la stella d'autunno

di ejamary
(/viewuser.php?uid=795215)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** un salto nel buio ***
Capitolo 2: *** un viaggio inaspettato ***
Capitolo 3: *** Le terre selvagge ***
Capitolo 4: *** Ospiti non troppo desiderati ***
Capitolo 5: *** Alto e basso ***
Capitolo 6: *** Una porta che si apre ***
Capitolo 7: *** non accettare cibo dagli sconosciuti ***
Capitolo 8: *** bianca come le stelle ***
Capitolo 9: *** incontri altolocati ***
Capitolo 10: *** il nemico del mio nemico ***
Capitolo 11: *** il prezzo della libertà ***
Capitolo 12: *** feriti ***
Capitolo 13: *** l'athelas ***
Capitolo 14: *** il governatore ***
Capitolo 15: *** ghiaccio che si scioglie ***
Capitolo 16: *** all'ombra della Montagna ***
Capitolo 17: *** una serratura ***
Capitolo 18: *** Smaug ***
Capitolo 19: *** fuoco e bagliori ***
Capitolo 20: *** una vita per un'altra vita ***
Capitolo 21: *** la battaglia delle cinque armate ***
Capitolo 22: *** Colle Corvo ***
Capitolo 23: *** febbricitanti ***
Capitolo 24: *** luce ***
Capitolo 25: *** la fine di un problema... ***



Capitolo 1
*** un salto nel buio ***


PARTE 1-prologo
Prim…Rue…non è proprio per loro che devo provare a combattere? Perché ciò che hanno subito è così sbagliato, così ingiustificabile, così malvagio da non lasciare altra scelta? Perché nessuno ha il diritto di trattarle come sono state trattate?
Sì. E’ questo che devo ricordare, quando la paura minaccia di inghiottirmi.
Ami era sdraiata sul piumone a fiori di Andra e finì di leggere con un sospiro. Abbassò il libro dalla copertina rosso fiamma sulle gambe allungate e alzò al soffitto i grandi occhi colmi di lacrime.
-Questa parte…quanto coraggio, quanta determinazione! Mi fa correre i brividi sulla schiena
Le ragazze annuirono in silenzio. Elemmire era inginocchiata ai piedi del letto e ascoltava assorta. Non capiva davvero cosa Ami potesse trovare di affascinante in un pezzo tanto scontato, tanto banale. Si trattene dal chiederlo osservando che tutte le sue compagne sembravano rapite e immerse nella medesima miscela di riflessione e ammirazione. Tutte tranne Andra, che sedeva sulla sua sedia imbottita e si tormentava i lunghi capelli biondi. I suoi occhi chiari incontrarono quelli color zaffiro di Elemmire e tra le due passò uno sguardo pieno di complicità. Rimasero in silenzio fingendo lo stesso raccoglimento finché Andra, in veste di presidente, non si schiarì la gola e tagliò corto:-Molto bene, senza dubbio interessante.
Elemmire si sforzò di rivolgere un cenno di assenso e un sorriso tirato a Ami. Nella riunione precedente si era discusso di 1984 di George Orwell e Ami era stata capace di parlare per un’ora intera. Alla fine Elemmire era sbottata e con delicatezza aveva domandato quanto ancora a lungo Ami avesse intenzione di sparare cazzate. Non sarebbe stato tanto grave se l’affascinante e colto fratello di Andra non fosse stato presente ad ascoltare. Ami era pazza di lui da prima che iniziasse la scuola superiore. Quando Elemmire se n’era resa conto il senso di colpa l’aveva quasi soffocata, ma non aveva avuto il coraggio di fare le sue scuse ad Ami, pur riconoscendole dovute. Aveva così risolto di delegare ad Andra il ruolo di mediatrice, ma le scuse non erano state accettate comunque.
Elemmire aveva gradito La Ragazza Di Fuoco che Ami aveva proposto. L’aveva trovato credibile e non una frase particolare, ma il senso stesso della storia l’aveva colpita. Sentiva di poter condividere intimamente la ribellione di Katniss e provava l’angoscia di poter perdere i suoi familiari per divertimento di una minoranza come se fosse vissuta realmente a Panem. Avrebbe voluto sperimentare anche il senso di protezione verso una sorella, o un fratello minori, ma non aveva.
-Bene- riprese Andra alzandosi e dirigendosi verso le sue mensole colme di libri ammonticchiati –Questo mese la scelta è mi…
-Perché Elemmire non parla?
Lo sguardo azzurro di Elemmire inchiodò Andra dove si trovava.
-Evidentemente non ne ha voglia, Ami.
-Io invece ho voglia di sentire la sua opinione. Non ti è piaciuto il libro?
Elemmire fronteggiò Ami. Era senza dubbio una ragazza bellissima, con una cascata di capelli dorati, profondi occhi viola e labbra dolci e sensuali.
-Mi è piaciuto- rispose tiepidamente senza capire dove l’altra volesse arrivare. Aveva però la sensazione che non lo facesse per amor di conversazione.
-Davvero? E cosa in particolare? Ti ritrovi forse nel personaggio di Finnick?
-Ami…
-O forse più in quello di Katniss? Vedi in lei qualcosa di simile a te, magari una madre?
Elemmire si sentì congelare. Rimase perfettamente immobile con in mano il saldo controllo dei muscoli facciali. Il suo viso era una maschera impassibile.
-Ami, hai passato il limite. Nessuno ti autorizza a…a fare quello che hai fatto. Se tra te e Elemmire ci sono dei dissapori vi invito a parlarne al di fuori di questa stanza. Durante le riunioni non tollero che si manchi di rispetto in questo modo a uno dei membri.
Un silenzio imbarazzato era sceso nella stanza. Ami teneva lo sguardo basso e la fronte aggrottata come una bambina messa in punizione. Elemmire era ben risoluta a fissare l’orlo del vestito della compagna finché la testa non le avesse smesso di girare.
-Prima che venissi interrotta, stavo dicendo che ho già scelto il libro su cui discutere nella prossima riunione. Per alleggerire l’atmosfera- gettò un’occhiata carica di significato ad Ami – Dopo due classiche distopie ho pensato che l’ideale sia un bel fantasy. Con la consulenza speciale di mia sorella ho deciso per Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien, che nemmeno io ho ancora letto, per la cronaca.
Elemmire si sentì prendere dallo sconforto. –Non un fantasy, ti prego!- implorò. Andra la guardò con gli occhi che brillavano:-E’ tempo signorina che tu apra la testa a tutte quelle esperienze che non hai mai provato. Il fantasy rientra tra queste. A proposito, mamma fa i tacos per cena, pretendo che tu ti fermi da noi. La riunione è finita, il Club è sciolto.
 
Elemmire conosceva Andra meglio e da più a lungo dei suoi stessi genitori. Si portavano pochi mesi- l’una di fine Settembre, l’altra di Luglio- ed Elemmire la vedeva come la sorella che non avrebbe mai avuto. Tuttavia ogni volta che sedeva a tavola in casa sua, attorniata dalla sua famiglia gioviale e rumorosa, sentiva una dolorosa puntura d’invidia al cuore nel pensare al letto grande e freddo dove avrebbe dormito, ai passi che riecheggiavano nella casa vuota, all’odore di vecchio che aleggiava nella camera di sua nonna. Aiutò a sparecchiare mentre Andra chiacchierava vivacemente con la madre, intervenendo ogni tanto con una precisazione o un commento. Mrs Dust era tanto minuta e delicata quanto i suoi figli e le sue figlie erano alti e resistenti.
-E poi Ami ha offeso Elemmire, le avrei messo le mani addosso.
-Non penso l’abbia fatto apposta- tentò di mediare Elemmire –Magari neanche se n’è resa conto.
-Non essere stupida, Eli. Sa benissimo che giorno era oggi. Scommetto che se la teneva dentro da tutta la riunione.
-Ce l’ha ancora con me per la storia di tuo fratello, immagino- sospirò Elemmire.
-Bhe, tanto peggio per lei. Non è certo ciarlando per ore che conquisterà la sua attenzione, e tu hai fatto un favore a tutti quanti. Ancora due minuti di quelle chiacchiere insulse e mi sarebbero cadute le orecchie.
Andra aveva un modo di gesticolare e una ricchezza di espressioni facciali che metteva Elemmire sempre di buon umore. –Mi aiuti a finire letteratura?- chiese Andra speranzosa guardandola fisso. Elemmire non seppe rifiutare.
La cameretta dove spesso si riunivano con il Club Letterario era enorme e vi dormivano Andra e la sorella maggiore. Accanto al letto c’era una vasta scrivania con due sedie imbottite color salmone e ai muri riproduzioni di quadri ed enormi fotografie di città famose. Andra si sedette sistemando le pieghe del maglione grigio a coste nei pantaloni di pelle nera. Elemmire prese posto accanto a lei e cercò di ignorare l’immagine che le restituiva lo specchio sospeso sulla scrivania.
Sei così simile a tua madre!
L’Orlando Furioso si avviluppava sotto i suoi occhi e la sua lingua con la magnificenza di un antico poema epico, fino ad arrivare all’episodio dove Cloridano si sacrifica per il giovane amico Medoro. Le due amiche finirono di leggerlo con le lacrime agli occhi. Andra aveva stretto le sue braccia attorno a Elemmire e le singhiozzava sulla spalla.
Garen, l’aitante fratello maggiore di Andra, si affacciò alla porta e con una risata disse qualcosa che Elemmire non capì, qualcosa che aveva a che fare con due tizi detti Fili e Kili che ad un certo punto morivano in battaglia. Pareva uno degli scioglilingua che spesso Garen si divertiva a canticchiare per casa.
Sei così simile a tua madre! Elemmire vide il suo sguardo azzurro riflettersi nello specchio da sotto il pesante trucco nero. Rimase immobile tra le braccia di Andra, senza provare nemmeno a ricambiare l’abbraccio con un impacciato tentativo. Non quel giorno. Sì, forse Ami sapeva benissimo che giorno era.
Nella stessa notte di Novembre, due anni prima, Angrid Blage moriva in un letto d’ospedale brasiliano.
 
C’erano parecchie cose che Elemmire si era vista costretta a ridimensionare il giorno del funerale. Innanzitutto la sua residenza. Sei così simile a tua madre! aveva detto sua nonna nel rivederla dopo tanti, tanti anni, prima di accoglierla a casa sua.
Non sapeva cosa intendesse. Sua madre aveva una figura alta e slanciata e lunghi capelli biondi, un viso affilato e uno sguardo penetrante e magnetico. Quando tornava dai suoi interminabili set fotografici portava giacche di pelle che profumavano di posti selvaggi e jeans strappati e impolverati. Forse suo padre non aveva mai davvero capito quanta libertà desiderasse la moglie, e forse non aveva mai avuto la forza per lasciare andare del tutto quell’uccello esotico e colorato che ogni tanto prendeva la macchina fotografica e spariva, per ricomparire dopo settimane con una rivista in mano dove era rappresentata accucciata accanto a un giaguaro o sprofondata nella sabbia del deserto. Suo padre si limitava a osservarla da lontano.
Dal punto di vista economico non aveva sentito il peso delle ristrettezze. Era abituata a mangiare poco e a non concedersi nulla, se non molti libri, specialmente nel periodo successivo alla perdita. Ma non si era mai sentita così vuota. Era difficile da spiegare, ci aveva provato tante volte con Andra che credeva la cosa migliore fosse “buttare fuori quello che sentiva”. Elemmire non sentiva nulla. E questa apatia la spaventava. Persino in mezzo alla gente riusciva a sentirsi immensamente sola. E basta. Come un palloncino a cui viene tagliato il filo. Sola.
Si sentiva sola anche mentre tornava a casa. La notte era serena e le stelle dormivano nel cielo fondo. Lungo la strada si sentiva il raspare di qualche gatto nei cortili. I suoi passi non facevano rumore. Tentò di stringersi attorno al corpo l’impermeabile chiaro per contrastare il crescente freddo che avvertiva in sé. Fu un lampo nell’aprire il portoncino, scivolare lungo il vialetto, scostare la porta laterale e poi correre in punta di piedi al piano di sopra, in camera. In corridoio passò davanti alla stanza della nonna, dalla quale proveniva un discreto russare. Avanzò nel buio pesto, cercò a tentoni il letto e facendosi luce con la piccola lampada da comodino si tolse i vestiti, ancora troppo leggeri per la stagione, e si infilò sotto le coperte. Un momento prima di addormentarsi ricordò di aver dimenticato la sua copia di La Ragazza Di Fuoco a casa di Andra. Il pensiero durò un battito di ciglia e si dileguò nell’indefinito regno dei sogni.
 
CAPITOLO UNO
 
Il tempo era stato orribile. Una pioggia battente e gelida aveva martoriato la città per tutto il fine settimana e Mercoledì era arrivato anche il vento, sferzante e arrogante che strattonava l’orlo della giacca. Elemmire era in piedi davanti allo specchio con la pelle d’oca ovunque mentre cercava i vestiti adatti a quel tempaccio. Era proporzionata e slanciata, come sua madre, con lunghi capelli neri come inchiostro, liscissimi e setosi.
Aveva avuto un pomeriggio di studio pesante e non ne poteva più di rimanere in casa. Doveva uscire, prendere aria, le fosse anche crollato il cielo in testa. Infilò un pesante pantalone grigio perla e un lungo e caldo maglione intrecciato dello stesso colore. Non pensò nemmeno all’eventualità di truccarsi, perché tanta di quell’acqua c’era fuori che si sarebbe tutto sciolto prima ancora di giungere al portoncino. Inforcò la borsa di simil pelle bianca, la riempì di fazzoletti di carta e prelevò appena qualche banconota dal suo cofanetto di deposito.
-Nonna, cosa vuoi per cena?- urlò scendendo le scale. La vecchia signora che chiamava nonna era in realtà la zia di suo padre. Sedeva tutta rattrappita davanti alla televisione.
-Che c’è?- balbettò senza alzare lo sguardo.
-La cena, nonna. Hai presente?
-Eh, che ha fatto la cena?
-Non c’è, nonna.
-Come?
-Non abbiamo nulla per cena- Elemmire mise le mani a coppa attorno alla bocca per farsi sentire meglio –Hai una particolare preferenza?
-Che è? Una credenza?
-Preferenza, nonna!- rispose Elemmire con pazienza –C’è qualcosa che ti piace e che vuoi io compri per cena?
-Ma…ma…benedetta ragazza, stai davvero uscendo? Che non hai visto che tempo fa fuori?
-Ho l’ombrello. Non preoccuparti di me, dimmi della cena.
-Ma sei sicura? Ma non sarai leggera?
-No nonna, è lana quella che porto addosso. Se prendo qualcosa di etnico lo mangi?
-Cosa?
-Etnico! Giapponese, thailandese…
-Ah milanese! Ma non è tardi per mettersi a friggere le cotolette gioia mia?
Anche la pazienza di Elemmire aveva un limite, e spesso sua nonna sapeva esasperarlo come nessun altro. –Ci vediamo dopo- tagliò corto. Uscì sbattendo la porta dietro di sé.
Fuori pioveva a vento. Come aveva previsto, gocce fredde le bagnarono subito il viso prima ancora di darle il tempo di aprire l’ombrello. Lottando contro i mulinelli d’aria e foglie secche uscì nel buio della sera novembrina. Si procurò del cuscus al take-away africano e poi riattraversò il dedalo di vie per tornare a casa, stanca e spazientita da tutta quella pioggia. Si sentiva i piedi fradici. Camminava con lo sguardo fisso a terra, attenta ad evitare le pozzanghere per non affondare fino alla caviglia nella melma. Girò un angolo, mentre un lampo illuminava il cielo di violetto, e sentì il tuono risuonarle nel cranio. Percorreva già da diversi minuti la strada quando il temporale si fece insostenibile. Non le dava scelta se non ripararsi in qualche negozio ancora aperto. Fiumi d’acqua scrosciavano sul suo ombrello e scorrevano poi ai suoi piedi. Fu allora che la vide. Sulla sua destra c’era una piccola, minuscola anzi libreria con una piccola insegna che il buio rendeva incomprensibile. Ricordò che doveva ancora comprare Lo Hobbit che aveva proposto Andra, e cedette alla tentazione di riscaldarsi tra gli scaffali illuminati da una gradevole luce rosata. Entrando fu come se entrasse in un altro mondo. Il rumore del temporale era lontano. Oltre la vetrina i lampioni azzurri continuavano a illuminare le volute di pioggia, ma nella libreria c’era silenzio. Un silenzio meraviglioso. I muri erano fatti di pietra viva, ruvida e dal caldo color nocciola, e di quattro pareti tre erano tappezzate di scaffali e mensole. I libri sembravano messi alla rinfusa: non erano divisi per autore, o per genere, o per colore, e alcuni erano stati infilati nei loro spazi al contrario o con le copertine rigirate. Era tutto così eterogeneo che l’effetto visivo risultò splendido. Elemmire iniziò a toccare i libri uno ad uno, con le copertine a volte lisce e nuove, altre volte (quest’ultime più frequenti) ruvide e screpolate. Trovò in poco tempo una copia economica del libro di Tolkien in copertina bianca con il titolo a vivaci caratteri azzurri. Non c’era anima viva, né quello che poteva assomigliare a un bancone, una cassa, insomma, qualcosa dietro cui fossero dei commessi. In un angolo però c’era un basso tavolino e delle poltroncine imbottite. Dimentica del mondo, della cena che si raffreddava e di qualunque altra cosa, Elemmire si sedette e iniziò a leggere il saggio introduttivo, assaporando ogni parola in quel posto dove il tempo sembrava scorrere diversamente, più lento e docile ai desideri umani. Forse passarono solo pochi minuti, forse ore, chi può dirlo? prima che qualcuno si facesse vivo interrompendo la sua attività. E quel qualcuno era un vecchio estremamente magro e rugoso, tutto curvo sul suo nodoso bastone, con i capelli arruffati e una lunga barba sporca e incolta. Elemmire schizzò in piedi sulla sedia divisa tra spavento e disgusto. Il vecchio indossava panni lerci e pareva un mendicante ubriaco se gli occhi non avessero avuto una luce particolare, che sicuramente apparteneva a un uomo sobrio.
-Cerco qualcuno con cui condividere un’avventura che sto organizzando ed è molto difficile trovarlo.
La voce del vecchio non era roca e sbiadita, ma forte e gutturale, e le parole arcane e inaspettate rimasero sospese nell’aria per un po’ prima che Elemmire le raccogliesse. Era talmente spaventata che dimenticò ogni cortesia. Era chiaro che l’uomo non era in pieno possesso delle sue facoltà mentali. D’improvviso tornò nel tempo e nel luogo che aveva lasciato. Era entrata nella libreria per ripararsi dal temporale, aveva trovato un libro che non leggeva di spontanea volontà e l’avevano fatta aspettare un quarto d’ora buono per pagarlo. Intanto il cuscus doveva essere diventato una pappetta aromatizzata al pepe rosso.
-Io devo pagare questo libro. Non sono interessata a nessun’altra cosa lei stia dicendo- rispose sprezzante.
Il vecchio allungò la mano callosa e fragile e chiuse il braccio di Elemmire in una presa che era tutt’altro che debole. La ragazza si scansò di scatto, il cuore che le batteva come un tamburo.
-Non temere, sei perdonata e ti darò quello che vuoi. Avrai parte anche a tu alla mia avventura.
-Io non voglio nessuna avventura- Elemmire si impose di non gridare e di recuperare il controllo dei nervi. Era un vecchietto innocuo. Con la coda dell’occhio si assicurò che l’ombrello fosse a portata di mano.
-E invece sì, me l’hai appena detto. Ti accontenterò, vedrai.
-Lei è matto- disse Elemmire con decisione e un sorriso di compassione. In realtà iniziava a mancarle il respiro. Quel vecchio la spaventava e la inquietava in un modo tutto particolare. Girò sui tacchi, raccolse l’ombrello e la busta del take-away e uscì fuori a passo di marcia. Il libro rimase aperto sulla poltroncina.
Fuori il temporale non aveva diminuito la sua intensità. Dopo il caldo rassicurante della libreria tutto quel vento e la pioggia gelida la fecero sentire decisamente congelata. Iniziò a camminare a passo veloce verso la fine del vicolo, ogni nervo teso. Aveva paura che il vecchio la seguisse balbettando le sue frasi senza senso. Un fulmine illuminò per un attimo tutta la strada davanti a lei, e ogni singolo mattone di ogni singola casa risplendette avvolto da una lucida cortina di pioggia argentea. Poi calò l’oscurità più totale. Elemmire pensò che il fulmine l’avesse accecata tanto da impedirle di riconoscere la luce bluastra dei lampioni, ma quando i ricami rossi e viola furono spariti dalla sua retina si accorse di non riuscire a vedere oltre il proprio naso. Doveva esserci stato un blackout improvviso in seguito alla tempesta elettrica. Una folata di vento di immane forza le strappò di mano l’ombrello ed Elemmire sentì l’acqua fredda scorrerle tra i capelli e poi dentro il colletto della maglia. Urlò per la sorpresa e la disperazione.
 Il tuono rimbombò tanto forte che le fece tremare la terra sotto i piedi. Sentì che le gambe non la reggevano e precipitò nel buio assoluto, incontrando a metà strada il duro suolo. Rimase lì, accucciata come un cane randagio, fradicia, infreddolita, troppo terrorizzata per guardarsi attorno e con le orecchie che fischiavano. Sentiva il battito del proprio cuore correrle in gola, e ad un certo punto si accorse che era l’unico suono rimasto. Tutto attorno a lei c’era silenzio, ma se possibile un silenzio vivo, il silenzio che hanno le campagne nelle notti d’estate. I vestiti bagnati la tenevano inchiodata per terra, ma quando distese timidamente le braccia si accorse con stupore che sotto di sé c’era erba. L’accarezzò con la punta delle dita prima di aprire gli occhi. Un cielo sereno e trapunto di stelle la guardava. Erano stelle come non ne aveva mai viste, così numerose, così brillanti da far pensare appartenessero ad un altro mondo. Facevano luce al paesaggio circostante che, per quanto Elemmire potesse vedere, era composto di dolci colline erbose. L’aria era calda, e profumava di braci e carne arrostita.
Il primo pensiero di Elemmire fu: sono pazza. Il secondo differiva di poco: ho le visioni.
Non tentò nemmeno di schiaffeggiarsi, piuttosto si guardò intorno cercando delle incongruenze logiche nel paesaggio che la circondava. Era fermamente convinta che qualsiasi cosa stesse succedendo nella sua testa funzionasse come certi sogni, dove tutto appare perfettamente reale finché non trovi un particolare –magari la pettinatura di un personaggio, o la disposizione di un oggetto- che sai non corrispondere al vero. Allora è come se nel sogno si formasse una crepa, e battendoci sopra uscissero ovunque altre incongruenze, altri errori, finché tutto non scoppia in una bolla di sapone e il sonno, con il sogno, ti abbandona. Elemmire tastò e annusò l’erba, provò ad assaggiare la terra, perfino ad allungare la mano verso l’alto, convinta forse che il cielo stellato fosse una copertura posticcia posta a pochi centimetri dalla sua testa. Niente di tutto ciò. Ogni cosa attorno a lei era perfettamente reale o quanto meno verosimile nei minimi particolari. Cercò allora di capire come ciò che era successo –di qualunque cosa si trattasse- era, per l’appunto, successo. Non ricordava di aver sbattuto la testa, ed era sicura di aver avuto lo scivoloso manto stradale sotto di sé al momento della caduta. La caduta. Il tuono. Poteva essere un illusione ottica e sensoriale dovuta alle particelle elettroniche? Non era mai successo prima, ma era disposta a crederlo per salvare la sua salute mentale. Sentiva infatti che se non avesse compreso a fondo quello che le stava succedendo, e in fretta, sarebbe impazzita.
Starnutì poderosamente e ricordò di indossare panni bagnati e di essere completamente zuppa. Si impose di non piangere per la frustrazione e sedette raggomitolata con le gambe al petto per analizzare ancora una volta la sua situazione. C’era stato un blackout, perfetto. Lei era in quei vicoli a poca distanza dalla periferia. Poteva darsi che barcollando nel buio avesse imboccato la via sbagliata. Ma dov’era allora la città? Dove le case? Dopo il blackout le era volato via nel buio l’ombrello e affondare in un fiume in piena non avrebbe potuto renderla più bagnata. Era poi caduta in seguito al quel tuono, quello che aveva scosso la terra e che le era rimbombato in ogni fibra di materia corporea. Forse era svenuta. Forse qualcuno l’aveva presa e abbandonata in quel luogo. Ma non ricordava di aver perso conoscenza.
Per quanto Elemmire fosse desiderosa di trovare una spiegazione logica e razionale, non era disposta a mentire a se stessa. Era rimasta sveglia e lucida durante tutta la caduta, e nessuno era con lei nel momento in cui, per brevi istanti, aveva perso contatto con il mondo che la circondava. Nessuno, a parte quell’innocuo vecchio. E comunque, un’altra presenza umana non avrebbe spiegato nulla. Si arrese con un singhiozzo alla sua incapacità di comprendere, e si ripromise di parlarne con Andra appena fosse tornata a casa. Già, casa. Doveva trovare qualcuno che la riportasse in città, o perlomeno le desse le indicazioni per raggiungerla. E possibilmente dei vestiti asciutti. L’aria in quel posto era piuttosto calda, e l’erba asciutta, ma prima o poi il temporale si sarebbe spostato e avrebbe raggiunto la campagna. Era disposta a viaggiare a piedi ma adeguatamente premunita. Si alzò in piedi e iniziò a scendere lungo il crinale. Sul fondo, tra collina e collina, scorreva un rumoroso rivo, e un piccolo agglomerato urbano splendeva di flebili luci. Non c’erano lampioni ma finestre illuminate, per quello che riusciva a vedere. Continuò a camminare, sempre più veloce, sempre più speranzosa. Versò la metà della collina incontrò la curva a gomito di una strada e iniziò a correre lungo di essa. Era di semplice ghiaia e con nessuna indicazione stradale, nessun cartello; in compenso v’erano profondi solchi per terra come se un carro appesantito da molti corpi (bestiame forse?) vi fosse passato avanti e indietro molte volte. Forse stava per raggiungere un piccolo paese lontano dalla tecnologia e dal progresso. Questo rendeva ancora più incomprensibile ogni cosa. A metà strada si fermò di botto e diede sfogo al pensiero che la rodeva dentro calciando ripetutamente un ciottolo rotondo. Perché stava seguendo quella strada?! Non avrebbe dovuto essere lì! Perché stava dando corda a quella visione onirica, a quel qualcosa che stava succedendo nella sua testa?! Perché non si fermava semplicemente e aspettava che come quel sogno era cominciato così finisse? Qualcosa dove pur succedere se fosse rimasta ferma seduta sul ciglio della strada. Era tutto sbagliato, tutto così sbagliato. Le pareva di camminare con  i collant storti. Non poteva rassegnarsi all’idea di non saper comprendere. Doveva esserci una spiegazione e lei l’avrebbe trovata.
Il suo stomaco gorgogliò a ricordarle la cena finita chissà dove. Magari a stomaco pieno si disse e continuò, questa volta guardinga, lungo la strada. Giunse a un rustico ponte di legno intagliato e passò sopra l’allegro fiumiciattolo. Riusciva a vedere bene il paese, il villaggio o qualunque cosa fosse: si stendeva fino al crinale della collina opposta con case basse illuminate da finestre rotonde. Per strada non c’era anima viva, non un locale aperto o una coppia a passeggiare. E le case erano così basse. Non vedeva bene, ma le pareva tutto troppo piccolo e ristretto. Il profumo invitante di arrosto la fece andare avanti spazzando via ogni suo altro pensiero.
Le colline la circondavano tranquille e addormentate. Sui loro fianchi erano state costruite, o forse la parola giusta era scavate, abitazioni dai muri convessi con deliziose finestre rotonde e porte della stessa forma. Staccionate di legno dividevano un cortile dall’altro, e nell’erba alta crescevano alberi da frutto e dormivano tacchini e vitelli. Sciami di lucciole dorate lampeggiavano tra gli steli d’oscurità. Le uniche case che sembravano provviste di fondamenta erano al centro della valletta ed erano più alte delle altre; ma intorno non avevano giardini lussureggianti e orti.
Il villaggio non era costruito per persone della taglia di Elemmire, che comunque non era particolarmente alta. Su quella che pareva la piazza principale rimanevano le trace di un prospero mercato: pomodori spiaccicati per terra, foglie di lattuga rosicchiate, aste di legno che dovevano aver costituito dei banconi e gli scheletri di alcune tende. La costruzione centrale era bassa e lunga con una porta perfettamente rotonda e un porticato davanti con deliziose colonne decorate di stucco bianco dalle quali pendevano lanterne di ferro a forma di funghi. Alla loro luce soffusa le assi di legno sulla facciata della casetta sembravano dipinte di colori vivaci e motivi floreali. Elemmire provò a bussare e nel giro di pochi minuti un naso comparve all’altezza del suo gomito.
-Come posso esservi d’aiuto?- chiese una voce femminile gioviale e cortese.
-Mi chiamo Elemmire. Perdonami bambina ma c’è la mamma in casa?
La porticina rotonda si spalancò del tutto. Alla luce arancione delle lanterne, davanti agli stupiti occhi di Elemmire, comparve una donna in miniatura. Aveva folti riccioli biondi e indossava un raffinato vestito azzurro decorato con delle rose, e un grembiulino bianco. Sembrava uscita da una fiaba, se non avesse avuto piedi nudi e ricoperti di folto vello biondo, e un’espressione profondamente offesa.
-Bambina eh? Chi credete di essere, voi della Gente Alta?
Senza sapere bene cosa dire, Elemmire tentò di riparare al suo madornale errore. Era chiaro che quella non era una bambina.
-Mi dispiace signora, non sono del posto e non pensavo…non immaginavo in realtà…in realtà ecco mi sono persa.
-E cosa vorresti da noi, di grazia?
-Magari delle indicazioni per raggiungere la città, o una strada provinciale, magari illuminata.
La piccola donna la guardò con diffidenza:-Tornatene a Brea, bambina. Nella casa del sindaco non c’è posto per te.
E richiuse di scatto la porta.
In che razza di paese sono capitata? si chiese Elemmire, cominciando a sentirsi sconsolata. Si allontanò dalla chiazza di luce della casa e risalì per una delle stradine. Aveva una mezza idea di salire sulla cima della collina di fronte e provare a scorgere la città, ma qualcosa le diceva che le sue aspettative sarebbero state deluse ancora. Si inerpicò sul crinale e raggiunse dopo un po’ una casetta con le finestre illuminate e dalla quale proveniva un allegro baccano, con tanto di risate e sbattere di piatti. A tentoni aprì il cancello infisso nella staccionata, salì pochi gradini invasi da vasi di fiori e raggiunse la porta. Esitò prima di bussare.
Aveva freddo. Aveva fame. Aveva paura.
Non capiva dove si trovava. Non capiva nulla di ciò che la circondava.
Era come se fosse tornata bambina, inerme e ignorante del mondo. E la cosa la faceva impazzire.
Ma raccolse tutto il coraggio che aveva e decise di andare avanti.
Bussò sommessamente, risoluta a pensare due volte, anzi tre, prima di parlare.
Le aprì la porta un nano.
Ma non un nano deforme. Dimostrava venti, forse ventun anni, e aveva lineamenti gradevoli, lunghi capelli scuri e il viso incorniciato da una corta barba castana. Indossava una specie di casacca blu notte legata sull’ampio petto con dei legacci e sotto pantaloni scuri e morbidi stivali di pelle. In vita portava una cinta di cuoio marrone con la fibbia di finissimo argento. In una mano reggeva un boccale di ceramica che strabordava birra bionda e schiumosa. Una persona normale, insomma, se non avesse raggiunto a stento il petto di Elemmire. Lo shock la lasciò senza parole. Era decisamente troppo per la sua testa. Abbandonò ogni tentativo di dare spiegazioni, di ragionare, di pensare. Chiuse la mente e sentì ancora più forte il rumore dello stomaco vuoto, tanto più che dall’interno della casa proveniva un delizioso aroma di pesce arrostito.
-Desiderate parlare con il signor Baggins suppongo- esclamò il nano con una voce forte e allegra.
-Ho fame.
-SIGNOR BAGGINS! AGGIUNGETE UN SEDICESIMO POSTO A TAVOLA!- il nano si era girato verso l’interno e aveva urlato tanto forte da far tremare i muri. Tanta sguaiata allegria urtò i già fragili nervi di Elemmire.
-Un sedicesimo posto? E perché mai, di grazia?
La figura che comparve era talmente alta che doveva camminare china, perché la casa era davvero molto, molto bassa. Indossava un’accozzaglia di tuniche e sciarpe di ogni sfumatura di grigio, e in mano teneva un affilato cappello da mago blu scuro. I capelli e la barba erano lunghi e ingrigiti dal tempo, il viso pieno di rughe come un olivo secolare, ma gli occhi neri brillavano così vivaci e profondi da dare la sensazione che stessero scannerizzando Elemmire arto per arto. Le sopracciglia cespugliose si alzarono con sorpresa.
-Kili, chiama Bilbo, in fretta.
Il nano trotterellò via ridendo e urlando parole in una lingua gutturale e arcana. Dietro di lui rimasero impronte di fango e metà boccale di birra.
-Signore- Elemmire alzò lo sguardo verso l’uomo vestito di grigio –Signore, lei saprebbe dirmi dove sono, e magari come ci sono finita?
L’uomo la squadrò ancora a lungo con occhi che rimuovevano la pelle brandello su brandello per osservare nel profondo.
-Sei a Hobbiton, ma immagino questo nome non rappresenti nulla per te.
-Infatti signore. Stavo tornando a casa e sono caduta qui. So che sembra un po’ improbabile detto in questo modo, e può darsi per esempio che io stia impazzendo, o che sia già impazzita, ma le assicuro, è la verità. In quale stato si trova Hobbiton?
-Hobbiton fa parte della Contea, ma è piuttosto inutile che io te ne parli. E’ chiaro che non sai cosa fartene delle mie indicazioni.
-La contea di cosa, se posso chiedere?
-La Contea e basta. Si chiama così il territorio compreso tra il corso meridionale del Brandivino e i Porti Grigi. Vieni dentro, in ogni modo. Sei caduta nel fiume?
-Nossignore, a casa pioveva fino a…- Elemmire non sapeva quanto tempo fosse passato dal suo arrivo in quella “Contea”. –Fino a poco fa- concluse chinandosi per entrare nella casetta.
Il vecchio rivolse uno sguardo perplesso al cielo sereno e poi borbottò tra sé e sé:-E così Balin aveva ragione. Ancora una volta. Pioverà stanotte.
La casa era un intrecciarsi di corridoi scavati nel fianco della collina su cui si aprivano stanze arredate con la massima cura e provviste di ogni comfort...se a viverci fosse stato un uomo del diciannovesimo secolo. Eppure non era tale il proprietario dell’abitazione.
Elemmire lo incontrò mentre si dirigeva verso quella che presumibilmente era la sala da pranzo, dalla quale proveniva un frastuono assordante di urla e rutti: un omino scalzo con enormi piedi pelosi e una testa bionda e ricciuta. Indossava una vestaglia di ciniglia e aveva l’aria semplicemente stravolta.
-Bilbo, potrei presentarti gentilmente la signorina…non ho afferrato il tuo nome.
-Elemmire. Elemmire Blage.
-La signorina Blage. Mia cara, questo è il signor Baggins, il padrone di casa.
-Ah, meraviglioso Gandalf! Un’altra! Non bastavano i nani, no, ora anche la Gente Alta entra ed esce da casa mia come se fosse un mercato coperto! Bhe mi dispiace ma il cibo è finito, la festa anche e ora devo chiedervi davvero di tornare a casa, a Brea o dovunque voi abitiate.
Elemmire rimase di stucco. Non credeva che in un esserino così piccolo ci fosse tanta energia.
-Temo…ecco temo sia esattamente questo il punto, signor Baggins. Io mi sono persa.
-E sul come e sul perché avremo da discutere per un po’, la signorina ed io. Possiamo usare per un attimo la sala da the, caro Bilbo?
Il signor Baggins fece un cenno con la mano e si precipitò verso la sala da pranzo.
Elemmire seguì l’uomo in grigio fino ad una piccola stanzetta con caminetto e due poltrone imbottite. Aveva fame, ma non osava aprire bocca. L’uomo sedette con difficoltà su una delle poltrone e le fece cenno di fare altrettanto.
-Non rimanere ferita dalla scortesia del caro Bilbo. E’ che gli hobbit non amano ricevere visite senza aspettarle, specialmente da parte di perfetti sconosciuti. Ma un po’ di aria fresca farà bene a questa vecchia casa. E’ rimasta chiusa per troppo tempo.
Il vecchio aveva tirato fuori da una tasca una lunga pipa e aveva incominciato a spedire anelli di fumo colorati verso il soffitto. Era meditabondo.
-Parliamo di cose serie, ora. Mi è sembrato di capire che sei caduta qui?
-Nel senso letterale della parola, signore.
-Chiamami pure con il mio nome. Io sono Gandalf, lo stregone, e Gandalf vuol dire me.
-Signor Gandalf, io stavo camminando sotto la pioggia, signore, e credo di essere caduta. L’ombrello mi era volato via. Solo che quando ho alzato la testa ero…ero qui. Voi sapete cosa è successo signore?
La testa di Gandalf era avvolta da una nuvola di fumo. Solo gli occhi neri erano visibili, scintillanti e saggi.
-Dove abiti, con precisione?
Elemmire si guardò intorno. –Forse sapere dove sono con esattezza potrebbe aiutarmi. Avete una mappa?
Gandalf si alzò e rovistò per qualche minuto in una grande cassapanca di legno nell’angolo (sempre che una stanza circolare possa avere degli angoli). Tornò indietro recando una mappa ingiallita e polverosa. La spiegò sul tavolino da the e luoghi e nomi sconosciuti si dipanarono scricchiolando sotto gli occhi increduli di Elemmire. La scrutò da vicino, la girò e rigirò e alla fine, sforzandosi di mantenere la voce neutra, disse:-La mia città non compare su questa mappa signor Gandalf.
Gandalf aggrottò le sopracciglia. –Tutto questo è assai strano. E io ne ho viste di cose strane. Vieni forse dal grande sud? Abiti i deserti dell’Harad?
-Non ho mai visto un deserto se non in foto, signore.
-Foto? Cos’è una foto?
-Ritratto- si corresse Elemmire, attorcigliandosi l’orlo della maglia. –E’ che dalle mie parti si chiama così.
Gli occhi di Gandalf si accesero. Si alzò di scatto e la guardò da vicino, analizzando con nuova curiosità il suo vestiario.
-Per la chioma di Feanor…Sarà mai possibile?
Elemmire rimase ferma a guardarlo. Gandalf le incuteva assieme timore e fiducia.
-Provieni dall’Altro Mondo?
-Dipende tutto da cosa si intenda con Altro Mondo.
-Ma è chiaro, un mondo parallelo a questo. Ah! Non sono mai arrivato a fondo di un dilemma con tanta velocità! C’erano leggende che parlavano di ciò, ma ero convinto fossero voci insensate che circolavano ai tempi di Nùmenor. A quanto pare è vero. Esiste un Portale tra la Terra e la Terra di Mezzo. E quel portale è stato aperto, stanotte stessa.
-Ciò vuol dire signore che non sono sul pianeta Terra? Che sono in un’altra dimensione?
-Se vuoi puoi dirla in questi termini. Sei nella Terra di Mezzo. Questo vuol dire luogo e tempo differente, se vuoi saperlo, e sicuramente un bel po’ di cose divertenti da vedere. Che prodigio…
-Sembrerebbe quasi un’opera di magia....- commentò cauta Elemmire.
-Ovviamente è opera di magia. Ah! Credi che un Portale si apra ogni giorno?
-Non lo so signore, non sono esperta di portali- rispose Elemmire con energia. Iniziava a sentirsi meglio. Sapere che un potere arcano e misterioso l’aveva portata lì, seppur arduo da credere, la sollevava dal compito di darsi una spiegazione razionale. Sbadigliò avvertendo il calo di tensione improvviso.
-Consiglio vivamente di raggiungere gli altri a tavola. Forse i nani hanno lasciato qualcosa ancora di commestibile. Io ho bisogno di riflettere da solo.
Elemmire si alzò, impacciata si esibì in un rigido inchino, e camminò verso la sala rumorosa cercando di non urtare la testa sul soffitto. Era fatta insomma. Sapeva dov’era, la sua sanità mentale era salva e presto Gandalf l’avrebbe condotta a casa. Perché se di magia si trattava, qual era il compito di uno stregone se non controllarla?!
La sala da pranzo di casa Baggins era troppo stretta per l’allegra compagnia che vi era seduta. Tredici nani brindavano e si abboffavano come se non avessero visto cibo per settimane. Il signor Bilbo era fermo con aria sconsolata, appoggiato allo stipite della porta.
-Voi non mangiate, signor Bilbo?- chiese Elemmire con l’intento di mostrarsi amichevole. Come risposta ricevette un’occhiataccia e un secco:-Non ho fame.
Bhe, forse Bilbo Baggins non aveva fame, ma Elemmire sì. Entrò nella sala e d’improvviso calò il silenzio, un silenzio immensamente rumoroso dopo tutto il festoso baccano. Tredici paia d’occhi la fissarono da tredici fronti spioventi. Elemmire avrebbe voluto fingere di essere a suo agio sedendosi con grazia su uno sgabello e accavallando le gambe intirizzite, ma non c’era alcun posto libero. Rimase per un po’ in piedi, ferma, paralizzata dall’imbarazzo. Poi prese un respiro e sgomitò fino a ricavarsi un posto sulla panca che correva lungo il muro. –Gradirei delle salsicce- disse senza ben sapere come un essere umano si dovesse rivolgere ad un nano, ma vedendo che uno di loro, con un buffo capello di pelo, armeggiava con forchetta e una griglia incandescente.
-Salsicce per la signorina- esclamò il nano. Come per un segnale convenuto, l’aria risuonò ancora di conversazioni e scoppi di risa, le prime guardinghe, i secondi subito soffocati. Elemmire sapeva di essere osservata e si sentiva estremamente a disagio.
Il nano con il buffo capello le servì un piatto di fumanti e sfrigolanti salsicce arrosto. –Bofur, al vostro servizio, signorina…
-Elemmire. Potete chiamarmi Elemmire-. Il nano aveva un viso allegro e sorridente e i capelli legati in due trecce scure. Il suo aspetto fece spuntare un sorriso sul viso di Elemmire e la riscaldò al punto che, quando Bofur le passò un boccale di birra bionda, riuscì a rispondere con un cortese “grazie, mastro nano”. Mangiò in silenzio e velocemente, sollevata nel sentire sotto i denti cibo vero, e buono come non ne aveva mai assaggiato. Nessuno le fece domande, né le chiese chi era e cosa ci facesse lì.
La compagnia spazzolò tutto il cibo che c’era sul tavolo-la maggior parte del quale finì tra le fauci di un enorme nano dalla barba rossa legata in una treccia a forma di ciambella. Dopo di che i piatti vennero ammucchiati al centro del tavolo e i nani iniziarono ad alzarsi. Bilbo e Gandalf parlavano dal corridoio vicino e si sentiva l’acuta vocetta dello hobbit strillare qualcosa. Non sembrava affatto soddisfatto.
-Cosa dovremmo farne ora dei piatti?- chiese un nano dal taglio a scodella e l’aria non particolarmente sveglia.
-Dà qua, Ori- un giovane nano dai lunghi capelli biondi e i baffi intrecciati ai lati della bocca sorridente quasi strappò il piatto dalle mani del povero Ori e con un gesto fulmineo lo lanciò ad un compagno che appoggiato allo stipite della porta fumava la pipa. Era il nano dai lungi capelli scuri che le aveva aperto la porta. Non si fece trovare impreparato e dopo aver fatto roteare il piatto lungo tutte le spalle lo colpì col gomito e lo fece atterrare su una pila di ciotole posate sul tavolo in precario equilibrio. I due nani iniziarono a esibirsi in giochi di prestigio mentre Bilbo, ricomparso all’improvviso, pallido in viso e sudato cercava di fermarli.
 
Scheggia le coppe, sbriciola i piatti!
Lame e forchette torci non poco!
Ciò Bilbo Baggins odia da matti-
Spacca bottiglie, dà ai tappi fuoco!
 
Strappa tovaglie, sul grasso salta!
Riversa il latte nel ripostiglio!
A piè del letto tutto ribalta!
L’uscio di vino spruzza vermiglio!
 
Versa stoviglie chè l’acqua scotta
Col gran pestello tritale bene
E se qualcuna resta non rotta
Buttarla in terra tosto conviene!
 
Con voce profonda il nano dai capelli scuri intonò un’allegra filastrocca, mentre tra le sue grosse e agili mani passavano stoviglie di tutti i tipi. I compagni lo accompagnavano battendo i piedi a tempo; Bofur aveva perfino tirato fuori un lungo e sottile flauto di legno e solfeggiava un motivetto allegro e ballabile. La musica, le risate, le urla del povero Bilbo e lo sghignazzare di Gandalf in sottofondo crearono un vortice caotico attorno a Elemmire. Non certo per la prima volta in vita sua provò l’acuta sofferenza di chi sa di non appartenere al posto in cui si trova. La parte di lei che aveva sempre vissuto in una casa grande e silenziosa deplorava quell’assurdo e caotico cozzare di suoni e parole, ma la parte che era rimasta bambina aveva voglia di ballare e di saltare e di lanciare piatti. Infine sbadigliò e incrociò le gambe con sussiego. I suoi vestiti si erano asciugati, e ora tiravano da tutte le parti.
-Bene, amici miei, credo possa bastare per il cuore del povero signor Baggins!- rise Gandalf guardando le perfette pile di piatti accumulate sul tavolo. Non un coccio era sparso a terra. I nani si risiedettero lentamente. Elemmire scalò lungo la panca fino a raggiungere l’estremo angolo del tavolo, quello più buio poiché solo il caminetto illuminava la sala da pranzo. Accanto a lei presero posto i giovani nani, quello moro più vicino. Le rivolse uno sguardo compiaciuto e con sfrontatezza inaudita le sorrise da un angolo della bocca e le fece l’occhiolino. Elemmire decise semplicemente di ignorarlo, ma le guance le pizzicavano.
Tre sole figure erano in piedi: Gandalf, il signor Baggins e un nano vestito di pesante pelliccia con capelli e barba neri come inchiostro, appena striati di grigio. Gandalf prese la parola.
-Miei stimati compagni, abbiamo bevuto assieme e abbiamo assaggiato il cibo eccellente del signor Baggins. Ora, parliamo di affari. Sono certo che ognuno di noi sa bene perché si trova qui questa sera. Ognuno di noi eccetto forse lo stesso signor Baggins e la nostra inaspettata ma benvenuta visitatrice, la signorina Elemmire Blage.
Ancora una volta ogni sguardo si concentrò su di lei. Elemmire rimase ferma e rigida.
-La nostra giovane amica proviene dal reame degli uomini ed è una gradita ospite. Vi invito a portarle il massimo rispetto e a fidarvi di lei, e di me quando vi dico che non tradirà la fiducia del nostro capo, Thorin Scudodiquercia.
Il nano che era rimasto in piedi alzò il mento e la guardò negli occhi. Era uno sguardo fiero e sprezzante, lo sguardo di una persona nata per dare ordini e per vederli eseguiti, ma nel contempo c’era una sorta di languida malinconia, come una ferita mai davvero cicatrizzata. Thorin incominciò a parlare con voce bassa e graffiata che faceva accapponare la pelle. Non era la voce di un essere umano della razza di Elemmire. Era una voce da nano.
-Miei fratelli, congiunti, amici e seguaci. La notte è ormai avanzata e ben presto partiremo per il nostro viaggio. Un viaggio dal quale, mi sembra corretto ricordarvi, nessuno di noi ha la certezza di tornare. Per il nostro signor Baggins racconterò la storia del nostro popolo, e di come io sia giunto qui, e di come la mia ricerca ha avuto inizio.
-Lontano nell’est, oltre le profondità di Bosco Atro, sorge la Montagna Solitaria, patria natale del mio popolo, della stirpe di Durin. Erebor è il luogo in cui il mio cuore ardentemente brama di giungere, per rivedere le sale immense, le scalinate, i gioielli incastonati nella roccia. Mai regno dei nani o di altro mortale fu ricco e prospero come quello di Erebor, nemmeno sotto gli altezzosi elfi o gli antichi Nùmenoriani. Il nostro popolo viveva nell’abbondanza e nella letizia. Non oscurerò oltre i vostri cuori ricordando lo splendore della città-fortezza. Dalle terre desolate nel Nord, la fama dell’oro dei nani attirò la più grande calamità della nostra era: Smaug il Terribile, il più grande e malvagio dei draghi sputafuoco. Egli giunse con il fragore di un uragano, e lo sentirono anche gli uomini di Dale, che sorgeva alle pendici della Montagna. Io ero a caccia con altri pochi nani fortunati. Vidi una colonna di fuoco abbattersi sulla mia casa. Gli alberi rilucevano come torce nella notte, la roccia crollava, le urla di uomini e nani massacrati si alzava nell’aria e il puzzo della morte impregnava ogni cosa. Smaug massacrò e sterminò e poi prese possesso della nostra casa e dei nostri ori. In pochi fuggimmo, e tra questi pochi v’eravamo io, mio padre, mio nonno, il re Thror, mia sorella Dìs e alcuni superstiti. Da allora il mio popolo vaga in esilio dalla sua patria per i regni degli uomini. Abbiamo lavorato a lungo come minatori e la nostra città sulle Montagne Azzurre è centro di traffici commerciali e di scambi di denaro. Tuttavia il mio cuore non ha requie. Il ricordo degli ori, del potere, della pietra e dello scettro mi impediscono di riposare in pace. Mio nonno giurò di riconquistare la patria sottrattaci dalla bestia, possa il suo ventre divenire molle e vulnerabile, e quel voto di vendetta è giunto fino a me passando per mio padre e mio zio. Non ho scelta se non raccogliere il grido disperato della mia casata, della mia gente. Ho convocato con me tredici nani, tredici discendenti o sudditi di Durin. I mei nipoti, i figli di mia sorella Dìs, non hanno mai visto la magnificenza della casa dei loro padri, e anche i più vecchi tra voi dubito ricordino il riecheggiare dei martelli e delle fornaci. Fili, Kili, e tutti voi, avete risposto con lealtà e onore al mio richiamo. E nel mio animo non posso desiderare accanto a me cuori più fedeli e affezionati.
Thorin prese un respiro profondo. Elemmire si scoprì protesa sul tavolo, attratta quasi in maniera ipnotica dalle parole del nano. Thorin era un principe, erede di una stirpe di re, e nonostante i suoi vestiti recassero segni di usura aveva un portamento nobile, lo sguardo fermo e la voce appassionata, il mento tenuto alto quasi con arroganza. Il giovane nano dai capelli scuri aveva gli occhi pieni di lacrime. Quello biondo, che gli era a fianco, si alzò con trasporto e parlò:-I nostri cuori ardono di audacia e coraggio. Non abbiamo impugnato che martelli e tenaglie per tutta la vita. E’ ora di tornare a maneggiare la spada e l’ascia, la lancia e l’arco. Siamo guerrieri, e uno di noi vale quanto un esercito di uomini. Hai la nostra lealtà, Thorin.
-E hai anche Gandalf- intervenne il nano bruno –Lui vale almeno il triplo di ognuno di noi!
-Ed è il solo ad avere la certezza del ritorno, se mi è concesso- puntualizzò Bofur.
Thorin sembrava profondamente commosso dal sostegno e dall’entusiasmo dei due nani più giovani. Fece loro cenno di sedere e riprese a parlare.
-Fili, Kili, nipoti miei, non è della forza del braccio di alcuno di voi che io dubito, né della prontezza del cuore. So che ciascuno di voi sarebbe disposto a morire piuttosto che lasciare incompiuta questa ricerca. Tuttavia voi non conoscete nulla del mondo esterno. E nessuno che abbia visto Smaug il Terribile, che la sua lingua diventi di pietra, calare su Erebor potrebbe mai credere che tredici nani e uno stregone possano beffarlo tanto facilmente. E’ qui che entra in gioco Gandalf. Ho chiesto al mio amico di cercare per noi uno scassinatore che possa introdursi nella tana del drago di soppiatto attraverso la porta segreta segnata sulla mappa di mio padre. Come il proposito di vendetta, anche la chiave di questa porta è giunta fino a me dal re Thror in persona.
E così dicendo Thorin estrasse una pesante chiave dalla forma geometrica ben scolpita e un rotolo di pergamena.
-E chi sarebbe lo scassinatore? Immagino debba essere uno esperto, e incredibilmente forte e minaccioso- commentò Bilbo Baggins, seduto accanto a Gandalf.
Elemmire trattenne un sorriso. Era convinta di sapere alla perfezione quale scassinatore avesse scelto Gandalf.
-Ma signor Baggins- disse un nano con un corno attaccato all’orecchio –Ovviamente siete voi lo scassinatore! Cosa credete che siamo venuti a fare qui, altrimenti, eh?
Seguirono le proteste di Bilbo, sempre più veementi man mano che i nani descrivevano Smaug.
-Denti come rasoi! Lunghi quanto sciabole!
-Artigli che paiono ganci da macellaio!
-E basta un suo respiro per trasformare in un mucchietto di cenere qualunque cosa gli si pari avanti.
Un nano con la barba bianca, presumibilmente il più vecchio della compagnia, porse a Bilbo un lunghissimo contratto. Lo hobbit lo lesse per alcuni minuti mormorando tra sé e sé con voce sempre più stridula e poi si afflosciò a terra come un sacco di patate. Gandalf si alzò con un sospiro e con l’auto di Bofur lo trascinò verso la sala da the.
-Elamir, vero?
Elemmire ci mise un po’ a capire che il nano dalla testa scura si rivolgeva a lei.
-Elemmire, in realtà.
-Sei un’umana, quindi.
Che domanda idiota.
-E tu sei un nano?- rispose sbadigliando infastidita.
-Da dove vieni?
-E’ molto, molto lontano da qui.
-Vieni da Gondor?
-Da dove?
-Da Gondor. Il ricco e prospero reame degli uomini. Sai, all’estremo sud.
Elemmire non aveva idea di cosa Gondor fosse.
-Non so se si chiama Gondor il posto da cui vengo. Io l’ho sempre chiamato casa. E’ a molte miglia da qui. Oltre fiumi e montagne.
-E’ un bel posto dove vivere?
-Una volta che ti sei abituato, immagino di sì.
-Cosa ti ha spinta allora a partire? Come sei giunta qui?
Elemmire non si capacitava di come il nano non capisse che non aveva alcuna voglia di fare conversazione. Voleva solo tornare a casa e dormire.
-Preferirei tenere per me queste cose, se non vi dispiace- rispose secca e altezzosa.
-Spero il mio fratellino non vi stia importunando. E’ la prima volta che vede una ragazza, vi prego di comprenderlo- il nano dai capelli biondi che aveva parlato in sostegno di Thorin scompigliò con un gesto di cameratismo i lunghi capelli mori dell’interlocutore di Elemmire.
-Quello alle prime armi sei tu, fratellone, non di certo io!
-Fili, nipote di Thorin Scudodiquercia, al vostro servizio- disse il nano biondo con un cortese cenno del capo. Aveva un naso lungo e sottile e due occhi azzurri limpidi come laghi ghiacciati.
-E Kili- aggiunse il nano moro.
-Elemmire- rispose tiepidamente, non sapendo se inserire o no “al vostro servizio”. Considerando che nel giro di poche ore sarebbe stata di nuovo nel suo caldo letto di città, le sembrava stupido mettersi al servizio di figure fantastiche che non avrebbe mai incontrato nella sua vita.
Elemmire si rivolse a Fili, il fratello biondo, che pareva il più maturo ed equilibrato dei due:-Come siete arrivati qui? Siete una specie di clan?
-Io e mio fratello, assieme a Thorin, rappresentiamo la linea di Durin, il più saggio e longevo dei sette progenitori della razza dei nani. Il nostro bisnonno Thror era Re sotto la Montagna ai tempi della venuta di Smaug il Terribile. Gli altri provengono da clan differenti, solo Dwalin e Balin sono dei congiunti: prozii, cugini di Thorin. Sono il nano calvo con il cranio tatuato e l’altro con la barba bianca. Non puoi confonderti.
Fili aveva ragione. Dwalin aveva spalle enormi e un torace largo come una botte, tutto coperto di una sbrindellata armatura spaiata; Balin sedeva composto e ascoltava assorto le conversazioni attorno a lui, intervenendo di tanto in tanto in una lingua sconosciuta. Sembrava il più vecchio della compagnia, assieme a Gandalf.
-Cosa sapete di Gandalf?- chiese Elemmire piuttosto incuriosita.
-Quello che lui stesso racconta di sé, e non è mai molto. E’ uno stregone girovago, ed è estremamente saggio e potente. Thorin gli ha affidato l’organizzazione della missione e lui ci ha radunati tutti quanti da ogni angolo della Terra di Mezzo. E pare abbia trovato uno scassinatore.
-Mi piace Bilbo Baggins- esclamò Kili, appoggiando la schiena al muro.
Mi pare il minimo dopo che ti sei abboffato come un porco alla sua tavola!
-E’ un esserino molto a modo- rispose cortesemente Elemmire –Ma temo non entrerà mai nella vostra compagnia. E’ assolutamente terrorizzato. Sembra voi dobbiate fare a meno dello scassinatore, e del quindicesimo membro.
-Io credevo fossi tu il quindicesimo membro- Kili le rivolse un altro sguardo obliquo. Quel nano era così fastidioso!
-Ti sbagliavi- rispose seccata, e sgomitando si alzò da tavola.
Proprio in quel momento Bilbo Baggins le passò davanti senza neanche vederla, malfermo sulle gambe, sudaticcio e pallido. Non si era ancora ripreso del tutto dal colpo. Non avrebbe mai partecipato alla riconquista di Erebor. Elemmire trovò Gandalf seduto nella poltrona della sala da the, con gli occhi chiusi e la fronte aggrottata.
-Potrei disturbarvi signor Gandalf?- chiese timidamente.
Gandalf mosse appena la testa.
-Mi piacerebbe tornare a casa adesso, signore. A casa mia.
Gandalf aprì gli occhi. –Magnifico! Hai idea di come fare?
Un presentimento orribile le congelò il cuore:-Io credevo che dei due foste voi lo stregone.
-E senza dubbio questo è giusto. Tuttavia, i Portali tra dimensioni sono affarini molto complicati, e molto antichi. Si aprono solo in determinate condizioni e pronunciando determinate formule.
-Questo…Questo significa che voi…che io…- le parole le si bloccarono in gola per l’orrore. Iniziò a gridare nella sua testa. –Sono prigioniera qui.
-Oh che spiacevole parola! Prigioniera! Avrai cibo, protezione e un sacco di cose stupefacenti da raccontare. Spero tu sia abituata a badare a te stessa, signorina Elemmire.
-Un momento, un momento solo. Non ho intenzione di dirigermi verso il drago. Oh, nossignore, piuttosto rimango qui con il signor Baggins!
-Mia cara ragazza, ho avuto già la mia dose di testardaggine giornaliera con Thorin e i suoi seguaci. Non potrai mai fare cambiare idea a un nano, non cercando di convincerlo delle tue ragioni per lo meno. Ma tu cerca di ascoltarmi bene. Devi rimanere ben vicina a me. Niente di male potrà capitarti e se accidentalmente un altro Portale dovesse aprirsi saresti in compagnia di chi può, quanto meno, controllarlo. Prima di raggiungere il Bosco Atro io tornerò indietro per degli affari da sbrigare. Thorin e i nani proseguiranno verso Erebor, tu verrai con me, lontana dal pericolo se è questo che ti preme. Ovviamente Bilbo andrà avanti con i nani.
-Bilbo Baggins non è uno scassinatore, e non partirà mai per questo viaggio. Basta guardarlo in faccia. Sembra più un droghiere.
-Bilbo Baggins è un hobbit discendente del Vecchio Tuc. Non tradirà le mie aspettative.
Rimasero entrambi meditabondi. Elemmire era sull’orlo delle lacrime. Era intrappolata lì, in un mondo estraneo e popolato di essere fantastici. Doveva essere tutto un incubo, realistico ma non reale. Un incubo… All’improvviso aveva tanto sonno. –Dove posso passare la notte signor Gandalf?
-Hai l’imbarazzo della scelta, mia cara. Credo che il nostro Bilbo abbia una mezza dozzina di camere da letto libere. O se preferisci puoi stendere una coperta da qualche parte. L’estate è ancora lontana dal finire e non sentirai freddo. Consiglierei la prima camera a destra nel secondo corridoio: era di Belladonna Tuc, la madre di Bilbo. Magari troverai anche qualche vestito da mettere addosso.
-Cosa mi sveglierà domattina, signore?
-La domanda è chi. Manderò un nano a dirti quando siamo pronti per partire. Essenzialmente, prima sei in piedi, meglio sarà per tutti noi.
-Allora buonanotte signore.
-Buonanotte, Elemmire.
Elemmire si girò per andarsene, poi raccolse il coraggio e si rivolse ancora una volta a Gandalf:-Voi potete assicurarmi che tornerò a casa mia?
-No. I viaggi tra dimensioni non accadono più da secoli in questa terra. E se questa volta il portale si è aperto, deve esserci un preciso motivo. Ma ricorda, è pericoloso viaggiare tra dimensioni. Si possono avere conoscenze parziali di ciò che è stato ma soprattutto di ciò che sarà, e la pena per coloro che cercano di modificare il futuro è terribile. Perciò, tieni gli occhi aperti, parla meno che puoi e stammi vicina. Anzi, forse sarà meglio che io ti affidi a qualche nano, per quando io non dovessi esserci. Ci rifletterò su.
Elemmire si avviò in silenzio lungo il corridoio. Ogni luce a parte il ruggente camino della sala da pranzo era stata spenta. La casa giaceva nel silenzio. Dalla sala dove i nani erano riuniti proveniva un basso mormorare, vibrante come le fusa di un gatto. Elemmire ci mise un po’ per capire che stavano intonando una melodia. Il mormorio le fece correre i brividi sulla schiena. Si accasciò a terra con il viso rivolto verso la stanza illuminata.
La voce possente e bassa di Thorin iniziò a cantare lentamente e solennemente.
 
Lontan sui monti fumidi e gelati
In antri fondi, oscuri e desolati
Prima che sorga il sole dobbiamo andare
Per esigere i nostri ori obliati
 
I pini sulle alture erano ruggenti
Alti gemevan nella notte i venti
Rosso era il fuoco e distruggeva tutto
Gli alberi come torce erano splendenti.
 
C’era tanta di quella fierezza e nostalgia nel canto che calde lacrime rigarono le guance di Elemmire. In silenzio pianse e ascoltò la storia sofferente dell’esiliato popolo di Durin, impregnata del loro stesso desiderio di tornare a casa. Alla fine, esausta, si trascinò fino al corridoio, a tentoni trovò la camera indicata da Gandalf e si buttò sul letto.
Un solitario pensiero le si affacciò alle porte del sonno.
Hobbit. Hobbit. Tolkien. Libro.
Lei che leggeva Lo Hobbit.
Lei che ora viveva ne Lo Hobbit.
Le parole di Gandalf le apparirono ancora più grevi di significato.
Ma ricorda, è pericoloso viaggiare tra dimensioni. Si possono avere conoscenze parziali di ciò che è stato ma soprattutto di ciò che sarà, e la pena per coloro che cercano di modificare il futuro è terribile.
Quell’avventura che lei stava per incominciare aveva già un suo finale scritto, si rese conto.
E qualunque cosa fosse accaduta, lei non avrebbe dovuto fare nulla per modificarlo.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** un viaggio inaspettato ***


CAPITOLO 2
Elemmire dormì di un sonno leggero e tranquillo le ore che la separavano dall’alba. Quando il primo sole inondò la finestra che dava sul giardino, i pomelli d’ottone del letto splendettero come oro fino. I raggi le solleticarono dolcemente le palpebre e in pochi minuti abbandonò l’indistinto calore del dormiveglia. Per una frazione di secondo si aspettò, aprendo gli occhi, di vedere l’armadio e il muro bianco di camera sua, invece il suo sguardo fissava una grande finestra rotonda e, fuori, un mondo rurale e come incantato. Il cielo era azzurro come mai l’aveva visto, e le colline che durante la notte erano parse minacciose e solitarie ora erano verdeggianti, coperte di alberi, frutteti e pascoli. Si alzò dal piccolo letto hobbit stiracchiando le membra intorpidite: aveva dormito rannicchiata con addosso i vestiti della sera precedente. Sbadigliò come un gatto al sole. Il silenzio era mirabile: una quiete assoluta, come in città non ne aveva mai conosciuta. Le sembrava di sentire il suono dei petali che si aprivano al mattino, delle radici che affondavano nella terra, dei rami che si allungavano verso il cielo.
In punta di piedi si aggirò per i corridoi alla ricerca di un bagno, e trovò un bagno hobbit, vale a dire con acqua calda e tubature. Si lavò, si asciugò e questo la fece sentire molto meglio. I suoi abiti erano immettibili ormai: la lana del maglione si era ristretta e rovinata, il pantalone era stropicciato e macchiato di erba. Aveva bisogno di vestiti nuovi, e comodi se doveva affrontare un viaggio. La mattina e il bel tempo la rendevano propositiva: era certa di essere sempre più vicina al suo ritorno a casa. Tornò in camera e analizzò il mobilio: c’era un armadio, che scoprì con una certa delusione essere totalmente vuoto, e poi sotto il letto una specie di piccola cassapanca. Ricordò le parole di Gandalf: quella era stata la camera della madre di Bilbo, e magari lo hobbit conservava ancora qualche vecchio vestito.
Riuscì a trovare un pantalone di un bel verde. L’orlo era stato ricucito, perciò le bastò strappare i fili con i denti e poi spianarlo. Era ancora leggermente corto, ma non vi badò. Prese quella che per uno hobbit doveva essere una tunica e che usò come camicia bianca, e sopra una giacca (o meglio tunica) verde allacciata su petto con legacci di cuoio. Le era stretta sul seno, ma non vi badò. Riuscì anche a trovare un paio di bassi stivali di morbido cuoio trattato della sua misura. La signora Baggins doveva essere stata molto alta per una hobbit.
Si sedette sul letto e fissò il panorama fuori dalla finestra. I fianchi delle colline erano punteggiati di abitazioni hobbit; alcuni abitanti uscivano dalle porticine rotonde e tenendo per la cavezza un vitello o una capra lo portavano verso i pascoli, oppure lungo la strada di breccia che scendeva fino a valle e poi risaliva dall’altra parte. Due donne stendevano i panni a qualche cortile di distanza. Non le sarebbe dispiaciuto vivere lì, se non avesse avuto alcun altro posto dove tornare.
Un leggero grattare alla porta risuonò attraverso i corridoi vuoti. Elemmire si alzò circospetta e si avvicinò all’ingresso. Bilbo dormiva ancora, quindi suppose che fosse suo dovere aprire. Si affacciò dalla finestrella infissa accanto alla porta circolare. Un nano era in piedi sull’ultimo scalino. Indossava una veste viola scuro e la sua barba grigia era attorcigliata e intrecciata in una composizione difficile ed elaborata. Elemmire fece in modo che i cardini non cigolassero mentre apriva la porta.
-Dori, al vostro servizio- il nano si inchinò pomposamente. –Il Signor Gandalf mi ha chiesto di avvisarvi che la nostra compagnia si sta mettendo in moto. Perciò, appena avrete radunato le vostre cose, vi invito a seguirmi.
-Non ho cose da radunare- rispose Elemmire. –Elemmire, al vostro servizio- si ricordò poi, giudicandolo appropriato, e si inchinò velocemente.
-Molto bene, allora possiamo metterci subito in marcia. Statemi vicina, non vorrei correre il rischio di perdervi.
La strada era una sola e procedeva in aperta campagna per un bel po’, perciò le parole di Dori suonarono alquanto ridicole, ma Elemmire nascose il sorriso mentre si girava a chiudere la porta. Era pur sempre ospite del nano.
-Il signor Bilbo?- chiese all’improvviso nel varcare il cancelletto di legno che la notte prima aveva cercato a tentoni.
-Ho paura che il signor Bilbo non parteciperà a questa impresa- rispose il nano. Aveva modi di fare solenni eppure straordinariamente premurosi, come una vecchia signora aristocratica. Si affrettò a chiudere il cancelletto dietro di lei e poi trotterellò giù dalla collina, girandosi spesso a controllare che Elemmire seguisse. Da parte sua, lei era estasiata. L’aria era calda e pervasa del profumo dei fiori e delle erbe, e fili di panni appesi ad asciugare coloravano di rosso, di azzurro e di bianco i prati. Gli insetti si affaccendavano nell’aria.
-Mi perdoni, mastro nano, che ore sono?
-Il sole è sorto da appena un’ora. Gandalf era piuttosto contrariato, dato che il progetto iniziale era di partire all’alba. Mi è sembrato che i ragazzi abbiano avuto delle difficoltà nel trovare un pony per voi, signorina.
-Un pony? Viaggeremo a dorso di pony?
Per la prima volta Elemmire ebbe l’impressione che Dori la stesse guardando veramente:-Ma è ovvio che andremo a cavallo, signorina.
Per tutto il viaggio, che fu breve, si scambiarono solo poche parole, prevalentemente monosillabi. Un gruppo di persone a cavallo aspettava all’ombra di un albero gigantesco appena dopo il ponte sull’allegro fiumiciattolo che l’aveva guidata nel buio. Naturalmente erano i nani e Gandalf. Lo stregone fu l’unico a salutarla e le rivolse anche un sorriso sbilenco, perché stava fumando la pipa.
-Mia cara Elemmire. Eravamo in tua attesa.
-Il signor Baggins non è con voi?- chiese il nipote di Thorin più giovane, che, ricordò Elemmire non senza fatica, si chiamava Kili.
-Il signor Bilbo sta dormendo- rispose. –Credo che non verrà.
Il viso di Kili si rabbuiò, mentre il fratello gli batteva una mano sulla schiena con un sorriso allegro.
-Per ora di pranzo sarò più ricco di dieci talenti, e certo non li prenderò da Erebor, eh Kili?
-Stai zitto- lo rimbrottò Kili –La mattina non è ancora terminata. Il signor Bilbo potrebbe ancora arrivare in tempo.
-Ricordati: prima che usciamo dalla Contea. La scommessa si chiude in quell’esatto istante.
-Avete scommesso se Bilbo sarebbe venuto o no?- chiese Elemmire incredula.
-Certo, tutti l’hanno fatto! Ma ho paura che solo Kili e Gandalf pagheranno il pranzo a tutti noi.
-E Thorin? Lui cosa dice?
Il principe dei nani era ritto in sella a un baio a pelo lungo. Guardava i compagni con un misto di superiorità e apprensione, e ogni tanto scambiava poche parole con Gandalf.
-Oh…lui non scommette, ma gli si legge in faccia ciò che pensa. Venire qui è stata una perdita di tempo.
-Ecco- disse Kili, facendole cenno di avvicinarsi –Questo è il tuo cavallo. Sai cavalcare vero?
Il cavallo era un pony dal pelo rossiccio e il muso arrotondato, che brucava pacificamente all’ombra dell’albero.
Elemmire era stata al maneggio alcune volte, da bambina, ma non aveva intenzione di mostrarsi inferiore. I nani infatti sembravano tutti a loro agio sulle selle. Prese con decisione le briglie e mise un piede sulle staffe, poi si accomodò un tantino goffamente in sella. Kili e Fili montarono due pony identici dal pelo scuro, quasi nero.
-Ah, prima che mi dimentichi- Gandalf, montando un vero destriero dal pelo marrone, si avvicinò loro –Ho deciso che per Elemmire sarebbe molto più sicuro rimanere sotto la protezione di uno di voi nani, e molto più piacevole essere accompagnata da dei...coetanei, poniamola così. Posso fidarmi di voi? E’ sotto la vostra diretta responsabilità, specialmente se io non sono nei paraggi.
-Non ha nulla da temere, la pulzella
Ancora una volta Kili le rivolse uno sguardo provocante.
Ingoiando l’orgoglio, ferita dal vedersi trattata come una bambina, Elemmire affondò i tacchi nei fianchi del pony e ondeggiando raggiunse Gandalf in cima alla colonna di marcia che si era appena formata.
-Whoa!- Thorin incitò la sua cavalcatura e tredici nani, un’umana e uno stregone iniziarono a cavalcare verso est.
Dopo un poco Gandalf li fece deviare dalla strada e attraversarono un bosco di alberi alti dalle foglie di un verde intenso. Ad Elemmire sembravano castagni. Il suo pony rimase velocemente indietro rispetto al passo del cavallo di Gandalf e si trovò nel bel mezzo della compagnia di nani.
-Stai per perdere dieci talenti, fratello- Fili cavalcava senza neanche sfiorare le briglie, le ginocchia serrate sui fianchi del pony per mantenerlo ad andatura sostenuta, e allungava la mano verso il fratello con il palmo rivolto verso l’alto. Kili aveva tirato fuori un sacchetto di pelle e stava porgendo delle monete ad un nano enorme, rotondo come la sua barba, con i capelli rosso fiamma che si diradavano in cima alla testa.
-Accidenti a quell’hobbit e a tutta la sua razza! Vatti a fidare di un mezz’uomo…- stava borbottando Kili, quando un urlo ruppe il silenzio del bosco. Qualcuno li stava raggiungendo ed evidentemente voleva farsi sentire.
-Aspettatemi! Aspettate!
Dagli alberi comparve Bilbo Baggins. Aveva il mantello allacciato storto, il panciotto stropicciato e un gran fiatone, ma reggeva in mano il contratto di Thorin.
-L’ho firmato! Vedete?- esclamò trionfante porgendolo a Balin. Il nano lo esaminò e infine gli sorrise:-Sembra sia tutto in regola. Benvenuto nella nostra compagnia.
Thorin era accanto a Gandalf in cima alla colonna. Si girò con quello che a Elemmire parve una smorfia e ordinò seccamente:-Dategli un pony.
Contro la sua volontà, Bilbo fu issato su un pony bianco dalle braccia di Kili e Fili. Sacchetti di monete iniziarono a essere lanciati sopra le loro teste, mentre Kili gridava ai debitori ritardatari di affrettarsi. Fili era scuro in viso e non disse una parola mentre Elemmire spiegava a Bilbo della scommessa e di come Kili avesse vinto. E poiché né lo hobbit né Elemmire erano buoni cavallerizzi, e avevano rallentato l’andatura per poter parlare, si ritrovarono in fretta in fondo alla colonna di nani, pony e provviste. Kili e Fili cavalcavano loro davanti scambiandosi battute nella loro lingua nanica, fatta di suoni gutturali e profondi. Ogni tanto riservavano ad Elemmire uno sguardo di sfuggita.
-Avete mai viaggiato con dei nani prima, signorina Elemmire?
-Non avevo mai visto un nano prima di ieri, signor Bilbo. Voi li conoscete bene?
-Ogni tanto alcuni di loro si fermano nella Contea. Non avevo mai sentito parlare di Thorin Scudodiquercia, comunque.
Ci furono alcuni minuti di silenzio. Il bosco risplendeva di vita e sole. I pony calpestavano un tappeto di foglie morte ed erba che rendeva attutiti i loro passi.
-Quelli sono i vestiti di mia madre.
Elemmire si sentì avvampare:-Perdonatemi, non sapevo dove cercare abiti della mia taglia. E della mia foggia.
-Non intendevo…nel senso, non c’è problema. Stavo solo notando…ma, un attimo. FERMI! Fermatevi tutti!
Elemmire tirò le redini e fermò accanto a Fili. Da in cima alla colonna Gandalf urlò:-Cosa c’è Bilbo, vecchio mio?
-Ho dimenticato il mio fazzoletto. Dobbiamo tornare indietro.
Dai nani si alzò una risata roborante e gutturale. Bilbo impallidì, ed Elemmire sentì tanta pena per lui che si sarebbe strappata a brandelli la camicia per soccorrerlo. –Dovrai imparare a farne a meno, Bilbo Baggins. E per un bel po’, direi.
Poi ripresero la marcia, Gandalf sempre in testa.
Uscirono dal bosco e attraversarono una vallata rocciosa sul cui fondo scorreva un fiume cristallino. Il paesaggio si faceva percettibilmente più selvaggio e desolato. Non c’erano più abitazioni, e gli animali scappavano intimiditi appena fiutavano i pony e i loro cavalieri. L’aria era più fresca e pura, con un leggero sentore di selvatico. Durante la cavalcata scambiò solo poche parole con Bilbo, e guardò a occhi sgranati il panorama. Si fermarono sulla riva di un laghetto per far abbeverare i pony e mangiare un po’ di pane e formaggio. Due cascate confluivano dall’alto nella polla, e l’aria era satura di spruzzi e minuscole goccioline. Fili e Kili si tolsero gli stivali e sguazzarono nell’acqua come ragazzini, finché Thorin non se ne accorse e riprese entrambi con la severità di un padre. I due nani sembravano mortificati e imbarazzati mentre risalivano sui pony, bagnati dalla testa ai piedi. Elemmire pensò che non fosse affatto un comportamento adatto ai nipoti di un principe e riservò allo sfrontato Kili uno sguardo di biasimo, prima di sfilargli davanti con la schiena ben dritta e il mento alto. Per tutto il pomeriggio camminarono attraverso un fitto bosco seguendo il corso del fiume, incontrando piccole cascate e laghetti. I nani erano una compagnia rumorosa e gioviale, ma Elemmire era chiusa in se stessa e pensava a casa propria, e alla quantità di cose assurde che le stavano capitando. L’unico con il quale si sentiva in sintonia era il povero Bilbo. Ammirava il coraggio che aveva avuto nel lasciare volontariamente casa propria per quell’avventura incredibile che, oltretutto, avrebbe potuto significare la sua morte. Quando la sera iniziò a calare si fermarono nei pressi di uno spiazzo erboso a strapiombo sulla valle sottostante, perché avevano incominciato a risalire il crinale sotto al quale avevano camminato tutto il giorno. Legarono i pony agli alberi e accesero un fuoco scoppiettante al riparo di uno sperone roccioso. Mangiarono pesce arrosto cotto sulle braci e stabilirono i turni di guardia. Il primo spettava a Fili e Kili, che si avvolsero in due coperte ciascuno e si sistemarono spalle allo sperone roccioso ad affilare le loro armi. Elemmire era distesa sulla schiena e guardava le stelle. Così tante, tutte nuove e differenti da quelle a cui era abituata. E poi c’era la luna, piena e tonda come un uovo sodo, sospesa e luminosa. La cotica dei nani sibilava metodica e sempre uguale a se stessa, ma invece che conciliare il sonno la teneva sveglia. I suoi pensieri vagavano nelle praterie della notte. Sentì poi un fruscio accanto a sé: Bilbo era ugualmente sveglio e si rigirava sotto la coperta. Elemmire non disse nulla e rimase a godere del silenzio della notte. Silenzio che, nel giro di qualche minuto, venne squarciato da un suono orrendo. Un ululato solitario e selvaggio si alzò dall’altra parte della vallata.
Elemmire scattò a sedere con il cuore che batteva a mille. Nel buio poteva vedere gli occhi di Bilbo spalancati e pieni di terrore. Aveva sentito anche lui. Nonostante il suono provenisse da molte miglia lontano, stare così vicina agli alberi e al buio la faceva sentire esposta e le riempiva l’animo di angoscia, così non ebbe altra scelta che portarsi più vicina alla pozza di luce del fuoco, attorno al quale Fili e Kili affilavano le spade e le asce. Si avvolse ben stretta attorno al corpo la coperta e camminò verso il falò, attenta a non calpestare qualche nano che dormiva. Vide che anche Gandalf era sveglio: fumava la pipa e fissava l’oscurità.
Si sedette in silenzio accanto a Fili e si rannicchiò con le ginocchia al petto. In quel momento risuonò un altro ululato, più vicino e leggermente spostato a destra.
-Paura?- le chiese Fili con un sorriso.
-Sono solo lupi.
-Ti sbagli. Qui i lupi sono scomparsi da molto tempo. Solo i Mannari circolano ancora- Kili si sporse per guardarla negli occhi. Il fuoco gettava riflessi sanguigni sui suoi capelli scuri e ammorbidiva i tratti del suo volto con un gioco di ombre. Elemmire si rese conto che, anche secondo i canoni umani, Kili era molto bello.
-E i Mannari vogliono dire una cosa sola- proseguì Fili, smettendo di usare la cotica.
La voce di Kili si abbassò fino a diventare un basso vibrare:-Orchi.
-Orchi?- anche Bilbo si era avvicinato al cerchio di luce e appariva terrorizzato.
-Orchi tagliagole. Attaccano quando è buio e nessuno può vederli arrivare. Non senti nulla. Solo il sangue che scorre, tanto sangue.
Bilbo impallidì e anche Elemmire sentì un rivolo di paura stringergli lo stomaco. Stava per ribattere che finché fossero rimasti tutti vicino al fuoco non correvano pericolo, quando Kili si girò vero il fratello e ridacchiò strizzandogli l’occhio. Fili rispose con un sorriso mal celato.
-Stupidi!- Elemmire si vergognò di se stessa per aver creduto a delle fandonie simili –La trovate una cosa diver…
-Vi sembra molto divertente vero?
Thorin, che si era addormentato vicino a Gandalf, si alzò e rivolse uno sguardo adirato ai nipoti.
-Non intendevamo nulla di male- balbettò Kili, abbassando lo sguardo, ancora mortificato.
-Non sapete nulla del mondo che vi circonda- disse Thorin camminando fino al ciglio del burrone e rimanendo fermo a fissare la luna. Il suo mantello bordato di pelliccia svolazzò dietro di lui dandogli un aspetto maestoso. Il vecchio Balin, svegliato dal rumore, si appressò e accarezzò la testa di Kili. –Non prendetevela ragazzi. Nessuno più di Thorin ha motivo di odiare gli Orchi.
-Per quale motivo?- chiese Fili alzando lo sguardo verso il nano dalla barba candida.
-Oh bhe, la storia è molto lunga…- tergiversò Balin.
-Mastro Balin, vi prego, raccontatela- chiese Elemmire accoccolandosi più vicina al fuoco.
-Quando ci rendemmo conto che Erebor era perduta, il nostro re Thror, il nonno di Thorin, si ripropose di conquistare il regno dei nostri antenati, Moria. Lo splendore della reggia di Durin era leggenda. Tuttavia, qualcuno era arrivati prima di noi. Le miniere erano infestate da legioni di orchi guidate dal possente Azog. Era un mostro alto quanto un uomo, con la pelle pallida coperta di cicatrici, e di intelligenza maligna e perversa. La sua mazza da guerra seminò lo sterminio tra le nostre file, aprendosi la strada verso il nostro re, e lasciandosi alle spalle una scia di sangue. Decapitò Thror: ancora ricordo l’urlo di trionfo con cui tenne alta la sua testa, prima di lasciare che la veneranda barba bianca si inzozzasse di polvere e del suo stesso sangue. Thrain, il padre di Thorin, impazzì di dolore; le nostre fila rimasero senza guida a farsi massacrare.
Un ramo scricchiolò nel falò producendo una cascata di scintille. Tutti gli altri nani erano ben svegli e i loro occhi rilucevano attorno al fuoco.
-Thorin era solo un giovane principe, non molto più vecchio di quanto non lo siate voi- continuò Balin guardando Kili e Fili. –Aveva perso lo scudo da tempo e la sua armatura era coperta di sangue. Impugnò l’ascia di Thror e usando solo un ramo di quercia per parare i colpi affrontò Azog. E lo uccise. Era un giovane nano di forse ottant’anni che spiccava dal busto la testa dell’orco pallido e guidava gli ultimi superstiti fino alle porte di Moria. La battaglia fu vinta, ma ad un prezzo altissimo. I caduti erano di gran lunga superiori ai sopravvissuti. Eppure, sapete, vedere Thorin ancora sui suoi piedi che distribuiva aiuto e conforto fece rinascere in me la speranza. Decisi che lo avrei seguito ovunque mi avesse condotto. Era già il mio re.
Elemmire non seppe bene quale effetto quelle parole avessero nel suo animo. Guardò Thorin, ancora fermo come una statua sull’orlo del precipizio, e nel suo cuore nacque un grandissimo rispetto per il fiero nano e una grande compassione per i suoi modi ruvidi e glaciali. Ricordò il primo sguardo che avevano condiviso: le era sembrato che quegli occhi grigi come il granito e altrettanto freddi recassero un’infinita tristezza, una ferita aperta. Il suo pensiero mutò radicalmente: non viaggiava in compagnia di beoni o buffoni. Quel popolo così gioviale aveva alla spalle una storia di dolore, di sofferenza e sangue. Era un popolo forte e orgoglioso che aveva saputo rinascere dalla rovina e aveva saputo trovare la vita dove vita più non c’era, con una determinazione e una tenacia che un essere umano non avrebbe mai avuto. E i giovani Fili e Kili ne erano l’esempio: erano nati dopo la rovina di Erebor. Erano figli dell’esilio. I due tenevano lo sguardo basso e rimasero in silenzio. Erano eredi di una stirpe nobile e fiera. Thorin li raggiunse attorno al fuoco ed Elemmire vide che aveva le lacrime agli occhi e il viso contratto. Aveva ascoltato ogni cosa. In silenzio i nani si inginocchiarono attorno a lui, ed Elemmire si piegò allo stesso modo. Davanti a lei non era un reietto, un esiliato o un mendicante. Davanti a lei era un re.
 
L’alba non sorse mai veramente. Grosse nuvole si accalcavano nel cielo e la luce era biancastra e fastidiosa. Elemmire si allontanò da sola alla ricerca di una pozza d’acqua dove lavarsi. Si sentiva stanca; non era abituata a cavalcare e le dolevano le gambe e la schiena, e durante la notte la storia di Balin e il russare dei nani l’avevano tenuta sveglia. Inoltre dormire all’addiaccio le aveva fatto venire il torcicollo. Si inoltrò nel sottobosco alla ricerca del piccolo fiumicello a cui si erano abbeverati tutti la sera prima. Una volta trovato, l’acqua fresca riuscì a lavarle di dosso una parte di dolori e stanchezza. Stava per tornare all’accampamento quando notò qualcosa per terra. Sembravano impronte. Si avvicinò e le guardò da vicino: erano enormi, come se degli enormi polpastrelli avessero lasciato l’orma nella terra soffice e bagnata vicino al fiume. Una grossa creatura si era abbeverata lì, un orso forse, e poi era riscesa nella valle. Elemmire seguì le impronte per un po’, poi tornò indietro. Non sapeva se fosse il caso o no di allertare gli altri. Non voleva passare per paurosa, considerando che la notte precedente si era fatta prendere in giro da Kili e Fili. Ritornò sui suoi passi e scoprì che tutti la stavano aspettando.
-Avanti, è già tardi- l’apostrofò rudemente Thorin. Fili teneva per le redini il suo pony. Elemmire salì svelta in sella e si rimisero in marcia. Scoprì che cavalcare era piuttosto doloroso. La strada era accidentata e si inerpicava su un alto crinale, perciò il pony procedeva a balzi e scossoni, provocandole esplosioni di dolore al collo e alla schiena. Se non avesse avuto le staffe sarebbe caduta un paio di volte. Anche Bilbo non sembrava in condizioni migliori, ma il suo cavallo procedeva accanto a quello di Gandalf e i due chiacchieravano come vecchi amici. Dovevano conoscersi da tempo. Elemmire rimase, come il giorno prima, in fondo alla fila. Tuttavia il panorama continuava a sorprenderla. Il crinale si faceva sempre più alto, e la valle più profonda. Il verde vivo dei boschi le riempiva gli occhi assieme al nero delle rocce. In fondo scorreva un fiume tumultuoso ombreggiato da rocce aguzze che come ubriaco procedeva a zig-zag tra gli alberi e i cespugli. Il precipizio era sempre più ripido e ormai scendere nella valle sarebbe stato praticamente impossibile, anche a dorso di robusti pony come i loro.
-Dove stiamo andando?- chiese Elemmire aumentando l’andatura per affiancarsi a Fili e Kili; i due nani viaggiavano a pochi passi più avanti di loro. Elemmire sospettava stessero prendendo molto seriamente il compito di tenerla d’occhio. Fili si girò sulla sella per guardarla:-A Erebor, pensavo si fosse capito ormai.
-Sì, ovviamente stiamo andando ad Erebor- Elemmire scosse la testa –Ma in termini più precisi? Ci saranno tappe in questo viaggio.
-Ci stiamo dirigendo attraverso le Lande del Sud, verso le Montagne Nebbiose. Una volta attraversate ci sono i Campi Iridati e poi le Terre Selvagge, il Bosco Atro e infine Erebor. Dobbiamo arrivare prima dell’inverno, o sarà praticamente impossibile arrivare alla montagna.
-Prima dell’inverno? Ma è estate piena!
-I mesi passano veloci nelle Terre Selvagge. E’ facile perdersi e smarrire il cammino.
-Ci siete già stati molte volte?
Si guardarono tra loro. –A dir la verità mai. E tu? Non hai mai viaggiato?
-No- Elemmire cercò di allontanare il discorso –Non voglio sembrare indiscreta ma mi è sembrato, ieri sera, che mastro Balin abbia definito Thorin “un giovane nano di ottant’anni”. Contate gli anni in maniera diversa?
-Assolutamente no- le rispose Fili con una risata –Non è il conto degli anni che cambia, ma la vita media. Un nano di ottant’anni è considerato un giovanotto. Thorin ne ha quasi duecento e per la nostra razza è nel pieno della sua maturità; solo intorno ai trecento anni un nano inizia ad essere vecchio.
Elemmire ascoltava estasiata. Mise da parte ogni contegno e non si trattenne dal chiedere ancora:-E quanti anni avete voi due?
-Io ne ho ottantadue- rispose Fili –Kili è il più giovane qui in mezzo, solo settantasette anni di vita.
-Mi state prendendo in giro- rise Elemmire. Kili non dimostrava più di ventun anni, e a Fili, con barba e tutto, ne avrebbe dati meno di trenta.
-Siamo serissimi, invece- intervenne Kili –Mi spiace, ma per noi sei praticamente una bambina.
-Ho diciassette anni- protestò Elemmire.
-Una donna dei nani ti terrebbe ancora attaccata al seno- rise Kili, ed Elemmire si aspettò uno dei suoi sguardi sfacciati. Invece Kili sorrise in modo aperto e genuino.
Cavalcarono ancora un po’ in silenzio. Il crinale che era salito così speditamente ora degradava lentamente e dolcemente, e la vegetazione tornava a crescervi più rigogliosa, non più limitata solo a erbe e licheni. Elemmire sentiva che non avrebbe sopportato ancora a lungo di cavalcare.
-Non ci fermeremo per il pranzo vero?- chiese.
Stavolta Fili e Kili nel girarsi verso di lei erano sorpresi. –Hai fame?
Elemmire non voleva dire che stare in sella la stava torturando. –Sto bene, era solo per sapere- rispose e di nuovo nella sua voce avvertì freddezza. Sarebbe morta piuttosto che mostrarsi debole davanti agli eredi di Durin.
-E’ evidente che non è abituata a cavalcare- disse Fili al fratello –Scommetto che in questo momento ha dolori ovunque, altro che fame.
-Dovremmo fare qualcosa per lei. E’ sotto la nostra responsabilità. Gandalf non ce lo perdonerà mai se dovesse perdere il controllo del pony e cadere di sotto.
Elemmire avvertì un misto di fastidio e riconoscenza. Non le piaceva essere tratta come una ragazzina indifesa, e per di più i due fratelli parlavano come se lei non esistesse affatto.
-A proposito- Fili la considerò di nuovo –Qual è esattamente la tua funzione qui?
-Gandalf sembra tenere molto alla tua incolumità.
Elemmire non seppe cosa dire. –Non sono fatti che vi riguardino- disse bruscamente perché non notassero il suo disagio e la sua indecisione. Il viso di Kili si fece all’improvviso di pietra:-Sai Fili, mi sembra molto determinata. Ripesandoci, credo che possa tranquillamente rimanere in sella fino a sera.
E con una leggera pressione delle gambe accelerò e presto scomparve nella colonna di nani. Fili rimase ancora un attimo vicino a lei. Sembrava sul punto di dire qualcosa, ma rinunciò e cavalcò anche lui in avanti. Elemmire si trovò sola.
Cavalcarono tutto il giorno e solo al tramonto Thorin concesse loro di accamparsi. Elemmire sentiva che stava per svenire dalla fame e dal dolore. Smontando le gambe non la ressero e cadde pesantemente per terra sotto lo sguardo dei nani. Alcuni risero, ma Thorin li fece tacere subito. Tuttavia solo Bofur si avvicinò a lei per aiutarla:-Non sei abituata ad andare a cavallo, vero?
Elemmire scosse la testa cercando di trattenere le lacrime di umiliazione. Lasciò che Bofur la conducesse fino al fuoco e poi si accucciò nel suo angolo in un silenzio ferito e ostinato. Fili e Kili evitarono il suo sguardo tutta la serata ed Elemmire comprese di averli offesi con il suo freddo rifiuto. In fondo erano rumorosi, e forse Kili era indiscreto, ma cercavano di aiutarla. La nostalgia di casa si fece acuta fino a soffocarla: Andra e il suo sostegno le mancavano fino alla nausea. Si impose di mantenere il contegno e si allontanò dal falò perché nessuno potesse anche solo offrirle del cibo. Non aveva fame per quanto grande era la stanchezza. Nessuno si accorse della sua assenza; nessuno tranne Bilbo, che finita la cena la raggiunse in punta di piedi.
-Non voglio disturbare… Se preferite che io me ne vada non c’è alcun problema.
Elemmire formulò una rispostaccia, ma le si bloccò sulle labbra. Bilbo era in una situazione quanto meno analoga alla sua, se non peggiore, e non aveva battuto ciglio tutto il giorno, anzi ora le offriva anche conforto.
-Vi ringrazio signor Baggins…
-Perché non mi chiami Bilbo?
-Grazie Bilbo, ma sto bene. Sono solo molto stanca.
-Non avete ma cavalcato così a lungo in vita vostra vero?
-No- sospirò Elemmire.  
-Vi capisco, le prime volte è sempre dura, ma ci si fa l’abitudine dopo un po’.
Elemmire non seppe cosa dire. –Dove siamo?- chiese nel tentativo di mostrarsi amichevole.
-Siamo nel bel mezzo delle Lande del Sud, e penso Gandalf ci stia conducendo dagli elfi.
-Elfi?
-Sì, insomma, Thorin non è molto d’accordo, ma non oserà contraddire apertamente Gandalf. Non credo almeno.
-Pensavo fosse Thorin il capo.
-E infatti lo è, ma senza Gandalf non arriverà molto lontano, quindi farà quello che lui vuole.
Bilbo riempì il silenzio seguente con un goffo e imbarazzato abbraccio. –So cosa vuol dire essere lontani da casa e sentirne la mancanza.
Elemmire sospirò e chinò il capo. Chi meglio di Bilbo poteva capirla?
-Grazie- mormorò.
-Prova questa- le porse la sua lunga pipa –E’ l’ideale per calmare i nervi.
Elemmire aspirò un lungo tiro e si sentì meglio.
-Molto meglio, grazie.
-Per qualunque cosa…
Elemmire rivolse al piccolo hobbit uno sguardo colmo di riconoscenza e gratitudine.
Una lunga ombra si dipinse sul terreno, un’ombra con un largo mantello e un capello a punta.
-Mia cara Elemmire, c’è qualcosa che non va? Perché non ti unisci alla festa?
-Mi sento un’estranea Gandalf. Questo non è il mio posto.
-Bilbo, vecchio mio, ci lasceresti da soli per un istante? Grazie.
Lo hobbit caracollò nella notte.
-Ti senti estranea eh?
-Non sono nel mio mondo, non sono a casa mia e intorno a me tutto è così ostile e…- grosse lacrime iniziarono a riempirle gli occhi. Cercò di reprimere un singhiozzo.
-Non hai pensato che dipenda tutto da te?
-Da me?- chiese incredula.
-Mmh, da te. Invece di rimanere ancorata al passato vivi nel presente il qui ed ora. Tutto dipende da come ci poniamo di fronte ai casi della vita; non puoi modificare la tua situazione, né tornare nel posto dal quale provieni, allora perché non provi a godere del presente? In fondo, mi pare che i nani ti abbiano trattata benone in questi due giorni.
-Sono io che ho trattato male loro- singhiozzò Elemmire, ormai sovrastata dal senso di colpa e dalla desolazione. Si sentiva così stupida.
-Sì, mi era parso di leggere un pizzico di risentimento nei visi di Kili e Fili. Ma non è mai troppo tardi per chiedere scusa. I nani sono una razza buona ma fiera, perciò poco propensa a riconoscere il valore dell’umiltà. Tuttavia, Fili e Kili non hanno ancora raggiunto un età tale da renderli orgogliosi e stupidi. Saranno dei compagni di viaggio ideali, se solo saprai accettare quello che possono offrirti.
-E loro accetteranno me?
Gandalf si alzò e la guardò da sotto quelle spesse sopracciglia grigie:-Bhe questo è da vedere, ma ho l’impressione che abbiano una sorta di debole per te. Provare per credere.
Le tese la mano e l’aiutò a rialzarsi.
-Gandalf, se dovessero chiedermi da dove vengo, cosa è opportuno che io risponda?
-Non parlare del tuo vero mondo. Le conseguenze potrebbero non piacere a nessuno di noi. Dì che provieni dall’Ithilien, una regione sotto il controllo di Ecthelion, Sovrintendente di Gondor. Lascia perdere i nomi e le dinastie, tieni a mente solo il posto.
Entrarono nel cerchio di luce del falò. Le venne offerta una scodella di zuppa che Elemmire divorò in fretta, poi si ritirò nella sua coperta e cadde addormentata. Durante la notte numerosi sogni turbarono la sua quiete: ululati, ora più vicini, ora più lontani, continuavano a infrangere il suo sonno leggero. Le parve perfino che delle voci mormorassero, e nel rigirarsi le sembrò di sentire il sibilo di un arco che si tendeva. Poi tutto tacque fino all’alba.
 
