioche, sotto lo sguardo nauseato di Peter  che – tra le altre cose – era famoso per avere lo stomaco piccolo quanto una ciliegia.

     «Ehi, Frankie-Frank, siamo venuti qui per bere, non per mangiare!» lo rimproverò scherzosamente Gregor.

    «Ma sono così buone…! Questa è l’ultima, poi basta, promesso.»

    Il giovane sorrise e riempì per l’ennesima volta i bicchieri di tutti con della birra fredda; brindarono per la meravigliosa esibizione di Heinrich e poi brindarono ancora, perdendosi in sproloqui sulla musica, sulle brioche, sulla libreria di Edward e sulle pessime abitudini di Frank. Poi Heinrich si fece audace e domandò: «Come mai Mark non è venuto? Sta bene?»

    «Era andato a trovare Agnes e Morgan. È tornato stamattina e ha detto di essere troppo stanco per venire» rispose Peter.

    «Dove vivono?» intervenne Frank, l’impiccione della combriccola.

    «In Svezia.»

    «Ma sono solo due ore di volo!»

    Peter si passò una mano tra i capelli scuri e si strinse nelle spalle con aria mortificata, neanche fosse stata colpa sua.

    «Ho fame» li interruppe Gregor. «Vi va una pizza?»

    «Ma è mezzanotte…» protestò Edward.

    «Oh, sì, una bella pizza, mi è venuta un’idea!» esclamò l’avvocato. «Peter, vieni con me! – voi rimanete qui.»

    «Frank, ma che cosa…» Troppo tardi, l’amico era già uscito dal locale. «Ehi, aspetta!»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Questo capitolo (e il seguente, che forse pubblicherò lunedì) non

mi convince affatto. Inizialmente mi sembrava un modo molto

carino per presentare alcuni dei personaggi principali e secondari,

tuttavia… non saprei, c’è qualcosa che non va. Avevo pensato di

abbandonare quest’idea e provare a riscriverne un’altra, ma se ho

deciso di pubblicare questa storia su EFP è proprio per conoscere

il parere di altre persone e capire se ho fatto una sciocchezza o il

racconto procede come dovrebbe, motivo per cui lascio la parola

a voi...

 

 

                                                     Christopher

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Capitolo 4
*** November 8/9 (Sunday/Monday) ***


 

── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

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“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

November 8/9

SUNDAY/MONDAY

 

 

Arrivato a casa, la prima cosa che fece fu controllare la segreteria telefonica. Non frequentava molta gente, ma quelle poche persone che conosceva, per motivi a lui oscuri, ritenevano opportuno intasargli il telefono con i loro stupidi messaggi. Si sedette su una sedia della cucina e ascoltò: 

          Mark, ciao, sono io, Peter. Volevo chiederti se oggi ti andava di venire allo spet-tacolo di Heinrich. Chiama, se vuoi.

           Sono troppo stanco, magari un’altra volta.

          Salve, signor Williams! Sono la signora McGravy, la vicina! Dei parenti mi hanno portato delle mele buonissime e volevo dargliene un po. Lei è sempre così stanco che un po di frutta le farà senzaltro bene!

          Quella vecchietta è davvero adorabile… 

           Ehi, Marcolino, come va? Sono Frank. Volevo dirti che ho sistemato quelle scar-toffie che mi avevi dato. Se vieni allo spettacolo poi ne parliamo con calma Ma so che non lo farai. A lunedì!

          Già. Non verrò. Allora perché me lo chiedi? 

          Ciao papà, sono Morgan. Qui tutto bene, mamma è felice perché finalmente è riu-scita a far fiorire il pesco. Voleva ringraziarti per essere venuto e dirti che hai dimenti-cato un cappello: te lo spedisce o puoi farne a meno fino alle prossime vacanze? Ciao.

          Chi se ne frega del cappello…     

Staccò il filo del telefono con uno strattone e andò a farsi una doccia; passando dal soggiorno vide che Lù – un meticcio che tempo prima aveva trovato all’incrocio di casa sua – si andava ad accucciare sul divano, cercando di coprirsi alla bell’e meglio con una coperta scovata chissà dove.

    Stare sotto il getto dell’acqua calda lo rilassava, come se quello bastasse a ripulirlo da tutti i pensieri e le energie negative: era uno dei pochi metodi che conosceva per calmarsi e placare la rabbia che gli avvelenava il sangue.