Il mattino dopo ogni movimento era un’agonia insopportabile. Fu un miracolo che riuscì a portarsi in piedi e trascinarsi fino al suo pony. Ricordò tuttavia le parole di Gandalf e cercò di vedere il positivo della situazione che stava vedendo. Durante la mattina attraversarono un folto bosco di sempreverdi e passarono vicino a un lago piatto poiché non soffiava un alito di vento. Elemmire si avvicinò timidamente a Kili, che le cavalcava davanti come ogni volta, e pensò disperatamente a qualcosa da dire.
-Sembra che il tempo non sia un gran che nemmeno oggi.
Kili mugolò quello che forse era un “sì”.
-Ascolta… Mi dispiace per ieri. Mi sono resa conto che volevate solo aiutarmi- era un grande sforzo parlare, ma Elemmire si costrinse a ingoiare l’orgoglio.
Kili la guardò negli occhi. Aveva profonde occhiaie.
-Aspetta, non hai dormito stanotte?- chiese Elemmire, ricordando gli ululati che aveva udito nel dormiveglia.
-Nessuno di noi l’ha fatto. I lupi sono arrivati praticamente al falò.
-Non stavo sognando allora- Elemmire avvertì un tremito di paura.
-No, non stavi sognando- rispose Kili con amarezza. Appariva stanco, ma manteneva un portamento dritto e fermo, forse anche a causa della faretra che portava sulle spalle.
-Tiri con l’arco?
Kili sorrise con orgoglio:-Sono il miglior tiratore dei nani. Potrei competere con un elfo.
-Non pensavo che i nani sapessero usare gli archi e le frecce. Insomma, credevo preferiste asce e spade.
-Infatti è così, in pochi sanno come maneggiare un arco vero e ancora di meno sono in grado di eccellere nel suo uso.
-Mi insegneresti? Ho sempre voluto imparare.
-Stai parlando sul serio?- Kili era incredulo.
-Sì, perché?
-Sei una strana umana. Appena ieri sembrava mi disprezzassi con tutta te stessa.
Elemmire rimase in silenzio, poi farfugliò:-Mi dispiace, non era l’idea che volevo dare, io non disprezzo nessuno.
-Sarà meglio. Ricordati che non sei qui per fare un favore a noi. Puoi andartene quando vuoi, nessuno ti trattiene, eppure ti spacchi la schiena cavalcando al passo di noi nani, piangi lontano dal falò e rispondi male a chiunque come se ti avessimo costretta a venire con noi. Si può sapere cosa ti passa per la testa?
La schiettezza del nano sollevò un macigno dal petto di Elemmire. Le sembrò per la prima volta di parlare con un suo pari, anche se idealmente di sessant’anni più vecchio.
-Sono sotto la protezione di Gandalf- incominciò, e all’improvviso una storia verosimile e credibile le si formò in testa come se non avesse aspettato altro che venire a galla. –Facevo parte di un convoglio che tornava nell’Ithilien, ma mi sono persa. Gandalf mi sta scortando verso casa.
-Nessuno ti è venuto a cercare?
-Si può dire che nessuno ne abbia la possibilità. E’ una storia lunga.
-Non insisto. Quindi in un certo senso sei vincolata a noi.
-In tutti i sensi, dato che Gandalf vi accompagna.
-E’ buffo, in un modo o nell’altro stiamo entrambi tornando a casa.
-Sì-  rispose Elemmire con un sorriso triste –Sto tornando a casa anch’io.
Fili aveva seguito tutta la conversazione da lontano. Si avvicinò loro con un sorriso smagliante come se la discussione del giorno prima fosse già acqua passata.
-Non vedevo questi posti da quando avevo l’età di Elemmire.
-Gentilissimo. Sei cresciuto qui?
-Nostro padre è delle Terre Selvagge, quindi sia io che Kili siamo nati e vissuti qui per tutta l’infanzia.
-Vale a dire quante decine d’anni?- chiese Elemmire con un sorriso.
-Fino a quasi trent’anni fa- le strizzò l’occhio Fili –Poi nostra madre ci ha praticamente sbattuti fuori di casa.
-Non l’ha fatto davvero!
-Come no! Voleva che iniziassimo a ricevere un’educazione degna del nostro rango. Abbiamo vissuto da allora con zio Thorin.
-E’ come un padre per noi- scosse la testa Kili, i lunghi capelli ondeggianti –Eppure non sapevamo nulla di Azog e della fine di nonno Thror.
-E’ un’eredità difficile da tenere alta, immagino.
Kili la guardò con gli occhi sgranati:-Esattamente lo stesso pensiero che mi è venuto in mente l’altra sera!
-Il fatto è che non siamo solo i nipoti di Thorin…- iniziò Fili.
-…siamo eredi diretti di Durin- continuò Kili –Questo vuol dire che se a Thorin succedesse qualcosa, non vogliano gli dei degli antenati, il secondo in linea di successione sarebbe Fili, e il terzo io! Se ci fosse una battaglia sarebbe nostro compito rimanere accanto al re fino alla morte e difenderlo con il nostro corpo come fanno i congiunti, ma anche guidare le truppe in quanto eredi del Re dei Re.
-In poche parole, se prendessimo sul serio ogni aspetto di questo viaggio, ci sarebbe da vivere avvolti nella coperta.
-Ci saranno battaglie?- chiese Elemmire sentendosi all’improvviso inquieta.
-Non credi mica che busseremo alla porta di Smaug chiedendogli gentilmente di ridarci il nostro oro vero?
-Ovviamente no- rispose Elemmire con impazienza –Ma è allora che entrano in gioco Gandalf e Bilbo, no?
I due fratelli la guardarono, poi abbassarono lo sguardo.
-Non so fino a che punto il Mezz’uomo si rivelerà utile- disse Fili, alzando un sopracciglio.
-Non fraintenderci- continuò Kili –Nutriamo grande fiducia in lui, visto che Gandalf stesso lo ha scelto. Deve avere delle doti nascoste.
-E molto bene, anche. Ma è pur sempre uno, anzi mezzo, contro…bhe, chiunque abbia tentato di misurare da vicino quel drago non è mai tornato a raccontarlo.
-Ci sarebbe più da affidarsi a Gandalf…
-…e Gandalf si affida a Bilbo.
-Conoscete da molto tempo Gandalf?
-A dir la verità no, ma conosciamo la sua fama.
-E’ conosciuto come l’Amico degli Elfi e il Protettore dei reami degli uomini, ma ha spesso aiutato anche i nostri antenati.
-Non è il più saggio, il più vecchio o il più potente del suo ordine, ma senza dubbio il più amato.
-Cosa intendete per ordine?
-Altri come lui. Altri stregoni. Ma perché non lo domandi direttamente a lui stasera? Noi non sappiamo molto.
Così cavalcarono tutto il giorno, e ad Elemmire parve che i dolori alle gambe divenissero un po’ meno acuti mentre parlava con i nani. I due fratelli pensavano e parlavano come una mente sola, scambiandosi frequenti occhiate e parole nella loro lingua madre. Fili, il maggiore, sembrava estremamente orgoglioso del fratello e minore, e Kili da parte sua ne imitava il portamento, i gesti e il tono di voce. Vederli insieme restituì allegria al viso di Elemmire, e dopo giorni tornò a sorridere.
La sera stessa l’aiutarono a scendere da cavallo affinché non cadesse di nuovo umiliandosi, e cenarono con lei offrendole gran parte del loro cibo. Si erano fermati in una conca boscosa vicina ad una sorgente spumeggiante, così si occuparono insieme di far abbeverare i pony e di legarli poco distanti dal falò.
Quando le stelle salirono sempre più alte nel cielo nero, e nugoli di scintille si alzavano dal fuoco ruggente, i nani tirarono fuori dalle bisacce degli strumenti musicali.
-Non siamo un popolo rozzo o triste- sorrise Kili accordando uno splendido violino di legno bianco. Bilbo ed Elemmire si guardarono, sentendo che stavano per assistere a qualcosa di grandioso. Gandalf fumava la pipa in silenzio e aveva gli occhi chiusi. Forse anche lui sentiva la stessa emozione salire nell’aria.
All’inizio fu solo un mormorio cadenzato, poi Fili iniziò a cantare con voce limpida e giovane:
Lontano, sorgono le Montagne Nebbiose
Ci lasciano in piedi sulle alture
Ciò che era prima, vogliamo vedere ancora una volta
È il nostro regno, una luce lontana.
Le viole di Balin e Dwalin iniziarono a suonare una melodia fiera e potente come il vento sulle cime. La tonante e profonda voce di Thorin, che suonava una meravigliosa arpa, continuò il canto.
Montagne ardenti sotto la luna
Parole taciute: saremo presto lì
Per la nostra casa una canzone che riecheggia.
E tutti quelli che ci incontreranno ne conosceranno la melodia.
Gli altri nani inframezzavano i versi con cori nella loro lingua e battiti di mani. Le voci si sovrapponevano forti come il cozzare di armi contro gli scudi, di piedi contro la terra. Bombur, il nano grasso, suonava un enorme tamburo e Bifur, che aveva una mezza ascia conficcata nel cranio e infissa nella cicatrice, una percussione più piccola. Un ritmo antico come il cuore della terra accompagnava le parole dei nani, ricordando il battere di martelli contro la roccia.
Popoli che non dimenticheremo mai
Razze che non perdoneremo mai
Non hanno ancora visto nulla di noi
Combatteremo finché avremo vita.
La voce di Kili era calda e vibrante come lo scorrere del sangue su un campo di battaglia. Le fiamme del falò si alzavano fino a sfiorare le stelle e le loro ombre danzavano al ritmo dei tamburi. I flauti degli altri nani si unirono alla melodia che spiegò le ali e volò attraverso i boschi e le valli.
Tutti gli occhi sulla via nascosta
Verso il cuore della Montagna Solitaria
Cavalcheremo nella tempesta che si addensa
Finché non otterremo il nostro oro a lungo dimenticato.
 
Noi rimaniamo ai piedi delle fredde Montagne Nebbiose
In sonni profondi e sogni di ori
Dobbiamo svegliarci, stabilire le nostre vite
E nell’oscurità stringiamo una torcia.
 
Già da molto tempo
Cantò un nano dalla folta barba rossa
Quando le lanterne bruciavano
Fino a questo giorno, i nostri cuori anelano
Un destino sconosciuto. Ciò che è stato
Rubato deve tornare indietro.
 
Kili e Fili impugnarono i loro violini e l’assolo lasciò Elemmire senza fiato. Una nostalgia tangibile e dolorosa, ma una ancor più grande voglia di riscatto l’avvolsero sulle fiere note che parlavano di libertà, di conquista, di ritorno e di gloria. Il bel viso di Kili era trasfigurato mentre suonava con il suo strumento secoli di storia, la storia del suo popolo.
 
Dobbiamo svegliarci e mettere fine all’agonia
Per trovare la nostra canzone, il nostro cuore e la nostra anima
Popoli che non scorderemo mai
Razze che non perdoneremo mai
Non hanno ancora visto la fine di ogni cosa
Combatteremo finché avremo vita
 
Lontano, oltre le montagne nebbiose.
Thorin concluse il canto e le sue parole rimasero sospese a lungo nell’oscurità. Ogni cosa tacque nel preciso istante in cui l’eco della sua voce fu portato via dal vento dell’estate. Il fuoco tornò nel suo cerchio di pietre e le ombre si fermarono e tornarono quello che erano: spettri. Solo il loro respiro era udibile. Elemmire era estasiata. Nel suo cuore nacque prepotente il desiderio di vedere la Montagna Solitaria e gli ori dei nani, le loro stanze scavate nella roccia. Anche quando si coricò per dormire le parole della canzone rimasero stampate nella sua testa con il forte accento di Thorin e la sua voce così potente. Sopra ogni cosa però c’era il volto di Kili che suonava il violino: un volto trasfuso di ferocia. E di gioia.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Le terre selvagge ***


CAPITOLO 3
Il mattino sorse soleggiato e caldo. I suoi vestiti iniziavano a puzzare ed Elemmire avrebbe desiderato potersi fare un bagno e cambiarsi. Erano tre giorni che viaggiava e dormiva con gli stessi abiti. I suoi capelli sembravano paglia sulle sue spalle. Cavalcarono tutta la mattina in una valle piena di fiori viola e arancioni che emanavano un profumo delicato e avvolgente. Bilbo ne accolse alcuni e poi glieli porse con gentilezza.
-Sei l’unica ragazza della nostra compagnia- disse come per giustificarsi.
-E’ davvero molto carino da parte tua, Bilbo Baggins- Elemmire si sentì scaldare il cuore da quel semplice e premuroso gesto.
-Dammi- le disse Fili –Provo a intrecciarli.
E in pochi minuti le abili mani del nano le deposero sul capo una corona di viole e camelie.
-Sembra un’elfa- commentò Kili storcendo il naso.
-Non ti piacciono gli elfi?- chiese Bilbo, sorpreso.
-Non dovrebbero essere le creature più belle dell’universo?- incalzò Elemmire.
-Sono di certo leggiadri, ma non si può dire che io gradisca le elfe. Sono troppo sottili, tutte zigomi altissimi e pelle cremosa. E poi non hanno abbastanza peli in faccia.
-Né sulle braccia, né in qualunque altra parte del corpo- strizzò l’occhio Fili dando una gomitata a Kili –Vedo che finalmente hai imparato la lezione. Malinalda è stata un’importante maestra.
Kili arrossì e balbettò:-E’ stata una fase. Avevo solo cinquant’anni, ero un ragazzino.
-Hai avuto…esperienze…con un’elfa?- chiese con delicatezza Elemmire.
-Non era una vera elfa, solo per parte di madre. E no, non quel tipo di esperienze.
-E’ proprio vero che le dimensioni contano eh?- sospirò Fili prima di scoppiare a ridere alla vista dell’espressione del fratello. Kili era un misto di offesa e sfida.
-Chi meglio di te può saperlo- rispose a tono, sorridendo poi con malizia a Elemmire.
La ragazza rimase interdetta, indecisa se stare al gioco oppure prendersela, e i nani notarono la sua esitazione.
-Non dire altro, Kili. Lasciale credere che parlavamo di altezze- rise Fili. I tre continuarono a cavalcare tutto il pomeriggio e si fermarono solo al tramonto. Allora Elemmire si mise alla ricerca di un posto dove lavarsi e trovò un rivo incassato tra due grandi alberi frondosi. Controllando attentamente di essere sola si spogliò e si bagnò nell’acqua del fiume. Stare a mollo la fece sentire libera e felice. Riemerse perché il sole stava calando e non aveva dimenticato gli agghiaccianti ululati dei lupi, due sere prima. Si asciugò con i suoi stessi vestiti e tornò all’accampamento con i capelli bagnati sciolti sulla schiena. Vide ancora le strane orme giganti e in sé sentì nascere uno strano presentimento. Un presentimento affatto positivo. Vicino ai pony trovò Kili, come al solito di guardia. Il nano le si avvicinò. Abituati a stare a cavallo, Elemmire non si era mai davvero resa conto della differenza di corporatura che correva tra loro. Kili era alto per un nano, si accorse, ma comunque lei lo superava di tutta la testa e le spalle. Inoltre Elemmire era di fisico slanciato, il nano era resistente e ben piazzato, con muscoli possenti sotto i vestiti.
-Ti stavo cercando, Elemmire.
-E’ successo qualcosa?
-No, o anzi, sì, ma non riguarda te. Zio Thorin e Bombur hanno trovato delle impronte nel bosco. Sembrerebbero Mannari, e questo spiegherebbe gli ululati delle scorse notti. Gandalf crede che un manipolo di orchi ci stia dando la caccia, ma non possiamo deviare dalla via che stiamo ora percorrendo. Perciò, zio Thorin vuole che io “verifichi le tue abilità con le armi”, nel caso ci fosse bisogno di usarle.
-Ma non so nemmeno maneggiare un coltello- rispose Elemmire inquieta, ricordando le orme che lei stessa aveva visto due volte nei boschi. Il suo presentimento di faceva sempre più fondato: qualcosa dava loro la caccia.
-Lo so benissimo, per questo ti cercavo. Volevi imparare a tirare con l’arco giusto?
Elemmire lo guardò in silenzio, poi si decise a rispondere:-Tuo zio Thorin non ti ha detto di insegnarmi a usare delle armi.
-Ma non ha nemmeno detto di non farlo. Se ci sbrighiamo abbiamo ancora un po’ di luce.
Così Elemmire e Kili si addentrarono nel bosco finché ancora era rischiarato da qualche raggio di sole. Kili portava sulle spalle una faretra piena di frecce dall’impennaggio chiaro e un arco corto e rigidamente geometrico. Trovarono una radura dove gli alberi si diradavano e Kili si fermò. Impugnò l’arco e le mostrò brevemente dove posizionare le mani.
-E’ un arco dei nani, cioè più piccolo e maneggevole di quelli usati dagli elfi o dagli umani. Ciò non vuol dire però che occorra meno forza per piegarlo. Devi tenerlo con una mano, così, e con l’altra tiri la corda. Attenta a non abbassare il gomito, anche se lo sforzo diminuisce il lancio ne risente per precisione e direzione.
Elemmire non riuscì che a tenderlo leggermente, e già lo sforzo le faceva dolere il petto e la schiena.
-Non preoccuparti, è già tanto che tu riesca a maneggiarlo nel giusto modo. Con l’esercizio andrà meglio, imparerai ad averci familiarità. Ora prova a incoccare.
-Incoccare?
-Si dice così quando poggi la freccia sulla corda. Provaci, così, e poi lasciala andare.
Kili aveva ripreso l’arco e dopo averlo leggermente teso aveva scoccato una delle sue frecce a molti metri di distanza, il tutto con innata facilità e naturalezza. Aveva a malapena contratto i muscoli.
Elemmire provò a scoccare anche lei due frecce, che ricaddero ai suoi piedi e nemmeno di punta. Ringraziò tacitamente Kili che si sforzava di non riderle in faccia. –Migliorerai- continuava a ripetere.
Dal profondo degli alberi si udirono dei fruscii e un leggero scalpiccio. Kili fu un lampo nello strappare l’arco di mano a Elemmire e a incoccare una freccia. Rimase fermo in attesa, facendo cenno che Elemmire si mettesse dietro di lui. Dalle fronde spuntò una figura. Era Fili.
-Ce ne ho messo di tempo per trovarvi- ansimò scuotendo le chiome bionde e facendo cadere rametti e foglie.
-Mi hai spaventato- mugolò Kili –Con l’arco non ci siamo, ed è comprensibile. Spero tu possa avere maggior fortuna.
-Maggior fortuna per cosa?- Elemmire odiava dover chiedere sempre dei chiarimenti quando Kili e Fili parlavano tra loro.
-Scherma- disse Fili allegramente –Se ci sarà bisogno di venire alle armi nei prossimi giorni non possiamo aspettare che diventi abbastanza forte da tendere un arco.
Kili estrasse dalla tasca del soprabito di cuoio lavorato un coltello a serramanico con una doppia lama, liscia da un lato e seghettate dall’altro, e tagliò tre grossi rami da un albero. Ne lanciò uno a Fili, che lo prese al volo, porse il secondo ad Elemmire e tenne il terzo per sé.
-Ora, noi siamo poco più che la metà di te, perciò ti attaccheremo da due lati. Per te sarà più facile perché puoi dominare la situazione dall’alto. Vogliamo solo vedere come ti muovi e come impugni il bastone, così possiamo indirizzarti verso uno stile di combattimento che possa rispecchiare ciò che sei.
-Combattere ha le sue regole- concluse Kili, assumendo una posizione di guardia.
I due nani si avventarono correndo su di lei ed Elemmire ebbe appena il tempo di impugnare il ramo prima che una grandine di colpi le arrivasse sulle gambe e sulla schiena. I bastoni non ferivano, ma maneggiati da un nano lasciavano bozzi e lividi ovunque. I due fratelli non combattevano nello stesso modo: Kili era saettante e velocissimo, difficile da seguire a occhio nudo. I suoi colpi non erano vibrati con potenza, ma Elemmire sospettava ci stesse andando piano con lei. Fili al contrario attaccava con grande energia e in modo imprevedibile, cosicché era praticamente impossibile calcolare dove sarebbe spuntato il livido seguente. Elemmire risolse di concentrarsi su Kili, del quale almeno poteva intuire la strategia, e iniziò a girare in circolo in modo da frapporlo sempre tra lei e Fili. Iniziò poi a far valere la sua superiorità fisica, cercando di colpire i nani sulle spalle o sulle braccia. L’oscurità della sera li trovò sudati, ansimanti, i nani coperti di polvere ed Elemmire coperta di lividi. Lasciarono cadere i bastoni e si sdraiarono per terra a riposare.
-Mi arrendo- sospirò flebilmente Elemmire, sentendo che stava per vomitare.
-Anch’io- rispose Kili, scostandosi dalla fronte i capelli fradici. Fili era in silenzio e respirava grandi boccate d’aria.
Si rialzarono dopo qualche minuto e zoppicando si diressero verso l’accampamento. Mentre i nani si fermarono a mangiare, Elemmire si coricò direttamente. Sentiva che il suo fisico non avrebbe sopportato lo sforzo di sedersi accanto al fuoco. Si addormentò chiedendosi come avrebbe fatto l’indomani ad alzarsi e si scordò, per la prima volta dopo giorni, di ricongiungere il suo pensiero a quello di Andra, di Garen, di casa sua.
Gli ululati ripresero nel corso della notte, ma Elemmire era già sveglia, perché si sentiva il petto oppresso da una crescente oscurità. Il presentimento negativo era ormai certezza: sarebbe successo qualcosa di spiacevole, e sarebbe successo il giorno dopo.
Nel rigirarsi sulla coperta, trovò accanto a sé una ciotola di zuppa di carote, ormai fredda, e un cucchiaio di legno.
 
Il mattino dopo iniziò a piovere. Anzi, piovere è un eufemismo, pensò Elemmire da sotto il cappuccio. Non aveva portato con sé un mantello e un nano di nome Gloin, con la barba rossa acconciata in tante treccine, gliene aveva procurato uno, nero e sbrindellato. I pony affondavano nel fango e nessuno aveva voglia di parlare o di cantare. Elemmire scrutava il torrente che le pioveva in testa e non poteva fare a meno di pensare a casa propria. Magari quello sarebbe stato il giorno buono per tornarci. Bastava che il Portale si aprisse di nuovo. In fondo, era successo una volta durante un temporale, poteva succedere ancora.
Ma quello non era un temporale d’autunno. La pioggia cadde continua e abbondante per tutto il giorno, finché Elemmire non si ritrovò fradicia fino al midollo. Non era mai stata così bagnata in vita sua. Il freddo e il fastidio erano tali da eclissare il dolore. Ovviamente i lividi del giorno prima, disseminati ovunque sul suo corpo, erano viola e pulsavano. L’acqua dava loro sollievo, fino a un certo punto, ma lo sfregare dei vestiti appesantiti era una tortura sulle escoriazioni che si era procurata sulle braccia e sulle ginocchia. Pregò con tutta se stessa che la sera arrivasse in fretta, o che la pioggia cessasse, ma nessun dio l’ascoltò. Piovve per ore. Elemmire cavalcava accanto a Gandalf, che rimaneva ben dritto, meditabondo come sempre. Dietro di lei c’erano Bilbo e Kili, entrambi bagnati quanto lei. Ad un certo punto del pomeriggio Thorin decise che non era più possibile proseguire: malcontento e fatica serpeggiavano tra i nani. Ordinò loro di cercare un posto asciutto sotto gli alberi dove tentare di accendere un fuoco e come sempre a Kili e Fili vennero affidati i pony.
-Credo che dovremmo cercare aiuto dagli elfi- stava dicendo Gandalf a Thorin. Il fiero nani aveva la fronte aggrottata e un cipiglio feroce.
-Non andrò a mendicare alla porta di un popolo che non ha mai alzato un dito per me e la mia famiglia. Devo ricordarti che nessun aiuto arrivò da Thranduil e dal Bosco Atro quando Smaug devastò la nostra casa?
-Sire Elrond è un Alto Elfo dell’Ovest, questo vuol dire che ha più senno degli Elfi Silvani. E poi conosceva bene tuo padre.
-Mio padre non me ne ha mai parlato. E sono certo che disprezzerebbe l’andare a cercare riparo presso di lui.
-Devo ricordarti che stiamo parlando di un nano che perse il senno! Abbiamo delle domande, domande cui solo Elrond può rispondere. A cosa serve che io ti abbia dato la mappa e la chiave di tuo padre se non sai usarle?
-Questa mappa e la chiave appartengono a me di diritto, Gandalf. E deciderò io come e quando usarle, e a chi chiedere aiuto.
Thorin era minaccioso con quegli occhi granitici splendenti di rabbia. Gandalf lo guardò irato, poi girò sui tacchi.
-Salvatemi dall’ostinazione dei nani. Vado a cercare la compagnia dell’unico qui con un po’ di buon senso!
-Chi sarebbe?- chiese Bilbo che come Elemmire aveva assistito alla discussione.
-Me stesso, Bilbo Baggins, me stesso.
Gandalf scomparve nel bosco.
E sul più bello, al tramonto, la pioggia cessò, il cielo si diradò e mentre guardava il sole che si adagiava sulle montagne in un lago di rosso Elemmire realizzò che non sarebbe tornata a casa neanche quel giorno. Bevve la zuppa calda che aveva cucinato Bombur, il nano grasso, e si sentì rinvigorita. Cadde l’oscurità, nera quanto il viso di Thorin: Gandalf infatti non aveva ancora fatto ritorno. –Tornerà?- chiese Bilbo.
-E’ uno stregone- rispose Bofur –Fa quello che vuole. Sarà andato in qualche posto a meditare.
-Elemmire- la voce di Thorin risuonò alle sue spalle e quasi la spaventò –Porta la zuppa anche ai ragazzi. Sono con i pony.
Elemmire si affrettò a riempire due ciotole e si incamminò verso il bosco. Soffiava un vento fresco e fastidioso. Individuò le due figure di Kili e Fili in piedi come sentinelle nella notte; avvicinandosi si rese conto che sembravano quasi impietriti.
-Ci sono dei problemi?- chiese cercando di non fare rumore.
-Un leggerissimo problema- le rispose Fili, con un cenno.
-Noi dovevamo tenere sotto controllo i pony.
-E ne avevamo sedici.
-Li abbiamo tenuti d’occhio.
-Ma ce ne sono solo quattordici.
Elemmire si sentì gelare. –Non è un problema tanto leggero questo!
-Zio Thorin ci squarta questa volta- Kili si mise le mani nei lunghi capelli.
-No se riusciamo a ritrovarli prima che lui se ne accorga. Vale a dire prima di domattina- esclamò Fili.
-Il problema è, per l’appunto, se riusciremo a trovarli.
-Riusciremo?- chiese Kili.
-Avanti, dividiamoci. Anzi, è meglio se Kili rimane con gli altri pony. E fai in modo che non diminuiscano ancora.
Elemmire scomparve nel fianco destro del bosco e con la coda dell’occhio vide Fili setacciare la parte opposta. Iniziò a cercare tracce di pelo tra i rovi, impronte, rametti spezzati. Cercava di muoversi senza far rumore, poggiando attentamente i piedi sulle foglie marcite e controllando le membra indolenzite. Non c’era traccia dei pony, ma in compenso Elemmire scoprì due grossi alberi sradicati. Le radici spuntavano fuori dalla terra come braccia nude e spettrali, e terra fresca le avvolgeva come un sudario. Erano stati divelti da pochissimo da qualcosa di grosso. Di enormemente grosso. Il panico si impadronì di lei. Correndo e inciampando negli arbusti tornò indietro, provando ad orientarsi nel bosco oscuro e desolato. Ad un certo punto iniziò a non ricordare più se a un dato bivio aveva girato a destra o a sinistra e in lei crebbe il sospetto di star girando in tondo. Pensò di arrampicarsi su un albero per cercare la luce dell’accampamento e orientarsi, ma il pensiero degli ululati, dei Mannari che li avevano seguiti fino al giorno prima la congelò tanto farle mancare il fiato. Continuò a correre come impazzita finché qualcosa non l’afferrò e la tenne stretta a terra. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
-Va bene, va tutto bene, sono io- riconobbe il viso di Kili e i suoi lunghi capelli castani.
-Scusa- balbettò Elemmire piena di imbarazzo per essersi mostrata così indifesa e pavida.
-Ti ho trovata per fortuna. Fili ha visto una luce e crede possano essere…
-Ci sono alberi sradicati da quella parte! Alber enormi divelti da terra come giocattoli, come staccionate- mormorò Elemmire appena riprese abbastanza fiato da consentirle di raccontare quello che aveva visto.
-Fili ha ragione quindi. Sono Troll- Kili si alzò e la aiutò a fare altrettanto, anche se viste le altezze avrebbe dovuto essere il contrario. Iniziò a correre nel bosco, con Elemmire che lo seguiva ad occhi spalancati. Tornarono in fretta alla radura dei pony.
-Ne mancano altri due!- constatò Kili mentre sul suo viso si dipingeva una smorfia di orrore.
In quel momento Fili si unì a loro, e con lui c’era Bilbo Baggins.
-Ho pensato che in quanto scassinatore ufficiale a Bilbo sarebbe piaciuto dare un’occhiata alla situazione.
-In quattro ci muoveremo più lenti- borbottò Kili prima di voltarsi e tornare a infilarsi nel folto del bosco. I due nani, lo hobbit ed Elemmire percorsero un tratto in silenzio, poi una luce iniziò a filtrare tra gli alberi e si acquattarono tutti dietro le piante.
-Montone ieri, montone oggi e mi caschi un occhio in mano se non ci avremo montone pure domani.
Bilbo impallidì e si fece, se possibile, ancora più piccolo.
-Smettila di lagnarti, Berto, e spicciati a sbudellare quei cosi puzzolenti, se non vuoi assaggiare un mio cazzoto come antipasto.
-Stanno mangiando i nostri pony!- sussurrò Bilbo indignato –Dobbiamo fare qualcosa!
-Dovresti, sì- gli occhi di Fili scintillavano.
-In fondo sei uno scassinatore.
-E sei uno hobbit, così piccolo, così veloce.
-Un Troll è grande e stupido, non ti vedranno mai.
-Se sei in difficoltà ulula due volte come un barbagianni e una volta come un allocco, oppure tre volte come una civetta.
-Noi ti copriamo le spalle!
Così il povero Bilbo fu spedito in esplorazione. –Forse dovrei accompagnarlo- sussurrò di rimando Elemmire.
-Neanche per idea. Tanto per incominciare, i Troll conoscono fin troppo bene il sapore degli esseri umani e ne vanno matti. E poi…non offenderti, ma fai molto rumore quando cammini.
-Non sono offesa- rispose Elemmire, anche se in fondo quelle parole la urtarono un tantino.
-Noi chiamiamo gli altri. Rimani ferma qui e non muoverti per qualunque motivo.
Così Elemmire rimase sola nel buio, a sentire le voci tonanti dei Troll che parlavano tra loro della cena e del modo migliore di cucinare un cavallo. Cercava di respirare piano e di non muovere un muscolo mentre aspettava che i nani tornassero, ma l’attesa era snervante. Elemmire raccolse tutto il coraggio che aveva e si mosse cautamente da un albero all’altro fino ad arrivare vicina al cono di luce del falò. Un odore rivoltante di sangue e sporco si spargeva per l’aria. Non riusciva a vedere Bilbo, ma vedeva fin troppo bene il pony di Kili, quello dal lungo pelo nero: giaceva squartato sul terreno, le budella che scivolavano fuori dal ventre sanguinante. La visione le fece rivoltare lo stomaco e si impose di non vomitare.
Uno dei Troll lanciò una specie di urlo di avvertimento e con crescente orrore di Elemmire Bilbo fu trascinato al centro del cono di luce. Il piccolo hobbit tremava come una foglia ed era bianco dalla paura. Il primo impulso di Elemmire fu di lanciarsi in sua difesa, ma una riflessione razionale la inchiodò al suo posto acquattato tra le fronde. Cercò di scorgere nel buio se qualche figura fosse in avvicinamento, e aguzzò l’orecchio nel sentire scalpiccio di piedi nanici. Tutto taceva tranne i Troll.
-Cos’è questo coso?- stava chiedendo uno tenendo Bilbo per i piedi.
-E io che ne so? Tu coso, cosa sei?
-Sono uno scass…uno hobbit- squittì Bilbo.
-Uno scassobbit? E sei commestibile?
-Non ti riempirebbe nemmeno la bocca, non hai visto, povera canaglietta, quant’è piccolo?
-Magari però ce ne sono altri come lui nelle vicinanze.
-Nessuno! Nessuno lo giuro! Non mi mangiate!
-Dice un sacco di balle. Prova a rosicchiargli i piedini, vediamo se gli piace di più collaborare.
-Fallo cantare come un gallo, Berto.
Elemmire tese ogni muscolo pronta a intervenire. Si disse che era abbastanza veloce e scaltra per sfuggire a quelle grasse e sciocche creature, per quanto avesse da ridirne Kili.
-Non muoverti- la voce del nano all’improvviso sussurrava da un punto incredibilmente vicino. Kili corse vero il falò, incurante di nascondersi, con la spada sguainata e attaccò con impeto la gamba del Troll più vicino. Sangue scuro iniziò a scorrere per terra.
-Lascialo andare!- urlò Kili. Il suo viso splendeva nella luce del falò, i capelli erano rame fuso lungo le spalle e la lama mandava bagliori lucenti. Come se il concetto non fosse stato abbastanza chiaro affondò la spada nella gamba del Troll che reggeva Bilbo e ripeté:-Lasciatelo andare subito.
I Troll lo presero in parola. Uno di loro lanciò in aria Bilbo che atterrò tra le braccia del nano. Kili però perse l’equilibrio e cadde rovinosamente a terra. I Troll erano su di loro ed Elemmire di nuovo si preparò a farsi avanti, quando Bofur, Bifur e Bombur apparirono al suo fianco. Nel giro di pochi istanti tutti i nani si riversarono attorno ai Troll brandendo le asce e le spade, colpendo senza alcuna pietà le gambe, i ventri e le schiene. Kili, Thorin e Dwalin si battevano come leoni, mulinando le armi e senza mai sbagliare un colpo. Spesso Elemmire, nascosa dietro gli alberi, vide Thorin cadere, rialzarsi e tornare nella mischia con un urlo di guerra sulle labbra. Dwalin roteava una mazza enorme, alta quanto lui, che si apriva la strada tra le carni dei Troll con la facilità con cui un dito penetra nell’acqua di uno stagno. Kili saltava, accorreva ovunque ci fosse bisogno, e con un suo fendente aprì un largo squarcio nel ventre del Troll che aveva tenuto prigioniero Bilbo. Bilbo! Elemmire si rese conto che nella mischia non riusciva a vederlo. E quando infine ci riuscì, trattenne un urlo mordendosi le dita delle mani. I tre Troll lo tenevano ognuno per le braccia e le gambe.
-Incrociateci le braccia, o lo scassobbit perde le sue.
Thorin alzò lo sguardo su Bilbo mentre con una mano tratteneva Kili, già proteso in avanti. Elemmire poteva sentire la lotta che avveniva in lui, anche se gli occhi di granito non lasciavano trasparire alcuna emozione. Lentamente, abbassò la spada e la depose a terra. Gli altri nani, increduli, lo seguirono. I Troll non persero tempo: in pochi secondi i nani furono tutti ben legati in dei sacchi, con solo le teste che spuntavano fuori, ammonticchiati gli uni sugli altri.
-Come li cusiniamo ova quessi?- chiese un Troll che nel combattimento aveva perso quasi tutti i denti.
-Arrostiamoli e mangiamoli più tardi- rispose quello a cui Kili aveva quasi estratto le budella.
-Che idea stupida! Piuttosto facciamoli a pezzetti e bolliamoli. Ci uscirà un bello stufato- rispose uno a cui Thorin aveva procurato un occhio pesto e gonfio.
-Non potete bollirci- Elemmire rimase senza fiato. La voce era di Bilbo!
-E sentiamo un poco scassobbit, perché mai?
-Non avete acqua! E non ci sono fonti nei paraggi.
-La pulcetta ha ragione, corpo di un caprone!
-Sediamoci sopa di lovo e bolliamoli alla pima occasione- disse di nuovo il primo Troll.
-Da chi inizierete quindi?- chiese ancora Bilbo. Gloin, che era a lui vicino, si divincolò nel sacco urlando “traditore” ma Thorin rimase in silenzio. Stava guardando Bilbo e aveva gli occhi scintillanti.
-Iniziamo da primo arrivato- propose il secondo Troll –Il nano senza barba.
-Sciocchezze. Era il nano con la barba rossa il primo arrivato- interloquì Bilbo. D’improvviso Elemmire comprese: Bilbo stava guadagnando tempo! Ma cosa aspettava?
-Ci credi forse scemi? Lo sappiamo benissimo che non era lui.
-Infatti non era lui.
-Allora perché dice che lo era?
-Avete forse capito male. Volevo dire quello con la barba bianca.
-Questo scassobbit si prende gioco di noi! Compari, perché non iniziamo da lui?
-Scemo di un Maso, te l’ho già detto, non sarebbe nemmeno un boccone.
-Iniziamo allora da quello grasso. Scommetto che è bello croccante.
-Deficiente! Quello grasso per ultimo!
-L’alba vi prenda tutti e sia di pietra per voi!- una voce potente risuonò nella radura. Qualcosa comed un forte vento fece scricchiolare i tronchi che si aprirono lungo il sentiero. Un solitario raggio di sole illuminò la radura. Elemmire non si era resa conto che il cielo si era rischiarato fino a portare l’alba. Con stupore vide i Troll contorcersi e poi immobilizzarsi nella luce, le loro figure mostruose per sempre scolpite nella roccia. Si erano pietrificati.
In seguito successero molte cose assieme. Gandalf, imperturbabile e composto, si fece avanti tenendo alto il suo nodoso bastone; le fiamme del fuoco raggiunsero la biancheria dei nani appesi allo spiedo che iniziarono a contorcersi finché lo stregone non li liberò uno ad uno; la restante parte della compagnia, liberatasi dei sacchi, portò Bilbo in trionfo sulle spalle, mentre Thorin pareva diviso tra la disapprovazione e l’imbarazzo. Nessuno si ricordò di lei, accucciata tra le fronde, o dei poveri pony mezzi morti dalla paura. Erano legati poco distanti con dei grandi ceppi. Elemmire si alzò e le gambe esplosero di dolore; lo ignorò e barcollando giunse fino agli animali e li slegò, cercando di non guardare la carcassa sventrata del cavallo di Kili, poco distante e ricoperta di mosche.
-Oh Elemmire, mia cara, mi era parso di non vederti tra gli altri.
-Dove sei stato Gandalf?
-A guardare avanti, ovviamente.
-E cosa ti ha fatto tornare, di grazia?- Thorin si avvicinò con il suo portamento maestoso.
-L’aver guardato indietro, cos’altro?!- Gandalf analizzava con attenzione i Troll pietrificati –Non possono essersi mossi con il sole. Deve esserci una grotta qui nelle vicinanze.
-Grazie- la voce di Thorin era bassa come le fusa di un gatto. Guardava Gandalf da sotto il fiero cipiglio e gli occhi parevano sorridere con tepore.
Gandalf fece appena un cenno del capo:-Dobbiamo trovare la tana dei Troll. E’ sempre interessante visitarne una, se ci riesci.
I nani, lo stregone, Elemmire e Bilbo si addentrarono nella foresta. Gandalf li guidò con sicurezza verso il fianco della collina fino a una profonda cavità buia dalla quale proveniva un lezzo rivoltante.
-Io aspetto qui fuori- annunciò Elemmire in preda a un conato. Prima il pony sventrato, poi questo: per il suo stomaco era davvero troppo.
-Lo reputo saggio. Qualcuno deve rimanere di guardia, per ogni evenienza. Mastro Dwalin, Gloin, Nori, Bofur, con me e Thorin.
I designati scesero tossendo nella spelonca. Elemmire si sedette per terra e appoggiò la testa a un tronco: la notte insonne iniziava a farsi sentire. Chiuse gli occhi e cadde in un leggero dormiveglia, cullata dal mormorio delle voci dei nani.
Non furono passati che pochi minuti e un crescente senso di oppressione si impadronì di lei bloccandole il respiro. Spalancò gli occhi e si guardò intorno. Non c’era nulla che non andasse, ma una voce nella sua testa aveva preso a gridare.
-Kili- balbettò –Fili, arriva qualcosa.
I due nani le si fecero intorno:-Hai sentito un rumore?
-No, ma ho una strana sensazione.
-E’ solo la notte in bianco. Sei stanca e debole; dormici su.
E le voltarono le spalle.
Elemmire tentò di riprendere sonno ma le pizzicavano tutte le membra e non riusciva a stare ferma. Si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro. Kili e Fili affilavano le armi e le ripulivano dal sangue dei Troll e nel frattempo si scambiavano battute in nanico. Il tempo scorreva lento come lo sgocciolare della rugiada sulle foglie.
Infine Gandalf e i nani riemersero dalla grotta recando armi di ogni tipo che iniziarono a spartirsi. Kili porse ad Elemmire una spada lunga e stretta, con la lama che si allargava verso la fine e una punta sottile a affilata come uno spillo. L’elsa era elaborata con un motivo di rami d’argento intrecciati in forme sinuose e sul pomolo una pietra perfettamente romboidale scintillava come la stella del mattino. –Sono lame elfiche forgiate a Gondolin- spiegò Gandalf –Non si può desiderare lama più bella e resistente.
-E’ la cosa più bella che io abbia mai tenuto in mano- mormorò Elemmire. Sotto i raggi del sole l’acciaio scintillava e palpitava come acqua viva. Un ricamo leggerissimo di motivi floreali correva lungo tutto lo sguscio e culminava sulla punta.
-E aspetta di vederla in azione. Queste lame hanno migliaia di anni e sono ancora affilate come la prima volta che furono impugnate. Mi duole dirlo, ma una spada elfica maneggiata da un esperto è semplicemente micidiale.
Così dicendo il giovane nano legò alla sua cintura il fodero di un corto pugnale dall’elsa ricurva. Il fodero che Elemmire trovò perla sua lama era di cuoio con leggerissimi intarsi lattacei. Dovette cecare una cintura che fosse della sua misura e legarvi la spada.
-Ha un nome?- chiese a Gandalf.
-Sicuramente ce l’ha, ma quale sia è oltre le mie conoscenze. Solo gli elfi conoscono quale nome possiedono le loro lame.
-Posso dargliene uno io, allora?
Lo sguardo di Gandalf indugiò divertito su di lei:-Battinani andrebbe bene.
Lo stregone rise della faccia perplessa di Elemmire.
-Non crederai che io ci abbia messo molto a capire come Fili si sia procurato un bernoccolo sul sopracciglio. Spero che tu non debba mai avere modo di mettere in pratica ciò che Kili e Fili ti stanno insegnando.
Un sordo gorgoglio provenne da una parte imprecisata delle fronde. Il silenzio cadde sui nani.
-Dimmi che era il tuo stomaco Bombur- mormorò Balin estraendo la sua corta spada.
-Non era uno stomaco. Era un lupo- gli occhi di Dori erano dilatati dalla paura.
Elemmire lo vide appena. Una massa di pelo rossiccio si avventò su Gloin, che ebbe appena il tempo di scansare le enormi fauci sbavanti. La pesante ascia di Thorin cadde con forza inaudita sul collo della belva. Un rivoltante rumore di ossa scricchiolanti fece salire la pelle d’oca a Elemmire.
-Ce n’è un altro- urlò Gloin alzando la mazza ferrata. Un enorme lupo dal pelo ispido, nero come la morte e altrettanto magro, stava scendendo il fianco della collina digrignando le zanne lunghe quanto il braccio di Elemmire. La bestia piegò le zampe come per saltare, ma una freccia lo colpì esattamente tra gli occhi e lo fece rotolare nella terra. Non fece in tempo a toccare il suolo che altre due gli si conficcarono nel ventre. Kili incoccò un’altra freccia e si girò attorno:-Dobbiamo andarcene.
-Non abbiamo i pony!- ricordò loro un nano con la barba divisa in tre trecce castane di nome Nori.
-Presto, raccogliete le vostre cose e seguitemi.
Gandalf scattò in avanti e tutta la compagnia lo seguì.
-Vieni- Fili le fece cenno di seguirlo. Dal doppio fodero che portava in spalla il nano biondo aveva estratto due spade, e le maneggiava roteandole con maestria. Kili e Thorin si disposero in fondo alla colonna e tutti iniziarono a correre. Uscirono dal bosco e si trovarono nella valle: da un fianco sorgeva la montagna, il resto degradava verso il fiume, appena visibile sull’orizzonte. Spuntoni di roccia e bassi alberi intervallavano il paesaggio che era assolutamente piatto. E assolutamente scoperto.
Un coro di ululati risuonò alle loro spalle e il cuore di Elemmire balzò in gola. Una scarica di adrenalina le percorse le membra e iniziò a correre come non aveva mai fatto in vita sua. Un istinto sopito e primitivo si risvegliò in lei: quello della preda braccata. Poteva sentire l’odore acre della sua stessa paura che le si riversava nelle viscere e la rendeva leggera sul terreno stepposo. Gandalf li condusse a zig zag tra le rocce, cambiando direzione ogni volta che il branco di Mannari compariva davanti a loro. Elemmire capì all’istante cosa stava facendo: li depistava creando tracce di odori che si sovrapponevano in continuazione. Fili non la perse d’occhio un secondo, e la presenza del nano, la sua sicurezza le infusero vigore. Continuò a correre finché Gandalf non si fermò dietro ad una grande roccia e fece loro cenno di rimanere in silenzio. Tutti si acquattarono contro la dura e scabrosa pietra, senza quasi respirare nonostante i polmoni di Elemmire bruciassero. Ci furono pochi istanti di sollievo, poi il rumore di grosse zampe che saltavano sulla roccia e il basso ringhiare, inconfondibile, di un Mannaro fecero di nuovo tendere ogni suo muscolo allo spasimo. Thorin guardò Kili e fece un impercettibile cenno. In silenzio il giovane nano sfilò una freccia dalla faretra e la incoccò. Rimase fermo per un istante, come se stesse prendendo fiato prima di un tuffo, poi con un movimento fulmineo si girò e scoccò. Si sentì il rumore della freccia che si conficcava nella pelliccia e il Mannaro cadde loro davanti. Lo montava una creatura disgustosa, alta come un umano e con la pelle grigia e rugosa come quella di un rinoceronte. Indossava un’armatura spaiata e un teschio di cervo come elmo; nel viso erano a mala pena riconoscibili il naso e la bocca, deformati e simili a sfregi. Elemmire non aveva bisogno di Fili per capire che era un Orco.
La creatura si libero dalla carcassa del lupo e si avventò su di loro. Era alto due volte un nano e largo tre, e brandiva una spada lunghissima. A quel punto Bilbo, che la paura aveva quasi reso muto, estrasse un pugnale dal fodero che portava alla cintura e lo conficcò nel ventre dell’Orco, dal quale fuoriuscì sangue nero e bollente come pece. Thorin non perse tempo e decapitò il mostro, che emise un urlo gutturale e spaventoso. Un cozzare di latrati e ululati si alzò da spaventosamente vicino.
-Correte- urlò Gandalf. E la folle caccia riprese. Questa volta non sarebbe servito a nulla depistare i Mannari e i loro cavalieri: il branco era dietro di loro. Elemmire poteva quasi sentire il raspare degli artigli sul terreno. Si fermarono in una conca naturale del terreno. Le creature mostruose li avevano circondati. Mai, mai parole erano state più appropriate, si rese conto Elemmire pensando a cosa Gandalf aveva detto a proposito della sua spada. La estrasse, e una grande determinazione si fece largo in lei. Era circondata da guerrieri; avrebbe venduto cara la pelle. Avrebbe dimostrato che era all’altezza di morire con i nani. Kili uccise la metà degli Orchi e decimò i Mannari, ma in poco tempo finì le frecce, mentre nuovi nemici continuavano a rimpiazzare i morti. Allora il giovane principe estrasse la sua spada. La guardò e le fece cenno di avvicinarsi. Lui e Fili si posizionarono attorno a lei con le armi sguainate e un ghigno sui visi. Con sgomento Elemmire si rese conto che erano pronti a farle scudo con i loro corpi. Alzò la spada e assunse la posizione di guardia che Fili le aveva insegnato. Il cerchio attorno a loro si strinse. Thorin aveva impugnato la sua superba lama elfica e aveva una luce spietata negli occhi.
-Da questa parte, stupidi- la voce di Gandalf spezzò il silenzio greve. Proveniva da una fenditura nel terreno, sormontata da una grossa pietra. I nani, Bilbo ed Elemmire si mossero fulminei in quella direzione. Solo i tre eredi di Durin rimasero alle spalle della compagnia. Le loro spade assaggiarono il sangue dei Mannari più volte prima che anche loro avessero modo di entrare nel cunicolo. Fili le rotolò addosso ed Elemmire sentì che da qualche parte perdeva sangue. Aveva seguito Gandalf in preda all’istinto ma riflettendo si rese conto che erano in trappola comunque. Vedeva i musi dei mannari digrignare la fauci proprio all’ingresso. Poi successe qualcosa di inaspettato. Il suolo tremò sotto il battere di zoccoli al galoppo, e il sibilo di lunghe frecce riempì l’aria. Elemmire vide solo i garetti immacolati di una decina di cavalli bianchi, e poi il terreno divenne un intruglio di sangue e polvere e nessun suono fu più udibile oltre alle urla di Orchi e Mannari in agonia.
-C’è un condotto qui- urlò loro il nano sordo, Oin –Lo seguiamo?
-Per la mia barba, certo che lo seguiamo!- squittì Bombur.
Strisciarono a lungo sotto la terra. Il condotto era alto abbastanza perché un nano della taglia di Bombur potesse passarci senza rimanere incastrato. Sbucava in uno stretto cunicolo scavato nella roccia. Elemmire si rese conto che stavano penetrando nel fianco della montagna. L’aria era frizzante e quasi scintillante, e una sensazione strana si impadronì di lei. Non una nube asfissiante di terrore, ma come un solletico sotto la lingua e sulla punta delle dita.
-Gandalf, dove siamo?- chiese raggiungendo lo stregone.
-Riesci a percepirla?
-Sembra…magia.
-Ed è così infatti. Sei al cospetto di una magia antica. E benigna.
Il corridoio di roccia si aprì all’improvviso in una serie di scalini scavati da una cascata nella roccia. Elemmire alzò lo sguardo e niente avrebbe potuto prepararla a ciò che vide. Era come se un enorme crepaccio si fosse formato tra i due fianchi della montagna, un crepaccio solcato da un fiume cristallino che pareva aria trasparente liquefatta. Cascate circondate da arcobaleni iridescenti incorniciavano una dozzina di costruzioni alte e larghe, dalle forme armoniose ed equilibrate. Giardini, scalinate e statue si ergevano ovunque. I colori dominanti erano il blu notte, vellutato come il passo di una pantera, l’argento splendente come un manto di pioggia e un rosso porpora così profondo da catturare irrimediabilmente lo sguardo.
-Gran Burrone- mormorò Bilbo, estasiato, con il volto pervaso di gioia –La valle di Imradis.
-Era il tuo piano originario non è così?- Thorin guardò con astio Gandalf –Cercare protezione da chi ha sempre tradito il mio popolo. Da chi ci ha dichiarato guerra.
-Nessuna guerra si combatte da centinaia di anni in questa valle, Thorin Scudodiquercia- Gandalf si ergeva minaccioso –Bada di non essere tu a portarla con te. Lord Elrond può rispondere alle nostre domande, ed è uno dei pochi nella Terra di Mezzo di cui mi fido. Vedi quindi di lasciare parlare me, e di trattare la questione con cautela e soprattutto rispetto.
-Gandalf ci ha portati dritti nella tana del nemico- sussurrò Kili avvicinandosi al fratello.
-Il vero nemico è quello che ci aspetta là fuori- rispose Fili, ed Elemmire si trovò perfettamente d’accordo –Fidiamoci di Gandalf e stiamo in guardia. Non è il momento migliore per risvegliare vecchie antipatie, considerato che siamo supplici.
-Erano elfi quelli con i cavalli bianchi?
-Chi altri sennò? Gli elfi sono l’unica razza che gli Orchi temono. Sai, vecchie leggende dicono che gli Orchi altro non sono che elfi corrotti dal male.
-Vai a fare affidamento sulle leggende degli Orecchie-a-punta- sbuffò Kili, camminando avanti a loro con fare baldanzoso. Era in tutto simile a Thorin quando si comportava in quel modo, si rese conto Elemmire, a parte per quell’aria di maestà e autorità che il giovane principe non aveva. L’avrebbe avuta un giorno, pensò. Un giorno sarebbe stato anche lui Re.
Attraversarono un delicatissimo ponte sul ruscello che scorreva su sassi dalle mille forme e colori, poi entrarono in un cortile ottagonale di pietra bianca circondato da statue che rappresentavano guerrieri con armature raffinate e lunghi capelli. I loro sguardi non erano vitrei o ieratici: alcuni avevano un cipiglio orgoglioso e battagliero, altri visi erano più morbidi e dolci, altri ancora possedevano tratti tanto determinati che trasudavano nobiltà.
-La Piazza dei Re- le sussurrò Gandalf, prendendo la parte lei e Bilbo –Quelle statue rappresentano tutti i Re che si sono succeduti a Gran Burrone. La maggior parte di loro è partita per l’Ovest, per tornare alle Case Oltre il Mare. Sire Elrond è l’ultimo della sua dinastia, insieme ai suoi figli. Ma ora vedrete, vedrete.
Un’alta scalinata portava a quello che doveva essere il palazzo reale. Ne scese un elfo con i capelli corvini che svolazzavano nella brezza, il viso dominato dal naso dritto e dalle sopracciglia scure. Una sottile corona di oro bianco cingeva la sua testa e scompariva poi nella chioma, dietro le orecchie a punta. I tratti dell’elfo erano meravigliosi, come scolpiti nel marmo per austerità ed armonia, e gli occhi erano due stelle del tramonto. La fronte giovane e bianca era tuttavia increspata da leggere pieghe di saggezza, e il portamento nobile era sottolineato dal mantello viola come una sera d’estate. I suoi abiti erano leggeri e avvolgenti, ma incredibilmente semplici e sobri per essere un Re. Dalle labbra sottili uscirono parole in una lingua sconosciuta e melodiosa come il risuonare di una cascata in una vasca d’argento. Gandalf rispose nello stesso modo e tra i due si svolse una conversazione breve e concisa prima che Elrond rivolgesse il suo sguardo ai nani.
-Salute a te, Thorin figlio di Thrain.
-Non mi sembra ci conosciamo.
-Conoscevo bene tuo nonno quando era Re sotto la Montagna. Tra i nostri due popoli c’è sempre stata amicizia e rispetto.
-Non mi sembra di averti mai sentito nominare- rispose Thorin con ostinazione. Elrond ignorò la provocazione:-E salute a Fili e Kili, figli di Dìs, principi di Erebor.
I due nani si inchinarono goffamente. I loro vestiti sporchi, logori e pieni di polvere stridevano con la perfezione che aleggiava attorno all’elfo. –Anche gli hobbit sono i benvenuti a Gran Burrone. Conoscevo il tuo progenitore, Ruggitoro Tuc. Combattemmo insieme quando io ero ancora un ragazzino. Che tu possa portare alto il suo nome, Bilbo Baggins.
Lo sguardo dell’elfo si posò poi su Elemmire. La sua espressione si fece più acuta:-Non mi sembra di conoscervi, figlia degli Uomini.
-Mi chiamo Elemmire- rispose semplicemente, d’improvviso in imbarazzo, d’improvviso conscia di quanta distanza ci fosse tra quel posto e il mondo a cui lei stessa apparteneva.
-Elemmire vive nel reame di Gondor, nelle praterie dell’Ithilien. La sto scortando a casa.
Poi Gandalf aggiunse alcune parole nella lingua sconosciuta, che Elemmire suppose fosse elfico. Lo sguardo di Elrond indugiò su di lei a lungo.
-Siete tutti i benvenuti nella mia casa. Ho inviato io stesso il dispaccio di cavalieri a sterminare gli Orchi e i Mannari. La vostra presenza non è passata inosservata. Posso invitarvi alla mia mensa? Gradirei voi foste miei ospiti questa sera.
La tensione che regnava tra i nani si allentò. I ranghi si sciolsero, alcuni sorrisi vennero scambiati, le armi furono rinfoderate.
-Non sono avvezzo alle tradizioni dei nani, né lo è il mio popolo, ma conosco bene le consuetudini degli Uomini. Due ancelle sono a vostra disposizione per un bagno rinvigorente e per scortarvi fino alla vostra stanza.
Le parole di Elrond lasciarono Elemmire incredula per la felicità. Un bagno! E un po’ di riposo in un letto vero! Non lo credeva possibile.
-Non so come ringraziarvi, mio signore- balbettò inchinandosi.
-Parleremo più tardi di ringraziamenti, e di molte altre cose- Elrond si voltò e salì la scalinata con il mantello che svolazzava sulle sue spalle. Pareva che i suoi piedi fossero sospesi da terra.
Due elfe con vesti di leggeri veli colorati la presero per mano e la condussero in una delle costruzioni. Aveva un terrazzo affacciato sul fiume, e un giardino pieno di fiori e alberi. –Questi sono i vostri alloggi- disse la prima con una voce talmente limpida che pareva cantasse ogni parola.
-Tutto per me?
-Così Sire Elrond ha stabilito.
-Ero attesa per caso?
-Lo eravate tutti- le elfe sorrisero enigmatiche e poi la condussero nella meravigliosa casa. Dopo un’intera settimana di viaggi a cavallo e sotto le intemperie Elemmire fu lavata in una vasca di bronzo purissimo con acqua profumata e olii, mentre un’elfa le spazzolava i capelli fino a farli divenire lucenti e densi come un manto di seta. Fu avvolta in teli di lino scuro e asciugata, massaggiata e profumata ancora, fino a che la sua pelle divenne candida e morbida come la buccia di una pesca. Le elfe l’aiutarono a coricarsi e per qualche ora Elemmire dormì del sonno più profondo e dolce che avesse mai provato. Le stesse ancelle la svegliarono delicatamente quando il sole era ormai tramontato e lanterne di ogni colore splendevano alle porte e ad ogni finestra.
-Sire Elrond richiede la vostra presenza al suo desco.
I suoi capelli furono acconciati in una treccia che scendeva lungo la schiena e le elfe l’aiutarono ad infilare una veste stupenda. Un corpetto di morbido velluto blu l’avvolgeva mettendo in risalto le sue forme femminili, mentre una gonna di finissima stoffa argentata scendeva fino ai piedi. Le maniche erano larghe e fermate sugli avambracci e sui polsi da gioielli in argento. Infine posero sul suo capo un leggero diadema. Elemmire stentava a riconoscersi quando le porsero uno specchio ovoidale. Non si era mai vista così bella, e mai sentita così in pace con se stessa. Lasciò che le elfe la conducessero attraverso ponti e giardini fino a un grande padiglione retto da sottili colonne dal quale proveniva il suono armonioso di arpe e flauti. Lanterne erano posizionate in ogni arco e la luce che diffondevano era morbida e soffusa. Qui le ancelle sparirono, e un elfo maschio le prese la mano. Indossava una veste dorata e avevi i capelli riccissimi e scuri, con lunghe ciocche che si poggiavano sul petto. Il viso era delicato e armonioso, gli occhi due smeraldi.
-Il mio nome è Aranwe- dichiarò con una voce soffice e vellutata –Posso avere il piacere della vostra compagnia?
Elemmire annuì semplicemente. Non capiva bene cosa significassero quelle parole, se l’elfo volesse solo scortarla nel padiglione o se desiderasse davvero passare del tempo con lei.
Aranwe scostò i veli azzurri che separavano il padiglione dal resto del giardino e dichiarò:-Lady Elemmire dell’Ithilien, ospite di Sire Elrond.
Tutti si girarono verso di loro.
I nani avevano espressioni di sorpresa dipinte sui volti barbuti, ma erano nulla in confronto a come la guardarono Kili e Fili. Come se non l’avessero mai vista davvero. Kili sorrise con una traccia della vecchia spavalderia e le ammiccò, dando una gomitata a Fili. Qualcuno fischiò in approvazione. Aranwe la fece sedere al suo fianco insieme a Gandalf, Elrond e una serie di funzionari elfici.
-Earendil, capitano delle Guardie, Baragund e Belegund, i miei più fidati consiglieri- fu Elrond a fare le presentazioni, indicando ogni elfo con un leggero cenno della mano –Gli altri sono Borlach, Dairuin e Huan.
Non sapendo come rispondere a delle presentazioni ufficiali, Elemmire si limitò a sorridere, pensando che probabilmente quella sera non avrebbe fatto altro. Le venne posato davanti un piatto di vetro azzurro soffiato nella forma di cinque foglie ripiegate tra loro e le venne servita della lattuga. Come Elemmire ebbe modo di notare, sulla mensa degli elfi non comparivano né carni né pesci, solo vegetali, uova e formaggi. Mangiò molto poco, nonostante il sollievo di non avere più brodaglia per cena fosse grande, e ascoltò le conversazioni in elfico comodamente seduta su un morbido cuscino di stoffa indaco chiarissimo. I calici dai quali beveva vino scuro e fruttato erano a forma di lunghi fiori con tralci di erbe attorcigliati attorno. Ogni oggetto sembrava ispirato alla natura, e ne portava i colori leggeri e pastellati. Non v’erano eccessi, nessuna tonalità forte che potesse ferire la vista, nessuna forma spigolosa e affilata. Elemmire sentì che sarebbe potuta rimanere in quel posto tutta la vita, a sentire la melodiosa lingua degli elfi e a contemplare gli oggetti che producevano, camminando tra giardini, fontane e padiglioni aperti.
Quando le stelle si fecero più luminose e le conversazioni più alte, Elemmire incrociò lo sguardo di Kili che le fece segno di venire verso il loro tavolo.
-Chiedo permesso- sussurrò chinando la testa e alzandosi con gesti controllati per non turbare la quiete di Aranwe, che mormorava parole come di una poesia ad occhi chiusi.
Fili e Kili le fecero posto tra di loro su un ampio puff rosso intenso.
-Sei cresciuta tutto d’un tratto eh?- Kili, come sempre, non si perse in complimenti inutili.
-Prendi esempio e riformula il pensiero, fratello: questo vestito ti dona, Elemmire.
-Andiamo, lei sa cosa intendo. Sei davvero regale questa sera.
Le guance di Elemmire si infiammarono di imbarazzo. Abbassò lo sguardo.
-No, non abbassarli- le disse Kili –Hai gli occhi dell’esatto colore del vestito.
E con una mano le prese il mento. La pelle del nano era ruvida e screpolata, ma il suo tocco era sorprendentemente delicato e rispettoso.
-Così. Tieni il mento alto e guardati intorno con orgoglio. Fai impallidire gli elfi stessi stasera.
Come Elemmire scoprì in fretta, nessun nano aveva mangiato un gran che. In compenso avevano bevuto molto ed erano tutti un po’ brilli. Kili si alzò dal tavolo e iniziò a provarci con una giovane arpista vestita di bianco. Il modo in cui le sorrideva, come muoveva le sopracciglia e lo sguardo nei grandi occhi scuri erano irresistibili. L’elfa rimase interdetta, poi acconsentì ad alzarsi e scomparve nel buio assieme a Kili.
-Non impara mai- Fili scosse la testa.
Elemmire si trovò in imbarazzo, ancora. Il comportamento di Kili la infastidiva: era come se il nano avesse bisogno di divertirsi continuamente.
-Non fare quella faccia, Elemmire. Pensa a un Umano di vent’anni o ventidue. Cosa gli piacerebbe fare? Bere, divertirsi, combattere e andare con le belle donne.
Elemmire riconobbe che aveva ragione. E in fondo Kili si era dimostrato valoroso e di un coraggio assoluto quando ce n’era stato bisogno. Eppure la sensazione di fastidio non accennava a diminuire.
-Suppongo sia l’effetto del vino- mormorò di risposta a Fili. Il nano rise:-Oh no, ti assicuro, Kili più di chiunque altro tra noi sa reggere bene il vino e la birra. In ottant’anni non l’ho mai visto ubriaco o privo di lucidità. Lascialo fare, credimi. Imparerà a sue spese che una ragazza elfica non è come un’Umana…senza offesa per te, ovviamente, sai a cosa mi riferisco.
In realtà no, Elemmire non aveva idea di quale sottinteso intendesse Fili, ma fece finta di aver capito tutto alla perfezione. Il nano biondo sbadigliò e iniziò a giocare con una delle sue treccioline.
-Ragazzi, qui so io cosa ci vuole!
Bofur si alzò dal suo cuscino e si piantò in piedi sul tavolo. Un mormorio di stupore provenne dagli elfi. Elemmire si aspettava che Gandalf lo fulminasse con lo sguardo, invece lo stregone guardava l’improvviso colpo di scena con malcelato divertimento. Aranwe era semplicemente scandalizzato.
 
C’era una locanda, un’allegra locanda
Sotto un vecchio colle grigio
Ove la birra è così scura
Che anche l’Uomo della Luna
È sceso un giorno a berne un sorso
 
Lo stalliere ha un gatto brillo
Che suona un violino a tre corde
Su e giù scorre l’archetto
Stridulo a volte, a volte cheto
E a volte solo un trillo
 
Bofur cantava con voce piena e tonante, resa appena un po’ pastosa dal vino. I nani accompagnarono con le loro voci e alla fine della ballata, di cui Elemmire comprese a stento due parole di fila, presero i loro piatti e li lanciarono per aria. Cocci di vetro, foglie di insalata e uova finirono ovunque. Elrond manteneva un contegno reale ma la sua mascella era così serrata che i muscoli delle guance tremavano. Aranwe e gli altri elfi si alzarono indignati e lasciarono il padiglione a grandi falcate. Alla fine rimase solo la compagnia di Thorin, meno Thorin stesso e Kili. Gandalf rideva di cuore ed Elemmire si disse che, dopotutto, fino a quel momento la cena era stata piuttosto noiosa.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ospiti non troppo desiderati ***


 
Mai Elemmire dormì tanto come la sera del banchetto. I nani si riunirono tutti nel cortile delle loro stanze, che erano comunicanti, ma dopo poco tempo Elemmire sentì che gli occhi le si chiudevano e salutò l’allegra compagnia. Diede la buonanotte a Bilbo, che accucciato sul suo letto fissava l’oscurità beato, e si incamminò verso la sua stanza. A metà strada incontrò Kili. Mai aveva visto il nano così soddisfatto. Ne evitò lo sguardo e la presenza perché ancora avvertiva fastidio per quel gesto di grande mancanza di rispetto nei confronti di Elrond e di tutta la corte elfica, e per un sentiero laterale raggiunse la stanza con il terrazzo. Le finestre non avevano vetri e lasciavano entrare la calda brezza estiva, e il mobilio semplice ed elegante la mise a suo agio. Si sdraiò sul letto di morbide piume e dopo essersi tolta la veste si avvolse in una morbida coperta candida e cadde addormentata.
Il mattino sorse presto, accompagnato dal cinguettare di uccelli e dai limpidi canti degli elfi che salutavano il sole. La luce intensa che entrava nella stanza la svegliò. Elemmire si stiracchiò, si guardò intorno godendosi il sole caldo sulla pelle nuda, il vento fresco, il rumore delle cascate e la pace di quel luogo incantato. Non era mai stata così bene in vita sua. Si lavò nella vasca di bronzo e si avvolse stretta nella coperta per sciugarsi. Si sedette su una delicata sedia di legno ed esaminò i libri che erano poggiati sul tavolo. Alcuni erano scritti con rune e glifi complicati e incomprensibili, ma trovò un rotolo manoscritto che era in grado di leggere. Parlava di una stirpe di re discendenti dagli elfi, il cui regno prospero e potentissimo veniva attaccato e sommerso dal mare. L’oscurità, di nome Sauron, si era impossessato di quelle terre che erano diventate desolate e malvagie. Rimase persa per un po’ nella lettura del regno di Nùmenor, finché le due ancelle non entrarono con passo leggero nella stanza. Indossavano lunghe vesti e i loro capelli erano intrecciati di fiori.
-Sire Elrond vuole conferire con voi in privato- dissero in coro. La loro voce superava in armonia quella degli uccelli. L’aiutarono a scegliere una veste semplicissima color indaco chiaro di stoffa lucida e leggera lunga fino ai piedi, con maniche sottilissime e un gioiello scintillante dove la scollatura lasciava intravedere lo spacco dei seni. Le lasciarono i capelli sciolti sulle spalle, ancora ricci dopo che la treccia era stata disfatta, e la guidarono a piedi nudi sui prati di Gran Burrone fino ad una scala intagliata nella roccia. Salirono sempre più in alto fino a una piattaforma che sembrava sospesa nell’aria. Il pavimento era decorato con un mosaico che raffigurava un motivo floreale bianco e nero. Alcuni scranni erano disposti attorno a un tavolo circolare. Gandalf ed Elrond erano seduti lì, e con loro c’era una donna. La sua bellezza offuscava quella del sole. Lunghi capelli biondi le ricadevano sulla schiena in onde sinuose, e si poggiavano dolcemente su una veste bianca come la luna, ricamata di perle e diamanti e ondeggiante come la spuma del mare. La fronte ampia ospitava un diadema finissimo e delicato in puro oro bianco. Il naso, la bocca, le labbra piene, le guance perfettamente disegnate erano un capolavoro degno del più abile scultore. Gli occhi grandi e turchesi quanto un cielo d’estate, quanto le profondità del mare, erano bordati da ciglia nerissime e così profondi e saggi da apparire senza tempo. L’elfa fissò quello sguardo enigmatico e insieme indulgente su Elemmire, e una voce risuonò nella sua mente, chiara come il suono di una campana.
Salute a te, figlia degli Uomini. Prendi il posto che ti spetta.
Elemmire si fece avanti. I suoi piedi nudi avvertivano il freddo del pavimento.
-Elemmire, ti è stato concesso un onore che pochi mortali prima di te hanno ricevuto. Sei alla presenza di Lady Galadriel, la Dama Bianca, sposa di Celeborn, che governa i boschi di Lothlòrien.
Elemmire si inchinò profondamente. Galadriel sorrise in modo dolce e composto:-Siediti Elemmire. Abbiamo molte cose di cui parlare.
Elemmire obbedì.
-Non sei di questa dimensione, ora che ti vedo mi è chiaro. Hai negli occhi un passato che non è il nostro, e che forse potrebbe divenire il nostro futuro.
-Perché non racconti a Lady Galadriel come sei arrivata qui?- la incitò Gandalf. Elemmire dovette fare uno sforzo per ricordare ogni passaggio nei minimi particolari. Erano successe tante di quelle cose nel frattempo che aveva quasi dimenticato la sua vecchia vita. Si stava abituando alla Terra di Mezzo, e d’un tratto questa consapevolezza la spaventò.
-Un Portale… Strano modo per aprirsi- Elrond si toccò il mento con la mano e aggrottò la fronte –Sei certa di non aver pronunciato, anche solo per sbaglio, alcuna sillaba.
-Ho urlato e basta, perché ho avuto paura.
-Che io sappia non è mai successo prima un caso simile. O se anche vi è stato, io non ne sono mai venuto a conoscenza, e l’evenienza seppur possibile mi pare alquanto inverosimile.
-Eri in un particolare stato d’animo quella sera?- chiese Galadriel, imperscrutabile.
-Stavo leggendo… Avevo iniziato a leggere un libro.
-Quale libro?
-Un libro che parlava…bhe, parlava della Terra di Mezzo.
Un silenzio greve cadde sui tre adulti. Gandalf sbottò:-Questo non me lo avevi raccontato!
-Non credevo fosse importante! Me ne sono a stento ricordata anche oggi.
-Ora tutto appare più chiaro- la fronte di Elrond si distese –Dev’essere stato quel libro ad aprire il portale. Ma perché quella sera? Perché lei?
Galadriel sorrise e nei suoi occhi Elemmire lesse una nota di meravigliosa gioia.
-Mithrandir- disse riferendosi a Gandalf –Mi sorprendi. Tu hai visto il coraggio nascosto nel Mezz’uomo, e non sai leggere dentro questa ragazza? Non per caso magie antiche e segrete come i Portali si mettono in moto. C’è qualcosa in lei che aspetta di venire alla luce. Era suo destino trovare quel libro, leggerlo e poi giungere qui. E’ chiaro che il Fato ha in serbo per lei una parte in questa storia, e forse prima ancora che sia esaurita ne capiremo di più. Quello che è certo che nulla è accaduto per coincidenza. Eri destinata a trovarti qui, Elemmire.
-E cosa dire allora delle sue conoscenze? Lei già sa quello che potrebbe accadere.
-In tale caso, non devi farne parola con nessuno. Non cercare di modificare il corso del destino, Elemmire, o la tua sorte sarà irreversibile.
-Quale sarà la mia sorte?- chiese Elemmire, sapendo già la risposta.
-Se cercherai di interferire nella storia, diverrai tu stessa parte integrante della stessa. Rimarrai nella Terra di Mezzo per sempre, senza alcuna speranza di rivedere la tua famiglia, il tuo mondo, o di dimenticare quello che eri. Il passato ti perseguiterà per sempre, senza raggiungerti mai.
-Non spaventatela, mia Signora- Gandalf le prese la mano –Non ti succederà nulla di male. L’ho affidata alla protezione dei principi Kili e Fili, e ho intenzione di portarla con me a Gondor appena i nani raggiungeranno il Bosco Atro, cioè tra poche settimane immagino. Se quello che abbiamo dedotto stanotte è giusto, devono trovarsi alle pendici di Erebor per la fine dell’autunno.
-No Gandalf, non porterai Elemmire con te, e non andrai a Gondor. Ho delle importanti notizie che chiedono con urgenza di essere sottoposte al tuo giudizio, e a quello della Dama Bianca.
-Puoi andare, Elemmire. Forse un giorno ci incontreremo ancora.
Il sorriso di Galadriel scaldò il cuore di Elemmire che si sentì piena di entusiasmo e coraggio. Scese ancora le scale nella roccia e tornò nei giardini della valle, ancora abbagliata da tutto quello che aveva visto e sentito.
Così, ogni cosa prendeva forma adesso. Del resto lei stessa aveva immaginato che cadere proprio nel libro che stava leggendo non fosse una coincidenza. Chissà però quale sarebbe stata la sua funzione in quella storia. Fino a quel momento non aveva fatto assolutamente nulla, ma il pensiero che tutto fosse inquadrato in una sorta di piano superiore la rasserenò. Magari prima o poi sarebbe venuto il suo momento. Camminò a lungo tra le fontane e i pergolati e alla fine si sedette a contemplare il paesaggio. Una cascata altissima si riversava con tale potenza nel fiume che il suo rumore era udibile stando seduti ai piedi del palazzo di Elrond, ad almeno un miglio di distanza. Elemmire chiuse gli occhi e lasciò vagare i pensieri. Ricordava di essere stata in un bosco una volta, quando era più piccola. Le era sempre piaciuto il contatto con la terra, con le piante e amava sdraiarsi a terra e lasciare che i piccoli insetti le camminassero sopra. Una volta un grosso ragno nero e rosso le si era poggiato sulla mano e con le lunghe zampe aveva incominciato a risalirle il braccio. Una qualsiasi bambina avrebbe urlato, invece lei l’aveva preso con delicatezza e poggiato per terra, ammirando il modo in cui le otto zampe raspavano il terreno perfettamente coordinate e diseguali. Una cosa che non rimpiangeva della sua dimensione erano le città. Non aveva mai provato cosa fosse la vera libertà, guardare un orizzonte e non vedere che natura fin dove l’occhio arriva, senza il rumore, lo smog e l’affollamento dei quartieri residenziali, delle strade. Non si era mai sentita così sola, sperduta, ma nemmeno così padrona di se stessa. Non erano più le cime dei grattacieli a schiacciarla, ma il cielo stellato. Non muri di cemento che vegliavano sul suo sonno, ma alberi e montagne. Immaginò che in tempi lontanissimi anche la sua Terra doveva essere apparsa come la Terra di Mezzo: selvaggia, dominata da forze mistiche e antiche, solcata dai piedi di razze fiere e altere con le loro alleanze, le loro tradizioni e le loro guerre. Il suo passato poteva essere il futuro, aveva detto Galadriel, ed Elemmire non capiva bene cosa volesse significare. La Terra di Mezzo sarebbe un giorno diventata una distesa di cemento? I nani, gli elfi, gli hobbit avrebbero cessato di esistere? Non poteva pensare ad una simile evenienza. Quale diritto aveva la razza umana di sopprimere con i suoi interessi tutte le altre popolazioni? In nulla lei, Elemmire, era superiore a Bilbo o a Thorin se non in statura. Non in saggezza, non in coraggio, non in cultura o intelligenza. Non aveva la compostezza arcaica di Elrond o la sapienza ancestrale di Galadriel, o ancora l’equilibrio e la capacità diplomatica di Gandalf. Eppure si sentiva così bene, in fondo. Parte di un ecosistema in perfetto funzionamento. Non eccelleva in assolutamente nulla e per questo era parte del tutto, della vita, di quel flusso che scorreva da creatura a creatura. Pensò che probabilmente gli elfi avevano costruito Gran Burrone sotto un principio simile, e comprese il loro spietato odio per gli Orchi, per le sozzure della terra, che rendevano immondo ed empio tutto ciò su cui posavano lo sguardo. Arrivò, tanto si era immedesimata in quel popolo, a comprendere lo sdegno di Aranwe per lo schiamazzo dei nani.
Aprendo gli occhi e tornando nella sua mente, nel suo corpo, ne avvertì la materialità e la vita e si disse che aveva provato qualcosa di unico al mondo, che non sarebbe mai stato possibile al di fuori delle incantate valli degli elfi.
-Lady Elemmire, siete qui.
Una voce vellutata e morbida la interpellò pronunciando in maniera esotica il suo nome.
-Aranwe- Elemmire alzò lo sguardo sull’alto elfo che le stava davanti. Indossava una veste in cui il color acquamarina si fondeva gradualmente con il rosa. Sembrava stesse indossando il fiume stesso, con i suoi riflessi e le sue trasparenze.
-Non mi aspettavo di vedervi nella valle. Sapevo che Sire Elrond aveva richiesto la vostra presenza al suo Consiglio.
-Sì, lo ha fatto, ma non è stata una faccenda lunga.
-Spero allora che vorrete onorarmi con la vostra compagnia mentre passeggio.
Elemmire si alzò e seguì l’elfo.
-E così, l’avete vista?
-Chi?
-La Dama Bianca di Lothlòrien.
-Lady Galadriel. Sì, l’ho vista.
-E com’è?
-Come sarebbe a dire, com’è?
-Com’è. Quali altri significati può avere?
-Non so descriverla a parole.
-Provateci. Non dovete avere paura delle parole. Qui sono libere anche loro.
-E’ splendente.
-Splendente dite. Ho sempre pensato che la parola più adatta a lei fosse, eterea.
-Sì, esatto. Non sono brava con le parole.
-Non si tratta di bravura. Le parole non dipendono dalla nostra volontà, sono quello che sono.
-Non sono certa di capire.
-E non c’è bisogno che voi capiate.
Ci fu del silenzio denso di rumori naturali.
-Deve essere il gioiello del vostro popolo.
-La Dama Bianca? Oh, no, non lei è considerata la Stella del Vespro.
-Chi può starle accanto?
-Arwen Undomiel, la figlia minore di Sire Elrond.
-Ha una figlia? E chi è la madre?
-Celebrian, figlia di Galadriel. Undomiel ha ripreso il meglio da entrambi i genitori ed è considerata al pari della nonna materna per grazia e bellezza. Non ne possiede però la capacità di preveggenza: come gli Eldar…
-Eldar?
-E’ come noi chiamiamo noi stessi, gli Elfi d’Occidente. Non interrompete se volete sapere la sua storia.
-Chiedo scusa, non era mia intenzione.
-Scuse accettate. Dicevo, come gli Eldar che regge suo padre si è dedicata allo studio e alle arti più che alla magia. Le sue mani sono mani di guaritrice, come quelle del re.
-E dov’è ora?
-Cammina nei boschi di Lothlòrien, patria materna. E’ raro che le due gemme della nostra razza si ritrovino assieme nello stesso posto.
-Non pensavo esistessero distinzioni tra i vari Elfi.
-Ovviamente ne abbiamo. Gli Elfi silvani sono capricciosi e facili agli eccessi, potenti nelle arti magiche e inospitali verso gli stranieri. Noi Eldar ci dedichiamo al canto, alla medicina e all’arte, studiamo la storia e le tradizioni dei popoli e le nostre case sono aperte a tutti, anche ai nani.
Nella voce di Aranwe c’era mal celato disprezzo.
-Anche il vostro nome è elfico, come saprete.
-Non lo sapevo- Elemmire si sentì invasa da una grandissima sorpresa.
-Elemmire è il nome di una stella che brilla pochi giorni ogni anno, solo quando l’estate declina nelle braccia dell’autunno.
-E’ esattamente il periodo in cui sono nata.
-La vostra incredulità mi lascia sorpreso. Pensavo i vostri genitori vi avessero spiegato l’origine del vostro nome.
-Non l’hanno fatto.
Elemmire provava più di quello che l’elfo poteva comprendere. Avere un nome elfico sarebbe stato un caso particolare per un umano della Terra di Mezzo, ma per lei che proveniva da un’altra dimensione era addirittura incomprensibile. I suoi genitori erano coscienti di quale significato portasse il suo nome? Sicuramente, visto che avevano scelto con cura la stella di fine estate, che cadeva vicina al suo compleanno. Era forse un altro segno del “destino”? Elemmire rimase turbata e con una scusa abbandonò il fianco di Aranwe.
Camminando al ritmo incalzante delle sue riflessioni superò i palazzi degli elfi e si inoltrò nei boschi che vi crescevano tutt’attorno. Dei rumori provenivano da poco lontano, rumori scricchiolanti e secchi. Mise piede in una radura assolata al cui centro era ritto Kili.
Maneggiava il suo arco nanico e tirava frecce contro un tronco che aveva intagliato a forma di bersaglio. Già due aste erano conficcate al centro. Elemmire ammirò i movimenti fluidi e calibrati del nano, l’abilità, l’esperienza che facevano dell’arma un prolungamento delle sue stesse braccia. Rimase a guardarlo per un po’, poi si voltò per tornare indietro.
-Te ne vai di già?
-Non voglio disturbare.
-Non disturbi. Ti è già passata la voglia di imparare?
-No- Elemmire rimase ferma al bordo della radura, un piede in avanti e l’altro come inchiodato a terra.
-Vieni allora- Kili si girò verso di lei. Era sudato e gli occhi gli brillavano.
Elemmire lo raggiunse e prese l’arco che lui le porgeva. Lo impugnò e provò ancora a tenderlo, con scarsi risultati.
-Prova in questo modo- Kili le fece modificare la posizione del braccio e finalmente Elemmire sentì lo strumento rispondere ai comandi. Lo tese e poi rilasciò la corda con uno schiocco.
-Non era un gran che, ma possiamo lavorarci sopra- Elemmire credette di vedere un moto di fierezza nell’espressione del nano –Prova con la freccia ora.
-La scorsa volta non è nemmeno caduta di punta.
-La scorsa volta non hai nemmeno teso l’arco. Prova, avanti.
Elemmire incoccò e poi tese ancora. Cercò di imitare in tutto e per tutto Kili e i gesti che aveva fatto pochi minuti prima e ad un certo punto rilasciò la freccia. L’asticella si conficcò in un tronco a molti piedi dal bersaglio e il nano scoppiò a ridere.
-Cos’hai da ridere?- più Elemmire cercava di tenere il muso più la risata di Kili le metteva allegria.
-Niente, niente, è solo che…avanti, ritenta.
E con pazienza Elemmire scagliò quindici frecce, nessuna nella direzione della precedente. Kili la correggeva con attenzione e le spiegava dove e come sbagliava in modo molto chiaro. Tirarono con l’arco e poi tornarono insieme dagli elfi per bere un boccale di sidro. Le mani di Elemmire sanguinavano.
-Questo è il posto perfetto per esercitarti- disse con il labbro superiore sporco di schiuma –Nessuno ti disturba tutto il santo giorno e hai uno spazio praticamente illimitato.
-In realtà credevo che tu avessi di meglio da fare che stare qui ad insegnarmi come tirare con l’arco.
-Ad esempio?
-Imparare a suonare l’arpa, per dirne una.
-Mi basta il violino- Kili ignorò la frecciata e le ripose solo con un mezzo sorriso –E poi sai com’è, la musica la puoi studiare anche al lume di candela, la scherma no. Tu rimani qui a finire il tuo calice se vuoi, io cerco Fili.
E il nano si dileguò, lasciando Elemmire con l’aspro delle mele in bocca.
 