    «Lù, vieni qui!» gridò dal bagno, poggiando la fronte contro la superficie fredda e liscia della doccia mentre un’infinità di gocce d’acqua gli scivolava lungo il corpo. Ancora gli doleva la guancia dove Agnes gli aveva dato uno schiaffo quando lui, in un nostalgico slancio di affetto, aveva cercato di baciarla su un angolo delle labbra.

    Il cane corse subito da lui, aprendo a fatica la porta della stanza con il muso e le zampe anteriori.

    «L’accappatoio. Prendi l’accappatoio, Lù.»

    L’animale lo fissò qualche istante, poi il padrone lo vide sparire nel corridoio.

    Aveva solo un anno e da qualche tempo Mark avevo preso l’abitudine di portarlo da un ragazzo che si divertiva ad insegnargli alcuni giochetti, come stare dritto su due zampe o riportare gli oggetti; lo aveva incontrato al parco, mentre portava Lù a sgranchirsi un po’ le zampe. Andrew – così si chiamava – era un eccentrico e distratto ragazzino dai luminosi occhi verde acqua e i capelli viola (“È pervinca, non viola!”, continuava a ripetere, ma per Mark le graduazioni dei vari pigmenti si limitavano ai colori primari e secondari).

    «Oh, l’hai portato davvero,» constatò sorpreso quando vide il cucciolo spuntare con l’accappatoio tra le zanne. «bravo!» Gli accarezzò la testa e attese che uscisse, invece la bestiola rimase lì, a fissare il padrone in attesa di una ricompensa. «Ok, bravo. Sei stato molto bravo, ma ora devi uscire, su, va’ via.»

    L’uomo agitò una mano in direzione della porta, ma il cane rimase immobile. Rassegnato, Mark uscì dalla doccia e si avvolse nel morbido accappatoio di tela. Non perse tempo ad asciugare i corti capelli scuri, arrancando fino in camera da letto per cercare qualcosa da mettersi. Dopo un’attenta analisi ad un mucchio di vestiti sulla sedia vicino all’armadio, scelse d’indossare una vecchia tuta dall’aspetto vergognoso, consumata e di una taglia più grande del dovuto. Quindi si mise davanti lo specchio, fissando il suo riflesso con aria assente, poi si tastò il viso ed imprecò contro le occhiaie. Aveva un aspetto orribile, stanco e trascurato, ma non se ne badava più del dovuto, vivendo un’esistenza dissoluta in cui l’unica cosa degna di attenzione era il lavoro.

   Più tardi, quando si sorprese a girovagare per casa senza nulla da fare, decise di andare a dormire. Si distese sul letto, sotto le coperte calde, fissando le crepe nel soffitto (erano così tante che, durante le notti insonni si divertiva ad associarle alle costellazioni). Lù venne subito ad accucciarsi accanto a lui, sollevando le lenzuola con il muso per poi  mettersi con la testa sul cuscino e la schiena contro il braccio sinistro del padrone; chiuse gli occhi e dimostrò la sua approvazione con un versetto acuto e inarticolato, addormentandosi poco dopo. Mark sentiva la cassa toracica dell’animale gonfiarsi con regolarità mentre lui s’intratteneva contando le pecore: una volta arrivato alla numero settecentono-vantanove si rese conto che, invece di cominciare a contare le decine successive, ripartiva da seicento, ritornando a settecentonovantanove per ripetere l’operazione errata ancora una volta, finché non perse il conto e decise di mandare al diavolo quelle stramaledettissime pecore. Innervosito da quella sciocca faccenda, si alzò; il cane si destò anche lui, lanciandogli un’occhiata infastidita. Il moro presi un taglierino nascosto tra i vestiti della cassettiera e lo analizzò alla luce della piccola lampada sul comodino, seduto sul bordo del letto, mentre con mano tremante ne accarezzava la lama affilata. Il cane scostò le coperte per raggiungerlo, incuriosito da quell’oggetto luccicante; si rannicchiò vicino al padrone, poggiando il muso sulla sua coscia e stette in silenzio, con gli occhietti marroni fissi sulle mani dell’uomo, che premette la punta della lama sul pollice finché non lo vide arrossarsi; spostò il taglierino verso il basso, lasciando un piccolo taglio sul polpastrello. Osservò il sangue raggrumarsi sulla superficie e poi colare lentamente lungo il dito. Rimase lì, fermo, guardando quell’inutile spettacolo senza alcun intento apparente.