Tre giorni durò il loro soggiorno presso gli elfi. Elemmire si dedicava la mattina allo studio dei papiri e dei rotoli, nel pomeriggio tirava con l’arco o maneggiava la spada. Una volta due elfi di Elrond avevano sfidato Kili in una gara di abilità di cui Elemmire aveva sempre e solo sentito parlare: infilzare una mela poggiata sulla testa di qualcuno. Solo che quel qualcuno era Fili. Bendato, per di più. Mai Elemmire aveva visto una faccia diventare così verde di invidia come quando la freccia di Kili centrò alla perfezione il frutto mentre Fili caracollava qui e là. Gli elfi però si congratularono con lui e gli offrirono la metà delle loro frecce di cigno candido. Elemmire iniziava a prendere confidenza con le armi: migliorava la mira delle frecce e la potenza dei suoi colpi col bastone. Non era più l’unica a contarsi i lividi la sera, ma forse l’unica ad avere due ancelle elfiche al servizio che glieli massaggiassero per ore. L’ultimo giorno le due ancelle la lavarono con olii profumati di pino e mughetto e le porsero una veste bianca e oro con un ampio scollo a barca che lasciava scoperte le spalle. Le acconciarono i capelli in elaborate trecce sulla testa e poi scomparvero come ogni mattina. Elemmire passeggiò come ogni giorno nei giardini godendo il fresco e il venticello mattutino, poi decise di visitare quella che Fili e Kili le avevano indicato come armeria. Era una costruzione isolata, bassa e lunga con finestre strette a sesto acuto. Le pareti erano di legno bianco coperte da arazzi blu che raffiguravano cieli stellati o fanciulle danzanti; in speciali rastrelliere poi erano sistemate le armi e le armature. Elemmire rimase senza fiato. L’oro e l’argento brillavano e scintillavano da mille forme: else a forma di fiori, scudi dipinti, anelli intrecciati in maglie finissime, elmi raffiguranti animali esotici. Ogni cosa catturava e rifletteva la luce come un caleidoscopio. Un’elfa era ferma al centro della stanza, seduta come se meditasse. Aveva i capelli di un castano scuro che rifulgeva rosso sulle punte, e il viso era affilato e solenne. Indossava una sottilissima sottoveste bianca e una tunica azzurra, e sopra a tutto una veste di maglia di anelli finissimi e dorati. Una lunghissima spada era sfoderata e poggiata sulle sue ginocchia. Elemmire aveva imparato che gli elfi avevano i loro tempi di reazione e non era saggio affrettarli. Si sedette anche lei e poggiò a terra il fodero della sua spada, che aveva portato con sé. Non l’aveva più usata da quando era uscita dalla caverna dei Troll. L’elfa aprì due occhi blu petrolio e li fissò su Elemmire. Aveva uno sguardo duro, quasi sprezzante, che nessun altro elfo le aveva mai mostrato. Si alzò con un fluido movimento e disse:-Cosa sei venuta  a fare qui, figlia d’uomo?
-Ho bisogno di una risposta- la voce dell’elfa era profonda e graffiata, ma Elemmire non si fece intimorire. Rimase ferma e chinò la testa per rispetto.
-Riguardo a cosa?
-Riguardo a questa- Elemmire porse il fodero.
L’elfa prese il fodero, lo soppesò, poi tirò fuori la spada e provò due affondi nell’aria. Le sue mani lunghe e belle sfiorarono la lama e quasi l’accarezzavano.
-Dove ti sei procurata questa?
-Era in una caverna di Troll. Mi è stata donata da Gandalf.
-E’ una lama elfica di Gondolin. Da molto tempo non giungeva ai miei occhi. Il suo nome è Helcaraxe, il Ghiaccio che Morde. Cingeva il fianco di Idril, figlia di Turgon. Idril era la principessa di Gondolin, ma decise di unirsi a Tuor della Casa di Hador, un umano. Loro figlio fu Earendil, che il nostro popolo ricorda nella stella della sera.
-Cosa ne è stato dell’elfa, Idril?
-Ha lasciato ormai da molti secoli le valli ombrose per le Terre Immortali dell’Ovest. Fai tesoro della sua lama, non ve ne sono di eguali.
L’armaiola le rivolse uno sguardo glaciale e fosco con quegli occhi fondi e duri.
-E ti dico di più, figlia d’Uomo, avverto che in serbo per te è un destino non dissimile da quello di Idris di Gondolin. Il tuo futuro è nebuloso e avvolto dall’oscurità, ma vi brilla una luce.
-Vuoi dire che partirò per l’Ovest?
L’elfa non rispose.
-La spada può cambiare nome?
Elemmire ricevette uno sguardo fulminante:-E’ da molti considerato un gesto sacrilego.
-E’ che non la sento mia. La sua proprietaria la verrà a reclamare?
-Idril ci ha preceduti nella terra degli antenati, oltre il mare, dove il male è stato estirpato per sempre. Non le sarebbe di alcuna utilità in quelle isole beate.
-Posso quindi dire con sicurezza che è mia?
-Cosa se ne fa una figlia d’Uomo con una spada elfica?- l’armaiola non sentì nemmeno la risposta. Girò sui tacchi e si allontanò, rimettendosi nella posizione iniziale, seduta a terra. Elemmire al contrario si alzò, piccata dalla scortesia dell’elfa, e uscì.   
Vagò ancora per un poco e alla fine si decise a dirigersi verso le stanze dei nani. Non trovò nessuno e riprese a gironzolare. Il sole era ormai alto nel cielo e l’aria si era fatta calda anche nella valle. Sarebbe stato il momento ideale per un bagno, rifletté. Chissà se le fonti degli Elfi avevano un valore sacrale, o se ci si poteva bagnare in esse. Decise che l’avrebbe chiesto al primo Eldar che avrebbe incontrato.
Qualcuno non si era fatto di simili problemi.
Stava camminando all’ombra del palazzo di Elrond quando un rumore di risa la raggiunse. Non erano le delicate risate degli elfi. Erano risate corpose e roche, risate dei nani. Incuriosita affrettò il passo e girò l’angolo.
Fu un attimo, prima che si coprisse il viso con una mano, le guance in fiamme per l’imbarazzo e il disagio.
I tredici nani erano nudi come quando erano usciti dai ventri delle madri e si bagnavano in una fontana di pietra rossa a ridosso di una scarpata. In una frazione di secondo aveva fatto in tempo a vederli uno sulle spalle dell’altro mentre giocavano alla guerra delle torri.
-Ehi, c’è Elemmire! Elemmire!
La voce di Kili era talmente forte da sovrastare qualsiasi altro rumore. Elemmire si ritirò dietro il muro del palazzo e si lasciò cadere per terra, seduta. La visione inaspettata l’aveva scossa più della scorbutica armaiola.
-Elemmire- la voce di Kili la raggiunse ancora da dietro l’angolo. Stavolta la ragazza era preparata e girò il viso prima che il nano, nudo e bagnato, la raggiungesse.
-Dai, vieni a farti un bagno con noi.
-Vestiti, svergognato- sibilò infastidita.
-Ma sto facendo il bagno!
-Copriti almeno!- urlò Elemmire, avvertendo l’imbarazzo della situazione. Scommetteva che tutti i nani erano usciti dall’acqua per seguire la conversazione.
-D’accordo, d’accordo, aspetta un momento allora- e i piedi gocciolanti si allontanarono.
-Spudorato!- gli urlò dietro Elemmire, anche se in realtà le veniva da ridere.
Pochi minuti dopo Elemmire si ritrovò seduta sul bordo della grade vasca rossa, con i piedi a mollo e lo strascico della veste che ondeggiava nell’acqua. I nani avevano indossato le braghe, ma ancora un senso di pudore le impediva di guardarli se non con la coda dell’occhio. La conca non era molto profonda, poiché evidentemente non era adibita a vasca da bagno, ed Elemmire temeva da un momento all’altro una visita di Elrond. Stavano facendo il bagno nella sua fonte privata.
Uno schizzo la raggiunse in pieno viso. L’acqua era fresca e invitante mentre le gocciolava lungo il collo.
-Chi è stato?- alzò lo sguardo cercando di mostrarsi offesa, ma la vista di Kili e Fili che cercavano di nascondersi dietro Bombur le fece suo malgrado uscire un sorriso. Pensò che quei due nani si stavano prendendo un po’ troppe libertà. Rimase ad osservarli con la coda dell’occhio per qualche istante, poi si alzò di scatto e agguantò Kili, facendo leva sulla sua superiorità fisica e sull’effetto sorpresa. Caddero entrambi nell’acqua, mentre Elemmire cercava di spingere sotto la testa del nano, che si divincolava e scalciava. Ridendo come non le capitava da un po’ Elemmire subì graffi e pugni, restituendo ogni volta con gli interessi, e infine venne completamente spinta sotto il pelo dell’acqua. Solo allora Kili le liberò i polsi.
I capelli bagnati le cadevano pesanti sulla schiena, e la veste aderiva in modo provocante al suo corpo, ma Elemmire non pensò a nulla di questo. Si alzò e impacciata dal vestito fradicio abbracciò le gambe del nano che cadde in acqua come un sacco di patate.
Sguazzarono nella fonte per un bel po’, lottando e ridendo fino alle lacrime, poi alla spicciolata ogni nano abbandonò l’arena e tornò nelle proprie stanze per asciugarsi. Solo allora Elemmire si rese conto che Thorin non era presente. Non l’aveva visto per tutto il giorno e la sera precedente e iniziò a sentirsi preoccupata. Tornò nel suo piccolo appartamento e si lavò con sapone e olii profumati, senza aspettare le ancelle. Lesse fino a sera, fino a che le ombre non si fecero lunghe e grigie e le lanterne splendettero tra gli alberi. Solo allora le ancelle ricomparvero, vestite di bianco e con i capelli sciolti sulle spalle. In silenzio l’aiutarono a pettinarsi i lunghi capelli e a indossare una veste. Elemmire si rese subito conto che qualcosa era cambiato: non era una veste elfica. La sottoveste era di lino bianco, corposo e ruvido sulla pelle, con ampie maniche aperte e svolazzanti; poi sopra v’era una tunica di lana marrone senza maniche e un corpetto appena ricamato in filo d’oro. Ai piedi le fecero calzare stivali di cuoio alti fino al ginocchio.
-Cosa è successo?
-Non ci saranno banchetti per gli ospiti questa sera- rispose la prima elfa a voce bassa. Il primo pensiero di Elemmire andò al bagno nella fonte. Avevano forse offeso irrimediabilmente gli elfi? Sentì il senso di colpa salire nel suo stomaco e stringerglielo.
-E’ stata arrecata offesa?- chiese con la voce che tremava.
Le due elfe si guardarono:-Non lo sappiamo. Saruman il Bianco è qui a Gran Burrone. E Mithrandir dice che voi dovete passare inosservata.
 
Tanti nomi vennero pronunciati quella sera, tante imprecazioni lanciate e una serie di ordini impartiti. Alla fine Gandalf se ne andò con il viso tetro e portò con sé solo Bilbo. I nani ed Elemmire rimasero nel cortile a riflettere e a chiacchierare debolmente.
-Kili- Elemmire raggiunse il nano, interrompendo la sua conversazione con Dwalin –Non ho capito nulla di quello che è successo.
-Comprensibile. Vieni, sediamoci.
Kili le fece spazio su una specie di triclino ricoperto di velluto. Elemmire si sedette e Kili si sdraiò con la pipa in bocca.
-Il succo di tutto è che si parte prima dell’alba- mormorò guardandola negli occhi.
-E questo l’ho afferrato. Chi è Saruman?
-Saruman è il capo dell’Ordine degli Stregoni. E Gandalf pensa voglia impedirci di raggiungere Erebor.
-Perché dovrebbe? Quello che fate voi nani non lo riguarda.
Kili la guardò con orgoglio:-Ragioni proprio come una di noi ormai. E’ vero, ciò che noi scegliamo di fare non concerne Saruman, ma egli è un guardiano della Terra di Mezzo e teme che, se noi dovessimo fallire, Smaug tornerebbe a devastare il Nord. Ricordati che la bestia non si fa vedere da sessant’anni.
-Ma non ci sarebbe allora da sostenervi, in modo che non possiate fallire?
-Esatto, è quello che sta facendo Gandalf. Ma Saruman non è d’accordo. E anche Elrond è contrario alla nostra spedizione, com’era prevedibile.
-Per quale motivo? Elrond avrà ucciso migliaia di draghi ai suoi tempi.
-Non il drago che preoccupa gli Orecchie-a-punta. Elentarì mi ha detto…
-Chi è Elentarì?
Kili mimò il gesto di suonare un’arpa.
-Ah. Già, l’arpista. Vi siete visti spesso?
-Ragionevolmente spesso.
-Non è una tipa riservata.
-Un nano sa come far parlare un’elfa.
-Ci credo proprio che parlate tutte le volte che vi incontrate.
-Non ho detto questo infatti- Kili sorrise con aria furba –Le notti estive sono lunghe.
-E parlare stanca. So come finisce questa storia. Stanca talmente tanto che il richiamo del letto è irresistibile.
Kili rise ed emise un anello di fumo verso il soffitto.
-Mi stai chiedendo i particolari?
-Ma neanche per idea. Avanti, continua. Elentarì ha detto cosa?
-Che Elrond teme per Thorin.
-Si preoccupa per lui?
-Diciamo piuttosto di lui.
-Non capisco.
-Il bisnonno Thror perse la testa. La fame d’oro si portò via metà del suo senno, quella di gloria il rimanente e tutta la testa. Anche mio nonno Thrain impazzì. Di dolore, ma nessuno lo vide più dai tempi della battaglia di Azanulbizar, alle porte di Moria. Nessuno a parte Gandalf, che dice ricordasse a malapena il proprio nome.
-Elrond teme che anche Thorin possa impazzire, non è vero?
-Non conosce Thorin.
-Ma conosce la storia del vostro popolo. L’oro è un elemento strano anche tra noi umani. Chi lo possiede tutto d’un tratto esce di se stesso.
-Perché voi aspirate a possederlo. Noi nani possiamo capire l’oro. E’ come se la sua voce ci scorresse nelle vene. Non fraintendermi, sono d’accordo con te, ma le consuetudini umane non valgono tra i nani.
-Così dobbiamo andarcene.
-Sì, o Saruman ed Elrond ce lo impediranno.
-Gandalf non verrà con noi?
-E’ in Consiglio ora, e ci rimarrà fino all’alba. Per quel tempo noi dobbiamo essere già lontani. Ci raggiungerà in seguito, così ha detto.
-E Bilbo?
-E’ sotto la nostra protezione, ovviamente. Tu piuttosto, perché non rimani qui? E’ da Gandalf che dipendi, non da noi.
Elemmire non ci aveva pensato. Rimanere ad aspettare in quel luogo meraviglioso sarebbe stato l’adempimento di un sogno. Eppure, una parte di lei non voleva. Una parte di lei voleva rimettersi in cammino, affrontare le intemperie e usare la spada elfica a cui non aveva ancora dato un nome.
-Non voglio- mormorò, abbassando gli occhi sulle proprie mani –Tutte queste ballate di ori e montagne mi hanno fatto venire voglia di vederla, Erebor.
-Ma non hai bisogno di viaggiare con noi. Puoi venire con calma, con Gandalf.
-Io mi sento parte della compagnia, ormai. Cosa farei qui, con gli elfi tutt’intorno? Mi annoierei a morte e inizierebbero a crescermi le orecchie a punta.
In realtà un pensiero ben diverso aveva colpito Elemmire. Gandalf aveva raccomandato alle ancelle di farla passare inosservata. Era chiaro che non voleva che Saruman apprendesse di lei, del suo viaggio, perciò la cosa migliore che potesse fare era confondersi con la massa dei nani.
-Belle parole, Elemmire. Sei dei nostri ormai- Kili sorrise. La luce rosata della lanterna levigava ogni asperità dal suo volto giovane, appena coperto dalla corta barba. Le labbra erano sottili ma piene, e i lunghi e morbidi capelli cadevano sulla tunica scura. Sui suoi vestiti, notò Elemmire, era ricamato una specie di stemma, fatto con rombi sovrapposti tra loro. La tunica che indossava era di eccellente fattura, così come i guanti senza dita, di cuoio non conciato e resistente.
-Hai gli occhi verdi.
-Come?- Kili aggrottò le sopracciglia.
-Hai gli occhi verdi. Non me n’ero mai accorta. Credevo fossero scuri.
Kili la guardò in silenzio, continuando a fumare.
-Era tuo padre ad averli come i tuoi?
-Molti dicono che assomiglio a mio padre.
-Tu non l’hai conosciuto?
-No. Mio padre è morto.
Elemmire rimase pietrificata. Una specie di energia elettrica la scosse dalla testa ai piedi.
-Mi dispiace Kili. Posso immaginare…posso immaginare che tu non voglia parlarne.
-Non ti preoccupare, è un pensiero con cui ho imparato a convivere.
Elemmire sentì una fortissima ondata di comprensione per il nano. Cercava delle parole adatte nella sua testa ma non ne trovava. Avrebbe voluto riempire quel silenzio con due anni della stessa solitudine, della stessa sensazione di essere persa, prima ancora di aver perduto. Tuttavia, non era certa che Kili potesse capire. La sua perdita era avvenuta quando lui era molto piccolo. Soffocò il pianto e riprese il controllo dei suoi nervi.
-Si amavano molto, vero?
-Chi?
-I tuoi genitori.
 -Si sono amati teneramente per molto tempo, a modo loro. Mia madre è la sorella di Thorin. Fatti con lo stampino, puoi immaginare, ma è rimasta devastata dalla morte del marito.
-Non ha poi cercato di ricostruirsi una vita? Insomma, avere davanti a sé ancora cento anni di vita e sapere di doverli passare da sola…deve essere soffocante.
 -Quando un nano ama, è per sempre. Mia madre non accetterà mai qualcun altro, anche se le si dovesse presentare l’occasione.
-Deve sentirsi terribilmente sola ora che ve ne siete andati.
E non solo, pensò poi Elemmire. Doveva sentirsi anche straordinariamente spaventata. Aveva perso il padre, il marito e ora rischiava di rimanere sola per l’eternità se anche i figli e il fratello avessero fallito la riconquista di Erebor.
-Ti dispiace se cambiamo argomento?- disse Kili, distogliendo lo sguardo.
-Oh, certo. Non volevo sembrare invadente, scusami.
-No, figurati, ti ho dato io il permesso di farmi domande.
Elemmire non sapeva cosa dire. Voleva continuare a parlare con Kili: era come se il nano la rassicurasse.
-Parlami di Elentarì allora- lo provocò Elemmire, cambiando anche tono –Mi era parso di sentire che disdegnavi le elfe.
-Una buona occasione non si rifiuta mai- Kili ridacchiò e in fretta tornò serio –A parte gli scherzi, puoi credermi, non ho fatto nulla di male. Ogni volta che provavo a prenderle la mano mi veniva in mente la faccia che avrebbe fatto Thorin nel vedermi. Mi sentivo spiato, non sono riuscito nemmeno a sfiorarla, figurati portarla a letto.
-Quindi avete davvero chiacchierato tutte queste sere?
-Nel modo più innocente possibile.
-Thorin sarebbe davvero fiero di te.
-Lo spero, o sarei condannato a vivere da ramingo perché mi diserediterebbe.
Entrambi ridacchiarono, Kili aspirando la pipa ed Elemmire con le ginocchia chiuse contro il petto.
Rimasero in silenzio per un po’.
-E tu?
-Io cosa?
-Tu assomigli a tuo padre?
Una coltellata al cuore, ormai familiare; Elemmire ne avvertì il gelo.
-Molti dicono che assomiglio a mia madre.
-E’ una donna di Rohan?
-Sì- rispose Elemmire semplicemente.
-Come si sono conosciuti?
-Papà era in viaggio per lavoro. Lui è un mercante. L’ha incontrata in una locanda. Se n’è innamorato al primo sguardo. Si sono sposati non molto tempo dopo, perché mamma era incinta di me.
-Ops. Imbarazzante per un’Umana.
-In realtà, credo che non fosse la scelta giusta per entrambi. Mamma si è sempre sentita soffocata dalla vita casalinga e papà…papà non l’ha mai davvero capita.
-Ti hanno cresciuta insieme?
Elemmire sentì un groppo in gola.
-No. Non sono stati molto presenti. All’inizio mi ha cresciuta la madre di mio padre, poi…
La voce le si bloccò in gola. Ingoiò e ritentò.
-…poi sono passata nelle mani di una prozia, la zia di papà.
-Posso capirti, Elemmire. Io e Fili abbiamo vissuto pochissimo con i nostri genitori. Papà è morto che avevo forse dodici anni. E a trenta mamma ci ha affidati a zio Thorin. Ci ha cresciuti lui. Ci ha dato un’istruzione e ha vigilato su di noi come il nostro vero padre non ha mai fatto.
Elemmire guardò Kili. Gli occhi del nano erano limpidi e la guardavano con sincerità. La sua mano volò verso quella di Elemmire e la prese in un gesto di vicinanza. Elemmire non dovette lottare a lungo contro l’impulso di ritirarsi. Forse si sbagliava, dopotutto. Forse Kili avrebbe davvero potuto comprenderla. Le stava offrendo un conforto non dettato da pena, ma da comunanza. Era come se le stesse urlando, tu non sei sola.
Rimasero così per un breve istante, poi Kili si alzò e la lasciò sola a fissare il buio oltre la lanterna, oltre i suoi occhi.
Partirono che il cielo era ancora fondo di stelle. In silenzio, Thorin li guidò fuori dalla valle e su per un passo montano opposto a quello da dove erano usciti. Bilbo camminava davanti a lei e aveva l’aria profondamente afflitta.
-E’ dura lasciare gli elfi, vero?- disse mettendogli una mano sulla piccola spalla.
-Chissà se avrò mai modo di rivederli.
Dietro quelle parole Elemmire lesse la paura di non tornare indietro da quel viaggio.
-Andrà tutto bene, Bilbo. Abbi speranza.
Le ancelle le avevano preparato un bagaglio leggero da poter portare in spalla con un mantello candido e una veste di oro e argento. Non avrebbero cavalcato, solo marciato, perciò gonna o pantalone non faceva differenza, e così si sentiva molto più a suo agio in mezzo ai nani. Capiva quanto strana doveva essere sembrata all’inizio del viaggio. Salirono sul fianco della montagna e raggiunsero la cima del passo quando l’alba stava sorgendo. La luce dorata illuminò un’ultima volta Gran Burrone ed Elemmire sentì più acuto il richiamo della valle elfica, dei suoi giardini e delle sue fontane, delle candide vesti degli Eldar e dei loro silenzi. L’incantesimo finì in fretta. Girò le spalle al mondo incantato e si dispose a camminare tutto il giorno. Il ritmo che tenevano i nani era veloce ed Elemmire doveva camminare ad ampie falcate per star loro dietro, sollevando l’orlo della gonna per muoversi più agevolmente. Un senso di pudore le impediva di infilarne un lembo nella cintura intarsiata d’oro che portava ai fianchi e a cui era legato il fodero della spada. La marcia si svolse in silenzio fino a mezzogiorno, poi le nuvole oscurarono il cielo e iniziò a pioviccicare. Per la fine del giorno la pioggerellina si era trasformata in un diluvio. Il mantello bianco degli elfi era completamente fradicio e ciocche di capelli cadevano sul viso di Elemmire impedendole di vedere con chiarezza attraverso le cortine di pioggia. I problemi iniziarono quando la strada che solcava il fianco della montagna si assottigliò e poi non divenne più che un cornicione sospeso nel vuoto. E come se non fosse stato abbastanza, iniziò a tuonare. La roccia era scossa e la montagna sembrava agitarsi nel sonno come un gigante addormentato. Più volte Bilbo rischiò di cadere nel burrone e i nani lo riacciuffarono appena in tempo. L’ultima volta Thorin stesso mise a repentaglio la sua vita per salvare quella di Bilbo. Elemmire trattenne il respiro finché il nano non venne issato di nuovo sulla roccia da Dwalin.
-Sembra che il signor Baggins non faccia nient’altro che mettere a repentaglio le nostre stesse vite- urlò con ira per farsi sentire attraverso la tempesta –Perché mai è venuto con noi? Avrebbe dovuto restarsene a casa sua!
Elemmire guardò Bilbo, il cui viso era solcato dalla pioggia. O erano forse lacrime?
Dopo pochi metri divenne impossibile proseguire.
-Dobbiamo cercare riparo- urlò Thorin –Kili, Fili, andate avanti voi con Ori e cercate un posto dove aspettare che questo inferno finisca.
-L’inferno è appena iniziato- la voce di Balin era resa tremolante dalla paura. Ed Elemmire seguendo il suo sguardo capì in fretta perché. Qualcosa colpì la montagna con la forza di una bomba, solo che di bomba non poteva trattarsi. Fili le passò un braccio attorno le spalle e la schiacciò contro il muro.
-Reggetevi!- urlò Kili, facendo presa sul braccio del fratello. Una gragnola di massi e pietre passò loro a un soffio.
-Cos’è stato mastro Balin?- chiese Elemmire mentre il tuono risuonava ancora nelle profondità della terra.
-Che il cielo mi fulmini! Le leggende sono vere! Giganti di pietra!
Elemmire lo vide. Sembrava roccia, ma non lo era, a meno che non fosse proprio di una roccia avere due braccia e due gambe. Elemmire provò cosa fosse la vera paura nello stare immobile su un cornicione di roccia, senza possibilità di scappare, mentre un gigante di pietra lanciava micidiali proiettili delle dimensioni di un aeroplano. La colonna di nani, guidata da Thorin, cercò di proseguire, evitando le cascate di roccia che ogni masso produceva collidendo sul monte. Kili la tenne vicina a sé, avendo cura che non cadesse nel vuoto quando la terra tremava. Ad un certo punto una crepa fece fermare di scatto Bofur, che aprì le braccia per impedire a loro tutti di caderci dentro. La crepa crebbe velocemente fino a diventare un vero e proprio crepaccio.
-Fili!- Kili tese invano la mano, il viso dipinto di terrore.
-Reggiti! Reggetevi tutti!- urlò Bofur aggrappandosi alla roccia. Elemmire fece lo stesso e girò le testa verso il muro di pietra per impedirsi di guardare in basso. Sentì che la terra sotto i suoi piedi si spostava.
-Per la corona di Durin- l’imprecazione di Kili le disse che le cose non erano in via di miglioramento. Si girò lentamente. Si stavano muovendo. E uno sguardo alla sponda su cui erano rimasti Thorin, Fili e metà della compagnia le diede la risposta che cercava. Un altro gigante di pietra si era risvegliato. E loro erano esattamente sulle sue gambe. Perse il controllo dei nervi quando i due giganti si scontrarono e iniziarono a spingersi con la violenza di due treni in collisione. Elemmire urlò, e assieme a lei urlò Kili, urlò Bofur e ogni singolo nano della compagnia. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola perché era terrorizzata. Stava per morire. Sarebbe morta presto. Urlò con gli occhi chiusi e le lacrime che le rigavano il viso assieme alla pioggia. Urlò e tuttavia si tenne stretta alla roccia una volta, due, tre, ad ogni pugno, ad ogni spinta. Ad un certo punto sembrò che il gigante chiudesse le gambe e si appoggiasse alla montagna da cui era venuto. I nani che erano sull’altra sponda i riversarono sul solido suolo montano.
-Elemmire, appena ci avviciniamo, salta.
-Saltare?
-Salta sulla roccia e aggrappati forte. Non guardare in basso, va bene?
-E voi?
-Non preoccuparti per noi. Tu salta. Raggiungi Thorin e Fili. Ti seguiremo appena possiamo, ma tu salta.
Elemmire guardò il viso determinato del nano e poi il fianco del monte. Sentiva che non ce l’avrebbe mai fatta. Le gambe non l’avrebbero retta.
-Vai, ora!
Invece i suoi muscoli agirono d’istinto. Elemmire saltò, e non guardò in basso. La roccia le venne incontro velocemente e nell’ aggrapparsi sentì il sangue scorrerle tra le dita maciullate. Fili la prese per un braccio e la tenne stretta. Elemmire ebbe appena il tempo per girarsi e vedere che la lotta era ripresa tra le due creature. Non riusciva a vedere Kili, nonostante scrutasse con attenzione ogni branca di roccia. I tuoni e i ruggiti dei giganti squassarono l’aria. Alla fine una delle due creature vinse l’altra e quella che ospitava i nani iniziò a precipitare nel vuoto. Elemmire ebbe una fugace visione di Kili con i capelli bagnati schiacciati sulla fronte prima che il gigante si schiantasse sulla montagna.
Thorin emise un urlo disumano. Il suo viso si distorse per il dolore mentre quello di Fili diventava all’improvviso bianco come cera.
-Kili!- gridarono insieme. Incuranti delle rocce e della pioggia iniziarono a scendere lungo la montagna, urlando frasi che il vento e la disperazione rendevano incomprensibili. Elemmire si sentì all’improvviso vuota mentre li seguiva. Non poteva concepire il pensiero di Kili morto, era semplicemente irreale. Si rese conto che il nano aveva previsto ogni cosa, e le aveva dato appena in tempo la possibilità di mettersi in salvo. Dal fondo della gola Thorin e Fili iniziarono a parlarsi sopra e a pronunciare frasi sconnesse.
-I ragazzi sono vivi- disse Gloin, che era scattato in avanti –Ammaccati, ma ancora tutti d’un pezzo.
Il sollievo fu così caldo nel petto di Elemmire che le pizzicò sulle dita intirizzite e sanguinanti. Corse e saltò sulle rocce fino a raggiungere il fondo, e vide Fili e Thorin stretti in un abbraccio attorno a Kili. Sembravano non vedere nient’altro.
-C’è una caverna- Dwalin aveva un sopracciglio spaccato ma sembrò non farci caso –Cerchiamo riparo qui.
La compagnia accese delle torce e prese possesso della spelonca. Elemmire aiutò Bilbo ad alzarsi, sorpresa che un esserino così piccolo potesse essere scampato ad un simile crollo. Bilbo quasi la scansò e in silenzio entro nella caverna. Elemmire capì che non aveva dimenticato le parole di Thorin.
-Non accendete fuochi, e cercate di passare inosservati. Di rado queste grotte sono disabitate- Thorin era bagnato dalla testa ai piedi. I folti capelli neri ricadevano in riccioli sulle spalle.
-Orsi?- chiese Elemmire guardandosi attorno.
-Vorrei fossero la cosa peggiore- fu la lapidaria risposta –Cercate di dormire. Bofur, a te il primo turno. Partiamo all’alba.
La grotta era abbastanza spaziosa per ospitare comodamente i giacigli di tredici nani, un hobbit e un’Umana. Elemmire si sdraiò vicino a Kili e Fili. I due fratelli parlavano tra loro e ogni tanto avvicinavano le fronti e si davano un leggero colpo con la testa. Avevano preso tanta di quella pioggia che Elemmire sentiva i piedi affondare negli stivali ad ogni passo; decise allora di sfilarli e di lasciarli asciugare. Si distese poi e fissò il soffitto buio. L’unica torcia rimasta accesa era nelle mani di Bofur, che faceva la guardia all’ingresso. Elemmire pensò con rammarico al letto asciutto di Gran Burrone, che di certo non puzzava di muffa, e al tepore dei pasti di Elrond. Si girò sulla coperta per lunghi minuti mentre ogni nano attorno a lei prendeva sonno e iniziava a russare. Alla sua sinistra, Fili e Kili si erano addormentati abbracciati. Il temporale fuori continuava e la cullava dolcemente.
-Sei sveglia?
Un sussurro leggero venne dall’indistinta oscurità che la circondava.
-Sei tu, Kili?
-Sì. Anche tu non riesci a dormire?
-Sono così stanca che mi è passato il sonno.
-Io continuo a pensare ai giganti di roccia.
-Devi esserti preso un bello spavento.
-Altroché- Elemmire sentì Kili girarsi verso di lei e ne intravide gli occhi –Ho pensato che stavo per morire.
-L’ho pensato anch’io ad un certo punto.
-Lo so. Hai urlato di terrore per tutto il tempo.
-Lo hai fatto anche tu, cosa credi.
-Non è vero!
-Sì che lo è. Il grande Kili, nipote di Thorin Scudodiquercia, ha gridato a squarciagola davanti al pensiero di morire.
-Non era la morte che mi spaventava.
-E cosa allora? Cosa poteva esserci di peggio?
-Vivere senza Fili, o senza Thorin. Se ho gridato, ed è ancora da valutare, l’ho fatto per paura, ma non per me stesso.
Le parole furono pronunciate in un caldo sussurro ed Elemmire si sentì come quando aveva letto di Katniss e Prim. Sembrava che il suo destino fosse l’alienazione da ogni tipo di profondo sentimento umano.
-Come ci si sente ad avere un fratello?
-Tu non ne hai?
-No, sono figlia unica.
-Ci si sente…bhe, completi. Hai una persona su cui fare affidamento sempre, che non ti volterà mai le spalle di proposito.
-E’ mai successo che vi siate trovati in disaccordo?
-Succede tutti i giorni- Kili rise sottovoce con un suono basso e gutturale.
-Siete molto diversi, tu e Fili?
-Sotto molti aspetti, sì. Lui è un conversatore nato, sa sempre cosa dire e cosa fare per ottenere l’effetto che vuole nelle persone, mentre io preferisco passare subito ai fatti, senza cercare così tanto il compromesso. Lui è intuitivo, cosa che non guasta mai, e dice che lo sarei anch’io se ogni tanto ascoltassi il mondo che è fuori di me invece che focalizzarmi solo sulla mia opinione. Thorin dice sempre che non potrebbe desiderare persona migliore a cui lasciare il suo regno, nel caso venisse a mancare. Dice che Fili sa comprendere le persone.
-E tu cosa dici?
Kili ridacchiò:-Che è un guastafeste, ma un di gran classe. Non lo sopporto quando fa il fratello maggiore, quello tutto responsabilità e doveri, ma molto spesso è mio complice. Anche se in un modo o nell’altro avrà sempre ragione lui, altra cosa che odio.
-Vi siete mai azzuffati per una ragazza?
-E’ successo anche questo, ma non con una ragazza in carne ed ossa. Entrambi volevamo la spada di nostro nonno Thrain. Ce la siamo litigata per anni finché Thorin non è intervenuto e l’ha donata a Fili, che si è costruito un fodero doppio per poterla avere a portata di mano assieme alla propria, Sguardo Tagliente.
-Che strano nome per una spada.
-E’ che nel pomolo ha uno zaffiro dell’esatto colore degli occhi di Fili. L’ha fatta commissionare apposta.
-Che nome ha la tua, di spada?
-L’Ombra.
-Ha un significato particolare?
-Sì. Quando zio Thorin ci addestrò alle armi diceva sempre che nemmeno un elfo avrebbe potuto starmi dietro, e che mi muovevo furtivamente come un animale notturno. Allora ho pensato che Ombra fosse il nome più adatto da dare alla spada. E’ un ricordo d’infanzia.
In effetti, Elemmire rifletté che Kili era davvero velocissimo nel combattimento. Se lo immaginava giovane nano con il volto liscio e i capelli raccolti in una coda che imitava le movenze di un orgoglioso e premuroso Thorin.4
-Com’è avere Thorin come tutore?
-E’…- Kili sembrò soppesare le parole –E’ dura. Lui è sempre il migliore, qualunque cosa faccia, e tu devi stargli dietro. Ma ha un cuore grande. Ci ha cresciuti come figli suoi e a modo suo ci ha dato molto amore, anche se condito con poco affetto e ancor meno dolcezza.
-Lo ammiro moltissimo- Elemmire abbassò la voce, quasi per paura che Thorin la sentisse veramente –Tutto quello che ha passato, e come ne è uscito fuori…è così forte.
-Non dirlo ad alta voce. Si rischia sempre di ferire il suo orgoglio quando si parla del suo passato. Nessuno di noi vuole la compassione della Gente Alta, ecco perché siamo ostili agli Elfi e non nutriamo troppa simpatia per gli Umani.
-Eppure, che ironia, viaggiate con uno stregone e un’Umana.
-E non solo ci viaggiamo insieme, ma permettiamo loro di conoscere i segreti della nostra razza.
Dietro il velo di umorismo Elemmire lesse la paura di Kili.
-Vi rimarrò fedele. Non vi tradirò.
-Lo so. Ci fidiamo di te.
Dopo di questo, Kili si rigirò:-Buonanotte Elemmire.
-Buonanotte Kili.
E il sonno la prese tra le sue braccia.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Alto e basso ***


Prima di tutto la terra tremò come se dei giganteschi tamburi vi battessero sotto. Elemmire, profondamente addormentata, si svegliò col cuore in gola e spalancò gli occhi. Vide Kili muoversi, allentando l’abbraccio attorno a Fili, e girare la testa. Poi Thorin gridò:-Svegliatevi! Svegliatevi tutti!
Elemmire si mise gli stivali con una mano, prese la spada con l’altra e fece per alzarsi, ma il terreno le mancò sotto i piedi. La roccia su cui riposavano si aprì e precipitarono in un abisso.
Elemmire sentì l’aria fredda e puzzolente di muffa investirle il viso con violenza mentre scendeva in caduta libera verso il centro della terra. Urlò e cercò disperatamente di aggrapparsi da qualche parte. Atterrò violentemente su Balin e non sul fondo, ma in una gabbia fatta con le costole di qualche animale gigantesco che si trovava all’estremità di uno sperone roccioso. I suoi sensi si svegliarono all’improvviso: erano finiti in una trappola.
-Messer Balin… Balin, cosa succede?
Il vecchio nano la guardò con occhi pieni di terrore e indicò la sua spada. Elemmire si accorse che la lama rifulgeva di blu. Ma cosa significava?
Lo capì in pochi istanti. Un sottile ponticello di corda e sghembe assi di legno collegava i due estremi rocciosi tra loro, e nel giro di qualche secondo si riempì di una brulicante e grugnente massa di esseri. Erano alti quanto un nano, ma deformi, con braccia e gambe rachitiche e grosse teste bitorzolute. Le bocche erano ghigni sdentati e sbavanti, gli occhi rossi e malvagi, i nasi rincagniti o storti. Alcuni erano pieni di cicatrici malamente ricucite.
-Goblins!- Nori, il nano con la barba legata in tre trecce, si alzò in piedi e fu il primo a respingere gli esseri brulicanti. Elemmire impugnò la spada e vide gli altri nani fare lo stesso; ma avevano sottovalutato i loro nemici. Le braccia ossute e magre erano straordinariamente forti, e in pochi attimi la compagnia fu circondata e disarmata. Poi i goblins iniziarono a trascinarli via.
-Elemmire, corri, corri!- Fili si girò verso di lei e le lanciò uno sguardo disperato mentre seguiva Kili. Elemmire provò a fare due passi, ma i goblins le furono addosso con le loro mani umidicce e implacabili come l’acciaio. Elemmire, nonostante fosse alta il doppio di loro, si vide legata mani e piedi e un po’ trascinandosi, un po’ saltellando grottescamente, attraversò il pontile e si inoltrò nei tunnel scavati sotto il monte.
Ai suoi occhi increduli e spaventati si presentò uno spettacolo squallido: centinaia di baracche fatiscenti di legno e paglia si arrampicavano tra le rocce, collegate tra loro per mezzo di ponti traballanti e funi rinforzate. Migliaia di goblin zampettavano ovunque ghignando con le voci stridule e digrignando i denti gialli. La compagnia venne così macabramente scortata fino a una piattaforma di legno illuminata da vivide torce arancioni. Tre teschi umani erano impalati su altrettanti acuminati bastoni e al centro di tutto sedeva la creatura più rivoltante che Elemmire avesse mai visto. Un ventre grasso e bianco, due gambe tozze e storte che non ne reggevano il peso, un busto più largo che lungo crivellato di piaghe sanguinolente e vescicole, ma soprattutto quello che avrebbe dovuto essere il viso ma che non assomigliava più a nulla di umano. Il cranio era calvo e rugoso, le orecchie a punta piene di peli lunghi quanto la mano di Elemmire; due occhi infossati brillavano maligni e stralunati, mentre il naso non era che una fessura. Il collo era nascosto da secoli di sporco e da pustole infette che si facevano strada lungo tutto il torace. La bocca conservava un accenno di labbra ed era leggermente schiusa su una fila di acuminati denti scheggiati. La creatura portava in testa una corona di piccoli teschi e in mano uno scettro fatto con un osso malamente intagliato.
Attorno a loro i goblins avevano incominciato a suonare una melodia stridula e cantavano in un tremolante coro:
Afferra e spezza! Voragine nera!
Acciuffa, sbatti! Poi spazza a bufera!
E giù degli orchi nel tetro palazzo
Tu finirai, ragazzo!
Cozza, sfonda, fracassa, batti, pesta!
Martelli e mazze! Sonagliere a festa!
Picchia, colpisci, giù giù sotto il suolo!
Elemmire e i nani vennero brutalmente portati al cospetto dell’enorme goblin.
-Prigionieri, vostra malevolenza. Spie! Spie dei nani!
Quello che, a tal punto, doveva essere il re caracollò in avanti ed Elemmire si rese conto che era perfino più alto di lei di tutta la testa. Sovrastava chiunque.
-Sono armati?- chiese con voce profonda e gracchiante.
Per tutta risposta i goblins fecero cadere a terra le loro armi. Spade elfiche, asce e l’arco di Kili si schiantarono sulla roccia. Saltellando Elemmire riuscì a portarsi vicina ai due fratelli che rimanevano quieti e immobili, con i muscoli tesi e pronti a scattare. Kili guardava con odio e disprezzo il goblin.
-Questo rende tutto divertente. Solo i nemici si presentano armati in terra d’altri. Chi siete?
Nessuno rispose. Dopo lunghi secondi di silenzio, Fili disse:-Siamo nani.
-Mentono, vostra malvagità. Non sono solo nani. C’è una figlia d’Uomo con loro.
Elemmire sentì lo sguardo del goblin posarsi su di lei. Alzò la testa e lo sostenne fieramente, lottando per rimanere impassibile e non far trapelare il ribrezzo che prova.
-Figlia d’Uomo? Bha, assomiglia di più ad un’elfa. Perché un’Umana viaggia in compagnia di nani, eh? Che aspettate a frugarli, rimbambiti? La mezz’elfa in particolare.
I goblins iniziarono a infilare le mani nelle giacche, nelle tuniche e sotto la veste di Elemmire, il cui primo impulso fu di ritirarsi. Poi vide che Kili era vittima dello stesso rastrellamento e docilmente allargava le braccia e lasciava che lo frugassero.
-Non opporre resistenza, Elemmire. Non dargli un pretesto per farti del male.
Elemmire chiuse gli occhi e sperò che finissero in fretta. Sentiva il tocco gelido e unticcio delle mani dei goblins ovunque e le stava salendo un forte senso di nausea.
-Grinnah, mostrami le loro armi- ordinò il re, allungando la mano verso un goblin particolarmente orripilante. Grinnah prese l’ascia di Dwalin e Sguardo Tagliente, la spada di Fili, e li mise nelle mani del sovrano. Questo le degnò appena di uno sguardo, poi le buttò di nuovo a terra con clangore.
-Vacci piano con quelle, sono appena affilate!- protestò Fili mentre i goblin frugavano nel mantello di pelliccia.
Le seconde ad essere poste in esame furono la spada di Balin e la lama di Idril che era passata nelle mani di Elemmire. La prima finì ancora nel mucchio, ma alla vista della seconda il re dei goblin fece un salto all’indietro e la lasciò cadere come se fosse stata un serpente velenoso. Helcaraxe rimbalzò due volte a terra, fulgida e perfetta in mezzo alla lordura. La sua lama scintillava di un blu magnetico e intenso.
-Conosco questa spada! Il Ghiaccio che Morde! Sciagura a chi la cinge!
-Sciagura- fecero eco i goblins, ritirando finalmente le mani dagli abiti dei prigionieri.
-Sono in combutta con gli elfi, malvagità reale- la voce di Grinnah era uno stridulo suono denso di paura.
-Chi siete?- tuonò ancora il re. I nani non risposero ed Elemmire chinò la testa.
-So io come far parlare le spie. Tutti parlano quando il ferro gli corrode la carne. Chiamate il torturatore reale e la sua frusta- gli occhi rossi e pieni di odio si socchiusero e si posarono su Elemmire –Iniziate dalla figlia degli Uomini.
Elemmire indietreggiò per quanto le era possibile e si divincolò cercando di liberarsi dalle corde, ma ottenne solo di conficcarsele ancora più a fondo nella morbida carne dei polsi e della caviglie. Iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di una via di fuga, ma i goblins erano ovunque e la circondavano. La presero nonostante lei si impuntasse come un mulo recalcitrante e iniziarono a slegarle le cinghie del corpetto sulla schiena, mentre Grinnah, recuperato il controllo dei nervi, la legava ad uno dei pali che circondavano il trono. Elemmire credette di capire a chi appartenessero quei teschi così macabramente esposti. Chissà se anche la sua testa avrebbe fatto la stessa figura, una volta che lei fosse morta dissanguata.
Il solo pensiero la fece ribollire. Scalciò, tirò le corde fino a farsi sanguinare le braccia e quando sentì i goblins toccarle la pelle nuda della schiena si girò di scatto e sputò loro in faccia. Grinnah la raggiunse e lucidamente la schiaffeggiò. La mano ossuta del goblin la colpì con violenza e le lunghe unghie affilate le lasciarono solchi sanguinanti sulla guancia.
All’improvviso un pugno poderoso colpì Grinnah in mezzo agli occhi. Il goblin cade disteso e due mani ferme ma delicate slegarono Elemmire dal palo. Kili aveva scie di sangue attorno ai polsi dove aveva strofinato le corde  quasi fino all’osso per spezzarle. L’aiuto a rialzarsi e le slegò le mani. Elemmire sentiva che le gambe l’avrebbero presto abbandonata per il sollievo.
-Sembra che abbiamo un volontario- il re dei goblin rise e il ventre grasso ballonzolò orribilmente –Che tu sia accontentato. Legatelo al palo vuoto, la sua testa farà un gran figurone lì sopra.
-NO!
Thorin si fece largo a spallate e si frappose tra i goblins e Kili.
-Che interessante colpo di scena. Io so chi sei. Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror, Re sotto la Montagna.
Il re dei goblin si inchinò davanti a Thorin sghignazzando ed Elemmire vide l’umiliazione ferire profondamente il nano.
-Oh, perdonami, dimentico sempre che non hai una Montagna. E che non sei un Re. Per cui sei nessuno, per quel che mi riguarda.
Il coro di goblins si esibì in lunghe risate di scherno.
Thorin aveva il viso deformato da una smorfia di rancore e tristezza. Elemmire lo vide abbassare le spalle:-Volevi sapere chi fossimo, ora che hai la tua risposta risparmia mio nipote.
-Lo risparmio volentieri. Per quanto piacevole non ho bisogno della sua testa, ma della tua. Oh, conosco una persona che pagherebbe un bel po’ per la tua testa. Magari lo conosci. Tu gli hai ucciso il padre, così lui ha giurato di annientare la razza di Durin fino all’ultimo discendente.
Sul viso di Thorin dilagò la paura. –L’Orco Pallido…- sussurrò mentre gocce di sudore prendevano a brillargli sulla fronte.
-No, Azog è morto. Gli hai piantato tu stesso un’ascia nel petto. Suo figlio Bolg però è altrettanto grande e pallido. E, concedimelo, ha qualcosa che al padre mancava. La vendetta può essere una molla molto efficace.
Thorin si fece piccolo e sembrò soccombere sotto il peso del passato. Non oppose resistenza ai goblin che lo presero e non si mosse nemmeno quando Grinnah gli appoggiò la lama della spada sul collo, pronto a troncarlo di netto. Elemmire e Kili si guardarono, impotenti. I goblins tenevano strettamente legati tutti i nani, compreso Kili che nonostante tirasse le corde con la forza di tutto il suo corpo non riuscì a raggiungere Thorin.
-No!NO!- il suo grido disperato spezzò il cuore di Elemmire. Kili digrignava i denti e gonfiava i muscoli del petto.
-Solo la testa. Niente di personale. Spero non mi porterai rancore per questo.
Il re dei goblins rise ancora e mosse una mano. Thorin chiuse gli occhi.
E il mondo si fermò. Una luce intensa come nemmeno quella del sole è stata all’inizio del mondo esplose dal centro della città sotterranea. Elemmire si sentì violentemente spinta all’indietro e raggi caldi le accarezzarono il viso dove Grinnah l’aveva ferita. Le sembrò che un ruggito come di fuoco le risuonasse nelle orecchie mentre cadeva. Poi la luce si spense e cadde l’oscurità, appena illuminata da due fiaccole, le uniche rimaste accese sulla piattaforma del re. Elemmire alzò lo sguardo. Una figura alta con un cappello a punta reggeva in una mano un bastone e nell’altro una spada.
-Sciocchi, cosa aspettate? Prendete le armi.
Il sollievo di sentire la voce di Gandalf fu così grande che Elemmire avrebbe urlato di gioia. Afferrò Helcaraxe e si liberò delle corde che ancora la legavano, aiutando a sua volta Kili e Fili. Presto l’Ombra e Sguardo Tagliente tornarono nelle mani dei loro legittimi proprietari.
-E ora, ritengo assai saggio scappare.
Gandalf diede l’esempio e iniziò a correre lungo un traballante pontile. I nani lo seguirono. Elemmire si fermò solo un attimo e si guardò attorno. Dov’era Bilbo?
Ma i goblins si stavano riprendendo dalla sorpresa e alcuni già correvano verso di lei. Infilò l’orlo della gonna nella cintura e corse.
Presto frotte di esseri si riversarono da ogni lato. Saltavano sul pontile sospeso e sguainavano le spade. E per la prima volta Elemmire assaggiò il sangue del nemico. Sbilanciava i goblins con forti colpi e ne approfittava per correre avanti, forte della sua superiorità fisica, ma dopo poco tempo capì che essere pietosa non le portava grandi risultati e iniziò a infilzare. La spada si apriva la strada nelle carni e tra le ossa, ed Elemmire era talmente piena di adrenalina che sentiva ogni senso amplificato. Le bastava guardare con la coda dell’occhio, o ascoltare i suoni dei piedi per terra. Si sentì viva mentre mulinava la lama e faceva strage attorno a sé. Ovunque passasse vedeva le tracce del lavoro di Thorin: teste mozzate, ventri squartati. Il nano aveva ripreso vigore e combatteva come un leone. Elemmire capì di non aver visto nulla con i Troll, la settimana prima. Ogni nano vendeva molto cara la pelle, e perfino il vecchio Balin faceva il vuoto attorno a sé. 
Elemmire correva su rocce e legno. Saltava, piroettava, e ogni insegnamento di Fili e Kili era tremendamente chiaro nella sua mente. Il corpo agiva da solo senza bisogno di indicazioni. Ancora una volta Elemmire lasciò che l’istinto primordiale la guidasse. L’istinto del predatore, non più della preda. Davanti a lei Thorin infilzava tre nemici con un colpo solo e ad ogni movimento il suo lungo mantello scuro volteggiava come una bandiera. Kili usò la spada per deviare alcune frecce e con un movimento lineare mozzò tre braccia e una testa. Ad un certo punto qualcuno recise le corde che tenevano sospeso il ponte dove si trovavano e l’intera compagnia cadde nel vuoto.
Elemmire si aggrappò ad una trave di legno e pregò che tutto finisse in fretta. Il suolo, quello vero, venne loro incontro ed Elemmire si concentrò. Infine con un preoccupante scricchiolio il pontile si schiantò sulle rocce e trascinò con sé i nani. Elemmire rotolò di lato un momento prima dell’impatto e ammortizzò la caduta sulle mani. Si sbucciò i gomiti, lacerò le maniche della veste ma in qualche attimo era già in piedi con la spada in mano, respirando affannosamente.
Kili era rimasto imprigionato sotto le travi. Elemmire lo raggiunse e iniziò a lavorare per liberarlo.
-Elemmire… Elemmire, dietro di te.
Elemmire si girò. Il suo cuore mancò parecchi battiti. Le pareti di roccia erano diventate bianche per la massa di goblins che vi si riversava sopra. Migliaia e migliaia di bocche ghignanti e grugni sfregiati. –Sono troppi Gandalf- Elemmire si sentì all’improvviso mancare il fiato. Lo stregone fece alzare ogni nano, liberò Kili e Dwalin dai detriti e ordinò loro di correre. Tutti insieme si diressero a rotta di collo verso il tunnel più vicino, così stretto da far a malapena passare Bombur, e questa volta la roccia graffiò le braccia di Elemmire in profondità. Ignorando il dolore, lei si trascinò avanti nel buio. Una debole luce filtrava da qualche parte in fondo e si faceva sempre più intensa e reale; ma reali erano anche le urla dei goblins dietro di loro. Uscirono alla luce del sole appena in tempo: un coro di stridii di agonia si levò alle loro spalle quando l’avanguardia del nemico si avventurò fuori dalla montagna. Gandalf sorrise ed esultò, ma Elemmire era così stanca e dolorante che non riuscì a gioire. Inciampò e rotolò fino alla valletta sottostante.
-Elemmire. In nome di Durin, stai bene?
Kili si chinò su di lei e la guardò con i grandi occhi spalancati. Elemmire sentì le lacrime farsi strada nei suoi occhi. Le faceva male ovunque e ancora non credeva di essere scappata da quelle buie gallerie. Il sollievo di rivedere il cielo azzurro su di sé e il dolore delle abrasioni e dei graffi si mischiarono in lei e iniziò a piangere.
-Lasciatela respirare, per l’amor del cielo, sta benissimo, è solo molto scossa- Gandalf boccheggiava e contava sottovoce i componenti della compagnia.
-Dov’è Bilbo?
La domanda rimase sospesa. Elemmire chiuse gli occhi. Bilbo non poteva essere sopravvissuto a quell’inferno. Il dolore della perdita si aggiunse a quello delle piaghe.
-Chi l’ha visto per ultimo?- urlò Gandalf, davvero fuori di sé.
-Era affidato a me- disse Dori. Elemmire non riusciva a vederne l’espressione. –Ma come pretendete che in quel pandemonio io l’abbia potuto tenere d’occhio?
-Ve lo dico io cosa è successo- Thorin parlò a voce bassa –Lo hobbit ha trovato la sua opportunità e se l’è svignata. Non pensava ad altro da quando abbiamo lasciato Gran Burrone. Il nostro scassinatore è ora ben lontano da qui.
-Bilbo non l’avrebbe mai fatto-  la voce di Fili era rispettosa e quasi timida, ma ferma –Non ci avrebbe mai abbandonati così. Dev’essergli successa qualche disgrazia.
Intimamente, Elemmire era d’accordo con lui.
-Non sperarci, Fili. Non rivedremo mai più il signor Baggins.
-Mi trovo in disaccordo.
Come se fosse spuntato dalla terra, Bilbo apparve affianco a Thorin. Il nano rimase tanto stupefatto che si immobilizzò, fra le risate e le esclamazioni degli altri.
-Bilbo Baggins, non sono mai stato così felice di vedere qualcuno in vita mia!- Gandalf lo abbracciò con trasporto ed Elemmire, messasi a sedere, gli sorrise con sollievo. Bilbo aveva perso i bottoni del panciotto, era pieno di graffi e sporco di fango, ma vivo.
-Bilbo! Come hai fatto a uscire da lì?- Fili era incredulo e un sorriso gli illuminava il viso.
-E come hai fatto ad arrivare qui!- esclamò Dori –Non è mai capitato che nemmeno un topo mi passasse vicino senza che lo vedessi! Sei forse spuntato dalla terra come un fungo?
Bilbo ridacchiò lusingato:-Oh, normale amministrazione. Voglio dire, sono abituato a muovermi in silenzio. Sono uno hobbit.
-E maledettamente bravo!- rise Gandalf, sedendosi su uno spuntone di roccia.
-Perché sei tornato?- la voce di Thorin fece tacere tutto il mormorio. Si era ripreso dalla sorpresa e ora guardava Bilbo con il viso offuscato e una fredda luce negli occhi.
Bilbo lo guardò in silenzio per un po’. Si torse le mani, sospirò, si grattò la testa e infine disse:-Ascoltami, so che non ti fidi di me, e che hai sempre dubitato del mio coraggio. E a ragione. Non so cosa mi abbia preso quando ho deciso di partire. Mi mancano la mia teiera che fischia davanti al camino, il mio giardino, la mia poltrona, le mie mappe e i miei libri. Mi mancano le coperte calde e un letto morbido, perché quella è casa mia, è dove io appartengo. E’ per questo che sono tornato indietro, perché il luogo cui voi appartenete vi è stato rubato. Qualcun altro vi ha sottratto la vostra casa e so cosa si prova a volervi tornare; e voglio aiutarvi, se posso.
Elemmire si sentì come se quelle parole fossero state dirette a lei e nello stesso tempo da lei pronunciate. Lo vide chiaramente, quale era il suo destino sconosciuto, cosa l’aveva portata nella Terra di Mezzo, ed era così semplice che si chiese perché non ci fosse arrivata prima.
Prima di tornare a casa propria, avrebbe aiutato i nani a riprendersi la loro. Avrebbe visto Thorin sul trono che meritava, e Fili e Kili coperti di oro come conviene ai giovani principi. Solo allora, capì, il Portale si sarebbe riaperto e lei sarebbe stata risucchiata indietro. A casa. Qualcosa si spezzò in lei. Era come se fino a quel momento una catena l’avesse tenuta ancorata a terra, una catena fatta di paura, di confusione, fatta di buio e di nebbia. Adesso vedeva la luce, come se fosse riemersa da un tuffo profondissimo. All’improvviso sentì che non aveva più paura per sé. Sentì che i suoi passi percorrevano una via già disegnata e spianata, che ci sarebbero stati ostacoli ma che sarebbe stata in grado di affrontarli. Per la prima volta nella sua vita, Elemmire si sentì sicura che tutto sarebbe andato bene.
Thorin abbassò lo sguardo e ad Elemmire sembrò che si vergognasse. Gandalf sorrideva con aria misteriosa e le rivolse uno sguardo lampeggiante. Aveva intuito cosa era accaduto dentro di lei?
-Sarà meglio rimetterci in cammino. Appena il sole sarà tramontato i goblins si metteranno sulle nostre tracce e ci converrà trovarci molto lontani da qui.
-Come hai fatto a trovarci, Gandalf?- chiese Oin, il nano sordo.
-Oh, molto semplice, ho seguito le vostre tracce fino alla caverna, poi ho visto i bagagli abbandonati ed ho capito cos’era successo. Il resto è stato un gioco da ragazzi.
Si incamminarono tutti assieme con il morale alto.
-Elemmire, ci hai resi fieri di te oggi- Fili le si avvicinò. Aveva un occhio pesto e una macchia di sangue rappreso sul sopracciglio. Elemmire sospettò che non fosse suo.
-Davvero?
-Guardati! Hai combattuto come un’elfa, sei uscita poco meno che indenne da tunnel brulicanti di goblins schifosi e hai ancora la spada al fianco- Kili era graffiato e con i polsi sanguinati, ma sorrideva verso il sole calante e camminava quasi saltellando. –Devi darle un nome. Hai ricevuto il battesimo del fuoco, non puoi portare una spada che si chiama Ghiaccio.
-Ci vuole un nome altisonante allora, per esempio preso da qualche famosa spada delle epoche passate.
-Bhè, cosa c’è di più leggendario della spada di Elendil?
Elemmire ricordava di aver letto di Elendil a Gran Burrone. Era il capostipite della razza umana che aveva combattuto al fianco degli elfi contro il Nemico. Dopo la sua morte il figlio di lui, Isildur, aveva raccolto una scheggia della sua spada e con quella aveva sconfitto Sauron.
-Non so, quella spada è stata poi frantumata.
-Ma devi darle per forza un nome elfico?
-E’ una lama elfica.
-Ma tu non sei un’elfa, anche se lo sembri in effetti, per alcuni aspetti. Perché non le dai un nome nella tua lingua?
Elemmire impallidì. Si era spinta su un confine che non poteva attraversare.
-Perché non nella lingua dei nani? Potreste dare dei suggerimenti.
-La nostra lingua è segreta. È sacrilego condividerla con estranei alla nostra razza.
Elemmire iniziava a perdere la pazienza:-Allora suggerite qualcos’altro. Io non so cosa inventarmi.
-Pensa alla tua spada. A come ti senti quando la impugni. A cosa ti sembra- suggerì Fili –Il nome viene da sé, se conosci bene la spada.
Elemmire tirò Helcaraxe fuori dal fodero. La spada riluceva nella luce del tramonto e ne catturava i colori: il verde cupo e il rosso mattone si fondevano lungo la sua lama perfettamente equilibrata. Ricordava le cascate che aveva visto a Gran Burrone, capaci di assorbire lo spettro della luce e di rifletterlo in mille sfumature.
-Come si dice “acqua che trema” in elfico?
-Siamo le persone sbagliate a cui chiederlo.
Elemmire affrettò il passo e raggiunse Gandalf.
-Gandalf, ti intendi di elfico?
-Hai bisogno di un nome per la tua spada?
Come lo stregone facesse a sapere esattamente ogni cosa che le passava per la mente, Elemmire non lo sapeva.
-Non fare quella faccia- rise Gandalf –Che razza di stregone sarei altrimenti se non sapessi indovinare cosa pensano i miei compagni di viaggio?
-Ho pensato che questa spada si chiama “Ghiaccio che Morde”. Ecco, Kili e Fili dicono che ho ricevuto il battesimo del fuoco, e con il fuoco il ghiaccio si scioglie e diventa acqua. Acqua che tremola come la superficie dei fiumi di Gran Burrone.
-Nen Girith- sussurrò Gandalf –L’Acqua che Rabbrividisce. Avverto che questo momento è di vitale importanza per il tuo destino. Ed esso sarà più dolce di quello toccato in sorte a chi ti preceduta.
-Idril- mormorò Elemmire. L’avere con sé un oggetto appartenuto ad un’altra persona la faceva sentire strana. Impugnava Nen Girith e si chiedeva come potesse essere Idril. La immaginava con lunghi capelli dorati e freddi occhi color acquamarina.
-Figlia di Turgon, detta Piede d’Argento. Hai già sentito la sua storia?
-Me l’ha raccontata un elfo.
-Niphredil, scommetto.
-E’ l’armaiola di Gran Burrone?
-Precisamente. Una delle più antiche del suo popolo, ancora più antica di Elrond stesso.
-E’ strana.
-Non mi aspetto che tu la capisca.
Elemmire aveva ancora in mano Nen Girith, e si accorse della lama che diventava d’improvviso blu iridescente. Gandalf si fermò di colpo e spalancò gli occhi.
-Cosa succede?- chiese Thorin dietro di loro. Poi il suo sguardo cadde sulla spada, e il suo viso sbiancò.
-Arrivano. Correte. CORRETE!
-Gandalf! Cosa significa?
-La luce blu? Orchi. Orchi o goblins. E troppo, troppo vicini.
Il sole era tramontato dietro le montagne, alle loro spalle. La compagnia prese a correre nel buio che scendeva inesorabile, senza sapere bene da cosa fuggiva. Le lame elfiche splendevano tanto da illuminare loro la strada, e nonostante questo Elemmire cadde più volte. Bofur si fermò spesso per darle una mano a rialzarsi. E alla fine Elemmire lo sentì. Un ululato raccapricciante, impregnato di tutta la malvagità possibile. E poi un altro. E un altro ancora.
-Mannari!- Thorin roteò la spada ed estrasse l’ascia con l’altra mano –Correte, non vi fermate.
Elemmire, con il cuore in gola, incespicò in avanti e saltò oltre un tronco abbattuto. Nel buio, con il terreno pieno di buche, le era difficile procedere in linea retta.
Fu un attimo. I suoi sensi percepirono qualcosa dietro di lei, qualcosa di caldo e ansimante. Poi un peso enorme la schiacciò a terra. Atterrò di lato per non infilzarsi con Nen Girith e quasi alla cieca, per istinto, sferrò un colpo. Il mannaro ruggì e spalancò le fauci irte di denti così affilati che avrebbero perforato l’acciaio. Senza pensarci sopra Elemmire conficcò la spada dritta nelle fauci del lupo e la spinse con tutta la forza che la paura le aveva lasciato nelle braccia. Un fiotto di sangue bollente le inondò il viso, bruciandole sulla pelle e negli occhi. Elemmire ignorò il ribrezzo che provava e cercò di liberarsi dalla carcassa dell’animale, tornando poi a nascondervisi sotto quando altri due lupi galopparono a pochi metri da lei. Una freccia di Kili si conficcò nella zampa di uno dei due che cadde a terra; la spada del nano gli staccò metà testa con un colpo solo.
-Elemmire, veloce, via da qui!- Kili la tirò via con forza da sotto la carcassa e insieme corsero avanti, le spade sguainate e grondanti sangue.
-La strada è bloccata!- a malapena Elemmire riuscì a sentire la voce di Nori che cercava di sovrastare gli ululati e i ringhi.
-Come sarebbe a dire bloccata?- urlò Kili fermandosi.
-Siamo davanti ad un precipizio- confermò Gandalf, guardandosi freneticamente intorno –Sugli alberi, veloci!
E come se Elemmire non avesse ancora visto abbastanza, ogni nano sfoggiò un’agilità straordinaria e in pochi balzi furono tutti ben al sicuro sui rami dei pini e dei larici. Fili e Kili tesero le mani e aiutarono Elemmire a salire sul loro albero. Appena in tempo. Un branco di enormi Mannari, forse quelli che li avevano braccati la settimana prima, si riversò tra gli alberi, gli occhi scintillanti di rosso nell’oscurità, le fauci digrignanti. Iniziarono a saltare, a mordere i rami bassi e a spezzarli mentre con le zampe grandi quanto l’elsa di Nen Girith scavavano attorno alle radici. Elemmire non capì cosa stavano facendo finché non avvertì che sotto di sé l’albero iniziava ad inclinarsi.
-Stanno sradicando gli alberi!- urlò cercando di mantenersi in equilibrio.
Per tutta risposta Kili l’afferrò saldamente per il braccio e urlò:-Salta!
Fu come quella volta con i giganti di pietra. Un momento prima Elemmire sentiva che le gambe non le avrebbero tenuto e sarebbe caduta in pasto ai lupi, un momento dopo i muscoli si tendevano, la mente si chiudeva e in lei esisteva solo l’istinto. E l’istinto diceva di saltare. Percorse così tre alberi fino a raggiungere quello sulla punta estrema del precipizio, un abete gigantesco dal quale spuntavano le facce di Gandalf e Thorin. Presto ogni nano si ritrovò appeso ai rami dell’abete, mentre attorno a loro alberi divelti formavano una specie di corteo. Gloin portava sulle spalle Bilbo e la sua piccola spada, sporca di sangue. Nella radura cadde il silenzio all’improvviso. Ogni lupo si sedette sulle zampe posteriori, ringhiando quasi sottovoce, e un Mannaro bianco come una luna d’inverno si fece avanti. Aveva occhi d’inferno e gli artigli sguainati. Lo cavalcava un orco. Ma un orco qualunque. La sua pelle era pallida, coperta di sottili cicatrici, gli occhi due fessure malvagie, il naso spaccato di netto.
-No…- Elemmire udì il sussurro di Thorin. Il nano era coperto di sudore e aveva gli occhi spalancati –Non può essere…
-Finalmente ti conosco, Thorin figlio di Thrain. Sono così tanti anni che ti cerco. Bolg, figlio di Azog. Ti ricorda qualcosa questo nome?
Thorin rimase immobile. Elemmire si ravvide che tremava. Istintivamente il suo sguardo cercò quello di Kili: il nano fissava lo zio, il viso una maschera di tensione.
-Ah, vedo che non hai buona memoria. Io sì, per tua sfortuna. Io ricordo molto bene certe cose. Ricordo questo odore. Anche tuo padre ce l’aveva addosso quando l’abbiamo catturato e torturato. E’ l’odore della paura. Hai paura, Thorin Scudodiquercia?
Thorin ne aveva. La stessa Elemmire poteva sentirla. Tangibile e solida come il ricordo di Azog. Thorin non aveva dimenticato.
-Chissà cosa racconteranno le ballate dei nani su questa notte. La compagnia di Thorin Scudodiquercia che si nasconde tra i rami di un albero.
Bolg accarezzò il suo Mannaro:-Dì loro di massacrarli. Solo il loro capo è mio.
Il Mannaro albino emise un ululato da far accapponare la pelle e tutti i lupi, fino a quel momento tranquillamente seduti al loro posto, scattarono in piedi e circondarono l’albero. E con orrore Elemmire vide che stavano cercando di sradicare anche l’abete.
Erano presi tra due fuochi: i lupi ringhianti davanti, il vuoto alle spalle. Alcuni nani si sbilanciavano e i compagni dovevano reggerli affinché non cadessero mentre l’albero si inclinava pericolosamente. Kili fu tra questi. Scivolò bruscamente dal suo ramo ed Elemmire lo afferrò appena in tempo per il cappuccio del mantello.
-Prendi la mia mano- disse Fili, aiutandolo poi ad aggrapparsi ad un ramo. Insieme, issarono Kili cercando di non cadere a loro volta.
-Gandalf! Fai qualcosa!- Bombur era in precario equilibrio su due rami che parevano completamente inadatti a sostenere il suo peso notevole.
-Ci sto provando, Bombur, se mi lascerai concentrare, grazie.
Gandalf mormorò alcune parole sottovoce muovendo in modo circolare il suo bastone. Un cerchio di fiamme divampò a qualche metro dagli alberi, seguito dai guaiti di dolore dei lupi. Un altro cerchio, questa volta più vicino, di rami schiantati prese fuoco e i Mannari abbandonarono definitivamente il campo. Presto tra loro e l’abete si ergeva un alto muro di lingue argentee e bluastre entro cui scintillavano dorati cuori pulsanti. Il calore divenne insopportabile; avevano respinto i lupi, ma non risolto il problema. E l’abete si inclinava sempre di più.
Elemmire pensò che sarebbe stata la fine. Il fuoco, le rocce o le zanne dei lupi l’avrebbero dilaniata prima dell’alba.
E poi vide Thorin. Il nano si era alzato in piedi e camminava sul tronco. Le fiamme argentee si riflettevano nei suoi occhi e carezzavano i fili grigi tra i capelli; scivolavano dolcemente sul filo della spada sguainata, sul mantello bordato di pelliccia. Thorin si ergeva alto, fiero e disperato. Elemmire si accorse per la prima volta che all’avambraccio sinistro portava una specie di ramo, incavato e lavorato fino a farne un pezzo d’armatura. Ovviamente Thorin Scudodiquercia doveva aver conservato in qualche modo quel ramo che gli aveva salvato la vita e meritato la gloria; gloria che stava andando a prendersi. Percorse sempre più velocemente il tronco inclinato dell’albero, la spada tesa davanti a sé e il braccio sollevato come se il ramo di quercia fosse stato uno scudo. Kili aprì la bocca in un urlo silenzioso.
Allora il Mannaro albino attaccò. Bolg scese di sella, e l’animale si scagliò su Thorin. La spada elfica cadde a terra con fragore, appena scalfita di sangue, e Thorin dovette scansarsi di colpo per evitare la carica. Non fu abbastanza veloce o, forse, fortunato da evitare anche il secondo. Cadde a terra sotto le zampe del lupo bianco.
-Thorin, NO!- la voce di Balin era incrinata di lacrime. Elemmire era ipnotizzata. Il terrore la inchiodava dov’era e quando le zanne del lupo si chiusero sul torace di Thorin, quando iniziò a dilaniarne le carni, nemmeno davanti al sangue e alle urla strazianti riuscì a distogliere lo sguardo. Era pietrificata e il mondo girava attorno a quella scena, l’unica cosa che contasse davvero. La morte di Thorin Scudodiquercia. Il lupo albino scaraventò il corpo di Thorin a molti passi di distanza e si accucciò.
-Ecco la fine di Thorin figlio di Thrain. Le teste degli eredi di Durin ornano da un’intera generazione le sale degli orchi. Quella di Scudodiquercia farà una gran figura affianco al cranio di Thror. E a breve anche le teste dei suoi discendenti faranno la stessa bella figura- Bolg si avvicinò a passi lenti, la spada sguainata.
-Dovrai passare sul mio cadavere!- Bilbo si slanciò a proteggere il corpo di Thorin con il suo. Elemmire non vide né sentì altro del diversivo.
-Rimani qui- le sussurrò Kili. Aveva gli occhi infiammati di una luce terribile, spietata, e sulle labbra cresceva un ringhio.
-Combatto anch’io.
-No. Non azzardarti a seguirci. Ce la vediamo noi.
E pochi secondi prima che Bolg infilzasse Bilbo tutti i nani sguainarono le armi e attaccarono, creando un muro umano attorno al cadavere di Thorin. Kili e Fili combattevano urlando e una furia cieca, senza pietà, rendeva i loro colpi impossibili da schivare. Ma i Mannari erano troppi. Per ogni morto due correvano latrando a rimpiazzarlo. I nani furono in fretta costretti alla ritirata e formarono un semicerchio strettissimo in mezzo agli alberi, ponendo alle loro spalle il fuoco argentato. Elemmire guardò Gandalf in preda al panico. E lo stregone alzò lo sguardo verso il cielo. Una folata di vento scompigliò loro i capelli.
Ma non era vento, si rese conto Elemmire. Era lo spostamento d’aria dovuto a gigantesche ali. Ali piumate, silenziose, potenti, e artigli cornei e affilati.
Uno stormo di aquile gigantesche, con i corpi grandi quanto cavalli e un’apertura alare di almeno quattro metri, scese in picchiata sul campo di battaglia. Con i becchi e gli artigli dispersero i Mannari e ne divorarono le carni, poi delicatamente ogni uccello prese su di sé un nano. L’aquila più grande, dal folto piumaggio rossiccio, afferrò delicatamente Thorin. Elemmire vide lo scudo di quercia staccarsi dal braccio e cadere nel vuoto e un’immensa tristezza le avvolse il cuore. Infine un’aquila scura le permise di salirle sul dorso. Elemmire si aggrappò saldamente alle piume e vi nascose il viso mentre avvertiva i potenti muscoli muovere le ali. Tremava per il freddo e la paura e voleva solo che tutto finisse in fretta. Sotto di lei vedeva solo nebbia, e sopra stelle verdi, rosse e bianche come non ne aveva mai ammirate. Sembravano pietre preziose ricamate su un velluto e con i loro occhi sereni calmarono la tempesta che sentiva dentro. Morte e dolore sembrarono diluirsi nell’immensità del cielo. L’alba sorse. Il cielo divenne man mano celeste chiaro e striature d’oro e arancio formarono lievi tendaggi nella nebbia. Le aquile planarono ed Elemmire avvertì la temperatura farsi sensibilmente più calda. Non ebbe il coraggio di guardare giù e si costrinse a stringere forte le ginocchia attorno al petto del rapace per non rischiare di scivolare di sotto, tanto si sentiva debole. Non mangiava da due giorni e non aveva fatto altro che lottare, correre e spaventarsi per tutto il tempo. Ora sentiva davvero di essere arrivata alla fine delle sue riserve di energie. Quando si accorse che le aquile erano atterrate fece un ultimo sforzo per rotolare giù dal dorso dell’uccello. Si trovava su un alto spuntone roccioso circondato da terre ancora addormentate e selvagge. L’aquila rossa depositò con leggerezza Thorin al centro della piattaforma di roccia ed Elemmire si trascinò verso di lui, d’un tratto di nuovo piena di angoscia e dolore. Tuttavia, si accorse, Thorin respirava. Respirava. Sangue rappreso copriva tutto il suo torace, ma respirava.
-E’ vivo- sussurrò a se stessa, visto che nessuno era abbastanza vicino per udirla. Gandalf, i nani, Bilbo circondarono Thorin e iniziarono a parlare concitatamente. Elemmire cercava di afferrare le loro voci e di interpretarle, ma era come se le scivolassero via dal cervello. Alzò lo sguardo e vide il cielo passare dall’azzurro al nero. E poi ci fu il vuoto.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Una porta che si apre ***


Il vento caldo le accarezzava il viso. Poteva sentirlo mentre le muoveva i capelli su e giù per la fronte. Dalle palpebre chiuse filtrava una luce leggera e piacevole, soffusa, tiepida: era come se fosse tornata nel grembo materno. Elemmire rimase immobile per godersi la sensazione. Ascoltò il suo corpo che lentamente si risvegliava e mandava messaggi al suo cervello. Percepiva un persistente profumo di fiori tutto attorno a lei, come se ci fosse sdraiata sopra, e sulla pelle nuda un tessuto morbido e leggero. Una coperta. Respirò a fondo, e un dolore acuto le trafisse il fianco, facendole aprire gli occhi di scatto. Mise a fuoco con difficoltà perché la sua prima immagine fu il nero assoluto; poi dall’oscurità uscì fuori un colore predominante, il verde. Sopra di sé un soffitto di legno altissimo si curvava come in una casa di campagna e vi pendevano fasci di cipolle e pomodori secchi. Non c’erano finestre ma la luce naturale arrivava soffusa da ogni direzione. Dovevano esserci molte porte lungo le pareti della stanza. Elemmire provò a muovere la mano. Un formicolio le risalì lungo il braccio e si accorse di avere delle bende di stoffa delicata e traspirante avvolte un po’ ovunque, specialmente attorno ai polsi. Si sentiva le labbra gonfie e screpolate e ogni respiro bruciava in gola. Aveva sete.
-Acqua- cercò di sussurrare, ma le corde vocali si rifiutarono di collaborare e le uscì solo un gracchiare orribile.
-Elemmire. Ben svegliata.
Nel suo campo visivo comparve Gandalf. Aveva profonde occhiaie ma l’aria serena e rilassata.
-Acqua- provò a ripetere ancora Elemmire. Gandalf gliene porse da un mestolo di metallo. Il liquido fresco scese come un balsamo tra le labbra riarse e le strappò un gemito di sollievo. Gandalf le tenne sollevata la schiena per aiutarla a bere, ed Elemmire ingollò molti sorsi prima di sentirsi riappacificata con il suo corpo. Si sdraiò ancora sul letto di morbidi fiori e guardò lo stregone.
-Non affaticarti a porgermi domande che posso facilmente intuire. Limitati a indicare sì o no con la testa. Vuoi sapere dove siamo, giusto?
Elemmire annuì.
-Devi la tua guarigione all’accoglienza pronta e disinteressata di Beorn, l’ultimo mutapelle della Terra di Mezzo. Questa è la sua casa, ultimo rifugio prima del Bosco Atro. Dormi qui da un giorno e mezzo. Nel frattempo mi sono occupato personalmente di lavare e medicare le tue ferite e sono lieto di comunicarti che a parte un paio di costole incrinate non hai subito alcun danno rilevate, il che la dice lunga sulla tua fortuna, mia cara Elemmire. Poi, ancora, tutti i nani sono qui, sani e salvi, che aspettano che tu ti riprenda. Oserei dire che specialmente Kili era assai in pensiero.
-Thorin?- sussurrò Elemmire. Ricordava di averlo visto vivo, prima di perdere i sensi. Era vivo.
-Thorin sta bene. Ho curato le sue ferite con l’aiuto di Beorn ed egli è ora fuori pericolo. Presto tornerà nel pieno del vigore e dell’audacia e questo grazie al coraggio del nostro caro Bilbo, che è ora acclamato da tutta la compagnia come un vero e proprio eroe.
Elemmire sorrise. Bilbo aveva fatto scudo a Thorin con il suo stesso corpo e aveva dato modo ai nani di contrattaccare. La sua gloria era più che meritata.
-Posso alzarmi?- chiese Elemmire, che ora smaniava dalla voglia di rivedere la compagnia.
-Non prima che tu abbia mangiato qualcosa e ti sia vestita. Ti procurerò subito ciò di cui hai bisogno.
Gandalf lasciò il suo capezzale e scomparve. Elemmire provò ad alzarsi a sedere ma la testa le girava troppo. Si sentiva davvero molto debole. La coperta che la copriva era di finissima seta rossa e rosa, con ricamato un disegno di dame e cavalieri. Il suo tocco era caldo e delicato ed Elemmire si riappisolò mentre aspettava Gandalf. Quando lo stregone tornò recava una casacca di cuoio non conciato e dei pantaloni di tela grezza. Senza discutere Elemmire indossò i vestiti, di foggia evidentemente maschile, e aiutandosi con un cordino raccolse i capelli sulla nuca. Poi mangiò le noci e i pinoli che Gandalf le aveva portato in una tazza di legno.
-Non ho nulla in contrario al vederti passeggiare per i boschi di Beorn, ma non affaticarti. Sei convalescente, Elemmire.
Detto questo l’aiutò ad alzarsi e la condusse fuori dall’enorme stanza rettangolare che costituiva la casa di Beorn. Era talmente ampia che ci vollero buoni dieci minuti per attraversarla tutta. Al di fuori si ergeva un meraviglioso porticato di legno laccato in rosso e oro con lanterne a forma di cuore i cui pendenti tintinnavano nella brezza. Un giardino lussureggiante circondava la casa, e ancora oltre c’erano piccole costruzioni di legno, forse stalle, e in fondo degli alberi folti.
-Elemmire!
Kili stava fumando la pipa seduto a gambe incrociate sotto il porticato. Indossava una casacca dorata con ricamate foglie di quercia e pantaloni marroni. Le venne incontro sorridendo ed Elemmire sentì un piacevole calore nel petto.
-Kili, lascio a te il compito di rispondere alle legittime e sicuramente sensate domande della nostra amica. Ho lasciato Thorin alle prese con una ferita aperta che mi sembrava leggermente infetta.
Gandalf scomparve da qualche parte nel bosco ed Elemmire si trovò da sola con Kili. E d’improvviso si sentì imbarazzata.
-E’ bello qui intorno- disse tentando di rompere quell’inspiegabile ghiaccio che, sentiva, la separava all’improvviso da Kili.
-E’ meraviglioso. Un letto in cui dormire, pasti due volte al giorno e terre incontaminate a nostra disposizione senza nessun elfo che gironzola attorno.
-Dove siamo esattamente?
-A due giorni di cammino dalle propaggini sud-occidentali del Bosco Atro. Gandalf dice che rimarremo qui finché tu e Thorin non vi sarete completamente ripresi.
-E poi ci aspetta l’ultima tappa.
Kili la guardò e poi abbassò lo sguardo:-Gandalf non verrà con noi. Lui ci lascia appena entreremo nel Bosco Atro.
Il colpo fu forte per Elemmire, anche se lo stregone aveva parlato di qualcosa di simile. Non si era resa conto che il tempo fosse passato così in fretta. Guardò Kili affranta e il nano ricambiò il suo sguardo.
-C’è qualcos’altro?
-No, nulla. Le brutte notizie si fermano qui. Tu come ti senti?
-Debole, ma sono stata peggio. Thorin…
-…è vivo. L’abbiamo tirato via per la barba dal regno dei morti, però, e gli ci vorranno dei giorni perché le ferite si richiudano.
-Con quel tipo di ferite un essere umano rimarrebbe a letto per mesi.
-Un essere umano, non un nano. Abbiamo tempi di recupero molto più veloci. Guarda.
Kili le mostrò i polsi dove le corde avevano strofinato tanto da raggiungere l’osso. La pelle del nano era coperta di cicatrici rossastre.
-Oh, Kili, non ti ho ancora ringraziato per..per tutto.
-Stai scherzando Elemmire? Sei una di noi. Siamo una compagnia, una grande famiglia.
-Mi hai salvato la vita. Non avrei resistito alle frustate.
-In realtà te la sei cavata egregiamente da sola da quel punto in poi. Sono rimasto…siamo rimasti impressionati dal modo in cui combatti, sembra che tu non abbia fatto altro per tutta la vita.
-E’ stata l’adrenalina. Sai, non stavo davvero pensando a quello che facevo, mi usciva spontaneo.
-Notevole per una donna della tua razza.
-Le nane combattono?
-Solo se non possono farne a meno.
Camminarono per un po’ e poi tornarono all’ombra del porticato. Elemmire iniziava a chiedersi dove fossero i suoi vestiti, i suoi bagagli e la sua spada.
-Hai visto Nen Girith per caso?
-Sarà dentro da qualche parte insieme ai tuoi vestiti. Ah no, scusami, quelli li sta rammendando Dori.
-Dori?
-Si sta occupando anche dei miei e di quelli dei suoi fratelli.
Elemmire rimase a bocca aperta:-Quali fratelli?
-Ori e Nori. Non avevi capito che sono imparentati tra loro?
-No! Pensavo avessero solo nomi simili.
Kili rise e il sole splendette attraverso i suoi capelli rendendoli rossicci.
-Non ridere. Cosa potevo saperne?
-Rido della tua faccia, dovresti vederti.
-Grazie tante- Elemmire si girò irritata.
-Dai non prendertela. Se vuoi ti racconto di come si sono trovati qui.
Ascoltare le storie di Kili era la parte che Elemmire preferiva delle loro conversazioni. Si girò e lo guardò con la coda dell’occhio.
-Nori è un ladro. Ha lasciato il proprio villaggio per evitare alcuni guai ed è venuto a cercare protezione sotto Thorin. In realtà sospetto volesse anche cercare suo padre. Sai, Nori, Ori e Dori hanno in comune solo la madre. Poi Ori l’ha seguito: ha un’ammirazione smisurata per il fratello maggiore. A quel punto è intervenuto Dori, il più grande, che ora fa da balia non solo a loro due ma un po’ a tutti noi, Gandalf compreso.
-Non fanno parte della tua famiglia quindi.
-No, loro non vivevano ad Erebor ai tempi della cacciata. Ma sai, Thorin ha offerto loro riparo, aiuto e protezione e li ha inseriti nel nostro clan. Gli sono fedeli e riconoscenti come congiunti.
-E’ carino che Dori si sia preoccupato così tanto dei fratellastri.
-Carino? Dori non fa altro che borbottare! “Nori non farlo, Nori rimettilo a posto, Nori datti un contegno”. E dovresti vedere come tratta Ori! Non lo lascia respirare! “Ori caro hai un segno sul naso. Ori copriti che fa freddo. Ori non ti sporcare”.
Elemmire rise a crepapelle delle smorfie di Kili:-E’ materno!
-E’ soffocante! Voglio dire, sì, forse Ori ha bisogno di qualcuno che gli corra dietro perché è così ingenuo e timido, ma Nori è un nano fatto e barbuto. Ci ha raccontato che Dori voleva questo viaggio fosse una specie di purificazione ed espiazione per tutti i furti che ha compiuto. Ma ti rendi conto?
-Io la trovo una cosa carina. Dori è amorevole. Sarebbe un ottimo padre.
-Perché no, è già un’ottima madre- Kili sbuffò ed Elemmire rise di nuovo –E che rimanga tra noi, ma dubito tutti e tre abbiano mai avuto una ragazza.
-Tu che ne puoi sapere?
-Avanti, hai visto come porta i capelli Nori? Evidentemente non ha capito nulla su cosa piace ad una ragazza. E Ori, per favore, è il più grande verginello della Terra di Mezzo.
Elemmire arrossì:-Magari la sua aria timida e gentile piace alle ragazze.
-Hai una sbandata per Ori per caso?
-Ma che stupido no! Sto solo dicendo.
-Lo difendi!
-Certo che lo difendo! Ispira tenerezza.
-Anche un cucciolo di gatto ispira tenerezza. Andresti a letto con un cucciolo di gatto?
-Come sei sfacciato! Guarda che l’attrazione non è solo un processo…fisico.
-Lo so benissimo, vedi che sei attratta da Ori?
-Era per dire. Smettila, non sono neppure una nana.
-Era per dire- Kili le rifece il verso –Guarda che nel caso è meglio che ci parlo prima io. Va a finire che scambia le ginocchia per qualcos’altro e inizia a palpartele al primo appuntamento.
Elemmire si alzò scandalizzata e rivolse le spalle a Kili. L’imbarazzo le colorava le guance di rosso.
-Elemmire, avanti, non dirmi che tu non hai mai avuto esperienze del genere.
-E anche fosse? Non sono fatti tuoi.
-Sei offesa?
-No, non sono offesa.
-Come no. Perché non racconti anche tu di te, ogni tanto?
-Perché sono cose private, non trovi?
-A parte questo. Tu non parli mai di te, Elemmire, di dove vivi, di cosa ti piace.
-Preferisco ascoltare, se non ti dispiace.
-Sì, ma dai sempre l’impressione che tu sia così…chiusa. Come se fossi rannicchiata in te stessa.
Elemmire si sentì scoperta e la sensazione la metteva ancora più a disagio di quanto già non fosse. Voleva che Kili se ne andasse e la smettesse di farla sentire ogni volta così strana.
-Preferisco tenere le mie cose per me.
-Ecco, sentiti. Perché costruisci muri? Di cosa hai paura? Deve essere una paura bella grossa se ti impedisce di raccontare anche solo qualche storiella.
Elemmire rimase a fissare il giardino.
-Cosa vuoi sapere, quanti ragazzi ho avuto?- chiese poi con voce monocorde.
Kili scosse la testa:-No, nulla. Non voglio estorcerti niente, né tantomeno i tuoi fatti privati. Solo che non riesco a capirti. Tu non ti fai capire.
-Magari perché non voglio- Elemmire suonò imperiosa e glaciale, ma stava tremando.
Kili rimase fermo, come congelato, poi si alzò e a passi lenti rientrò nella casa di Beorn. All’improvviso Elemmire si sentì vuota e sola.
 
Beorn era un uomo alto due metri con spalle e torace ampi come il rimorchio di un camion. Le sue braccia e le sue gambe erano cotte dal sole e coperte di peluria nera e fitta, ricciuta come la barba e i capelli scuri più dell’inchiostro. Sotto enormi sopracciglia sporgenti brillavano occhi infossati e intelligenti che guizzavano rapidi da un nano all’altro mentre la voce possente rimbombava nella sala. Gandalf aveva acceso delle torce violette e verdi e le aveva fatte galleggiare a mezz’aria attorno al tavolo dove tutti erano riuniti a mangiare. Un arrosto succulento sfrigolava sullo spiedo in un enorme camino e il profumo riempiva la sala. Elemmire aveva ricevuto un mantello azzurro da mettersi sulle spalle perché la notte era fresca e guardava l’allegra compagnia mangiare e parlare ad alta voce. Kili era seduto alla sinistra di Thorin e ascoltava Gandalf mentre raccontava la storia del suo primo incontro con Beorn. C’era tanta di quella confusione che Elemmire ne carpì solo poche parole, ma non vi fece molto caso. Era tutta intenta ad osservare Kili. Non capiva perché le fosse così difficile ricompensare la fiducia e la gentilezza del nano con la stessa moneta. Desiderava passare del tempo con lui, sentire le sue storie, imparare da lui e magari scambiarsi confidenze e usanze, ma ogni volta si ritrovava a rispondere male, chiusa in se stessa come in una corazza. Di cosa aveva paura? Quella domanda l’aveva scossa nelle fondamenta. Di cosa aveva paura? Non lo capiva. Dava la colpa al fatto che precipitare in un regno fantastico l’aveva destabilizzata, ma sapeva che in fondo le cose non stavano così. Sapeva di essersi ambientata. Aveva combattuto, aveva sofferto e aveva sperimentato la vera paura. Con Kili era qualcosa di più profondo. Un’abitudine al silenzio, alla chiusura, alla difesa. Era facile maneggiare una spada ed accettare il fatto di poter essere colpita, ma accettare che qualcuno potesse conoscerla, questo non sapeva farlo. E si sentiva in colpa. Si sentiva sola e vuota.
Finita la cena aspettò che tutti i nani si ritirassero e poi sgattaiolò, ben stretta nel mantello, verso il giaciglio di Kili e Fili. I due fratelli si erano addormentati tenendosi per mano. Nell’oscurità li ascoltava respirare lentamente e russare piano, giovani vite nel pieno del vigore. Rimase a lungo a guardarli alla debole luce che filtrava dalle porte chiuse. Poi si distese per terra lì dove era e si addormentò.
Il mattino sorse presto e la trovò sveglia, seduta sotto il porticato mentre con le unghie incideva il morbido legno. Era un mattino rosso e oro sfolgorante, con una luce intensa che sorgeva da dietro gli alberi.
-Già in piedi?
Fili le posò una mano sulla spalla. Dopo un iniziale momento di spavento, Elemmire rispose:-Non avevo sonno.
-Bugiarda.
-E’ così.
-Io credo invece che ci sia qualcosa che ti tiene sveglia.
-Assolutamente no.
-Stai incidendo del legno con le unghie. Non penso tu lo faccia per passatempo. A dire il vero, non penso tu te ne sia nemmeno accorta.
-L’ho fatto volontariamente. Mi aiuta a…
-…pensare?
Elemmire annuì. Si sentiva la testa pesante.
-A cosa pensi Elemmire?
Cosa avrebbe dovuto rispondere? Che pensava ancora alle parole di Kili? Che non aveva smesso un dannato minuto di pensarci? Che si sentiva una grande tempesta dentro?
-Penso a me stessa.
Fili le si sedette accanto e con pazienza le chiese:-E a cosa in particolare?
-Ad una discussione avuta ieri sera con Kili.
Elemmire si aspettava che Fili ne fosse a conoscenza. Infatti il nano annuì e disse:-Kili sa essere molto diretto e indelicato.
-No, no ha ragione. Non è stato indelicato. Ha ragione.
-E la cosa ti disturba, vero?
-Un poco- ammise Elemmire. Era davvero tutto così semplice? Era solo una questione di orgoglio alla fine?
-Kili è sempre stato capace di intuire i punti deboli delle persone. Sai, di squadrarle e dire quali erano i loro problemi e le loro paure. E’ un dono che ha. Sa entrare in empatia con loro. E se vede davanti a sé un muro, lo prenderà a testate pur di farlo crollare.
-E se il muro non volesse essere abbattuto?
-Per quale motivo bisognerebbe costruire un muro tra due persone?
-Per proteggersi.
-Parliamo di contatto interpersonale, non di guerra. Se una persona vuole entrare in relazione con te non puoi vivere sulla difensiva.
-Puoi. Evitando la relazione.
-E di cosa vivresti allora?
-Di altro. Basteresti a te stesso no?
-Nessuno basta a se stesso, Elemmire, altrimenti non sentiremmo il desiderio e la paura dell’altro. Il contatto con l’altro ci rende ciò che siamo, per questo lo vogliamo. Lo vogliamo e lo temiamo perché minaccia la nostra individualità, ma sappiamo di averne bisogno. Lo sappiamo.
-Perché una persona dovrebbe voler entrare in relazione con me?
Fili rimase interdetto:-Perché non dovrebbe, semmai. È così brutto stare in mezzo a persone di cui ti fidi e che conosci nel profondo?
-Non lo so. Immagino di no.
-Perché allora evitare il contatto?
-Per paura.
-Di cosa, Elemmire?
-Non lo so, di tutto, di essere poi ferita, di non essere capita, di essere bistrattata, di tutto.
-Ma se non ti apri almeno un pochino le persone non ti comprenderanno comunque, e troveranno comunque il modo di ferirti. Invece un rapporto può renderti più forte, migliore.
Elemmire si strinse forte le ginocchia al petto.
-Non sto dicendo che dobbiamo essere tutti fratelli, ma Kili ci è rimasto male. Lui si fida di te e si vede continuamente respinto come un estraneo. Sta facendo di tutto per farti sentire a tuo agio.
-Lo so.
-So che può essere una persona fastidiosa a volte… E’ mio fratello, figurati se non lo so… Ma non chiuderti ogni volta. Lui cerca di aiutarti. Avere un amico come lui potrebbe essere un’opportunità. Farà qualsiasi cosa per te.
-Grazie Fili.
-Di niente- il nano sorrise in modo aperto scoprendo i denti bianchissimi e le strinse forte la spalla mentre si rialzava –Mi darai ascolto quindi?
-Ci proverò.
Elemmire aveva davvero intenzione di provarci; in effetti si riconosceva intimamente nelle parole di Fili e capiva che quell’inquietudine che provava in sé nasceva dal luogo più profondo del suo cuore, un luogo buio che non vedeva luce da troppo tempo. E aveva incominciato a temerla.
 