    Mark possedeva un carattere iracondo, il suo corpo era come un involucro di rabbia compressa, pronto ad esplodere ogni volta che si apriva uno spiraglio; si alterava per le ragioni più frivole ed ogni problema gli suscitava una voglia irrefrenabile di distruggere tutto ciò che lo circondava. Frank l’aveva soprannominato Hulk, ma utilizzava quel nomignolo di rado per timore d’innervosire l’amico. Occasionalmente gli capitava di ripensare a tutti gli errori commessi nella sua vita, a tutte le persone che aveva fatto soffrire, tutte le volte che aveva picchiato Peter, l’unico che gli era sempre stato a fianco, che non l’aveva mai abbandonato neanche nei periodi più bui; gli capitava di pensare ai litigi con Agnes, al piccolo Morgan che lo guardava spaventato e al giorno in cui perse tutto ciò che aveva. In quei momenti provava un moto di repulsione per sé stesso e desiderava punirsi per ogni sua azione sconveniente.

    Stava posizionando la lama sul palmo della mano, quando Lù gli diede un colpetto sul braccio, come ad intimargli di smettere. Mark gli accarezzò distrattamente la testa e posò il taglierino dove l’aveva preso, macchiando accidentalmente di sangue una maglietta conservata nello stesso cassetto. Leccò il polpastrello per pulirlo, facendo un salto in cucina per saccheggiare il frigorifero (forse il cibo l’avrebbe distratto da quei tristi pensieri). L’aprii, guardò dentro senza prendere nulla, poi lo richiuse. Ripeté la stessa operazione un paio di volte, sperando forse che, riaprendolo, comparisse qualcosa capace di stuzzicargli l’appetito. Purtroppo non successe nulla del genere e fu costretto a tornare sotto le coperte, appuntandosi mentalmente di fare la spesa e comprare qualcosa capace di stuzzicare la sua gola. Tentò dunque di arrovellarsi il cervello con pensieri noiosi e questioni futili per alimentare la sonnolenza, ma non riuscii ugualmente a prender sonno, allora si mise seduto, accese il lume e aprii il cassetto del comodino: prese la sua copia di “David Copperfiel” e iniziò a leggere. Adorava quel romanzo, uno dei pochi che avesse mai letto in vita sua. Dopo svariati minuti si rese conto di star leggendo la stessa pagina per la quinta volta senza riuscire a comprenderne il significato; posò il libro sul ripiano del comodino, lasciando il cassetto aperto, e si rannicchiò sotto le coperte con il fiato di Lù che gli solleticava la nuca.

    Sul punto di addormentarsi, dopo ore di tentativi, sentì bussare alla porta. Imprecò ad alta voce, scostando le coperte con tanta veemenza da disfare tutto il letto. Si alzò e raggiunse l’ingresso in un attimo, pronto a picchiare l’idiota che lo aveva svegliato.

    «Chi cazzo è il genio che bussa a quest…?!»

    Davanti la porta c’erano Peter, il suo amico d’infanzia; quel biondino riccone di Frank; Heinrich, al quale doveva subito chieder scusa; Gregor, il barista, ed Edward, un conoscente simpatico che gestiva una piccola libreria in centro.

   Mark si massaggiò la fronte sospirando.

    «Ehi, non c’è bisogno di urlare» disse Peter mentre reggeva tre cartoni di pizza. «Visto che tu non sei venuto da noi, Frank ha pensato di venire da te.»

    «Se Maometto non va dalla montagna…» aveva cantilenato l’avvocato.

    Perché Frank non si fa mai i cazzi suoi?, penso Mark, che in realtà si limitò ad abbozzare un sorrisetto mortificato, grattandosi distrattamente la nuca mentre sentiva Lù trottare dalla camera da letto fino alla porta principale per fare le feste agli ospiti – la comune prassi canina di ogni quadrupede da compagnia che si rispetti.

    «Oh, ciao bello! Ma come siamo fatti grandi, eh?» Frank, con la voce più stupida che potesse fare, s’inginocchiò per grattare il ventre del cane.

    «Che schifo, Frank! Non ti fare leccare sulla faccia!» lo rimproverò Peter, entrando in casa con lo sguardo di una mamma premurosa che studia l’intero arredamento della dimora del figlio con aria circospetta.