 Un cane delle dimensioni di un lupo, candido come la neve con gli occhi rossi e il pelo soffice, servì loro la colazione. Ogni nano si alzò alla spicciolata e mangiò pane e burro chiacchierando distrattamente con il vicino, poi la stanza si svuotò e vi rimasero solo Elemmire, ancora meditabonda, e Kili e Bilbo, profondamente addormentati. Elemmire si alzò da tavola e si avvicinò al nano in punta di piedi, prese delicatamente l’arco e la faretra dai suoi bagagli e si incamminò verso l’esterno. Vagò per un po’ tra gli alberi e poi trovò un radura incassata tra la riva rocciosa di un ruscello e il bosco. Decise di provare a impugnare l’arco in orizzontale, viste le dimensioni ridotte: le sembrava che ciò avrebbe potuto consentirle maggior precisione e le avrebbe richiesto meno sforzo. Si inginocchiò, tese, incoccò e scoccò. E così per molte volte, ogni volta raccogliendo la freccia da terra o dal tronco dove si era conficcata. Provò a cambiare altezza e angolatura e iniziò a centrare lo stesso bersaglio per due volte consecutive. Caldo sudore le bagnava i panni di cuoio.
-Stai usando qualcosa che non ti appartiene.
-Lo so- Elemmire prese un respiro profondo perché non era abituata a usare alcune parole e disse –Volevo porgerti le mie scuse perché continuo sempre a trattarti come un estraneo e volevo anche farti vedere quanto apprezzo quello che fai per me e come sono migliorata.
Parlò quasi senza respirare e con gli occhi chiusi per evitare di cambiare idea. Le guance le pizzicavano per l’imbarazzo.
Kili la guardò un po’ divertito e un po’ intenerito e poi allungò la mano:-Vieni qui.
Elemmire avanzò dubbiosa e tese il braccio libero verso di lui.
-L’arco.
-Cosa?
-Dammi l’arco!
In un lampo Elemmire fece due passi indietro e bruscamente tese l’altra mano, quella che stringeva l’arco. Kili rise del suo imbarazzo:
-Che cosa avevi capito?
-Niente, non avevo proprio capito.
Kili l’aiutò correggendo qui e là qualche sua posizione errata; a fine mattinata erano sudati fradici e decisero di farsi un bagno prima di tornare nella casa di Beorn. Come era successo anche dagli elfi, Kili si tolse la tunica e gli stivali, Elemmire rimase vestita. Si tuffarono nel ruscello e nuotarono lungo il suo corso per un po’ fino a trovare un angolo di riva dove le rocce erano piatte e scolorite dal sole. Un mandorlo le ombreggiava. Si sedettero entrambi sulla riva e ascoltarono il sole che li asciugava e gli uccelli che cantavano. Elemmire si pettinava i lunghi capelli con le dita mentre Kili si beava della luce e del calore.
-Com’è lì da te?
-A casa?
-Nell’Ithilien. C’è molto verde vero?
Cosa avrebbe dovuto rispondere? Elemmire non ne aveva idea. Provò a rientrare in se stessa e a riportare alla memoria qualcosa del mondo reale, ma era come se non riuscisse a ricordarne i particolari.
-Abbastanza. Ma io sono quasi sempre rimasta in città.
-Hai mai visto Minas Tirith, la città-fortezza?
-No. La mia casa sorge più lontano. Ed è sempre vuota e ci si sente soli dentro.
-Vivi da sola?
-No, non ho ancora l’età per farlo, anche se vorrei. Devo prendermi cura di una prozia, anche se in realtà sarebbe il contrario.
-E basta?
-E basta.
-A cosa serve allora una casa così grande? Avete molta servitù?
Elemmire si trattenne dal ridere:-Solo una ragazza che pulisce i pavimenti e la cucina e un vecchio giardiniere, ma non vivono da noi. La casa era di mia nonna quando era ancora viva.
-La madre di tuo padre, giusto?
-Giusto. Quando lei è morta è passata a mio padre, e poi a questa prozia.
-Perché non a te? Sei la figlia legittima.
Elemmire trattenne il fiato. Si morse il labbro e si sforzò di non chiudere un’altra porta in faccia a Kili.
-In realtà, non è certo. Papà ha sempre sospettato che io non fossi figlia sua. Diceva che mia madre era già incinta quando si conobbero e che lui la sposò per pietà, ma che non si sarebbe preso cura della figlia di qualcun altro.
-Nessuno è mai venuto a…sì, insomma, reclamarti come propria figlia?
-Nessuno. Non vedo mio padre da anni ormai. Quando ne avevo sette mi ha detto chiaramente che non ero figlia sua e che avrei dovuto smetterla di chiamarlo papà; poche settimane dopo se n’è andato e non è più tornato.
-Tua madre come ha reagito?
-Non ha reagito. E’ stato come se non se ne fosse accorta. Ha continuato a portare avanti la sua vita spericolata, stando più tempo fuori casa che dentro.
-Le è stato permesso?
-Lo faceva per lavoro.
-Quale lavoro?
-Si è sempre definita artista.
-E non hai pensato di sposarti? Così, per avere un punto fermo cui fare riferimento?
-Non ne ho l’età. Non ci si può sposare prima dei diciott’anni. E poi, non c’è mai stato nessuno che io abbia desiderato come marito.
-Nessuno nessuno? Nessun ragazzo?
-Qualche relazione c’è stata, ovviamente, ma mai di tipo così profondo da portare oltre. Non so se mi spiego.
-Ti spieghi.
Elemmire guardò Kili e cercò di sorridere anche se nel cuore sentiva che quella grossa ferita, richiusasi con così tanto tempo e fatica, minacciava di riaprirsi da un momento all’altro.
-Sai, su questo siamo così simili.
-Su cosa?
-Nessuno dei due ha conosciuto il suo vero padre.
-Per te è diverso. Tu sai che lui ti amava, amava tuo fratello, amava tua madre. E’ morto in battaglia per difendervi, per assicurarvi una dimora sicura! Se ne avesse avuta la possibilità avrebbe vissuto con te e ti avrebbe educato lui. Io ho passato l’infanzia mentre l’uomo che chiamavo padre mi ignorava e l’altro uomo che davvero mi è genitore non si è mai preoccupato di sapere come io e mia madre stessimo, di dove vivessimo.
-Magari nemmeno lui ne ha avuto la possibilità. Magari è morto anche lui.
Elemmire non aveva mai pensato all’evenienza. Rimase congelata.
-Tua madre non l’ha mai cercato?
-Non lo so… Mia madre faceva tante cose e non parlava mai con nessuno.
Kili rimase in silenzio, le sopracciglia aggrottate.
-Ti starà cercando ora, vero?
-Vorrei lo stesse facendo, ma ho l’impressione che sia più io a cercare lei.
-Oh avanti, sono certo che starà smuovendo tutta la Terra di Mezzo per ritrovarti.
-E io sono certa che non lo sta facendo. Non potrebbe. E’ morta.
Kili aprì due volte la bocca per ribattere, ma ogni volta rimase in silenzio. Un silenzio ghiacciato. Elemmire non piangeva perché il suo cuore era vuoto. Si chiese come potesse un aggeggio così inutile provare ancora sentimenti, quando per tanto tempo ne era rimasto privo. Amore, affetto, fiducia, lealtà, per lei rimaneva parole e concetti astratti. Non apparteneva a nessuno, e questo la rendeva ancora più vagabonda dei nani, perché non aveva nulla per cui valesse la pena lottare. Era senza radici. Un palloncino sospeso in aria.
Kili la guardò negli occhi. Aveva occhi bellissimi, grandi, verdi punteggiati d’oro. Sulle sopracciglia ancora aggrottate cadevano lunghe ciocche di capelli scuri e bagnati. Le sfiorò delicatamente il dorso della mano.
-Tu non mi capisci vero?- sussurrò Elemmire con gli occhi chiusi.
-No. Ma posso capire quello che provi, in parte. Posso capire il dolore della perdita. Non per la persona, ma per quello che la persona rappresenta.
Elemmire annuì con forza.
-E posso capire la sensazione di non appartenere a niente. Chi meglio di noi nani può capirlo?
-Voi vi appartenete gli uni gli altri. Tu appartieni a tuo zio, a tuo fratello.
-E tu appartieni a noi. Sei parte della compagnia.
-Non è così che funziona. Non sono un nano. Non ho nulla in cui ritrovarmi, nessuna identità culturale che mi ricordi quello che sono.
-Sei un’Umana e appartieni alla Terra di Mezzo. Non ti basta?
Vorrei fosse vero, pensò Elemmire.
-Non è così che funziona- ripeté.
-Spiegami allora, così posso aiutarti.
-Kili- Elemmire lo guardò in viso –Non puoi. Seriamente, non sono cose che si possono aggiustare con un colpo di martello o con delle parole. Nessuno può aiutarmi e devo imparare a convivere con questa sensazione. Anche se ti ringrazio per essermi stato a sentire.
Kili annuì:-Ti senti meglio almeno?
-Sì- ed era un sì sincero –Sono più leggera.
-Era questo che ti spaventava? Avevi paura io reagissi male se mi avessi raccontato la tua storia?
-Avevo paura dell’effetto che avrebbe potuto avere su di me.
-E che effetto ha avuto?
-Non sento nulla.
-Apatia.
-Preferirei mille volte il dolore. Mi farebbe sentire viva.
-Sai a cosa penso quando mi sento così, quando mi sento scoraggiato e morto dentro?
-A cosa?
-Alle persone che sto accompagnando. Mi rendo conto che non sto compiendo da solo questo viaggio. Che si tratti di Erebor o del semplice vivere la mia vita, so che ci sono persone accanto a me che mi vogliono bene e con cui ho passato momenti indimenticabili. Questo mi dà forza e mi aiuta a tirarmi su.
Elemmire rifletté un attimo su quelle parole.
-Funzionerebbe anche per me?
-Non so. Forse. Provaci. Hai un bel ricordo di casa tua?
-Preferirei molto più ricordare Gran Burrone, onestamente- Elemmire aveva la sensazione che in confronto alla Terra di Mezzo la sua vita fosse sempre stata monotona e grigia, eppure ne avvertiva la mancanza, in fondo.
-Eri sempre chiusa nelle tue stanze a Gran Burrone… Cosa facevi tutto il giorno?
-Leggevo. C’erano dei manoscritti meravigliosi.
-E’ questo il tuo bel ricordo?
-No. Stavo pensando a quando ho incontrato la Dama Galadriel. È stato il più bel momento della mia vita.
-Ti sei sentita come se qualcuno ti stesse sostenendo?
-Sì. Mi sono sentita parte di qualcosa di grande.
-Tieniti stretta quella sensazione. Non fartela scappare. Ti fa sentire meglio? Ti fa sentire confortata?
-Un pochino, sì.
Con un sorriso Kili si rituffò nel fiume. Elemmire lo seguì.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** non accettare cibo dagli sconosciuti ***


Un singolare spettacolo li accolse. I nani erano radunati in cerchio e accordavano i loro strumenti musicali.
-Kili, veloce, lumaca!- Fili lanciò al fratello il violino bianco e Kili, dopo averlo preso al volo, si sedette e iniziò ad accordarlo. Elemmire si sedette accanto a lui.
-So cosa sta per succedere- sussurrò Kili emozionato ed eccitato.
-E’ una specie di festa?
-Festeggiamo Thorin e la sua prima visita fuori dall’infermeria- sorrise Fili pizzicando le corde del suo violino.
-Assolo!- ordinò Kili e in perfetta sincronia i due nani iniziarono a provare un motivo dolce e semplice. I loro gesti erano perfettamente uguali, e ogni tanto si guardavano e sorridevano.
-Fermatevi!- li rimproverò Dwalin –Thorin non deve sapere… E’ una sorpresa.
-Non passereste inosservati durante una tempesta con tutto questo frastuono di voci, urla e strumenti- Gandalf si sedette con fatica poco fuori dal cerchio e tirò fuori la pipa.
-Dov’è, Gandalf? Arriverà?
-Si sta vestendo. Dategli tempo, per la mia barba, che fretta abbiamo?!
-Sta arrivando!- Ori sfrecciò fuori da un sentiero e si sedette per terra facendo gesti disperati perché gli mancava il fiato.
-D’accordo, Ori, afferrato il concetto. Al mio tre. Uno, due, tre!
Con perfetto tempismo Thorin si fece spazio tra gli alberi mentre i nani iniziavano a suonare un motivetto allegro e ballabile. Aveva il viso pallido ed emaciato, e capelli e barba erano opachi e mosci, ma sembrava stare bene. Indossava pantaloni di fustagno neri e attorno al torace nudo delle larghe bende bianche e rosse che lo ricoprivano quasi del tutto. Il suo viso era contratto, ma l’accoglienza gli fece allentare la mandibola serrata e appianò le rughe di fatica sulla fronte. Thorin Scudodiquercia sorrise con una dolcezza inimmaginabile che rese giovani e luminosi i suoi lineamenti austeri. Fu un attimo, un attimo che riempì Elemmire di strana malinconia. Poi il nano zoppicò e si trascinò fino a loro e sedette tra i suoi compagni. Si unì con la sua voce profonda al canto in lingua nanica e alla fine batté le mani tre volte.
-E’ bello vedere che state tutti bene- disse poggiando le mani sulle spalle di Kili e Fili. I due nani sorrisero e appoggiarono le loro teste sulle spalle di Thorin.
-E’ bello vederti in piedi sulle tue gambe- disse Fili.
-Ci hai fatti preoccupare ragazzo- borbottò Balin da sotto la barba candida.
-Thorin è forte come un toro e fermo come una quercia- Gandalf strizzò l’occhio a tutti loro –Anche se ora dovrà procurarsi uno scudo vero, visto che ha perso quello che gli ha guadagnato la gloria.
-Penseremo dopo alle armi. Abbiamo importanti vicende di cui discutere. Innanzitutto, il conteggio dei danni. Qualcuno di voi è stato ferito?
-Io mi sono spezzato il naso, ma Gandalf ha risolto la questione- borbottò Dwalin, toccandosi la punta del naso e risalendo il dito lungo il setto.
-Io ho delle cicatrici- Kili scoprì i polsi e li mostrò con orgoglio. Era molto fiero di portare dei marchi che dimostrassero come aveva preso parte al combattimento.
-Elemmire è stata un giorno e mezzo a letto, ma ora mi pare si sia perfettamente ripresa- concluse Gandalf accendendo la sua pipa e soffiando un anello di fumo.
-Molto bene. E le armi? Qualcuno ha perso le proprie?
Tutti i nani fecero di no con la testa.
-Possiamo passare subito al dunque, quindi. Gandalf mi ha assicurato che nel giro di dieci giorni sarò in grado di rimettermi in cammino e di affrontare una marcia; questo significa che tra dieci giorni esatti a partire da oggi riprenderemo il viaggio verso Erebor. La prossima tappa è il reame di Bosco Atro.
Un diffuso mormorio ruppe la quiete. I nani parlottavano tra loro.
-Sappiamo tutti chi governa il Bosco Atro- Thorin alzò la voce per farsi sentire –Il Re degli elfi silvani. Perfino Elrond ci ha consigliato di disturbarli il meno possibile. Tuttavia, il Bosco Atro è pieno di pericoli e insidie anche senza l’intervento degli incantesimi elfici. Perciò, chi di voi non si sente in grado di affrontarlo può dirlo ora, e nessuna vergogna gliene verrà. Siete stati dei compagni leali e affidabili, arditi, disinteressati, e avete la mia gratitudine, ma gli ultimi attacchi che abbiamo subito hanno messo a repentaglio le vite di tutti noi. Non voglio costringere nessuno a seguirmi. La scelta è nelle vostre mani, come lo è stata quando partimmo dalle Montagne Azzurre, e quando Bilbo Baggins si unì a noi. Io proseguirò e reclamerò Erebor, la mia patria, il mio trono di nascita, l’orgoglio della mia famiglia e della mia discendenza.
-Siamo con te. Siamo eredi di Durin anche noi- Kili non permise a Thorin di finire. Lui e Fili afferrarono con forza le braccia di Thorin e le strinsero.
-Anche noi siamo con te, ragazzo- Balin e Dwalin si accarezzavano le barbe.
-E noi- i tre fratelli Ori, Nori e Dori si alzarono e si inchinarono.
-E noi- Bofur allargò le braccia per indicare Bombur e Bifur.
-Pericoli, insidie, poche probabilità di ritorno… Cosa stiamo aspettando?! Siamo con te, Thorin Scudodiquercia- Gloin e Oin si inchinarono.
-Anch’io sono con te- Bilbo sedeva con portamento eretto e con il mento alto. Era un altro hobbit rispetto a quello che Elemmire aveva conosciuto. Un fuoco brillava nei suoi occhi.
-Non so se io verrò- Elemmire parlò per ultima –Il mio progetto originale era di seguire Gandalf perché mi scortasse a casa. E Gandalf non raggiungerà Erebor.
Gli occhi di Kili e Fili si sgranarono, ma Thorin annuì come se già avesse indovinato ogni cosa.
-In tal caso, hai dieci giorni per decidere, Elemmire, poi partiremo, senza te se questa è la tua scelta. Ti sei battuta coraggiosamente al nostro fianco e non dimenticheremo che una figlia d’Uomini ha affrontato i Mannari di Bolg il Pallido.
Elemmire chinò la testa con gratitudine e rispetto:-Io non dimenticherò la lealtà che i compagni di Thorin Scudodiquercia mi hanno dimostrato, e la loro audacia nel fronteggiare i nemici. Grandi ballate verranno scritte su questa avventura. E naturalmente, un posto non indifferente verrà riservato al più coraggioso hobbit della Terra di Mezzo.
Anzi, pensò Elemmire mentre sorrideva a Bilbo, ci scriveranno un libro apposta.
-Tutto molto bello e commovente- la voce di Beorn fece sobbalzare tutti quanti. L’enorme padrone di casa era appoggiato alla porta ed ascoltava –Ma che ne direste di apparecchiare la cena?
Subito i nani si mossero e in pochi minuti il lungo tavolo di Beorn fu riempito di piatti, bicchieri e vassoi. Fu servito arrosto di pernice in onore di Thorin e tutti mangiarono a sazietà innaffiando la morbida carne con il vino di Beorn. Una volta che il pasto finì si riunirono tutti attorno al fuoco e iniziarono a parlare. Dori rammendava i vestiti di tutti i compagni; ad un certo punto Nori si alzò in piedi, la barba a forma di stella che rifulgeva come in una fornace.
-L’avete mai sentita la storia di Mahal?- esclamò -No? Ve la racconterò allora. È una leggenda che risale agli inizi del mondo, quando la Terra di Mezzo era stata creata da poche ere. Guntera, l’Unico, l’aveva affidata agli Ainur, come li chiamano gli elfi.
-Un’altra favoletta elfica no!- protestò Kili.
-Fallo continuare, ragazzo- lo riprese Thorin –Elfi, nani e uomini, tutti condividiamo lo stesso passato in queste terre. Lingue e tradizioni possono renderci diversi, ma è la fede negli stessi dei e lo stesso patrimonio di leggende che rende possibile la nostra convivenza. Perciò ascolta: è la storia che ogni giovane nano ha imparato prima di te.
 C’era silenzio attorno al fuoco.
-Mahal era stato dotato da Guntera di tutte le abilità manuali. Era un fabbro e un maestro in tutti i mestieri di precisione e di costruzione. Suoi doni sono le gemme e i metalli, dal nobile oro al semplice ferro, dai diamanti preziosi ai cristalli iridei.
-Perché allora bisogna faticare tanto per estrarli, se sono un dono?- chiese Kili.
-Perché Mahal non è solo. Sua sposa è Yavanna, Regina di tutto ciò che cresce e della Terra, ecco perché il dono di uno si trova fermamente incastonato nel ventre dell’altra. Ora forse potrò andare avanti senza essere interrotto, eh? Si narra che in origine i nani furono creati proprio da Mahal nelle profondità della terra. Egli infatti sapeva della venuta degli Elfi e degli Uomini dalla mente di Guntera e voleva avere dei figli suoi da poter ammaestrare nelle sue arti e che lo venerassero. E siccome il potere di Bauglir, suo fratello, era ancora grande sulla terra…
-Bauglir il Nemico?- intervenne ancora Kili –Il Valar che si ribellò a Guntera?
-Figliolo, hai intenzione di parlare solo tu questa sera? Sì, quel Bauglir, l’Oscuro Signore. Le sue arti malvagie richiedevano forza ed inflessibilità, resistenza, decisione, fermezza e una lunga vita, e queste caratteristiche Mahal infuse nei nani. ma ovviamente nulla di quello che agiva era sconosciuto a Guntera, che gli si palesò e chiese perché mai avesse creduto di poter compiere qualcosa di nascosto da lui. Mahal allora si pentì per la propria presunzione e dopo aver chiesto perdono al padre alzò il proprio martello e fece come per colpire i  Sette Padri dei Khuzdul. Voleva distruggere l’opera scaturita dalla sua follia.
-Cosa lo fermò?- chiese Fili con discrezione.
-Guntera stesso lo fermò. Infatti egli ebbe compassione di Mahal e delle lacrime che stava piangendo, ma compatì anche i nani stessi che, a vedere il gesto, avevano chinato il capo implorando pietà. Così Guntera fermò il forte braccio di Mahal e accettò di consacrare l’opera delle sue mani in nome di quella vita che ora scorreva così forte dentro i Khuzdul; ma si rifiutò di apportare migliorie qualora Mahal le richiedesse e decretò che i Sette Padri dormissero nelle profondità della Terra finché il tempo non fosse stato maturo per la loro venuta, e che frequenti fossero le discordie tra questi figli della terra e i figli delle stelle, gli Elfi.
Nori si risedette e Beorn applaudì:-Voi nani avete sempre qualche bella storiella da raccontare. Ben fatto, mastro Nori.
Elemmire era rimasta accecata da una visione di enorme possanza. Aveva ascoltato qualcosa che le aveva riportato alla mente la differenza tra il mondo da cui proveniva e quello dove si trovava.  Per l’ennesima volta, sentì nostalgia dell’appartenenza ad una famiglia che non aveva mai avuto. Scosse la testa come per far evaporare quei pensieri e si sforzò di non sembrare triste.
-Elemmire, mia cara, posso chiederti di parlarti in privato?- Gandalf si avvicinò a lei e la guardò negli occhi.
Elemmire si alzò e seguì Gandalf all’aperto. La sera era fresca e il cielo violetto perché il sole era tramontato da poco.
-Posso sapere cosa avresti intenzione di fare una volta che Thorin si sarà ripreso?
-Non lo so, in realtà.
-Oh mia cara, lo sai benissimo, hai solo paura di dirlo ad alta voce.
Elemmire chiuse gli occhi e assaporò la brezza serale.
-Ho molti sentimenti contrastanti dentro di me. La verità è che questo viaggio, la missione di riconquistare Erebor, mi sta coinvolgendo. Ho combattuto al fianco dei nani, ho visto cose che nel mio mondo vengono catalogate con il nome di “fantasie inutili” e tutto questo mi piace. Mi sembra di essere nata per impugnare una spada, per marciare tra boschi e montagne. Ho avuto paura molte volte, ma non quel tipo di paura che fa rimpiangere di essere lì. Ho avuto paura perché era giusto e naturale che in certi momenti io avessi paura e questo mi fa sentire viva come mai mi è capitato nella mia vecchia vita. Gandalf, ci sono avvenimento tristi e oscuri che mi legano al mio vecchio mondo, avvenimenti che riesco a dimenticare se ascolto le leggende dei nani o se nuoto nei ruscelli. E poi ho avuto un’intuizione. Galadriel ha detto che sono qui per uno scopo, bene, credo che lo scopo sia accompagnare i nani fino ad Erebor. Non so cosa stia per accadere, ma sento che il mio posto è lì. Probabilmente anch’io sono in missione per conto di me stessa, e ancora non lo so, e una volta compiuto tutto quanto un Portale si aprirà da solo per riportarmi indietro. Io voglio vedere la Montagna Solitaria. Voglio ascoltare i passi di Thorin mentre conquista il suo trono, diritto di nascita. Lo voglio, ne sento il desiderio nel mio cuore.
-Ed è il tuo cuore che tu devi seguire, ma anche la tua mente. Se venissi uccisa durante la riconquista?
-Allora vorrebbe dire che era destino che finisse così.
-Rispetto la tua decisione con tutto il cuore. Non sei più la stessa umana che ho conosciuto nella Contea, ma sospetto che il cambiamento sia solo all’inizio. E non sarà certo per il peggio. Comunque sia, ricordati che se dovessi cambiare idea io partirò la mattina del decimo giorno all’alba.
-Non penso cambierò idea, Gandalf- Elemmire alzò la tesa verso il cielo e vide le prime stelle fare capolino. E ad un certo punto, una stella bianca e sfolgorante come mai aveva visto sorse dall’oscurità e si incastonò nel cielo come un diamante.
-Ammira Elemmirё, la stella dell’autunno. Brilla solo nelle ultime due settimane d’estate. Gli elfi dicono che sia una lacrima di Elentarì, la creatrice del mondo, rimasta impigliata tra le ciglia del cielo. E festeggiano la sua apparizione con canti e balli.
Elemmire aveva occhi solo per la stella. Da quando Aranwe gliene aveva parlato, non aveva desiderato altro che poterla vedere. Ed ora che era davanti ai suoi occhi, la sua luce la permeava. Elemmire si sentì il cuore invaso da un calore mai provato prima, un calore diverso da quello di un fuoco. Il calore di un abbraccio materno. Per un attimo la stella prese forme umane, quelle di Dama Galadriel, e i suoi raggi furono braccia tese verso di lei. Elemmire sentì le lacrime sgorgare e rigarle le guance mente contemplava il suo destino scritto nel cielo. Ogni indecisione fu lavata via, ogni tristezza e malinconia fuoriuscirono da lei con il pianto liberatorio, e gli spazi lasciati liberi si riempirono di coraggio e di determinazione. Elemmire si sentì forgiare nel cuore un’armatura di argento che nulla avrebbe potuto intaccare, e che tuttavia pesava meno della solitudine e dell’ombra che l’aveva sempre avvolto, e lo faceva respirare ad ampie boccate. E una fiamma si accese in lei dov’era sempre stato un angolo freddo e vuoto. Dove c’erano perdita e rancore sopraggiunsero passone e fiducia. Ed Elemmire si sentì pronta per affrontare una volta per tutte la riconquista di Erebor. Prese la sua decisione e se la tenne stretta. E, quando si girò per guardare Gandalf, lo stregone era scomparso.
Elemmire sognò Galadriel quella notte.
Camminava scalza su un tappeto di erbe e piccoli fiori bianchi e la sua veste era del colore delle foglie giovani e dei boccioli ancora in fiore. Argento pendeva dai suoi polsi e dal morbido collo.
-Ti avevo detto che ci saremmo incontrate ancora. Dovevi solo aprire il tuo cuore.
L’elfa sorrise e le tese la mano.
-Il tuo destino è scritto nel cielo, nelle stelle e sulla nuda terra, ma non sarai mai sola. Io veglio su di te. Non avere mai paura. Finché la luce di Elemmire renderà chiaro il cielo nessuna oscurità potrà farti del male perché in te hai la fiamma degli Eldar.
Elemmire si svegliò di primo mattino senza ricordare nulla, ma con un sapore dolce in bocca. E un nuovo mondo sotto gli occhi.
 
-Parlami di voi. Tanto pare che non ci sia molto da fare in questo caso.
Kili soffiò una folta nuvola di fumo. La sua pipa era tutta di rame brunito con un uccello affusolato attorno al focolare. Si trovavano vicino ad una delle porte della casa di Beorn e la luce del mattino entrava con prepotenza inondandoli d’oro. Appena in piedi Elemmire aveva offerto a Dori la sua disponibilità per aiutarlo a rimettere in sesto i vestiti dei nani e il nano aveva accettato con gioia. Adesso stava rammendando un pesante e morbido cappotto di lana marrone mentre Dori, qualche passo fuori dalla porta, strofinava la tunica blu di Kili in una tinozza piena di acqua e sapone. Il legittimo proprietario dell’indumento sedeva sulla soglia e fumava avvolto in una coperta scura. Solo gli avambracci virili e abbronzati ne fuoriuscivano, assieme al viso e al collo. Anche Elemmire aveva ricevuto un cambio di vestiti quella mattina e indossava una sottana di tela grezza lunga fino al ginocchio e un gilet intrecciato.
-Cosa vuoi che ti dica?
-Questo per esempio, a chi appartiene?
Kili guardò il cappotto per un po’, poi disse con sicurezza:-Oin, figlio maggiore di Groin, figlio di Farin, figlio di…Borin, penso che si chiamasse così. Soddisfatta?
-Il nano sordo? Quello con il corno auricolare?
-E i capelli che sembrano vello di pecora. Esatto.
-Senti chi parla di capelli come velli- una voce sorprese Elemmire alle spalle e le fece fare un salto.
-Fili, l’hai spaventata- Kili soffiò del fumo verso il fratello che si appoggiò allo stipite.
-Non cambiare discorso Kili, da quanto tempo non spazzoli i tuoi di capelli?
-Non sono certo affari tuoi!
-Scommetto che ci troverei un nido di passeri in mezzo da qualche parte.
-Fili, stai zitto.
-O forse due nidi. Le scommesse sono aperte, Elemmire.
Kili si rivolse al fratello nella loro lingua, e nonostante alle orecchie di Elemmire ogni cosa in nanico suonasse dura e sconcertante, quella precisa frase sembrò davvero un verso, come una specie di ringhio gutturale. Avrebbe scommesso che il significato non fosse molto più delicato. Elemmire si limitò a sorridere con complicità e domandò:-Oin è il fratello maggiore di Gloin?
-Solo di nome, credimi. Non troveresti due persone più diverse sulla faccia della Terra di Mezzo- disse Fili cercando qualcosa nelle tasche della sua tunica verde marino. Anche lui aveva ricevuto vestiti puliti da Beorn. Ne tirò fuori un pettine di legno e nonostante il fratello si divincolasse iniziò a spazzolare i capelli di Kili, che erano lunghi oltre le spalle, folti e castano scuro. Ad ogni nodo brutalmente strappato Kili mugolava tra i denti e cercava di prendere a gomitate Fili.
-Oin è un visionario, sai, un medico. Sa tutto delle piante e dei fenomeni naturali, passa ore camminando nei boschi e raccogliendo fiori ed erbe che poi cuoce da qualche parte. Ha aiutato di persona Gandalf a medicare Thorin e ogni tanto, se è di buon umore, condivide qualche trucco del mestiere su come trattare i lividi e le scorticature. Ha curato in un batter d’occhio i polsi di Kili.
-Naturalmente i nani hanno un recupero veloce, velocissimo, ed è tutto naturale, senza trucco e senza inganno- Elemmire cercò di rimanere seria mentre prendeva in giro Kili e ricordava le parole del nano alcuni giorni prima.
-L’hai detto davvero, Kili? L’ha detto? Oh ma che enorme balla!- Fili scoppiò a ridere e Kili arrossì fino alla punta del naso –Prenderti il merito delle lozioni del vecchio Oin, dovresti vergognarti fratello.
Kili si morse il labbro e guardò Elemmire che scoppiò a ridere. Allora il viso del nano si aprì in un sorriso altrettanto grande e ampio e le strizzò l’occhio. Fili rimise a posto il pettine e iniziò ad intrecciare i capelli di Kili.
-Non ancora la storia delle trecce, ti prego!- Kili ormai appariva rassegnato. Elemmire sospettava si stesse divertendo in fondo.
-Perché ti ostini a portarli sciolti? Sembri un elfo. Non lamentarti poi se nessuna ragazza ti prende sul serio. Ragazza dei nani, le orecchie-a-punta non valgono.
-E invece Gloin com’è?- chiese Elemmire alzandosi in piedi e guardando il cappotto rammendato. Passò a spazzolare gli stivali, che nel caso di Oin erano bassi e imbottiti di pelliccia. Il piede del nano era lungo quasi quanto il suo avambraccio.
-Gloin è...come lo definiresti Kili?
-Arrabbiato. Non l’ho mai visto sorridere. Non è un compagno allegro. Anzi, è spesso così cupo e aggressivo.
-E’ orgoglioso- disse Fili –E feroce in battaglia, ma è il nostro deposito. Ha finanziato la missione e quindi tiene un sacco alla sua riuscita. Controlla le finanze di Thorin e senza lui saremmo persi, immagino. E poi è sposato, avrà un lato dolce anche lui.
-Sposato? E ha lasciato la moglie da sola?
-No, non sola, con il figlio.
-Con che coraggio?
-Con la lealtà che deve a Thorin. Ha risposto alla chiamata. Anche Gimli, il figlio, voleva venire con lui ma è ancora troppo giovane. Nemmeno settant’anni, credo.
Elemmire aveva una chiara idea di come il figlio di Gloin dovesse essere: capelli e barba dello stesso rosso sfavillante, lo sguardo un po’ truce e la stessa ascia ricurva in mano.
-E’ un piacere avervi qui ragazzi- Dori tornò con il catino in mano e la fronte coperta di sudore –Scusatemi tanto, scusate, Elemmire prenderesti quel mantello lì? Quello rosso, sì. No, no, non quello lì, quell’altro rosso con i bordi di pelliccia. Il mantello di Gloin, sì. O grazie cara.
-Come fanno a non confondersi tra loro?- Elemmire si destreggiò in modo pessimo tra i due mantelli e rivolse uno sguardo imbarazzato ai nani.
-Quello di Balin ha la sua firma sopra. Guarda- Kili le protese un lembo di stoffa ricamato con rune affusolate color rame. Elemmire finse di capire la scrittura e chiese:-Balin ha studiato molto?
-Più di chiunque altro tra noi, ed ha un mucchio di esperienza. Ha combattuto a Moria quasi cent’anni fa insieme al fratello Dwalin.
-Quello con il cranio tatuato e il mantello di pelliccia?
-Dwalin è il luogotenente del nostro esercito, un pezzo grosso. E’ lui che ci ha insegnato a combattere, quando siamo cresciuti troppo perché Thorin si potesse occupare di noi a tempo pieno. Per Thorin è come un fratello, anche se in realtà sono cugini, e nessun’altro è così vicino a lui emotivamente. Pensa che quando Thorin all’inizio propose la riconquista di Erebor Balin era molto riluttante. Credeva che fosse uno spreco di vite, visto che ci eravamo sistemati benone sulle Montagne Azzurre. Credo che anche Dwalin lo pensasse in fondo, ma contro ogni razionalità e contro anche l’opinione del fratello maggiore ha dichiarato la sua lealtà a Thorin chiamandolo “mio re”. Si sono incamminati da soli, loro due, determinati a raggiungere Erebor, e a Balin è toccato radunare tutti noi e inseguirli, letteralmente, correndo.
-Non troverai mai qualcuno devoto a Thorin come il vecchio Balin- Fili aveva lo sguardo pieno di affetto –E’ sicuramente scettico e forse avrebbe preferito rimanere al caldo sulle Montagne Azzurre, ma ora che si è fatto avanti dovranno passare sul suo cadavere prima di fare del male a Thorin.
-E’ ammirevole come tutti si preoccupino di Thorin, gli giurino fedeltà- Elemmire si disse che il re dei nani doveva avere delle doti di leader irresistibili per riscuotere un successo così ampio.
-Il comando è nel sangue di nostro zio come lo era in quello di Durin. E poi il nome di Thorin è tutto una partita col destino.
-Cosa vuol dire?- chiese Elemmire, completamente dimentica del soprabito di pelle che stava lucidando.
-Colui che osa. Ovviamente che osa fare quello che altri non farebbero, cioè reclamare la nostra patria.
-Tutti i nomi dei nani hanno un significato vero?- chiese Elemmire timidamente.
-Certo. Fili significa lima. E’ un nome comune tra i nani, riporta agli strumenti del lavoro.
-E Kili?
-Cuneo da roccia- il nano sorrise sfacciato –Ero un portento già da piccolo.
-Dovresti chiamarti “ableph” allora. Vermiciattolo.
Kili colpì il fratello con un cintura che stava lucidando e le treccine in testa ondeggiarono.
-Via, via ragazzi, non fatevi male- Dori stava stendendo ad asciugare su un ramo, accanto alla tunica di Kili, il mantello di Gloin –Perché non rientrate e iniziate a preoccupavi dei bagagli? Partiremo tra pochi giorni e per quel momento tutto deve essere pronto prontissimo.
-Lucidiamo le pentole di Bombur, che dici?- propose Kili alzandosi in piedi. Aveva ancora pochi ciuffi sciolti che ricadevano attorno al viso.
-Bombur ha davvero portato con sé delle pentole?
-Guardare per credere.
I nani condussero Elemmire in un angolo dove erano ammassati oggetti di stagno brunito. C’erano bracieri di ogni dimensione e forma, pentole, pentoloni e pentolini, piatti e coppe e posate dove la compagnia aveva mangiato e bevuto per tutto il viaggio.
-Credevo che tutti i bagagli fossero andati perduti quando i goblins ci hanno attaccati.
-E allora Gandalf che ci starebbe a fare? Ha recuperato ogni cosa.
-Mettiamoci all’opera- disse Fili –Il lavoro è lungo.
Elemmire prese per sé un calderone con grossi manici per appenderlo su uno spiedo e tenerlo sospeso sul fuoco, lo trascinò fino a fuori e iniziò a lavarlo con acqua e sapone, strofinandolo con le mani e con delle vecchie spazzole che gli aveva dato Dori. Fili si mise ad affilare tutti i coltelli, e ve n’erano quasi due dozzine, mentre Kili si occupava dei mestoli di legno scheggiato. Elemmire sorrideva e si guardava intorno, beandosi della quiete del lavoro. Finiti i coltelli, Fili iniziò ad affilare le armi dei nani. Elemmire venne ripresa due volte da Dori perché si era fermata a guardare trascurando le pentole. Ogni nano aveva dato un tocco personalissimo alle sue armi: il vecchio Balin aveva una spada che sembrava una mazza, con la punta terminante in tre spuntoni affilati; Dori impugnava una specie di frusta a tre braccia con alle estremità legati dei pesi coperti di borchie puntute; in un angolo c’era una lunga lancia da cinghiali.
-Quella di chi è?- chiese Elemmire tra un calderone e l’altro.
-Bifur. Quello…- Fili ruotò un dito vicino alla testa.
-Ha subito un trauma cranico o roba simile. Un Orco gli ha conficcato un’ascia nella testa e non si è potuto estrarla dalla ferita senza farlo morire dissanguato, così lui è sopravvissuto con l’arma piazzata nel cranio e ora parla solo nanico- Kili sospirò –Poveraccio. I suoi cugini, Bofur e Bombur, se ne prendono cura come possono. In realtà non è difficile stargli dietro, se sai come calmarlo quando gli prendono i cinque minuti. Lui si siede in un angolo con coltello, spago e un pezzo di legno e fabbrica giocattoli. Ed è maledettamente bravo.
-Giocattoli? Per bambini?
-Elemmire, ma dove vivi? Da dove pensi che provenissero i giocattoli con cui giocavi da piccola? Sono tutti prodotti nanici.
Elemmire dovette integrare l’immagine che si era fatta della compagnia come un gruppo di guerrieri fieri e potenzialmente letali con l’idea che fossero minatori, giocattolai, ladri, un po’ fuori di testa e con tanti difetti. Eppure questo rendeva tutto più bello. Rendeva le persone con cui viaggiava vere. Chissà perché non si era mai interessata prima di conoscere le loro storie. Adesso voleva saperle. Voleva sapere come Bifur aveva ricevuto la sua ferita e cosa aveva fatto diventare Dori così pesante, e come era morto il padre di Kili e Fili e come Gloin aveva conosciuto la moglie. Voleva sapere tutto. E capì il bisogno intrinseco e naturale che aveva anche Kili di sapere tutto di lei.
Quando il sole passò lo zenit e iniziò a scendere il lavoro fu sospeso per il caldo. I nani, Bilbo ed Elemmire si riunirono nella casa di Beorn e brindarono con fresco vino aromatizzato ai frutti di bosco servito in boccali di legno.
-Vieni Elemmire, ti faccio vedere le stalle.
Kili la guidò attraverso il dedalo di edifici di legno che sorgevano attorno alla casa di Beorn.
-Quella è la farmacia, e affianco l’infermeria. Poi c’è la casa delle api, più in là il pollaio, e qui il recinto delle capre- il nano si muoveva con dimestichezza. Superarono anche l’orto ed il frutteto e videro un lungo e basso edificio di legno e paglia. Il pungente odore di cavalli era ovunque e mosche grandi come vespe svolazzavano pigre.
-Tiro a indovinare, sono le stalle.
Kili spinse con una spallata la grande porta e il calore e la penombra avvolsero entrambi. Le stalle erano lunghe parecchi metri, pulite e ordinate come Elemmire non ne aveva mai viste. Camminava su uno spesso strato di paglia pulita e osservava estasiata le bestie di Beorn che mangiavano pacificamente o sonnecchiavano.
-Se ci cadesse una scintilla, questo posto brucerebbe in un batter d’occhio.
-E’ per questo che Beorn non vi tiene lanterne- Kili le mostrò dei ganci di ferro arrugginito, vuoti –Visto? Non corre il rischio.
Elemmire allungò la mano verso il muso di un cavallo pezzato bianco e nero. L’animale fremette sotto il suo tocco ma non si ritrasse.
-Sono così docili.
-Sono ben addestrati. E poi quella è una giumenta, il fuoco non è nel suo temperamento.
Kili si avvicinò ad un cavallo nero che scuoteva la testa.
-Questo. Questo è un diavolo.
-Lo hai cavalcato?
Rossore si diffuse sulle guance di Kili:-No. Non ne sono in grado, è troppo alto. Ma ho ascoltato Gandalf che ne parlava con Beorn.
Lo stallone gonfiò il petto e nitrì scoprendo i dentacci ingialliti.
-Mi sa che non gli andiamo a genio. Hanno dei nomi?
-Sicuro, ma io non li so. Io e Fili ne abbiamo ribattezzati alcuni. La pezzata è Alqua, che significa cigno. La puledra bianca che le sta affianco è Beleg, la possente, perché è nata da poco ma è già molto alta e forte. Il roano invece è Cul. Cul è come noi nani definiamo il colore del suo mantello: rosso dorato.
-E questo?- Elemmire avvicinò un grande cavallo pomellato, grigio e bianco.
-Draug. Il lupo. Il suo manto ha lo stesso colore dei lupi selvatici delle Montagne Azzurre.
-Ce ne sono tanti?
-Ovunque. La sera zio Thorin ordinava di chiudere le porte e metteva sentinelle sulle mura con delle fiaccole. I lupi arrivavano fin nel cerchio di luce dei fuochi.
-Ed erano lupi veri o…
-Lupi veri. I Mannari sono creature che solo gli Orchi allevano, e sulle Montagne Azzurre nessun Orco osa più mettere piede.
-Chi è rimasto nella vostra città ora che voi siete partiti?
-Le donne, i bambini, quelli che non hanno seguito Thorin. Mia madre Dis svolge la funzione di principessa in esilio e amministra la giustizia.
-Cosa vuol dire esattamente Dis?
-Mia madre è la minore dei figli di Thrain e una profezia, alla sua nascita, disse che sarebbe stata origine della luce per il mio popolo. Così Thrain la chiamò Dìs, stella.
-E si è poi avverata?
-La profezia, dici? E’ presto per sapere, ma è per questo che Thorin le ha affidato il governo della città in sua assenza.
-E tuo padre? Come si chiamava?
-Farin, la riva risuonante. Era un guerriero micidiale.
-Cosa ricordi di lui?
Kili si appoggiò ad un pilastro di legno e abbassò lo sguardo:-Ricordo la sua armatura. Nessuno riuscì a recuperarla dal campo di battaglia ma era un gioiello. Acciaio brunito che scintillava rosso e azzurro, e inserti d’oro ovunque. Non c’era una parte del suo corpo scoperta. E ricordo la sua ascia. Per la barba di Durin! Era enorme. C’era un cristallo azzurro incastonato sulla punta ed era tutta di acciaio, come l’armatura.
-Com’è morto?
-Dopo la battaglia di Azanulbizar le lotte tra Orchi e nani continuarono per decenni. Mio padre venne mandato in spedizione come comandante contro uno squadrone proveniente da Sud. Non tornò più. I pochi sopravvissuti del suo reggimento dissero che era crivellato di frecce nere quando si accasciò a terra. Gli Orchi si accanirono su di lui, non fu possibile nemmeno portare indietro la testa. E’ tradizione che le vedove seppelliscano la testa dei loro mariti in un vaso e vi facciano crescere un albero. Mamma voleva piantarci un olmo, ma non le fu possibile.
-Pensi mai a cosa direbbe se ti vedesse ora?
-Certo che lo penso- Kili sorrise –Sarebbe fiero di me e Fili, ne sono certo.
Elemmire si sedette sulla paglia accanto a Kili.
-A volte penso che mia madre disapproverebbe quello che io faccio.
-E’ per via del fatto che viaggi con tredici nani?
-No, no, ma cosa dici? Ne sarebbe felice, solo che non vorrebbe che io venissi fino ad Erebor con voi.
-Come si chiamava tua madre?
-Angrid.
-E te la ricordi bene?
-E’ morta solo due anni fa. Ricordo ogni singola parte di lei. Aveva capelli biondi come il grano. Li teneva sempre legati perché non voleva le dessero fastidio. Ed era bellissima, dalla carnagione bianca e compatta, il naso dritto e un viso meraviglioso, espressivo. Non mi sono mai chiesta come mio padre si fosse innamorato di lei. Era perfetta. Aveva gli occhi del blu più profondo che io abbia mai visto.
-Come te insomma. Cioè, non fraintendere, volevo dire che anche tu sei chiara di carnagione e hai gli occhi azzurri e il naso dritto. Questo intendevo.
-Non aveva mai tempo per stare con me. Il lavoro la portava sempre lontana da dove ero io, ma quando era a casa, quando c’era, mi dedicava ogni briciolo di attenzione possibile. Mi intrecciava i capelli e diceva che li avevo ripresi tutti dalla sua famiglia, che in realtà non ho mai conosciuto. A volte mi portava nei boschi e camminavamo per ore ascoltando la natura.
-Ti manca molto, vero?
Elemmire rimase ferma, sopraffatta dal dolore. Sentì le lacrime che iniziavano a premere conto i suoi occhi.
-Da morire- sussurrò. Iniziò a piangere in silenzio coprendosi con i lunghi capelli per non farsi vedere.
-Ehi, coraggio- Kili le mise un braccio attorno alle spalle e la tenne stretta. Elemmire sentì il profumo che emanava dalla veste del nano. Sapeva di sudore e violette selvatiche. Le forti braccia di Kili la circondarono un po’ impacciate e il nano, con la voce tremante d’imbarazzo, le disse:-Avanti, Elemmire, non farmiti vedere così.
-Sto bene. Sto bene- si asciugò le lacrime con il dorso della mano.
-Tu sei fortunata. Hai condiviso con tua madre dei bei momenti, hai qualcosa di solido e concreto per poterla ricordare. Io ho solo visioni e racconti. Non ho mai conosciuto come mio padre fosse realmente, posso solo cercare di seguire quello che gli altri dicono sia stato il suo cammino. Lo sai, voglio dirti una cosa. C’è chi sospetta che anch’io sia un figlio illegittimo.
Elemmire spalancò gli occhi.
-Pazzesco no? Alcune voci maligne dicono che mia madre se la sia fatta con un Umano.
-E’ totalmente inverosimile, da cosa prendono spunto queste voci?
-Dal fatto che mio padre, nel periodo compreso tra la nascita di Fili e la mia, mancò da casa quasi tutto il tempo. Molti dicono che dovrei essere biondo come lo è Fili e avere la sua costituzione massiccia, altri ancora si chiedono perché io sia molto più alto degli altri nani della mia età e perché mi piaccia portare la barba corta come la portano gli Uomini.
-E’ ridicolo, sarebbe come insinuare che Dwalin e Balin non sono fratelli perché uno ha gli occhi neri e l’altro gli occhi verdi!
-E’ quello che dico io, benché Balin e Dwalin siano così diversi che, per quello che ne sappiamo, potrebbero davvero essere figli di due padri diversi.
Elemmire sentì affiorarsi sulle labbra un sorriso:-Siamo così simili, io e te.
-Spero proprio che tu stia scherzando. Io non assomiglio a un elfo.
-Ma nemmeno a un nano.
Kili si girò di scatto e con uno spintone la buttò nella paglia. Elemmire lo tirò verso di sé e caracollarono entrambi tra le gambe di Draug, il pomellato, che si imbizzarrì e iniziò a scalciare. Uscirono illesi per miracolo dalle stalle e con i capelli pieni di fili di paglia e sterco equino, eppure risero a crepapelle finché non raggiunsero di nuovo la casa di Beorn.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** bianca come le stelle ***


La sera, come consuetudine, i nani si riunirono attorno al falò. Decisero che a turno ognuno di loro avrebbe raccontato una storia. Beorn li servì con del latte di capra appena munto nei boccali di metallo. Il primo a iniziare fu Bofur:-Potrei continuare la storia di ieri e raccontarvi come l’amicizia tra i Khuzdul e gli Eldar fosse una volta fruttuosa e pacifica. A patto di non venire interrotto per nessuna ragione al mondo.
-Non posso prometterlo- rispose Kili bevendo dal suo boccale e lasciandosi due baffi bianchi sulle labbra sorridenti.
-Le nostre maggiori città sono Gabilgathol e Tumunzhar, sui Monti Azzurri. Ebbene, non vi parrà inverosimile che questi nomi siano noti agli elfi fin dalle epoche più remote. Bisogna innanzitutto dire che la terra che ora chiamiamo Forlindon era in passato molto più vasta e solcata da grandi fiumi. Uno di questi, l’Ascor, scorreva tra le due città dei nani; e sulle sue rive fu costruita la prima strada che sia mai comparsa sulla Terra di Mezzo. Seguendo il corso dell’Ascar fino al Guado delle Pietre i primi Khuzdul penetrarono nella terra degli elfi che loro chiamavano Beleriand e così le due razze vennero a conoscenza. Parlavano però lingue molto diverse, giacché quella dei Khuzdul era stata insegnata loro da Mahal e l’idioma degli elfi derivava invece da colui che chiamano Manwё. Tuttavia, i nani impararono in fretta la lingue elfica e presto re Thingol del Doriath chiese loro aiuto. Sua moglie era infatti Melian, che per natura divina aveva il dono della preveggenza e sapeva che, nonostante sembrasse assopito, Bauglir avrebbe presto attaccato le terre dell’ovest.
-I nani aiutarono gli elfi?- chiese Elemmire stringendo il suo boccale tiepido tra le mani.
-Puoi giurarci. Melian insegnò loro molte tecniche e anche a lavorare oro e argento, mentre Thingol li ricompensò con gemme di straordinaria bellezza e perle gigantesche e preziosissime. Allora i nani costruirono per Thingol le Mille Caverne nella profondità della terra, dove il fiume che chiamavano Esgalduin aveva scavato enormi grotte. Modellarono pilastri a guisa di faggi e altre piante e costruirono un ponte di pietra sopra il fiume, unico collegamento tra le sale sotterranee e la foresta. Costruirono anche lampade d’oro che catturavano la luce delle stelle e fontane d’argento e marmo, pavimenti intarsiati di mosaici e figure scolpite nelle pareti.
-Dev’essere stato meraviglioso…
-E non è finita qui. Quando gli Orchi di Bauglir iniziarono a penetrare nel Beleriand, come Melian aveva previsto, Thingol ricorse di nuovo alla maestria dei Khuzdul per forgiare delle armi. Gli elfi dei boschi si ritengono i discendenti dei migliori artigiani della Terra di Mezzo; ma nella tempra dell’acciaio, nell’assemblaggio di cotte di maglia inanellate, nessuno ha potuto e potrà mai superare noi nani.
La Compagnia urlò con una sola voce.
-Non crediate che si fermi solo alle opere delle incudini la profonda riconoscenza che gli elfi devono a noi nani- continuò Fili, assunta l’aria un po’ baldanzosa da narratore d’esperienza –Tutti sanno che il primo drago di Bauglir fu ucciso da Azaghâl dei Monti Azzurri.
-Il primo, ma non l’unico, anche se in seguito i discendenti di quella bestia non dimenticarono l’affronto subito dai nani- disse Balin –I draghi saccheggiarono così spesso i Tesori dei nostri Sette Padri che davvero quello di Erebor è l’unico che rimane intatto. E se volete, vi racconterò un’altra storia, che non prende piede dalle leggende ma dalla pura verità. Bauglir aveva un servo, un servo malvagio e perverso quanto lui il cui nome, che non è bene pronunciare qui, vuol dire l’Aborrito; e il soprannome di cui usava fregiarsi è il Signore degli Anelli. Questo perché aveva forgiato degli anelli d’oro che distribuiva ai suoi servitori per irretire le loro menti e controllarle. Sette ne donò al nostro popolo, uno ad ogni principe. E se per natura il cuore di un nano è difficile da sondare e non può essere dominato da alcuna forza al di fuori della volontà, la mente si rivelò fragile e gli Anelli avvelenarono i loro portatori con brame di tesori inenarrabili e fosca ira. Queste ombre che si addensavano sopra le gemme attirarono i draghi del nord. E Thror, padre di Thrain, padre di Thorin, fu un portatore dell’Anello. Aveva assistito al declino di tutti gli altri principi e re, ma questo non valse ad allontanarlo dal monile. Con esso Thror accumulò un tesoro ben più grande di quello di chiunque altro nano, escluso forse Durin stesso, prima di lui. E per la sua ostinazione e la sua bramosia fu giusto che su di lui cadesse la sciagura più grande. Ruppe l’alleanza con gli elfi: le loro stanze nelle foreste avrebbero forse potuto ospitare il nostro popolo. Ma fummo costretti a viaggiare raminghi, e a vedere le nostre donne e i nostri bambini morire di stenti. A questo porta la fame dell’oro.
 -Questo non è vero, cugino Balin- Thorin intervenne con fermezza. Stava fumando la sua pipa.
-Neghi forse che la Bestia sia calata dal nord attirata dalle ricchezze di tuo nonno? Che quella stessa ricchezza lo abbia avvelenato al punto da fargli dimenticare le alleanze e le promesse?
-Di nostro nonno. Lo era al pari tuo. E no, non pretendo di negare l’evidenza. Ma non sono d’accordo sui patti. Mio nonno ha rispettato il volere degli elfi fin dove a potuto, finché loro non hanno iniziato a pretendere invece di chiedere e a entrare nella montagna invece che esserne accolti. La colpa dell’infedeltà ricade solo sulla loro arroganza.
Thorin si stava accalorando e i nani iniziavano a parlarsi sopra a vicenda.
-Vieni, usciamo fuori- le propose Kili –Qui tra poco voleranno pugni e parolone grosse.
Si alzarono in silenzio e sgattaiolarono fuori dalla casa. L’aria era fresca. L’estate declinava alla fine ed Elemmire, la stella dell’autunno, era un occhio limpido acceso nel cielo nero.
-Guarda Kili, la vedi quella stella lì? Quella bianca e luminosa come una luna?
-Sì, la vedo. È enorme.
-E’ la stella dell’autunno. Compare nel cielo solo durante l’equinozio e resta accesa per una decina di giorni. Da lei deriva il mio nome.
-Hai il nome di un stella?- Kili si sedette sulla scale accanto a lei e alzò il viso in aria.
-Brillava nel cielo il giorno dei mio compleanno. Kili, domani avrò raggiunto l’età adulta.
-Continui a sorprendermi oggi. Cosa ti è successo? Parli senza che io debba puntarti una tenaglia alla gola.
-E’ che ho capito tante cose quando ho visto per la prima volta Elemmire nel cielo. Ho capito che il mio destino è segnato e imperturbabile come il moto delle stelle. Nulla di quello che farò lo potrà cambiare e perciò le mie paure e le mie reticenze sono infondate. Ho capito che avrò paura di farmi conoscere finché avrò paura di me stessa, e che accettarmi è il primo passo per farmi accettare. E poi, senza te con cui parlare, mi sentirei mostruosamente sola.
-Lo sai, non è mai successo che potessi parlare con tanta libertà ad una persona che non fosse Fili. Quando sto con te è come se le parole uscissero da sole. Sento che posso fidarmi, che puoi capirmi.
-Io sento la stessa cosa. Lottavo divisa tra l’abitudine a nascondermi e il desiderio di non farlo più. Almeno con te, per ripagare la tua fiducia.
Kili iniziò a giocherellare con un sasso, a lanciarlo in aria e a riprenderlo sul dorso della mano, ma Elemmire a mala pena lo vedeva. Stava con il naso all’insù per ammirare le stelle. Un pensiero folle le balzò alla mente.
-Vieni Kili, alzati.
-Dove andiamo?
-In un posto. Ho voglia di contare tutte le stelle stanotte.
Elemmire ricordava diverse radure a poca distanza dalla casa di Beorn, scoperte durante i precedenti giorni di esplorazione. Una di esse era in cima ad una specie di collinetta erbosa e avrebbe fatto al caso suo. La raggiunsero mentre un piccolo spicchio di luna tramontava oltre le montagne. Elemmire sentì crescere nel suo cuore il richiamo della libertà. Si stese sull’erba morbida, ancora verdeggiante, e fissò il cielo. Milioni, miliardi di stelle spruzzate ovunque, lentiggini sulla faccia dell’universo. La rugiada le bagnò le braccia. Avvertì un tonfo leggero dietro di sé: Kili si era sdraiato in senso contrario e ora la fissava. Nei grandi occhi si riflettevano secoli di costellazioni e di diamanti.
-Conosci il nome di quale figura?- chiese Elemmire.
Kili alzò lo sguardo. In silenzio sbatté le palpebre un paio di volte e poi iniziò:-Lì c’è il cavallo. La testa punta sempre il Sud, verso il regno di Rhoan. Quelle due sono le campane, e servono per individuare la costellazione degli amanti. Quando Guntura, il re degli dei, si unì a Kilf, sua moglie, uno spruzzo del suo seme cadde nel cielo e formò queste stelle bianche e così strette tra loro che sembrano due amanti che si abbracciano, se le guardi da una certa angolatura. Di solito le donne che non riescono ad avere figli bruciano offerte per Guntera e giacciono con i loro uomini quando gli amanti sono alti nel cielo. Si dice sia infallibile.
-Quelle stelle rosse laggiù?
-La Dama. Sembrano una donna alla toeletta. Le stelle che idealmente formano gli occhi sono dette “i pozzi della morte” e indicano sempre il nord.
-Come sai tutte queste cose?
-Le ho studiate quando ero più piccolo, anche se le stelle non mi sono mai piaciute particolarmente. Sono così fredde e remote.
-Io non le trovo fredde, anzi. Sono vive, palpitano. Sono i cuori del cielo, e i suoi occhi. Riempiono il vuoto che altrimenti sbigottirebbe e lo rendono prezioso. Illuminano la notte senza fine dell’universo. Sono luce, sono vita e calore. Ognuna di loro è una sfera di fuoco che brucia dall’eternità. Sono antiche, le stelle, i loro visi hanno visto impassibili i mutamenti del mondo e continueranno per sempre. Le nostre vite non sono che battiti di ciglia per le stelle. Ruotano nel loro corso immobile e scrivono i destini degli esseri mortali; ognuna di loro rimane uguale a se stessa per l’eternità.
Kili rimase in silenzio.
-Hai ragione- disse dopo quella che sembrò un’era –Sembra di guardare negli occhi qualcuno.
Elemmire girò la testa nel momento stesso in cui lo fece Kili e una cascata di stelle si riversò nei loro occhi. Il nano sorrideva beato, come se fosse entrato in possesso di una grande verità.
-Le ho viste, sfere di fuoco, come le hai descritte tu- Kili sussurrava emozionato –Mi è parso di caderci dentro, o che loro cadessero su di me, insomma, che si muovessero.
Gli occhi di Kili erano magnetici ed Elemmire non riusciva a staccarne lo sguardo.
-Mi pareva che allungando la mano sarebbero state mie.
-E cosa ci avresti fatto poi?
-L’Arkengemma sarebbe impallidita al confronto. Nessun gioiello l’avrebbe retto.
-Nemmeno voi nani sareste in grado di realizzare qualcosa più bello di un cielo stellato.
-E’ una sfida?
-Forse.
Elemmire sentì Kili muoversi e le loro guance si sfiorarono. Il contatto la fece trasalire.
-Sai, all’inizio non ti sopportavo, Elemmire.
-Notato.
-Sempre così fredda, così critica e orgogliosa. Ti comportavi come se nessuno fosse alla tua altezza.
Elemmire ridacchiò.
-Perdonami il gioco di parole, ma è così. Eri insopportabile.
-Cosa ti ha fatto cambiare idea su di me?
-Ho detto che ho cambiato idea?
-No, di certo, scusa tanto, supposizione mia.
Sorrisero entrambi.
-Quando mi hai chiesto scusa.
-Quale delle innumerevoli volte?
Stavolta fu Kili a ridacchiare:-La prima. Ho pensato che in fondo se eri capace di un po’ d’umiltà sul resto ci si poteva lavorare.
-Credevo fosse stato il vestito azzurro a farti cambiare idea.
-Ha avuto il suo contributo.
-Sono felice.
-Del contributo?
-Del fatto che tu abbia cambiato idea su di me. A un certo punto ho pensato che non avrei mai trovato qualcuno a cui affezionarmi qui, perché ero troppo impegnata a trattare male le persone che mi si avvicinavano.
-Non stiamo scendendo nella dolcezza stasera?
-Ti dà fastidio? Pensavo volessi sentire qualcosa da me.
-Non immaginavo potessi diventare sentimentale.
-Sono le stelle che fanno quest’effetto. Non ti ci abituare.
-Certo, dai la colpa alle stelle ora.
-E’ la verità.
-Posso essere sentimentale anche io?
-Non so se mi conviene dire di sì.
-Ti perderesti qualcosa di raro.
-Sii sentimentale allora.
-Mi hai fatto tenerezza oggi quando sei scoppiata in lacrime. Non mi sei sembrata affatto debole. Ti ho ammirata.
-L’hai detto davvero?
-L’ho detto.
-Questa bisogna raccontarla.
-Non ci provare. Fili mi prenderebbe in giro da qui fino a che morte non ci separi.
-Non lo farò. Sai che non lo farò.
-E ti dirò, sto rivalutando le stelle come ho rivalutato te.
-Così in mi assenza le guarderai e ti ricorderai di quando sono caduta dal pony.
-E’ ufficiale quindi?
-Cosa?
-Te ne vai con Gandalf.
-Devo tornare anch’io a casa prima o poi…
-Non dire altro. Ho capito.
-Non hai capito nulla invece. Dovrò tornare a casa, ma non prima di aver visto Thorin seduto sul trono di Erebor.
Kili si alzò di scatto e la guardò. Sorrideva in quel suo modo aperto e spontaneo.
-Sapevo che non mi…ci avresti abbandonati da soli. Sapevo che saresti venuta.
-Ma cosa sapevi se a tratti scoppiavi a piangere!
-Bugiarda.
-Senti chi parla.
-E irrispettosa per di più. Dov’è finita l’Elemmire timida e carina di Gran Burrone?
-Cerca di convivere con la nuova Elemmire che uccide goblins e scappa di notte per guardare le stelle.
-Sei cambiata così tanto in così poco tempo.
-Non sono cambiata, Kili. Certe cose erano in me da sempre, avevano solo bisogno di uscire fuori.
-Sono felice.
-Del cambiamento?
-Di stare qui a guardare le stelle.
-Anche io sono felice. Rimarrei qui tutta la notte.
-Io non ho fretta- Kili si sdraiò ancora, stavolta accanto a lei, e rimasero in silenzio finché gli occhi non gli si chiusero. Si addormentarono vicini sulla terra, erba per cuscino e firmamento per soffitto.
 
Correva a perdifiato. La paura la attanagliava. Doveva fare presto. Doveva arrivare in tempo, o sarebbe stato tutto vano. Il campo di battaglia era pieno di cadaveri, e non solo orchi giacevano riversi. Oltrepassò il guado e vide due elfi con asce conficcate nei petti. Anche nella morte erano composti e austeri, solo immensamente tristi, come un fiore falciato ancora in boccio. Due volte rischiò di scivolare sul sangue e dovette reprimere l’istinto di vomitare. Il pensiero che tra quel sangue ci fosse anche…scacciò il pensiero dalla sua testa. Doveva trovarli. Forse poteva rimediare al suo errore. Si guardava intorno ma non trovava ciò che cercava. Si disse di essere forte e di non piangere, ma di continuare a cercare. Correva come se la stessero inseguendo e urlava forte i loro nomi. Sperava che una voce, anche un sussurro portato dal vento, le rispondesse, ma tutto taceva. La morte aveva steso il suo sudario livido su molti volti. Si girò verso la montagna e in cuor suo la maledisse. Continuò a cercare sempre con più foga man mano che le speranze in lei diminuivano.
 
La visione divenne sfocata. Lampi di luce verde e scintille. Urla. Poi tutto si riappacificò. Una luce bianca scese sulle mostruosità che abitavano dietro i suoi occhi e una foresta apparve. Gli alberi erano alti fin dove l’occhio arrivava e quasi nascondevano il sole. Un tappeto di foglie secche ne copriva le radici. Tra gli alberi brillava una luce intensa come quella di una stella. Era Galadriel che camminava. La sua veste era bianca e lo sguardo penetrante. –Passato e presente. Realtà e fantasia. Questo è quello che i sogni mostrano, ed è facile fraintendere le loro voci. Ma ricorda sempre quale rischio corri: la tua conoscenza è la tua rovina.
Galadriel svanì in una nuvola di polvere.
-Ma finché una stella brillerà in cielo, la speranza abiterà il tuo cuore.
 
Elemmire si rizzò a sedere all’improvviso con il fiatone. Un peso incombeva sul suo cuore. Il cielo era ancora scuro ma una leggera sfumatura turchese annunciava l’alba. L’erba era congelata e lei era intirizzita. Kili dormiva al suo fianco rannicchiato su se stesso e aveva l’aria serena. Elemmire si trattenne dallo sfiorare i suoi lunghi capelli ondulati con le mani gelide per paura di svegliarlo di colpo. In silenzio si alzò e riattraversò il bosco nella penombra, rientrò nella casa di Beorn e si riaddormentò sul suo caldo giaciglio, svegliandosi di nuovo quando il sole era ormai alto e velato dalle prime nubi autunnali.
Un leggero vento fresco, un cielo lattiginoso e il bosco silenzioso e deserto: questo accolse Elemmire il giorno del suo diciottesimo compleanno. La casa di Beorn era deserta. Elemmire si stiracchiò, si strofinò gli occhi e guardò con le palpebre socchiuse la grande porta in fondo alla stanza.
-Aspettavo che ti svegliassi.
-Oh mio Dio!
Elemmire si accorse che Kili sedeva silenziosamente al suo fianco.
-Mi hai fatto prendere un colpo. Che ci fai qui?
-A diciott’anni io sapevo a malapena parlare, ma riconosco che per un’Umana è una data importante e volevo essere il primo a farti gli auguri.
Elemmire si sentì sciogliere. Sorrise con gratitudine.
-Ah, e volevo darti questo.
Il nano le porse una faretra di pelle non conciata piena di frecce dall’impennaggio di cigno candido.
-Ammirevole- Elemmire ne prese una e la bilanciò con delicatezza –Sono per me?
-Cigno bianco, roba da ragazze, o da elfi.
-Scusaci, Kili “sono troppo maschio per certe cose”.
-Non credi manchi qualcosa?
-Cosa?
-Indovina.
-Non ne ho idea. Ti prego, mi sono appena svegliata.
-Le frecce sono inutili senza un arco con cui lanciarle.
E Kili le mostrò un superbo arco di corno bianco intagliato con una fanciulla dalla morbida veste piena di pieghe. Era un arco vero, nato per essere utilizzato da esseri umani, ed era così bello che Elemmire aveva paura a toccarlo.
-E’ stupendo. L’hai fatto tu?
-Ci lavoro da tutta la settimana. Ho trovato un lungo corno nelle stalle di Beorn e quando ho saputo che sarebbe stato il tuo compleanno ho deciso di farti una sorpresa.
Lo stupore e l’imbarazzo si impadronirono di lei.
-Non posso accettarlo.
-Non essere ridicola, è un regalo, non puoi non accettarlo.
-Posso invece. È…troppo. Troppo lussuoso, troppo regale. Non avresti neanche dovuto. Io non ho mai fatto nulla per te.
-Cosa c’entra questo? E’ il tuo diciottesimo compleanno e lo passi lontano dalla tua famiglia, perciò è giusto che sia memorabile.
-Ma non posso accettare un regalo così importante!
Kili rimase così deluso che Elemmire sentì spezzarsi il cuore. Comprese che non accettare l’arco equivaleva a offendere il nano. E lei questo non lo voleva.
Cercò un modo per rimediare:-Mi dispiace Kili, va bene? Mi fai compagnia a colazione così poi facciamo un paio di tiri?
Kili sorrise e si alzò. Elemmire si vestì in tempo per vedere il nano tornare con una scodella di latte di capra. Lo bevve a fondo e corse fuori. Cercò la radura dove lei e Kili erano stati soliti allenarsi e una volta giunta impugnò l’arco. Il corno faceva un effetto strano sotto le dita. Era meno elastico del legno, ma più solido. Incoccò, tese e scoccò. La sua freccia fu lanciata con forza contro un tronco. La traiettoria fu breve ma dritta e pulita, e l’asta rimase conficcata nel legno a vibrare per la potenza del lancio.
-Vedi? Il corno ha maggior potenza rispetto al legno, anche se minor gittata, ed è molto più preciso. Ne senti già la differenza vero?
-E’ il regalo più bello che tu potessi farmi.
Ed Elemmire sentì l’istinto di abbracciare Kili. Si trattenne dal buttargli le braccia al collo ma gli prese la mano.
-Grazie, Kili, grazie infinite.
-Ho pensato che sei diventata una discreta arciera ormai. Avevi bisogno di un arco tutto tuo, e delle giuste dimensioni. È un pensiero, davvero.
-No, non è un pensiero. Non ho mai ricevuto una sorpresa così bella.
-Era il mio obiettivo- il nano si pavoneggiò e le strizzò l’occhio –Buon diciottesimo.
Elemmire strinse la spalla di Kili e insieme tornarono indietro.
E così, ne aveva diciotto. Le sembrava irreale. Si chiese cosa ci fosse di diverso in lei. Era entrata nell’età matura e nella realtà avrebbe avuto una lussuosissima festa con centinaia di persone che probabilmente nemmeno la conoscevano. Invece alloggiava in casa di un Mutapelle con tredici nani, uno hobbit e uno stregone e avrebbe festeggiato con salsicce arrosto. Si chiese perfino se fosse valido come compleanno. Quando il portale si era aperto per la prima volta era pieno Novembre, ma nella Terra di Mezzo c’era ancora l’estate. In ogni caso, si disse che un cambiamento in lei era avvenuto. Si sentiva più adulta, più consapevole.
Scoprì che la voce, attraverso Kili, si era diffusa. I nani avevano rammendato il suo mantello bianco di fattura elfica e avevano aggiunto deliziosi ricami geometrici sui bordi; glielo presentarono con i più sentiti auguri e brindarono alla sua salute con fortissimo vino speziato. Andando a dormire, quella sera, Elemmire sentì che era felice; lo rimase finché non cadde addormentata. E gli incubi l’assalirono.
Sognò di essere aggredita. Milioni di frecce acuminate la colpivano ovunque e la facevano sanguinare. Poi le frecce divennero api, api grandi come passeri che con il loro ronzio l’assordivano. Qualcuno gridava e chiedeva aiuto ma Elemmire non comprendeva da che parte venisse. Iniziò a correre e inciampò in un corpo. Era Kili, con gli occhi spalancati e vitrei. Morti. Dalla sua faccia iniziarono a uscire vermi. Elemmire gridò, ma il ronzio delle api era troppo forte…
Gridò davvero. Fu un attimo, ma si svegliò bagnata di sudore e tremante con le braccia strette attorno al corpo. Respirò in profondità per calmarsi, anche se il suo cuore batteva così forte da far tremare il pavimento. Fissò il buio soffitto di legno per un po’, troppo spaventata per chiudere gli occhi, e con le dita cercò il mantello elfico ripiegato accanto a lei e avvolto da un tenue bagliore. Ci si avvolse dentro e tranquillizzata si riaddormentò.
Il mattino la trovò di cattivo umore e stanca come se avesse corso per tutta la notte. Saltò la colazione per lavarsi nel torrente e si dedicò poi all’esercizio fisico con Kili. C’era silenzio tra loro. Ripensando a come si era aperta con lui negli ultimi giorni Elemmire si sentiva in imbarazzo ma quasi rinfrancata, come se non le fosse rimasto nulla da nascondere. Ciò nonostante, non era dell’umore giusto per parlare. Lavorava alacremente colpendo e schivando, parando e attaccando con il bastone che le scorticava il palmo della mano. Quando entrambi furono troppo esausti per alzare le braccia scesero al fiume e si lavarono con addosso tutti i vestiti.
-Partiamo tra due giorni- la voce di Kili era roca mentre si stendeva al sole.
-Lo so- rispose Elemmire. Si chiese perché fare una constatazione così ovvia.
-Hai recuperato Nen Girith dalle mani di Fili?
-Non sapevo nemmeno che fosse in mano sua.
-Sta affilando tutte le armi. E nel suo caso, credimi, sono un bel po’.
-Posso ben immaginarlo. Ognuno di voi nani ha con sé almeno due tipi diversi di arma da taglio.
-Due? Hai mai frugato nel mantello di Fili, o nella sua casacca?
-No, ovviamente, perché avrei dovuto?!
-Ha decine di coltelli nascosti ovunque, più le due spade.
-I goblins che l’hanno perquisito non hanno trovato nulla di questo però.
-Elemmire- Kili rise e il ghiaccio si squagliò un poco –Se degli spregevoli goblins potessero scoprire dove mio fratello, un nano, tiene nascoste le armi, la razza di Durin potrebbe dirsi disonorata per sempre.
-Hai anche tu armi nascoste da qualche parte?
-Ovunque. Potrei attaccarti di sorpresa e piantarti un pugnale nella schiena.
-Certamente- Elemmire sospirò.
-Come, non mi perquisisci nemmeno? Potrei avere qualsiasi cosa nei pantaloni.
-O magari niente- Elemmire abbassò la testa in modo che i capelli le coprissero le guance in fiamme. Ben conscia dello sguardo di Kili su di lei si sforzò di non ridere.
-So che stai ridendo dietro quelle tende- Kili la schizzò.
-Sono compostissima invece. E non provarci mai più, Kili figlio di Dìs- Elemmire contraccambiò lo spruzzo d’acqua.
-Oh oh, Zio Thorin mi chiama così quando sono nei guai.
Elemmire non poté fare a meno di sorridere e di scuotere la testa. In un modo o nell’altro, Kili era riuscito a farla scendere in campo anche quella volta. Era come se sapesse ogni volta di cosa parlare per metterla a suo agio e farla sorridere.
Verso la fine del giorno anche Fili si unì a loro e sfidò il fratello a duello. I due nani si scontrarono con la forza di due arieti mulinando i bastoni. Nonostante la bravura, Kili ebbe la peggio davanti alla superiorità fisica e all’esperienza del fratello. Ad un certo punto i due lasciarono i bastoni e si avvinghiarono in una lotta a corpo libero, poi tutti e tre insieme tornarono alla casa di Beorn. La sera declinava in fretta e il cielo era rosso sangue. Le torce della grande sala brillavano dorate tra le ombre delle pareti e i nani si affaccendavano per preparare la cena, che consisteva in frittelle salate e frutta di stagione. Beorn pareva cupo e parlava fitto con Gandalf.
-E’ successo qualcosa?- chiese Elemmire a Fili.
-Beorn ha scoperto le orme dei Mannari, decisamente troppo vicine per i suoi gusti. Ritiene che dovremo metterci in marcia stanotte stessa, prima dell’alba, per raggiungere il Bosco Atro prima che faccia buio.
-Allora questa è una cena d’addio- disse Kili addentando una pera matura.
Fili disse qualcosa in nanico e Kili rispose.
-Cena e serata d’addio- proseguì –Non ne potevo più di rimanere fermo tutto il giorno senza fare nulla. Ho impugnato troppo spesso il boccale e non la spada.
-E il tempo fugge in fretta. Alla fine dell’autunno, prima dei Dì di Durin, dobbiamo trovarci sulla Montagna o la porta segreta non si aprirà. L’ha detto Elrond.
Elemmire si era quasi dimenticata della missione, di Erebor e di Smaug. Aveva dimenticato ogni cosa nella dimora di Beorn; se non fosse stato per il sogno della notte precedente, si sarebbe dimenticata anche dell’esistenza della morte. Ora il pensiero di partire in fretta e furia la spaventava. Era ferma sulla sua decisione, ma aveva paura. D’un tratto non era pronta.
Il fuoco divenne brace e la luce dorata rossa e soffusa. I nani si riunirono al centro della stanza con le facce gravi e serie. Nessuno strumento musicale nelle loro mani. Le ombre li avvolsero come mantelli mentre tredici voci iniziarono a cantare sottovoce. All’inizio non erano più che un ronzio ritmato, e l’aria pareva vibrare. Thorin aveva gli occhi chiusi e sembrava una statua di pietra.
 
Dai monti il vento gelido scendeva
Qual mar di onde in tempestosa guerra
Dai rami al crepitar tutto gemeva
E solo foglie ricoprian la terra.
 
Cadean fra l’erbe sibilanti gli steli
Le canne si agitavano col vento
Che sugli stagni sotto freddi cieli
Mise nubi veloci in sfacimento.
 
Passò sulla Montagna solitaria
E turbinò del drago nella tana
Mentre un fumo levavasi nell’aria
Là dove l’aspra roccia era sovrana
 
Dalla terra fuggì nell’aura bruna
Verso il mare sull’acque sconfinate
Tese le vele alla raffica la luna
E il vento rese le stelle più argentate.
 
Lontan sui monti fumidi e gelati
In atri fondi oscuri e desolati
Prima che sorga il sole dobbiamo andare
I pallidi a cercar ori incantati
 
Per preci antichi degli elfi signori
Gli accumulati e balenanti ori
I nani lavoravano il dì ghermendo
Per dare a gemme d’elsa altri splendori
 
Calici e arpe cesellavan d’oro
E dove gli uomini non scavan lor
Vissero a lungo ma dei lieti canti
Né uom né elfo sentì mai il coro.
 
Le campane s’udian per la vallata
E la faccia d’ognuno era sbiancata
Del fuoco più crudel l’ira del drago
Distrusse torri e case all’impazzata.
 
Fumava il monte nel chiarore lunare
I nani udir la morte ecco avanzare
La sua casa abbandonarono morendo
Di sotto il drago nel chiarore lunare.
 
Lontan sui monti fumidi e gelati
In antri fondi oscuri e desolati
Prima che sorga il sol dobbiamo andare
A riaver l’arpe e l’oro a noi strappati.
 
 
Elemmire ricevette tre cose prima di coricarsi: una dose di coraggio non indifferente, un abito nero lungo fino a terra che la proteggesse dal freddo dell’autunno e un lungo sguardo penetrante da parte di Kili.
 
Partirono prima che il sole sorgesse. Il cielo era scuro e l’aria livida e fredda. Elemmire si avvolse nel mantello bianco degli elfi e si calò il cappuccio sulla testa e sui capelli sciolti. Al fianco aveva il fodero di Nen Girith e sulle spalle l’arco di corno. In silenzio i nani uscirono e si congedarono da Beorn: i giocattolai e i festaioli tornavano guerrieri ed esiliati. Thorin aveva fermagli d’argento nei capelli scuri e ricci, il superbo mantello di velluto blu  notte e pelliccia scura, una cotta di maglia di mithrir, il metallo indistruttibile dei nani, e la gigantesca cinta borchiata. Anche gli stivali erano di pelliccia, stringati con resistente tessuto scuro e con la punta rinforzata in metallo come quelli degli scalatori. Alla sua mano brillava un anello d’argento con uno zaffiro incastonato, mentre sulle spalle portava il fodero dell’ascia e al fianco quello della sua micidiale spada elfica. Era regale, era potente, era fiero e triste nell’oscurità degli alberi. Gli occhi granitici erano due lumi nella notte.
Subito dopo veniva Balin, la barba candida arricciata alla fine. Era avvolto nel suo mantello rosso con le rune in bronzo e ai piedi portava stivali con le punte all’insù. Al fianco pendevano la mazza stellata e una corta e semplice spada nanica. Il suo bagaglio era tra i più voluminosi: Elemmire sapeva che portava con sé un intero set di penne, inchiostri e scrittoi. Una vecchia bisaccia di pelle affondava tra le pieghe del mantello. Dwalin, il fratello, gli camminava al fianco. Era di tutta la testa più alto, imponente nell’ampio mantello blu notte chiuso sul petto con grosse cinghie borchiate e ricoperto di ispida pelliccia castana. Uno stemma raffigurante due teste di ariete che si scontravano campeggiava al centro della spilla che gli reggeva il mantello. Aveva le maniche della camicia rimboccate fino ai gomiti e lungo il dorso della mano era ben visibile il tirapugni di ferro e cuoio. Il cranio era tatuato con segni geometrici e rune colorate, e la barba nera e rada a causa delle cicatrici che ricoprivano il viso cadeva su un soprabito di robusta pelle conciata e lavorata delicatamente. Gli alti stivali erano di cuoio e pelliccia. Dwalin aveva gli occhi scuri come la roccia delle montagne e un’espressione determinata e risoluta; sulle spalle enormi poggiavano le due enormi asce da guerra. A confronto Kili e Fili parevano davvero dei ragazzini, e affatto regali. Il primo aveva un superbo soprabito di morbida pelle foderata di pelliccia grigia e i capelli sciolti e raccolti su una spalla per lasciare spazio alla faretra e all’arco. L’Ombra era riposta nel fodero rinforzato da borchie. Fili era quasi baldanzoso nell’andatura e sorridente nello scrutare il buio orizzonte. La sua giacca bordata di candida pelliccia morbida era stretta in vita da un cinturone e decorata con motivi geometrici sugli ampi bordi. Il fodero doppio gli tagliava a metà il forte petto e da sopra una spalla spuntava l’elsa ingioiellata di Sguardo Tagliente, la sciabola dal pomolo di zaffiro. Dimostrava davvero più maturità di Kili, ma aveva il suo stesso sguardo astuto, lo stesso sorriso sghembo, la stessa ruga in mezzo alle sopracciglia quando le aggrottava. Ed erano entrambi belli e giovani, con quel fascino un po’ selvaggio che doveva aver avuto anche Thorin da giovane e che si era poi congelato in orgoglio. Dopo gli eredi e sudditi di Durin venivano i tre fratellastri esiliati. Dori, il maggiore, con la barba e i capelli grigi intrecciati in elaborate acconciature tenute insieme da fermagli di acciaio brunito. Nella cintura, sotto l’enorme cappa viola, era visibile il manico affusolato di un coltello a serramanico, mentre il resto del corpo era coperto dal gravoso bagaglio. Metà delle pentole di Bombur erano state caricate su di lui e appesa ad una cordicina dondolava un boccale di legno che evidentemente non era entrato nelle bisacce. Dori rimaneva sempre alle calcagna di Nori, che con la sua strana acconciatura a stella era piuttosto difficile da perdere di vista. Il suo mantello azzurro cenere svolazzava nel vento. Nori si appoggiava al suo bastone da lotta, che era alto quanto lui e con l’estremità superiore borchiata, l’inferiore appuntita. Infine veniva il timido Ori, con i capelli a scodella e pochi ciuffi di barba intrecciati. Il nano indossava abiti di lana e cotone morbido sui toni del lilla e guanti fatti a maglia senza dita. Anche i suoi stivali erano ricamati e con la punta arrotondata, mentre al fianco, al posto della spada, portava un’enorme bisaccia, simile ad uno zaino a tracolla, da cui fuoriusciva l’angolo di un taccuino e diversi fogli di carta, oltre che il manico di un coltellaccio. Oin teneva attaccato all’orecchio il corno acustico a forma di chiocciola mentre Gloin, il fratello, controllava che il fodero della spada fosse ben allacciato al soprabito rosso fiamma. Bofur, avvolto in panni un po’ logori e semplici color senape, aveva i capelli neri pieni di fili argentati legati in due trecce e coperti da un buffo cappello con le orecchie tutto di pelliccia. Al collo una sciarpa di lana lo teneva ben caldo. La sua ascia aveva una forma spezzata e la lama era di acciaio brunito che luccicava nella notte. L’arma aveva un’aria letale e il nano cercava di tenerla ben lontana dai mantelli dei compagni, che avrebbe potuto lacerare al solo contatto. Il fratello Bombur, invece, tutto raccolto in un mantello verde con tanto di cappuccio calato sul capo, cercava di far alzare Bifur da terra. Il nano era seduto sulle scale del porticato e giocava un una specie di carillon che rappresentava un’aquila che si posa sulla cima di un monte. Bilbo Baggins reggeva il suo enorme zaino e manteneva eretto il portamento. I riccioli biondi erano cresciuti a coprire la fronte. Il fodero del suo pugnale elfico sembrava essere stato forgiato per adattarsi al fianco di uno hobbit. E poi in un angolo c’era Gandalf, avvolto nel mantello grigio e con la punta del bastone accesa a fare da lanterna.
-Nessun ringraziamento sarà mai abbastanza per quello che ci hai donato, Beorn, per l’ospitalità disinteressata e la protezione.
L’enorme uomo fece un cenno con la mano come a scacciare qualcosa che gli dava noia:-Non mi vanno a genio i nani, ma gli Orchi li odio ancora di più. State attenti agli elfi, sono stregoni potentissimi che non fanno differenza tra amici e nemici se si tratta di difendersi. Neanche a loro andate a genio voi nani.
-Ma anche loro odiano di più gli Orchi. Confido che se rimarranno sul sentiero non avranno nulla da temere dal popolo di Thranduil.
-Beorn il Mutapelle, il popolo di Durin ricorderà e onorerà la tua amicizia- Thorin chinò la testa –Non dimenticherò di essere giunto in fin di vita nella tua casa e di essermi ristabilito grazie alle tue cure.
-Lo spero. I nani fanno in fretta a dimenticar quello che gli conviene. Ma non perdiamo tempo in discorsi inutili. Troverete pronti al cancello dei pony già sellati che rimanderete indietro appena giunti nel Bosco Atro, e provviste bastanti per molti giorni. Che le stelle vi assistano.
Elemmire si inchinò davanti a Beorn e girò le spalle ai luoghi che ormai le erano diventati familiari. Li lasciò andare, semplicemente, come si lascia andare la presa sulla roccia prima di tuffarsi da una scogliera. Quello era il suo tuffo, quella massa di alberi ondeggianti sull’orizzonte appena rischiarato la sua acqua. Al cancello trovò non un pony, ma un cavallo adatto alla sua altezza dal pelo rossiccio e corto che sellato aspettava paziente. Salì in groppa e tutta la compagnia di Thorin Scudodiquercia lasciò la casa di Beorn per raggiungere il reame boscoso. L’alba sorse dopo un’ora: nessuno la vide perché nubi temporalesche coprivano il cielo.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** incontri altolocati ***


-Avete provviste a sufficienza per prendervela comoda, non altresì vale per l’acqua che è razionata per durare non più di dieci giorni. Riempitela se volete nei primi due giorni di cammino, ma non oltre perché le acque della foresta sono avvelenate o, se sarete fortunati, incantate, e vi provocherebbero un sonno perpetuo. Ricordatevi che anche l’aria della foresta è greve di magia. Cercherà di sviarvi e confondervi, perciò non fidatevi dei vostri sensi ma solo dell’intuito. E non lasciate il sentiero. Per qualunque ragione, non fatelo, o non lo troverete mai più. È l’unica speranza che avete di attraversare il bosco.
Elemmire guardò la pista elfica su cui la compagnia si era riunita, fatta di terriccio e lastre di pietra interrate, poi tornò a guardare Gandalf.
-Mi piacerebbe potervi dire che chiamandomi risponderò al vostro grido di aiuto. In realtà la verità è un’altra: ve la caverete da soli. Lascio con voi uno scassinatore di prim’ordine e una giovane guerriera degli uomini. Abbiatene cura, perché la loro parte nella missione deve ancora arrivare. Statemi bene, tutti quanti, e non siate spericolati, ma cauti come volpi.
Thorin abbracciò Gandalf, per quanto lo permettesse la statura ridotta, e lasciò le redini del suo pony. Tutti gli altri lo imitarono e gli animali trotterellarono nella pianura diretti verso il loro proprietario. Solo Gandalf si rimise in sella e li guardò pieno di tristezza e apprensione. Per un attimo Elemmire immaginò se stessa sulla sella, dietro a Gandalf, che salutava Fili e Kili per forse non rivederli mai più e il pensiero le mise i brividi.
-Muoviamoci- disse Thorin –I saluti sono durati abbastanza. Seguite me, e non fidatevi di nulla.
I nani si tuffarono nella foresta, seguiti da Bilbo ed Elemmire, e Gandalf si allontanò al galoppo. Elemmire lo vide un’ultima volta in lontananza, con il cappello a punta ben dritto in testa, poi il Bosco Atro la inghiottì. Non poteva più tornare indietro.
Il sole tramontò e tra gli alberi scesero le ombre.
-Ci accampiamo qui stanotte- decise Thorin –Oin, Gloin, accendete un fuoco e fate in modo che non si spenga stanotte. Usate legna secca, non vogliamo fumo.
-Questo posto mette i brividi- Kili si sedette su una radice sporgente e nodosa dell’albero a cui si era appoggiata Elemmire e le porse della carne essiccata.
-Dici così perché è buio e non abbiamo visto il sole per tutto il giorno- Elemmire iniziò a masticare la carne.
-E non lo vedremo per giorni, a meno che qualcuno non abbia voglia di arrampicarsi su quegli alberi- Fili mise una mano sulla spalla del fratello.
-Un motivo in più per uscire da questa foresta il prima possibile. L’aria è malsana.
-E’ come diceva Gandalf, ti prende alla testa- Fili sgranò gli occhi con fare teatrale.
-Tra poco inizierai a vedere i tuoi piedi che camminano al contrario- Kili assunse la sua aria più tenebrosa.
-E ad avere incubi e allucinazioni.
-Molto spaventoso, ma fino a prova contraria respiriamo la stessa aria. Per quello che potete saperne io stessa potrei essere un’allucinazione. O magari Kili.
-Kili non lo è di certo- Fili guardò per un secondo il fratello, poi scattò verso di lui e iniziò a solleticarlo sui fianchi e sulla pancia. Kili si afflosciò a terra come un sacco vuoto e cercò di proteggersi con le braccia mentre si rotolava per terra ridendo senza controllo.
-Soffri il solletico!- Elemmire era senza parole. Un guerriero dei nani che soffriva il solletico.
-Da quando era un cosino di dieci anni- Fili sembrava starsi divertendo da matti nel seviziare il fratello minore.
-Basta! Ti prego, fratello, abbi pietà!- Kili riusciva a malapena a parlare.
-Hai visto Elemmire? Non è di sicuro un’allucinazione.
Elemmire dovette reggersi al tronco per non rotolarsi anche lei dal ridere.
-Traditrice! Ti vedo sai!- Kili si contorceva e si divincolava e foglie secche e terra inzozzavano i suoi capelli e i suoi vestiti. Mollò una gomitata a Fili e rotolò lontano dalle sue grinfie, si rialzò e attaccò di nuovo. I due fratelli si scontrarono come due giovani tori e si avvinghiarono in un serrato corpo a corpo.
-Fili! Kili!- Thorin li raggiunse a passi enormi e con due poderose spallate li divise –Vi siete scordati che dobbiamo passare inosservati? Guardatevi: siete principi o garzoni di stalla?
Kili scosse la testa e foglie secche in abbondanza caddero dai suoi capelli. Fili invece rimaneva fermo, rosso in viso, la faccia dell’imbarazzo e dell’umiliazione.
-Non fatemi mai più vedere un simile spettacolo.
-Non stavamo facendo nulla di male zio- Kili cercò di giustificarsi.
-Ho iniziato io, è mia la colpa.
-Non hai iniziato tu, abbiamo iniziato entrambi.
-Basta! Chiunque sia stato a iniziare, mi aspettavo di aver portato dei guerrieri con me, non dei bambinoni idioti.
E Scudodiquercia voltò loro le spalle con ira.
I due fratelli si guardarono per un lungo istante, i sorrisi pietrificati negli occhi, poi ognuno si distese sul suo giaciglio. Elemmire si assicurò di venir svegliata in tempo per il suo turno di guardia e si sdraiò sulla coperta coprendosi con il mantello elfico. Era la prima notte che non contemplava la stella. Sapeva che il suo tempo nel cielo stava per scadere e che probabilmente non l’avrebbe mai più vista e si sentì sola. La foresta era così fitta e l’oscurità così densa che non era possibile vedere oltre il cerchio di luce del fuoco. Le fiamme portavano in vinta con i loro guizzi i rami spettrali degli alberi, dei castagni e delle querce. L’autunno non era che appena iniziato ma ogni ramo era spoglio e scheletrico come se le piante fossero malate. Elemmire si girò di lato per non dover vedere quelle mani sottili e lignee protese verso di lei e chiuse gli occhi. Sogni convulsi l’agitarono nel dormiveglia, con Mannari e Orchi che la inseguivano e la raggiungevano per sbranarla, poi un suono cristallino risuonò nella sua testa, un suono che pareva il rintocco di una campana di diamante. Era una risata. Le ombre e gli incubi si dileguarono come le nebbie della notte fuggono davanti ai primi raggi dell’alba. Il sole sorse ed Elemmire, cercando di distinguere la visione dalla realtà, si ritrovò in una foresta rigogliosa. La luce dorata brillava sulle foglie verde smeraldo e sulle tenere bacche dei rami. Sembrava fosse primavera. Una figura era ferma al vicino ad un albero. Lungo la sua schiena scendeva una treccia bionda; una veste semplice color azzurro slavato copriva un corpo femminile dal portamento dritto e austero.
Galadriel si girò. L’azzurro dei suoi occhi sfavillava. L’elfa si chinò a terra e le porse la mano. Mai sogno era stato altrettanto vivido e corposo. Elemmire allungò il braccio e toccò la mano dell’elfa. Era tiepida e morbida, la sua presa delicata ma ferma.
-Elemmire, il mio tempo con te è al termine. Stanotte la stella che porta il tuo nome attraverserà il cielo per l’ultima volta e si tufferà poi nelle nebbie dell’occidente, oltre il mare. Il mio occhio sarà più stanco e mi sarà difficile seguirti nel tuo cammino. Ma non devi avere paura. La meta è ormai vicina.
-Dama Galadriel, dove siamo?
-Sei a Lothlòrien, la mia patria. Qui la primavera perenne ricopre di boccioli gli alberi. La magia del mio popolo è potente e benigna, ma diffida dei sudditi di Thranduil. L’isolamento li ha resi incivili e inospitali. L’avidità dei nani ha corrotto i loro cuori assieme alla sete di vendetta. Triste destino per gli eredi degli Eldar!
-Ci attaccheranno?
Galadriel abbassò lo sguardo e iniziò a camminare.
-Ho guardato nel tuo futuro, Elemmire, e l’ho trovato così legato alla sorte degli eredi di Durin che non ho potuto comprendere molto. Nubi tempestose si ergono davanti a voi. Ora che la vostra missione è quasi conclusa, le minacce più insidiose vi sbarrano il cammino. Devi essere forte e astuta.
-Tornerò a casa?
-Si torna sempre a casa, Elemmire.
L’elfa la prese per mano e la condusse con sé. Camminava velocissima eppure con movimenti impercettibili come se si muovesse nell’acqua.
-C’è un’altra cosa, mia signora. Come farò a riconoscere quando sarà il mio momento di adempire il destino?
-Lo capirai. Le stelle sono con te. Se seguirai il tuo cuore, esso ti condurrà in acque tranquille perché già conosce la tua destinazione e il fato che ti attende.
-Mia signora, il Bosco Atro sembra malato. Siamo entrati in qualche oscura magia?
-Il male ha sede a Dol Guldur, la fortezza abbandonata. E’ lì che Gandalf ha diretto i suoi passi. Una grande ombra incombe sul reame boscoso e la magia degli elfi inizia a vacillare davanti alla mano del Nemico. Tuttavia se saprete passare inosservati il male non vi toccherà. Il suo braccio non è ancora così lungo da poter penetrare nelle sale di Thranduil.
Galadriel la guardò negli occhi. Elemmire si sentì invasa di nuova linfa vitale.
-Ricorda le mie parole, Elemmire-Giliath. Il sangue delle stelle reclama la sua patria. La luce vince sempre sul buio.
L’elfa toccò delicatamente la fronte di Elemmire e sfumò in un alone violetto.
 
Elemmire venne svegliata da Fili che la scuoteva per la spalla.
-Sicura di poter affrontare un turno di guardia?- le chiese. Elemmire lo sentì a malapena. Si avvolse più stretta nel mantello e iniziò a camminare attorno al fuoco per mantenersi sveglia. Sentiva la voglia irrefrenabile di toccare il punto in cui l’aveva accarezzata Galadriel nel sogno. Perché ora che vedeva l’oscurità tutt’attorno le era chiaro che di sogno si era trattato. Si sedette per terra a fissare le braci e timidamente con la mano sfiorò la fronte. Trasalì. Una sottilissima linea, come di cicatrice, le percorreva la tempia. Incredula Elemmire ne seguì il rilievo. Era un glifo, la sua forma affusolata non lasciava spazio al dubbio. Un glifo elfico. Si chiese cosa volesse significare. Era davvero stata in compagnia di Galadriel? L’elfa le aveva impresso quel marchio? E cosa voleva dire il nome con cui l’aveva chiamata, Giliath? Elemmire non sapeva cosa pensare. Rimase sveglia fino alla fine del suo turno, destò Gloin e tornò a dormire quando l’alba iniziava a fare pallidamente capolino dalle cime più lontane delle montagne.
 
Camminarono. Elemmire si era scordata cosa fosse viaggiare con i nani, stare dietro alle loro gambe resistenti e infaticabili attraverso sentieri, salite, discese, curve e svolte. Camminarono per quattro giorni pieni. La stanchezza era tale che nessuno aveva voglia di parlare la sera; ogni tanto Elemmire faceva un turno di guardia con Kili e si tenevano svegli a vicenda parlando del più e del meno. L’aria si era fatta pesante e irrespirabile, greve di umidità e dell’odore delle piante marcite. Il sole sopra le loro teste era quasi scomparso a causa dei rami fronzuti e altissimi che coprivano il cielo. Elemmire iniziava a vedere ovunque pallini bianchi e rossi e una volta scambiò Fili per la sua amica Andra. A volte vedeva strane figure accovacciate dove c’era solo un gioco di luce, o visi e persone spuntavano fuori all’improvviso dall’oscurità e la facevano urlare.
-Sono allucinazioni- Kili usava prenderle le mani e farla fermare –Non possono farti del male. Non sono reali.
Non era però l’unica cui l’aria pesante facesse un brutto effetto. Il quarto giorno di cammino Kili e Fili si azzuffarono con Dori, Nori e Ori su una questione riguardante la spartizione dell’acqua. Con arroganza Kili aveva insultato in nanico Ori e si era beccato un pugno di Dori nell’occhio. Non era stata l’unica rissa, solo quella che aveva coinvolto più persone, considerando che era dovuto intervenire Thorin stesso a dividerli.
La notte attorno al fuoco Elemmire teneva i capelli davanti agli occhi perché nessuno vedesse il glifo argenteo sulla sua fronte risplendere. Ogni tanto i nani accennavano un canto sottovoce, ma Thorin li faceva smettere con un’occhiataccia e il silenzio tornava a regnare nella foresta. Tuttavia, c’erano giornate in cui Elemmire non riusciva a togliersi dalla testa le parole della prima ballata che aveva udito. Specialmente se faceva caldo e la testa le doleva maggiormente, e l’acqua scarseggiava, si aggrappava con forza alla canzone, se ne rigirava nella mente la melodia e questo l’aiutava a concentrarsi sul presente, a non perdere il senno. Le notti diventarono più lunghe, i giorni più pallidi, la foresta più spoglia e desolata. Niente vi cresceva, nemmeno funghi. Le veglie erano estenuanti perché se nulla nasceva nel Bosco Atro, sicuramente qualcosa vi viveva. E quel qualcosa era ben attento a rimanere nell’ombra, fuori dal cerchio di luce del fuoco e tuttavia ben a portata d’orecchio. Balin insisteva che spegnessero i falò in modo da passare inosservati, ma Thorin ribadiva fermamente che se c’era qualcosa che poteva salvarli era la luce. Intimamente Elemmire era d’accordo: era convinta che qualunque essere li stesse seguendo era terribilmente spaventato dal fuoco. Ad un certo punto i nani iniziarono a viaggiare con le armi sguainate. Kili teneva l’Ombra ben dritta davanti a sé e camminava appena poggiando i piedi sulle foglie. Il più leggero era però sempre Bilbo. Quando era spuntato di nascosto, dopo essere scappato dai goblins, aveva dato prova dei vantaggi di essere uno hobbit, e non si smentiva mai. Elemmire non lo sentiva arrivare, e spesso aveva sudato freddo nel sentirselo all’improvviso dietro le spalle per darle il cambio al turno di guardia. Il sentiero elfico procedeva a spezzoni: a volte era là sotto i loro piedi, a volte deviava tra le frasche ed ognuno era costretto a farsi strada con le spade tra la vegetazione. Se all’ingresso del Bosco erano state collocate due statue di alti elfi dal portamento eretto, il cui possesso era stato preso dai rovi e dalle ortiche, mano a mano che la compagnia si inoltrava nel cuore della foresta ogni traccia umana scompariva. Incominciarono a comparire le rocce, e il terreno divenne irregolare e frastagliato. Un giorno Elemmire perse la presa mentre si arrampicava lungo un basso costone e rotolò per diversi metri atterrando su un mucchio di foglie marce. Sopra di sé Kili buttò all’indietro la testa, inarcò il poderoso collo e con gli occhi chiusi si esibì in una risata liberatoria e irrefrenabile. Fu Fili a intimargli di smetterla e di scendere ad aiutarla. Raggiunsero un altipiano e poi sprofondarono di nuovo in una depressione. L’acqua scarseggiava. Il sentiero passava vicino ad un fiume e nonostante gli avvertimenti di Gandalf e gli ammonimenti di Elemmire i nani decisero di riempirvi le borracce. Non appena le loro mani si poggiarono sulla riva, i flutti tranquilli divennero cavalli imbizzarriti che cavalcarono via in un vortice di spruzzi, lasciando il letto del fiume asciutto e riarso. Arrivarono ad un punto in cui non era più possibile proseguire: l’acqua era finita e le provviste consistevano solo in carne essiccata. Il sentiero proseguiva all’infinito e il bosco pareva non dover finire mai, sempre uguale a se stesso, monotono e lugubre e soffocante.
-Non possiamo andare avanti- Thorin si fermò a metà strada e con un cenno della mano chiamò a sé Balin –Dove ci troviamo?
Il nano tirò fuori dal suo mantello una minuziosa mappa e dopo averla studiata disse:-Se ho calcolato bene, dovremmo essere all’altezza dei Monti del Bosco, poco più a sud-ovest delle loro propaggini.
-C’è una via più veloce di questa per raggiungere Erebor?- sembrava che stessero ripetendo un copione. Thorin sapeva esattamente la risposta del cugino.
-Sì. Dovremmo abbandonare il sentiero e deviare verso nord.
-Non perdiamo altro tempo allora. Prendiamo la via veloce.
-Via veloce non vuol dire via sicura- Elemmire si pentì di aver parlato ancor prima che le parole finissero di fluire dalla sua bocca. Thorin la guardò con gli occhi di pietra e le chiese:-Come dici?
Una trappola invisibile si chiudeva su di lei. –Gandalf ci ha esplicitamente ordinato di non abbandonare il sentiero.
-Chi guida la spedizione, Gandalf il Grigio o Thorin Scudodiquercia?
Elemmire chinò la testa mortificata.
-Raggiungeremo i Monti e da lì seguiremo il fiume che si butta nel Lago Lungo, alle pendici della Montagna Solitaria.
-Ci stiamo buttando in pasto agli elfi!
-Elemmire, contieni la tua lingua.
-Gandalf non ci avrebbe mai indicato la via più svantaggiosa! Se ci ha imposto di non lasciare il sentiero deve esserci un motivo!
Thorin si avvicinò a lei con calma glaciale. Giunse talmente vicino da poterla guardare negli occhi solo alzando la testa. Erano occhi duri come l’acciaio quelli che la squadravano.
-Sarò più chiaro, figlia degli Uomini: non hai voce in capitolo. Non tollero da te un’altra parola.
L’umiliazione e la sorpresa nell’essere trattata così bruscamente furono tali che per alcuni secondi Elemmire si sentì immobilizzata. Poi docilmente, con la testa che girava e lo sguardo basso, seguì gli altri nani tra gli alberi, abbandonando il sentiero elfico.
-Ehi Elemmire- Kili le si affiancò. Era imbarazzato:-Perdona Thorin. È nervoso e spaventato, non voleva trattarti così male.
-No, la colpa è mia. Sarei dovuta rimanere in silenzio.
-Forse. Non ama essere contraddetto.
-Nessuno ama esserlo.
-Thorin meno di tutti. È abituato a comandare- Kili le sorrise –Pensa a come deve essere vivere con la sorella. E non solo viverci, averla come madre.
Elemmire sorrise debolmente:-Un inferno, detto tra noi.
La compagnia procedeva in silenzio. Giunsero ad un fiume dalle acque verdi e profonde; cercarono un guado ma non ve n’era nel giro di alcune miglia.
-C’è una barca lì in fondo.
Bilbo parlava con gli occhi ridotti a fessure e scrutava la lontana riva opposta.
-Ne sei certo, scassinatore?
-Certissimo. È una canoa elfica a tre posti e non ci sono remi. Probabilmente c’è un sistema di corde che permette di usarla per attraversare il fiume.
-Vedi degli anelli, dei supporti?
-Ce ne sono alcuni sul fianco della canoa, ma sono arrugginiti.
Elemmire distingueva appena la riva ed era a bocca aperta davanti all’acutezza della vista dello hobbit.
-Arcieri- Thorin alzò il braccio. Kili si fece avanti ed Elemmire, che portava sulle spalle l’arco di corno, si sentì in dovere di fare altrettanto. –Legate a due frecce dei pezzi di corda e scoccate verso la canoa. Riesci a vederla Kili?
-Vagamente. Ne vedo il contorno. Elemmire, tu la vedi?
Sarebbe morta piuttosto che darla vinta a Thorin, in quel momento:-Qualcosa vedo, sì.
-Bene allora. Aiutami con le corde.
In poco tempo Kili creò degli arpioni da scoccare con l’arco. Impugnò le armi, tese la corda, scoccò e si tirò indietro. La freccia a cui era legata la corda volò sopra l’acqua ed atterrò da qualche parte oltre il fiume.
-Tiro perfetto, hai centrato la canoa- disse Bilbo –Ora tocca ad Elemmire.
Elemmire si posizionò e incoccò. Le tremavano le mani all’idea di fare una figuraccia terribile.
-Alza la punta e spostati più a sinistra- Kili le stava sussurrando da un angolo della bocca –Non scoccare finché non ti faccio segno io. Continua a spostarti a sinistra. Così, ancora un passo, ora, scocca!
L’arco risuonò e la freccia partì.
-Bel colpo, l’hai presa per un pelo- Bilbo si fregava le mani –Ora dobbiamo tirarla a riva.
I nani grugnirono e sbuffarono tirando le corde un pollice dopo l’altro. Alla fine la canoa arrivò a riva: era piccola e affusolata in legno bianco di betulla e poteva trasportare non più di quattro nani alla volta, compresi i loro bagagli. Con un sistema di arpioni e corde simile tutti e quindici i componenti della compagnia furono traghettati sulla riva opposta. Nel scendere a terra Elemmire sussurrò “grazie” nell’orecchio di Kili.
La riva oltre il fiume era decisamente più tenebrosa. Sembrava che il corso d’acqua facesse da confine tra la parte malata del bosco e quella già morta. Gli alberi erano neri, le piante avvizzite e ovunque v’erano ragnatele enormi e viscose arrotolate attorno ai rami come lugubri festoni per un convegno di spiriti. Camminarono all’erta e con le armi spianate e dopo molte ore, quando il sole ormai stava calando e le ombre prendevano il sopravvento, si resero conto di aver girato in tondo tutto il pomeriggio. Demoralizzati, i nani si abbandonarono per terra. L’acqua era finita e la sete iniziava a farsi sentire. Nessuno lo esprimeva, ma il pensiero comune era uno solo: non avrebbero mai dovuto lasciare il sentiero. Erano persi in mezzo all’oscurità che calava.
-Vado a dare un’occhiata in alto- Bilbo si alzò e iniziò ad arrampicarsi sul tronco marcito di un albero altissimo.
-Cosa speri di fare, signor Baggins?
-Magari vedrò la cima di Erebor e sapremo in che direzione andare. Ci metto solo qualche minuto, aspettate sotto.
Lo hobbit scomparve tra le frasche. La notte scendeva in fretta.
-Accendiamo un fuoco- ordinò Thorin.
-Non c’è legna da ardere. È tutto marcio qui- Gloin si guardò attorno sconsolato.
-Allora sguainate le armi e state all’erta. Ho un brutto presentimento.
Il silenzio, ecco cos’era. C’era un silenzio così greve da mettere i brividi. Nemmeno lo stormire di una foglia, il fruscio di un bruco turbavano la quiete. La quiete prima della tempesta. Elemmire si avvicinò a Kili e insieme incoccarono. Si guardarono per un lungo istante, turbati, poi Kili accennò un sorriso.
Fu l’ultima cosa che Elemmire vide. Un dolore lancinante le esplose sul collo e poi lungo la schiena. La sua visione divenne bianca e ogni suo senso si azzerò, come se la morte stessa l’avesse avvolta nelle sue spire.
 
Bianco. Attorno a lei ogni cosa era bianca, lattiginosa come un velo di lino increspato. Elemmire credette di sognare. Sentiva caldo e respirava a fatica. La testa poi le doleva come se centinaia di martelli le stessero percuotendo le tempie. Si sentiva sospesa in aria e la sensazione era ridicola e inquietante. Chiuse gli occhi e li riaprì per detergere le ciglia imperlate di sudore. A mano a mano iniziava a sentire altre sensazioni provenire da tutto il corpo: dietro il collo aveva un bozzo dolorosamente gonfio ed era legata con delle corde finissime e biancastre, vischiose.
Cercò di invocare un nome, ma scoprì di non poterlo fare perché le stesse corde l’avvolgevano del tutto, bocca e occhi compresi. Era come mummificata in quella sostanza appiccicosa e sottile e si sentiva una mosca presa nella tana del ragno. Provò a far dondolare il corpo per liberarsi e così si rese conto di essere davvero sospesa in aria. Un terribile presentimento si impadronì di lei. Nonostante provasse disgusto tirò fuori dalle labbra la lingua e tastò il velo che era posto sul suo viso: era appiccicoso e sottilissimo. Riuscì a staccarlo dalla bocca e inspirò una boccata d’aria.
-Kili- sussurrò con voce arrochita.
Al solo sussurro qualcosa si mosse perché un’ombra calò sui suoi occhi, un’ombra enorme con tante, troppe propaggini. Il dolore lancinante si ripeté e di nuovo la trascinò nell’oblio. Fu il trambusto a svegliarla. Tante ombre si muovevano attorno a lei. Si udivano sibili e schiocchi raccapriccianti e un sottile chiocciare. Poi sopraggiunsero altri rumori. Urla soffocate, stridii, un cozzare di rami e di…spade?
Tutt’attorno a lei si scatenò il putiferio. Elemmire iniziò a tremare e a domandarsi cosa sarebbe accaduto, quali mostri si contendevano la cena, rappresentata da lei in quel momento. Poi una zaffata d’aria fresca le sferzò il viso, qualcosa squarcio di netto la cortina in cui era rinchiusa ed Elemmire vide il mondo attorno a sé fuggire in caduta libera. Atterrò al suolo e il contraccolpo le fece battere i denti. Con le braccia spalancò l’apertura nella ragnatela e se ne liberò, sputacchiando grumi biancastri. Alcuni bozzoli erano a terra accanto a lei, bozzoli delle dimensioni di un nano. Elemmire si precipitò a liberare i suoi compagni. Ad ogni ragnatela squarciata sperava di vedere il volto di Kili. Usò Nen Girith con attenzione: la spada era così affilata che con un passo falso avrebbe trapassato di netto il nano prigioniero. Quando tutti e tredici i nani, compreso Thorin, si furono sbarazzati dei loro bozzoli Elemmire vide ed ebbe risposta alle sue tante domande.
Bilbo Baggins aveva in mano il pugnale elfico, che maneggiava come una spada, e saltellava di ramo in ramo come un equilibrista. Dietro di lui, venivano i ragni. Ma non era ragni, si disse Elemmire. Erano creature d’inferno. I loro corpi grassi e deformi raggiungevano l’altezza di un uomo adulto, le tenaglie bavose ticchettavano infuriate e le enormi zampe pelose si dispiegavano tra ramo e ramo schiantando giovani virgulti anneriti dall’autunno. Elemmire alzò Nen Girith, e quando il primo ragno atterrò al suolo per reclamare il suo pasto perduto ella colpì con tutta la forza che aveva. Tranciò una zampa del mostro che perse l’equilibrio e cadde di lato. Elemmire si avvicinò per finirlo ma quello mostrò le fauci aperte e dimenandosi orribilmente si rimise in piedi. I tanti occhi la guardavano maligni. Elemmire attaccò ancora, stavolta di lato, e all’ultimo momento scartò e affondò la spada fino all’elsa nel petto del ragno. Un liquido biancastro e dal tanfo penoso le schizzò la veste e le insozzò i capelli. Il ragnò lanciò una specie di grido e poi si accasciò a terra, muovendo debolmente le zampe. Senza attendere altro, Elemmire passò al successivo e conficcò la spada nel fianco della creatura, scostandosi prima che quella potesse girarsi e contrattaccare. Poi sentì la voce di Kili e il suo cuore batté più forte. Il nano era in difficoltà. Aveva perso la spada che giaceva incastrata sotto una radice e un mostro lo sovrastava facendo tintinnare le tenaglie. Il pungiglione era sfoderato e lucido di veleno. Elemmire si gettò senza pensare e con un solo fendente troncò le zampe del ragno che rotolò sul dorso. Lei e Kili lo finirono insieme.
-Grazie, io…
-Dopo- Elemmire si era già rigirata e in posizione di guardia aspettava l’attacco seguente. Come quando aveva combattuto contro i goblins, stava dimenticando ogni altra cosa. La sua mente era tutta concentrata sul momento del presente, chiusa a qualsiasi altra sollecitazione che non fosse quella, adrenalinica, del pericolo. Era una meravigliosa, per quanto inconsapevole, macchina da guerra. Lei e Kili si guardarono le spalle a vicenda e respinsero la seconda ondata di ragni, riuscendo a ricongiungersi con il resto dei nani e con il coraggioso Bilbo, che li aveva salvati. I mostri erano però troppi. Accorrevano da tutte le parti attirati dal rumore del banchetto e dal profumo dei nani. Kili recuperò da un bozzolo il suo arco e iniziò a scagliare frecce. Nere e corte, colpivano i ragni troppo in superficie per risultare loro letali. Elemmire si preparò a colpire ancora, poi una lunga freccia dall’impennaggio candido si conficcò nella testa del ragno che guidava la fila e lo fece carambolare giù dall’albero su cui era appollaiato.
Elemmire non avrebbe saputo se gioire o disperarsi. Quella freccia bianca poteva dire una sola cosa: elfi. Si chiese se non era appena caduta dalla padella alla brace.
La comparsa degli elfi mise in fuga le creature. Le loro sciabole e i loro dardi seminarono il panico anche tra i nani e alcuni tentarono di fuggire. Nessuno vi riuscì. Gli elfi erano alti, anche se non come il popolo di Elrond, e la maggioranza di loro era bionda invece che mora. Un elfo particolarmente avvenente puntava il suo superbo arco contro Thorin. Le sue lunghe chiome erano del colore del sole estivo e gli occhi rilucevano come fonti di montagna nel viso pallido come neve. I suoi tratti però mancavano di magnificenza. C’era qualcosa di provocante, di ilare e volgare nella curva delle labbra, nel naso e nelle sopracciglia. Ispirava più timore che rispetto. I suoi vestiti erano semplici e comodi, colorati di verde fango e marrone chiaro. L’elfo si rivolse nella sua lingua ad una compagna. Questa si fece avanti reggendo un pugnale dal manico intagliato. Era rossa di capelli, di un rosso cupo e focoso e aveva gli occhi verde acqua. La casacca di cuoio e i vestiti maschili non riuscivano a nascondere le curve provocanti, la snellezza delle gambe, l’orgoglio del portamento e la linea sfuggente del collo. Si misero a parlare concitatamente, poi la rossa ordinò qualcosa ad alta voce e gli elfi iniziarono a frugarli. Perquisirono ogni arma e ogni oggetto che i nani avevano con sé. Quando arrivarono a lei, Elemmire vide un lampo di sorpresa nei loro occhi. Rivolsero poche parole all’elfo biondo che le si avvicinò e la guardò. Quando stringeva la mascella assumeva un’espressione piuttosto arrogante. Iniziò con il prendere la sua spada e con aria di disprezzo le parlò in elfico. Elemmire ovviamente non capì, ma suppose si riferisse a come era entrata in possesso della lama di Idril di Gondolin. Decise di rimanere in silenzio. L’elfo la spintonò bruscamente in avanti e i capelli imbrattati di ragnatela le ricaddero sul viso. Elemmire li scostò con la mano e si girò urtata verso l’elfo, scrutandolo con aria di sfida. Tutta la guarnigione si fermò all’improvviso. La rossa rivolse parole concitate al compagno biondo e questi si avvicinò ad Elemmire con diffidenza. Elemmire sperò che non l’avrebbero punita per essere stata irriverente. L’elfo la prese per i capelli con fermezza ma senza violenza e le scostò i ciuffi dalla fronte. Allora Elemmire si ricordò del glifo elfico e di Galadriel.
-Chi ti ha procurato questo?- l’accento dell’elfo era esotico e melodioso. La guardava con impazienza mista a confusione.
-Lady Galadriel di Lothlòrien- rispose Elemmire. Pensò a come svicolarsi dalla presa ferrea dell’elfo.
-Sai cosa significa?
-No.
-Significa che sei intoccabile- la rossa la guardò con occhi fieri e felini –Significa che ti sei guadagnata l’amicizia di un Alto Elfo dell’Ovest e che nessuno di noi può farti del male finché vieni in amicizia.
-Vieni in amicizia?- chiese il biondo.
Elemmire intuì in una frazione di secondo quale strada prendere.
-Vengo in amicizia- disse e si inchinò profondamente.
-Ma sei armata- la rossa alzò il sopracciglio sottile.
-Per difesa personale, nulla più.
-E viaggi con una compagnia di nani il cui armamento non mi sembra finalizzato alla sola difesa personale.
-Sono compagni di viaggio. Non rispondo di loro.
Elemmire capì di aver commesso un errore quando Thorin la fulminò con lo sguardo.
-Non rispondi di loro, certo- l’elfo biondo sorrise in modo inquietante –Tauriel, occupati dei prigionieri. Io scorterò l’Amica degli Eldar.
I nani vennero legati e spinti in avanti senza tante cerimonie. Prima di andare Kili le lanciò un ultimo sguardo con gli enormi occhi verdi. Era uno sguardo profondo, uno sguardo che voleva dire “so che sai cosa stai facendo. Mi fido di te”.
 
Elemmire gemette. Kemen, la sua ancella, le chiese scusa con tono piuttosto soddisfatto.
-E’ che sono così intrecciati e folti! Da quanto tempo non li pettini?
-Da un po’- Elemmire strinse i denti e sopportò in silenzio che l’elfa la spazzolasse e lavasse. Ritrovarsi in una vasca d’acqua calda dopo aver passato giorni all’addiaccio ed aver affrontato dei ragni giganti era una liberazione. Kemen aveva lunghe trecce bionde e un mantello bianco la ricopriva completamente. La improfumò con olii ed essenze e poi le diede una veste di lino e un mantello azzurro con cui coprirsi. I capelli le ricadevano leggermente arricciati lungo la schiena.
-Ora che sei presentabile, straniera, il nostro signore Thranduil desidera vederti. Legolas ti scorterà fino alla sala del trono.
Elemmire si girò verso la porta della stanza da bagno e vide l’elfo biondo che l’aveva catturata appoggiato ai pilastri. Una morbida veste viola chiaro con ricami dorati scendeva fino a terra e l’orlo strascinava leggermente. Legolas le offrì il braccio e la portò con sé nei corridoi della reggia. Elemmire ebbe modo di pensare con lucidità solo una volta lontana dai vapori del bagno.
I nani erano stati imprigionati. Non aveva dubbi perché aveva afferrato le proteste di Thorin, che evidentemente conosceva qualche rudimento di elfico, bastante per comprendere cosa accadeva attorno a lui. Di Bilbo non v’era traccia. Elemmire era certa di averlo visto subito dopo lo scontro con i ragni; da quel momento in poi sembrava diventato invisibile come l’aria. In quanto a lei, era stata alloggiata in un quartiere meraviglioso: la città degli elfi si sviluppava su tre piani, quello aereo, quello terreno e quello sotterraneo. Le avevano assegnato una stanza vicino alle mura e al bosco, e affacciandosi alla finestra poteva vedere il fiume scorrere. Non c’era traccia della regalità e dell’armonia che regnava a Gran Burrone: le forme erano più semplici, i colori più sobri, le persone meno raffinate. Gli elfi portavano lunghi capelli legati in trecce o acconciature semplici e le loro vesti erano spesso ricoperte da mantelli, sciarpe e scialli. Sguardi diffidenti o palesemente ostili l’avevano seguita per tutto il tempo. Legolas camminava veloce nei corridoi terreni e si arrampicava con agilità sulle fune e le scale di corda. Insieme raggiunsero un’enorme piattaforma rialzata ricoperta da un soffitto di foglie e rami fittissimi. Su un trono intagliato con leggeri intrecci sedeva un elfo dalla fronte ampia e regale, il mento alzato con arroganza e il naso perfettamente dritto. I suoi lunghi capelli erano biondo slavato e lunghi fino alla vita. Una corona di rami e frutti gli cingeva la testa e donava a Thranduil un’aria più superba e insieme eccentrica. Una veste argentata gli ricadeva sul petto e sulle spalle aveva un mantello scarlatto. Al suo fianco era in piedi Tauriel, l’elfa dai capelli rossi. Aveva abbandonato i vestiti maschili e indossava una meravigliosa e semplice veste color crema che scendeva dolcemente a terra in morbide volute.
-Padre, ti ho portato Mellon Eldarin, come tu mi hi comandato- Legolas si inchinò e poi indietreggiò.
-Molto bene- il sorriso di Thranduil era freddo e composto –Rendo omaggio all’Amica degli Elfi. Come vi chiamate?
-Elemmire, mio signore.
-Come la nostra stella più bella. Vi prego di sedervi e di condividere con noi la cena.
-Ne sono onorata- Legolas le fece cenno di sedere per terra tra lui e Tauriel. Thranduil batté le mani e due elfi comparvero dall’ombra recando un lungo vassoio. Sopra v’era un intero cervo bianco arrostito e ripieno. Lo stomaco di Elemmire borbottò. Era affamata.
Thranduil si fece servire le parti migliori e mangiò in silenzio seduto sul trono. La carne era succulenta e finemente speziata: vi si riconosceva il sentore del miele, della menta e del garofano. Elemmire mangiò a sazietà per la prima volta dopo molti giorni, ma senza alcuna gioia. Il silenzio degli elfi la spaventava, le mancava il chiasso e l’allegria dei nani. Si sentiva a disagio.
-Mio signore, se posso azzardare una domanda, cosa mangeranno i prigionieri?
-A cosa si deve tutta questa preoccupazione per il loro trattamento?
-Sono stati miei compagni di viaggio. Voglio essere sicura che possano godere di altrettanta ospitalità, visto che non hanno in alcun modo arrecato offesa a voi e al vostro popolo.
Thranduil la squadrò ed Elemmire temette di essersi spinta troppo in là.
-I prigionieri sono stati portati nei nostri sotterranei in via cautelare, perché non ci fidiamo dei nani. Tuttavia, che nessuno debba dire che nelle prigioni di Thranduil si muore di fame. Verranno serviti loro ortaggi e legumi in abbondanza.
Elemmire represse un sorriso ricordando come la maggior parte dei nani avesse disdegnato i cibi vegetariani di Elrond. Rassicurata si servì di frutta: c’erano more, mele e uva fragola, tutto annaffiato da vino bianco e delicato.
-E ora, passiamo a cose più sostanziose- Thranduil ordinò qualcosa in elfico e i due servitori portarono delle bacinelle d’acqua in cui galleggiavano petali di rosa dove fecero sciacquare le mani dei convitati.
-Tauriel, Legolas, voglio un resoconto dell’azione di oggi.
-Mio signore, abbiamo seguito le tracce dei ragni fino al quadrante sud-ovest della foresta. Qui li abbiamo trovati impegnati nella lotta contro i nani. Li abbiamo ricacciati verso le zone più impenetrabili.
-Tutto qui? Legolas, vuoi aggiungere qualcosa?
-No, padre, Tauriel ha detto tutto ciò che era da dire. Ha omesso solo che grazie al suo valore siamo riusciti a respingere il nemico e a immobilizzare i prigionieri.
Elemmire si sentì indignata: erano stati lei e i nani a combattere e a fare il lavoro sporco! Si rese conto all’istante che gli elfi dovevano averli seguiti già da un po’. Avevano lasciato che loro mettessero a repentaglio le loro vite contro i ragni ed erano intervenuti all’ultimo momento.
-E’ così Tauriel? Legolas dice che hai combattuto bene.
-Ho fatto il mio dovere, mio signore. Vostro figlio è troppo benigno.
E di parte, pensò ancora Elemmire. Legolas divorava Tauriel con gli occhi.
-Sì, lo è, soprattutto perché se non vado errato ben due settimane fa ti ordinai di respingere i ragni. Mi avevi assicurato che non sarebbero più tornati nei nostri domini.
-Padre, Tauriel non ha colpe. Sono stati i nani ad attirarli fin quasi alle nostre mura.
-No, Legolas, già da giorni si aggiravano troppo vicini. Ho monitorato la situazione, mio re, e sono intervenuta quando mi è parso necessario, ma ve ne sono troppi. Si riproducono troppo in fretta.
-Cosa dovremmo fare allora?- Thranduil aggrottò le sopracciglia con alterigia.
-Attaccarli nel loro covo, a Dol Guldur.
Elemmire ricordava quel nome. Gliene aveva parlato Galadriel in sogno, dicendo che vi dimorava il male.
-Dol Guldur è disabitata.
-No, mio re, un negromante è giunto e vi ha posto dimora. Come spiegate altrimenti la siccità che ha colpito il Bosco? Gli alberi sono malati, nulla vi cresce più.
-E’ autunno, Tauriel, è forse la prima volta che le foglie muoiono?
Tauriel si morse un labbro. Ad Elemmire parve di sentire l’ondata di rabbia dell’elfa e lo sforzo che ella faceva per contenersi.
-Quello che Tauriel vuole dire padre è che…
-Tauriel ha già detto fin troppo. Quello che avviene al di fuori non ci riguarda, ma non tollero che il mio popolo venga messo in pericolo perché i mei comandanti ignorano i miei ordini. Legolas, lasciaci. Tauriel, ora discuteremo della tua situazione.
Legolas si alzò con lo sguardo pieno di apprensione. Tauriel guardò orgogliosamente avanti a sé ma Elemmire poteva vedere come la linea della mascella si fosse indurita. I ciuffi che ricadevano dall’acconciatura sfioravano il collo tenuto fieramente dritto. In quanto a lei, Elemmire, Thranduil sembrava essersi dimenticato di lei. Decise che non avendo ricevuto ordini sarebbe rimasta ad ascoltare.
-Legolas è molto affezionato a te- Thranduil rivolse uno sguardo glaciale a Tauriel e si alzò dal trono. Iniziò a camminare lentamente verso l’elfa.
-Non più del necessario, mio signore.
-Tu dici?
-Mi considera per quello che sono: il suo capitano.
-Mi fa piacere vedere tutta questa sicurezza in te. Ovviamente immagino tu sappia come la penso.
-Ovviamente, mio signore.
-Non permetterò a mio figlio, principe del Reame Boscoso, di unirsi ad un’elfa silvana. Tra poche settimane ospiteremo dama Arwen di Gran Burrone, figlia di Elrond e nipote di Galadriel di Lothlòrien.
-So chi è Arwen Undomiel.
-Meglio così. Voglio che per quel momento Legolas abbia mente e cuore aperti a ricevere la sua ospite e ad onorarla con la sua compagnia. Mi hai inteso?
Tauriel abbassò la testa. Elemmire intuì in lei un grande dolore.
-Sì.
-Sì cosa?
-Vi ho inteso, mio re.
-Ottimo. Ora, lasciaci.
Tauriel si alzò e la sua veste frusciò appena. Rivolse un sorriso di circostanza ad Elemmire e poi scese le scale che portavano a terra.
-Ora, Elemmire, finalmente del tempo per noi.
Elemmire si girò verso Thranduil. Il re non le ispirava quel senso di rispetto e ammirazione che si provava al cospetto di Elrond.
-Inizia col dirmi chi sei, e da dove vieni, e cosa hai fatto per meritarti il titolo di Mellon Eldarin. Il simbolo che porti sulla fronte, non ne vedo in giro da molto tempo.
-Vengo dall’Ithilien. Mi sono persa mentre la mia famiglia viaggiava verso Nord e ho incontrato i nani che mi hanno accompagnata per strada.
-Dove?
-Chiedo perdono?
-Dove vi siete incontrati.
Elemmire rimase interdetta. Pensò in fretta.
-Nei pressi di Gran Burrone. Siamo stati ospiti di sire Elrond e di dama Galadriel, che alloggiava presso di lui.
-E chi dei due ti ha nominata Amica degli Eldar?
-Galadriel.
Thranduil la guardava in modo così penetrante che sembrava volerle scrutare il cuore stesso. Rimase concentrato su di lei per un po’, poi all’improvviso scoppiò a ridere.
-Sai Elemmire, questo è davvero buffo. Di solito riesco a leggere nelle menti degli Uomini come in libri aperti, ma stranamente l’accesso ai tuoi pensieri mi rimane bloccato. Hai qualche antenato di sangue elfico?
-Non che io sappia, mio signore.
-Che buffa situazione. Questo ti rende ancor più interessante. Immagino io debba fidarmi di quello che dici e della tua buona fede. Posso chiedere cosa ti porta qui nel Bosco Atro se la tua meta, l’Ithilien, si trova dalla parte opposta della Terra di Mezzo?
Elemmire iniziò a sudare freddo. Mantenne la calma e con lucidità ragionò.
-I nani mi hanno chiesto di accompagnarli fino a qui in cambio della vita che mi hanno salvato diverse volte lungo la strada. Abbiamo poi scoperto che la via sud era bloccata e siamo entrati nel Bosco, ma ci siamo persi.
Sapeva che la storia non reggeva. E sapeva anche che Thranduil se n’era accorto. Non le credeva, tuttavia non aveva prove per smentirla. Elemmire voleva che il colloquio finisse in fretta.
-E quale tua dote ti rende così preziosa agli occhi dei nani?- Thranduil sembrava divertirsi. Stava giocando con lei come il gatto con il topo.
-So cucinare- Elemmire si sforzò di sembrare disinvolta.
Thranduil ridusse a fessure gli occhi di ghiaccio:-Sei un soggetto interessante, Elemmire Mellon Eldarin. Viaggi da sola con tredici nani, porti un titolo che prima di te è stato attribuito a pochissime persone e la tua mente mi è impenetrabile. E oltretutto sai cucinare. Sei piena di risorse.
Elemmire rimase in silenzio. D’un tratto aveva sonno. Sbadigliò discretamente.
-Oh ma che rozzo che sono, ti ho trattenuta oltre tempo. Hai il mio permesso per ritirarti. Ci rivedremo nei prossimi giorni.
-Quando potrò ripartire, mio signore?
Thranduil sorrise:-Quando mi avrai raccontato la verità.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** il nemico del mio nemico ***


-Desidero vedere i prigionieri.
Elemmire guardò l’elfo che sedeva alla porta delle prigioni con quella che nelle sue intenzioni doveva essere un’aria rilassata e svagata. Il carceriere indossava una cotta di maglia bruna, braghe di tela e alti stivali neri. Elemmire era così piccola al confronto, nella sua veste rosa dalla foggia semplice. I lunghi capelli erano sciolti e per tutto il giorno le erano finiti nella bocca e negli occhi, ma ora all’ingresso dei sotterranei il vento era cessato e il glifo argentato era ben visibile sulla fronte. Il tunnel che portava alle prigioni era stato scavato nella terra ed era in discesa, illuminato a intervalli regolari da bellissime lampade bianche di ferro con elaborati intarsi. La luce era così brillante che assomigliava a quella solare.
L’elfo la guardò. Aveva i capelli rosso fiamma e occhi neri come pietre d’onice.
-Avete un permesso scritto?
-No- Elemmire si mosse a disagio da un piede all’altro.
-Allora non potete entrare. Questi prigionieri sono inaccessibili a chiunque non sia autorizzato da re Thranduil.
-Ma io sono un’Amica degli Eldar. Esigo vedere i nani.
L’elfo si alzò, superandola di molti palmi in altezza:-Ordini del re.
Le sbarrò l’entrata con la lunga lancia.
-Edrà i fend an Mellon Eldarìn Elemmirè; beriannen nas o bodad.[1]
L’ombra alle spalle di Elemmire risuonò di passi ovattati. Una figura con un corto mantello e una tunica turchese stretta in vita con una cinghia di cuoio emerse dal corridoio. I capelli rossi erano sciolti e i piedi scalzi. Sulle spalle portava una faretra e un arco. Era Tauriel, il comandante delle guardie.
-Ho degli ordini ben precisi durante il mio turno di guardia.
-Durante il tuo turno, hai detto bene, ma io vengo a darti il cambio. E durante il mio turno Mellon Eldarin può passare.
L’elfo si alzò e a passi lenti percorse il corridoio, non senza prima lasciare un mazzo di chiavi
Tauriel si appoggiò allo stipite con aria guardinga. Aveva un sopracciglio aggrottato e giocherellava con una piccola chiave attaccata all’estremità del mazzo. D’un tratto l’infilò nella serratura e il cancello si aprì con uno scatto metallico.
-La cella che stai cercando è la penultima sulla destra. Scendi dieci scalini e la troverai.
-Come fai a sapere cosa sto cercando?- fino a quel momento, neanche Elemmire sapeva con quale scopo fosse scesa nelle prigioni.
Tauriel sorrise:-Ho parlato con i nani ieri sera, dopo il banchetto. Ho scoperto più cose sul tuo conto di quanto avrei mai sperato, Mellon Eldarin.
Con una piccola spinta scostò la soglia ed Elemmire sgusciò all’interno. Si ritrovò in un posto che a tutto assomigliava tranne che ad un carcere. Fondamentalmente, era in una grotta, una grotta enorme di cui a malapena vedeva il fondo. Una balaustra correva lungo la piattaforma dove lei si trovava e incorniciava due scalinate, a destra e a sinistra, che si incrociavano e separavano sinuosamente per metri e metri verso il basso. Ogni dozzina di scalini erano visibili delle sbarre spesse e finemente decorate che chiudevano le aperture di altre piccole caverne addossate alle pareti irregolari. Un complicato complesso di cascate e lampade d’argento rendevano il luogo pittoresco e inconfondibilmente elfico. Elemmire seguì le indicazioni di Tauriel e giunse all’imboccatura di una cella dal soffitto basso. Le sbarre di ferro nero portavano intarsi semplici e quasi geometrici. All’interno, due figure giacevano nell’ombra.
Fili era coricato per terra e a giudicare dall’abbassarsi lento e regolare del petto dormiva. Kili era appoggiato con la schiena alla parete e giocava con una pietra: la lanciava in aria e poi la faceva cadere di nuovo sul dorso della mano. Nel vedere il viso del nano concentrato e sgombro di preoccupazioni, il cuore di Elemmire ebbe un sussulto. Si inginocchiò davanti alle sbarre e sussurrò:-Disturbo?
Kili fece cadere a terra la pietra e il rumore svegliò Fili. Entrambi la guardarono con gli occhi sbarrati per qualche secondo, poi fulminii le si avvicinarono. Gli occhi di Kili brillavano e il suo sorriso sembrava rendere l’aria più luminosa.
-Ma tu guarda chi si rivede! Ancora una volta, tu indossi le vesti degli elfi e noi qui patiamo la fame.
-Patite davvero la fame? Thranduil mi ha assicurato che c’era cibo a sufficienza nelle prigioni.
-Visto che hai un rapporto così stretto con il re degli orecchie-a-punta chiedi se possiamo avere cibo vero. Sono due giorni che mangiamo solo fichi, castagne arrosto e pere acerbe.
-Vi trovo in forma.
-Non facciamo altro che sonnecchiare tutto il giorno.
-Di questo passo mi si afflosceranno i baffi, e non solo.
-Che grande perdita, fratello mio.
-Tu non hai niente che possa afflosciarsi, Kili.
Le conversazioni dei nani, sussurrate attraverso le sbarre, sollevarono il cuore di Elemmire fino alle stelle. Appoggiò la testa sul duro ferro e in un soffio disse:-Sono così felice di rivedervi.
Kili appoggiò la testa in corrispondenza della sua e le sorrise a pochi centimetri dal volto:-Fa piacere anche a noi. Ci siamo preoccupati.
-Tutta sola nelle mani degli elfi. L’ultima volta hai riportato quella bella cicatrice sulla fronte. A proposito, non ce l’avevi mai mostrata.
-E’ una storia lunga- Elemmire si morse il labbro. Quanto poteva o doveva raccontare ai due fratelli?
-Non sommergerla di domande inutili, Fili. Come sei arrivata qui?
-La carceriera mi ha fatto passare.
-Tauriel? Chiamala carceriera… Sai chi è?
-Un gran pezzo di donna.
-E smettila Kili. Sai chi è? Primo comandante dell’esercito di Thranduil. Quel pezzo di donna, come la chiami tu, combatte meglio di tutti noi messi assieme.
-Sì, ho cenato ieri sera con lei e il re, e il principe, Legolas.
I due fratelli si guardarono:-Hai sentito Fili? Lei pranza alla mensa del re.
-Con le più influenti personalità del reame.
-Chi diavolo glielo fa fare a viaggiare con noi poveracci?
-Gli elfi sono arroganti e subdoli- Elemmire abbassò la voce –Mi aspetto un coltello nella schiena da un momento all’altro.
-Stupefacente che non ti sia ancora arrivato.
-E’ perché sono Amica degli Elfi. Sono intoccabile, inviolabile.
-Ti stanno trattando bene quindi?
-Sono diffidenti, ma si sforzano di essere cortesi.
Kili le annusò una ciocca di capelli:-Puah, hai ricominciato a puzzare di elfo.
Elemmire sorrise:-Dove sono tutti gli altri?
-Nelle varie celle, sopra e sotto.
-Avete idea di quando verrete liberati?
-Che nota dolente che hai toccato- Fili sbadigliò –La racconti tu questa storia? Io ho un certo bisogno della latrina.
Il nano biondo scomparve attraverso una piccola porticina nel fianco della cella. Il complesso di grotte doveva essere immenso.
Kili le fece segno di avvicinarsi:-Ieri Thorin ha parlato con Thranduil. C’è una storia che devi conoscere: quando nonno Thror era ancora Re Sotto la Montagna gli elfi erano suoi alleati e ogni anno pagavano un tributo. Solo che un bel giorno Thranduil si rifiutò di pagare il prezzo stabilito e i nani lo presero con la forza.
-In cosa consisteva questo prezzo?
-Pietre lunari. Uno scrigno colmo di gemme più pure e splendenti dei diamanti e degli zaffiri. La loro luce è uguale a quella delle stelle elfiche.
-E poi?
-Gli elfi ovviamente raccontarono in giro solo una parte della storia. Dissero che noi nani li avevamo derubati e ci negarono aiuto quando Smaug attaccò dicendo che l’antica alleanza era stata infranta. Così ora Thranduil ci rilascerà solo se Thorin acconsentirà a restituire quelle gemme, una volta presa Erebor.
-Fammi indovinare. Thorin ha rifiutato.
-Quei gioielli ci sono dovuti! Sono nostri di diritto!
-Sono presi con la forza Kili! Saranno anche vostri di diritto, ma le armi lasciano sempre scontente entrambe le parti.
-Credi che gli elfi siano nel giusto?
-Credo che voi stiate sbagliando. C’è in palio la vostra libertà.
-C’è in palio anche il nostro onore- Kili la guardava furioso –Ma giustamente come puoi capire? Tu hai una casa calda dove tornare, tu appartieni lì. Come puoi capire noi nani?
 Elemmire indietreggiò davanti all’ira del nano. Le parole di Kili la ferirono. Si alzò in piedi e con passi affrettati risalì la scala.
-Elemmire, scusa. Non volevo che andassi via. Ti prego, resta.
Kili le tese il braccio in mezzo alla sbarre.
-Ho imparato la lezione. Mai discutere con un nano se si è di parere opposto.
-Ma no, non dire così.
-Gandalf dice che l’orgoglio di Thorin sarà la sua rovina.
-Non vedi l’ora che accada la stessa cosa per me, eh?
-Tu non sei orgoglioso. Sei…parziale, ecco.
-Scusami. Non ho rispettato la tua opinione. In effetti parli come parlerebbe qualsiasi creatura ragionevole, e come ha parlato ieri sera Balin. Qui tutto rimbomba. Il fatto è che zio Thorin, oltre ad essere orgoglioso, è anche piuttosto cocciuto e irragionevole.
Elemmire scese di nuovo le scale e si sedette ancora alla porta della cella:-Tu a volte sei suo degno nipote.
-Mi dispiace per quello che ho detto prima. A volte dimentico che anche tu stai tornando a casa.
-E che a casa non c’è nessuno ad aspettarmi.
Attraverso le sbarre Kili le prese la mano e la strinse:-Troverai sempre ospitalità e cuori affettuosi ad Erebor. Anche senza cicatrici sulla fronte, rimarrai sempre un’Amica dei Nani.
Elemmire avrebbe voluto appoggiare la sua testa sulla spalla di Kili, ma poté solo stringergli forte la mano callosa.
 
 
 
Thranduil la mandò a chiamare nel pomeriggio. Il re degli elfi silvani appariva singolarmente minaccioso vestito di bianco, come un angelo vendicatore. Al suo fianco Legolas indossava comodi vestiti da combattimento. Elemmire ripeté la storia del giorno prima e ancora Thranduil la rimandò nei suoi appartamenti. Due guardie in più vennero però posizionate alla sua porta e Kemene, l’ancella, prese a visitarla una sola volta al giorno. Elemmire comprese che era prigioniera anche lei, pur vivendo in un comodo appartamento circondata da tutti i comfort di una camera elfica. I suoi pasti divennero frugali e a base di frutta: mele cotogne e melegrane annaffiate da vino leggero. Ogni giorno che passava la sorveglianza su di lei divenne più stretta: non poteva lasciare il suo appartamento per nessuna ragione, per quanto pregasse o minacciasse gli elfi alla sua porta. Iniziò a sentire come una sofferenza fisica la solitudine forzata e guardava con terrore il tempo che scivolava via. L’autunno apriva le sue ali e volava in fretta, ma Thranduil sembrava ben deciso a non schiudere il pugno di ferro attorno ai prigionieri. Nelle lunghe ore di riflessione, Elemmire iniziò a pensare a come scappare dalla trappola del re degli elfi. Iniziò a ragionare sulle persone che la circondavano e un piano iniziò a delinearsi nella sua testa. Le serviva però l’appoggio di una persona, e quella persona era Tauriel. L’elfa comandante sembrava averla in simpatia e già una volta aveva trasgredito alle regole per farle vedere Kili e Fili. Cosa sapeva di lei? Sapeva che era valorosa e astuta, una guerriera che non era stata altro per tutta la vita. Conosceva bene le prigioni e i palazzi elfici e sicuramente era al corrente di eventuali passaggi segreti e scorciatoie. Nelle sue mani aveva molto potere e soprattutto molti mazzi di chiavi. Ma c’era dell’altro. Era innamorata, ricambiata, del principe Legolas, e questo l’aveva portata in attrito con Thranduil. A chi doveva la sua lealtà? Al suo cuore o al dovere? Elemmire intendeva scoprirlo presto. Con il passare dei giorni divenne sempre più impaziente di vedere Tauriel, pure non osava chiedere di lei per paura che il suo piano fallisse ancor prima di iniziare. Avrebbe anche voluto parlare con i nani, ma non vedeva come potesse comunicare con loro. E poi, un grande interrogativo la turbava. Bilbo Baggins. Dello hobbit si era persa ogni traccia da quando gli elfi avevano messo in fuga i ragni. Bilbo li aveva salvati, li aveva liberati dai bozzoli delle tele e aveva poi combattuto: era stato all’ultimo fatto prigioniero dai mostri? Era morto? Elemmire non sapeva cosa pensare. Una mattina si svegliò accompagnata dai canti festosi degli elfi. Chiese alla guardia che stava stravaccata davanti alla sua porta cosa succedesse e quella rispose:-Come, non sapete? Sta per arrivare Dama Arwen Undomiel di Gran Burrone, figlia di sire Elrond.
Con il cuore in gola, Elemmire si rese conto che era arrivato il momento di mettere da parte i pensieri e di agire. Se ci fosse stato un fidanzamento tra Dama Arwen e il principe Legolas, ogni suo schema sarebbe stato spazzato via. Doveva muoversi in fretta. Kemene la lavò e la spazzolò.
-Il re Thranduil desidera che Mellon Eldarin partecipi alla cerimonia di accoglienza per Arwen Undomiel.
L’ancella non pareva entusiasta, tutt’altro, e i suoi gesti erano rigidi e sgarbati. Le porse una veste color caffè dalle maniche svolazzanti ed una pietra lucida attaccata ad un cinturino di cuoio da mettere al collo, poi le scostò i capelli dalla fronte in modo che fosse ben visibile il glifo argentato. Le servì una colazione di mandorle al miele e pane raffermo con un boccale di latte schiumoso.
-A breve Tauriel verrà a prendere Mellon Eldarin e la scorterà verso la sala del trono- Kemene uscì dalla camera con aria impassibile.
Elemmire non riusciva a credere alla sua fortuna. Attese sforzandosi di rimanere calma che l’elfa dai capelli rossi comparisse e schizzò in piedi nell’udire un sommesso bussare alla porta. Non fu però Tauriel ad entrare. Ad essere sinceri non entrò nessuno: la porta si dischiuse e poi si riaccostò come per un soffio di vento. Ma qualcuno aveva bussato, Elemmire ne era certa. Come dal nulla ci fu un fruscio e Bilbo comparve nel bel mezzo della stanza. Elemmire rimase talmente stupita che l’urlo le si incastrò in gola. Poi le ginocchia le cedettero e cadde a terra con un gemito.
-No, no, o bontà divina- Bilbo l’aiutò a sedersi e si strofinò le mani impacciato –Non volevo spaventarti. Devo parlarti urgentemente. Ho passato le ultime due settimane a mettermi d’accordo con Thorin, ma ci serve un complice, un complice interno e ho pensato…
Il sovraccarico di informazioni fece girare la testa di Elemmire:-Piano, piano, una cosa alla volta. Da dove spunti fuori Bilbo Baggins?
Lo hobbit si dondolò sui piedi:-Sono uno hobbit.
-Non c’entra nulla. Non ti ho nemmeno visto entrare. Visto, non sentito.
-E’ una storia molto lunga. Diciamo che ho qualcosa in tasca che mi permette di passare non visto.
-E’ così che sei penetrato nelle prigioni? Come sta Thorin? E Kili? Fili? Gli altri?
-Stanno tutti bene, ma dobbiamo fuggire il prima possibile, possibilmente domani all’alba. Ascoltami. Ho scoperto una stanza vicino al fiume in cui gli elfi tengono botti vuote. Tutti i loro viveri arrivano dal Lago Lungo e dalla città di Esgaroth in delle botti di legno enormi, bastanti per far entrare un nano. Queste botti ogni notte vengono rigettate nel fiume e la corrente le porta fuori dai confini di Thranduil. Gli uomini arrivano e le riempiono di nuovo.
-Thorin è d’accordo?
-Lo è, ma abbiamo bisogno di qualcuno che ci apra il cancello della chiusa.
-So io a chi rivolgerci. Tu organizza i particolari, io parlerò con chi di dovere.
-E un’altra cosa. Ci serve qualcun altro che faccia evadere i nani dalle prigioni.
-Lascia fare a me. Immagino che stasera ci sarà un banchetto in onore di Arwen. Per l’inizio della cena fatti trovare in questo deposito: io arriverò con i nani e con chi ci aprirà i cancelli.
Bilbo la guardò con i grandi occhi nocciola:-Sei sicura che questo qualcuno accetterà di aiutarci?
-No, ma vale la pena tentare.
Bilbo si spostò in silenzio verso la finestra e saltò sul davanzale. Elemmire a malapena lo vide: era tutta concentrata ad incastrare le tessere del suo puzzle in modo da prevedere ogni imprevisto. Con analisi millimetrica e sottile bilanciò ogni possibilità e scelse le parole da rivolgere a Tauriel, poi in un battito di ciglia stabilì le tempistiche, organizzò i luoghi in modo da compilare la mappa bianca che aveva in testa. Le serviva Legolas: doveva attirarlo via dal banchetto. Sarebbe stato sospetto se non si fosse nemmeno presentato a cena. Bisognava poi aspettare che tutte le guardie fossero fuori combattimento, magari ubriache, e quindi distribuire loro del vino.
-Signor Baggins, fate in modo che abbondante vino forte finisca negli stomaci delle guardie.
-Agli ordini- Bilbo le sorrise.
-E assicurati che le botti reggano il peso dei nani, e che non entri troppa acqua.
-Non posso dare nessuna certezza su questo.
-Rivestile con qualcosa allora. Non vogliamo che qualcuno affoghi.
-Al resto penserai tu?
Elemmire annuì. L’idea di mettere in atto il piano che meditava da tempo la esaltava.
-Ci vediamo stasera allora. Appena dopo il tramonto.
-Ci saremo. Signor Baggins, non sono mai stata così felice di vederti.
Bilbo saltò giù dal davanzale. E Tauriel entrò.
L’elfa la trovò in piedi che si torceva le mani e rifletteva all’impazzata. Indossava una veste bianca con delicati ricami e aveva i capelli acconciati semplicemente: due piccole trecce raccolte dietro la nuca e il resto sciolto e fluente fino ai fianchi. Sembrava una statua di cera per pallore e immobilità. Non un muscolo del viso si mosse nel vederla.
-Tauriel- la fretta rese Elemmire imprudente –Devo parlarti.
-Ho il compito di scortare Mellon Eldarin fino alla sala del trono di re Thranduil- Tauriel si inchinò rigidamente ma i suoi occhi rimasero fissi in quelli di Elemmire con uno sguardo imperioso che significava “non qui, non ora”. Elemmire seguì i suoi passi fuori dall’appartamento, libera per la prima volta dopo molti giorni. L’aria era fresca e profumata di erba. Un tappetto di scricchiolanti foglie secche si stendeva sotto i loro piedi e il sole filtrava gentile dai rami più alti. Le costruzioni in legno e pietra grigia sembravano ponti che collegavano un albero all’altro con arcate di finestre e tetti ricurvi. Tauriel aspettò di essere sola con lei, poi le rivolse un sussurro dall’angolo della bocca:-Cosa dovevi dirmi?
-Qual è lo stato delle cose tra te e il principe Legolas?
L’elfa si fermò. I suoi occhi color acquamarina dal perfetto taglio obliquo fissavano Elemmire con intensità. Vi si indovinava dietro una feroce battaglia.
-Da donna a donna- insistette Elemmire, la cui audacia cresceva insieme al silenzio di Tauriel –Mi sembra di aver capito che esiste un’attrazione reciproca.
-Dove vuoi arrivare?
-Quante leggi infrangeresti pur di stare con lui?
-Cosa mi stai chiedendo, umana?- il tono di Tauriel era sprezzante, ma le sue labbra tremavano.
-Uno scambio. Sai meglio di me cosa succederà nei prossimi giorni. Thranduil è stato molto chiaro sul perché Arwen Undomiel di Gran Burrone è qui. E altrettanto chiari sono i tuoi sentimenti.
-Questo è irrilevante. Ho nascosto i miei sentimenti per centinaia di anni, posso continuare a farlo.
-No, non potrai. Appena si sarà concluso il fidanzamento tra Legolas e Arwen Thranduil ti farà allontanare. Ti assegnerà ad una squadra di ricognizione molto lontana dal Reame, magari potrebbe accettare la tua proposta e spedirti a Dol Guldur a sventrare ragni giganti. Sai che succederà. Legolas andrà a vivere a Gran Burrone sotto la protezione di sire Elrond, che mai lascerà che sua figlia venga in contatto con l’oscurità di Dol Guldur. È questo che ti aspetta Tauriel, e tu lo sai tanto quanto lo so io, perché sei donna oltre che guerriera, e sei amante.
-Non voglio ascoltarti un momento di più!- Tauriel riprese a camminare con rabbia.
-Devi ascoltarmi, Tauriel! C’è un’alternativa a tutto questo che renderebbe il finale lieto per entrambe.
-E quale sarebbe l’alternativa che mi offri, Mellon Eldarin?- Tauriel aveva gli occhi colmi di lacrime che scintillavano come perle tra le sue ciglia.
-Sai chi tieni prigioniero?
-Thorin Scudodiquercia e la sua compagnia, compresi i suoi due nipoti.
-E sai dove erano diretti?
-A Erebor, dove dimora Smaug.
-Devono trovarsi lì per la fine dell’autunno, o la via segreta non si aprirà e non potranno riconquistare la loro patria.
-Cosa c’entro io con tutto questo?
-Tu hai in mano un mazzo di chiavi, e non solo. Tu hai in mano il potere. Sei il comandante dell’esercito di Thranduil. Aiutami a farli scappare, e vieni con noi. Porta Legolas con te, allontanatevi, createvi una nuova vita insieme presso Dama Galadriel. Lei vi ospiterà volentieri se saprà che mi avete aiutata.
-Ciò che mi proponi è alto tradimento nei confronti del mio re.
-Un re che ti ha trattata in modo ingiusto e che sta per spezzare ogni tuo sogno per il futuro. Lo stesso re che sta per far fidanzare il tuo amante con una sconosciuta.
-E’ una questione di onore e lealtà.
-A chi devi la tua lealtà, Tauriel? A un re, o al tuo cuore?
Gli occhi verdi la guardarono ancora, questa volta con sfida:-E tu, Mellon Eldarin, a chi devi la tua lealtà?
Elemmire non ebbe dubbi nel rispondere:-A Thorin Scudodiquercia e alla sua discendenza.
-Dovevi essere gettate nelle prigioni assieme a loro allora.
-Rifletti su quello che ti ho chiesto Tauriel.
-Potrei denunciarti.
-Potresti, ma le cose non cambierebbero. Verrebbe raddoppiata la sorveglianza tuttalpiù. Sono intoccabile. E Thranduil per sicurezza affretterebbe i preparativi per un matrimonio ed un trasferimento.
Erano giunte alla sala del trono. Sembrava che tutto il reame boscoso si fosse riunito per onorare la figlia di Elrond.  Elemmire si sentiva sfinita dalla discussione. Tauriel si allontanò in silenzio dal suo fianco e si posizionò al fianco sinistro di re Thranduil, vestito di bianco e verde per l’occasione. Alla sua destra c’era Legolas con vesti molto simili a quella del padre. E al centro, scortata da alcuni elfi dai capelli neri e i mantelli candidi, stava una creatura che sembrava plasmata con la luce stessa del cielo. I suoi capelli corvini erano liquidi e scuri come una notte di luna nuova, sciolti sulla veste di un candore verginale e insostenibile. Gli occhi parevano due stelle grigie incastonate in una maschera di calcare, levigato e liscissimo come il dorso di una perla. La bocca era uno spacco vermiglio, le ciglia prezioso pizzo. Le orecchie a punta erano così fini da sembrare rosee conchiglie. Il portamento di Arwen Stella del Vespro era quello di una regina, infinitamente superiore perfino a Thranduil, ma il suo sguardo era basso e umile come quello di una docile ancella. Legolas la guardava rapito ed Elemmire credette che mai alcuna donna, mortale o immortale che fosse stata, avrebbe potuto anche solo eguagliarla in splendore e nobiltà. Da lei si spandeva la purezza che circondava Galadriel e la severità, la compostezza di Elrond. Vennero scambiate molte frasi in elfico che Elemmire non capì, poi la nobile ospite fu invitata a sedere e venne servito del vino caldo speziato. Si fecero brindisi per tutta la mattinata e venne servita lepre marinata per pranzo. Elemmire stava per addentare il suo boccone quando una guardia di Thranduil si avvicinò dicendo di avere il compito di scortarla via. Tauriel stessa si mise in mezzo.
-La scorterò io nei suoi appartamenti.
L’elfa tremava in tutto il corpo e aveva le pupille dilatate. Non passarono che pochi minuti e parlò con voce vibrante di sofferenza:-Dimmi di cosa hai bisogno, Elemmire, e io te la concederò.
Il sollievo minacciò di travolgerla. –Una spia ha trovato il modo di uscire usando le botti vuote che vengono da Esgaroth. Dobbiamo far arrivare i nani fino al deposito sul fiume questa notte.
-Ci saranno guardie laggiù.
-Abbiamo pensato anche a questo. Se tutto va bene a quell’ora staranno gustando il vino di Thranduil e saranno completamente ubriache.
-E Legolas? Come farò ad attirarlo via dal fianco di Undomiel?- le parole furono pronunciate con risentimento.
-Devi intervenire al banchetto e chiedere che lui venga con te perché non riesci a trovarmi più nella mia camera. Poi lo porti al deposito e nel frattempo gli racconti tutto.
-E se lui rifiutasse? Gli sto proponendo di tradire suo padre.
-Legolas ti ama, Tauriel. È palese.
-E’ pur sempre di suo padre che stiamo parlando.
-Anche tu avresti potuto rifiutare, ma io ho tentato lo stesso.
-E avrei rifiutato, se non avessi visto Undomiel da vicino. Certo che sei la persona più strana che io abbia mai visto in seicento anni. Sei un’umana, amica degli elfi con delle spie sparse nel mio popolo e hai giurato lealtà ai nani. Sei incomprensibile. E assomigli molto ad un’elfa che conobbi quando ero ancora bambina.
-Chi era?
-Si chiamava Idril. Era della stirpe di Gondolin quando la città cadde e sposò un umano, Tuor.
-Conosco la sua storia. La spada che impugno è sua. A proposito, potremo riavere le nostre armi?
-Helcaraxe è qui?- gli occhi di Tauriel si illuminarono.
-Ha cambiato nome ora. Si chiama Nen Girith e appartiene a me.
-Nen Girith, l’acqua che trema. Uno strano nome per una spada.
Tauriel la lasciò davanti alle sue stanze.
-Ho bisogno di tempo per raccogliere tutte le vostre armi e per controllare che ogni cosa fili liscia. Tu rimani qui. Tornerò a prenderti al calare del sole. C’è qualcosa che devo preparare per te?
-Un cavallo- rispose Elemmire con sicurezza –Io non entro in una botte.
Tauriel la fece entrare e poi con fare circospetto se ne andò. Elemmire non perse tempo: sbarrò la porta e si preparò a tornare in viaggio con vestiti comodi. Indossò un pantalone grigio e una tunica nera con bassi stivaletti, poi con un nastro raccolse i lunghi capelli in una coda. Aspettò che il sole scendesse lungo il profilo delle mura e mai il tempo le parve più crudele. Quando la luce violetta del tramonto illuminò i merli delle torri di avvistamento un soffice bussare alla morta le disse che Tauriel era arrivata. L’elfa si era cambiata e indossava un mantello nero, sotto al quale si intravedeva un’elaborata veste turchese. In silenzio la portò nel tunnel delle prigioni e aprì con un clangore metallico il cancello. Le mise in mano una chiave e disse:-La cella dei due giovani. Aspetta qui finché l’oscurità non sarà calata e io tornerò a prendervi.
Elemmire avanzò nella luce bianca tra gli spruzzi delle cascate e appena vide la cella di Kili e Fili si affrettò ad aprirla. Entrambi dormivano profondamente. Si avvicinò a Kili e con delicatezza lo scosse per una spalla. Il nano spalancò gli occhi e trattenne il respiro.
-Elemmire. Per la barba di Durin, stai bene?- sussurrò alzandosi a sedere. Elemmire si accucciò accanto a lui:-Sto bene, sto bene. Mi hanno tenuta prigioniera nella mia stanza per tutto il mese. Bilbo vi ha già detto tutto?
-Ogni cosa. È Tauriel vero? È con lei che hai parlato?
-Sì. Ci aiuterà. Sta radunando le nostre armi, tornerà a prenderci appena sarà calata la sera.
-E’ fatta quindi. Per domani saremo fuori di qui.
-Se la fortuna ci assiste, sì.
Kili era appena visibile nella penombra. Stava sorridendo e pareva una bestia in agguato.
-Mi sei mancata così tanto- esclamò all’improvviso. Il cuore di Elemmire ebbe un fremito. Tutte quelle notti passate da sola nella camera fredda e vuota, tutti quei giorni di contemplazione silenziosa del sole che solcava il cielo, non un singolo istante il suo pensiero si era dipartito dal giovane nano chiuso in una cella e dalla solitudine che si sentiva addosso nel non averlo accanto a sé. Non aveva mai capito perché la risata di Kili le fosse rimasta impressa nella mente per ore intere; solo in quel momento si rese conto che ne aveva sentito la mancanza come aveva sentito la mancanza della carezza del vento sulla pelle.
-Anche tu- sussurrò. Scivolò accanto al nano e le sue forti braccia la tennero stretta. Era caldo contro il petto di Kili, eppure Elemmire iniziò a tremare.
-Hai paura o sei infreddolita?
-Nessuna delle due, perché?
-Stai tremando.
Cosa le stava succedendo? Elemmire non lo sapeva. Batteva i denti e aveva la pelle d’oca.
-Sì, all’improvviso ho paura.
-Non devi averne- Kili la strinse più forte ed Elemmire slegò le braccia da contro il petto e le avvolse attorno al torace del nano. Poteva sentirlo dilatarsi e restringersi sotto il mantice dei polmoni:-Andrà tutto bene.
-Lo spero.
-Anch’io ho avuto paura.
Elemmire lo guardò:-Davvero?
-Sì, nei giorni passati. Tutta quest’avventura mi sembrava enormemente più grande di me. Non era questo ciò che mi aspettavo quando lasciai le Montagne Azzurre. Pensavo sarebbero state tutte lotte a viso aperto e cavalcate trionfali. Non avrei mai immaginato di dover scappare nella notte come un ladro inseguito da cani.
-Tutto quello che mi è successo da quando ho lasciato casa mia è stato inaspettato.
-Ma ti è piaciuto?- i furbi occhi verdi la scrutarono.
-Solo alcune cose. E poche, poche persone- Elemmire sorrise e anche Kili ridacchiò. Rimasero abbracciati per il resto del tempo, con Elemmire che ascoltava il battito di Kili e il nano che giocava con i suoi capelli. Il tempo che per tutta la settimana aveva corso all’impazzata si fermò a prendere fiato davanti alla cella e ripartì quando un secco clangore annunciò l’apertura del cancello. Con riluttanza Elemmire si staccò da Kili e aprì le sbarre mentre il nano svegliava sotto voce il fratello. Tauriel scendeva le scale con passo leggero e ogni cinque gradini si fermava per aprire una cella. Presto tutta la compagnia di Thorin fu ben sveglia e con borbottii di approvazione si radunò sul piazzale davanti al cancello. Thorin stesso le batté una mano sul braccio:-Bel lavoro, Elemmire.
Un calore soddisfatto la invase nel petto.
-Che ne facciamo dell’elfa? Siamo certi che non ci tradirà?- Dwalin guardava Tauriel in cagnesco.
-Fidiamoci di lei- disse Kili, abbottonandosi la giubba.
-Per di qua- Tauriel li condusse fuori dalle prigioni e poi per una porta nascosta nel tunnel. Scesero e salirono diverse volte e alla fine con una botola sbucarono in una stanza illuminata da due lampade rosse ingombra di sacchi e botti di legno. Bilbo li stava aspettando e fece loro cenno di fare silenzio. Con la coda dell’occhio Elemmire vide due elfi vestiti di azzurro profondamente addormentati per terra. Corni di ottone giacevano vicino a loro e il puzzo del vino impregnava i loro abiti.
Tauriel indicò un voluminoso involucro di coperte e pelli:-Le vostre armi. Io tornerò subito con Legolas e i cavalli.
 
[1] Apri il cancello per Elemmire Amica degli Elfi; è esclusa dal divieto.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** il prezzo della libertà ***


Nel modo più silenzioso possibile i nani si riappropriarono di archi, spade, asce, mazze e sciabole. Elemmire cinse di nuovo al fianco Nen Girith e sulle spalle mise l’arco di corno di Kili. Poi ogni nano fu convinto da Bilbo ad entrare nelle botti e per qualche secondo ci fu il silenzio. Lo hobbit e l’umana si guardarono con apprensione per un tempo che a loro parve infinito, prima che la porta principale dei magazzini sbattesse. Tauriel entrò e concitatamente parlò:-Non ho raccontato tutto quanto a Legolas. Fai entrare la spia- i suoi occhi lampeggiarono su Bilbo –In una botte e tira quella leva. Il carico cadrà in acqua. Poi esci fuori, li seguiremo a cavallo e raggiungeremo la chiusa.
Elemmire seguì con cura ogni ordine e si precipitò fuori dal magazzino. L’ultima cosa che sentì furono le urla di sorpresa dei nani che venivano scaraventati nel fiume gelido. Al di fuori la luna era coperta da pesanti nuvole grigie. Tre destrieri erano legati agli alberi vicino al fiume: su quello dal manto marrone dorato sedeva Legolas, vestito semplicemente e con l’arco a tracolla. L’unica traccia di festa rimasta in lui erano le treccine nei capelli biondi. Tauriel montava un pezzato e un bestione nero attendeva Elemmire. I cavalli erano già sellati e scalpitavano. Elemmire salì in groppa e i ricordi del viaggio attraverso le Terre Selvagge l’assalirono. Che persone diversa era stata! Mai avrebbe potuto immaginare, a quei tempi, ciò che le sarebbe successo in futuro. Erano passati pochi mesi ma le parevano secoli.
-Rych, leigor à norar nan rastello, à ribarl berià Newaìg[1]- Tauriel si chinò sul collo del cavallo e lo accarezzo. Come mossi da una sola forza, le tre bestie partirono al galoppo. Elemmire, abituata ai pony dei nani, non poté fare altro che stringere forte le ginocchia contro i fianchi della cavalcatura e schiacciare la guancia contro il poderoso collo. Gli alberi lasciarono spazio alle rocce di una riva scoscesa, oltre la quale la corrente veloce vorticava nera e bianca di schiuma. L’aria era fredda ed Elemmire rimpianse di non aver portato con sé un mantello. Galopparono per molto tempo, aggirando pozze e superando roccioni, prima di giungere al cancello della chiusa. Il cielo era ancora nero ma l’orizzonte andava rischiarandosi. Nella penombra la grata che chiudeva il passaggio dal fiume era come una bocca irta di denti affilati. Due guardie avvolte in mantelli dorati sedevano raggomitolate sul ponte che sovrastava il cancello, le lunghe lance deposte ai loro piedi. Legolas si alzò sulle staffe e rivolse loro delle imperiose parole in elfico, indicando prima sé, poi Tauriel ed Elemmire e infine le botti che galleggiavano nel fiume. Dei nani non si vedeva nemmeno un capello ed Elemmire temette fossero stati sbalzati via dalla corrente durante il tragitto. La conversazione andava per le lunghe e anche Tauriel vi era entrata; sembrava che le guardie avessero ricevuto ordini diversi da quelli che recava loro il giovane principe. Infine si risedettero, stavolta con le lance impugnate e rivolte contro di loro. Non ebbero altra scelta se non allontanarsi e tornare nel bosco.
-Maledizione- Legolas imprecò battendosi un pugno sulla coscia –Non c’è nulla da fare, sembra che il mio dolce padre abbia pensato anche all’evenienza che qualcuno tentasse di scappare da qui. Non c’è modo per i nani di aggirare la chiusa, perciò immagino che verranno ripresi oppure dovranno aprirsi la strada a suon di colpi. Sempre che riescano poi a fuggire prima che tutto il reame boscoso si precipiti qui. Il nostro lavoro finisce qui. Vieni Tauriel, andiamo.
Legolas girò il cavallo e trotterellò indietro.
-Ci lasci qui?- Elemmire balbettò senza capire. Non potevano lasciarla lì in quel modo con tredici nani e uno hobbit chiusi in delle botti al confine elfico. Era incredula.
-C’erano dei patti- si giustificò Tauriel –Il nostro compito era farvi scappare.
-Dalle grinfie di Thranduil, non solo dalle sue prigioni!- Elemmire allungò la mano verso l’elfa –Ti prego, non puoi abbandonarci così.
Il mondo le crollò addosso: aveva fatto affidamento sugli elfi, sulla loro conoscenza del territorio, sulla loro astuzia. Cosa avrebbe fatto senza di loro? Si sarebbero ritrovati tutti nelle prigioni nel giro di poche ore. Non poteva permetterlo: i nani si fidavano del piano che aveva architettato.
Tauriel la guardò con un piega triste nelle sopracciglia:-Ascolta, c’è un altro modo. Devi far uscire i nani dalle botti e dovete aggirare la chiusa.
-Ma lungo il confine ci saranno altre guardie- Elemmire fu presa da una morsa di terrore.
-Sì, ma se arriverete sufficientemente lontano dal centro abitato passerà molto tempo prima che Thranduil potrà inviare dei rinforzi.
-No- Legolas scosse la testa –Mio padre ci starà già cercando tutti quanti. Appena sarà giorno manderà dei messaggeri ad Esgaroth per reclamare il suo bottino perduto. Per questo dobbiamo sbrigarci. Tauriel, non abbiamo tempo.
-Lo so- Tauriel prese la mano di Legolas con dolcezza –Perdonami Elemmire. Io non devo la mia lealtà a Thorin Scudodiquercia.
Anche lei voltò il cavallo e seguì il compagno.
Elemmire rimase sola. Lo scoramento e la confusione la riempivano. Smontò da cavallo, lo legò e a piedi si avvicinò di nuovo alla riva nel tentativo di riconquistare la sua lucidità. I piani erano cambiati, andava bene, doveva solo trovare un’altra via. Magari avrebbe potuto davvero aggirare la chiusa, o far allontanare le guardie con un diversivo e aprire il cancello. Ecco quello che le serviva: un diversivo. La stanchezza le ricadde addosso tutto d’una tratto e dovette appoggiarsi ad un albero: non riusciva a pensare con il cervello annebbiato dalla paura e dal sonno. Il cielo si stava facendo rosato in lontananza, e con un tuffo al cuore Elemmire pensò che ormai avrebbe potuto vedere Erebor svettare con la sua solitaria cima. Ragionò su un modo per eludere le guardie ed aprire la chiusa. Il cancello era regolato da una grossa leva sorvegliata a vista. Mentre la luce aumentava mano a mano si accorse che quelli che aveva scambiato per mantelli dorati erano in realtà folti capelli biondi che ricadevano sciolti sulle spalle degli elfi. Le loro vesti erano nere e ricamate finemente. Forse se le avesse chiamate… Ma avrebbero riconosciuto la sua voce, e solo una delle due si sarebbe allontanata. E se lei fosse stata presa? Quanto ci avrebbero messo gli elfi a capire che le botti non erano affatto vuote come credevano? Non poteva correre rischi. E poi, il popolo di Durin si fidava di lei. Si sarebbe tagliata un braccio prima di deludere le aspettative di Kili. O peggio ancora, di Thorin.
Dalla riva opposta si sentì un fruscio e un rumore di rami spezzati. Forse stavano già giungendo gli elfi incaricati di cercare i prigionieri. Poi Elemmire rifletté meglio: un elfo in caccia non avrebbe mai fatto tutto quel rumore nel muoversi nel bosco. Conosceva qualcun altro, anzi, qualcos’altro, che si sarebbe mosso con tanta noncuranza. Un brivido freddo la risvegliò all’improvviso e quasi le mozzò il fiato. Sguainò Nen Girith e tornò correndo nel bosco. Quel che vide la raggelò: si era dimenticata che gli elfi non erano le uniche creature nelle Terra di Mezzo a dare la caccia a Thorin.
Un gruppo di orchi sciamava nel bosco come una mano dalle mille dita aperte, pronte a ghermire con artigli di ferro. Elemmire slegò il cavallo, evitò due frecce nere che le sibilarono vicinissime all’orecchio, salì in groppa e spronò al galoppo forsennato lo stallone. Questo si sollevò sulle zampe posteriori facendole quasi perdere l’equilibrio e letteralmente volò verso la riva. I suoi zoccoli sembravano non toccare terra. Elemmire pregò di non arrivare troppo tardi. La paura le scorreva nelle vene a velocità pazzesca. Sentì un coro di ululati dietro, avanti e intorno a sé. Nella nuova luce del giorno Elemmire vide che il pontile della chiusa era sgombro. Probabilmente le guardie erano andate a chiedere rinforzi. Non sapeva quanto ciò andasse a loro favore, e se era meglio finire prigionieri degli elfi o degli orchi. Spinse lo stallone nell’acqua per raggiungere le botti dei nani, ma quello si impuntò e rifiutò di anche solo toccare i flutti. Elemmire guardò meglio: dei nembi dorati ondeggiavano nell’acqua appena tinta di rosso. E dai nembi spuntavano due frecce nere.
Si sentì travolgere dall’orrore: uccidere due elfi, due creature così ancestrali ed enigmatiche era un delitto efferato. Cercò di ricordarsi come si parlava:-Ci attaccano! Gli orchi!
Da ogni botte comparve la faccia di un nano, bagnata e stravolta. Fecero appena in tempo a ripararsi sotto l’arcata prima che una grandine di frecce piombasse su di loro. Elemmire non riuscì a incrociare lo sguardo di Kili perché si girò a fronteggiare la moltitudine che la stava attaccando. Respirò profondamente e fece mulinare la spada: qualunque cosa succedesse, doveva impedir che qualsiasi danno fosse arrecato ai nani. Tenne a bada la paura e si gettò nella mischia. Lo stallone scalciava e lei si adoperava con la spada. Conficcò Nen Girith nella gola di un avversario e la ritirò in fretta per spaccare di netto il cranio di un altro; schivò i colpi a lei indirizzati e con un largo fendente squarciò le viscere di due orchi e fece arretrare la fila che l’assediava. Presto i cadaveri grigi e rugosi finirono a fare compagnia alle due guardie elfiche sulla riva di sassi. Si rese conto che presto altri battaglioni di orchi sarebbero spuntati dalla riva opposta e l’avrebbero presa di spalle; l’unico modo per evitarlo era posizionarsi al centro del fiume, assieme ai nani. Il suo cavallo però non voleva sentirne di entrare in acqua.
-A’ ribarl berià Newaig- Elemmire ripeté la frase che aveva sentito pronunciare da Tauriel e riuscì a guidare il cavallo vicino alle botti. Il letto del fiume non era profondo, ma l’acqua le arrivava comunque alle caviglie e la corrente era impetuosa contro il cancello serrato della chiusa. Kili aveva impugnato l’arco e stava decimando i nemici mentre Fili lanciava asce e pugnali con mira strepitosa. Ad un certo punto gli orchi presero coraggio e iniziarono a lanciarsi sulle botti. Tutti furono costretti a difendersi nel poco spazio a loro disposizione. Più di una volta Elemmire rischiò di cadere da cavallo e scomparire nel fiume. Il suo stallone aveva le narici dilatate dall’odore del sangue e controllarlo diventava sempre più difficile. Sarebbe stata dura anche senza un gruppo di orchi sopra e attorno a lei.
-Bisogna aprire il cancello, o ci faremo massacrare qui- Thorin impugnava la gigantesca ascia bipenne –Dove sono quei dannati elfi, che il cielo li mandi alla perdizione?
-Non possiamo aspettarli. Non c’è tempo- Kili guardò Elemmire e le rivolse una sola parola –Coprimi.
Il nano sgusciò fuori dalla sua botte e si arrampicò lungo l’arcata della chiusa. Elemmire impugnò l’arco di corno e iniziò a scoccare, mentre Dwalin allungava al giovane nano la sua spada. Kili salì veloce i gradini che lo separavano dalla leva e dalla postazione di guardia. Ancora una volta, Elemmire si ritrovò ad ammirare la maestria del nano nel combattere: era una furia, velocissimo, abile e audace. Ferì un orco e lo scaraventò con un calcio nel fiume, assestò una gomitata nello stomaco ad un altro e lo decapitò senza fatica. Schivò la mazza ferrata dell’ultimo avversario e gli tagliò le gambe. Elemmire corse il rischio di portarsi fuori dall’arcata, allo scoperto, pur di continuare a vederlo. E a coprirgli le spalle, ovviamente. Con lo sguardo seguì tutta la lunghezza dell’arco in cerca di nemici e ne individuò uno proprio sulla sponda opposta. Incoccò e guardò meglio, per poi concedersi un brivido di orrore: era Bolg, figlio di Azog. Impugnava un possente arco di tasso e mirava a Kili, il volto deformato da un sogghigno feroce. Il nano era di spalle e non vedeva. Ad Elemmire sembrò di muoversi nella acqua mentre fulminea scagliava la freccia mirando al braccio dell’orco pallido. Ogni sua energia fu impiegata nel mirare correttamente. Nel momento però in cui rilasciò la corda il suo cavallo scivolò e le fece muovere il braccio. La freccia dall’impennaggio bianco si perse nei rovi. Ma quella di Bolg andò a segno. Kili emise un grugnito, l’asta nera che spuntava dalla coscia. Si fermò per un momento, il viso una maschera di dolore, poi tentò di aggrapparsi alla leva e di spostarla con il suo peso. Perse la presa e scivolò a terra.
-Kili, no!- Fili urlò quasi nello stesso istante di Thorin. Lo stesso urlo si congelò in gola ad Elemmire, il cui cuore fece un sobbalzo. Non Kili. Non lui. La invase una freddezza lucida e spietata. Fili e Thorin si prepararono a colpire Bolg ma Elemmire fu più veloce. Stavolta niente la tradì: l’orco pallido lasciò cadere in acqua l’arco con un urlo disumano, la freccia di cigno profondamente conficcata nella spalla. Elemmire però si era già girata a colpire un altro orco che aveva alzato la spada su Kili supino. Il nano riverso a terra sembrava attirare nemici come il sangue attira le mosche. Scoccava, incoccava, scoccava, in un ciclo senza fine, senza avvertire la stanchezza, dominata da un gelido furore. Non poteva permettere che Kili morisse, ciò nonostante Elemmire sapeva che non sarebbe mai stata abbastanza veloce per colpirli tutti. E poi un’altra freccia elfica saettò alle sue spalle e inchiodò la testa di un orco al ramo di un albero.
-Elemmire, togliti da lì!- la voce di Tauriel la colpì come un maglio ferrato.
Tauriel e Legolas saltarono molti piedi e atterrarono sulla riva, in piedi come gatti. E quando attaccarono, le danze iniziarono sul serio. Nessun umano o nano avrebbe potuto eguagliarli in forza, velocità e armonia. Tauriel combatteva con un pugnale e i suoi movimenti erano impossibili da seguire ad occhio nudo: pur rimanendo ferma sul posto, il suo braccio decapitava, sventrava, tagliava gole senza alcuna fatica. Di lei si vedeva solo la scia di capelli rossi che ondeggiava avanti e indietro. Infilzò un orco e con un fluido movimento lo decapitò, scivolò sotto le gambe di un altro, si rimise in piedi con una capriola e gli mozzò il braccio armato. Sferrò un calcio ad un altro ancora e lo finì con la lama. Legolas impugnava in una mano la spada e nell’altra un corto arco che sapeva usare con maestria anche a distanza molto ravvicinata. Saltava, si abbassava, schivava, sempre senza il minimo cenno di stanchezza o di insicurezza, il viso una maschera di determinazione e ferocia. Conficcò una freccia nella testa di due orchi assieme orco e tagliò la gola al successivo. Elemmire non aveva mai visto combattere in quel modo, come se i colpi fossero passi di danza. I due elfi erano uno spettacolo terribile e meraviglioso, due angeli vendicatori scesi dalle profondità del cielo, le loro armi prolungamenti delle braccia: le frecce saettavano, la spada e il pugnale brillavano di luce propria. Non c’è nulla di più letale di un elfo, pensò in quel momento Elemmire. Le rozze asce e le frecce degli orchi non arrivarono nemmeno a sfiorarli. Tauriel e Legolas fecero il vuoto sulla riva dalla quale provenivano.
Il cancello si aprì all’improvviso. Kili aveva raccolto le forze e si era gettato sulla leva, ricadendo poi pesantemente a terra. Elemmire gioì per un breve secondo, poi sentì la corrente farsi impetuosa e irresistibile. Guidò come poté il cavallo sulla terra ferma e nel farlo allungò la mano verso Kili. Il nano si issò dietro di lei e la circondò con le braccia.
-Stai bene? Quanto è profonda la ferita?- Elemmire avrebbe voluto fermarsi per esaminarla lei stessa, ma Kili le fece un cenno con la mano che voleva dire “dopo”. Stava trattenendo il respiro e aveva i denti serrati. Aveva l’aria di stare per svenire ed Elemmire capì che non avrebbe potuto restare dietro di lei, alla mercé delle frecce nemiche e rischiando di cadere ad ogni scossone. Approfittando del diversivo creato da Tauriel e Legolas, Elemmire spostò Kili davanti a sé e ripartì al galoppo lungo la riva scoscesa. La testa del nano dondolava.
-Rimani cosciente Kili. Continua a guardare avanti, non chiudere gli occhi- Elemmire gli sussurrò tra i capelli fradici. Anche lei era coperta di spruzzi d’acqua mista a sangue: rosso quello dei nani e degli elfi, nero quello degli orchi.
I nani nelle botti dovevano passarsela piuttosto male: un complesso di rapide cascate si estendeva subito dopo il confine di Thranduil. L’acqua era bianca e spumeggiante, il rumore assordante come un ruggito di battaglia. Elemmire sperò solamente che i suoi compagni si reggessero forte. Gli orchi li inseguivano sulla riva scoperta, mentre Elemmire cavalcava su quella opposta, al riparo degli alberi. Presto anche Tauriel e Legolas la raggiunsero a cavallo: il principe degli elfi non reggeva nemmeno le redini, le mani troppo impegnate a maneggiare l’arco.
-Dammi il tuo arco- Tauriel tese la mano e le si affiancò. Elemmire le affidò l’arco di corno bianco e ammirò l’uso impeccabile che ne faceva l’elfa. Cercò di concentrarsi sulla strada irregolare e su Kili: poteva sentire il respiro roco e faticoso del nano. Lo pregò intimamente di resistere mentre saltava sulle rocce e seguiva la riva frastagliata. Un gruppo di orchi comparve anche davanti a loro, e allora Legolas fece una cosa che Elemmire non avrebbe mai immaginato possibile: reggendosi solo al collo del cavallo scese di sella e con un poderoso calcio fece precipitare due delle creature nella corrente. Poi si rimise in groppa come se nulla fosse e uccise con la spada. Anche Tauriel era tornata a maneggiare il pugnale. In quanto ad Elemmire, era tutta china su Kili per fare in modo che non venisse colpito. Gli avrebbe fatto scudo con il suo corpo se necessario perché era anche colpa sua se era stato colpito da Bolg. Evitò all’ultimo momento una roccia sporgente su un lato: sentì la stoffa dei pantaloni lacerarsi e l’asta di freccia ancora infissa nella gamba di Kili si spezzò di netto. Il nano urlò di dolore. La corrente e i forti cavalli elfici seminarono gli orchi che erano appiedati. I nani, gli elfi ed Elemmire giunsero ad un’ansa tranquilla su cui si allungava una riva pietrosa. Elemmire fermò il cavallo con un poderoso colpo di redini e riprese fiato, la schiena che doleva per essere stata china sulla sella.
-Noi torniamo indietro- Tauriel le restituì l’arco –Ce ne sono ancora molti che girano nei boschi. Un comandante deve assicurarsi che il suo popolo sia al sicuro.
-E se Thranduil vi riprenderà?- Elemmire guardò l’elfa. La prospettiva di una seconda separazione la intristiva. Tauriel era stata fedele e utile oltre ogni immaginazione.
-Diremo la verità: che i nani sono scappati e che noi abbiamo inseguito gli orchi che davano loro la caccia.
-E cosa ne sarà di…ecco, voi due?
Tauriel le mise una mano sulla spalla:-Legolas rifiuterà di sposare Arwen. Forse la nostra fuga non è riuscita, ma abbiamo capito entrambi una cosa importante. Abbiamo capito a chi dobbiamo la nostra lealtà.
Tauriel sorrise dolcemente e poi guardò Legolas che già l’aspettava più avanti:-Addio, Mellon Eldarin. Forse ci rincontreremo ancora prima che tutto questo si sarà concluso e che tu faccia ritorno a casa.
L’elfa girò il cavallo e insieme a Legolas disparve.
Elemmire non perse tempo a guardarli cavalcare oltre la riva: smontò e sorresse Kili. Il nano evitò di guardarla:-Ce la faccio da solo, grazie Elemmire.
Kili scese con un grugnito e zoppicando si ricongiunse agli altri, mezzi affogati. Non fece in tempo a raggiungere Fili che la gamba ferita cedette e con un gemito cadde di nuovo a terra. Elemmire e Fili si precipitarono verso di lui.
-Continuiamo a muoverci, dobbiamo raggiungere Esgaroth prima di sera- Thorin aveva i capelli e la tunica fradici e si muoveva a scatti come un animale braccato.
-Non possiamo muoverci- Bofur intervenne con energia –Kili è ferito! Non arriverà lontano in questo modo, dobbiamo almeno bendargli la gamba.
-Se ci fermiamo gli orchi ci saranno addosso, certo come è certo che il sole sorge- Dwalin era piegato in due e sputacchiava acqua –Non può continuare a portarlo Elemmire? Ha funzionato fino ad ora.
Thorin sembrava profondamente diviso. Guardò Fili e borbottò:-Avete poco tempo.
-Dobbiamo impedire che la ferita si infetti, poi lo porterò io a cavallo- Elemmire si chinò sulla gamba di Kili, le mani che tremavano. Un vero e proprio buco crivellava la coscia del nano, poco sopra il ginocchio, e la carne pulsava rossa e viva. Il pantalone era bagnato ma stranamente poco sangue era fuoriuscito dalla ferita. –Sei stato fortunato, la stoffa ha creato un tampone e ha trattenuto il sangue, altrimenti saresti morto per strada- Elemmire si sentì così sollevata nel fare quest’osservazione che a momenti scoppiò a ridere. Si trattava ora di bendarla e disinfettarla.
-Dobbiamo estrarre la punta della freccia- Oin si chinò sulla ferita –Fallo tu, ragazza, hai le mani più sottili.
Elemmire si sentì sbiancare: doveva infilare le mani in quello squarcio sanguinolento? Obbedì. E con delicatezza palpò la ferita fino a trovare la rigida punta di metallo. La estrasse assieme a brandelli di stoffa e carne e un fiotto di rosso sangue bollente fuoriuscì dalla ferita schizzandole il viso. Si ritrasse in fretta in preda ad un conato mentre Oin si chinava a bendare la gamba con della stoffa strappata alla sua camicia.
-Vino, ci occorre del vino!
-Vecchio beone di un Bofur! Ti sembra questo il momento di bere, vecchio mio? Anche se un goccio farebbe bene anche a me e ai miei poveri nervi.
-Ma no Dori, è per disinfettare la ferita. Non possiamo lasciarla così, a contatto con le bende, o imputridirà e il suo sangue si avvelenerà.
-Non abbiamo vino- Thorin parlò con autorità ma i suoi occhi erano preoccupati –Dovrà cavarsela così.
Elemmire sentì il bisogno di sciacquarsi le mani ed il viso. Si allontanò dai nani e si inginocchiò sulla riva. Mise le mani a coppa e si tolse di dosso lo sporco e il sangue con le chiare acqua del fiume, che in quel punto raggiungeva una larghezza considerevole, bastante perché due barche potessero passarci affiancate. Chiuse gli occhi e cercò di dimenticare la carne calda di Kili che pulsava sotto le sue mani. Si alzò lentamente per non provocarsi un giramento. E si ritrovò con la fredda lama di un coltello puntata alla gola. Trattenne il respiro e rimase immobile, mentre nonostante i suoi sforzi la testa iniziava a girarle comunque.
-Tentate solo di colpirmi o di scappare e la vostra amica è morta.
La voce era forte e maschile, con un vibrato accento. I nani si girarono all’unisono e spalancarono gli occhi. chi di loro aveva ancora delle armi in mano le depose a terra, e tutti a parte Kili alzarono le mani e mostrarono i palmi vuoti. L’essere, se fosse uomo, elfo o qualcos’altro Elemmire non riusciva a vedere, la spinse per la spalla fino a costringerla ad abbassarsi a terra.
-Calma amico, non ti faremo alcun male se tu non ne farai a noi- Balin si fece avanti e sfoderò un tono calmo e misurato –Vieni dalla città sul Lago Lungo, non è così?
-Sì- lo sconosciuto non abbassò né la lama né la guardia.
-E non sei certo venuto a piedi, giusto? Suppongo tu abbia una chiatta, magari abbastanza grande per caricare le botti che provengono dal Reame Boscoso, no?- Balin si avvicinò con i palmi delle mani ben visibili e un sorriso cordiale sotto la barba bianca.
-Perché ti interessa così tanto, nano?
-Siamo mercanti delle Montagne Blu e vorremmo raggiungere la città. Ci potresti affittare la chiatta? Abbiamo oro con noi.
-Cosa ti fa pensare che accetterei il tuo oro?- l’uomo parlò con tono beffardo.
-Quegli stivali hanno visto tempi migliori, e così quel cappotto. L’inverno arriverà presto e scommetto che quella bambina che ti ha intrecciato una così bella cintura non sarà l’unica a chiederti da mangiare. Magari tua moglie avrà bisogno di una coperta bella calda se vorrà darti un altro figlio.
-Mia moglie è morta- disse l’uomo senza giri di parole.
-Oh, ti porgo le mie condoglianze per questo. Immagino fosse molto bella.
-Lo era. Ma cosa state cercando?
-Ci servono provviste, vestiti e armi per affrontare il viaggio verso i Colli Ferrosi, dove abitano i nostri parenti- intervenne Thorin. Era pallido e appariva invecchiato di molti anni –Puoi aiutarci?
-Abbiamo anche un ferito- Fili aiutò Kili a rimanere in piedi –Non raggiungeremo mai Esgaroth senza un passaggio sul lago.
-Come si è ferito?- l’uomo fece alcuni passi verso di loro.
-E’ caduto in acqua ed ha sbattuto contro delle rocce.
-Come anche quelle botti, suppongo- il tono dell’uomo era greve di ironia, così come il legno dei recipienti era graffiato e sporco di sangue nero –E la ragazza?- l’uomo sembrò accorgersi di lei per la prima volta.
-Una guida- Balin la salvò dal dover inventare una scusa, cosa in cui Elemmire non eccelleva e che comunque non avrebbe osato fare con una lama puntata alla gola –Ci ha condotti attraverso le Terre Selvagge e le Montagne Nebbiose fin qui.
-Non ha svolto un buon lavoro se vi ha fatto attraversare il Bosco Atro. Comunque sia, Esgaroth si regge tutta sul commercio con re Thranduil. Non vogliamo avere grane da quella parte.
-E non le avrai, ti diamo la nostra parola. Pagheremo il doppio se ci farai entrare in città senza che nessuno lo sappia.
-Perché dovreste aver bisogno di non essere visti?
-Perché dovrebbe interessarti una volta intascato il giusto pagamento?
-Oh, non si sa mai- Elemmire avvertì che lo sconosciuto sogghignava –Ci sono guardie piuttosto curiose alle porte della città che offrono volentieri da bere nelle bettole.
-Ma scommetto che se ti pagassimo tre volte tanto il vino te lo potresti comprare da solo, dico bene?- Balin sorrideva in modo diplomatico.
-Hai afferrato, nano.
-E sia, allora. Balin era giunto talmente vicino che tese una mano all’uomo –Affare fatto.
La lama si sollevò dalla sua gola lasciandola libera di respirare a pieni polmoni. Elemmire si girò di lato e vide per la prima volta il loro interlocutore. Dopo tanto vagare in compagnia delle razze più disparate, guardare un suo simile negli occhi le sembrò strano. L’uomo non era particolarmente alto, anzi piuttosto basso se confrontato con un elfo, ma aveva larghe spalle e un torace ampio. I capelli erano lunghi fino alle spalle, neri e ricciuti, erano raccolti in una coda, e la pelle del viso era cotta da sole. La bocca stretta era incorniciata da un paio di sottili baffetti e sotto il mento dal pizzetto. Gli occhi erano due fornaci di un marrone caldo, tendente quasi al rosso. Indossava abiti semplici di pelle, guanti di lana senza dita e un largo cappotto di cuoio logoro e pelliccia spelacchiata. In spalla aveva un lungo arco e una faretra, mentre in mano teneva un coltello. Aiutarono l’uomo a caricare le botti su una piccola chiatta, appena sufficiente perché vi entrassero tutti senza farla affondare. Ognuno tremava dal freddo e i vestiti bagnati si ghiacciavano loro addosso. Kili era gelido come neve. Elemmire chiese all’uomo, che scoprì si chiamava Bard, una coperta; in cambio egli le diede un telo scuro tutto sbrindellato. Elemmire cercò di avvolgerci il nano alla meno peggio e sopportò a denti stretti il freddo della sera autunnale.
Il tramonto giunse inaspettato dopo l’intera giornata di lotte: un tramonto grigio e nebbioso. Elemmire lo guardò seduta sulla barca di Bard mentre con un pezzo pulito della sua tunica medicava la ferita di Kili, le dita intirizzite dal freddo e lo stomaco pieno di farfalle.
 