    A Peter piacevano gli animali, ma aveva un rigido codice igienico, a differenza di Frank e Mark, che a confronto erano dei luridi sciattoni, soprattutto il moro, perché l’avvocato non faceva dormire nessuna bestia sul letto – eccezion fatta per le ragazze dai facili costumi con cui era solito copulare.

    «Altrimenti non mi baci più, tesoruccio?» rispose sprezzante l’altro, facendo gli occhi da cerbiatto mentre sporgeva il labbro inferiore.

    Peter e Frank trascorrevano metà del loro tempo a prendersi in giro, anche in ambiti amorosi et similia. Peter avrebbe dovuto sposarsi diversi anni prima, ma il fatidico giorno la sposa – per circostanze che il giovane poliziotto ritenne opportuno non divulgare – non si fece viva. Da allora nessuno lo vide più in compagnia di una ragazza e questo è, tutt’oggi, uno dei motivi principali per cui Peter viene deriso dall’avvocato. Mark, invece, divorziò dopo un anno di matrimonio per colpa del suo grosso problema nel gestire la rabbia; Heinrich era troppo impegnato con il violino e la musica per perder tempo in faccende tanto frivole – anche se occasionalmente usciva con qualche collega, una in particolare, bionda e con dei bellissimi occhi verdi –, mentre Edward era un tipo molto silenzioso e introverso, di cui nessuno sapeva molto, situazione sen-timentale compresa. Franklin era l’unico, tra di loro, che non aveva questo tipo di problema: ogni volta che qualche conoscente lo incontrava era in compagnia di una ragazza diversa – e occasionalmente anche qualche ragazzo, visto che quando si parlava di sesso non faceva discriminazioni di alcun tipo – e più il tempo passava, più le sue compagnie diventavano giovani e belle. Aveva una predilezione per le rosse – ancor meglio se piene di lentiggini –, ma anche per le donne dalla pelle scura, color cioccolato, e per qualunque tipo di straniera.

    «Abbiamo preso sei pizze diverse» spiegò Heinrich, che teneva gli altri tre cartoni in mano.

    Frank, dopo aver elargito la giusta quantità di coccole a Lù, raggiunse la cucina con nonchalance, prendendo posto al piccolo tavolo mentre gli altri si premuravano di apparecchiare. Tipico di lui.

   Peter aveva trovato da sé piatti di plastica e tovaglioli ed era aiutato da Heinrich, mentre Edward si guardava con aria curiosa in giro: non era mai stato in casa di Mark e, da libraio, si dispiacque nel notare quanti pochi romanzi campeggiavano abbandonati sulle mensole, divorati dalla polvere, ma non se ne sorprese più del dovuto, dopotutto Mark non sembrava un gran lettore. Probabilmente il suo lavoro a Scotland Yard lo teneva troppo occupato per lasciargli il tempo di addentrarsi tra le pagine di un libro.

    «Mark, dov’è l’apribottiglie?» chiese Gregor con la testa dentro il frigorifero, intento ad ispezionare le misere provviste congelate del poliziotto.

    «Cercalo.»

    «Come sei gentile…!» rispose seccato il barista, riempiendo il congelatore di bottiglie di birra che aveva portato dal suo locale. Successivamente controllò i vari cassetti dei banconi, finché non urlò: «Trovato!»

    Trionfante, il moro alzò le braccia, reggendo il cavatappi come un trofeo di guerra; nello stesso istante vide Mark intento ad aprire una birra con un coltello. Allo schiocco del tappo che saltava in aria il barista scoppiò in una sonora risata. Forse era un po’ brillo.

    «Mi dispiace che tu non sia venuto allo spettacolo» confesso il violinista con un sorrisetto intimidito, da bambino.

    «Scusami, Heinrich,» rispose Mark, mortificato, «non me la sentivo di venire. Il viaggio non è andato molto bene.» Sospirò stancamente e si voltò verso la bestiola che guaiva ai piedi del tavolo: probabilmente voleva un po’ di pizza anche lui e, nonostante Edward insistesse per dargliela, Mark glielo proibì.

    «Guarda come ti fissa, come fai a resistergli?»

    «La cipolla gli fa male e non voglio che si prenda cattive abitudini.»

    «Come il padrone?» bofonchiò Frank, sistemandosi gli occhiali con aria compiaciuta.

    Mark lo fulminò con lo sguardo e l’avvocato non aprì più bocca per i successivi dieci minuti – che furono relativamente brevi –; nel frattempo Edward e Peter si apprestavano a tagliare le pizze per creare dei piatti misti.

    «Ah, Mark!»

    «Sì, Frank?»

    «Per quella cosa che mi avevi chiesto… Be’, ho risolto tutto io. Come sempre. Sono un genio, lo sai. I documenti sono tutti nella mia valigetta, ci sono anche delle copie, se le vuoi.»

    «Grazie» mormorò con scarso entusiasmo il padrone di casa. Aveva chiesto a Franklin di aiutarlo con un piccolo malinteso che aveva avuto con un cliente di Gregor: per colpa di questo tale dal buffo accento era scoppiata una rissa nel suo bar e Mark, nel tentativo di placare lo straniero, aveva finito per azzuffarsi con quest’ultimo, provocando diversi danni al locale, troppi per poterli pagare tutti. Fortunatamente Frank era un avvocato famoso e dal talento innato, capace di far passare per innocente perfino un assassino seriale, e non gli ci volle molto per far ricadere la colpa sul turista olandese (“Questo non è un comporta-mento molto inglese! Noi siamo dei gentlemen”, protestava Edward ad ogni suo imbroglio; “Invece è assolutamente inglesissimo” era solito ribattere Franklin).

    Tra un sorso di birra e l’altro parlarono del più e del meno, del lavoro, di ragazze, del tempo che scorre… Sciocchezze, insomma, nulla degno di nota, le solite chiacchiere tra amici. Erano un gruppetto piuttosto buffo e squinternato. Mark li aveva conosciuti tramite Peter, che a sua volta era stato introdotto nel gruppo da Heinrich; Frank era l’avvocato di quest’ultimo e da anni frequentava con assiduità il bar di Gregor e la libreria di Edward. Un intreccio piuttosto curioso.

    Fu una conversazione leggera, piacevole, e per qualche ora tutti riuscirono a distrarsi e ridere un po’. Sfortunatamente finirono per essere abbastanza alticci da non poter guidare fino a casa, costringendo così Mark ad ospitarli per la notte; anche se avesse avuto voglia di farsi il giro della città per lasciarli ognuno nelle proprie dimore, era troppo ubriaco perfino per riconoscere che la macchina posteggiata nel garage era la sua, ma a discapito di ciò casa sua era troppo piccola e non aveva un numero sufficienti di letti. Aveva sonno, desiderava solo accasciarsi su qualunque superficie glielo consentisse e addormentarsi fino a mezzo giorno, ma doveva trovare una collocazione a quei cinque idioti. Ac-compagnò Peter ed Edward in camera sua e li mise alla bell’e meglio sul letto, facendo attenzione a coprirli per bene (o almeno questo è ciò che tentò di fare, visto che la coperta continuava a cadergli dalle mani). Prima di uscire gli lanciò un’occhiata: Edward si era avvinghiato a Peter, che teneva una gamba fuori dal materasso e aveva già cominciato a russare. Mark sorrise a quello spettacolo, lasciando la porta aperta nel caso uno di loro si fosse sentito male per la sbronza. A quel punto tornò in cucina e disse a Gregor ed Heinrich che loro due avrebbero potuto dormire sul divanoletto della cucina.

    «E Frank?» chiese il barista, lanciando un’occhiata al biondo che giaceva su una sedia con la fronte poggiata contro il tavolo.

   «Lasciatelo lì» borbottò, poi prese uno dei piumoni più leggeri che aveva e se ne andò in salotto senza aspettarli, convinto di poter dormire sul divano del soggiorno, peccato che lì ci fosse niente di meno che Lù, con tanto di cuscini e coperta. Rassegnato e troppo stanco per ribattere, si avvolse nel piumone e si sedette sulla poltrona, tentando di addormentarsi con l’aiuto di qualche Xanax, pur consapevole che il giorno successivo si sarebbe svegliato con un gran mal di testa.

 

 

 

 

 

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Questo è l’altro capitolo che non mi convince, vediamo se siete del mio

stesso parere o lo trovate più che decente.

Spero non ci siano errori, ammetto di averlo riletto alla bell’e meglio perché

questi ultimi giorni sono stati abbastanza stressanti.

 

 

                                                     Christopher

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Capitolo 5
*** 19. La paura ***


 

── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

──────────────────────────

 

 

 

 

“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

 

19. La paura.

 

 

L’ho uccisa.