[1] Cavalli, correte veloci verso la riva, accorrete per proteggere i nani.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** feriti ***


Il lago era freddo. Anche se era solo autunno una sottile patina di ghiaccio lo ricopriva e scricchiolava contro il fianco della chiatta. Bard manovrava il timone nella nebbia che era scesa assieme alla sera. Disse che era nato in quelle acque e che sapeva dove andare anche ad occhi chiusi. I nani si svuotarono le tasche per pagare il passaggio, compreso il burbero Gloin, e poi ognuno si rannicchiò in un angolo e sonnecchiò. Elemmire e Fili vegliarono Kili per tutta la notte. Il nano dormì poco e male, mentre molto più spesso li guardava con occhi vacui e velati. Elemmire non capiva come la ferita potesse indebolirlo così tanto. Non aveva perso molto sangue, e benché fosse profonda Oin era certo che non avesse intaccato le ossa. Inoltre l’avevano disinfettata appena possibile con la fiaschetta di Bard: il sangue non poteva essersi già infettato. Per tutta la notte gli portò dell’acqua quando lo chiedeva e gli bagnò la fronte febbricitante mentre Fili disinfettava la ferita con altro vino. Nessuno parlava, tutti osservavano attentamente le volute di nebbia nell’oscurità. Elemmire si addormentò più volte, sfinita, e più volte fu svegliata dai gemiti di Kili o dai sussurri concitati di Fili. Infine avvolse il nano ferito nella sua coperta per tenerlo al caldo e si avvicinò agli altri nani per bere un boccale di mosto caldo offerto da Bard.
-Come sta il ragazzo?- bisbigliò Bofur con apprensione.
-Ha la febbre, e non capisco perché. La ferita non pare infetta, l’abbiamo pulita al meglio.
Bofur strinse le labbra e aggrottò le sopracciglia, poi la guardò dolcemente e come a rassicurarla disse:-Starà bene. È una razza forte quella di Durin, si riprenderà in fretta.
Elemmire lo sperava con tutta se stessa. L’alba sorse a dissipare un poco le cortine bianche e il cielo si tinse d’oro e di rosa.
E all’improvviso fu visibile. Una forma scura e minacciosa all’orizzonte, come un promontorio solitario in un mare di nuvole, una zanna della terra sguainata contro il firmamento. Erebor sembrava così vicina da poter essere toccata. Ogni nano si alzò in piedi e contemplò in silenzio la meta sofferta e desiderata a lungo. Anche Kili aprì gli occhi, quasi udendo il richiamo della terra natia, e il suo viso si rischiarò tutto, divenne sereno e sorridente. Passò un braccio attorno a Fili e un po’ di colore gli ritornò sulle guance. –Ce l’abbiamo fatta- sussurrò con voce arrochita, e delicatamente, quasi timidamente, intrecciò la mano libera con quella gelata di Elemmire. Thorin parve risvegliarsi da un lungo letargo. Contemplò il profilo sbiadito della Montagna e grosse lacrime gli si affacciarono agli occhi.
-Lasciate il denaro in una sacca e venite tutti qui- Bard percorse a lunghi passi la chiatta e strattonò i nani –Infilatevi di nuovo nelle botti e rimanete in silenzio. Di qui in avanti ci sono sentinelle e posti di guardia. Vi farò passare inosservati, ma dovete rimanere in silenzio.
Elemmire guardò con apprensione Fili che aiutava Kili a entrare nella propria botte.
-Cosa devo fare io?- chiese all’uomo. Bard si guardò intorno con espressione corrucciata, poi ammassò in un angolo un mucchio di coperte:-Nasconditi lì sotto, raggomitolati e rimani assolutamente immobile.
Elemmire eseguì gli ordini in silenzio. Entrò nel rassicurante tepore delle coperte sbrindellate e sentì su di sé un enorme peso che le mozzò il respiro. Bard doveva aver appoggiato su di lei qualcos’altro. Strinse forte il fodero della spada e attese. Sentiva il rollare delle onde sotto la barca e il loro delicato frusciare sul fianco. Il rumore dell’acqua le tenne compagnia per ore, mentre voci e passi si susseguivano sulla chiatta. Alla fine la stanchezza e la noia ebbero la meglio: Elemmire si addormentò sotto il mucchio di coperte.
L’aria fredda che la sferzava all’improvviso fu il suo buongiorno, una poderosa scossa per le spalle la sveglia. Batté le palpebre incredula: si era davvero addormentata?
-Avanti ragazza, siamo arrivati- Bard stava svuotando delle botti di pesce. Pesce? Elemmire guardò meglio. Lavarelli lunghi e azzurri con le pinne di un leggero arancione, qualche minuscola lasca argentata, persici striati, due tinche giallo oro con gigantesche pinne scure. Dove erano i nani? Dov’era Kili? Elemmire si rizzò a sedere:-I nani, dove…
Bard gonfiò tutti i muscoli e sollevò una botte. Una valanga di pesci si riversò sul fondo della barca, seguita a ruota da un fagotto che si dibatteva e strillava. Era Nori. Bard svuotò sul fondo della barca ogni botte, e da ognuna ne vennero fuori pesci e nani, e uno hobbit. Dwalin minacciò Bard di infortunio se solo avesse osato toccarlo, e Thorin preferì farsi aiutare dai suoi nani piuttosto che dall’uomo.
-Dove ci troviamo?- chiese Balin pulendosi la barba da squame argentate.
-A casa mia- Bard si guardò attorno a metà tra lo sconsolato e l’orgoglioso, per quanto due sentimenti così contraddittori possano esistere sul volto umano. La chiatta era ferma tra i sostegni di una palafitta: sotto, il lago. Sopra, una botola di legno. Bard fece salire ognuno di loro attraverso la botola, sostenendo particolarmente Ori che rischiò di cadere in acqua e annegare lì. Kili procedeva appoggiato al fratello. Una volta superata la botola la compagnia si ritrovò in un locale riscaldato. Una scala portava al piano superiore. La percorsero tutti assieme e si ritrovarono in un unico salone ampio, illuminato da molte finestre, tutto in legno e arredato in modo confuso. Sembrava che ci fossero troppi mobili per le dimensioni della stanza, e la maggior parte di essi era vecchia e cadeva a pezzi. C’era un lungo tavolo, molte sedie e sgabelli disseminati ovunque, una vetrinetta tutta di legno tarlato, tappeti e arazzi distesi ovunque a coprire qua una fessura del pavimento marcio, là una crepa e uno spiffero freddo. Tre figurine erano rannicchiate attorno alla stufa: una bella ragazza dell’età di Elemmire, forse diciannovenne, con lunghi capelli biondi e un naso affilato che leggeva un libro, una ragazzetto castano chiaro con un taglio a scodella e la zazzera a frangia sugli occhi di un blu straordinario e infine una bambina castana con gli occhi grigi. I due più piccoli sembravano star bisticciando tra loro sotto l’occhio vigile della sorella, che pur rimanendo immobile li scrutava ogni manciata di secondi. Elemmire si sentì in colpa nell’irrompere all’improvviso in un così delicato e spontaneo quadretto familiare. Bard si fece spazio tra i nani ed entrò per primo nella stanza.
-Papà- la bambina gli saltò addosso e gli si attaccò al cappotto uggiolando come un cagnolino che abbia fiutato la traccia del proprio padrone. Il ragazzetto si lasciò scompigliare i capelli e sorrise con aria furba, mentre la maggiore chiuse il libro e si affrettò a prendere tra le braccia il cappotto di Bard.
-Padre, ci stavamo preoccupando, siete stato fuori più del previsto.
-Riporto molta compagnia- Bard indicò i nani con il braccio e tre paia di occhi li fissarono estasiati, sorpresi e preoccupati –Sono nani e vogliono passare inosservati, perciò che non una sillaba esca fuori dalle vostre bocche. Intesi, Berit?
La piccolina annuì forsennatamente.
Bard prese i tre figli tra le braccia e li presentò alla compagnia:-Loro sono Grete, Bain e Berit.
-Io sono Meryn- Thorin fece un passo in avanti. Nessuno fece una piega nel sentirlo mentire sul suo nome –E loro sono Kili e Fili, i miei nipoti. I miei cugini sono Balin, Dwalin, Gloin e Oin. Ci sono poi Bofur, Bifur, Bombur, Ori, Nori e Dori. Lui è Bilbo Baggins, uno hobbit della Contea che ci sta accompagnando per affari, e lei Elemmire dei Reami degli Uomini.
-Siete i benvenuti in casa nostra- Grete, la maggiore, si inchinò in modo molto grazioso. Indossava una veste marrone consumata, che forse era appartenuta alla madre perché le era grande sul seno e l’orlo strusciava a terra. –Possiamo offrirvi del cibo, vino per ristorarvi e un posto accanto alla stufa. Non mancherete di nulla.
Bard guardò la figlia maggiore con approvazione e le depose un bacio sulla testa:-Vado ad apparecchiare la tavola.
-Papà, perché il signor Boggins è così basso?- Berit si esibì in un forte bisbiglio. I suoi capelli castani erano raccolti alla bell’e meglio in una crocchia e il visino pieno di leggere lentiggini era tutto teso verso il padre, così come il corpicino infagottato in una veste di tela grigia troppo corta e slabbrata. La bambina era pienamente certa di agire in gran segreto. Bilbo sorrise tra sé e sé e fece finta di non aver sentito. 
-Perché non glielo chiedi tu stessa, piccola?- Bard accarezzò il viso della minore e scomparve dietro una tenda tesa a metà salone.
-E’ vero che i nani portano fortuna?- Bain, il figlio maschio, dimostrava sui tredici anni e vestiva un pantalone nero e una tunica leggera che sembrava ricavata da una vecchia tovaglia.
-I nani portano ricchezza, se è questo che intendi- Gloin si accomodò pesantemente su uno sgabello. Fu come un segnale: ogni rango fu sciolto. I nani iniziarono a conversare con il ragazzino mentre Berit intratteneva Bilbo con una storiella. Elemmire si avvicinò a Grete che deponeva dei piatti sulla tavola:-Posso aiutarti?
Grete la guardò con i lunghi capelli riversi su una spalla. Aveva gli occhi neri di Bard. –Ti ringrazio, ma me la cavo da sola. Sei molto gentile.
-Elemmire- Fili la chiamava con impazienza. Kili aveva il viso colorito e sorrideva, ma con il braccio si appoggiava saldamente al fratello, segno manifesto di debolezza. Elemmire accorse al suo fianco, lo aiutò a sedersi su una sedia e si accomodò accanto a lui.
-Come ti senti Kili?
Fili ebbe la delicatezza di lasciarli da soli.
-Mi sento gelato fin nelle ossa- il nano rabbrividì –Ma a parte questo sto una meraviglia. Fili dice che ho avuto la febbre tutta la notte.
-Fili dice bene- Elemmire resistette all’impulso di scostargli i capelli scuri dalla fronte. Erano cresciuti molto dalla prima volta che l’aveva conosciuto. –Senti dolore?- Elemmire indicò con un cenno del capo la gamba fasciata.
-Nah, sto benissimo Elemmire. Perché continuate tutti a preoccuparvi per me?
-Non mi sembravi in grado di camminare.
-Mi fa male, ma sto bene. Ho solo bisogno di riposare un po’, e domani sarò già guarito del tutto. Non è la prima ferita che mi procuro.
Elemmire non sapeva cosa dire. Avrebbe voluto passare del tempo da sola con il nano, davanti agli occhi di tutti si sentiva in imbarazzo. In silenzio avvicinò la sedia di Kili alla stufa in modo che stesse ben caldo, poi cercò Bard oltre la tenda che faceva da separé. L’uomo era chino sull’unica parte in muratura della casa, una specie di forno in mattoni anneriti, e cuoceva del pesce sulla piastra. Le finestre aperte portavano lontano il fumo.
-Bard, uno dei nostri compagni è ferito, mi servono delle bende pulite e dei vestiti asciutti e caldi. A dir la verità servirebbero a ognuno di noi.
L’uomo la guardò da sopra una spalla:-Parla con Grete, lei si occupa dell’amministrazione della casa e dell’ospitalità.
Elemmire torno di nuovo al di là della tenda e cercò con gli occhi la ragazza: era seduta con in braccio la sorellina e rideva della conversazione di Berit e Bilbo. Si avvicinò discreta e la chiamò con un cenno del capo. Grete lasciò la sorella seduta sullo sgabello e le si appressò.
-Posso esserti utile?
-Mi dispiace disturbarti. Ci servono dei vestiti asciutti e delle bende pulite. Un nostro compagno è ferito e dobbiamo medicarlo.
Grete si batté una mano sulla fronte:-Che sciocca che sono stata! Ma certo, avrei dovuto pensarci io. Mi dispiace, sono una pessima padrona di casa. Vi lascio bagnati e infreddoliti a gelarvi fino alle ossa e a prendervi una polmonite.
La ragazza schizzò verso una bassa cassapanca ricoperta da un tappetto sbrindellato e ne tirò fuori tuniche e brache:-Non sono esattamente della loro misura, ma andranno bene, li terranno al caldo. E questa è per te, assieme alle bende.
Elemmire distribuì i vestiti tra i nani, che li accolsero con gratitudine, e si precipitò a medicare la ferita di Kili. Chiese a Grete di tenere lontana Berit per paura che la bambina si impressionasse e slegò le bende. Un puzzo di carne marcia la avvertì che le cose non stavano andando bene. Le bende erano nerastre, così come la carne di Kili. Elemmire trattenne il respiro e controllò il proprio stomaco che minacciava di rigettare succhi gastrici. Si lavò le mani in una bacinella che Grete aveva diligentemente portato assieme ad una fiaschetta di vino e poi delicatamente esaminò la ferita. Non fece in tempo a toccarla che ne sgorgò sangue nero e pus. Controllò il panico. Kili seguiva ogni sua mossa.
-Non ha un bell’aspetto, Elemmire- il nano era preoccupato e lei non sapeva come rassicurarlo. Annuì rigidamente, arginò il fiotto di liquidi e vi versò sopra del vino. Kili soffocò un urlo e si irrigidì, poi scalciò violentemente.
-Fili, tienilo fermo- Oin le si affiancò e l’aiutò a disinfettare. Il nano che si occupava dei feriti la guardò in modo molto strano:-Elemmire, è meglio se ora lasci fare a me.
Con riluttanza Elemmire si alzò e pur di non sentire il puzzo malsano della ferita si allontanò assieme a Grete e Berit. In silenzio le due figlie di Bard le mostrarono una minuscola stanza da letto dove poté indossare i vestiti puliti, ovvero una tunica e un pantalone di stoffa.
-Perché c’era quella puzza, Grete?- Berit aveva gli occhioni dilatati. Grete si inginocchiò vicino a lei e la prese in braccio:-Il nano è stato ferito e quella era la puzza del vino che si usa per disinfettare.
-A cosa serve?
-Così il sangue non si avvelena e la ferita guarisce in fretta.
Elemmire ascoltava in silenzio. Un ardente desiderio del suo mondo si impossessò di lei. Avrebbe dato qualsiasi cosa per una bottiglia di disinfettante vero o per un’iniezione di penicillina. Sapeva che un medico moderno avrebbe capito cosa non andava nella ferita di Kili, perché peggiorava così in fretta e come rimediare, ma lei era impotente. Il cuore le batteva forte tra le costole e minacciava di rompergliele per la violenza della paura che la divorava. 
Berit era poco convinta:-E perché sembrava fare così male?
-Perché le ferite fanno male, Berit. Ma ora non pensarci. Il nano guarirà presto e non sentirai più quella puzza.
-Posso uscire a giocare?
Grete le diede il permesso e la bambina schizzò fuori veloce come un lampo calpestando le assi di legno con i calcagni nudi.
Grete la guardò mentre infilava la tunica dalla testa.
-Sei così magra- disse ad un certo punto. Elemmire si rese conto che la ragazza aveva ragione; era sempre stata sottile, ma digiuni e lunghe marcie l’avevano dimagrita e resa addirittura asciutta.
-Abbiamo viaggiato a lungo, e camminato molto- rispose semplicemente.
-Da dove vieni?
-Ithilien. È molto, molto lontano da qui, nel profondo sud.
-E come mai viaggi con i nani?
-Facevo parte di una carovana, ma mi sono persa e ho incontrato la compagnia di Thor…Meryn. Ho viaggiato con loro alla ricerca di un regno degli uomini al quale appoggiarmi per poter tornare a casa.
-Bhe, sei capitata nel posto sbagliato- Grete sospirò –Qui non troverai di certo un trasporto per il sud. Il governatore concede a malapena il permesso a tre o quattro chiatte di pescare nel lago.
-Come funziona l’amministrazione qui?
-Non funziona, se devo essere sincera. Il governatore viene eletto ogni cinque anni, ma quello attuale è in carica da più di dieci. Ha truccato due turni consecutivi di elezioni e ora lui vive in una bella casa piena di confort mentre la gente muore di fame e di freddo.
-Non avete un mercato?
-Di cosa? L’unica fonte di ricchezza di Esgaroth è il lago. Abbiamo pesce a volontà, ma chi è disposto a venire fin quassù per comprarlo? Una volta eravamo il centro dei commerci del nord. Avevamo una flotta di navi mercantili che attraverso l’Anduin arrivavano fino a Gondor e a Rohan, ma ora sono rimasti solo gli elfi con cui fare qualche affare. Da quando la Bestia si è impossessata della Montagna e ha distrutto Dale, la città ai piedi di Erebor, siamo soli. E poveri.
-Come sai queste cose?
-Me le ha raccontate mio padre. Il mio bisnonno era originario di Dale.
-Conosci la storia del Re sotto la Montagna?
Grete ridacchiò:-Se la conosco? Qui ad Esgaroth anche i bambini la sanno a memoria. Tornerà un discendente degli antichi re a reclamare la sua patria natia, le campane suoneranno a festa quando la Bestia verrà uccisa e fiumi di oro e metalli fluiranno ancora una volta dal portone della Montagna inondando Esgaroth.
La ragazza si fermò all’improvviso e sgranò gli occhi neri. Nel suo sguardo passò una scintilla di comprensione.
-Sono loro, non è così? Sono loro i nani di Erebor.
Un sorriso gioioso si fece strada sul viso pallido di Grete. La ragazza si illuminò e socchiuse le labbra.
-La Profezia si avvera- sussurrò giungendo le mani sul petto –Ospitiamo in casa nostra Meryn, Re sotto la Montagna!
-Grete- Elemmire la richiamò con fermezza –Ti prego, nessuno deve sapere. Siamo tutti in grave pericolo e se anche solo una voce dirà di aver avvistato questi nani qui Esgaroth sarà distrutta. Ascoltami, ci sono poteri più grandi di noi che non vogliono che Smaug venga disturbato nella sua tomba di oro.
-Ho capito, ho capito- Grete abbassò lo sguardo –Potete fidarvi di me, non dirò nulla. Nessuno saprà.
-Nemmeno tuo padre, Grete.
-Nemmeno lui- la ragazza annuì con forza.
Le due ragazze tornarono nella sala da pranzo dove Bard stava servendo un lungo vassoio di pesci arrostiti. Per i nani erano stati disposti anche delle tazze di vino da taverna, di infima qualità ma buono per riscaldarsi. Mangiarono con appetito ma poco chiasso, e quando l’oscurità calò al di là delle finestre ogni nano si preparò un proprio giaciglio più o meno vicino alla stufa. Bard e i suoi figli dormivano nella minuscola stanza dove si era cambiata Elemmire.
Kili era raggomitolato il più vicino possibile al calore. Elemmire lo raggiunse con passi felpati e si sdraiò accanto a lui.
-Ti senti meglio?- chiese in un bisbiglio.
-Un poco- il nano giaceva ad occhi chiusi.
-Ti lascio riposare, forse è meglio.
-No- Kili allungò la mano e prese quella di Elemmire –Non andartene, rimani qui. La tua presenza mi rasserena.
-Hai ancora freddo?
Con sommo stupore di Elemmire, Kili annuì:-E’ come se mi si fossero gelate le ossa. Non sento alcun calore dalla stufa- gli occhi verdi si spalancarono –Magari potresti aiutarmi.
-Non mi piace quando fai quella faccia- gemette Elemmire. Il nano infatti aveva ripreso il suo furbo sorriso sbieco.
-Potresti stenderti accanto a me nella mia coperta e riscaldarmi col tuo corpo.
La proposta era così sfacciata che Elemmire avvampò fino alla punta delle orecchie. Il sangue le pulsava caldissimo alle tempie e il cuore parve scoppiarle.
-Sei senza alcun pudore, Kili.
-Stai rifiutando?- il nano si esibì in un brivido magistrale e iniziò anche a battere i denti.
E se fosse stato davvero febbricitante? Se avesse davvero avuto bisogno di calore?
Elemmire strinse i denti e scivolò sotto la coperta di Kili. Faceva maledettamente caldo. Il nano emanava calore quasi quanto la stufa; aveva la febbre alta. Elemmire lo avvolse tra le braccia e gli strofinò le mani lungo la schiena per riattivare la circolazione. Si accorse che lungo la spina dorsale Kili era gelido. La scoperta l’allarmò, ma si sforzò di non darlo a vedere. Il nano ricambiò l’abbraccio e chiuse di nuovo gli occhi.
-Ho visto come hai combattuto ieri- la sua voce era appena un sussurro –Sei diventata bravissima. Ce l’hai nel sangue. Sei quasi alla mia altezza, e io mi sono allenato per anni con il più grande guerriero dei nani.
-Thorin, figlio di Thror.
-Sbagliato. Dwalin. Nessuno potrebbe tenergli testa. E’ sempre stato il mio preferito. Balin e Thorin si occupavano a tempo pieno di Fili con la scusa che lui sarebbe diventato Re se Thorin non avesse avuto figli. Io sono il figlio cadetto, come Dwalin. E’ sempre stato il mio mito. Quando io e Fili litigavamo zio Thorin interveniva per sedare il litigio, poi Balin e Dwalin litigavano per chi di noi due avesse ragione. Vincevo sempre io, cioè, Dwalin. Una volta ci prendemmo a botte per un giocattolo che rappresentava un drago. L’aveva costruito Bifur per uno di noi: aveva un risvolto di stoffa nella bocca e se toccavi una leva le fauci si aprivano e ne usciva la stoffa rossa e tesa come una lingua di fuoco. Muoveva perfino le ali. Dwalin decretò che avessi ragione io perché ero il minore, ma a me non interessava il trofeo, interessava la vittoria. Regalai il drago a Fili e quella sera ci mettemmo insieme sul letto di zio Thorin a far finta di leggere un libro come spesso faceva mia madre, con i gomiti appoggiati sulle coperte.
Elemmire ascoltava in silenzio il fiotto di parole che usciva dalla bocca di Kili. Forse stava delirando. La sua infanzia era stata solitaria: pochi amici, tutti tenuti a distanza da casa sua. Figlia unica, non aveva mai provato l’ebbrezza di litigare con qualcuno per un oggetto in comune. Aveva sempre avuto ogni cosa, ma i sentimenti le erano sempre stati negati. Una madre distratta e orgogliosa, un patrigno scorbutico e silenzioso, una nonna debole e nessuno zio, nessun cugino a prendere le sue difese. Era stata così triste la sua vita finché non aveva incontrato Andra, e così solitaria finché non era piombato a capofitto Kili.
-Mamma però ha sempre preferito me, forse proprio perché sono il minore. Quando me ne sono andato mi ha detto, Kili promettimi che tornerai da me. Stava piangendo ma non voleva che Thorin la vedesse.
-Quando mamma se n’è andata io ero dall’altra parte del mondo- sussurrò Elemmire. Credeva che Kili non la stesse ascoltando, invece il nano si girò fino a guardarla negli occhi, i loro visi così vicini che Elemmire sentiva il caldo respiro dell’altro.
-Com’è successo?
-Una malattia l’ha presa e l’ha uccisa in poco tempo. Una febbre dei fiumi portata dalle zanzare. Da quel momento ho deciso che avrei studiato per diventare curatrice. Non avrei permesso che accadesse ad altre persone quello che era successo a me.
Kili la strinse in silenzio, gli occhi languidi e lucidi che galleggiavano nel viso pallido. Elemmire stava sudando ma affondò la faccia nell’incavo del collo del nano e rimase ad ascoltare il velocissimo battito del suo cuore. La barba di Kili le pizzicava sulla guancia.
-Nella nostra comunità nessuno è mai morto di febbri. Zio Thorin ci ha fatti stabilire in una zona salubre tra le montagne. Piove un sacco però. Ricordo tanti giorni di pioggia e tanti tramonti. Guardavamo il tramonto da un collinetta, spesso andavamo tutti e quattro, c’era anche mamma. Lei e Thorin parlavano mentre io e Fili ci rotolavamo nell’erba o nella neve, a seconda della stagione. Se pioveva stavamo a casa. Mi piace la pioggia. Zio Thorin minacciava sempre di non raccontarmi la storia di Smaug se la sera fossi stato malato a letto perché avevo sguazzato tutto il giorno nelle pozzanghere. Fili ha sempre ubbidito, io mai. Volevo sempre fare di testa mia. Una volta mi arrampicai su una albero e non seppi più come scendere. Iniziai a gridare e a piangere e dovette venire Dwalin a ripescarmi da lassù dove mi ero ficcato. Fili tentò anche di difendermi dicendo che mi aveva portato lui là sopra e che era colpa sua, che lui doveva essere punito. Figurati chi gli ha creduto. Ho ricevuto due sonori scapaccioni da mamma quel giorno, e poi mi ha fatto una torta di cioccolata e mirtilli. La cioccolata la portavano i nani nelle miniere per darsi forza durante il lavoro e si poteva comprare ovunque. È molto tempo che non mangio della cioccolata.
-Avrai tutta la cioccolata che vuoi se ora dormi- Elemmire gli accarezzò la fronte per calmarlo, ma il nano aveva gli occhi sbarrati e tremava. Kili peggiorava e in lei saliva la paura. 
-A volte anche zio Thorin lavorava in miniera. No, no, non in miniera, lui faceva il fabbro. Batteva sempre sull’incudine con il martello e creava oggetti bellissimi. Noi lo andavamo sempre a chiamare quando era pronta la cena… La cena… Elemmire abbiamo già fatto cena?
-Sì, Kili, abbiamo già fatto cena.
-E cosa abbiamo mangiato a cena?
-Pesce, Kili.
-Mi piace il pesce. Ma mi piace di più quando sta nel lago. Non mi piace l’acqua. A te piace l’acqua?
-Sì Kili, ma ora riposa. Sshh, chiudi gli occhi e dormi- Elemmire cullò Kili tra le sue braccia e lo ascoltò mentre rantolava e si rilassava. Alla fine si addormentò ed Elemmire gli depose un bacio sulla fronte bollente e sgusciò via dalla coperta. Era completamente sudata.
Si sdraiò sotto una finestra, in modo da ricevere un po’ di aria fresca pur continuando a tenere sotto controllo il nano. Oin dormiva vicino a lei.
-Si è addormentato?- la voce del nano la fece sobbalzare.
-Sì, ora dorme. Stava delirando, ha la febbre molto alta.
-Quanto tempo hai studiato le arti curative?- Oin la guardava con curiosità –E’ chiaro che sai bene come muoverti in questo campo.
-Da pochi anni, ma solo in via teorica. Siete voi l’esperto, mastro Oin.
Il nano scosse la testa desolato:-Mi dispiace, ma sono impotente. Non capisco cos’abbia che non va quella ferita. Non ho mai visto nulla di simile.
-Si riprenderà?- Elemmire aveva il cuore in gola.
-Non lo so. Nessuno può fare nulla per lui. Certo è che di questo passo non raggiungerà Erebor. Non con le proprie gambe.
Il pronostico di Oin gelò il sangue nelle vene di Elemmire.
-Si riprenderà- Fili era sdraiato a poca distanza da lei e aveva ascoltato tutto –Non può mollare proprio ora.
-Vorrei solo sapere cos’ha che non vada- Elemmire non capiva –In questo modo sarei in grado di curarlo.
Fili rimase in silenzio. Elemmire immaginò come dovesse sentirsi, e si accorse che non doveva nemmeno sforzarsi per mettersi nei panni del nano: lei stessa provava la stessa preoccupazione. Rimase sveglia tutta la notte a fissare l’oscurità, le orecchie tese nel caso Kili si svegliasse, poi all’alba si addormentò anche lei di un sonno leggero e vigile. 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** l'athelas ***


Si svegliò che era molto tardi. La casa di Bard era deserta, i bivacchi dei nani abbandonati sul pavimento. Grete stava sparecchiando la tavola e portava in precario equilibrio in mano delle tazze mentre canticchiava tra sé e sé una piacevole arietta. La luce del sole entrava brillante dalle finestre e disegnava grandi quadrati sul pavimento, oscurata ogni tanto da una nuvola passeggera. Sembrava una bella mattina di autunno come quelle che Elemmire aveva visto dagli elfi. Si alzò dal suo angolo massaggiandosi il collo contratto e si avvicinò alla ragazza.
-Buon giorno Grete.
-Buongiorno Elemmire- la padrona di casa le sorrise –Ti ho lasciato un boccale di latte di capra.
Elemmire lo accettò con gratitudine e bevve assaporando il gusto forte e genuino:-Dove sono tutti?
-Fuori. Dovevano fare delle commissioni con mio padre.
-Anche il nano ferito?- Elemmire si sentì crescere dentro l’ansia.
-Anche lui. Diceva di sentirsi bene questa mattina e suo zio voleva a tutti i costi portarlo con sé- Grete le rivolse un timido sguardo –Siete molto legati vero?
-Chi?- Elemmire cadde dalle nuvole. Sperava che Thorin avesse cura delle condizioni di salute di Kili.
-Tu e il giovane nano. Si chiama Fili mi pare.
-Fili è il fratello biondo, il moro si chiama Kili- puntualizzò Elemmire cercando di sviare il discorso.
-Quello scuro, sì, Kili. Siete molto legati?
-Siamo- cos’erano? Amici? Sarebbe stato più corretto dire che condividevano un destino comune. L’universo li aveva plasmati dalla stessa materia in due forme opposte e la vita, con i suoi casi incomprensibili, li aveva fatti incrociare. Kili non era suo fratello perché le ispirava pudore; non era suo parente perché la conosceva troppo a fondo; non era suo amico perché il suo sguardo la incendiava a fondo; eppure in una qualche maniera era tutti e tre insieme, e di più. Era uno spigolo che completava il suo vuoto, era la curva che intersecava la sua rientranza, il cerchio che ammorbidiva il suo angolo retto. Kili era il sole dell’autunno dove lei era alba di primavera, era vento d’estate dove lei era brezza invernale, aria frizzante, orizzonte sconfinato, Zefiro, soffio di vita dove per lei c’era sempre stata la solidità del marmo: ma il marmo è più utile ai morti che ai vivi.
-Siamo molto vicini, intellettualmente parlando- Elemmire schermò dal suo viso ogni emozione –E’ la cosa più vicina ad un fratello che io possa avere.
Grete aveva l’aria di aver chissà come indovinato la sua tempesta interiore, ma non indagò oltre e finì di sparecchiare. Aveva ripreso a canticchiare tra i denti.
-Magari potresti uscire anche tu stamattina- la ragazza le si rivolse da dietro la tenda –Potresti visitare Esgaroth, anche se dubito ci troveresti qualcosa di davvero bello da vedere.
Elemmire prese in seria considerazione di accettare l’invito:-C’è una biblioteca?- chiese.
-Oh, certo che c’è- Grete rise –Ma dovrai chiedere al Governatore di poterla consultare e spenderesti più tempo compilando scartoffie che sfogliando rotoli.
-Credo allora che raggiungerò i nani.
-D’accordo. Tieni prendi- Grete le porse una lunga cappa sbrindellata di un colore tendente al violetto –Se non vuoi attirare l’attenzione questa fa al caso tuo. Se ti perdi chiedi a chiunque di indicarti la via per la casa di Bard il chiattaiolo, in città ci conosciamo un po’ tutti.
-Grazie Grete- Elemmire uscì dalla porta principale, non dalla botola da cui era entrata. Il primo sguardo che rivolse ad Esgaroth la sorprese. La città era un dedalo di intricate viuzze sospese sul fiume da palafitte e collegate per mezzo di scale, ponticelli o canali navigabili. Bettole fumose di legno annerito sorgevano ovunque come funghi, con le lunghe scie dei comignoli che disegnavano spirali nel cielo turchino. Soffiava un vento freddo e arrogante che le strattonava la lunga cappa e la gonfiava. Elemmire si calò il cappuccio in testa per nascondere il volto e procedette. Scese degli scalini di legno marcito e girò dietro la casa di Bard. Percorse quella che sembrava una banchina a cui erano attraccate un paio di chiatte ingombre di pesci: due uomini e una donna li stavano scaricando. La donna era una ragazza invecchiata in fretta, con i radi capelli neri sciolti e un viso serio e ingenuo, grave sulla curva delle sopracciglia. Indossava una pesante veste nera e viola che sembrava essere stata ricucita e rattoppata molte volte. Un fazzoletto nero le copriva la sommità del capo: era in lutto. Forse era figlia, o moglie, o madre: pareva senza età. I due uomini che le si affiancavano erano rugosi e curvi, con i capelli rossi e bianchi, le occhiaie profonde e le vesti grigie e stracciate. Si assomigliavano per fisionomia e atteggiamento: dovevano essere fratelli. Lavoravano in silenzio e veloci, guardandosi spesso alle spalle. Riempivano le botti di pesce e si affrettavano a posarle nell’incavo di una scala, al sicuro dietro uno sbrindellato telone rosso. Il vento ogni tanto faceva ondeggiare le chiatte e i due vecchi lottavano per mantenere l’equilibrio. Elemmire li superò con lo sguardo basso. Dopo una manciata di passi si trovò di fronte a un bivio: se lo impresse bene nella memoria e girò a sinistra. La strada scendeva e costeggiava una casa con un ampio porticato di legno sul davanti, sotto al quale, rannicchiate sui gradini di una scala, sedevano due persone. Erano un giovane uomo dai lunghi capelli scuri e la camicia logora, e una ragazza con le chiome scarlatte e una veste che un tempo doveva essere stata signorile, ma ora appariva decisamente cenciosa. Piangevano e singhiozzavano chiusi su loro stessi, la ragazza si strappava i capelli e l’uomo cullava un fagotto bagnandolo di lacrime. Elemmire intravide l’esanime braccino di un neonato, livido e butterato dal freddo, far capolino dall’ammasso di coperte.
Queste non furono le uniche scene di miseria che Elemmire incontrò: ovunque vecchi e bambini morivano di freddo, di fame, madri e vedove piangevano in silenzio o tentavano di coltivare degli orticelli rinsecchiti, gli uomini chiedevano l’elemosina e scacciavano i cani che venivano a mordere loro le caviglie piene di ferite e i piedi piagati. L’odore agre del pesce impregnava qualunque cosa e si aggiungeva a quello dello sporcizia e della morte. Elemmire procedeva sempre, senza variare il suo passo e senza soffermare troppo lo sguardo su quelle visioni che le stringevano il cuore. Trovò un piccolo mercato di bancarelle e vi si inoltrò, respirandone l’atmosfera. Pesci ancora vivi si agitavano su tavoloni di legno, assieme a quarti di bue, galline e oche appese per il collo, ortaggi, frutti e legumi. Le assi su cui camminava erano qua e là viscide di sangue e appiccicose di succo, ovunque bagnate dell’acqua che i pescivendoli gettavano sulla merce per farla apparire sempre fresca. Una donna con una gigantesca matassa di riccioli neri, la carnagione olivastra, le labbra sensuali e una scollata veste violetta decantava le proprie abilità di cartomante. Vedendo passare Elemmire l’agguantò per la mantella e tentò di convincerla a sedersi davanti a un mazzo di vecchie e sudicie carte. Quando però gli occhi neri e meravigliosi della cartomante incontrarono quelli azzurri di Elemmire, una folata di vento le tolse dal capo il cappuccio e mise ben in mostra la fronte e il glifo elfico di Galadriel. La donna la lasciò andare come se fosse stata una serpe velenosa e sibilò quasi con astio:-Tu non appartieni a questo mondo.
Elemmire si ricoprì la testa e passò avanti senza scomporsi.
Il pomeriggio declinò velocemente nella sera. Le ombre si allungarono e il vento aumentò d’intensità. Elemmire riuscì a ricordarsi la via per tornare da Bard e in poco tempo tornò al bivio e poi alla banchina. Qui l’attendeva un triste spettacolo: diverse botti di legno erano fracassate a terra, le loro maglie ancora impigliate con i brandelli di alcuni pesci. A terra giaceva uno degli uomini che Elemmire aveva visto passando poche ore prima, la testa fracassata, il petto gelido e immobile. Incastrato tra le assi della banchina c’era un fazzoletto nero.
-Questo è come gli uomini onorano la giustizia.
La voce proveniva da sotto la palafitta di Bard. Elemmire si girò lentamente, quasi temendo di vedere in faccia la propria interlocutrice, perché la voce era esotica e femminile. Una figura era seduta per terra, vestita con pantaloni e tunica di un leggero celeste, stivali di pelle bianca e un mantello scarlatto. A tracolla portava un arco e una faretra.
Tauriel si alzò in piedi e si appressò verso Elemmire, gli occhi che lampeggiavano.
-Cos’è successo?- Elemmire indicò con un ampio gesto la banchina.
-Sono passate le guardie della città e hanno dichiarato che il pesce che quei poveracci stavano scaricando era non autorizzato. L’hanno ributtato in mare perché non erano state pagate le tasse sulla pesca, ma quelli non avevano nulla con cui pagare le tasse o la multa. Il vecchio che ha protestato l’hanno pestato a morte, a quell’altro hanno stuprato la figlia dicendo che poteva corrispondere a metà del dovuto. La poveretta aveva appena perso un bimbo di pochi anni.
La bocca di Tauriel prese una piega amara e i suoi occhi si indurirono come quarzo temprato:-E questa è Esgaroth, fiorente cittadina alleata di re Thranduil. Questi uomini non hanno più nulla da quando i nani sono stati esiliati, se non il nostro dolce sovrano. Egli vive nell’oro e indossa sete e damaschi, ma ha mai aiutato gli abitanti del Lago? Un’oncia del suo tesoro basterebbe a ricostruire tutta Esgaroth, a nutrire i suoi poveri, a dare uno straccio ai suoi bambini e un po’ di dignità alle sue donne, ma il grande Thranduil cosa fa? Siede sul suo trono e imprigiona l’erede di Thror, l’unico in grado di riportare al vecchio splendore questo buco, questo ricettacolo di disperati e miserabili. Per cosa poi? Ricchezze, orgoglio, rancore.
L’elfa era una maschera di amarezza. Raddrizzò le spalle e riprese il suo cipiglio fiero: Tauriel tornò il Capitano.
-Io e Legolas abbiamo inseguito gli orchi per due giorni. Si sono nascosti in anfratti e nel profondo dei boschi e in due abbiamo potuto ben poco.
Elemmire aveva una precisa idea di a che cosa corrispondesse quel “ben poco” in termini umani, e tuttavia osservò:-Thranduil non ha mandato rinforzi?
Tauriel rise in modo freddo e senza gioia:-Thranduil si è barricato nel suo palazzo-fortezza al centro di Bosco Atro. Nessuno vi esce e nessuno vi entra. Cosa importa del mondo al di fuori? Re Thranduil il Grande vivrà per sempre, a costo di vivere da solo. Ma noi, noi facciamo parte di questo mondo quanto i nani e gli uomini. È per questo che sono qui- Tauriel abbassò la voce e si fece più vicina. Svettava sopra Elemmire.
-Abbiamo catturato un prigioniero. Presto dei battaglioni di orchi setacceranno Esgaroth alla ricerca di Thorin Scudodiquercia. Egli deve essere ben lontano da qui. Io e Legolas li rallenteremo, ma siamo solo due.
-Quanto tempo abbiamo?
-Poco. Al massimo una settimana, se le cose vanno male appena due giorni. Manderò Legolas in città ad avvisarvi quando la strada per la Montagna sarà sicura per tutti e quindici.
-Tauriel- Elemmire mise da parte la timidezza –C’è una cosa di cui devo parlarti. Kili è stato ferito, ma la ferita non guarisce. Peggiora a vista d’occhio, è tutta nera e marcita, e lui ha continuamente la febbre.
L’elfa la guardò aggrottando le sopracciglia. Socchiuse le labbra perfettamente disegnate, pensò un attimo e poi chiese:-E’ stato colpito da una freccia o da un’altra arma?
-Freccia- rispose Elemmire, osservando con apprensione il viso della sua interlocutrice.
-Veleno- Tauriel non ebbe dubbi –Le frecce degli orchi sono tutte avvelenate con sostanze potenti.
Veleno! Perché non ci aveva pensato prima?
-Cosa devo fare?
-Scavare una fossa profonda e preparare vesti a lutto. E’ un miracolo che il nano sia ancora vivo. Non arriverà alla giornata di domani.
-No- l’urlo uscì soffocato dalla gola di Elemmire mentre una morsa di gelo le contraeva lo stomaco –No, no, ci deve essere qualcosa che posso fare per lui. Non posso lasciarlo morire.
Tauriel la guardò assorta per un lungo momento. Il suo viso si era addolcito nell’espressione più vicina al cordoglio che Elemmire le avesse mai visto.
-C’è una pianta che noi elfi usiamo per curare i veleni. Si chiama Athelas. Gli uomini la considerano un’erbaccia. E’ simile al prezzemolo ma molto più profumata. Puoi provare a cercarla e a fare un impacco sulla ferita. Devi spezzettarla in una bacinella sotto la luce della luna e poi applicarla per cinque minuti esatti.
Elemmire avrebbe baciato le mani dell’elfa, invece si limitò a chinare il capo in segno di rispetto e di ringraziamento:-Diola lle, mellon.[1]
Tauriel sorrise:-Sei piena di sorprese. Adesso hai imparato la mia lingua?
-In un mese di confinamento circondata da elfi si impara qualcosa- Elemmire sorrise a sua volta.
-Lle creosa[2]- Tauriel chinò la testa e si girò in una voluta di rosso. Saltò sulla scala e da lì sul tetto della palafitta di Bard, e si fece strada tra le tegole e le assi di legno finché non fu più visibile. Era scesa la sera. Elemmire salì velocemente le scale che la conducevano in casa ed entrò come una furia. I nani erano riuniti attorno alla stufa.
-Dobbiamo muoverci alle prime luci dell’alba- stava dicendo Thorin –Marceremo verso Erebor e avremo ancora molti giorni di tempo per sistemare un accampamento all’aperto e cercare la porta segreta.
-Marciare?- Fili aveva gli occhi sgranati –Con Kili in quelle condizioni?
Thorin fece un respiro profondo:-Fili, non posso rischiare che la missione fallisca per un solo nano. Se domani non sarà in grado di viaggiare, rimarrà qui.
-E’ tuo nipote!- Fili si alzò in piedi di colpo –E’ mio fratello!
-La famiglia non è sempre la prima cosa- Thorin era glaciale –Questa missione viene prima.
-Ma tu guarda- Fili si risiedette, ma i suoi occhi lampeggiavano di rabbia ben compressa –Non era Thorin Scudodiquercia che ci ha riempito la testa di discorsi sulla lealtà e sull’onore?
-Questo non c’entra nulla Fili.
-C’entra eccome, invece! Quale onore c’è nel lasciare indietro un parente, un membro della compagnia, un consanguineo? Non avevi dato la tua parola a nostra madre che non ci sarebbe accaduto nulla di male finché saremmo rimasti sotto la tua protezione? E quale ringraziamento nei confronti di Kili! E’ stato ferito perché stava cercando di aprire quel maledetto cancello per far uscire anche te, visto che non avevi saputo trovare un compromesso con Thranduil.
Thorin si alzò lentamente e parlò a voce bassissima:-Visto che ci tieni tanto, Fili, rimani qui anche tu. Non ho bisogno di persone che mettano in discussione ogni mio ordine. Pensavo che fosse chiaro, evidentemente mi sono sbagliato. È questa la tua lealtà, nipote?
Fili abbassò il capo con umiltà:-Mi dispiace zio, ho parlato senza pensare. Tu sei il mio re e io ti ho giurato obbedienza…
-Sei un ragazzo ragionevole, Fili. Un giorno sarai re e capirai.
-Ti ho giurato obbedienza, mio re, ma un legame ancora più forte lega me e Kili. Mi vedo costretto a infrangere il mio voto in nome del richiamo del mio stesso sangue. Se domani voi partirete e lui non sarà in grado di affrontare il viaggio, io rimarrò qui ad Esgaroth con lui.
Elemmire non si soffermò di più. Cercò Oin con lo sguardo e gli si appressò.
-Come sta?- non pronunciò nemmeno il suo nome.
-Male. L’abbiamo fatto stendere nella camera di Bard, ma sappiamo tutti che non è di riposo che ha bisogno. Non capisco, per la corona di Durin, io davvero non capisco.
-Veleno- sussurrò Elemmire al suo orecchio. Gli occhi del nano si spalancarono:-Ne sei certa?
-Certa come la morte. Kili non supererà la notte, ma so come curarlo- Elemmire si sforzò di esibire una sicurezza che non sentiva.
-Facciamo in fretta- disse Oin. Schizzò in piedi e in quel momento Grete uscì correndo dalla camera dove era ricoverato Kili.
-Cosa succede, Grete?- Bard alzò lo sguardo sulla figlia. Era pallida come un cencio e tremava.
-Il vostro compagno…credo che non stia bene…anzi che stia davvero male- la ragazza si cingeva l’esile busto con le braccia come a volersi scaldare.
Elemmire fu la prima a raggiungere la porta. Kili era steso per terra sulla paglia. Gemeva.
-Due braccia forti- ordinò –Sollevatelo e stendetelo su un tavolo.
Dwalin e Fili lo presero sulle spalle. Kili iniziò a lamentarsi a denti stretti e a grugnire. Il cuore di Elemmire si strinse nel vederlo: pallido, con occhiaie livide, bagnato di sudore, i denti bianchi scoperti come un’animale che ringhiasse. E infatti Kili si divincolava:-Sto bene, sto bene- continuava a ripetere con l’orgoglio e il primordiale terrore della belva ferita e impotente.
-Mi serve dell’athelas, sapete cos’è?- Elemmire chiamò a sé Bard con un cenno del capo.
-Un’erbaccia- rispose quello.
-Me ne serve molta. E mi occorre un orologio, e un catino d’acqua.
Grete, Bain e Berit schizzarono in due direzioni diverse, le due figlie fuori e il ragazzo in camera. Ognuno tornò dopo pochi minuti con quanto richiesto. Kili respirava a fatica, adagiato sul tavolo da pranzo.
Elemmire si impose di controllare il tremito delle mani e spezzettò l’athelas nell’acqua sul davanzale da dove filtrava un pallido raggio di luna. Quando ebbe le mani piene di impiastro verdastro tornò al tavolo e chiese a Oin di slegare le bende attorno alla ferita. La carne corrosa e marcita dal veleno sembrava sul punto di staccarsi a brandelli. Presa da un terribile presentimento, Elemmire chiese a Oin di spogliare Kili. Tutta la gamba del nano era attraversata da capillari neri e infetti che proseguivano il loro corso lungo il torace villoso e virile. Il sangue di Kili era completamente avvelenato. Senza altro indugio Elemmire premette l’impiastro di athelas sulla ferita e girò lo sguardo sull’orologio a cucù che le aveva portato Bain. Kili emise un urlo disumano, inarcò la schiena e quasi calciò Elemmire via. Ogni nano intervenne per tenerlo fermo. I cinque minuti passarono in un’era. Kili urlava fino ad arrochirsi la voce, Elemmire teneva le mani saldamente sulla ferita e dentro di sé pregava con fervore. Le urla di Kili le trapassavano il cuore.
Allo scoccare del sesto minuto rimosse l’impasto. Kili era svenuto e il capo esanime ricadeva di lato. I capelli scuri erano madidi di sudore.
-Cosa dobbiamo fare ora?- chiese Fili.
-Bendate la ferita, non usate il vino- Elemmire diede gli ultimi ordini con un filo di voce, poi si accasciò su una sedia. Anche lei si sentiva prossima allo svenimento. Il puzzo della carne lercia e del sangue corrotto le era rimasto nella gola. Bard le portò un bicchiere di vino rosso. Elemmire lo sorseggiò lentamente e ad occhi chiusi. Nel riaprirli riprese contatto con il mondo attorno a sé: l’aveva lasciato a di fuori per tutto quel tempo, in cui non era esistito nulla se non Kili, il suo lavoro, la ferita.
Berit singhiozzava spaventata tra le braccia di Grete, e anche Bain aveva l’aria provata. Bard era pensoso, i nani cupi, Thorin e Fili accarezzavano la fronte di Kili e Oin cercava di farlo rinvenire con dei sali.
Infine Kili riprese conoscenza, ma era così debole che riuscì appena ad articolare delle parole sconnesse. Elemmire gli posò la mano sulla fronte e si accorse che non scottava più di febbre. Un buon segno. Lo lasciarono riposare nella camera di Bard e tornarono tutti nella sala. Grete, diligente e scrupolosa, aveva apparecchiato per loro con del solito pesce, ma nessuno mangiò.
-Voglio farvi una domanda, e in nome dell’ospitalità che vi sto offrendo esigo una risposta- Bard era contrariato.
-Continua, ti ascoltiamo- Thorin lo guardava con diffidenza.
-Chi diavolo siete? E non rifilatemi quella storia dei mercanti. Perché un orco dovrebbe colpire un mercante con una freccia avvelenata? Non crederete forse che non abbia compreso il rito di purificazione.
-Non era purificazione- ribatté Oin –Era guarigione. Il ragazzo si era ferito con delle rocce.
-Non mentirmi mastro nano. So riconoscere l’azione di un veleno quando la vedo così da vicino. E cosa dire dell’erba che mi avete chiesto? L’athelas è detta anche “foglia del re”, sapete perché? Perché si dice fu donata dagli elfi ai re di Nùmenor in esilio. Solo un grande guaritore, o uno stregone, poteva conoscere i tempi e le dosi per applicarla. Parliamo poi della vostra “guida”: è simile in tutto tranne che nella statura e nelle orecchie ad un’elfa e porta un simbolo argentato in fronte e una spada alla cintura come un uomo. Non lo ripeterò ancora: chi diamine siete?
Sulla compagnia scese il silenzio più totale. Elemmire trovò veramente buffo che il prezzo per aver salvato la vita di Kili fosse il loro anonimato.
-Siamo i nani di Erebor- Thorin capitolò –Siamo venuti a reclamare la nostra patria natia. Lo hobbit e l’Umana fanno parte della nostra compagnia.
-E con quale diritto? Non è rimasto nessuno in grado di avanzare pretese sulla Montagna Solitaria.
-L’Ultimo Re aveva un figlio e un nipote.
-E non sarai mica uno di loro due eh?- Bard rise –Conosco anch’io le vecchie leggende, mastro nano. È tramandato che quando il Re Sotto la Montagna tornerà le campane suoneranno a festa ed egli entrerà in città circondato di gloria, non lacero e inseguito da orchi come un mendicante o un ramingo.
-Tieni a freno la lingua- Dwalin si alzò di scatto –Tu non sai con chi stai parlando. Lui non è un mendicante, è Thorin figlio di Thrain, figlio di Thror, Re legittimo Sotto la Montagna.
Thorin mise una mano sulla spalla di Dwalin e lo ringraziò con un cenno del capo:-Siedi ora, mio buon compagno. È vero, io sono Thorin, quello che alcuni chiamano Scudodiquercia. E se c’è qualcuno che ha diritto di avanzare una pretesa contro la Bestia Usurpatrice, sono io. Ricordo la tua città quand’era al massimo dello splendore, con flotte e decine, decine di mercati sparsi ovunque che vendevano le sete più raffinate, le perle più grandi e le spezie più seducenti. Guardala ora, Bard, erede di Girion. Il tuo antenato era il signore di Dale, la più prospera città del Nord. Ora il suo discendente è chiattaiolo in un rigurgito di accattoni, affamati e corrotti. Non vorresti vedere la tua città di nuovo fulgida e magnifica? Come può il tuo cuore rimanere insensibile davanti alla miseria di quello che dovrebbe essere per diritto di nascita il tuo popolo? Come puoi sopportare che quello che gli altri chiamano “il Governatore” occupi il posto che ti spetta?
-Non lo sopporto infatti- Bard digrignava i denti.
-E io non sopporto di vedere il mio popolo in esilio, povero, malnutrito, che guarda con nostalgia verso le cime dei monti dell’Est. Non sopporto il pensiero che il trono dei miei antenati sia ora la latrina della Bestia, possano cadergli le squame una ad una. Perciò Bard io e i miei congiunti riconquisteremo quella Montagna, e ne ricaveremo benefici entrambi. Ora, con permesso, buonanotte.
Mai Thorin le era sembrato così maestoso. Elemmire ricordò le parole di Balin all’inizio del loro viaggio. Aveva detto che l’avrebbe seguito ovunque perché era il suo re. Elemmire si sentiva nello stesso modo. Berit, Bain, Grete e Bard dormirono al di là della tenda-separé e lasciarono la camera a Kili. Elemmire ebbe la tentazione di sgattaiolare da lui, ma si trattenne e dormì assieme agli altri nani.
Il giorno dopo si svegliò prima di tutti. Sentiva necessità di lavarsi. Non avendo a disposizione dei catini si spogliò e si lavò nel lago ghiacciato, sopportando il freddo a denti stretti. Nel rientrare si avvolse nella coperta e si sedette accanto alla stufa ad asciugarsi. Legò i capelli che, da bagnati, erano lunghissimi e si rivestì in fretta, poi non resistette alla tentazione di vedere come stava Kili. Entrò in punta di piedi nella sua stanza e lo guardò dormire. Era sdraiato di spalle alla porta, quasi rannicchiato sotto l’enorme coperta di Bard. I capelli gli cadevano sulle spalle. Elemmire si ritrovò a pensare a lui con tenerezza, quasi con sollievo. Ammirava la linea massiccia delle spalle, il fisico virile, i muscoli guizzanti sotto i vestiti. Pensava di continuo a lui: l’intelligenza acuta, la parola seducente l’affascinavano, la sensibilità e l’allegria la facevano sentire accolta, il coraggio e l’altruismo la seducevano e la incatenavano. Stare con lui era come respirare a pieni polmoni dopo una vita intera passata a rantolare, a trattenere il fiato. Elemmire non capiva cosa stesse succedendo dentro di sé. Comprensibile: non era mai stata amata, e di conseguenza non aveva mai amato. Nessuno era riuscito a fare breccia in profondità dentro di lei, nemmeno l’adorata amica Andra. Elemmire non sapeva cosa l’amore fosse. Guardando Kili ogni cosa in lei rotolava e vorticava e le faceva domandare: è questo che si prova quando si ama?
Appena il pensiero le si affacciava alla mente, subito con forza lo scacciava. Lei non poteva innamorarsi. Doveva tornare a casa, era di passaggio; presto Kili avrebbe sposato una nana di Erebor e si sarebbe dimenticato di lei. E poi erano due esseri diversi: un nano e un’umana. Non condividevano nulla al di fuori di quell’avventura. Elemmire non avrebbe permesso a se stessa di rendere ancora più complicata la situazione, ma come poteva impedirlo? Il suo cuore tornava a battere: cosa importava se era per causa di Kili? Vedeva il mondo con occhi diversi: era o no una cosa positiva? Lo era. E allora perché il pensiero di innamorarsi, di legarsi affettivamente la spaventava così tanto? Si rispondeva che non sapeva nulla dell’amore. Così ragionando scrutava Kili e lo accarezzava con lo sguardo, ne seguiva il profilo con una dolcezza a lei sconosciuta di cui probabilmente non si rendeva nemmeno conto.
-Mattutina come sempre.
-Sei sveglio?- Elemmire avanzò di pochi passi nella stanza.
-Da ore- Kili si girò sulla schiena e la guardò con un debole sorriso.
Elemmire voleva rivolgergli tante domande, ed iniziò con:-Come ti senti?
-Debole. Ma guarda un po’- Kili si slegò le bende dalla gamba e le mostrò la ferita. La carne che fino alla sera prima era nera e avvelenata ora si era come raggrinzita e sbiancata. Il foro della freccia non era più sanguinolento e putrido ma roseo di nuova pelle.
-E’ un miracolo- Elemmire si precipitò accanto al nano e guardò l’effetto dell’athelas da vicino. Kili non emanava più il tanfo della morte.
Il nano la guardava con occhi pieni di gioia e una luce diversa brillava sul suo viso: non la furbizia della ribellione, ma quasi una sorta di tenerezza. Era semplicemente e genuinamente felice.
-Ti devo la vita- Kili rimaneva immobile, senza neanche sbattere le ciglia, e la guardava negli occhi.
-Ho studiato le arti mediche per un po’- rispose semplicemente Elemmire, stringendosi nelle spalle. Si disse che doveva essere quello di cui parlava Galadriel: il suo compito, la sua funzione. Forse aveva già adempito al suo destino. Forse l’aver fatto scappare i nani e l’aver strappato Kili dalla morte era sufficiente per riaprire il Portale e portarla a casa. Casa. Elemmire nemmeno ricordava più che aspetto avesse.
-Anche Oin le ha studiate per anni e anni, ma non ha potuto fare nulla. Come conoscevi l’athelas?
Elemmire tornò con la mente alla conversazione con Tauriel, e una volta accantonata la paura per Kili l’avviso dell’elfa assunse di nuovo le sue tinte fosche.
-E’ un rimedio elfico. Tra quanto sarai in grado di camminare?
-Due giorni, forse tre- Kili alzò le sopracciglia –Non cambiare argomento. Hai studiato anche medicina elfica?
-No, l’elfa che ci aiutati a scappare, Tauriel, era qui ad Esgaroth ieri e mi ha suggerito di usare l’athelas.
-Ah, quindi non era tutta farina del tuo sacco- Kili sorrise e si stese di nuovo.
-Confesso con umiltà- Elemmire si slegò i capelli umidi e iniziò a pettinarli con le dita.
-Posso intrecciarli?- Kili guardava con desiderio le sue ciocche nere.
-Se vuoi.
Il tocco delle mani di Kili era delicato e sicuro. La fece stendere con la testa sul suo grembo. Elemmire sperò che non notasse come il suo cuore pulsava nell’incavo del collo.
-Ero conciato male, vero?
-Hai delirato per una notte intera.
-Akh Guntéreaz dorzâda![3] Ho detto cose imbarazzanti?- Kili arrossì sulle orecchie.
-Parlavi della tua infanzia- Elemmire omise che mentre lo faceva la stringeva sotto la coperta.
-E cosa ho raccontato?
-Di quando litigasti con Fili per un giocattolo a forma di drago, e di quella volta che ti sei arrampicato su un albero e non riuscivi a scendere.
-E basta? Sono stato breve allora.
-Hai anche detto che Dwalin è il tuo eroe.
-Verissimo. Sei certa che stessi delirando?
-E hai detto che ti manca tua madre.
Kili si fermò:-L’ho detto?
-L’hai detto.
-Avevo la febbre alta.
-Non c’è nulla di male ad avere nostalgia di casa.
-Non ho nostalgia di casa. Deliravo e basta.
Elemmire sorrise tra sé e sé. Che inguaribile orgoglioso.
-Conosci delle ballate in nanico?- Elemmire guardava il soffitto di legno di Bard. La casa taceva, la luce del sole filtrava dalle persiane sgangherate.
-Ovviamente ne conosco, perché?
-Ne canteresti una?
-Ora?
-Ora. Ti sei perso il monologo di Thorin ieri sera. Non vedo l’ora di vedere Erebor da vicino. Deve essere un posto mozzafiato.
-Il più grande regno della Terra di Mezzo- Kili sospirò –Vuoi assaggiare un po’ di atmosfera che ti prepari a quello che vedrai una volta entrata, vero?
Elemmire annuì delicatamente per non disturbare il lavoro di Kili.
-Mia madre ne cantava una quando ero molto piccolo. Certo con la sua voce faceva tutto un altro effetto ma…sei certa di volerla sentire in nanico?
-Certissima.
Kili prese fiato e intonò una dolce melodia. Ad Elemmire non piaceva il nanico: era ricco di suoni gutturali, spigolosi, ruvidi come roccia. La melodia della canzone era però delicatissima e dolce come una ninna nanna, ripetitiva, piena di alti e bassi. La voce di Kili era calda, roca, come il tocco ruvido di una coperta di lana. Cantò per un bel po’ ed Elemmire si lasciò cullare dalle parole incomprensibili, dense di una qualche sorta di tristezza. Kili si interruppe ad un tratto.
-Penso di capire ora perché a mia madre piacesse tanto- mormorò. Si era incupito.
-Di cosa parlava?
-Secondo te?
-Era malinconica.
-E’ la storia di una ragazza che ogni giorno in mezzo ai campi canta “il mio amore è oltre le montagne” e si strugge di lontananza e piange e prega ma non smette mai di cantare e di scrutare l’orizzonte per vedere se il suo amore tornerà. E lui un giorno torna e le dice “Asciugati gli occhi, sono tornato per te da oltre le montagne”.
-E’ bellissima.
-E’ così triste. Skilf delva ana shatûr, così si chiama. Tu sai cantare?
-No- rispose Elemmire.
-Non ci credo. Hai mai provato?
-No.
-Canta qualcosa per me- la richiesta era diretta: come rifiutarla?
-Non sono intonata e non saprei cosa cantare.
-Il primo punto è opinabile, il secondo risolvibile: canta qualcosa che ti ricordi casa.
-Mia madre non cantava mai.
-Diamine, ci sarà una canzone che ti ricorda l’infanzia!
-E’ triste.
-Voglio ascoltarla lo stesso.
Elemmire prese un respiro.
 
La luna brillava, la notte era serena
Nessuna brezza soffiava dal mare
Quando Genna lasciò la sua casa sulle colline
Per vagare assieme a me.
I fiori ricoprivano il fianco dei monti
E il loro profumo riempiva la valle
Ma il fiore più dolce in assoluto
Era la rosa dell’Ithilien.
 
Sia che io andassi ad est sia che io andassi ad ovest
Anche se la nostra fortuna diminuiva
Lei continuava ad essere per me un sostegno
Nel cordoglio delle giornate solitarie.
Quando la tempesta spazzò la nostra piccola barca
Una fanciulla da sola affrontò il temporale:
era la rosa dell’Ithilien.
 
E quando le mie labbra febbricitanti si screpolavano
Nelle sabbie ardenti dei deserti
Lei sussurrava speranze di felicità
E storie di terre lontane.
La mia vita sarebbe stata sperduta
Senza la benedizione della sorte
Se il destino non avesse legato il mio amore
                                                       A quello della rosa dell’Ithilien.           
 
Elemmire aveva la voce arrochita e gli occhi chiusi. Era una canzone popolare che aveva modificato, l’unica che ricordasse del vasto repertorio di sua nonna. Quella donna che in gioventù era stata bellissima, bionda con due enormi occhi azzurri, cantava con una vocetta sottile sottile mentre cucinava. Elemmire si metteva in piedi su una sedia e l’aiutava a lavare gli ortaggi o a sgranare i fagioli finché non tornava suo padre, che assomigliava tutto al nonno, scuro e nerboruto com’era. Aveva pochi anni ma lo ricordava con chiarezza. La morte della nonna aveva significato per lei il crollo di un mondo. A dodici anni era stata tirata su da lei, senza passare mai con la madre più di poche ore ogni giorno. Quanto poco tempo avevano avuto per stare insieme, conoscersi. Angrid era morta tre anni dopo. Eppure Elemmire l’aveva amata. Aveva amato la madre, l’aria di mistero che la circondava, il suo profumo esotico, i gioielli etnici, lo sguardo così profondo che le sapeva leggere dentro. Aveva amato provarsi di nascosto i suoi vestiti, che le stavano quasi bene, dalle forme strane e asimmetriche, una profusione di verdi, gialli e marroni. Il suo preferito era l’abito da sera blu elettrico, lungo fino a terra che Elemmire faceva sempre strascicare per la camera. Era l’unica cosa che aveva preso con sé delle cose materne. Lo teneva ben piegato in un cassetto, senza mai tirarlo fuori, a malapena vedendolo quando si vestiva la mattina.
-Hai una voce molto particolare Elemmire.
-Puoi dirlo senza giri di parole, che non so cantare.
-Non sei male invece. E la canzone era bellissima.
-La cantava sempre mia nonna mentre cucinava.
-A proposito di cucinare, questa casa sembra deserta. Che ore saranno?
Elemmire si alzò in piedi, rimase ferma per far passare il subitaneo senso di vertigini e poi scostà leggermente la persiana: enormi nuvole bianche e grigie si rincorrevano nel cielo.
-E’ giorno fatto, di questo sono sicura.
-Sto morendo di fame.
-Non credo che ti alletterà la prospettiva di pesce arrosto freddo, ma pare sia tutto quello che abbiano in questa casa.
-Qualunque cosa è meglio che rimanere a stomaco vuoto.
Elemmire aiutò Kili ad alzarsi in piedi e insieme tornarono nella sala principale.
-Kili!- fu appena uno spostamento d’aria, poi Fili si buttò tra le braccia del fratello stringendolo in una morsa ferma e affettuosa.
-Così lo soffocherai, ragazzo!- il vecchio Oin borbottò da dietro un monumentale boccale di birra bruna, ma i suoi occhi sorridevano.
-Ragazzo, che sollievo vederti in piedi sulle tue gambe.
-Credevamo che non avresti superato la notte.
-Io non ci credevo, che la figlia d’Uomo ti avrebbe davvero salvato.
-Sei un erede di Durin, sei una razza forte. Non ho dubitato un attimo che ce l’avresti fatta.
I nani si affollarono attorno a Kili riempendolo di pacche sulle spalle e sorrisi. Il giovane principe era il ritratto della felicità. Il suo sguardo incontrò quello di Elemmire; le fece l’occhiolino e il cuore della ragazza schizzò in gola. Fu questione di un attimo, ma era certa di essere arrossita.
Infine si fece avanti Thorin. La sua espressione era indecifrabile, un misto di sollievo e fretta. Abbracciò rudemente il nipote, poi con la sua voce grave disse:-Mi fa piacere vedere che sei fuori pericolo. Vuol dire che ti lascio in buone mani.
Il sorriso di Kili appassì di colpo:-Cosa vuoi dire?
-Ancora questa storia? Thorin il ragazzo è perfettamente in grado di…
-Balin- Thorin non alzò la voce, ma il suo tono non ammetteva repliche –Non rendo conto a nessuno delle mie decisioni. Tu Kili sei ancora troppo debole per muoverti a passo di marcia, e rallenteresti ognuno di noi. Non possiamo rischiare di arrivare tardi o di farci scoprire, perciò finirai qui la tua convalescenza con Elemmire.
-Il mio posto è con i feriti…
-No Oin, tu verrai con me. Ho bisogno di braccia forti, ed Elemmire si è dimostrata perfettamente all’altezza di gestire la situazione.
-Non se ne parla!- gridarono quasi in coro Kili, Fili e Oin.
-La ragazza ha così poca esperienza!
-Ancora questa storia! Pensavo di essere stato chiaro ieri sera!
-Di che diavolo parli zio? Certo che io vengo con voi.
Elemmire rimase ferma in un angolo con lo sguardo basso. Sentiva comunque quello di Thorin che la scrutava.
-Tu non dici nulla?
Alzò la testa e guardò negli occhi il nano. Occhi di freddo metallo.
-Non rimarrò qui con le braccia conserte. Ho giurato di combattere al vostro fianco.
Lo sguardo di Thorin si fece ancora più duro del granito:-Mi hai giurato obbedienza. Tutti voi l’avete fatto. È questa la vostra lealtà? Credete che per me sia una scelta facile? Ma ho lottato una vita intera per compiere questa missione, non posso permettere che qualcosa interferisca. Mi capite? Non posso. Sono responsabile di questa avventura. Fidatevi di me se vi dico che agisco solo per il bene di ognuno di voi.
-Siamo cresciuti sognando questa missione, siamo i tuoi eredi diretti. Non hai alcun diritto di estrometterci in questo modo, né in quanto tutore né in quanto re. Non siamo più dei bambini Thorin, siamo uomini. Noi tutti saremo lì quando quella porta si aprirà, ci sarà Kili come ci sarà Elemmire. Non sei stato l’unico a combattere, direi che meritiamo la nostra parte di gloria.
Ogni sguardo era fisso sul duello verbale tra Thorin e Fili, l’uno imponente, travagliato e d’improvviso così vecchio, l’altro baldanzoso, con una luce negli occhi che solo la giovinezza e la convinzione può dare.
-Potrebbe finire nel fuoco per tutti noi!
-Bruceremo insieme- Kili era una maschera di determinazione –Abbiamo fatto la nostra scelta tempo fa. Arriveremo tutti e quindici a quella porta, o non ci arriverà nessuno di noi.
-Questo è un buon punto di discussione.
La voce di Bard interruppe bruscamente la conversazione. Era appoggiato allo stipite della porta, il soprabito bagnato. Le facce dei tre figli spuntavano da dietro le spalle massicce.
-C’è una profezia, Scudodiquercia, a proposito di te. Si dice che quando il Re delle rocce scavate tornerà ci saranno canti, danze e le campane suoneranno a festa. Ma ogni cosa finirà in tragedia, perché il lago brucerà di fuoco di drago. L’hai detto tu ieri, Esgaroth dovrebbe essere mia per diritto di nascita. E il mio dovere è proteggere il mio popolo e la mia famiglia.
-Cos’hai fatto?- Thorin quasi si avventò sul chiattaiolo. La sua voce era un ringhio. Ci volle tutta la forza bruta di Dwalin per fermarlo. Elemmire sfiorò con le dita l’elsa della spada attaccata alla cintura da cui non si separava mai.
-Il mio dovere. Ho avvertito il Governatore.
 
[1] Grazie, amica.
[2] Prego
[3] Per amor di Guntera!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** il governatore ***


Furono portati nella piazza di Esgaroth, davanti a quello che un tempo doveva essere stato un palazzo magnifico ma che ora cadeva a pezzi per l’umidità e l’inerzia dei custodi. Uno stuolo di guardie armate di lunghe picche li scortò lungo la strada mentre uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale si accalcavano contro i muri e si affacciavano alle finestre per cercare di vedere qualcosa di quella strana processione. Il sole si nascondeva dietro le nuvole e le assi di legno su cui camminavano erano ricoperte da una patina di ghiaccio che scricchiolava ad ogni passo. Elemmire sentiva freddo ma non osava muovere un muscolo facciale, troppo impegnata a immaginare cosa sarebbe successo a quel punto. Quando raggiunsero dunque la piazza, un codazzo di curiosi circondò la compagnia di Thorin e le picche vennero alzate per creare una barriera tra i nani e le persone. Bard si manteneva in disparte, le braccia conserte e il viso corrucciato. I respiri si condensavano nell’aria.
La porta del palazzo fatiscente si aprì e ne uscirono altre guardie, due valletti con buffe trombe in mano e un figuro mezzo gobbo vestito di nero, con più capelli che denti e un’aria untuosa sul viso.
-Sua Eccellenza il Governatore Supremo di Esgaroth- l’uomo si inchinò così profondamente da sfiorare terra con il naso mentre un altro uomo avanzava nel vano della porta.
C’era qualcosa di molto buffo in lui. Forse era il lungo naso, o il mento a punta, o magari ancora l’enorme pancia che la larga veste scura non riusciva a mascherare. La sua andatura era barcollante, pure l’espressione era furba e stizzosa. Radi capelli rossicci ricadevano sulle spalle.
Le trombe suonarono qualche nota stonata prima che un gesto secco del Governatore le zittisse.
-Ah, molto bene, vedo che per una volta il nostro amico Bard non ha raccontato menzogne sulla sua merce- il sorriso del Governatore era affabile e calcolatore come quello di un ragno in attesa di tessere la propria tela esattamente attorno alla sua mosca preferita. Elemmire provò a pelle una bruciante antipatia per l’uomo.
-Sono solo nani, vostra Eccellenza, nani e straccioni e una qualche prostituta del Sud. Chi ci assicura che sia davvero il leggendario discendente di Thror?
-Tieni a freno quella lingua biforcuta prima che te la tagli- la mano di Kili si diresse verso la cintura che teneva in vita, fermandosi a mezz’aria senza trovare la spada che, come tutte le armi, era stata loro confiscata.
-Se davvero siete i nani di Erebor, perché viaggiare in anonimato? Che vergogna c’è nell’essere Re Sotto la Montagna?- il segretario del Governatore ignorò la minaccia di Kili.
Elemmire sperava che Thorin non rispondesse. Lei sapeva. Sapeva che gli Orchi di Bolg stavano dando loro la caccia e che l’anonimato era la loro sola protezione. Se la notizia si fosse diffusa, si sarebbero trovati con alle calcagna un branco di affamati Mannari prima del calare del sole. Fu quindi con impotenza e disperazione che vide il re dei nani alzare la fiera testa e guardare negli occhi il Governatore.
-Hai ragione. Perché nascondermi? Io sono Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror, ultimo Re Sotto la Montagna. Questi che vedete sono miei congiunti o seguaci. Siamo qui per reclamare la nostra patria.
-La vostra patria è ora abitata da un drago sputafuoco- Bard si fece infine avanti, ma un gesto del Governatore lo fece fermare. L’ometto si era fatto d’improvviso attento.
-Continua, mastro nano.
-Per anni e anni ho covato rancore verso la Bestia. Per anni ho sognato il giorno in cui sarei tornato qui, nella mia terra, e avrei rivisto i picchi innevati di Erebor e il suo riflesso nel lago. L’ultima volta che sono stato qui questa città era prospera e gioiosa, i bambini giocavano per strada, le donne cantavano, c’era lavoro e benessere per tutti. Ora torno qui e trovo un covo di mendicanti e accattoni che non riconoscono nemmeno il loro re di diritto. Eppure usavate onorare grandemente mio nonno e il suo oro, e le sue merci, e i nostri giocattoli.
Thorin non si rivolgeva al Governatore, ma alla folla. Elemmire pensò che fosse una cosa dannatamente saggia da fare.
Alla parola oro il viso del Governatore s’era illuminato. Un’ombra di consapevolezza era passata nei suoi occhi, ed Elemmire era certa che anche Thorin l’aveva vista.
-Oro e merci, tu dici?
L’espressione di Thorin si addolcì. Elemmire sapeva cosa stava succedendo: il re prendeva i panni del diplomatico.
-Chi di voi non conosce la storia? La Bestia, possa il suo nome essere una maledizione, arrivò dal Nord attirata dalle ricchezze di noi nani. Quando le gigantesche fucine, le fornaci e i laboratori funzionavano a tempo pieno la ricchezza fluiva fuori da Erebor e inondava tutta Esgaroth. E io vi prometto, sul mio onore, che riporterò questo posto al suo splendore. Ognuno di voi avrà la parte di tesoro che gli spetta, e potrete ricostruire questa città dieci volte più splendida di come lo era al tempo dei vostri nonni.
La folla, che prima si era limitata a rumoreggiare, esultò con il fragore di una valanga. Elemmire ammirò l’abilità del nano, così acuto da capire dove far leva per ottenere quello che voleva. Già, ma cosa voleva di preciso Thorin Scudodiquercia?
-Morte. Morte, sangue, fuoco di drago, eccolo il tesoro che ci spetta- Bard intervenne ancora e fece tacere ogni mormorio –Tu parli di leggende, mastro nano, hai dimenticato cosa dice la profezia? Se risveglierai il drago, non ci sarà più nemmeno un brandello di terra dove ricostruire Esgaroth, perché quella creatura metterà a ferro e fuoco ogni cosa. Verserà indistintamente il sangue di vecchi, donne e bambini, senza vedere se sta uccidendo soldati o innocenti indifesi.
-Bard, il tuo pessimismo mi offusca l’animo- il Governatore assunse un’aria offesa –Non credi che il Re legittimo potrebbe uccidere il drago?
Bard rise di una risata senza gioia:-Con la sua imponente spada nanica? La corazza di un drago è più dura dell’acciaio elfico e copre ogni singola parte del corpo. Solo una freccia nera scoccata da una Lancia del Vento può sperare di penetrarla, e un solo esemplare di quell’arma è ancora in circolazione.
-Tu come fai a sapere queste cose?- Thorin scrutò Bard. Il suo sguardo era pieno di risentimento.
-Perché l’unico esemplare è in mio possesso. Apparteneva al mio predecessore, Girion signore di Dale. Egli tentò di colpire Smaug quando fece carneficina della sua città- l’espressione di Bard divenne amara e dura come roccia –Fallì il colpo la prima volta, scalfì appena la corazza del drago la seconda. Poi fuggì portando con sé la Lancia del Vento e l’ultima freccia nera.
Il Governatore sorrise untuoso. Era inquietante.
-Ecco come la verità viene fuori, con il tempo. Così se il tuo nobile antenato avesse avuto qualche anno di meno e una vista più acuta, la Bestia sarebbe già scheletro da tempo eh? Porti sulle spalle la vergogna e la miseria di un intero popolo, ma osi interferire con le decisioni del re di diritto.
-Non è il mio re- rispose Bard fieramente riservando a Thorin uno sguardo denso di rabbia.
-Ma io sono il tuo Governatore. Il tuo essere così piantagrane mi ha seccato, Bard. Un’altra parola e ti farò imprigionare per incitamento alla sommossa. Voglio ascoltare cosa ha da dire re Thorin e cosa vuoi in cambio dell’oro.
-Protezione- Thorin sorrise –Vedete, Governatore, che io e i miei congiunti siamo ridotti a cenciosi viaggiatori. Datemi accesso ai vostri rifugi e alle vostre provviste e io vi ricoprirò d’oro, e non solo chi ci ospiterà, ma chiunque, dal più piccolo infante al vecchio più venerando.
Elemmire pensò che era un modo bellissimo per invocare ospitalità. Thorin sembrava fare una grande concessione agli uomini del Lago prendendo dimora nelle loro case, almeno questo era quello che si leggeva nella sua espressione e negli occhi delle persone. Le donne si abbracciavano tra loro, i bambini tiravano le gonne delle madri, gli uomini si battevano le mani sulle spalle.
-Cosa mi risponde il Governatore di Esgaroth?- Thorin alzò la voce per sovrastare il rumore della folla. Era il ruggito di un orso alla carica.
-Il Governatore onora Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror. Benvenuto, Re Sotto la Montagna!- il Governatore si inchinò in modo ossequioso, seguito da tutti i suoi segretari e paggi, e infine dal popolo. Solo Bard rimaneva fieramente in piedi, le braccia incrociate, lo sguardo basso.
-Re Sotto la Montagna- invocò Dwalin, abbassandosi su un solo ginocchio.
-Re Sotto la Montagna- ripeté Balin, compiendo lo stesso gesto. Uno ad uno ogni nano si genuflesse, poi fu il turno di Bilbo e infine di Elemmire. Thorin stava a mento alzato nella luce del tramonto, vivida e fredda come la neve che iniziava a cadere delicata in piccoli fiocchi bagnati. Cristalli di ghiaccio si posarono tra i suoi capelli ricci e brillarono come una corona di vetro, fragile e bellissima. Il re, il diplomatico, il condottiero, lo zio, il fratello, piangeva in silenzio.
 
La casa dove lei fu alloggiata era semplice ma spaziosa, asciutta perché costruita su una piattaforma di legno e non su palafitte. La donna che vi abitava era una vedova di quarant’anni con capelli color paglia, occhi rotondi e sognanti e una bocca facile al sorriso. Le diede modo di riscaldarsi con una tazza di tisana davanti alla stufa e le presentò delle vesti pulite che il Governatore stesso aveva ordinato di recapitarle. Era strettissimo sulla vita, di un rosso che sfumava in tinte pastellate, pieno di ricami sul petto e sulle maniche e con un larga gonna a campana. Elemmire non ci si sentiva a suo agio, ma per amor di convenienza lo indossò lo stesso. La sera calò veloce e mille lanterne si accesero nella città. Una guardia vestita di blu e rosso la venne a prendere per condurla nel palazzo del Governatore per un banchetto in onore del Re Sotto la Montagna. La vedova l’aiutò a sistemarsi sulle spalle un pesante mantello nero e a nascondere la sua lunga e folta chioma nel cappuccio perché non si bagnasse sotto la neve che cadeva ormai incessante. Il percorso nella città fu breve e illuminato da vivaci torce appese ovunque che proiettavano bagliori rossi su un paesaggio deserto e fradicio, ancora più squallido sotto gli occhi della notte. Elemmire camminava a passo svelto e in silenzio. Apprese ben presto che il palazzo del Governatore altro non era se non il fatiscente edificio che dominava la piazza. Una volta il porticato esterno, l’atrio rettangolare, le due imponenti scalinate e il lungo corridoio che le separava dovevano essere stati uno spettacolo superbo, ma ora il legno marciva, la vernice si sgretolava e i gradini cigolavano controvoglia. In compenso ovunque torce incastonate in campane di vetro colorate diffondevano una gradevole luce calda e un appetitoso profumo di pesce aleggiava per le sale. La guardia, senza rivolgere uno sguardo o una parola, la condusse su per la scalinata di sinistra e poi in un corridoio ricoperto da arazzi dai colori brillanti come il viola o l’azzurro. La luce delle torce era bluastra e rilassava lo sguardo. Alla fine del corridoio c’erano due grandi portali di legno intarsiati con motivi sinuosi, come tanti occhi spalancati nella penombra. La guardia li spinse con energia e la fece entrare nel salone del banchetto.
Se il palazzo del Governatore sembrava ed era vecchio, squallido e fatiscente, la sala dei banchetti era spaziosa, illuminata da candele bianche poste su eleganti candelabri d’oro e riccamente arredata con tappeti, tendaggi e servizi da tavola di ceramica raffinata. Un largo tavolo rotondo era posto al centro della sala e vi sedevano i nani, Bilbo, il Governatore, il suo consigliere e alcuni uomini vestiti di nero e verde, forse funzionari.
-Ah, ecco, molto bene, è arrivata la nostra ospite!- il Governatore si fregò le mani soddisfatto, mentre una figura si staccava dal tavolo per venirle incontro. Era Kili. Aveva ricevuto abiti nuovi e quasi regali: un pantalone di spessa stoffa nera perfettamente confezionato su misura, una tunica di quella che pareva seta color rosa pesca stretta in vita da un pesante cinta borchiata di pallido argento raffinato. Ai piedi gli stivali di cuoio avevano fibbie d’argento massiccio. Il viso era ancora scavato dalla malattia e dalla sofferenza, ma i capelli erano un vello soffice e scuro che ricadeva sulle clavicole e giù, fino all’altezza delle scapole. Sotto le sopracciglia scure e mobili c’erano i due occhi verdi pieni di pagliuzze dorate che scintillavano come smeraldi stellati. Si era rasato la barba che negli ultimi tempi era cresciuta abbastanza e la linea della mascella determinata e volitiva era nuda e liscia come il viso di un bambino. Il cuore di Elemmire saltò un battito. Kili si inchinò davanti a lei, la prese per mano e la accompagnò fino al tavolo.
-Ho l’onore di presentarvi dama Elemmire, altresì detta Rosa dell’Ithilien, Stella d’Autunno presso il suo popolo, Amica degli Elfi e dei Nani- la pomposità dei titoli che Kili le attribuiva la fece arrossire. Si inchinò con garbo e sedette sulla sedia lasciata libera per lei.
-Ora che ci siamo tutti possiamo procedere!- il Governatore batté le mani e due servette in livrea rossa e blu posizionarono sulla tavola vassoi di sformati di carne e brocche di vino rosso. Elemmire si concesse alcuni secondi per contemplare il servizio da tavola: oltre a posate d’argento, comprendeva piatti, tazze, brocche e ciotole di qualunque forma e dimensione. Le fantasie erano disparate: c’erano eleganti fiori d’arancio e papaveri rosso fiamma sui piatti di portata, dalla forma esagonale; un cavallo alato cavalcato da una fanciulla nei toni del blu, del rosso e dell’oro dominava sul piatto di Kili, mentre quello di Elemmire riproduceva su sfondo oro delle fittissime e intricate corone di fiorellini blu. Sul piatto del Governatore troneggiava un’enorme rosa attorniata da foglie e spine, mentre quello in cui mangiava Thorin era decorato con un grande pesce blu sul fondo bianco circondato da centinaia di sottili onde. I calici avevano il gambo a forma di pesce, nelle brocche decorate a fiori vivaci il becco era una testa di lupo. Con discrezione Elemmire si guardò attorno: vide conchiglie e animali esotici raffigurati ovunque.
Si servì di pasticcio di carne. Era singolare trovare quell’abbondanza a così poca distanza dal corridoio polveroso e squallido e dalle strade rigurgitanti di poveri e mendicanti. Il cibo era fortemente speziato: riconobbe sotto il sapore del manzo affumicato il cumino, il pepe e il prezzemolo, oltre che il tocco leggero dei pinoli. Dove si procurava il Governatore tutto quel ben di Dio? E soprattutto, come?
La seconda portata fu lepre in umido. Il vino rosso scorreva già abbondante e il chiacchiericcio si fece vivace tra i commensali. Elemmire ascoltava il silenzio senza tuttavia perdere una parola di un solo dialogo. Il Governatore stava presentando i suoi funzionari a Thorin, seduto alla sua destra, mentre Bofur e Balin parlavano con Bilbo. Kili e Fili si scambiavano frasi in nanico e ridevano con la bocca piena, spettacolo cui Elemmire ormi era abituata. Il piatto forte arrivo accompagnato da uno squillo di trombe: usignoli caramellati e decorati da petali di rosa. Elemmire storse il naso alla vista di quaranta uccelli che giacevano uno accanto all’altro su un lunghissimo vassoio d’argento, infagottati nella loro veste di miele dorato. Tuttavia, per gentilezza, acconsentì ad assaggiarne uno. Il ripieno era a base di prugne, menta e sedano, ma si sentiva anche il sapore inconfondibile dell’aglio, del garofano, forse anche del coriandolo. Le spezie erano un’esplosione sotto la sua lingua e tutti quei sapori forti iniziarono ben presto a stomacarla. Beveva poco e sentiva una grande stanchezza addosso. Sbadigliò coprendosi la bocca con la mano. Dopo che ogni commensale ebbe bevuto e mangiato a sazietà la tavola fu sparecchiata e il Governatore condusse i suoi ospiti in una sala laterale che pareva letteralmente imbottita di tappeti e arazzi. Non un centimetro di pavimento o di muro era rimasto disadorno o scoperto. A terra v’erano delle stuoie e dei cuscini, e in un angolo degli splendidi strumenti musicali rifiniti in oro rosso e argento. Torce incandescenti erano avvolte in bolle di vetro rosso e la stanza sembrava, letteralmente, l’interno di un vulcano. Elemmire non poté fare a meno di pensare che fosse una gran caduta di stile, vista la missione che i nani si apprestavano a compiere con il benestare del Governatore di Esgaroth.
-Abbiamo tutti sentito parlare, mio Re, dell’amore dei nani per la musica- il Governatore sembrava così soddisfatto di se stesso –Sarebbe un onore immenso che voi ci deste una dimostrazione del vostro talento e gusto.
Thorin prese possesso di un’arpa gigantesca e tutti i nani seguirono il suo esempio accordando gli strumenti musicali. Elemmire prese il suo posto tra Kili e Fili.
Scese il silenzio, un silenzio morbido e attutito. Il viso di Thorin era profondamente travagliato, i suoi capelli scintillavano di fili grigi sotto l’impietosa luce, pure tutto in lui emanava una gran calma, una solennità che preannunciava qualcosa di grande. Tutto in Fili scintillava di rosso: i capelli, la barba, perfino negli occhi c’era un bagliore quasi febbrile, eppure quell’azzurro ghiaccio continuava a inchiodare Elemmire al suolo ogni volta che ne incontrava lo sguardo. Sguardo che, per altro, Elemmire manteneva fisso su Kili. Il nano non poteva vederla: aveva gli occhi chiusi. Era bellissimo. I capelli foschi, la fronte ampia, la mascella decisa, il naso dritto, le ciglia imperlate di luce. Anche con le occhiaie viola, le guance scavate e il labbro contratto, era bellissimo. Elemmire si ritrovò a immaginare di passare la mano in mezzo a quei capelli scuri, di accarezzare timidamente la guancia, di seguire con la mano la curva del collo e delle spalle, poi di sfiorare con le labbra, delicatamente, il lobo dell’orecchio. Si svegliò dalle sue fantasie con un gran senso di calore addosso e le guance roventi e nascose il viso in tempo perché Kili, spalancando gli occhi verdi, non notasse il suo imbarazzo. Recuperò con forza il controllo del suo corpo e della sua mente, chiedendosi con rabbia cosa diamine le stesse capitando.
-O occhio nebbioso della Montagna, continua a vegliare sulle anime dei miei fratelli, e se il cielo si riempisse di fuoco e fumo, prenditi cura dei figli di Durin- Balin intonò una melodia forte e triste. La sua voce un po’ nasale rimase sospesa a lungo nel silenzio. Poi Thorin pizzicò le corde dell’arpa, e i nani iniziarono a suonare, dolcemente, sottovoce se possibile, una canzone che, Elemmire era certa di questo, il mondo non aveva ancora mai udito.
 
Se è destino che finisca nel fuoco, allora bruceremo tutti insieme
Guarda le fiamme che si alzano nella notte
Mentre chiami, padre, pronto come lo saremo noi
Guarda le fiamme che continuano a bruciare il fianco della montagna-ah
 
Se dobbiamo morire questa notte, allora moriremo tutti assieme
Alza un calice di vino per l’ultima volta
Mentre dici, padre, di affrettarsi e così faremo noi
Guarda le fiamme che continuano a bruciare il fianco della montagna.
 
La desolazione è arrivata dal cielo.
 
Ora vedo il fuoco dentro la montagna
Vedo il fuoco che brucia gli alberi
Vedo il fuoco-oh, anime che ululano
Vedo il fuoco-oh, sangue nella brezza
E spero che ti ricorderai di me
 
E se il mio popolo cadrà, allora io farò lo stesso
Confinati in buchi montani ci siamo spinti troppo vicini alla fiamma
Mentre gridi, padre, di affrettarci e così faremo
Guarda le fiamme che continuano a bruciare il fianco della montagna
La desolazione è arrivata dal cielo
 
Ora vedo il fuco dentro la montagna
Vedo il fuoco che brucia gli alberi
Vedo il fuoco-oh, anime che ululano
Vedo il fuoco-oh, sangue nella brezza
E spero che ti ricorderai di me
 
E se la notte sarà in fiamme io mi coprirò gli occhi
Perché se l’oscurità ritornasse i miei fratelli morirebbero
E se il cielo dovesse cadere distruggerebbe questa città
E con un’ombra sul terreno io sento il mio popolo gridare
 
Vedo il fuoco dentro la montagna
(Oh-oh, tu sai che ho visto una città andare in fiamme)
Vedo il fuoco che brucia gli alberi
(Ho sentito il calore sulla mia pelle)
Vedo il fuco, anime che ululano
(Oh oh oh)
Vedo il fuoco, sangue nella brezza
(Vedo il fuoco che continua a bruciare il fianco della montagna)
 
I cori tacquero nello stesso istante. Elemmire aveva nella testa il ritmo martellante di quel “vedo il fuoco” e faticava a concentrarsi su qualcos’altro. Le lampade iniziavano a bruciare di meno e la stanza si era fatta oscura, l’aria soffocante. Ognuno meditava in silenzio quelle parole, gli strascichi della melodia che ancora invadevano le menti. In silenzio, Kili le prese la mano e la strinse. Una stretta solida che voleva dire “non aver paura”. Ed Elemmire non ne aveva, di paura. Non alzò lo sguardo, ma intrecciò le sue dita con quelle callose del nano e rimase in silenzio finché, con eleganza, Thorin non espresse il desiderio di ritirarsi. 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** ghiaccio che si scioglie ***


 
-Rimani qui con me.
La piazza era deserta. La neve aveva smesso di cadere e le assi di legno erano completamente bagnate. Elemmire si appoggiò con cautela al muro di una casa per non scivolare e si girò verso Kili che, impassibile, fumava la sua pipa. Il cielo era ora terso, uno spicchio d luna bianca adagiato di traverso sopra il profilo, lontano, di Erebor.
-Per fare cosa?- Elemmire aveva freddo ed era stanca, ma la voce di Kili la risvegliava come se una corrente elettrica le passasse per le tempie.
-Rimani qui. Parliamo, fumiamo un poco. Questa luna sembra definitivamente troppo bella per non guardarla in faccia.
Era vero. Il cielo era splendido. Le stelle d’inverno brillavano di una luce accecante, come quella sera alla fine dell’estate in cui erano sgattaiolati via dalla sala di Beorn e si erano addormentati sul prato. Sembrava anni, anni prima.
-Sembra così piccola vista da qui, eh?- Kili esalò una nuvola di fumo che profumava di menta –Diresti mai che lì sotto ci abita un drago?
-No- ammise Elemmire, appoggiandosi al muro accanto al nano.
-Nemmeno io. A volte dimentico totalmente quello che ci succederà tra una manciata di giorni.
-E’ così vicino il Dì di Durin?
-Guarda la luna. È un terzo. Quando sarà piena, noi dovremo essere là, dentro il passaggio segreto.
-E poi Kili? Poi cosa succederà?
Il nano sorrise con tristezza:-Poi immagino sarà il turno di Bilbo.
-Intendevo, come faremo a uccidere il drago se quello che dice Bard corrisponde al vero?
-Parli della Lancia del Vento?
-Sì.
-La leggenda dice  che Girion di Dale scalfì la corazza di Smaug in un punto ben preciso, appena sotto l’ala. Lì dovrebbe esserci una squama mancante, un piccolo quadrato di pelle completamente inerme. Thorin intende scoprire innanzitutto se questo è vero, e poi come poterlo usare a nostro vantaggio- un’altra boccata di fumo alla menta –Ma è l’Arkengemma che occupa i suoi pensieri e i suoi sogni.
-Cos’è l’Arkengemma?
-Il gioiello del Re. Fu scoperto nelle profondità della Montagna secoli e secoli fa. Una gemma il cui splendore è ineguagliato, chiara prova secondo l’allora Re che il diritto della linea di Durin di regnare era divino. Tutti i sette eserciti dei nani giurarono fedeltà al Re di Erebor e promisero anche di seguire in battaglia colui il quale avesse il possesso dell’Arkengemma. Thorin la vuole disperatamente. Sa che se la riconquistasse ogni singolo nano della Terra di Mezzo accorerebbe per rispettare il voto e con i sette eserciti riuniti avrebbe la forza per soverchiare cento volte Smaug e perfino per attaccare gli elfi e gustare finalmente la vendetta contro Thranduil. Bilbo ha questo compito: rubare l’Arkengemma da sotto il naso di Smaug e consegnarla a Thorin.
Kili strinse la mascella e rimase in silenzio.
-Cosa c’è che non va in tutto questo?- Elemmire chiese con delicatezza.
-Thorin ha troppa fiducia in se stesso.
-Credi che gli altri clan non rispetteranno il voto?
-No, non mi riferisco a quello. Mi riferisco all’Arkengemma. Ogni Re che ne è venuto in possesso è morto in circostanze misteriose e tragiche, oppure ha perso il senno. Quella pietra avvelena le menti, distorce le sensazioni, rende insaziabile la fame di potere, di ricchezza. Thorin crede di essere più forte dei suoi predecessori, e difatti lo è, ma ho paura lo stesso. Ho incominciato ad averne quando mi ha ordinato di farmi da parte per il bene della missione- il viso del nano si contrasse in una smorfia di dolore –Mio zio non l’avrebbe mai fatto, mai.
-Stavi ascoltando, l’altra sera?
-Ero sull’orlo dell’incoscienza, ma ricordo tutto quello che ho sentito.
Elemmire avrebbe voluto tranquillizzare Kili dicendo che era dovere di un re fare la scelta giusta sempre e comunque, e che la pressione doveva essere alta, ma il comportamento di Thorin aveva turbato anche lei. Il re dei nani sembrava invecchiare giorno dopo giorno, i fili grigi tra i suoi capelli corvini si moltiplicavano.
-E’ molto sotto pressione, lo sai vero?
-Come tutti noi.
-Ma lui ha la responsabilità di far trionfare questa missione. Gli altri si aspettano che faccia sempre le scelte giuste e secondo me lui stesso ha paura di sbagliare qualcosa, di dimenticare qualche particolare, di tralasciare un dettaglio. Ambisce ad essere il re perfetto e questo lo porta ad essere duro, a volte. Ha già sofferto molto, non vuole soffrire e sbagliare ancora.
-Come fai a capire così tante cose di Thorin?
Elemmire sorrise tra sé e sé:-Siamo molto più simili caratterialmente di quanto tu possa immaginare.
-Ad esempio?- Kili inspirò e la brace nella pipa rosseggiò.
Elemmire si trovava sempre in imbarazzo a parlare di sé:-Non so, questa aspirazione alla perfezione, l’incapacità di accettare i nostri errori, l’orgoglio. È come se tutti pretendessero da noi qualcosa.
-Nessuno pretende nulla da te.
-Io pretendo molto da me stessa.
-Vai avanti.
-Non c’è nulla da dire.
-Allora dico io qualcosa- un’altra boccata di fumo alla menta –Se penso a te, e a Thorin, mi sorprende una cosa. Siete soli. Siete in mezzo alla gente e ridete, parlate, ma è come se ci fosse una patina che vi separa sottilmente dal mondo. Siete come dietro uno specchio.
Kili si girò verso di lei e le sorrise:-Questo mi piace di quando sto con te: è una sfida.
Elemmire se ne stava congelata al suo posto, quelle parole così vere che le scivolavano dentro l’animo:-In che senso, una sfida?
-Sai, non so mai se sarai te stessa o se rimarrai al tuo posto, a distanza di sicurezza. Non so mai quanta breccia riuscirò a fare dentro la tua corazza. Sembra che non ci sia mai abbastanza confidenza per permetterti di scioglierti del tutto.
-E non ti stanchi mai?
-Di stare con te?
-Di tutto.
-No. Non mi è mai capitato di incontrare una persona come te.
Una corda vibrò in Elemmire, seguita da un’altra, e da un’altra ancora.
-Nemmeno io ho mai incontrato qualcuno come te.
-Questo perché non avevi mai incontrato un nano prima d’ora. Buona notte Elemmire.
E con passi cadenzati la lasciò sola nella notte, fumando menta e sorridendo.
Elemmire rimase per un po’ ferma, la testa una gran marmellata di sensazioni, poi prese a camminare senza una meta ben precisa, con il solo intento di schiarirsi i pensieri.
Era sola. Questo l’aveva sempre saputo da quando sua madre era morta. Era una sensazione di freddo da cui non si separava mai. Era sola e aveva fatto della sua solitudine una specie di rifugio sicuro, un posto dove nessuno potesse farle del male, una perla nascosta in profondità nell’alveo di un’ostrica. Ci si era abituata quasi. Nemmeno Andra poteva invadere quel suo spazio sacro e irrimediabilmente vuoto: sapeva di poter contare su Andra, apprezzava i suoi consigli, a volte sorrideva perfino della sua vivacità, della sua simpatia, si faceva trascinare dalla sua mente brillante, ma non riusciva a sentirla vicina. Da quando aveva incominciato il liceo aveva dovuto fare e disfare continuamente maschere, mantelli ed armature. I professori pretendevano da lei che fosse una studentessa modello, i suoi compagni di classe erano lupi pronti a divorarla appena si fosse mostrata per un attimo solo più debole, più umana; in famiglia d’altro canto aveva preso l’abitudine di mentire spudoratamente su ogni cosa, dalle sigarette divise con Andra ogni mattina alle sere in cui il richiamo della vodka e di una discoteca piena di gente si faceva irresistibile. Una sera era tornata a casa ubriaca fradicia e aveva passato la nottata a vomitare in bagno. Sua nonna non aveva nemmeno percepito il sentore di alcol che aleggiava attorno a lei e aveva benignamente creduto alla scusa del “virus di stomaco”. Elemmire aveva più volte sentito la sensazione che quel tipo di vita le stesse stretto, che la sua persona le stesse stretta. Cercava di essere perfetta per accontentare tutti e si impediva di sbagliare. Per diciott’anni non aveva fatto altro che riparare e rattoppare quelle parti della sua vita in cui i suoi errori proiettavano larghi buchi, pur di non ammettere che aveva preso le scelte sbagliate, che aveva fallito.  Adesso si sentiva come una coperta lisa, una chiglia sfasciata che imbarcava acqua ovunque. La solitudine era come un laccio attorno al collo: più lei si dibatteva per slegarlo, più la soffocava. Era bella, sapeva di esserlo, eppure non usciva con i ragazzi. Andra diceva che li intimidiva, che li metteva in soggezione. Come poteva farlo se era lei la prima nel sentirsi a disagio e nel chiudersi in se stessa? Covava dentro uno smisurato desiderio d’amore ma aveva troppo orgoglio e troppa dignità per mendicarlo in giro, così si era rassegnata all’idea di rimanere da sola. Si diceva che era meglio così, che poteva bastare a se stessa. E poi era come precipitata da un’altra parte, attraverso quel maledettissimo Portale, e si era trovata impreparata, inerme. La sua maschera non aveva tenuto a lungo e si era fatta sorprendere da Kili. Kili. Se pensava a lui qualcosa dentro di lei si illuminava e riscaldava, seppur tepidamente, il petto. Quando era con Kili si sentiva forte e non doveva dimostrarlo. Il nano le comunicava calma, sicurezza, la faceva sentire, come altro dirlo? bene. La capiva con semplicità, la faceva sentire accolta.
E’ solo sete di amore, tutto qui, si disse lucidamente camminando per le strade bagnate di Esgaroth, vagando nella nebbia che si era alzata dal Lago. E se anche fosse? Si rispose. Se anche fosse solo sete di amore? È così sbagliato desiderare che qualcuno ci ami?
Io non so nulla dell’amore. Io sono sola.
E’ bello giocare a nascondino con la sensazione che prima o poi qualcuno ci scoprirà, ma quando quel qualcuno arriva, bisogna alzarsi in piedi e correre. Non c’è motivo di farsi trovare se non per fare tana.
E’ completamente pazzesco. E’ un nano, appartiene ad un’altra razza, ad un altro mondo, potrebbe perfino essere tutto frutto della mia fantasia. Magari ho sbattuto la testa e sono in coma e sto sognando tutto questo. Sì, dev’essere andata così.
Si fermò in un vicolo e si affacciò a contemplare l’acqua sotto di lei. Non c’era un alito di vento e l’umidità ghiacciava le ossa.
Io non sono innamorata, si ripeté fino allo sfinimento. È che sono anni che sto da sola, e ora trovo qualcuno che mi dedica attenzioni e ci prendo gusto, tutto qui, niente di più, niente di meno.
Una lanterna appesa al muro vacillò e poi si spense. La notte l’avvolse con il manto grigio. Non si sentiva nemmeno il suono di una porta che sbatteva, di una risata d’osteria, di un biascicare d’ubriachi. Era un paese fantasma. Solo il lieve sciabordare delle onde contro le palafitte riempiva il silenzio. Non sono innamorata, si ripeté ancora una volta. Non di uno come lui.
Perché cos’ha che non va?
È esibizionista e vanitoso.
Ha intuito, è sensibile, sveglio e altruista.
Va in giro con quell’aria arrogante.
Ti capisce, ti ascolta, è brillante, solare.
Così irresponsabile e imprevedibile.
Per questo lo ami, non ti puoi mai annoiare con lui e hai bisogno di qualcuno che ogni tanto ti ricordi di divertirti.
Io non lo amo.
Va bene, non lo ami, ma ne sei attratta, non puoi negarlo.
In questo non c’è nulla di male. E’ molto carino e virile, ed è coraggioso e abbiamo alle spalle vicende molto simili. Ma non c’è storia. Non dureremmo pochi giorni, siamo troppo diversi.
Perché cerchi di convincerti che non possa funzionare? Sembra che tu gli stia molto più che simpatica.
È solo gentile. Uno come lui ha a disposizione tutte le ragazze, umane e non, che desidera, perché dovrebbe innamorarsi proprio di me? Io che non ho nulla di speciale, che non faccio altro che sbagliare, sono noiosa, suscettibile, testarda.
Elemmire tacque anche con se stessa. Le veniva da piangere. Perché, perché aveva permesso che Kili avesse una così grande influenza su di lei?
Nel silenzio più profondo risuonarono dei passi. Elemmire li udì chiaramente, passi leggeri mai decisi sul legno bagnato del vicolo. Si impose di rimanere immobile nell’oscurità e con rimpianto pensò a Nen Girith, al sicuro nel suo fodero in casa della vedova. Si abbassò lentamente, acquattandosi ancora di più nell’ombra e si mise in ascolto. Silenzio. Si mosse a disagio e proprio in quel momento i passi risuonarono ancora, più distinti e vicini questa volta. Si immobilizzò accucciata e cercò di scrutare l’oscurità. Un fremito di paura le agitò lo stomaco e desiderò che Kili fosse lì con lei. E poi arrivò una sensazione strana. L’aveva già provata il giorno d’estate in cui erano stati braccati dai Mannari. Una nuvola temporalesca si posò sul suo animo già burrascoso come un nero, fosco presentimento. Con movimenti lenti e silenziosi si sedette per terra, le gambe raccolte contro il petto, e in questo modo strisciò verso il muro di una casa e vi si appoggiò, l’orecchio teso. Non sentiva nulla, così si risolse a poggiare la testa direttamente sulle assi di legno del pontile su cui stava per ascoltare. Non si era ingannata. Passi pesanti facevano vibrare il pavimento. La vera paura arrivò quando i passi si fermarono. Chi era che camminava? E perché si era fermato? Era forse stata vista?
Qualcosa di pesante le calò addosso. Era come un sacco fetido e pieno di cose che si divincolavano e ruggivano e spuntoni che la ferivano. All’improvviso il movimento sopra di lei cessò. Inchiodata a terra da quell’immane peso ascoltò il rumore di spade, di ruggiti e grugniti attorno a sé, il sibilo di alcune frecce, poi il suono del combattimento si disperse e si allontanò. Qualcuno le tolse il peso di dosso ed Elemmire sbatté le palpebre nell’oscurità per distinguere i tratti del viso di chi le stava davanti.
-Elemmire- una voce femminile acuta e melodiosa come la puntura d’uno spillo di cristallo.
-Tauriel.
-Ci rincontriamo ancora, mellon.
-Cosa sta succedendo?
-Niente di nuovo. Uno squadrone di quattro orchi guidati da Bolg è sceso in città a cercare Scudodiquercia.
-Mi hanno attaccata?
-Ci hanno provato. Ormai riconoscono il tuo odore e la tua traccia. Ora aiutami a sbarazzarmi di questi obbrobri.
-Non vedo nulla Tauriel, è buio pesto.
L’elfa sussurrò alcune parole e una fiammella bluastra comparve e rimase sospesa accanto alla sua testa. I capelli rossi rilucevano spettrali. Elemmire non sapeva indovinare se fosse un effetto della luce, ma Tauriel aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie e un labbro gonfio e tumefatto. Appariva stremata.
-Ti hanno ferita?- chiese con apprensione. Nessuno poteva ferire un elfo.
-Ho avuto una bruta giornata- l’elfa la scansò con un moto di vergogna –Aiutami a buttarli nel lago.
Ora Elemmire vedeva chiaramente i corpi di quattro orchi sanguinolenti riversi per terra. Uno di loro doveva esserle caduto addosso dal tetto, ecco perché i passi si erano fermati: gli orchi erano saliti sopra le case. Aiutò Tauriel a rovesciare i cadaveri dal parapetto e nel farlo insozzò e strappò l’abito di pizzo rosso.
-Sediamoci, ti va?- Tauriel si appoggiò a terra e chiuse gli occhi. Elemmire si accucciò accanto a lei.
-Ora tu vai diretta da Scudodiquercia. Fagli i miei complimenti per aver gettato ai rovi l’unica arma che ancora aveva, cioè l’anonimato, e per aver messo in pericolo l’intera popolazione di Esgaroth coinvolgendo la città nella sua folle missione. Poi ti vesti pesante e con due, non più di due, guardie del corpo raggiungi il pontile. Troverai Legolas ad aspettarti, se tutto va bene. Lui ti darà indicazioni per procedere verso Erebor. Dovete partire questa notte stessa e superare il Lago. Una volta fatto ciò, potrete prendervi un attimo di respiro perché Bolg impiegherà molto più tempo nel raggiungervi, dato che non ha accesso alle chiatte degli Uomini del Lago e dovrà passare via terra.
-Se non trovo Legolas?
-Barricati in casa, armati fino ai denti e aspettati un attacco prima dell’alba.
Elemmire si alzò in piedi, poi si risedette:-E tu Tauriel?
L’elfa aprì gli occhi color acquamarina:-Dammi solo un paio di minuti. Legolas sta inseguendo Bolg, io percorrerò il perimetro di Esgaroth e vi deporrò un incantesimo di protezione, ma devo prima recuperare un po’ di energia.
La voce di Tauriel era vibrante di determinazione. Mai Elemmire l’aveva ammirata tanto. Provò un forte calore per l’elfa.
-Puoi darmi una luce? Ho paura di perdermi.
Un cenno della bella mano dalle lunghe dita e la fiammella blu galleggiava accanto alla testa di Elemmire, riempiendo di riflessi marini i suoi capelli corvini.
-Diola lle, mellon.
Elemmire si voltò e uscì dal vicoletto. Sapeva vagamente che Thorin, Fili e Kili erano stati alloggiati da un conciatore di pelli nella parte più vecchia della città, da cui si poteva godere la vista completa dei superbi picchi di Erebor. Ricordava che la vedova gliene aveva parlato, quel pomeriggio. Si sforzò di ricordare ogni singola informazione e dove la memoria non l’aiutava si fidò dell’intuito. Camminava a passo veloce strettamente avvolta nel mantello nero, pronta a correre al minimo cenno di movimento attorno a lei. L’adrenalina rendeva acuti i suoi sensi e sveglia più che mai la sua mente. All’improvviso si pentiva di aver chiesto a Tauriel una luce, che con il suo insolito colore la rendeva fin troppo riconoscibile. Percorse il dedalo di strade e vicoli, si perse, tornò sui suoi passi e dopo una lunga camminata finalmente individuò la casa del conciatore. Si guardò attorno per assicurarsi che nessuno l’avesse seguita, scrutò le cortine della nebbia perlacea e poi bussò vigorosamente alla porta. Udì del movimento all’interno, dei passi, delle bestemmie sottovoce, poi una luce rischiarò l’unica finestra. Al contempo la fiammella si spense. Elemmire attese per qualche secondo nell’oscurità, poi la porta venne aperta. Un uomo alto e secco come un chiodo, con addosso una logora camicia e pantaloni vecchi reggeva in mano una lanterna sbeccata.
-Chi diavolo sei tu?
-Devo parlare con Scudodiquercia.
Come se la stesse aspettando, Thorin comparve da dietro la soglia. Indossava una vestaglia nera intessuta di fili d’argento, forse un altro dono del Governatore.
-Elemmire. Cosa c’è?- il tono burbero del nano avrebbe indisposto fortemente Elemmire se lei stessa non fosse stata così preoccupata.
-Posso entrare?- chiese con impazienza.
-E’ con voi, vostra Altezza?- il conciatore fece un breve inchino a Thorin, che mosse la mano in un gesto di lasciapassare.
Elemmire non si tolse nemmeno il mantello:-Sono stata sorpresa da un dispaccio di orchi guidati da Bolg, probabilmente gli stessi che ci hanno sorpresi ai confini del Bosco Atro. Sono intervenuti i due elfi che ci hanno aiutati a scappare; uno di loro sta inseguendo Bolg, l’altra è di guardia sul perimetro. Hanno detto che dobbiamo partire subito e mettere il Lago tra noi e gli orchi, oppure aspettarci un attacco prima dell’alba. Ho delle indicazioni da seguire per trovare un passaggio fino ad Erebor.
Parlò tutto d’un fiato mentre cercava di asciugarsi presso le ceneri latenti del fuoco nella stufa.
Il viso di Thorin passò dalla sorpresa alla paura e infine alla determinazione.
-Sveglia i miei nipoti- ordinò in modo secco al conciapelli. L’uomo se ne andò in silenzio su per una cigolante scala di legno, e Thorin le si avvicinò per guardarla negli occhi. Due stelle in due cieli.
-Sei certa che possiamo fidarci di loro?
Elemmire annuì.
-Cosa ne è di te?
-Vengo con voi. Il tempo di cambiarmi d’abito e raccogliere le armi.
-Sei ancora in tempo per tirarti indietro.
Elemmire scosse la testa e abbassò lo sguardo. Thorin le metteva soggezione, ma nello stesso tempo le ispirava una fiducia incondizionata, quel tipo di fiducia che si prova verso le persone che si riconoscono simili a noi.
-Sei un’alleata fidata, Elemmire.
E il nano le voltò le spalle:-Farai meglio a correre a casa. Dove dobbiamo aspettarti?
Elemmire pensò velocemente. Avrebbe potuto dire loro di recarsi direttamente al portile, ma se fossero caduti in un’imboscata? Se qualcosa fosse andato storto e non avessero trovato Legolas? Tauriel le aveva imposto di recarsi lì da sola, accompagnata da due guardie del corpo. Era ovvio che temeva un  attacco da quella parte, l’unico deposito di barche della città e quindi l’unico punto di comunicazione con la terraferma. Davanti al Municipio allora, ma sarebbe stato sicuro sorvegliato. In cuor suo Elemmire ringraziò che gli eredi di Durin fossero stati alloggiati in una casa tanto anonima. Bolg doveva aver messo un intero reggimento a custodia del luogo più ovvio dove alloggiare un ospite importante. Potevano aspettare lì, in casa del conciatore, ma se qualcuno l’avesse vista uscirvi e avesse attaccato l’abitazione? Rischiava di esserci anche uno spargimento di sangue innocente. Si risolse alla fine per l’ultima opzione, giudicando che meno Thorin si facesse vedere per strada, meglio sarebbe stato per tutti quanti. Se fosse stata abbastanza lesta e attenta nessuno avrebbe potuto vederla, e in ogni caso essere sicuro che lei fosse andata ad avvertire proprio lui.
-Svegliate tutti gli altri ed aspettate qui. Armati.
Si diresse di nuovo verso la porta ed ebbe una fugace visione alle sue spalle di Kili e Fili che si precipitavano giù dalle scale prima di chiudere l’uscio dietro di sé. Dovevano essere ormai quasi le quattro del mattino. Il freddo era pungente e la nebbia fitta. Elemmire si decise a non portare con sé una torcia per non essere notata e a tentoni, nel buio, percorse la strada verso la casa della vedova. La donna dormiva. Sempre a tentoni Elemmire si introdusse nella stanza della sua ospite, sottrasse al suo guardaroba un pantalone di fustagno nero e una larga tunica blu e li fermò in vita con la cintura a cui appese il fodero di Nen Girith. Indossò i suoi inseparabili stivaletti di cuoio nero e si avvolse di nuovo nel mantello gelido e umido. Il tempo di raccogliere l’arco e la faretra ed era già di nuovo in strada, stavolta alternando la corsa ed il passo veloce. Raggiunse in poco più di un quarto d’ora la casa del conciatore e trovò tutti i nani ben svegli raccolti attorno alla stufa che ruggiva, armi alle cinture, mantelli sulle spalle, cipigli imbronciati sotto le barbe.
-Che tempo c’è fuori?- chiese Thorin, che camminava nervosamente avanti e indietro.
-Molta nebbia.
-Nessun incontro indesiderato?
-Nessuno.
-Hai visto gli elfi?- chiese Kili. I suoi panni erano stropicciati e consunti, ma Elemmire ebbe un tuffo al cuore nel rivederlo con la casacca blu e il soprabito di pelle.
-Nessuna traccia di loro. Legolas ci attende al porto. Andremo avanti io, Kili e Fili per assicurarci che non ci abbiano teso un’imboscata, poi al nostro cenno vi farete avanti. Se non ci vedete tornare, tornate qui e barricatevi dentro.
I due nani schizzarono in piedi e le si posizionarono ai fianchi come guardie del corpo. Elemmire non perse tempo e uscì, si augurò, per l’ultima volta dalla porta del conciapelli. Percorsero in tre le strade che ormai sembravano familiari e raggiunsero il porticciolo, vicino a dove abitava Bard il chiattaiolo. L’acqua del lago era immobile sotto le stelle, la falce di luna era tramontata dietro la montagna. La nebbia era fitta come un tendaggio impalpabile e sfiorava con le dita sinuose i profili delle barche attraccate. Elemmire si teneva vicina al muro, la spada sguainata; Kili aveva incoccato una freccia e stava in ascolto. Fili azzardò per primo ad avvicinarsi alle barche. Diede uno sguardo attorno, poi fece un breve cenno agli altri due. In tre, armi sguainate, si fermarono sul molo.
-Non c’è nessuno- disse Kili. Il cuore di Elemmire si strinse.
-Dobbiamo tornare indietro?- chiese Fili.
-Aspettiamo ancora un minuto- Elemmire si rifiutava di credere che a Legolas e Tauriel fosse successo qualcosa per colpa sua. Perché in fondo, chi li aveva convinti a lasciare i rifugi sicuri del Bosco Atro?
-C’è qualcuno che si avvicina- Fili si nascose dietro una chiatta tirata a secco. Kili si accucciò e tirò con sé Elemmire. Attesero finché l’ombra non si fece più vicina. Una corta mantella marrone, lunghi capelli biondi, un arco a tracolla. Il principe degli elfi silvani non appariva meno esausto della sua compagna, solo più nervoso. Teneva stretto al petto il polso destro ed avvicinandosi Elemmire si accorse che sanguinava copiosamente. Sembrava che una lama di coltello si fosse conficcata in profondità nella mano e fosse stata poi brutalmente rimossa.
-Mellon- Elemmire si alzò in piedi e si inchinò davanti a Legolas in segno di rispetto.
-Dovrebbero esserci delle guardie del corpo con te. Avevo detto a Tauriel di non farti venire sola.
-Non è sola infatti- Kili si fece avanti, sempre con l’arco in mano. Elemmire desiderò che abbassasse l’arma.
-Mi fa piacere vederlo- Legolas rivolse un cenno secco al nano –Chiamate Scudodiquercia ed il resto della compagnia, in fretta. Non abbiamo molto tempo prima dell’alba.
-Dove sono le sentinelle della città?- chiese all’improvviso Fili. Il pensiero colpì Elemmire. Sentinelle. Era vero: Esgaroth avrebbe dovuto essere sorvegliata notte e giorno.
-Tu cosa pensi, nano?- rispose Legolas con una smorfia di dolore mentre cercava di spingere in acqua una chiatta con una sola mano.
-Se è così dobbiamo avvisare il Governatore- fu il primo pensiero di Elemmire.
-Non c’è tempo. Ne stiamo già perdendo abbastanza qui a discutere- la chiatta piombò in acqua con un tonfo e uno spruzzo gelido investì Elemmire –Ci penserà Tauriel domattina a spiegare ogni cosa.
Quando l’alba sorse la chiatta guidata da Legolas era già lontana da Esgaroth. Il silenzio regnava, un silenzio assonnato e quasi incredulo mentre il pensiero che sì, stavano raggiungendo finalmente la Montagna, faticava ad attecchire nelle menti di tutti. Thorin aveva indossato un mantello scarlatto bordato di ermellino, dicendo che sarebbe rientrato a casa sua come un re e non un mendicante. La compagnia sedeva in silenzio avvolta in mantelli e pellicce. Kili ed Elemmire erano rannicchiati l’uno accanto all’altro in un angolo della chiatta e osservavano il cielo farsi di rosa. Elemmire si beava del calore del nano, del suo profumo e della sua presenza. Alla luce del sole la discussione avvenuta la sera prima con se stessa non appariva solo lontanissima, ma anche priva di alcun significato. Non aveva senso mentire a se stessa. Era innamorata di Kili, figlio di Dìs, figlia di Thrain, principe di Erebor per parte di madre. Ammetterlo a se stessa la fece sentire riappacificata con il mondo. 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** all'ombra della Montagna ***


L’approdo fu uno dei momenti più emozionanti che Elemmire avesse mai vissuto. Erebor era enorme. Una massa nera che occupava tutto il loro campo visivo, i picchi più alti imbiancati di neve perenne. Thorin si inginocchiò e baciò la terra come un esploratore che dopo molte tribolazioni abbia toccato terra, poi intonò un canto in nanico con la sua voce profonda, un canto vittorioso e libero come il volo delle aquile. La Montagna li spiava dall’alto, impassibile, malinconica e austera. Legolas se ne andò senza congedarsi, la chiatta che scivolava nel ghiaccio del Lago. Dopo il primo momento di commozione i nani si lasciarono andare alla gioia, una specie di euforia che li rendeva smaniosi e pieni di buona volontà. Ripartirono provviste e bisacce e si misero tutti in marcia. Thorin sosteneva bisognasse addentrarsi nella desolazione di Smaug, ovvero la terra bruciata che il drago si era fatto attorno, e lì stabilire un accampamento che permettesse loro di tenere sotto controllo la spiaggia. Non c’era dubbio che Bolg avrebbe continuato ad inseguirli. Camminarono per tutto il giorno sotto un cielo parzialmente nuvoloso in mezzo a quella che all’inizio sembrò ad Elemmire terra nera, e poi si scoprì essere lava solidificata. Il paesaggio era deserto. Non una forma di vita osava nascere e vivere all’ombra della Montagna. Scheletri di alberi carbonizzati formavano foreste pietrificate in un inverno perenne, la cenere come neve infernale ricopriva le loro radici morte. Il suolo si fece roccioso, la strada divenne un sentiero che, in origine lastricato, il tempo aveva reclamato e corroso fino a ridurre la pietra in polvere. L’aria puzzava di zolfo e fuliggine come in un vecchio camino. Quando sembrò a Thorin che si fossero addentrati abbastanza nella desolazione si fermarono in cima a un rialto e stabilirono lì le tende e i giacigli. Minacciava di piovere e il morale era sceso in mezzo a quella specie di deserto morto. Elemmire e Kili impugnarono gli archi e dissero di andare a caccia di volatili per concedersi una cena calda, visto che l’ora del pranzo era decisamente passata. In realtà Elemmire voleva passare più tempo possibile con il nano. Faticava a capacitarsi della portata dei suoi sentimenti e desiderava studiarsi meglio. Come due cerbiatti si arrampicarono tra le rocce e spiarono il cielo, la Montagna e poi il Lago. Sopra di loro nuvole nere si muovevano veloci; ogni tanto dei raggi di sole facevano capolino e creavano uno spettacolo grandioso. Il vento freddo strattonava i mantelli e intrecciava i capelli come un fratello fastidioso, fischiando nelle loro orecchie. Il lago era increspato di piccole onde e riluceva grigio come acciaio mentre il temporale si avvicinava.
-Che idea stupida. Quali uccelli vorrai mai trovare in questa stagione?- Kili non si diede nemmeno la pena di incoccare.
-Perché siamo venuti qui allora?
-Così. Avevo voglia di godermi la vista. Esgaroth sembra più bella vista da lontano.
-Non le stai facendo un complimento.
-Non volevo farglielo infatti.
In silenzio rimasero sulla vetta, poi scesero lentamente e aiutandosi a vicenda.
-Riguardo a ieri sera- Kili prese la parola e il cuore di Elemmire sobbalzò.
-Sì?
-Ti chiedo scusa. Sono stato molto superficiale  e un po’ ubriaco. Con le vicende che hai vissuto è ovvio che tu ti senta sola, e non è qualcosa su cui scherzare. Sappi che io ci sarò sempre.
-Grazie- rispose Elemmire con leggerezza.
-No Elemmire- Kili la fece fermare –Dico sul serio, non sono mai stato più serio in vita mia. Mi importa davvero di te, di come ti senti e non voglio più saperti sola. Io sono solo quello che sono, ma potrai fare sempre affidamento su di me, per qualunque cosa. E’ una promessa solenne. Troverai sempre braccia spalancate per te.
Elemmire avrebbe voluto saltare dalla rupe per la gioia, ma si limitò ad un sorriso tirato perché Kili non vedesse quanto i suoi occhi brillavano.
Per il resto della giornata, i nani sedettero a non far nulla. Qualcuno affilava le armi, Bombur ripartiva le provviste e preparava la cena ed Elemmire ne approfittò per dormire qualche ora e recuperare il sonno mancato della notte. La sera calò in fretta e Thorin ordinò di non accendere fuochi, ma solo di ravvivare le braci della cena. Se infatti si fosse sprigionato del fumo sarebbero stati individuati in poche ore.
-Nessun animale ci attaccherà stanotte- sentenziò coprendosi con il mantello scarlatto.
Paura e stanchezza rendevano Elemmire silenziosa e poco incline al contatto umano.
 
Quando il temporale arrivò gli scrosci d’acqua la sorpresero addormentata sulla nuda terra. Imprecando, l’acqua gelida lungo il corpo, cercò a tentoni una tenda e vi si infilò dentro.
- Akh Guntéreaz dorzâda! Chi diavolo è?
-E’ tutto bagnato!
-Mio Dio!
-Elemmire?
-Ma cosa diavolo stai facendo?
-Scusate…scusate, sta piovendo, mi ero addormentata, non vedevo nulla, scusate, esco subito.
-Ma sei pazza? Prima di ritrovare la tua tenda ti buscheresti una polmonite.
-Kili! Kili, vuoi accendere una benedetta luce? E’ buio pesto qui.
Un debole chiarore illuminò la tenda. Kili teneva in mano una faggina che aveva acceso con un acciarino e tossiva per il fumo. I due fratelli erano avvolti in molti strati di coperte e, Elemmire si accorse con sommo disagio, entrambi a petto nudo. I muscoli scattanti e poderosi erano ricoperti di folta peluria, bionda e ricciuta nel caso di Fili, scura in Kili. I nani tenevano addosso solo le braghe, e di questo Elemmire fu grata.
-Per la barba di Durin, sei completamente fradicia- Kili si districò delle coperte e le si appressò, le toccò le braccia reggendo la fascina con i denti e cercò di riattivarle la circolazione.
-Dalle una coperta, scaldala come tu sei tanto bravo a fare e poi cerca di non fare troppo rumore, io vorrei dormire questa notte- Fili si riaccomodò con un sogghigno. Kili sputò a terra la fascina e la fiamma si spense.
-Prendi questa. Togliti i vestiti bagnati e avvolgiti nella coperta.
-Ma nemmeno per idea- il pensiero di rimanere più nuda che vestita in presenza di Kili, anche se al buio, le causava un imbarazzo insopportabile.
-Avanti, non vedrò nulla, è buio pesto.
-Non se ne parla. Piuttosto mi va in avaria un polmone.
-Sei testarda quanto un nano. Va bene, come vuoi, rimani a congelarti lì. Buonanotte.
Si sentì un rumore di coperte smosse e poi un sospiro. Anche Kili si era raggomitolato nel giaciglio. Elemmire aveva un forte senso del pudore, ma un ancor più forte senso di freddo. I tuoni scuotevano la tenda e lei si ghiacciava fin nelle ossa. In silenzio si spogliò, si avvolse in numerose coperte e poi strisciando si sdraiò accanto a Kili, avendo molta cura nel non sfiorarlo nemmeno per sbaglio. Il nano dovette udire il suo respiro perché ad un certo punto si girò, rimase come interdetto –Elemmire poteva distinguerne vagamente la figura quando un lampo illuminava la notte-, poi con un braccio possente la sollevò di peso, l’avvicinò fino ad averla stretta contro il suo petto. Con le mani sfiorò appena la sua schiena ed Elemmire sentì un pizzicore elettrico lungo tutto il corpo, oltre che a un calore bollente nelle viscere. Non disse nulla, si limitò a stringerla forte e ad appoggiare la guancia sulla sua testa. Si addormentarono così, e la tempesta che infuriava fuori non era nulla a confronto della tempesta che agitava i pensieri di Elemmire. Una tempesta ardente come sabbia del deserto.
Il mattino fu annunciato dalla vivace voce di Fili. Elemmire aprì prima un occhio, poi lo richiuse e schiacciò la testa contro la coperta. Si era tutta raggomitolata contro il fianco di Kili, che dormiva a pancia in su con un braccio piegato all’altezza della testa.
-Piccioncini il sole splende e Thorin chiede di voi. In realtà chiede di Kili, ma fa lo stesso. Buon giorno, buon giorno!
-Chiudi quella maledetta bocca fratello- Kili mugolò e con gli occhi chiusi si rigirò su un fianco. Sembrò ricordarsi poi all’improvviso di Elemmire e la strattonò delicatamente per un braccio.
-Sei sveglia?
-No, tu?
Kili ridacchiò con la voce resa roca e profonda dal sonno.
-I tuoi vestiti sono ancora bagnati.
-Mi occorrono le bisacce, lì dovrebbero esserci dei cambi.
-Vedrò cosa posso fare.
Kili uscì dalla tenda. Elemmire ebbe una fugace visione della sua schiena muscolosa e dei capelli castani mossi dall’aria gelida del mattino. Sola e sveglia, rifletté sulle sue sensazioni. Il calore del corpo di Kili ancora le rimaneva addosso, assieme a un qualcosa di più torbido e prepotente. Per un istante Elemmire si chiese come sarebbe potuto essere toccare quella schiena nuda e possente, accarezzarla, morderne la pelle abbronzata…
Si ritrasse con un sussulto da quei pensieri e si vergognò di se stessa. Si strinse ancora di più nelle coperte e avvertì le proprie nudità accavallarsi nel tentativo di entrare nel rettangolo di lana.
Sonnecchiò ancora per qualche minuto finché Kili non rientrò reggendo in mano il suo cambio di vestiti, l’unico nelle sue bisacce. Era un pantalone di tela blu, una tunica bianca e una calda mantellina di lana chiara.
-Mi sono preso la libertà di frugare nelle tue cose.
-Non mi sembra di averti fatto questa concessione.
-A me sembra però che tu abbia dormito nelle mie coperte.
-Irrilevante, e non parlare a voce così alta. Se qualcuno lo sentisse potrebbe giungere ad errate conclusioni.
-D’accordo, d’accordo, ubbidisco alla principessa. Questi vestiti li riporto nella tua tenda allora.
Prima che Kili avesse il tempo di muoversi Elemmire schizzò in avanti coprendosi totalmente con la coperta e gli strappò di mano gli abiti.
-Posso avere un momento in privato? Gentilissimo.
 
Un vento freddo che veniva dal Lago portava grosse gocce di pioggia nei suoi capelli corvini e sul suo viso. Il cielo era ancora oscurato da nuvole enormi e minacciose sovrapposte in vari strati. Avrebbe piovuto ancora, anche se aveva smesso appena un’ora prima. Distrattamente Elemmire si ritrovò a giocherellare con le frange della mantella mentre Thorin e i nani dibattevano nella loro lingua sconosciuta e gracchiante. La discussione si protraeva da troppo tempo per i suoi gusti, e comunque non poteva comprendere un sillaba. Certo non era necessario conoscere la lingua per comprendere che la compagnia era profondamente divisa. Da una parte c’erano Thorin, Dwalin, Kili, Fili, Oin e Gloin, dall’altra Bifur, Bofur, Bombur, Ori, Nori, Dori, e in testa a tutti Balin. I toni erano infervorati, pugni venivano agitati e barbe accarezzate con rabbia. Bilbo, nella sua stessa situazione, contemplava ora il cielo, ora la mappa spiegata ai piedi di Thorin, per poi lasciar vagare il suo sguardo sull’altipiano e in su, su Erebor.
Elemmire si disse che se Bolg ancora non li aveva scoperti l’avrebbe presto fatto; stavano perdendo tempo prezioso e oltretutto non lo usavano neanche per nascondersi o elaborare un piano, ma per fare un rumore tale che un uomo dalla riva avrebbe potuto facilmente scovarli.
-Balzur!– concluse Balin con un forte sospiro –Faremo come dici, soddisfatto?
Il ritorno alla lingua comune sembrò sancire la fine della discussione.
-Tutto sistemato?- chiese a Kili quando lui si avvicinò.
-Così parrebbe.
-Cosa si fa ora quindi?
-Ci si dirige subito verso Erebor.
-Subito?
-Sì, ma non tutti assieme. Alcuni rimarranno qui a guardare l’accampamento e solo una volta aperta la porta ci raggiungeranno.
Elemmire aveva la brutta sensazione addosso che Thorin avesse rilegato anche lei tra quegli “alcuni”. Perché veniva così di rado consultata quando c’era da dividersi?
-Chi andrà con Thorin e Bilbo quindi?
-Tutti tranne Bifur, Bombur e Ori. E tu, se lo desideri.
-Pensavo Thorin mi avesse già assegnato un posto di combattimento.
-Non ti ha nominata. Sei libera di scegliere, e di rimanere qui se preferisci.
-Spero tu stia scherzando. Sarò lì sopra quando quella porta verrà aperta.
Kili le scompigliò i capelli con un sorriso.
Fecero colazione con dei pani disidratati e raccolte poche provviste, acqua e coperte gran parte della compagnia si accinse alla scalata della Montagna. Degno di nota fu l’addio che Dori riservò a Ori: lo abbracciò stretto fin quasi a strozzarlo e con le lacrime agli occhi gli raccomandò di essere bravo, di non mettersi in pericolo e, se gli fosse capitato di combattere, di morire con onore. Infine il gruppo meno tre elementi riprese il cammino. Stavolta c’era in loro profonda determinazione: non si sarebbero fermati finché non avessero raggiunto Erebor. Camminarono la mattina sotto improvvisi scrosci di pioggia e il pomeriggio furono torturati dal vento, sempre più gelido man mano che salivano di quota. Ad un certo punto Thorin ordinò loro di girarsi. Erano su un costone di roccia bianca granitica e da lì potevano dominare la desolazione di Smaug e il Lago. Il colpo d’occhio era tetro e inquietante. Elemmire fece vagare lo sguardo esattamente sotto le pendici di Erebor, e quel che vide le mandò i brividi sulla schiena. C’erano delle costruzioni addossate alla Montagna. A prima vista poteva riconoscere delle torri diroccate e una mezza cupola di acciaio brunito che ancora conservava le sue sfumature azzurro-verdastre. Al posto dell’altra metà c’era un vuoto, sfilacciato e impolverato. Per il resto, informi masse di pietra grigia e tegole nere.
-Ammirate Dale- mai la voce di Thorin era stata più amara –Una volta era il gioiello dell’Est. Si diceva che solo a Gondolin ci fosse stata mai così tanta ricchezza. Sopra la terra, ovviamente. Quando Smaug giunse, ridusse Dale a un cumulo di macerie carbonizzate. La città contava quasi cinquanta mila abitanti. Se ne salvarono dalla carneficina del drago a stento un centinaio. Di questi, la metà non raggiunse la fine di quel mese. Alcuni erano feriti troppo gravemente e morirono prima di giungere ad Esgaroth. Una donna partorì durante l’esilio: non c’erano levatrici nel gruppo, così morirono sia lei che il bambino. Il padre era caduto combattendo contro il drago.
La voce di Thorin vibrava di odio. Elemmire poteva quasi sentirlo sprigionarsi a calde ondate dal suo corpo. Un odio vorace, un odio che era un grido disperato, un ululare. Elemmire contemplò Dale con la morte nel cuore.
-E oltre Dale, si può vedere ancora l’ingresso di Erebor. Là, dove la montagna è franata, proprio da lì entrò il drago.
Tacque con gravità. Kili e Fili abbassarono la testa come in preghiera.
La marcia proseguì e continuò fino a quando la sera giunse, lesta e inaspettata. Nessun tramonto colorò il cielo: la luce semplicemente cessò di brillare da dietro le nuvole e il mondo cadde nell’oscurità. Passarono la notte tra le macerie di Dale. Anche se era un luogo spettrale e funesto, si sentivano più protetti lì che non nella piana. Accesero un piccolo fuoco per riscaldarsi, ora che la notte si era fatta molto fredda. Da qualche parte sopra di loro, Elemmire lo sapeva, la luna compiva il suo circolo. Sarebbe stata piena in due o tre giorni. In due o tre giorni sarebbero penetrati nella Montagna, o sarebbero tornati a casa sconfitti, disonorati e coperti di vergogna. Stavolta Kili non la venne a cercare e lei si addormentò da sola al riparo di un porticato crollato.
Pure, faticò a prendere sonno. L’inquietudine derivante dalle lugubri ombre delle rovine di Dale sotto il pallido bagliore del falò, la paura genuina della notte passata ai piedi di Erebor, agognata, desiderata, temuta Erebor, il peso dell’oscurità tutto attorno a lei e la leggerezza indicibile del suo profondo essere che per la prima volta risplendeva della luce e del calore dell’innamoramento, ognuna di queste cose contribuiva a tenere gli occhi di Elemmire ben aperti. Nel buio che la circondava la sua mente iniziò a proiettare immagini. In un modo inspiegabile, più le tenebre si infittivano e il gelo dell’aria cresceva, più il suo pensiero tornava a lady Galadriel. Il viso dell’elfa le appariva chiarissimo e di una dolcezza indicibile corretta quasi da una grande austerità ed impenetrabilità. Il suo destino, Elemmire ormai lo sentiva, stava per compiersi. Ripensò a tutte le volte in cui aveva agito, invece che rimanere a guardare. Era già in atto, quel progetto enorme che l’aveva sballottolata da un mondo ad un altro, era già in atto nel suo stare ai piedi della Montagna. Ora più che mai era vitale che Elemmire non sbagliasse, che non interferisse in alcun modo con la trama originale, questo se voleva tornare a casa. Ma era sicura di voler tornare a casa? Casa, cosa voleva dire in fondo? Cosa l’aspettava a casa? Cosa c’era per lei lì, nel mondo reale? Nulla, si rispose. Non c’era nulla e nessuno ad aspettarla a casa. La sensazione bruciava sulla nuda pelle come un acido. Sarebbe tornata nella sua solita vita, avrebbe magari dimenticato, avrebbe lasciato dietro di sé tutto ciò che di buono aveva costruito in se stessa, per cosa? La noia, la monotonia, le ore soffocanti. Non si sentiva in grado di sedere per ore in una stanza dopo aver visto le distese di erba, le montagne, i fiumi. Le stelle. E d’altra parte, cosa aveva qui? Amici, si disse.
Non essere precipitosa. Non si può parlare di veri e propri amici. Parliamoci chiaro, qui hai Kili.
Era una cosa da nulla?! Una persona che lei amava, che le faceva nascere dentro una forza, una sicurezza che non aveva mai avuto. C’era chi si toglieva la vita per questo, per mancanza di amore. Come poteva abbandonare Kili al di qua dello specchio se era l’unica persona che la faceva stare bene, che la faceva sentire rinata, con occhi nuovi per guardare il mondo e un cuore, un cuore vero nel petto, non un aggeggio congelato? Non poteva. Il pensiero la disgustava. Girò gli occhi nel buio alla ricerca di una figura che ormai conosceva bene. Kili era coricato accanto a Fili, l’unica persona di cui si fidava incondizionatamente in quella compagnia. Fili aveva la capacità di far sentire a casa le persone e di sapere sempre cosa fare per farle stare bene. Era fiero, valoroso, coraggioso, sensibile. Kili era una fonte d’acqua fresca e zampillante, Fili una polla d’acqua sul cui lido riposare. Se non fosse stata innamorata del fratello minore, forse avrebbe sentito attrazione per il maggiore, l’unico vero amico che si fosse fatta in quel viaggio. E decise che anche Thorin, a modo suo, poteva essere annoverato tra quelle persone che si sarebbe sentita distrutta a lasciare da parte. Per il severo re dei nani provava una stima, un’ammirazione e una lealtà praticamente sconfinate. Thorin era come lei. Erano fatti della stessa materia celeste, delle stesse stelle. Le stelle. Perché non si vedevano le stelle? Le avrebbero dato un grande conforto in quel momento. Con questo pensiero il sonno finalmente l’avvolse.
Il mattino sorse plumbeo e freddo. Quel che rimaneva della compagnia di Thorin si affrettò a fare i bagagli senza quasi parlare, di malumore e pensosa, poi riprese a camminare. Da Dale seguirono un percorso che circondava la Montagna salendo in lente e discrete curve. Ad un certo punto la caligine si diradò ed Elemmire riuscì a vedere il panorama sotto di lei: la distesa cancerosa, nera e riarsa della desolazione di Smaug, poi fin dove l’occhio arrivava il Lago, e le primissime case di Esgaroth. Credette di scorgere sulla linea dell’orizzonte gli alberi del reame boscoso e si chiese cosa stesse succedendo oltre tutta quell’acqua, dove fossero Bard, Tauriel e Legolas, Bolg con i suoi orchi. Un falcone planò nella sua area visiva aprendo le grandi ali e lanciando un richiamo stridulo e selvaggio.
Da un certo punto in poi Elemmire ebbe il piacere di vedere che la vegetazione riprendeva a crescere. Probabilmente Smaug non frequentava quel versante della Montagna. Cespugli di ginepro, bassi abeti stellati e muschio rendevano verde un paesaggio che altrimenti sarebbe stato dominato dal grigio della roccia granitica. Forse avrebbe anche potuto scorgere una lepre se si fosse concentrata a sufficienza sul sottobosco. Camminarono finché non scese l’oscurità e si accamparono accendendo un fuoco. Contro ogni previsione, i nani ripresero a cantare la canzone che per la prima volta Elemmire aveva udito dal Governatore di Esgaroth. Quel vedo il fuoco in origine così vivo, guizzante, sprizzante volontà e dolore fresco, assumeva ora una tonalità più cupa e triste, languiva come una brace sotto la neve. Il cielo si aprì un poco verso mezzanotte e permise loro di vedere la luna, una luna gonfia e dorata sospesa sopra il Lago. Il fumo delle pipe saliva verso le stelle.
-Ci siamo- Kili era seduto accanto a lei, e parlava a voce bassissima così che solo lei potesse udirlo –Due giorni. Tra due giorni la luna sarà piena.
-Tra due giorni scoccherà il Dì di Durin. 
-Guntera, aiutaci- Kili sospirò e si portò una mano sugli occhi. Elemmire pensò a circondarlo con un braccio ma rimase ferma, quasi atterrita che quel minimo contatto fisico potesse tradire i suoi sentimenti.
-Cosa avverrà una volta che la porta si sarà aperta?
-Bilbo scenderà nel centro di Erebor, troverà l’Arkengemma, la porterà a Thorin che radunerà i sette eserciti dei nani che a loro volta si precipiteranno qui per uccidere Smaug. Per quel tempo anche Gandalf dovrebbe essere tornato.
Gandalf! Non si avevano più notizie di lui da mesi.
-Dov’è, Gandalf?
-Dol Guldur- Kili pronunciò il nome quasi con deferenza. Le sillabe già di per sé grevi diventavano addirittura oscure nell’accento del nano.
-Galadriel mi disse che il Male si nasconde a Dol Guldur.
-Cosa sai del Male, Elemmire?
Elemmire intuì che c’era una storia che pendeva dalle labbra di Kili.
-Quel poco che si mormora nel popolino- rispose sperando di incoraggiare così il nano.
-Ovvero?
-Voci, nulla di più- poi fulmineamente si ricordò di alcuni manoscritti che aveva letto a Gran Burrone –So che ha nome Sauron, che partecipò alla caduta di Numenor.
-Fu la causa principale della caduta di Numenor, in effetti. Ti avverto che non conosco tutta la storia.
-Vorrei sentirla comunque- sorrise Elemmire.
-Le tradizioni comuni raccontano che il mondo stesso sia stato creato dai Valar, entità angeliche che abitano oltre i confini del mondo. Uno di questi Valar si convertì al Male con il nome di Bauglir e si pose come obiettivo quello di distruggere Arda, l’intero universo. Fece suo allievo un certo Mairon, che da allora si chiamò Sauron, e con lui mosse guerra a tutte le razze della Terra di Mezzo. Non so bene come andò, fatto sta che Bauglir venne imprigionato oltre le terre dei Valar in modo da non poterne mai fuggire e Sauron fu sconfitto dalla leggendaria Luthièn, cui si deve l’unione delle due stirpi degli uomini e degli elfi poiché sposò Beren, un mortale. Probabilmente Sauron visse nascosto per secoli e secoli, ricomparendo un giorno d’aspetto piacevole, vestito come un gran signore e facendosi chiamare Annatar, il dispensatore di doni. Cercò prima di conquistare la fiducia degli Eldar con la lusinga delle sue conoscenze, ma Elrond di Gran Burrone e Gil-Galad, signore di Gondolin diffidarono di lui. Allora si rivolse a noi nani, pensando di poterci ingannare offrendoci il potere. Si sbagliava di grosso. Il nostro re Durin VI rifiutò l’alleanza. Infine Annatar si rivolse agli elfi fabbri dell’Eregion e con il loro aiuto forgiò degli anelli di immane brillantezza e potere, destinati secondo le sue intenzioni ad ognuno dei grandi signore delle razze di Arda. Egli era però un ingannatore: nel profondo sud, nelle terre di Mordor, all’interno del vulcano detto Monte Fato, forgiò un Unico Anello in grado di controllare tutti gli altri. Donò nove anelli ai re degli Uomini, le cui deboli menti caddero subito sotto la schiavitù di Sauron; sette ai principi dei nani, che invece resistettero per molto tempo al Nemico e invece con il suo Unico Anello eresse la torre di Barad-dur, sua dimora, e si circondò di armate di orchi, conquistando poi tutte le terre del Sud. Il suo obiettivo era controllare le menti di ogni abitante di Arda.. Allora il re dei Numeroniani attaccò Sauron e nella sua grande potenza e gloria lo sconfisse. Sauron fece atto di sottomissione ed è qui che il re di Numenor si dimostrò ingenuo e arrogante. Mise Sauron ai ceppi e lo portò con sé sull’isola pretendendo di tenerlo prigioniero. In realtà egli si rafforzava giorno dopo giorno e avvelenava le menti degli uomini e del re, finché lo spinse a dirigere la sua flotta contro i Valar stessi, sostenendo che in questo modo la stirpe umana avrebbe guadagnato l’immortalità. I Valar si adirarono e sommersero l’isola di Numenor, dalla quale partirono esuli i Raminghi guidati da Elendil, che giunti nella Terra di Mezzo fondarono i regni di Arnor e Gondor, ma questa è un’altra storia. Il corpo mortale di Sauron fu distrutto, ma egli tornò a Barad-dur sotto forma di spirito malvagio. Ci mise anni a recuperare la sua intera forza, ma alla fine i fuochi del Monte Fato tornarono a fiammeggiare e i Nazgul, così sono chiamati i nove re degli uomini che soccombettero al potere degli anelli, furono di nuovo chiamati a Mordor. Allora gli elfi di Elrond e Gil-Galad si allearono con gli uomini di Elendil e marciarono contro Mordor. Gil-Galad ed Elendil morirono sul campo di battaglia, ma Isildur figlio di Elendil riuscì a strappare l’Anello a Sauron e quindi a sconfiggerlo. Eppure egli stesso fu vittima del potere del gioiello e morì di una morte tragica. L’Anello finì nel Grande Fiume Anduin e probabilmente ora giace su qualche fondale sabbioso vicino alle terre degli Eldar.
Elemmire si accorse di essere rimasta a bocca spalancata. Davanti ai suoi occhi incantati vorticavano secoli e secoli di storia, battaglie, uccisioni, tranelli e condottieri valorosi.
-Cosa accadde a Sauron? È morto?
-Può uno spirito morire? Sauron si disperse. Da quel giorno non si seppe più nulla di lui. Ecco però che l’oscurità rincomincia ad addensarsi. Il Bosco Atro è malato e creature disgustose brulicano in tutto l’est- Kili abbassò la voce –Vuoi sapere perché Gandalf tiene così tanto alla riuscita di questa missione?
Elemmire annuì.
-Crede che il Negromante che ha preso possesso di Dol Guldur sia Sauron in persona, e crede che egli voglia controllare Smaug. Con il drago sotto il potere del Male, tutto l’est verrebbe devastato e nemmeno Thranduil avrebbe il potere di resistere alle fiamme. Gli incendi si stenderebbero fino e oltre le Montagne Nebbiose, Gran Burrone sarebbe posta sotto assedio.
-Quali prove ha Gandalf?
-Radagast il Bruno, lo stregone, lo ha incontrato prima che la nostra compagnia si formasse e gli ha consegnato una spada che egli stesso ha trovato a Dol Guldur. Non era una lama appartenente al regno dei mortali. Di questo Gandalf ha conferito con lady Galadriel e Saruman il Bianco, capo dell’Ordine degli Stregoni, la notte in cui siamo partiti da Gran Burrone. Credo che Sire Elrond e Saruman siano abbastanza scettici a riguardo del ritorno di Sauron, ma Galadriel si fida di Gandalf.
-Come sai tutte queste cose?
-Thorin si fida, e si confida- gli occhi di Kili brillarono. Dopo una pausa disse con tono più allegro e vivace –Mette abbastanza pressione, eh? Sapere che non ci sono solo in gioco le nostre vite, ma un po’ il destino della Terra di Mezzo.
-Diciamo pure che se prima ero preoccupata ora sono terrorizzata.
Kili sogghignò, poi le prese la mano e sorrise in quel modo birichino e irresistibile:-Non devi avere paura.
-Non ne ho infatti. Stavo scherzando- Elemmire ebbe l’impressione di aver detto la cosa sbagliata.
Kili le rifece il verso con la lingua da fuori e alzando gli occhi al cielo. Elemmire si imbronciò.
-Molto presto bisognerà avere paura.
-Tu non ne avrai.
-Io non ho mai paura- Kili le strizzò l’occhio –Sono i miei nemici che dovrebbero averne.
-Sei alto la metà di loro- ancora, Elemmire avrebbe voluto mangiarsi la lingua.
-E furbo il doppio, e abile il triplo. Come vedi, la proporzione è a mio vantaggio.
E un po’ scherzando, un poco guardandosi a vicenda, si addormentarono vicini. 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** una serratura ***


Una colonna di fumo si alzava dalle pire. L’olezzo disgustoso della morte, della carne bruciata e del sangue rappreso si coagulava nell’aria. Stormi di corvi planavano sull’enorme campo di battaglia in attesa del loro turno al banchetto. Elemmire socchiuse gli occhi: le bruciavano a causa del fumo nero e acre. Scrutava tra le fiamme, tra i cumoli, alla ricerca di un segno. Aveva le mani scivolose di sangue perché teneva ancora Nen Girith in mano e la spalla le bruciava. Un rivolo caldo le colava lungo la schiena. Il silenzio era interrotto solo dal crepitio dei fuochi. In parte perché il suo stomaco minacciava di ribellarsi, in parte perché voleva ancora conservare un poco di speranza, girò le spalle alle pire e tornò verso la Montagna. Il cuore le batteva così forte che minacciava di stordirla. Per strada iniziò a sentire il bisogno di piangere, un bisogno ossessivo di gettarsi a terra e piangere. Tutta quella morte attorno a lei chiedeva di essere ascoltata, chiedeva che lei si indignasse, che lei ricordasse. E avrebbe ricordato per sempre, su questo non aveva dubbi. I suoi passi erano resi instabili dal dolore e dalla stanchezza. Due volte rischiò di cadere, e si rialzò puntellandosi con la spada. All’ingresso della Montagna c’era una larga pozza rossa dove giacevano due nani. Altro non poteva dire: i loro volti erano maschere di sangue e pelle strappata a brandelli. Poco lontano da loro la roccia aveva bevuto avida il sangue e su quella seta rossa spiccavano piccoli grumi biancastri. Cervello. Elemmire si lasciò cadere in ginocchio a terra e vomitò.
 
Si svegliò e non urlò. Rimase con gli occhi spalancati nel buio a fissare l’oscurità. Tremava e sudore freddo le imbeveva i vestiti. Era un sogno, si disse respirando profondamente, un sogno. Solo un sogno. Si toccò la spalla. La pelle era intatta, gli occhi non le bruciavano e in gola non aveva il puzzo della carne bruciata. Il solo pensiero le fece venire un conato. Si rizzò a sedere, scostò la coperta e respirò a pieni polmoni l’aria gelida della notte, poi si coprì di nuovo, si coricò e rimase sveglia a sentire il respiro regolare di Kili. Scrutò avidamente i suoi lineamenti nella notte e confortata si riaddormentò di un sonno pesante e senza sogni.
La mattina non fu diversa dalle precedenti: fredda, bagnata e uggiosa. Una fitta nebbia rendeva difficile distinguere le cose più lontane di qualche passo attorno a lei. Thorin li condusse ancora più in alto, finché non raggiunsero uno dei picchi minori di Erebor e sbucarono fuori dalle nubi. Sorprendentemente, il cielo sopra di loro divenne azzurro cinabro, e la Montagna con le sue cime più alte una lama votata a tagliare l’infinito. Il terreno era gelato, le piante raggrinzite dal freddo e anche Elemmire tremava.
-Dovremo esserci- disse Thorin. Il suo respiro si condensava nell’aria:-Secondo la mappa di mio padre, l’ingresso per la porta segreta è esattamente sopra di noi.
-Ci sono delle scale lì- notò Bilbo. Elemmire non riusciva a vederle pur aguzzando lo sguardo.
-Ottimo lavoro mastro Baggins- Balin batté una mano sulla spalla di Bilbo e la Compagnia procedette.
Elemmire vide le scale solo quando si trovò sotto di loro. E vide la statua. Il fianco della montagna era intagliato in modo da rappresentare un monolitico re dei nani. Aveva in testa la corona e in mano l’ascia, gli occhi vuoti fissavano corrucciati l’eternità. Le scale altro non erano se non le magie dell’armatura del nano, una cotta di granito che si innalzava dai piedi fino al passo della spalle e al picco smussato della testa, avvolgeva il capo come un cappuccio e si confondeva con le trecce dei capelli
 La scalata fu lunga e difficile: la parete era verticale, la roccia sdrucciolevole e affilata.
-Non guardare in basso- le soffiò Fili nel passarle accanto –Qualunque cosa succeda, non guardare in basso e non fermarti.
Il granito le tagliava le mani, ma Elemmire non sentiva dolore: il freddo l’anestetizzava. Il tempo si dilatò, ogni secondo era il tendersi di un muscolo, ogni minuto lo slancio verso l’alto del suo corpo, le ore misurate solo in sangue che le scorreva tra le dita. La scalata finì com’era incominciata: Elemmire se ne accorse solo quando trovò sotto di sé la stabile roccia di un ampio spiazzo. Poteva essere forse la lama dell’ascia, o la spalla del nano di granito. Un davanzale di pietra largo abbastanza perché tutti potessero accamparvisi con comodità, e la liscia parete della Montagna levigata da quei sapienti scalpelli che sono il vento e la neve. Il sole stava tramontando sotto le nuvole tingendole d’oro: uno spettacolo mozzafiato. Madida di sudore ormai gelato, sanguinante, ammaccata, Elemmire ascoltò l’ululato del vento che faceva volare i suoi lunghi capelli neri attorno alle reni, in alto come la coda di una cometa, dentro gli occhi e la bocca. Kili ansimava ma sorrideva. Il sole traeva scintille dai suoi capelli folti e scuri, disegnava dolcemente il profilo delle labbra schiuse sui denti candidi in quel sorriso aperto, spensierato, gaio e sguaiato che Elemmire adorava. Le sue ciglia sfarfallarono sopra gli occhi verde e oro. Erano così cristallini che vi si poteva vedere la luce riflessa.
-Ci siamo- sussurrò Thorin. Si avvicinò lentamente alla parete rocciosa, la sfiorò deferente con le dita, poi vi appoggiò il palmo della mano. Elemmire immaginò dovesse essere fredda. I suoi occhi grigi erano velati di una sentimento antico come la terra, languido; erano velati di lacrime. Mormorò alcune parole in nanico e si inchinò su un ginocchio, forse a ringraziare un dio, poi si girò e scrutò la Compagnia.
-Domani è il Dì di Durin- parlò a voce bassa, risuonante e grave come un tuono in lontananza –Domani l’ultimo sole dell’autunno e la prima luna d’inverno si daranno il cambio nel cielo, e in quel preciso istante il buco della serratura si farà chiaro. L’ultimo raggio di sole brillerà su di esso. Domani, miei compagni, è l’inizio di un altro anno, e l’inizio di un’altra era. Compagni, fratelli miei, la Montagna veglia sui suoi figli come una madre sui suoi piccoli. Gli Alti Elfi anelano di tornare alle loro case incantate oltre il mare, nelle terre dei loro antenati e dei Valar; gli Uomini desiderano e temono la gloria, perché dalla gloria di Numenor la loro specie è stata nobilitata e tuttavia condannata; ma noi Nani, la razza più antica della Terra di Mezzo, possiamo dirci a casa solo nelle profondità della calda roccia, nelle sale scavate nel marmo, dove Mahal creò il primo della nostra razza, Durin, il cui sangue scorre nelle mie vene e in quelle dei miei congiunti. Questo fu molti, molti secoli prima che gli Elfi giungessero dalle bianche sponde nei Porti Grigi. La nostra casa è dove si ode l’urlo dell’aquila e il profumo dei pini, dove l’acqua scorre in profondità e il fuoco ruggisce al centro del mondo. Qui, all’ombra di Erebor, dove i re dei nani hanno sempre dimorato dalla morte di Durin, il mio cuore finalmente si sente realizzato. Non lo sentite anche voi, fratelli? Non sentite la forza scorrervi nel petto? Perché è stato tramandato che Mahal creò il primo nano dalla roccia, e che nel nostro sangue corre quello della terra, così che i nani sentiranno sempre il richiamo della loro Madre, ovunque essi siano. Noi ora siamo qui, ai suoi piedi, sulle sue spalle, in attesa di scendere nel suo ventre per conquistare quello che di diritto ci appartiene. E non mentii quando promisi agli uomini del Lago che ognuno avrebbe condiviso le ricchezze della Montagna Solitaria. La nostra Madre è stata generosa con la mia famiglia: mi ha dato un padre di nobili natali, e a mia sorella ha riempito il ventre con gli eredi che il destino ha negato a me. Allora non vedo perché io dovrei essere da meno. Seguitemi ancora una volta. Domani questa parete si aprirà. Seguitemi, vi dico, nelle profondità di Erebor, seguitemi nel fuoco di drago e nel ribollire dell’oro, e io coprirò di gemme e di gloria i vostri capi.
-Abbiamo combattuto e versato il nostro sangue, siamo fuggiti dai sotterranei e dalle prigioni dei nostri nemici, abbiamo affrontato l’Oscurità del Bosco Atro e quella delle Montagne Nebbiose, i vostri occhi hanno contemplato le meraviglie delle Terre Selvagge, le architetture degli Elfi e la miseria degli Uomini. Abbiamo perso un consigliere lungo la strada, ma abbiamo acquistato uno scassinatore e una combattente valorosa, e qualcosa mi dice che avremo ancora bisogno della loro audacia prima che il sole tramonti su quest’avventura. Tuttavia, pur perpetrando la memoria del non indifferente contributo degli Hobbit della Contea e delle Figlie dell’Uomo di Gondor, questo giorno appartiene a noi Khuzdul, e a noi soli, che sia vittoria o disfatta, che finisca in luce di fiaccole o in bagliore di fuoco.
Il sole era tramontato, il cielo era di quel violetto che attende con pazienza l’arrivo della notte, retroguardia del giorno, sentinella del crepuscolo. Thorin era maestoso e fermo come una statua. I lunghi riccioli neri e argentati, gli occhi che rivaleggiavano con la Stella della Sera per lucentezza e profondità, il naso aquilino dritto e come scolpito nel granito, l’anello di zaffiro che riluceva al dito, il mantello scarlatto drappeggiato sulle spalle  appena mosso dal vento, le spalle erette, il portamento orgoglioso, la testa incoronata di regalità e il mento sollevato con alterigia.
Accesero un fuoco allegro al centro dello spiazzo e cenarono con pane secco. Bofur fece passare tra i compagni una fiaschetta di whisky che riscaldò tutti fino alla punta dei capelli, ma che Thorin supervisionò affinché nessuno cadesse ubriaco alla vigilia del grande giorno. Le stelle erano un immenso vespaio sopra di loro, mentre le nuvole basse oltre il davanzale di pietra rilucevano di rosso quando un fulmine le attraversava. La tempesta infuriava sotto di loro, mentre sulle loro teste la calma fredda e perfetta dell’infinito li guardava e filava i loro destini. Al centro di quella bizzarra opposizione c’era il respiro di Kili sulla guancia di Elemmire, un uragano di astri, mentre sdraiati in disparte contemplavano il cielo. La luna, quasi rotonda, mostrava loro la faccia delle imperfezioni con i suoi crateri e le sue ombre pallide. In silenzio, le dita che appena si sfioravano, si lasciavano bagnare dalle stelle d’inverno. Elemmire si sentiva felice. Il suo cuore batteva veloce come il battito d’ali d’un passerotto catturato dalle bianche mani del costato. Un dolore languiva in fondo al suo cuore, come una fiamma che bruciasse nel riportarla in vita. Con la coda dell’occhio seguiva ogni movimento di Kili, di quella creatura meravigliosa che sdraiata a così poca distanza da lei la faceva fremere e risplendere di una luce chiara e cristallina. Cercava di indovinare i suoi sentimenti dietro lo specchio dei begli occhi e del serafico sorriso. L’aria fredda si condensava in veli bianchi all’entrata delle loro bocche ogni volta che sospiravano. Lo spettacolo di quel cielo sereno e congelato per sempre riempiva i loro cuori di stupore e di calma. Perfino Erebor era minuscola rispetto alle stelle che brillavano in alto; Smaug non era che un puntino, tutti loro degli atomi infinitesimali.
Ad un certo punto Kili iniziò a cantare sottovoce:
Appoggia la tua testa sudata e stanca
La notte sta calando, sei arrivato alla fine del viaggio
Dormi ora, e sogna di quelli che vennero prima
Ti stanno chiamando dalle distese di pietra
Perché piangi? Cosa sono queste lacrime sul tuo viso?
Vedrai, tutte le tue paure svaniranno
Al sicuro tra le mie braccia, dormirai
 
Cosa puoi vedere sull’orizzonte?
Le rocche di pietra ci chiamano
Oltre il grido delle aquile sorge una pallida luna
Gli uccelli ti porteranno a casa
E tutto diventerà vetro argentato, una luce sull’acqua
 
Non dire ora, siamo giunti alla fine
Le rocche di pietra ci chiamano, ma ci vedremo ancora
E tu sarai qui nel mio cuore, dormirai
 
Cosa puoi vedere sull’orizzonte?
Le rocche di pietra chiamano
Oltre il grido dei falchi sorge una pallida luna
Gli uccelli sono qui e ti porteranno a casa
E tutti diventerà vetro argentato, una luce sull’acqua
Tutto svanirà nel regno dell’Est
 