   Sono forse impazzito? Mi troveranno. Mi arresteranno.

   Cosa dice il codice penale? Mi spetta forse la pena di morte? Non so neanche se è ancora in vigore. Dio mio, non voglio morire!

   Stai calmo.

   Va tutto bene. Puoi farcela.

   Ho lasciato impronte? No, ho usato i guanti.

   Capelli? Avevo una cuffia e una parrucca, neanche questo dovrebbe essere un problema. O forse sì? Se qualche capello è caduto dalla parruca… potrebbe essere un indizio rilevante?

   Forse qualcuno dei vicini mi ha visto entrare in casa sua! Oddio.

   Forse dovrei tornare a controllare che… Ma cosa sto dicendo, non posso. È risaputo che tutti gli assassini tornano sul luogo del delitto, non posso incastrarmi da sol… Assassini? Aspetta, io non sono un assassino.

 

 

Ma l’hai uccisa.

 

 

   Sì, è vero, però…

 

 

Però…?

 

 

   Io sono innocente.

 

 

Sciocchezze.

 

 

Devo pregare che non mi trovino.

   Oh, Dio, ti prego, giuro su tutto ciò che vuoi che non farò mai più una cosa del genere, ma ti prego – ti prego! –, salvami. Non lasciare che mi prendano. Non voglio. Non voglio marcire in una cella per chissà quanti anni. Non me lo merito, lo so, ho sbagliato, ma non lo farò mai più. Mai più.

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Capitolo 6
*** November 9 (Monday) ***


 

── La Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──

 

“We know we shouldn't do it but we do it anyway”

──────────────────────────

 

 

 

 

“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita peggiori.

Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi migliore.”

Oliver Sykes

 

 

 

November 9

MONDAY

 

 

Quando Mark si svegliò era ancora sulla poltrona. Aveva perso la sensibilità ad una gamba e il dolore al braccio destro si era fatto insopportabile. Appena provò ad alzarsi sentì una terribile fitta alla testa e ricadde sulla poltrona con un tonfo. Proprio in quel momento arrivò a dargli il buongiorno, pulendogli per bene il viso e le mani con la sua lingua ruvida (una cosa disgustosa, che aveva sempre detestato, ma era talmente stanco da non avere nemmeno la forza di protestare). Alla fine si dovette alzare e raggiunse la cucina strisciando i piedi sul pavimento, seguito da che probabilmente doveva ancora mangiare. Mise la caffettiera sul fuoco e riempii una vecchia ciotola in alluminio di croccantini. Solo dopo si accorse che sul tavolo c’erano un thermos pieno di caffè e un bigliettino.

 

                    Buongiorno!

                    Vi ho preparato del caffè, spero vi piaccia

                     (ma certo che vi piace, io sono bravissimo  J).

                    Mi sento un po’ stordito, ma devo andare ad

                    aprire il bar. Scusatemi.

                                                             Gregor

 

Mark lasciò il foglietto bianco sulla tavola e si versò una tazza di caffè. Un attimo dopo notò che Frank non era più accasciato con la fronte contro il tavolo e non poté fare a meno di domandarsi dove fosse finito.

    Lanciò un’occhiata al divanoletto e vide che Heinrich stava ancora dormendo. Successivamente andò a dare un’occhiata in camera da letto per assicurarsi che Peter ed Edward stessero bene: il primo era in bagno per colpa della nausea, l’altro teneva il cuscino sopra la faccia e si lamentava della luce che entrava dalla finestra. Mark chiuse le tende e tornò in cucina per fare colazione. Mentre si versava un’altra tazza di caffè, ancora mezzo addormentato e con i sintomi post-sbornia, gli portò il giornale. Lo sfogliò distrattamente, ignorando i segni dei denti dell’animale e i residui di saliva che erano rimasti attaccati alle pagine, mangiucchiando un paio di biscotti tra una notizia e l’altra. La nausea era talmente forte che pregò di non vomitarli tutti.

    «Buongiorno.»

    La voce assonnata di Frank lo destò dai suoi pensieri. Piegò il giornale e lo spostò verso il centro del tavolo.

    «Come ti senti?»

    «Mah, solo un po’ di mal di testa.»

    Mark si aspettava un “E tu?”, ma Frank non aggiunse altro, servendosi del caffè come se fosse a casa sua.

    «Dove hai dormito?»

    «Nella vasca da bagno.»

    «… Ah.»

    Peter li raggiunse poco dopo, con il volto pallido e le labbra serrate in una  smorfia disgustata. Era evidente che non si sentisse bene, dopotutto non era mai riuscito a reggere l’alcool e, nonostante fosse il primo ad accorgersene, si ostinava sempre a berne in grandi quantità.

    «Eccomi» annunciò con voce funebre, riuscendo a stento a sedersi sulla sedia. «Credo di non sentirmi molto bere.»

    «Bere? »

    «Bene. Volevo dire bene.»

    Appoggiò il capo sulla superficie in legno del tavolo e chiuse gli occhi, proprio nella posizione in cui Frank si era addormentato la notte precedente. Mark  diede una tazza di caffè al moro e insistette affinché la bevesse tutta.

    «Lasciami stare, per favore» mugugnò Peter.

    «Dobbiamo andare a lavoro» protestò Mark, poi si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento e si avviò in camera da letto barcollando. Il dolore alla testa era lancinante, come se le pareti del suo cranio si stessero stringendo verso l’interno. Davvero poteva andare a lavoro in quelle condizioni?

 

 

Quando Edward si svegliò salutò tutti con discrezione, poi tornò a casa sua per farsi una doccia e cambiarsi; successivamente avrebbe fatto colazione e sarebbe andato ad aprire la libreria, scusandosi per il ritardo col nipote Andrew che lo aiutava durante la settimana in cambio di un modesto stipendio.

    Heinrich, che non doveva lavorare, rimase a poltrire placidamente sullo scomodo divanoletto, rotolandosi di tanto in tanto tra le lenzuola per cambiare posizione. Mark non osava svegliarlo, ma una parte di lui avrebbe voluto cacciarlo e rispedirlo alla sua dimora.

    Frank, che non voleva lasciare da solo, decise di portarselo e passare a casa sua per prendere Mozart, il suo altezzoso cocker spaniel inglese; li avrebbe portati entrambi al parco e dopo un paio d’ore avrebbe fatto ritorno nella sua abitazione. Mark e Peter, invece, si sbrigarono per arrivare in orario a Scotland Yard. O almeno è quello che cercarono di fare.

    Quando Mark fu pronto avvisò Peter, ancora accasciato sulla sedia; la faccia pallida e l’aria assonnata non l’avevano abbandonato. Lo intimò di alzarsi, trascinandolo in bagno dove si diede una ripulita. I vestiti che indossava puzzavano di vomito e di birra, quindi gliene prestò dei suoi.

    «Mark, questi vestiti sono enormi!»

    «Non ho altro,» protestò l’omaccione con aria infastidita «accontentati.»

    Quando Mark lo vide si rese conto che effettivamente quegli abiti lo rendevano ridicolo ed era necessario fare un salto a casa sua per renderlo presentabile.

    «Ma perderemo troppo tempo!»

    «Vuoi davvero uscire conciato così?»

    «No.»

    «Allora andiamo.» Aprì la porta di casa, aspettando che Peter uscisse per poi richiuderla e andare a mettere in moto l’auto. «Merda, ho dimenticato le chiavi del garage!» esclamò, frugandosi nelle tasche.

    «Ecco, lo sapevo.»

    «Sta’ zitto! Vado a prenderle. Tu aspetta qui.»

    «Chi si muove...»

    Rientrò in casa lasciando la porta aperta; andò in cucina e guardò dappertutto: sui banconi, negli stipetti, sul tavolo… Le chiavi non c’erano. Passò in rassegna anche la camera da letto, ma senza risultati. Allora perlustrò il soggiorno – sotto il divano, dietro la televisione, sotto il tavolino e dietro i cuscini -, ma le chiavi non erano neanche lì. Controllò le tasche di tutti i vestiti che aveva nell’armadio, poi diede un’occhiata in bagno e nel ripostiglio. Nulla. Erano sparite. Stava per urlare la sua disperazione a tutto il vicinato, quando ricevette una chiamata da Frank. Ovviamente riversò la sua rabbia su di lui, anche se non aveva nulla a che fare con quella sciocca questione.

    «Pronto.»

    «Sei arrabbiato? Hai la voce incazzata.»

    «No.»

    «Certo, e io sono la Regina d’Inghilterra.»

    «Che cazzo vuoi, Frank?!»

    «Non ti scaldare! Volevo solo chiederti una cosa.»

    «Be’, fallo in fretta.»

    «Non mi va di tornare a casa tua per lasciare . È un problema se lo tengo con me e te lo riporto stasera?»

    Mark non poté fare a meno di notare che, detto in quel modo, sembravano quasi una coppia divorziata intenta a discutere sull’affidamento del figlio.

    «No. Va benissimo. Ciao.»

    «Ciao, Mar...»

    Riattaccò.

    Stava per mettersi alla ricerca delle chiavi, ma Peter lo precedette.

    «Le ho trovate.»

    «Dov’erano?»

    «… Nella tasca del pantalone che mi hai prestato.»

    Gli lanciò uno sguardo omicida, convinto che fosse indirettamente colpa sua per non essersene accorto prima, ma l’amico sfoderò un sorriso innocente, porgendogli le chiavi; Mark andò ad aprire il garage, ma prima di poter entrare sentì la voce della vicina, la signora McGravy, che lo chiamava dal suo giardino.

    «Mark, tesoro!»

    Il poliziotto radunò tutte le forze che avevo in corpo per sorridere.

    «Salve, signora McGravy

    «Come sta? Come si sente oggi? Sembra stanco.»

    Secondo la signora McGravy Mark sembrava sempre stanco. E  lo era per davvero.

    «Benissimo, grazie, ma ora devo scappare a lavoro, sono già in ritardo.»

    «No, aspetti un attimo! Prendo le mele. Gliene do qualcuna, le faranno bene. Ha sentito il messaggio che le ho lasciato in segreteria? Gliel’avevo detto che gliene avrei messe un po’ da parte! Torno subito.»

    «Sì, sì, l’ho sentito… No, no! Non si scomodi!» cercò di fermarla, ma lei era già rientrata in casa. «Peter,» bisbigliò con tono confidenziale, aprendogli lo sportello per poi spingerlo delicatamente dentro l’abitacolo «salta in macchina, andiamocene prima che ritorni.»

    «Mark! È da maleducati andarsene così.»

    «Lo so, ma quella ci farà perdere un’ora in chiacchiere. Dobbiamo andare.»

   Peter acconsentì, suo malgrado, mostrando ostinatamente il suo dispiacere con un sonoro sospiro indignato; fecero una brevissima sosta a casa di Peter e subito dopo s’impegnarono in una corsa contro il tempo per arrivare a Scotland Yard in un margine di tempo accettabile.

    Inevitabilmente ritardarono di quasi quaranta minuti – forse cinquanta – e la prima a sgridarli per la loro negligenza fu Kerstin, una stramba ragazzina che aveva l’abitudine di tingersi i capelli di tonalità assurde: quel mese, ad incorniciarle il viso e a metterle in risalto gli occhi verdi, c’era una folta chioma fucsia tenuta ritta sulla testa  come la schiena di un porcospino. I suoi colleghi l’avrebbero vista meglio come artista che come poliziotta, ma in quella stazione molti di loro erano fuori posto. Kerstin si lamentò per più di dieci minuti su quanto i due fossero distratti, pigri e… E qualcos’altro che i due non si presero la briga di ascoltare.

    Mentre la ragazza continuava il suo affascinante discorso sulla disciplina, l’ispettore Bernard Fraser spalancò la porta del suo ufficio, richiamando la loro attenzione. Era un uomo alto, con spalle larghe e occhi infossati, una persona solitamente tranquilla e pacata, ma l’espressione dipinta sul suo volto in quell’istante non era delle più rassicuranti. Kirsten, intimorita, si zittì immediatamente, tornando alla sua postazione senza neanche salutare.

    «Mark, Peter» chiamò l’ispettore, avvicinandosi con passo svelto. «abbiamo un caso.»

    «Di cosa si tratta?» s’informò Mark.

    «Suicidio.»

 

 

 

 

 

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Fatti curiosi non poi così curiosi:

Il cognome originale di Bernard era Fletcher: mi piaceva

moltissimo come suonava, ma son stato costretto a cambiarlo

perché ho scoperto che esiste già una specie di investigatrice

omonima. Ho deciso di chiamarlo “Fraser” perché mi ricorda la

parola “freezer” e Bernard è… come dire… così freddo, con le

spalle larghe e… mi ricorda un frigorifero.

 

 

                                                     Christopher

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