Il canto era triste e malinconico, ma familiare.
-La cantava mamma. Diceva che papà l’aveva imparata da qualche mercante errante- sussurrò con gli occhi chiusi. Elemmire allungò un braccio per accarezzargli la guancia, ma lo ritrasse.
-La conosco anch’io- disse, e non mentiva –La cantava anche mia madre, pur se con qualche lieve differenza. Dev’essere la ninna nanna che ogni madre canta al proprio figlio.
-Non è una ninna nanna- Kili ebbe appena un moto. La sua mascella si contrasse per un attimo:-Mamma ce la insegnò quando morì papà. È un canto funebre.
Elemmire trovò sconcertante che la melodia che l’aveva accompagnata nel sonno quando era piccola fosse un inno di morte.
-Mia madre la cantava prima di mandarmi a dormire- sussurrò a mezza voce, un fremito di vergogna sulle guance.
-Così è molto più bella. Come ninna nanna. Da bambini non si deve pensare alla morte.
-Non si dovrebbe mai pensare alla morte.
-Ma tu ci pensi mai a come sarebbe morire?
Elemmire rifletté:-Non farà male.
-No- Kili si girò verso di lei –No, sono d’accordo.
-E poi tutto diventerà ombra.
-No, luce. Tutto diventerà luce soffusa e saremo introdotti alla presenza dei cari che abbiamo perso. Loro ci accompagneranno al cospetto di Guntera e testimonieranno in nostro favore davanti al giudice supremo.
Elemmire avrebbe voluto dirgli che la luce che appariva appena il cuore si fermava era un riflesso incondizionato del cervello che non riceveva più sangue e quindi ossigeno dalla pompa cardiaca, ma la spiegazione di Kili le piaceva di più. Pensò a come sarebbe potuto essere rivedere sua madre, con il suo volto perfetto e soffuso di dolcezza che nella sua mente andava svanendo e ricomponendosi nei tratti di lady Galadriel. Pensò di riabbracciarla, di sentire il suo dolce profumo, di guardare quegli occhi azzurri così grandi e così simili ai suoi, di vedere un sorriso triste e commosso piegare quelle labbra, una perla trasparente incatenata alle ciglia nere che poi scivolava lenta lungo lo zigomo alto. Pensò a sua madre, le trecce bionde sciolte, che la prendeva per mano, soffusa di luce e di splendore, ogni segno di fatica o preoccupazione scomparso, le rughe spianate, la sofferenza lavata via, non il pallore della malattia ma la gaia allegrezza della vita. Elemmire cercava di chiudere i suoi ricordi a chiave, ma quella notte ogni cassetto della sua testa straripò e le si riversò addosso una marea di momenti, di immagini, di sensazioni. Immaginò se stessa, alta, con i lunghi capelli neri, affianco alla donna, madre e figlia, gli stessi visi di porcellana, gli stessi occhi di zaffiro. E ancora, sua madre che le accarezzava la mano e le sussurrava in un impercettibile sospiro:-Sei bellissima, e così sola- prima di abbracciarla e avvolgerla in quella luce soffusa che profumava di miele e di rose.
Gli occhi le si riempirono di lacrime che ricacciò indietro fino ad avere la vista oscurata.
-Elemmire- Kili se ne accorse e la strinse a sé –Perdonami. Non volevo farti questo effetto.
Elemmire sbatté le palpebre e grosse lacrime le rigarono le guance e bagnarono la casacca di Kili.
-Scusami, ti prego. Non pensavo potessi reagire così.
-Sto bene- balbettò con un singhiozzo.
-No, non stai bene, e non c’è nulla di male in questo- Kili le depose un bacio sull’attaccatura dei capelli, poi un altro sulla fronte –Tua madre è felice, e fiera di te Elemmire.
-Lo spero- Elemmire chiuse gli occhi e prese a singhiozzare. Si artigliò con le mani ai fianchi del nano.
-Ti ama, ti ama tantissimo- continuò lui a sussurrarle, stringendola sempre forte, la guancia appoggiata al suo capo –Ti protegge e ti custodisce, ovunque lei sia. E così mio padre. Le persone che ci amano non ci abbandonano mai, Elemmire.
Elemmire continuò a piangere, il cuore stretto in una morsa di dolore e incomprensibile dolcezza, digrignando i denti.
Kili le accarezzò i capelli a lungo, poi lentamente le poggiò una mano sulla schiena e la fece andare avanti e indietro. La misurata tenerezza di quel gesto fece a poco a poco cessare i singhiozzi.
A quel punto Kili si staccò delicatamente da lei, la guardò negli occhi, le asciugò le lacrime con i pollici e le accarezzò la guancia seguendo il solco bagnato che si perdeva poi lungo il collo. Elemmire prese a tremare, ma non distolse lo sguardo. Le iridi verdi diventavano quasi grigie alla luce delle stelle. Kili sorrise di una dolcezza che le spezzò il cuore.
E poi Fili, da qualche parte, lo chiamò.
Il disappunto la fece risvegliare bruscamente. Si accorse della vicinanza sconveniente al viso del nano e con un moto di stizza e imbarazzo si allontanò e girò la testa.
-Arrivo Fili- Kili si alzò da terra e camminò verso la luce del falò.
Elemmire rimase stesa in attesa che il nano tornasse. Realizzò poi che doveva essere stata l’emozione del momento, le stelle, lei che piangeva, a riempire di tenerezza lo sguardo di Kili, e che in ogni caso quel momento era passato. Si coricò avvolgendosi in molte coperte per proteggersi dal gelo della notte e si addormentò. Non ebbe incubi e dormì serenamente fino all’alba.
L’ultimo sole d’autunno sorse in uno sfavillio di gioiello. Il cielo da viola si fece verde e poi quasi bianco, e le nuvole sfilacciate che osavano superare il picco più alto di Erebor indorarono le loro propaggini. Le dita di rosa e di arancio dell’aurora svegliarono la tacita roccia e coprirono di brina e perle di luce le sue sporgenze. Lo spiazzo dove i nani, Bilbo ed Elemmire erano accampati tuttavia rimase nell’ombra della Montagna. Quando la voce di Thorin la svegliò il cielo era azzurro e l’aria pungente, il vento sferzante mordeva le guance. Bofur fece bollire dell’acqua e vi mise dentro in infusione dei fiori di malva essiccati assieme a una generosa dose di whisky. La compagnia bevve in silenzio l’infuso attorno alle ceneri del fuoco della sera prima. Kili e Fili cercavano di stemperare la tensione con scambi di battute e arguti commenti, finché un severo sguardo di Thorin li fece tacere.
-Abbiamo otto ore a nostra disposizione prima che il sole tramonti. Ognuno di voi ha la libertà di impiegarle come meglio crede.
Subito la compagnia si animò di quel brio frizzante e tuttavia silenzioso che denota aspettativa e tensione. I nani iniziarono ad affilare le loro armi, Bilbo confabulava con Thorin in un angolo ed Elemmire sentì il bisogno di passare un po’ di tempo da sola con se stessa. Imbracciò l’arco e con qualche difficoltà si arrampicò sulle rocce squadrate. Camminò a lungo con il picco innevato della montagna sopra di sé e quando si rese conto che non avrebbe mai trovato una macchia d’alberi dove recuperare quel contatto con la natura per lei così prezioso guardò il cielo. Il sole era ben lungi dallo zenit, potevano essere le dieci del mattino a voler essere larghi. La giornata si presentava incredibilmente tersa e ventosa, con un cielo cobalto come lo si può ammirare solo in montagna. Il ghiacciaio di Erebor scintillava come una preziosa sciabola di diamante. Elemmire immaginò che se avesse sempre tenuto a mente la posizione del sole, non si sarebbe persa e iniziò a scendere il fianco della montagna fino a trovare un comodo punto di appoggio. Si stese sulla nuda roccia, mise da parte l’arco e godette del tepore dell’ultimo sole d’autunno sulla faccia. Socchiuse gli occhi e lasciò fluire i pensieri a briglia sciolta. In pochi minuti la sua testa si librava leggera in quello sconfinato lenzuolo del cielo che i suoi occhi guardavano senza vedere sul serio, poiché altro non era che teatro di pensieri, ottimisti alcuni, cupi la maggior parte, confusi tutti. Si rilassò avvertendo il fremito della terra sotto di sé. Non le era mai capitato di sedere su una roccia così viva. Era come se avesse assorbito un po’ del grande calore e del grande rumore che le fornaci, ormai estinte, dei nani dovevano aver prodotto, e lo rimandasse indietro sotto forma di vibrazione. Comunque fosse, le piaceva. Le comunicava energia e tranquillità. Si disse che il suo compito era finito: non doveva far altro che aspettare che Bilbo rubasse l’Arkengemma, poi la faccenda sarebbe stata sbrigata dai nani e lei sarebbe rimasta in disparte a guardare, estranea a quella razza e alle sue antiche vendette. Dopo di che avrebbe visto Thorin insediarsi sul suo trono, scintillante di gloria e gioielli, e sarebbe tornata a casa. Un moto di spavento le fece spalancare gli occhi bruscamente. Per mesi non aveva desiderato altro, ma ora, a tutti i costi, voleva ritardare quel momento. Il momento in cui avrebbe stretto la mano di Kili per l’ultima volta. Del resto, non ricordava di aver mai vissuto altrove se non nella Terra di Mezzo. Fuori da lì, non aveva mai vissuto davvero.
Eppure, si disse, non è così che la vita dovrebbe essere? Dolori, sacrifici, solitudine, non è questa la vita nel mondo reale? Ma cos’è una vita senza amore? Elemmire aveva accettato di non star vivendo un sogno. Ci si può innamorare di un frutto della notte, che svanisce appena le palpebre tremolano? Era certa che Kili fosse qualcosa di più. Era vivo, caldo, tangibile. In lui non c’era la chimera nebulosa di una visione onirica, ma il concreto, spietato grido della realtà. Grido che era di gioia, di libertà, di giovinezza e di vita. No, quella era la vita reale, quella dove sentiva il cuore palpitare, rizzarsi, scuotersi nel petto, quella dove la paura e il dolore non congelavano le membra; non che non esistessero, ma non avrebbe più permesso loro di avere la meglio. E poi, in fondo, riteneva di aver ricevuto la sua parte di infelicità, di non vita, e di essere pronta a vivere ancora pochi istanti di pura, intonsa felicità accanto alla persona di cui era innamorata, persa, prima di ripiombare in tutto ciò che di stantio e vuoto la sua vita passata aveva in serbo.
In queste riflessioni trascorse la sua mattinata, e quando si risvegliò da tutti quei dialoghi con se stessa era mezzogiorno passato. Forse aveva anche sonnecchiato un poco. Riprese l’arco e iniziò la scalata di ritorno. Orientandosi con il sole e la memoria ritrovò l’ingresso alla porta segreta e si sedette in mezzo a tutti gli altri. Sembrava non se ne fosse mai andata. Il rumore lento e metodico delle lame strusciate tra loro era inframmezzato solo da burberi colpi di tosse. Ad un certo punto Thorin chiese che si accendesse un fuoco e che si desse il segnale a Ori, Bifur e Bombur si iniziare la traversata della desolazione di Smaug, di modo che avrebbero dovuto trovarsi lì dove loro erano per il giorno dopo.
-Sono giovani e in pochi, marciando notte e giorno impiegheranno un terzo del nostro tempo per raggiungerci- disse Thorin semplicemente mentre Balin sventolava una coperta sopra il fumo del fuoco. Elemmire aveva solo sentito parlare di quella via di comunicazione e rimase piuttosto impressionata.
Kili era seduto in un angolo. Il suo sguardo la seguì mentre in pochi passi lo raggiungeva. Aveva in mano il coltello a serramanico e stava intagliando qualcosa.
-Cos’è?- chiese Elemmire sedendosi elegantemente accanto a lui.
-Un regalo- rispose quello con un mezzo sorriso. Elemmire immaginò fosse per la madre. Era un corto ma robusto ramo di nocciolo, probabilmente raccolto durante la scalata di Erebor. Kili lo stava sbozzando in una forma appuntita.
-E cosa rappresenta?
-Non ti è dato saperlo- sorrise Kili, continuando in silenzio il suo lavoro. Elemmire sentiva bruciarsi nel petto una specie di fuoco.
-Piuttosto, cosa hai fatto tutto questo tempo da sola?- chiese il nano senza alzare lo sguardo.
-Oh, sai, riflettevo.
-Su cosa?
Per un attimo Elemmire meditò di raccontare a Kili quanto le pesasse tornare a casa, poi si chiese a che pro rovinare quei momenti introducendo un terzo incomodo, la separazione.
-Non ti è dato saperlo- disse, ma senza sorridere, solo alzando le sopracciglia.
Kili si guardò attorno con gli occhi socchiusi, una specie di amarezza dipinta in volto:-Se tu fossi stata nostra ospite sulle Montagne Azzurre, avresti visto con quanto fasto i nani festeggiano l’arrivo del nuovo anno. Ora invece che accordare gli strumenti lucidiamo armi.
Ancora una volta Elemmire si sorprese di quanto la nostalgia potesse assumere tinte fosche negli occhi di Kili.
-Anche da noi l’anno nuovo è assai festeggiato.
-Scommetto non avete i nostri fuochi d’artificio- sorrise Kili come sovrappensiero.
-Fuochi d’artificio?- Elemmire rimase confusa dal sentire una parola così moderna in un panorama tanto selvatico.
-Sì, fuochi d’artificio. Li produce Gandalf. Sono degli involucri di carta che contengono speciali miscele di polveri. Si accende la miccia e quelli esplodono nel cielo in tante luminose forme diverse. Sembrano tanti fuochi fatui che danzano nell’aria, e fanno un rumore fortissimo, come quando stappi una botte di vino novello.
-Sì, so cos’è un fuoco d’artificio, credevo non fossero diffusi al di fuori del nostro regno, ecco tutto.
-Credevi male, allora- Kili riprese a sbozzare il legno ed Elemmire si rassegnò all’idea di rimanere in silenzio, poi, per avere le mani occupate, iniziò anche lei ad affilare Nen Girith. La lama elfica scintillava di sfumature rosate man mano che il sole si faceva sempre più basso e il suo riflesso inondava gli arabeschi.
La tensione accumulata da tutti i nani si ruppe all’improvviso e una volta per tutte. Un momento prima ognuno era seduto al proprio posto, quietamente, in silenzio, un momento dopo Thorin si ergeva in piedi e così tutta la compagnia, formando un rispettoso semicerchio attorno alla parete di roccia sbozzata. Era bastato un cambiamento di luce, una lieve sfumatura più ocra che oro nei raggi solari, ed ecco che il tramonto era andato in scena e i nani, come tante statue di pietra, erano tornati alla vita. I raggi obliqui colpivano esattamente la roccia esaltandone le irregolarità in un gioco di ombre e chiaroscuri.
-Nori- abbaiò Thorin, e il nano che prima era stato un ladro di professione si fece avanti ed iniziò a tastare la roccia, ad auscultarla e a scrutarla con attenzione fintanto che era immersa nella luce del sole. Un silenzio religioso accompagnava quest’operazione. Il sole declinava in fretta e già da ocra i suoi raggi assumevano una colorazione scarlatta. La roccia sembrava trasudare sangue.
-Non sento nulla- borbottava Nori –Non è una parete cava. Sembra non ci sia assolutamente nessun passaggio dall’altra parte, né tanto meno una serratura!
-Dwalin- la voce di Thorin era un barrito di cervo braccato –Butta giù questa maledetta porta. Abbiamo atteso abbastanza.
Il nano si fece avanti reggendo una delle sue gigantesche asce sulla testa. L’abbatté violentemente sulla parete e il contraccolpo fece tremare la terra. Nell’incontrare il duro granito l’acciaio produsse scintille, ma non scalfì di un millimetro la superficie. Con un grugnito Dwalin tornò all’attacco, roteò l’arma e colpì con ancora più forza. Non ottenne alcun risultato, e riprovò ancora, e ancora. Intanto il cielo diventava violetto, e dal violetto passava al blu. Elemmire era sconvolta: si rifiutava di credere che tutta quella strada, tutti quei pericoli affrontati, fossero stati vani, che la mappa, la chiave, la porta segreta fossero tutto una balla. Ma la sua incredulità era nulla in confronto a quella di Thorin. Il nano era terrorizzato. I suoi lineamenti di pietra erano deformati dalla paura, dallo sgomento. Iniziò a prendere a spallate la roccia con la forza di un giovane toro che carica.
-E’ inutile- gridò Balin, il viso corrucciato –E’ una parete di roccia, nulla più, state sprecando energia. Venite via, non c’è più nulla da fare.
Thorin continuava a tempestare la roccia di pugni muggendo e sbuffando.
Il sole tramontò. E Thorin Scudodiquercia si accasciò a terra, sconfitto.
Elemmire lottò contro la sensazione che si trattasse di un brutto sogno, di un’allucinazione. La testa le girava. Incrociò lo sguardo di Kili e lo vide pieno di rabbia e di lacrime. Si sedette con lentezza e si prese la testa tra le mani. Cosa sarebbe successo ora?
-Cosa abbiamo sbagliato?- singhiozzò Thorin, la faccia premuta contro la roccia –Abbiamo seguito la mappa, abbiamo seguito le rune… Elrond stesso le ha tradotte.
Thorin alzò la testa. Grandi lacrime di rabbia gli scorrevano nella corta barba, ma i suoi occhi lampeggiavano di un’ira terribile:-Ci ha ingannati, ecco cosa è successo. Che Guntera lo porti all’inferno, Elrond ci ha ingannati.
-No, invece- l’esile voce di Bilbo riuscì, chissà come, a soverchiare il ruggito del nano. Bilbo fissava la roccia con i suoi vispi occhi da hobbit. In quell’esatto istante una nuvola si spostò dal cielo. Il tramonto di brace sembrò riattizzarsi per un attimo, e un’ultima lingua di fuoco illuminò un preciso angolo della parete di granito. Nello stesso momento, la luna, piena e tonda, bianca, un occhio gigantesco, superò il picco più alto di Erebor. Il primo raggio della prima luna d’inverno confluì nell’ultimo raggio dell’ultimo sole d’autunno. E nella loro intersezione si formò un triangolo nero, troppo piccolo per essere un’ombra, troppo grande per un insetto. Un foro grande abbastanza perché una chiave vi entrasse. Un buco di serratura.
Ogni cosa trattenne il respiro. Thorin immerse la mano nella tasca del cappotto che portava sotto il mantello scarlatto e ne tirò fuori la chiave, quella chiave che mesi e mesi, ere prima, Elemmire aveva visto. Una chiave grande e grossa, squadrata, geometrica, di pesante ferro inciso. Con deferenza la poggiò delicatamente nel buco e la girò lentamente. Si udì uno schiocco secco, poi una fessura si aprì nella roccia, una fessura dritta e perfettamente verticale. Thorin vi infilò le mani e spinse. Fu un attimo, e dove prima era il pallido e solido granito ora si apriva una bocca buia. Uno spiraglio di luna vi fece capolino e illuminò una volta appena sbozzata e pareti levigate. La porta era stata aperta.
I nani chinarono il capo come in presenza di un reliquario. Fili e Kili si strinsero l’uno all’altro: sui loro visi si dipende uno stupore angelico, puro, assieme ad una quieta euforia. Le sopracciglia aggrottate, ma le bocche piegate in lievi sorrisi. Dwalin rimase come impietrito mentre accanto a lui Balin cercava di balbettare qualcosa. Sembrava però aver perso la facoltà di produrre suoni. Aprì e chiuse la bocca due volte, poi chinò il capo canuto, si accarezzo la biforcuta barba candida e scoppiò in singhiozzi irrefrenabili.
-Amico mio- Thorin gli si fece vicino e lo prese per le spalle. Le lacrime di rabbia sul suo volto si erano trasformate in lacrime di gioia. Balin fece un cenno con la mano, si asciugò gli occhi e guardò Thorin. Un sorriso distese i suoi rugosi lineamenti.
-Amico mio, cugino, fratello- Thorin abbracciò teneramente Balin, poi il suo sguardo vagò su ognuno, anche su Elemmire. Non proferì parola, ma come convocati dai silenziosi occhi grigi Fili, Kili e Dwalin gli si appressarono. Si riunirono tutti in un abbraccio, mentre il resto della compagnia osservava. Elemmire sentiva un groppo di commozione in gola.
La luna era alta nel cielo quando finalmente si decisero ad entrare. Balin piangeva ancora, in silenzio. Le grosse perle rimanevano impigliate nella barba prima di cadere a terra. Il passaggio segreto era stato scavato a misura di nano, così Elemmire dovette chinarsi per entrare. Thorin camminava lentamente strusciandosi contro i muri, accarezzandoli con le mani e gli occhi, come un amico che dopo molto tempo ne incontra un altro. Sussurrava a bassa voce parole in nanico.
-Conosco questi muri- parve ad Elemmire di udire. Fuori, nello spiazzo di roccia dove avevano lasciato i bagagli, il freddo andava aumentando, ma il passaggio e la roccia del tunnel erano tiepidi, come se dal centro della montagna si sprigionasse una sorta di calore. Occhi increduli e bocche spalancate, palpebre che sbattevano velocemente per impedire alle lacrime di cadere, mani piene di timore reverenziale che appena sfioravano il tunnel: ecco cosa fu l’entrata nella Montagna Solitaria, regno natale e diritto di nascita di Thorin Scudodiquercia. In quanto ad Elemmire, si accucciò all’ingresso, appoggiò la schiena sulla calda roccia e si strinse nel mantello. Con lo sguardo seguì la schiena di Kili e trasalì quando lui si girò verso di lei. Le tese la mano come ad invitarla a ballare. Elemmire rifiutò con un cenno di diniego e appoggiò la testa al muro. Le sembrava sacrilego unirsi alla sacra felicità di quel popolo appena rientrato nella terra promessa visto che non vi apparteneva.  Con il viso rivolto verso l’ingresso ammirò in silenzio il cielo notturno. Un piccolo uccello dal folto piumaggio scuro venne ad appoggiarsi all’entrata. Per un attimo i due occhietti, neri e mobili, la guardarono con curiosità e sagacia, poi la creaturina, probabilmente un tordo, piegò la testina, batté due volte il becco sulla roccia e si dileguò veloce com’era apparso. Elemmire seguì lo svolazzare delle piccole ali nella notte e un senso di tristezza le strinse il cuore.
-Torniamo fuori- la voce di Thorin era resa roca dalle lacrime e tremante dall’emozione –Passeremo un’ultima notte fuori per dare tempo a Bombur, Bifur e Ori di raggiungerci.
Una pietra fu collocata all’ingresso per impedire alla porta di chiudersi inesorabilmente.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Smaug ***


La mano di Kili era calda nella sua. Strano contrasto con la pietra dove erano adagiati, che invece gelava. Le dita del nano erano delicatamente intrecciate a quelle lunghe e affusolate di Elemmire, la loro pressione appena percettibile ma decisa. Due emozioni ben diverse impedivano ai due di addormentarsi: l’euforia da una parte, l’amore dall’altra.
-Un giorno tornerai qui, ad Erebor, e festeggerai con noi il capodanno. Sentirai i nostri canti e i suoni delle viole, dei flauti. Vedrai i fuochi d’artificio sopra il ghiacciaio.
Kili parlava e la sua voce era velluto. Elemmire cercò di chiudere gli occhi e di vedere attraverso quelli del nano.
-Le luci brilleranno sulla neve e sembreranno pietre preziose. Tutta la Montagna sarà scossa dai tamburi e dai pedi di centinai di nani che ballano al suono di decine di archi. Le donne saranno vestite di bianco e le loro trecce formeranno capelli sulle loro teste, gli uomini recheranno medaglioni e gioielli di argento e smeraldi. Le voci più belle del nostro reame faranno commuovere anche le pietre e risuoneranno fino alle volte più alte. I flauti saranno udibili fin dalla sponda. Migliaia di candele illumineranno le sale di pietra e faranno luccicare gli ori dei nostri padri. Montagne di dolci si allineeranno nelle stanze.
Elemmire poteva sentire sulla sua pelle il calore delle visioni. Rimase in silenzio e assaporò la chimera che scricchiolava come caramello sotto i denti.
-E poi- continuò Kili –Dall’alto del suo trono Thorin guarderà la festa. Farà collocare il cranio di Smaug sopra di lui, come monito. Alla sua destra siederanno sua moglie, i suoi figli, i suoi nipoti; alla sua sinistra io e Fili con le nostre spose e i nostri figli. E nostra madre. Lei siederà con noi. Perfino gli elfi silvani verranno a recarci omaggio, come ai tempi d’oro di nonno Thror.
-Vi sposerete presto, tu e Fili?
Kili esitò. Il suo viso rimase impassibile, e così il suo petto. Trattenne il respiro.
-La nostra legge non prescrive che per forza il maggiore debba essere il primo dei fratelli ad ammogliarsi. Tuttavia, è consigliabile, poiché non siamo una razza particolarmente fertile anche se longeva. I nostri semi non attecchiscono facilmente nei ventri delle nostre spose, perciò è preferibile sposarsi il prima possibile. Appena si trova una compagna affidabile, quanto meno.
Un leggero dolore pizzicò il cuore di Elemmire. Un’immagine sfocata di Kili che teneva in braccio un bambino e una donna dei nani che sorrideva ad entrambi le sfiorò la mente.
Illusa, si gridò in silenzio, è questo il suo destino da cui non potrai mai strapparlo: diventare principe e generare eredi per il suo popolo.
-Ti va di alzarci? Da qui non si vedono bene le stelle- Kili si sollevò a sedere ed Elemmire lo seguì mestamente.
-Non hai sonno?
-Potrei secondo te dormire dopo aver visto quella porta aperta? Perché, tu hai sonno?
Elemmire scosse la testa. Kili si sedette sul bordo estremo del balcone di pietra e lei si gli accomodò accanto. Effettivamente, da quel punto le stelle erano particolarmente visibili. La luna era scesa verso il lago e la sua luce si era ritirata sull’orizzonte. Gli astri erano tornati visibili nel loro splendore. Elemmire contemplò di soppiatto il viso di Kili, alzato e teso verso il cielo. Il nano fece scivolare la sua mano fino a ricoprire quella di Elemmire e ancora intrecciarono le mani. Era un modo tutto particolare di comunicare senza proferire parola, come se quel contatto permettesse loro di scambiarsi idee e pensieri. Non anche emozioni, pregò Elemmire. Il suo cuore innamorato galoppava nelle praterie del suo petto.
-Cosa farai quando diventerai principe?
Kili ridacchiò:-Caccerò, banchetterò, mi allenerò alle armi e rincorrerò belle donne a spese di mio zio il re. Fili sarà fatto ambasciatore e duca, e probabilmente passerà più tempo in viaggio che non a casa. Io, in quanto figlio cadetto, avrò a mia disposizione la libertà di un uomo comune e i mezzi economici di un reale.
-E’ un programma ambizioso- commentò Elemmire, e scosse la testa.
-Tu cosa farai tornata a casa?
-Continuerò i mei studi. Non ho progetti precisi.
-Verrai a trovarmi di tanto in tanto?
Elemmire sorrise:-Come giovane principe scapestrato avrai molto tempo libero. Potresti impiegarlo per viaggiare e visitare il reame degli uomini.
Kili strinse più forte la mano:-Lo farò, promesso.
Elemmire immaginò il giovane principe Kili, vestito di sete e broccati, chiedere ovunque di lei senza trovarla da nessuna parte, perché per quella terra non era mai esistita. Ricacciò indietro le lacrime e si ordinò di non pensarci. Alla fine si addormentò con la testa reclinata sulla spalla di Kili. L’ultima cosa che vide nel dormiveglia fu un movimento dietro di lei. Girò la testa e per un istante le parve che due occhi granitici, grigi e spalancati la stessero fissando, ma fu solo un attimo.
Il mattino dopo si risvegliò adagiata a terra, una coperta avvolta attorno al suo corpo e un’altra arrotolata a farle da guanciale. Profonde voci parlavano concitatamente tra loro in una lingua che il suo cervello intorpidito non riusciva a comprendere. Alzò la testa e strizzando gli occhi si guardò attorno: i nani rimasti indietro erano arrivati, e già Bombur aveva acceso un vivace fuoco e vi aveva posto uno spiedo su cui arrostiva una lepre. Dopo innumerevoli pasti a base di zuppe sciapite, pane secco e carne sotto sale il profumo dell’arrosto le fece venire le lacrime agli occhi. Si stiracchiò al tiepido sole invernale, si pettinò i lunghi capelli neri con le dita e si alzò. I nani erano riuniti attorno al fuoco e conversavano nella loro lingua madre. Elemmire si sedette accanto a Fili e ascoltò in silenzio i duri suoni gutturali. Nell’alzare la testa incontrò lo sguardo di Thorin, fisso esattamente su di lei. Per un istante le sembrò di aver visto quegli stessi occhi scrutarla nelle tenebre della notte, ma fu solo un’impressione. Il re dei nani continuò a fissarla con i suoi profondi e penetranti occhi grigi. Ad Elemmire sembrò un predatore che avesse puntato la preda e la scarnificasse con lo sguardo in attesa di farlo con le zanne. Avvampò e abbassò in fretta gli occhi, come chi guarda troppo a lungo il sole. Si chiese cosa significasse tutto quello; ma quando ebbe di nuovo il coraggio di guardare Thorin, egli stava chiacchierando in tranquillità con Balin e sembrava si fosse dimenticato di lei. Mangiarono l’arrosto ridendo e parlando ad alta voce nella lingua comune, a beneficio di Elemmire e di Bilbo. Fili e Kili erano di un’allegria a dir poco contagiosa, le labbra ricoperte di commenti spiritosi e grasso di lepre. L’affinità che c’era tra loro era un piacere per gli occhi. Elemmire si limitò sempre a sorridere in silenzio. Mangiò poco perché la fame sembrava essere scomparsa appena si era seduta attorno al falò. L’arrosto di lepre fu l’unico pasto della giornata, dopo di che di nuovo tutti gli sguardi furono rivolti alla porta nella Montagna, tenuta aperta da un grosso masso. Una fessura nera nel cuore della roccia grigia che sembrava guardarli e sussurrare loro: entrate, se osate. Osarono. Raccolsero i bagagli, le bisacce e le armi e in fila entrarono. Bombur, l’ultimo, rimise al suo posto la pietra in modo che uno spiraglio di sole illuminasse il corridoio buio. Tuttavia fu subito chiaro che era superfluo: il corridoio segreto proseguiva in discesa, e in fondo brillava la luce, pallida ma inconfondibile. –Nelle sale inferiori ci sono finestre praticate nella roccia che lasciano entrare la luce naturale e l’aria di cui abbiamo bisogno- spiegò Thorin indicando la fine del corridoio. Elemmire, che era costretta a camminare china per non sbattere contro il soffitto, si accorse che il corridoio andava allargandosi e alzandosi e si sgranchì la schiena. Thorin li fece fermare nella penombra. Solo una curva li superava dalla fine del cunicolo.
-Da qui in poi uno solo di noi proseguirà. Superata questa curva, saremo vicini alla Sala del Tesoro di Erebor dove riposa la Bestia. Egli è ben avvezzo all’odore dei nani e degli uomini, mentre quello degli hobbit gli è sconosciuto.
Gli occhi di granito si fissarono su Bilbo. Il piccolo hobbit si fece avanti risoluto. Teneva alta la testa ricciuta e il viso dal naso all’insù e dalle gote piene, seppur pallido, era serio e concentrato.
-Eccomi- disse, e ingoiò.
-Balin, rimani qui e dai indicazioni al signor Baggins. Voi altri con me- Thorin voltò le spalle in uno svolazzo del mantello rosso e risalì il corridoio. Solo Balin rimase al suo posto, l’espressione cupa e corrucciata; Bofur esitò un attimo, batté una pacca sulla spalla di Bilbo e si accodò al gruppo.
Così trascorse il loro primo giorno nella Montagna Solitaria: aspettando. Seduti nella penombra, i nani fumavano le loro pipe, Elemmire sbadigliava e tendeva l’orecchio. Una specie di malinconia gravava sulle loro teste. Il più cupo di tutti era Balin. Teneva lo sguardo basso e pensoso e si accarezzava la barba bianca. Anche Thorin sembrava nervoso e di cattivo umore. Più silenzioso e granitico del solito camminava avanti e indietro come una pantera in gabbia.
-Cosa c’è?- si rivolse con tono burbero a Balin. Il vecchio nano alzò lentamente lo sguardo e i suoi occhi scuri sembrarono umidi di lacrime.
-Non ho detto nulla, cugino.
-Hai detto anche troppo, Balin. Il tuo comportamento è stato piuttosto eloquente, tuo malgrado- un celato sarcasmo rendeva affilate come rasoi le parole di Thorin. Istintivamente, ogni nano si strinse di più alla parete e fece nobilmente finta di pensare ai fatti propri.
-Non ti nascondo che ritengo tu abbia fatto un grave errore. Sai che sei come un fratello per me.
-Ebbene, quale errore?- Thorin si fermò a gambe divaricate e fissò severamente il suo interlocutore.
-Ti sei sopravvalutato, caro cugino. Hai pensato di essere più forte dei tuoi predecessori. Credi che io non abbia visto quanto più cupo si sia fatto il tuo viso da quando siamo approdati qui? L’ombra della Montagna, ecco cosa vedo nei tuoi occhi. Forse mi credi così vecchio da non riuscire più a leggere il tuo cuore? La brama di quel gioiello ti consuma tutto. Non mangi, non dormi, non hai requie. Il sol pensiero di essere vicino alla sua conquista ti sta cambiando, Thorin.
-Non essere ridicolo- la voce tonante del nano fece tremare Elemmire –Ti cosa diavolo stai parlando, per la corona di Durin?
L’aggressività di Thorin, invece che spaventare Balin, sembrò infondergli maggior sicurezza. Il vecchio nano alzò fieramente la testa e la sua voce, prima malinconica e triste, divenne vibrante e decisa:-Non dirmi che non ti sei accorto anche tu di tutto questo. Non dirmi che nel tuo animo non senti rimorso per quello che hai appena fatto. Stai sacrificando la vita di un altro per recuperare quello che ti spetta di diritto. Non ti importa di come otterrai l’Arkengemma, ma solo di ottenerla. Non hai nemmeno sprecato fiato per dare tu stesso indicazioni a Bilbo. Il Thorin con cui sono cresciuto non solo si sarebbe fermato a confortarlo e ad incoraggiarlo, ma sarebbe sceso assieme a lui! Avrebbe rischiato la sua stessa pelle pur di non macchiare la sua strada di sangue innocente. Ma tu, oh, tu ti sei approfittato del coraggio e dell’obbedienza di un altro essere, del suo altruismo, per nasconderti, perché volevi essere certo di ricevere il potere da vivo, e non da morto.
Il discorso di Balin sembrò fare un qualche effetto. Thorin digrignò i denti come un orso i cui fianchi vengano dilaniati da una muta di cagne da caccia. Annaspò in cerca di aria e poi con la voce ridotta ad un roco respiro disse:-Non posso rischiare l’esito di un’intera missione per la vita di un solo hobbit.
-Il nome di quell’hobbit è Bilbo Baggins- gli occhi di Balin si accesero di una fiamma ardente e terribile –E gli sei debitore della vita non una, ma molte volte.
Poi, come era comparsa, la fiamma si spense con la tristezza di un fuoco consumato da una lunga pioggia di cui rimanga solo cenere. Ma così non fu per Thorin. Mentre Balin abbassava di nuovo la testa e riprendeva a meditare, il re dei nani girò attorno a sé uno sguardo disperato, quello di un marinaio che sta per affogare.
D’un tratto la terra tremò. La violenza della scossa fu tale che grosse pietre si staccarono dal soffitto e piovvero su di loro. Elemmire si rannicchiò a terra e si coprì la testa con le braccia. Un ricordo affiorò in lei: il tuono che l’aveva catapultata nella Terra di Mezzo. Terrorizzata, si aggrappò con la mano alla veste di Fili che le era vicino e stette attenta a non perdere la presa. La scossa cessò e si udì un boato provenire dalle profondità della Montagna.
-Un terremoto- pigolò Ori.
-Oh no, ragazzo, quello non era un terremoto- Balin guardò Thorin con un misto di accusa e rabbia.
Il nano era caduto a terra: si rialzò, sguainò la spada e con un ultimo sguardo spiritato corse giù per il tunnel.
-Zio- Kili e Fili si aiutarono a vicenda e inciampando tra i sassi lo seguirono. Elemmire fece lo stesso. I loro passi risuonarono sulla pietra. Kili aveva imbracciato l’arco, Fili l’ascia. Elemmire rimase indecisa, poi sguainò Nen Girith. Una luce fortissima li investì, assieme ad una vampata di calore. Elemmire sentì le gambe tremarle, ma appoggiandosi al muro avanzò dietro ai tre nani.
Il primo sguardo che Elemmire diede ad Erebor la lasciò, malgrado la situazione, senza fiato.
Il cunicolo finiva in una larga porta sostenuta da un arco a tutto sesto e in un ballatoio di pietra. I resti di una ringhiera spuntavano aggrovigliati e accartocciati dal bordo come denti di una creatura mostruosa o scheletriche dita di avorio fuso e annerito. Due scalinate si dipartivano dal piano di pietra: una saliva e una scendeva. Seguendo la scalinata di destra con lo sguardo, Elemmire si trovò nell’impossibilità di scorgere il soffitto della stanza cui si affacciava. Era altissimo, molte volte quello di una cattedrale, e coperto da uno spesso strato di oscurità. Centinaia di finestre lunghe e strette erano sistemate ad un’altezza considerevole sui lati della sala e il sole vi si riversava attraverso creando lame di luce che si incrociavano in aria. Il risultato era una corolla di raggi tutta sotto la volta nera e impenetrabile, una rete di luce squarciata dai monumentali pilastri di sostegno, il cui diametro doveva misurare almeno quindici metri. Sarebbe bastato questo gioco di luci ed ombre, la polvere che danzava in vortici dorati, la grandezza malinconica di quelle strutture semplici e megalitiche annerite dal fumo a togliere il respiro ad uno spettatore; ma la scalinata di sinistra conduceva al fondo della sala. In un primo momento Elemmire credette che vi fosse radunato un esercito: tanto la colpirono lo scintillio, il movimento, il clangore. Poi si avvide che erano monete. D’oro la maggior parte, d’argento e bronzo alcune, formavano dune che avrebbero sommerso una villa di due piani e tra il magnetico luccichio del metallo si intravedevano pietre preziose: smeraldi puri come acqua di fonte, zaffiri stellati dalle sfumature rosate, rubini rossi come sangue appena stillato, diamanti che potevano competere in lucentezza con le stelle del cielo, quarzi di ogni colore e forma, ametiste di un viola talmente profondo che catturava lo sguardo e lo teneva legato. Alle pareti erano appese armature complete di ogni forma e dimensione, e ancora armi, strumenti musicali, oggetti di uso quotidiano del più squisito argento, servizi da tavola d’oro massiccio incrostati di gemme . Tutto questo tesoro, questi gioielli, i testimoni del gusto e dell’arte dei nani si estendevano fino a perdita d’occhio in tutta la sala, intervallati solo dai grandi pilastri. Si pensi ad un mare, un mare tutto d’oro: l’acqua è oro, la cresta delle onde i diamanti, gli spruzzi il lontano bagliore di quelle meraviglie appese nell’oscurità e quasi sospese nel vuoto, i pesci multicolori che nuotano al sole quel rifulgere di pietre e gemme. Si immagini ora sopra questo mare, prezioso come nient’altro al mondo, un cielo temporalesco, nero di fuliggine e buio, e da queste nubi di oblio e decadenza il sole del meriggio che si fa vedere a sprazzi, appena quel poco per far risaltare lo spettacolo del tesoro. Ecco, molto simile fu la visione che Elemmire ebbe della Sala del Tesoro di Erebor. Si fermò e così fece il suo respiro. Il suo sguardo abbracciò ogni cosa assieme nel giro di una frazione di secondo e la sua testa iniziò a girare per la vertigine. Anche i nani si erano fermati. Kili e Fili si appoggiarono allo stipite della porta, mentre Thorin si avvicinò fino alla balaustra fusa. Il suo respiro era roco ed affannoso, lo sguardo allucinato percorreva quelle montagne e vallate di tesori con bramosia ma senza soffermarsi su nessun particolare. Cercava qualcosa. Ed Elemmire, cessato lo stupore iniziale, iniziò a ricucire i nodi del suo pensiero. La paura la prese di nuovo, amplificata dallo spettacolo che aveva sotto gli occhi. Era appena entrata nella dimora di Smaug, e la Bestia sembrava ben viva e vegeta. Si chiese cosa ne fosse stato di Bilbo Baggins, e da dove provenisse il clangore che sentiva. Era come se qualcuno stesse correndo sulle monete. D’un tratto una piccola figura comparve dietro un pilastro. Era infagottata in una vestaglia blu dai ricami argentati, troppo grande per lei, i cui bordi erano bruciacchiati e fumanti. Il piccolo hobbit divorò di corsa i metri che lo separavano dalla scalinata e la salì quasi carponi per andare più veloce.
-Bilbo- urlò Fili. Scese alcuni gradini e tese la mano allo hobbit che l’afferrò saldamente e si lasciò trascinare sul ballatoio di pietra.
-Sei vivo- Thorin sembrava sorpreso e sollevato assieme.
-Non ancora per molto. Il drago- annaspò Bilbo boccheggiando –Lui è…
-L’hai trovata?- Thorin si fece avanti. La luce dei suoi occhi lo rendeva spaventoso. La spada ancora sguainata lanciava bagliori lunari.
-Non c’è tempo, dobbiamo andare via di qui- Bilbo si avviò verso la porta. E incontrò la lama di Thorin.
Il nano appoggiò la spada di traverso sulla porta e quando Bilbo si fermò, sgomento, la fece scivolare sotto la gola dello hobbit. Elemmire iniziò a tremare.
-Zio- Kili fece due passi in avanti, ma il fratello lo fermò con il braccio. Aveva un’espressione terrorizzata. Thorin socchiuse gli occhi come fa una lince nel ruggire e ripeté, la voce bassa e terribile:-L’Arkengemma. L’hai trovata?
-Thorin- Bilbo tratteneva il respiro, ma il suo sguardo non era rivolto alla spada sotto la sua gola. Guardava il nano negli occhi e sembrava profondamento ferito.
-L’Arkengemma- Thorin puntò la spada sul petto di Bilbo e lentamente ma inesorabilmente lo spinse di nuovo lungo le scale, gradino dopo gradino. Il messaggio era chiarissimo. Appena Thorin voltò le spalle Kili si liberò della presa di Fili e si gettò verso lo zio. Qualcosa però lo fece fermare, come impietrito, sul primo gradino della scala. Bilbo guardò prima Kili, poi Thorin, infine con l’aria di chi fa uno sforzo disumano girò il collo e guardò un punto alle sue spalle. A questo punto anche Thorin e Fili si concentrarono su una delle poderose arcate della sala, in lontananza sulla sinistra. Elemmire li vide abbassare lentamente le armi. Con il cuore in gola socchiuse gli occhi per mettere a fuoco. Ci fu un rumore di monete smosse da qualcosa di grande, di gigantesco, e poi una massa scura occupò tutta l’arcata. E le due successive.
Questo fu troppo per le gambe di Elemmire. Scivolò a terra in ginocchio.
Smaug alzò la testa. I raggi obliqui del sole fecero brillare le squame rosse incrostate di polvere dorata del grane muso affilato. Una cresta di appuntite formazioni cornee circondava tutta la testa e passava sotto la gola dandogli l’aspetto di un dinosauro crestato. Ai lati della testa si accendevano due occhi rossi e malvagi attraversati da una sottile pupilla scura come quella dei gatti o dei serpenti. Le narici frementi annusarono l’aria e la bocca smisurata si aprì in un ghigno mostrando zanne lunghe quanto il braccio di un uomo. La bestia si appiattì a terra, poi rizzò il lungo collo affusolato e ricurvo e scattò in avanti. Il poderoso movimento era sostenuto dalla forza degli arti anteriori che artigliavano il diseguale e ingannevole suolo di monete con una forza che avrebbe sradicato una montagna. La membrana delle ali pendeva molle e raggrinzita. Smaug sollevò il petto e un bagliore rosseggiante fece intravedere la fornace che ribolliva sotto le squame incrostate di pietre preziose e tesori. Una voce che era un immane boato, il rumore di un tuono e di una frana, fece tremare le pareti.
-Brucerete- ringhiò il drago gonfiando i polmoni. Fiammelle danzarono sulla lingua biforcuta e sfiorarono le zanne ricurve.
Tante cose accaddero nello stesso momento. Bilbo e Thorin quasi camminarono l’uno sull’altro nel tentativo di raggiungere la piattaforma di pietra e di nuovo il tunnel, Fili si gettò a fare da scudo con il suo corpo allo zio materno e Kili fece la stessa cosa con Elemmire. Il nano la spinse senza tante cerimonie contro il muro e la tenne al sicuro della sua persona. Elemmire sentiva il respiro caldo e accelerato del nano sul viso. Contemporaneamente, tutta la compagnia si precipitò correndo fuori dalla porta, le armi spianate e un grido di battaglia in gola. Grido che diventò ben presto di paura e di allarme. Elemmire sentì la mano di Kili stringersi attorno alla sua, poi una luce accecante e rosseggiante riempì il suo campo visivo. Sentì un calore improvviso e la sensazione di precipitare nel vuoto quando il terreno le manco da sotto i piedi con una scossa violenta.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** fuoco e bagliori ***


Era come quando era precipitata nella galleria dei goblins. Certo il ricordo non le si affacciò alla mente, ma provò la stessa sensazione di volare nel vuoto con ombre e luci davanti allo sguardo.
Atterrò sulle mani e rotolò nel mare di monete d’oro. Kili l’aiutò a tirarsi in ginocchio e le fornì l’appoggio per mettersi in piedi. Sulle loro teste esplose una pioggia di fiamme rosse e gialle che andò per un istante ad illuminare il soffitto a volta. Ai piedi della scala da cui si erano appena buttati c’era un’apertura a misura di nano. Elemmire si piegò in due per passare sotto la porta intagliata. Thorin fu l’ultimo ad entrare con urlo di dolore. Una fiammata gli aveva carbonizzato le punte dei capelli e il suo mantello scarlatto era in fiamme. Il nano si rotolò a terra per spegnerlo e si disfò del mozzicone ancora fumante. Quasi in contemporaneo la luce folle che aveva avuto negli occhi per tutto il giorno lasciò di nuovo il posto alla freddezza glaciale e alla composta sicurezza. La sua armatura di mithril scintillava sotto la tunica. Si rialzò e senza una parola li guidò nel dedalo di ponti, arcate e corridoi che era il piano inferiore di Erebor. Inferiore perché alzando lo sguardo Elemmire vide ovunque attorno e sopra di lei, avvolti da solitari raggi di luce e nubi di polvere, architetture sospese o sostenute da pilastri di granito che collegavano migliaia di porte nelle pareti rocciose. Era come entrare in un termitaio per scoprire che dentro v’è più aria che terra. I nani sembravano aver conservato solo lo scheletro della montagna, e su di quello aver costruito la loro città palazzo. Balconi, facciate, strade, tutto avvolto da oscurità e cenere. La compagnia correva e correva anche Elemmire.
-Ladri, ladri- i freddi e giganteschi ambienti riportavano l’eco della tenebrosa voce del drago –Correte, correte per le vostre vite.
-Dividiamoci. Ci incontriamo alle fucine- urlò Thorin giunti ad una biforcazione. Gloin e Oin si affrettarono ad obbedire senza fare domande, e così fu alla seguente. Elemmire rimase alle costole di Kili e Fili finché i due, guidati da Balin, non svoltarono giù per una ripida scala diroccata. Thorin e Dwalin, gli unici rimasti, proseguirono dritti. Balin li fece appostare su un pontile sospeso molto in basso. –Non fiatate e rimanete nascosti- sussurrò loro.
Molto in alto, sopra le loro teste, Elemmire udì la voce di Smaug ghignare:-Non c’è nascondiglio per voi qui.
Si arrischiò a sporgersi per guardare e il sangue le si ghiacciò nelle vene.  La bestia aveva intercettato Dwalin e Thorin. D’un tratto tutta la montagna risuonò dell’eco di voci che gridavano. Coppie o gruppi di nani comparivano su ogni davanzale, su ogni scalinata urlando e sbracciandosi. Sembravano essere ovunque. Stavano sfruttando la sonorità dell’ambiente per confondere il grande drago. Smaug si guardò attorno, sibilò di frustrazione, provò due affondi in due direzioni diverse, poi individuò i tre fratelli Dori, Ori e Nori che correvano sotto il suo muso e si gettò su di loro a fauci spalancate. Fu allora che Balin si spinse allo scoperto e attirò l’attenzione del mostro. I due occhi rossi fissarono il loro spaurito gruppetto e fulminea la testa scattò verso il basso. Elemmire rimase impietrita dalla paura. Ci volle tutta la forza di Fili per smuoverla dal punto dove si era immobilizzata. Il nano la spinse violentemente in avanti:-Il panorama lo guardiamo dopo, che dici Elemmire?
Dove un secondo prima erano loro un secondo dopo si abbatté la zampa del drago. Gli artigli graffiarono la pietra. Corsero a perdifiato lungo un ponticello e con sgomento Elemmire vide i nani infilarsi in un cunicolo il cui suolo era ricoperto di monete dorate. Esitò per un attimo, poi si gettò sulla pancia e iniziò a strisciare. Il cunicolo era così basso che i nani stessi erano costretti a procedere carponi. In pochi istanti Elemmire rimase indietro. Non sarebbe stato tanto terribile se dietro di sé Elemmire non avesse sentito un ruggito tale da spaccarle i timpani e, di seguito, un rumore crepitante. Una luce rossa illuminò il cunicolo. Sotto il suo ventre le monete divennero bollenti. Con terrore Elemmire si rese conto che stava per essere bollita viva in quella maledetta fessura di pietra. Si affrettò a strisciare. Un altro rumore crepitante alle sue spalle, e le monete divennero così ardenti che la costrinsero a fermarsi. Non riusciva più a toccarle con le dita e le sentiva bruciare sotto tutto il corpo. Cercò di girarsi, ma sbatté contro il bassissimo soffitto e rischiò di rimanere incastrata. Il panico e le lacrime di dolore le bloccarono il respiro. Piangendo e singhiozzando si costrinse a riprendere il cammino sul suolo ormai rovente. Le monete affondavano e piagavano le sue braccia, le bruciavano i vestiti ma Elemmire, spinta dal terrore, non si fermò. Quasi non sentiva più il dolore. Il rumore crepitante si ripeté una terza volta. Stavolta una fiammata inondò il cunicolo. In un ultimo guizzo disperato Elemmire si buttò in avanti. E per la seconda volta nella giornata il terreno le mancò da sotto i piedi e precipitò nel vuoto. L’aria fresca le sferzò il viso. Rotolò su qualcosa di duro e polveroso, sentì del metallo scalfirle la pelle e le scottature e con un tonfo atterrò sulla nuda pietra.
-Alzati. Alzati avanti- Kili, ancora una volta, le fece da sostegno –Sei ferita?
-Non è nulla- Elemmire si guardò le braccia, le mani, il petto e le gambe: le monete arroventate avevano creato buchi neri nelle sue vesti da cui si vedevano sprazzi di pelle arrossata. Sulle mani invece si aprivano piaghe violacee e gonfie. Il dolore si fece tutto d’un tratto insopportabile, come se del fuoco vivo le bruciasse sotto la pelle.
-Devo trattare queste ustioni- rantolò asciugandosi le lacrime.
-Non abbiamo tempo- disse Thorin.
-Ne abbiamo- lo contraddisse Kili.
-Non ci metterò molto- concluse Elemmire chinando la testa per nascondere l’assurdo piacere che provava nel vedersi difesa dal nano –Dici che Oin ha sempre con sé il suo erbario, vero?
-Sì, porta sempre nella sua bisaccia alcune piante medicinali.
-Pensi che le abbia lasciate nel passaggio segreto?
-Possiamo tentare.
Alla spicciolata ogni nano accorse da corridoi diversi. Quando anche Oin arrivò, Elemmire gli fece esaminare le ustioni.
-Abbasta gravi, anche se non molto estese. E’ un miracolo che non ti abbiano bruciato i nervi, o sarebbero state irrimediabili. Kili, figliolo, tienile ferme le braccia.
Oin si frugò nelle tasche del pastrano e ne cavò una boccetta. Elemmire si sentì impallidire.
-Farà un po’ male, ragazza.
Il dolore le rinnovò le lacrime e dai denti serrati le sfuggì un mugolio. Sembrava che denti di fuoco le stessero maciullando la carne. Con un pezzo di tunica imbevuto Oin medicò anche le ustioni lungo il corpo, poi le applicò sulle piaghe degli impacchi freddi di malva e menta:-Ti daranno un po’ di sollievo.
Elemmire si impose di non appoggiarsi a Kili.
-Ci sono altri feriti?- chiese Oin sventolando la fiaschetta avanti e indietro. Nessuno fiatò.
-Bene, di qua- Thorin gli diede a malapena il tempo di richiudere la bisaccia.
Ma appena fecero pochi passi nella semioscurità, incespicarono in qualcosa. Si udì un rumore raccapricciante, come di tessuti lacerati e pietre tintinnanti. Elemmire strizzò gli occhi e intravide delle forme bianche sul pavimento della stanza. Mise a fuoco.
Un telone di ragnatele, così fitte che la sua spada vi sarebbe rimasta incagliata, copriva il fondo della sala. E sotto la bianca coperta riposavano decine di scheletri. La pelle era rimasta grottescamente appiccicata ai teschi scarnificati e congelati in mute grida di aiuto. Capigliature folte e barbe mostravano ancora i loro colori, le vesti intrise di polvere non presentavano tracce di muffa. Erano mummie. Solo la carne mancava loro. Ed Elemmire ebbe come l’impressione che non fossero stati i ragni a mangiarla. Né qualunque altro essere. Agghiacciò.
-Gli ultimi superstiti del nostro clan- Balin chinò tristemente il capo.
-Devono essersi rifugiati qui in cerca di riparo dal fuoco, ma li ha trovati la fame- Thorin li guardò pieno di pietà –Guarda, hanno ancora la pelle addosso. Sono morti di fame.
-Chissà, magari tuo fratello potrebbe essere uno di loro- sospirò Balin. Gli occhi di Thorin si annebbiarono di lacrime. Scosse la testa con lentezza:-No Balin. Ho visto Frerin bruciare con i miei occhi. Passiamo oltre. Non profanate i corpi.
Attenti a non calpestare nessuna di quelle ossa mummificate, passarono oltre.
Si trovarono in un corridoio alto perfino per un umano nei cui fianchi si aprivano tante porte, la maggior parte ostruite da massi. Camminarono cercando di non fare rumore, gli occhi di Balin e Thorin che scrutavano l’oscurità alla ricerca di un passaggio. D’un tratto Balin sussurrò:-Eccolo. Lo riconosco, per di qua.
Il corridoio finiva in una voragine dove il pavimento era del tutto franato. Poco prima del baratro c’era un’entrata seminascosta da un cornicione che vi era caduto davanti. I nani vi si infilarono uno ad uno, ma Thorin andò avanti quasi senza guardare.
-Zio, dove stai andando?- Kili e Fili si rifiutarono di entrare nel pertugio e Fili raggiunse il nano.
-Ascolta Fili, devi seguire Balin. Rimani al sicuro- gli occhi di Thorin erano dolci e imploranti –Io devo cercare…
Un ringhio echeggiò fino alla volta del corridoio. Smaug li aveva fiutati. Elemmire si accucciò sotto il cornicione franato e così fecero Kili e Fili. In quanto a Thorin, si girò troppo tardi. Dal suo nascondiglio Elemmire vide gli occhi del nano dilatarsi. Rivolse un ultimo sguardo ai due nipoti, poi girò le spalle e si buttò nell’abisso con un grido che era un ruggito. Una fiammata gialla e arancio lo inseguì. Elemmire si rannicchiò tutta su se stessa e nonostante ciò sentì la vampata di calore investirle il viso. Quando alzò di nuovo lo sguardo, Smaug si era tuffato nella voragine assieme al nano e di lui era visibile solo il dorso ricoperto di spuntoni e la lunga coda a pennacchio. Elemmire si chiese se la memoria del drago fosse tanto ferrea da ricordare ancora l’aspetto e l’odore di quello che all’epoca era un giovane principe dei nani, o se avesse solo seguito l’unica forma in movimento. Dwalin e Nori spuntarono dalla galleria in cui si erano infilati. –Entrate dentro, subito, mettetevi al riparo- ordinò il burbero luogotenente, poi impugnò le sue gigantesche asce da combattimento e si gettò verso il baratro seguito dal nano che una volta era stato un ladro.
Elemmire, Fili e Kili ubbidirono. Udirono urla, clangori metallici e ruggiti, poi i due nani entrarono nella galleria recando a braccia Thorin, le cui vesti erano ancora più bruciacchiate di prima.
Kili e Fili si gettarono sullo zio e lo abbracciarono.
-Andiamo, andiamo, non perdiamo tempo!
Ripresero la folle corsa nelle viscere della Montagna.
Improvvisamente, dalla penombra emersero dei pilastrini. La compagnia si fermò di colpo e gli occhi di Thorin brillarono.
I pilastrini componevano un cancello alto una decina di metri che in larghezza occupava tutta l’entrata di una specie di enorme grotta nello stomaco di Erebor. Oltre, erano visibili delle grandi forme cilindriche. Il sole al tramonto filtrava dalle alte e strette finestrelle e deponeva scintille di rame su una fitta rete di cavi e impalcature.
-Le fornaci- sussurrò Thorin con gioia.
Gli spazi tra le sbarre del cancello erano ampi abbastanza da consentire ad un nano della stazza di Bombur di passarci agevolmente attraverso; Elemmire poi vi sgusciò dentro come un’anguilla.
Una volta entrata si fermò a riprendere fiato dalla paura e dalla fatica della marcia. Le doleva la schiena per essere stata così tanto china.
-Dobbiamo rimettere in funzione la fonderia- ordinò Thorin preda di un’agitazione febbrile.
-E’ tutto freddo come la pietra, parola mia, o che mi possa mangiare la barba. Dove lo troviamo fuoco sufficiente a riaccendere tutto?- il burbero Gloin borbottava tra i denti a voce abbastanza alta perché Thorin potesse comprenderlo senza sforzo.
Lasciando vagare lo sguardo, Elemmire vide che l’ambiente era vastissimo e tutto pieno di strane strutture. Sembrava che un gigante si fosse dimenticato indietro i suoi attrezzi da lavoro. Le fonderie erano simili a enormi funghi collegati da travicelli di metallo. Sopra di loro una doppia catena teneva sospesi dei recipienti di ferro annerito.
Thorin rimase per un attimo perplesso, poi un sorriso lo illuminò. I suoi occhi grigi si accesero di malizia e una luce un po’ spettrale e un po’ divina gli invase il volto facendolo risplendere. Il re dei nani si girò verso il cancello e vi si aggrappò con le mani e i piedi. Le sue vesti bruciate, le chiome nere e argentate che ondeggiavano sulle spalle, il colorito pallido lo facevano assomigliare ad uno spirito dalla prematura dipartita.
-Se avessi saputo che era così facile trarti in inganno sarei venuto molto prima, rettile!- la potente voce del nano risuonò per stanze e corridoi. Nel giro di pochi secondi, un sordo gorgoglio e un ringhio gli risposero. Prima una zampa artigliata, poi un’altra, infine tutta la testa e la presenza del grande Smaug si appostarono davanti al cancello. Elemmire, per istinto, si appoggiò ad uno dei pilastri della cancellata: erano tanto larghi da coprirle del tutto la schiena. Il drago era enorme. Nella sua bocca sarebbe stato comodo un uomo adulto in piedi. Quegli occhi rossi e maligni fissavano Thorin con odio e cattiveria, mentre sotto le squame si avvertiva il ribollire della lava.
-Cosa diavolo sta facendo quel pazzo?- Kili imprecò tra i denti e incoccò una freccia. L’asta di legno dal sottile impennaggio e dalla punta di spillo sembrava un filo d’erba in mano ad un bambino confrontata con la mole del drago.
-Ti dico io cosa succede: sei diventata vecchia e grassa- Thorin sorrise con una specie di ghigno e mostrò una dentatura bianca come quella di un levriero da caccia –Lumaca.
Con una specie di lentezza rituale, Thorin si girò verso di loro. Le sue labbra si mossero come al rallentatore:-Al riparo- sussurrò.
In una frazione di secondo, ogni nano si riparò dietro un pilastro del cancello, poi intorno a loro si scatenò l’inferno. Lingue di fuoco li circondarono; spirali di fiamme si univano a due passi dai loro visi; fiammeggianti vortici, scintille e vapori bollenti fecero tremolare ogni cosa. Elemmire urlò in preda al panico e chiuse gli occhi. L’oscurità prese il posto della luce violenta, anche se dietro le sue palpebre continuavano a danzare puntini gialli, e una zaffata di zolfo quasi le fece rigirare lo stomaco. Davanti a lei udì un ruggito e un crepitio: spalancò gli occhi.
Quelli che le erano sembrati funghi, si rese conto, non erano le fonderie, ma i contenitori poggiati sopra di esse. Quattro impalcature di acciaio e ferro massiccio costituivano fornelli alti tre volte lei e larghi cinque, di forma circolare. Sopra, enormi crogiuoli avvolti ora da nubi nere. La stanza risplendette come illuminata dal pieno sole quando le quattro fornaci tornarono in vita, destate dalla poderosa fiammata del drago. Fuoco blu e giallo si sprigionò dalle ceneri spente da decadi e decadi come un’esplosione e con il muggito di una locomotiva. Il rumore, il calore, la luce riempirono quella sala che fino a pochi minuti prima era stata fredda, buia e assolutamente immota. Il sole morente traeva arabeschi di scintille rosse dalle nubi di fumo che si alzavano e tingeva i muri di pietra di porpora. Sembrava che tutta la stanza fosse diventata un gigantesco crogiuolo, la bocca di un forno, una visione d’inferi. Elemmire guardò un po’ atterrita un po’ ipnotizzata il crepitare delle gigantesche fiamme. I nani lanciarono un grido di giubilo e di vittoria, Smaug un ringhio di frustrazione. Elemmire sentì le grosse zampe raspare il terreno e si affrettò ad allontanarsi dal cancello.
-Bombur, sai ancora come usare un mantice?- Thorin si avvicinò al nano grasso, un’ombra nera che si stagliava sul profilo rosso delle fornaci. Bombur si guardò per un attimo alle spalle, terrorizzato, in direzione del drago, poi ancora più terrorizzato incontrò l’esaltato sguardo di Thorin e si affrettò ad ubbidire. Con il suo notevole peso si attaccò ad una lunga catena che pendeva accanto al fuoco, e un gigantesco mantice gonfiò i suoi polmoni. Quando il soffio si liberò, un vento vero e proprio spazzò la stanza, le fiamme passarono dal blu al rosso e poi al giallo intenso. Il calore si fece
insopportabile.
Il ruggito delle fiamme era assordante, ma non così tanto da coprire il rumore del drago che in preda alla collera tentava di buttare a terra il cancello. Il rumore delle sua scaglie contro il ferro, del metallo che veniva urtato ripetutamente, degli ingranaggi che cigolavano fino alle fondamenta strideva con l’allegro e vivificane suono del fuoco. Ma Thorin si volse senza paura. Sembrava perfettamente padrone della situazione; un sorriso di libertà, di rivincita, di gioia pura rendeva i suoi lineamenti granitici dolci e meravigliosi. In mezzo ai fuochi, il volto coperto di sudore, i capelli ricci che lo seguivano come la scia di una cometa, come il mantello di un imperatore, Thorin sembrava finalmente tornato nel posto cui apparteneva, ed era bellissimo. Le fiamme creavano un’aureola, o forse una corona, intorno al suo capo. La sua mano che solo poche ore prima aveva impugnata una spada contro Bilbo, ora si rivolse a lui con gentilezza, si posò in modo cordiale sulla sua spalla. Vennero scambiate delle parole che Elemmire, assordata dal sospiro del mantice e dal gemito del cancello che si piegava, non udì; però vide lo hobbit correre verso il fondo della sala. Illuminati dalla vivida luce delle fornaci, Elemmire poté scorgere una mezza dozzina di mulini sovrastati da grandi mascheroni di pietra a forma di guerrieri nanici, con tanto di elmo calato fino al naso.
Un sbarra del cancello, dopo aver lottato, si accasciò tristemente su se stessa, piegandone nella sua caduta al suolo altre tre. La zampa di Smaug si affacciò nel pertugio, poi una poderosa spallata diede il colpo di grazia ai tre pilastri contorti. Il cancello stava cedendo, pezzo dopo pezzo.
-Balin, saresti ancora in grado di usare la polvere da sparo, vecchio mio?- Thorin continuava a dare ordini con tono fermo e benigno.
-Aye- il vecchio nano guardò preoccupato le sbarre divelte –Mi ci vorrà solo un attimo.
Balin trascinò con sé Ori e Dori.
-Noi cosa facciamo?- Kili e Fili erano rimasti in disparte, esattamente come lei.
-Rimanete esattamente fermi dove siete, e quando ve lo ordino, seguite Dwalin.
-Al diavolo. Ci faremo ammazzare tutti- Fili digrignò i denti, impotente. Elemmire guardò Kili: sulle labbra del nano si formarono delle parole. Stava canticchiando a voce bassa se dobbiamo morire questa notte, allora moriremo tutti assieme.
Sì, rifletté Elemmire: sarebbe morta, ma accanto all’uomo che amava. La paura si dissipò dal suo cuore.
Pure, quando il cancello venne squarciato come una botte vuota, quando le sbarre di ferro vennero troncate di netto dalla furia del drago, quando tutta la sua mole strisciò dentro le fucine spalancando le fauci e graffiando con gli artigli uncinati il terreno, perfino l’intrepido Dwalin ebbe un brivido.
-Che Guntera ci aiuti- mormorò il nano sgranando gli occhi.
-Corri- la voce uscì come un soffio dalle labbra di Kili. Lui, Fili ed Elemmire, senza aspettare l’ordine di Thorin, si fiondarono alle calcagna di Dwalin e voltarono le spalle al drago, l’istinto di conservazione che triplicava il loro battito cardiaco e le loro facoltà intellettive.
Vuoi per bravura di Thorin, vuoi perché il caso si era deciso finalmente a vegliare su di loro, Smaug sfondò il cancello in modo da trovarsi esattamente davanti ai mulini. Elemmire suppose che venissero usati per il raffreddamento delle fornaci: solo dell’acqua poteva spegnere tutto quel fuoco. Smaug alzò la testa, fiamme danzarono tra le zanne d’avorio. La sua testa, lentamente, si fissò su Thorin. Il drago sorrise.
-Ora!
Le bocche dei mascheroni si aprirono e cascate d’acqua gelida ne fuoriuscirono. Smaug ne fu investito in pieno. Gorgoglii e vapore si alzarono fino al soffitto mentre il drago veniva buttato su un fianco dalla forza dirompente dei mulini nanici. Fu allora che, per la prima volta da quando Elemmire aveva avuto la malasorte di incontrarlo, aprì le ali. Le membrane si dispiegarono e quasi riempirono l’intera sala. Il loro battito era un vento sferzante. Smaug ruggì di rabbia, la coda frustò il suolo, il ventre si spense. Recuperato l’equilibrio, il drago fece ondeggiare la testa fulmineo come un cobra del deserto, ma Thorin era già scomparso. L’acqua spumeggiante però continuava a uscire dai mascheroni con un getto più ridotto, e così facendo mise in moto le pale dei mulini. Si udì un clangore di ingranaggi arrugginiti che tornino a lavorare con fatica, e tutte le impalcature, i complessi sistemi di trasporto sospesi sulle fornaci si misero in moto ondeggiando. Dai recipienti appesi secchiate di pepite d’oro grezzo venivano rovesciate nei crogiuoli arroventati dal mantice di Bombur e fondevano all’istante. Le fornaci di Erebor tornavano a lavorare i metalli.
Il grande drago continuò la sua caccia. Non sembrava essersi spazientito più di tanto. A malapena alzò la testa quando Dori, Ori e Balin iniziarono a lasciargli contro involucri di polveri esplosive che gli scoppiavano sul dorso in luci blu e verdi senza neppure graffiare una squama. Fu poi il turno di Gloin: con un colpo ben assestato dall’alto della postazione che si era scelto, il nano recise un cavo del trasporto di pepite che cadde sul collo del drago assieme al suo carico di enormi secchi di ferro. Il cavo si intrecciò attorno all’affusolato e lungo collo, impacciando i movimenti del drago. Smaug iniziò a ruggire, a scuotere la testa, ad artigliarsi da solo. Sembrava il famigerato leone punto da una zanzara. Dwalin, Kili, Fili ed Elemmire lo osservavano terrorizzati, e non si accorsero di Thorin che correva verso le fornaci ardenti. Una per una, con uno sforzo sovrumano, tirò le grande catene che erano appese accanto al mantice. Sotto i crogiuoli si aprirono delle bocche di sfogo ed Elemmire comprese a cosa servissero le impalcature che circondavano le fonderie. Fiotti di oro fuso si riversarono lungo i tubi appositi con un sibilo.
-Attenta!- Kili la fece arretrare di qualche passo. Il prezioso metallo si incanalò nel condotto che circondava tutta la sala, lasciando così Smaug isolato al centro di un’ isola di fuoco.
-Correte!- Dwalin li trascinò via dall’inferno bestemmiando per Guntera. Accecati dalla luce, dal calore e dal rumore, percorsero un’altissima galleria barcollando e appoggiandosi alle pareti, ed infine poterono tirare un respiro di sollievo. Erano sudati fradici, i volti rossi e congestionati, le vesti bruciate, i capelli strinati e gli occhi che bruciavano. Elemmire si sdraiò a terra e spinse la guancia contro la gelida pietra con sollievo.
-Che gli dei mi fulminino all’istante- la voce di Dwalin era un sussurro. Elemmire si rialzò in piedi lentamente e stringendo i denti per il dolore delle scottature. Il sole era tramontato e dalle alte finestre entrava la tenue luce delle stelle che illuminava debolmente un enorme salone e le sue decine e decine di arcate sostenute da pilastri squadrati. Due alti balconi correvano tutt’attorno alla sala, quasi sospesi sopra le bocche nere degli archi a tutto sesto; alla balconata inferiore erano appesi degli arazzi impolverati ma ancora intellegibili nella pallida penombra. Su di uno, il più grande, c’era un simbolo nero in campo rosso. Elemmire allungò il collo per vedere meglio.
-Non fate un fiato- sussurrò una voce dietro di loro. Elemmire si girò e vide Bilbo Baggins rannicchiato all’ingresso della galleria.
Un rumore assordante riempì l’aria. Ebbe solo il tempo di afferrare le mano di Kili e buttarsi a terra accanto a lui mentre tutta la prima balconata con i suoi splendidi stemmi crollava sopra di loro. Elemmire si appiattì contro la parete. Strinse a sé Kili e lo protesse come lui aveva fatto con lei tante volte, poi quando le pietre cessarono di cadere osò alzare lo sguardo. Cercò tracce di sangue per terra ma con sollievo non ne vide; in compenso dalla gigantesca nuvola di polvere emerse il muso orribile di Smaug. Sovrastava il muro di macerie e stoffe lacerate e fissava i suoi felini occhi rossi su di loro. Un brivido la scosse. Le narici del drago fremettero, poi la sua voce scosse le pareti come un terremoto.
-E così, ti chiami Cavalcabarili eh, piccolo ladro? Ho una mezza idea di chi potrebbe essere in lega con te. Di barili ne trovi quanti vuoi ad Esgaroth, sul Lago Lungo.
Con un fruscio di vestaglia Bilbo si staccò dalla parete e si acquattò dietro la trincea di pietre e calce. Elemmire dedusse che Smaug parlava con lui.
Il drago ruggì e sferzò l’aria con la coda:-Quegli insolenti e disgustosi uomini! Con le loro frecce nere e i loro arcieri! Forse è tempo che io faccia loro visita, così ricorderanno chi è il Re Sotto la Montagna!
-NO! Non puoi farlo- Bilbo schizzò su per la trincea e prima che Elemmire potesse fermarlo scivolò oltre il muro, a due centimetri dal muso di Smaug –Non è colpa loro, loro non c’entrano.
Il drago rise in un modo da gelare il sangue nelle vene. Sapeva parlare come un uomo, ma non c’era nulla di umano in quella risata.
-E’ così, dunque, ladro? Tu tieni a loro. Sarà un piacere allora vederli morire.
Si udì il rumore di zampe che colpivano il terreno.
Elemmire e Kili si aggrapparono al muro di pietre nello stesso momento e in poco tempo ne furono in cima. Smaug si dirigeva a grandi passi verso il fondo della sala.
-Verme!
Una voce forte e bassa risuonò alle loro spalle con una vibrazione da gatto.
-Dico a te, schifoso invertebrato.
Una figura uscì dall’ombra delle arcate. I ricci neri erano madidi di sudore, gli occhi due tizzoni ardenti in un viso che pareva appartenere ad un morto per il pallore e la gravità.
Smaug si girò lentamente e ghignò:-Tu. Tu!
-Io- Thorin scoprì i denti bianchissimi –Restituiscimi quel che mi appartiene.
Smaug rise:-Nulla ti appartiene, nano. Io ho divorato i tuoi guerrieri. Ho instillato terrore nei cuori dei tuoi seguaci. Ho perfino scoperto il ladro che avevi inviato a derubarmi. Non capisci? Sono io il Re Sotto la Montagna.
-No- Thorin sorrise –Non è questo il tuo regno, bestia infernale. Queste sono terre dei nani. E questo è il nostro oro.
Thorin si schiacciò contro la parete, nell’ombra, e una luce improvvisa illuminò il salone. Un fiotto di oro fuso si riversò da ogni arcata come da aperture nascoste e ingoiò il drago. Impossibile raccontare le urla d’agonia della bestia, il rumore dell’oro che ribolliva sopra di lui, lo stridore dei denti e degli artigli mentre cercava di ancorarsi alle colonne. Ferì le orecchie di Elemmire come una lama di luna. Presto nulla rimase al centro della stanza se non una gigantesca vasca di oro colato, immoto, che illuminava in modo meraviglioso le colonne di riflessi da tramonto.
È fatta, pensò Elemmire, è morto.
Lo stesso pensiero restituì colore alle guance di Thorin, che fece due passi avanti.
Un urlo che era insieme agghiacciante e straziante lo costrinse e tornare nell’ombra. L’oro si aprì e ne uscirono ali, coda, zampe, collo e testa, completamente ricoperti di una sottile patina che andava già asciugandosi.
-Vendetta!- si poteva riconoscere in quegli stridii. Smaug si gettò nell’oscurità e con un poderoso colpo sfondò il muro. Subito la luce della notte si fece più decisa, e uno sprazzo di cielo nero brillò nel polverone. Elemmire si rese conto che dovevano trovarsi nel salone d’ingresso di Erebor, e che quelle sfondate dovevano una volta essere state le porte della città. Lei e i nani si slanciarono di corsa sotto le arcate, ben attenti a non scivolare e finire nella vasca di oro liquido. Raggiunsero l’entrata divelta in tempo per vedere una figura che si allontanava in volo, nera e dorata sullo sfondo bianco della luna, verso il lago. Il vento portò l’oro un eco di queste parole:-Io sono il fuoco. Io sono la morte.
-O mio Dio, che cosa abbiamo fatto?- gemette Bilbo accasciandosi a terra con la testa tra le mani.
 
Muri screpolati e incrostati di zolfo. Era tutto quello che Erebor offriva loro in quel momento. I nani avevano scelto di rimanere a guardare Esgaroth, impotenti, da lontano, mentre bruciava, ma Kili aveva insistito per medicare le ustioni sulle mani di Elemmire e l’aveva condotta di nuovo dentro la Montagna. Con gesti lenti e delicati il nano la medicò. Le ferite si erano riempite di bolle purulente che sembravano sul punto di scoppiare, ed Elemmire sapeva che se ciò fosse successo avrebbe rischiato lo shock anafilattico per perdita improvvisa di liquidi. Le mani callose ma estremamente leggere di Kili le tamponarono anche le leggere scottature che i buchi delle vesti mostravano, ed entrambi si ritrovarono ad arrossire nella penombra nonostante l’angoscia. A tratti ad Elemmire pareva che il vento, ululando fuori dalle altissime finestre, recasse le urla strazianti di qualche innocente. Rabbrividì.
-Avresti bisogno di vesti nuove. Intere, senza buchi.
Elemmire annuì senza parlare, lo sguardo basso e il viso congestionato. Il tocco del nano la faceva bollire.
-Forse è rimasto ancora il guardaroba di mia madre qui, da qualche parte- Kili si affacciò alla piccola porta dandole modo di espirare il fiato che aveva trattenuto.
Per lunghi minuti Elemmire rimase da sola ad aspettare, divisa tra il troppo caldo sulle mani e il troppo freddo sul resto del corpo e tremando in silenzio. Cercava di ignorare il pensiero del drago. Singrid, e Bard, e il piccolo Bain, tutti in quell’inferno di fuoco per causa loro. Avrebbe voluto mettersi a piangere. Quando Kili tornò, recava a fatica un baule di legno dorato intagliato in avorio il cui coperto era incrostato di monete d’oro.
-Cos’è quello?
-Una qualche consegna mai avvenuta presso Thranduil. Chissà, forse il grande re si scordò di pagarcela. Non sarebbe stata la prima volta in fondo.
Kili aprì il baule lottando contro le cinghie e le serrature chiuse da secoli. Elemmire allungò lo sguardo con curiosità.
-E’ proprio come sta inciso sul coperchio- sorrise Kili –Sono vesti.
Le sue braccia ne trassero stoffe di ogni colore, poi lo sguardo si soffermò su qualcosa in particolare.
-Guarda questo- Kili le tese un vestito color nocciola. La stoffa era sottilissima, eterea, tutta trapunta di germogli verdi e rosa ricamati da mani esperte. Il corpetto stretto non aveva maniche ed era intarsiato con giri di minuscole perle bianche.
-E’ regale.
-Vedi se ti sta bene.
-Trovo che una tunica e un pantalone sarebbero più pratici.
-Stai uccidendo ogni senso estetico.
-Ben venga se impedirà a me di essere uccisa.
Elemmire si inginocchiò davanti al baule e si mise anche lei a cercare. Assieme a Kili analizzarono ogni singolo capo di abbigliamento colà presente, con il nano che si esibiva in impietose frecciate contro gli elfi. Alla fine la loro ricerca portò frutti ed Elemmire indossò una fine camicia bianca, pantaloni di pelle nera e lucidi stivali borchiati. In vita legò il suo vecchio fodero e lasciò che la cortina di capelli neri le ricadesse fitta sulle spalle fino alle reni. Anche Kili abbandonò i consunti abiti da viaggio per una lunga cotta di maglia d’argento fine. Si guardarono a vicenda ed Elemmire desiderò che lui la baciasse.
-Adesso ti scambierei davvero per un elfo, se non ti conoscessi- Kili sorrise con una traccia della vecchia malizia e le prese le mani fasciate. Le prese entrambe e le congiunse tra loro come pensieroso. Elemmire si inginocchiò istintivamente per guardarlo negli occhi.
-Te ne andrai presto vero?
Elemmire non seppe cosa rispondere.
-E’ un sì, giusto?
-Non so cosa succederà dopo, Kili, qualunque cosa voglia dire quel “dopo”.
-Forse non avremo più un momento come questo, da soli.
Elemmire prese a tremare e il suo primo impulso fu di ritirare le mani da quelle di Kili perché il nano non notasse la sua emozione.
-Forse no.
Kili si portò alla bocca le sue mani e vi depose due baci leggeri, appena sussurrati nel candore delle bende.  Era un gesto così semplice e dolce che Elemmire sentì sciogliersi il cuore e le lacrime premere sugli occhi.
-C’è una cosa che vorrei darti, ora che ne ho il tempo.
Kili raggiunse le sue bisacce che erano accatastate in un angolo, frugò e prese qualcosa. Tornò da lei stringendolo al petto.
-Mia madre mi ha regalato una pietra amuleto quando me ne sono andato. Diceva che mi avrebbe aiutato a ricordarmi di lei. Forse questo aiuterà te a ricordarti di me quando sarai di nuovo a casa. Dicono che dimenticare sia molto più facile quando si torna a casa che non quando si parte, e io non voglio che tu possa dimenticarti di me.
Kili le mise in mano una forma di legno. Era una rosa scavata in mille sfumature, e sotto la rosa era accovacciato un lupo.
Elemmire ricacciò indietro le lacrime mentre un dolore improvviso le opprimeva il petto come una corona di spine attorno al cuore. Sempre tremando si rigirò brevemente la formina nelle mani e poi la strinse al cuore. Gli spuntoni del muso e delle zampe del lupo fecero un rumore metallico sugli anelli della cotta.
-Io non ho niente con cui tu ti possa ricordare di me- sussurrò mentre la voce le veniva meno.
-Non preoccuparti- ancora Kili sorrise –Quello non sarà un problema- e allungandosi leggermente le depose un bacio sulla guancia. La barba del nano raschiò piacevolmente la pelle di Elemmire e la ragazza avvampò all’improvviso. Kili se ne accorse, le strizzò l’occhio e si aprì in un grande sorriso. Risero entrambi, Elemmire con un pensiero piacevole che le riscaldava il petto in modo diverso rispetto alle scottature: non si dimenticherà di me.
-Piccioncini, queste scottature andranno ancora per le lunghe?- la voce squillante di Fili interruppe il momento al momento giusto.
-Rimani qui, e riposa. Non voglio tu venga fuori a vedere- le disse Kili prima di dirigersi attraverso la porta. Elemmire si lasciò scivolare in un dolce e tiepido dormiveglia nella camera buia.
 
Fece sogni movimentati. L’oscurità l’avvolgeva e insieme all’oscurità c’erano fiamme. Un occhio di fiamme che bruciava demoniaco, e nel fuoco una figura che sarebbe parsa umana se non avesse avuto sembianze mostruose e deformi. Alla visione d’ inferno si opponevano due figure solitarie, una rilucente di bagliore azzurro e l’altra di un bianco puro. Un mantello grigio e una corona di capelli biondi li seguiva. “Io sono fuoco, io sono morte” risuonò una voce possente e tenebrosa “Chi mi si oppone, abbraccia la morte. Chi trasgredisce i miei ordini, ugualmente abbraccia la morte. Anche chi mi sfida abbraccia la morte”. Un urlo squarciò le tenebre.
 
Il fuoco si rifletteva nell’acqua rossa di sangue. Le urla riempivano la notte fino alle stelle assieme al crepitare dei roghi e al fruscio degli archi. Bestemmie e maledizioni si intrecciavano con invocazioni e pianti di bambini. Le donne correvano, gli uomini scalavano muri e torri per avere un visuale migliore, e ovunque si alzavano colonne di fumo che portavano l’odore della carne bruciata a vorticare sulla superficie ghiacciata del lago. Sperò che arrivasse fino alla Montagna maledetta. Tossì per il fumo e continuò a caricare persone su persone sulla chiatta. La stanchezza le irrigidiva le membra in un gelo febbrile. –Andrà tutto bene- ripeteva meccanicamente, conscia che era ciò che il popolo si aspettava da lei e impotente di fronte al disastro. In cuor suo maledisse il giorno in cui il re aveva incrociato la sua strada e aveva proseguito fino alla città. D’un tratto un ruggito la fece sobbalzare. Alzò la testa lottando contro i capelli che le ricadevano in cortine fiammeggianti sul viso e scrutò la notte. Un’ombra nera passò sopra di loro, e una colonna di fuoco incendiò il porticciolo. Le madri si chinarono sui loro figli a proteggerli. Vide alcune che li affogavano con le loro mani e poi si gettavano dalle barche e scomparivano nei flutti. Meglio quel tipo di morte che la tortura del fuoco e del ferro. Un grido solitario sovrastò gli altri. Sulla torre dell’antico palazzo reale, dov’era la Lancia del Vento, un’ombra si muoveva rapida. Il drago spalancò le fauci. E una solitaria freccia nera sventrò la notte.
 
-Non abbiamo scelta.
Stava piangendo amaramente. Le lacrime gli rigavano il viso lasciando due scie bianche nel fango che gli ricopriva i bei lineamenti. Un dolore insostenibile la straziava.
-Deve esserci un’altra soluzione. C’è per forza.
-Non c’è. Mi dispiace, mi dispiace, ma non c’è. Non se vuoi salvarla.
Pensò alla figlia che portava in grembo, quella luce che brillava dentro di lei.
-Non oserà darci la caccia, anche se rimaniamo.
-Ma darà la caccia a lei. Dobbiamo proteggerla finché non sarà pronta, finché non sarà giunto il momento propizio. La Profezia è stata chiara.
-Ti amo. Il mio cuore ti appartiene per l’eternità.
-Ti amo anch’io.
-Non abbiamo scelta.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** una vita per un'altra vita ***


Il risvegliò non fu piacevole. Aveva dormito rannicchiata su un fianco e le si era fermata la circolazione al braccio. Sbatté le palpebre e mise a fuoco. La stanza era nella penombra, ma al di fuori poteva vedere la Sala del Tesoro di Erebor dove i pallidi ori luccicavano. Faceva fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Riavvolse in fretta gli avvenimenti. Dov’erano tutti? Dov’era Smaug? Non ne era certa, ma credeva di averlo sognato. La fronte le scottava dove il glifo elfico di Galadriel giaceva ormai nascosto da ciuffi corvini. Con cautela si alzò in piedi, aspettò che le passassero le vertigini e poi, fattasi guardinga, uscì dalla stanzetta. Percorse la Sala cercando di nascondersi e di non far rumore e imboccò la prima porta che si trovò davanti. Vagò per un corridoio buio e stretto, svegliò una colonia di pipistrelli e con le braccia alzate sulla testa tornò indietro. In qualche modo ritrovò la sala d’ingresso da dove quel pomeriggio Smaug era volato via. La notte stava sbiadendo per fare posto all’alba, un’alba acquosa e nebbiosa. Elemmire si strinse forte nel mantello per contrastare il freddo dell’inverno che ormai stava arrivando e raggiunse i nani sulla piattaforma di vedetta davanti il portone di Erebor. Ognuno sedeva in silenzio, la testa china, il viso tra le mani, tranne Thorin che, in disparte, sembrava fissare il vuoto con accanimento.
-Elemmire- Kili le si avvicinò –Non guardare.
Per tutta risposta lei si girò verso il Lago. Dove un tempo era sorta Esgaroth ora c’era un immane rogo. Le fiamme si alzavano così alte che da quella distanza era quasi possibile udirne il ruggito. Elemmire si appoggiò alle rocce ed osservò meglio. Smaug, l’immane Smaug, era sospeso sopra l’incendio come un avvoltoio che cala su una carcassa. Le ali enormi svolazzavano nel vento freddo, tra volute di fumo nero e denso. Con un guizzo da pesce planò e scomparve nel labirinto di case in fiamme.
-Povere anime- sussurrò Balin.
-Dov’è il drago?
Alcuni alzarono la testa.
-Non lo vedo- Elemmire strizzò gli occhi nella luce nascente –E’ scomparso.
-E’ stato abbattuto!- Ori si alzò in piedi.
-E’ un serpente alato e sputafiamme, chi avrebbe potuto abbatterlo? Non un umano.
-Ma il chiattaiolo aveva una freccia nera. L’abbiamo sentito con le nostre orecchie che l’aveva.
-Deve essere così- Balin si alzò in piedi, la barba bianca sporca di fuliggine –Deve aver centrato il colpo questa volta.
-Se è così, non dobbiamo più preoccuparci che l’usurpatore venga a seccarci- la voce di Thorin risuonò glaciale alle loro spalle.
-Se è così, abbiamo un Re Sotto la Montagna- Fili fu il primo a piegare le ginocchia davanti a Thorin, seguito da tutti gli altri. Il nano annuì bruscamente, poi voltò loro le spalle. Tutti quanti tornarono all’interno delle sale di Erebor. Thorin non perse tempo: li condusse nella Sala del Tesoro e ordinò loro di setacciare palmo a palmo le stanze scavate nella roccia.
-Voglio quel gioiello!- la sua voce era bassa e faceva accapponare la pelle –Voglio l’Arkengemma. Trovatela.
Elemmire non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase con la schiena china a frugare tra monete e gioielli. Ad un certo punto si fermò e si appoggiò ad una monolitica colonna. I muscoli le dolevano. La magnificenza del tesoro di Erebor era pari solo alla sua estensione. Riprese le ricerche, a volte cadendo nei mucchi di gioielli e graffiandosi sulle punte di rubini grandi come uova e quarzi più grandi del suo pugno. Passò in rassegna diademi con scolpite rose di ametista, elmi di argento con incastonate cascate di onici nere e brillanti, collari d’oro massiccio con incastonati topazi, cotte di maglia di mithril, l’argento dei nani, leggero come seta e resistente come il diamante, armature ingioiellate, perfino spade dall’elsa così raffinata da parere ricamata nell’oro bianco, asce intarsiate in rame che rosseggiavano negli angoli e perfino una mazza la guerra la cui impugnatura era tempestata di diamanti e zaffiri. Eppure, Thorin voleva l’Arkengemma. Elemmire si iniziò a chiedere se non avesse ragione Kili, nel dire che quella pietra avvelenava l’anima. Con un tesoro tanto smisurato, cosa poteva farsene Thorin di un singolo gioiello? L’oro e le gemme di Erebor valevano ventimila Arkengemme, Elemmire poteva scommetterci sopra. Infine si sedette e si rifiutò di perlustrare ancora un singolo angolo. Sentiva che le mancava l’aria e cercò di tornare all’entrata per affacciarsi fuori. Scoprì così che altri nani avevano avuto la sua stessa idea. La luce stava calando, ma nel tramonto era visibile una lunga scia di luci che tremolando e sussultando risalivano il fianco della montagna.
-Cos’è?- chiese accucciandosi accanto a Kili.
-I superstiti di Esgaroth. Stanno risalendo la montagna verso le rovine di Dale.
-Quel luogo è maledetto, quando ci siamo accampati lì sono stata tormentata dagli incubi.
-Credo che dopo quello che hanno vissuto avrebbero incubi anche nel più comodo e luminoso dei palazzi- Kili non la guardò –Verranno a chiederci asilo.
-Thorin lo concederà?
-Non lo so- Kili si girò a guardare lo zio. C’era dolore nei suoi occhi:-Stento a riconoscerlo. Non so prevedere quel che farà.
-Cosa c’è da guardare?- Thorin ringhiò contro i nani che si erano appollaiati all’uscita –Non c’è tempo da perdere. Siamo sotto attacco. Per domattina l’ingresso deve essere sbarrato e una trincea costruita. Mettetevi al lavoro immediatamente.
E così nonostante fosse stata china tutto il giorno Elemmire dovette caricarsi in spalla le pietre crollate del portale per murare l’ingresso. Lavorarono tutta la notte senza requie per costruire un’altissima fortificazione, la cui sommità era raggiungibile per mezzo di gradini intagliati.
-Non creiamo una porta? Un’apertura qualsiasi per uscire?- chiese Kili a Thorin mentre aiutava Elemmire a trascinare un pezzo di statua alto quando lei.
-Se noi possiamo uscire, vuol dire che il nemico può entrare.
Kili lasciò la presa di colpo ed Elemmire fu quasi schiacciata dal macigno:-Nemico? Sono profughi. Hanno appena perso le loro case e le loro famiglie, vengono per parlamentare, non per distruggere!
-Non mi sembra di aver chiesto se fossi d’accordo o meno- Thorin si avvicinò a Kili e sembrò rattenersi a fatica dal prenderlo per il bavero. Si allontanò con aria ancora più cupa, lasciando il nipote con gli occhi pieni di lacrime.
-Cosa sta succedendo?- Kili si appoggiò al masso e si passò una mano sul viso –Quale incantesimo lo controlla?
-Quello dell’oro, ragazzo- Balin si avvicinò e parlò in un sussurro –La stessa malattia di suo nonno, e di suo padre. È una fortuna che quella gemma maledetta non sia ancora saltata fuori.
-Non migliorerebbe le sue condizioni?- chiese Elemmire chinandosi accanto a Kili per sostenerlo –Potrebbe calmarlo e renderlo più malleabile.
-L’uomo che desidera il potere diventa migliore dopo che l’ha ottenuto? No, mia cara, non migliorerebbe la situazione. Potrebbe solo peggiorarla, perché ora gli sforzi di Thorin sono tesi a trovare l’Arkengemma, e per avere successo farebbe qualsiasi cosa, il che potrebbe anche ricadere a nostro favore, in qualche modo. Ma se il gioiello cadesse nelle sue mani, ogni sua azione sarebbe volta a proteggerlo da nemici reali ed immaginari, e credimi, nulla di buono ne potrebbe derivare. Perciò speriamo che quella maledetta pietra rimanga nascosta nelle cavità della Montagna ancora per un po’.
-Non potrebbe essere stata distrutta dal drago?
-Non così facilmente. È più dura del diamante, e nessuna punta la scalfisce.
Elemmire e Kili continuarono a spingere la loro pietra verso la barricata. Probabilmente solo Elemmire si accorse che Bilbo aveva seguito tutta la conversazione con gli occhi sgranati.
Il sole salì in cielo bianco e pallido, e la sua luce proiettò l’ombra della Montagna sulla desolazione e sul Lago. La città di Esgaroth continuava a fumare come, ricordò Elemmire in un guizzo, le ciminiere delle fabbriche di una città. Le fiamme non si erano ancora placate e sporadici fiotti di scintille si alzavano dalle macerie. Le baracche fatte di legno e paglia continuavano a bruciare. Dall’alto della barricata i nani, rivestiti in cotte di maglia d’oro e argento, ricoperti di mantelli dai colori vivaci, aspettavano. Nessuno di loro aveva dormito quella notte, e neppure quella prima. Kili aveva gli occhi verdi cerchiati di viola; Elemmire si sedette accanto a lui e respirò l’aria gelida. Era stanchissima. Chiuse gli occhi con l’intenzione di riposarsi un attimo, ma dopo pochi secondi una mano la scosse dal torpore.
-Sveglia, sveglia. Arriva qualcuno.
 
L’armeria di Erebor era una delle stanze più piccole della Montagna; valeva a dire che due saloni da ballo vi sarebbero entrati comodamente. Le rastrelliere appese alle pareti incatenavano lo sguardo al luccichio del metallo e dei gioielli. Seduto su uno sgabello, Kili aveva voluto il suo aiuto per vestirsi. Elemmire, con dita leggere, gli aveva calato sulle spalle una lunga cotta di maglia d’argento brunito, rifinita in oro purissimo, e tentando di concentrarsi aveva allacciato i gambali di cuoio e le coperture sugli avambracci. Per quanto si sforzasse la sua mente continuava a rimuginare, cupa, sulla breve conversazione tra Thorin e Bard.
L’arciere di Esgaroth si era presentato con il sole che brillava sul candido manto della sua cavalcatura, il viso magro e serio incorniciato da un’ispida barba nera. Aveva chiesto udienza con il Re Sotto la Montagna ed Elemmire si stava già chiedendo come avrebbero fatto a tirarlo su, sulla cima della barricata, quando Thorin aveva comandato che parlasse pure a tutti loro. Elemmire non sapeva nulla di diplomazia ma le era ben chiaro che lasciare un ambasciatore ad urlare fuori dalle fortificazioni non era un atto di grande rispetto e regalità. Bard si era fatto paonazzo dalla rabbia, ma era sceso da cavallo e tenendolo per la cavezza si era avvicinato fino ad entrare nel cono d’ombra dell’altra barricata.
-Cosa vuoi?- aveva chiesto rudemente il re dei nani.
-Non so se esistono più leggende sull’ospitalità o sull’oro dei nani. E’ ovvio che le prime sono da riconsiderare, ma vengo per avere conferma delle seconde- Bard aveva accennato un amaro ghigno sardonico.
-Pochi giri di parole umano. Parla in fretta.
-Sai quanti abitanti di Esgaroth sono sopravvissuti all’attacco della bestia? Un quarto. Uomini e donne, vecchi, bambini e adulti, mogli, madri, padri, sorelle e fratelli, tutti morti nella carneficina. Ho visto con i miei occhi donne affogare i loro neonati per non darli in pasto al drago. Il drago che tu hai portato su di noi. Che tu hai risvegliato. Ora, sarebbe troppo chiederti di cambiare il passato. Ma hai fatto una promessa, Thorin Scudodiquercia. Non costringermi a ricordartela.
-Non ho memoria di nessuna promessa fatta agli uomini del Lago- aveva risposto Thorin con sdegno. Il cuore di Elemmire si era fermato. Come poteva non ricordare? Come poteva rimangiarsi la parola data? Aveva scrutato il volto del nano e sotto la barba striata di grigio aveva visto la mascella contratta. Thorin stava mentendo.
-Piano con quelli- Kili espirò di colpo quando Elemmire strinse all’improvviso i legacci della sopratunica imbottita. –Perdonami- sussurrò affrettandosi ad allentarli. Con attenzione sistemò le placche pettorali dell’armatura, tenute insieme sulle spalle da strisce di duro cuoio che servivano a distribuire il peso dell’acciaio in modo uniforme. Cercò di non soffermarsi troppo sul petto giovane e muscolo che sotto il suo tocco si alzava e si abbassava regolarmente.
-Ci hai promesso dell’oro. Avevi detto che avresti ricoperto ogni abitante di Esgaroth di ricchezze e ripagato doppiamente chi ti avesse offerto ospitalità. Non ti chiedo di mantenere quell’impegno, ma non puoi negare di avere dei doveri nei nostri confronti, fosse solamente perché quando supplice hai bussato alle nostre porte ti abbiamo accolto. La gente che è con me ha perso ogni cosa, e tu più di chiunque altro dovresti sapere cosa vuol dire non avere una casa. Ti chiedo solamente ti ripagare la nostra ospitalità e di concederci il necessario per ricostruirci una vita, nulla di più e nulla di meno di questo.
Bard aveva assunto un’aria implorante, le grandi spalle incurvate dallo sconforto. Ma Thorin era rimasto muto come le statue di marmo dei suoi antenati. Quando aveva parlato la sua voce era vellutata come il passo di una pantera:-Stai avanzando delle pretese, uomo del Lago, sulle mie ricchezze, accumulate dai miei progenitori nel giro di secoli e secoli?
La questione, Elemmire l’aveva capito, stava prendendo una gran brutta piega. I sensi all’erta, aveva scambiato uno sguardo con Kili, che era pallido come un morto.
-Pretese? L’unica mia pretesa è che tu tenga fede alla tua parola! Ti abbiamo accolto, Thorin Scudodiquercia, hai dormito nei nostri letti, hai indossato i nostri vestiti e bevuto la nostra birra, e l’abbiamo fatto senza chiederti nulla in cambio. Nella tua missione hai riversato su di noi la morte e il fuoco di drago, e non un solo aiuto è giunto dai tuoi nani nella notte. Eppure dovete aver visto la città bruciare! Dovete aver visto le fiamme, sentito le urla degli innocenti massacrati! Adesso chiediamo che tu ci accordi quel necessario alla nostra sopravvivenza. Siamo mendicanti come lo eri tu alle porte dell’inverno, pochi giorni fa. Chiediamo che tu mantenga la tua parola, davanti agli dei di tutte le razze e di tutte le epoche, se quel tuo cuore di pietra non è capace nemmeno di sentire compassione per un altro essere vivente. È sbagliato tutto questo? Lo chiedo a voi, lassù, lo chiedo a te, che sei della mia stessa razza. Sono pretese le mie? Sono nel torto?
Bard si era trovato a urlare con le mani alzate verso la cima della barricata, il volto distorto dalla rabbia. Balin si era mosso a disagio, le lacrime che scorrevano in silenzio nella barba bianca, ma Thorin era rimasto impassibile e perfettamente immobile. Elemmire lo aveva visto fare un cenno brusco a Kili, che con aria sofferente gli aveva consegnato l’arco e la faretra. Thorin aveva incoccato. L’asta si era conficcata nel terreno ghiacciato ed era rimasta lì a vibrare. Bard si era tirato indietro con il respiro congelato in gola.
-Questa è la mia risposta- Thorin non aveva urlato nemmeno. C’era un silenzio così affilato che le sue parole erano scivolate come olio sulla lama di un pugnale dall’alto della barricata fino all’asta infissa ai piedi del cavallo. –La mia risposta è che nessun accattone, sia egli umano o di razza elfica, verrà mai a pretendere le mie ricchezze. E del mio popolo- era sembrato correggersi all’ultimo minuto –Perciò torna da dove sei venuto umano. Prendi le rovine di Dale se ti aggrada, ma lascia a me il mio oro.
Bard era risalito lentamente a cavallo. Se anche stava provando qualcosa, non lo aveva mostrato. Il suo viso era una maschera di cera. –Io ho ucciso il drago, Scudodiquercia- aveva detto in un basso sussurro prima di voltarsi –Sarebbe bastato a chiunque altro per pretendere non solo oro, ma anche potere e quel trono freddo come il tuo cuore dove ti vanti di sedere. E non è detto che io non lo faccia.
Lo scricchiolio degli zoccoli sulla dura terra si era perso in lontananza. Elemmire aveva per un attimo desiderato di aver galoppato via anche lei.
-Avrò bisogno anch’io di aiuto- sussurrò Elemmire quando Kili si alzò. Il nano la guardò con aria interrogativa. –Per trovare un’armatura, e per metterla, intendo.
-Negativo- rispose Kili asciutto –Tu non combatti.
-Si arriverà alla guerra quindi?- Elemmire lottò per non far trasparire la sua agitazione. C’era qualcosa di estremamente angoscioso nel pensiero di un combattimento, per via dei suoi incubi ricorrenti, sì, ma soprattutto per una sensazione latente da qualche parte dentro di lei, qualcosa che avrebbe dovuto ricordarsi e che aveva dimenticato.
Kili sospirò e si grattò la testa sotto i folti capelli scuri:-Spero di no. No. Ma per quale altro motivo ci avrebbe ordinato di prepararci?- allargò le braccia a indicare il silenzioso via vai di nani dall’armeria, il tintinnare fosco degli anelli di maglia, lo stridio delle cotiche sulle lame.
-Ha paura che qualcuno venga ad avanzare ben altre pretese e non vuol farsi cogliere impreparato- Elemmire fece un salto nel sentire la voce di Fili dietro di sé. Come sempre, quando parlava con Kili dimenticava l’esistenza di ogni altra cosa.
-E fratello, Elemmire non ha tutti i torti. Se si arriverà alle armi dovrà essere quanto meno ben protetta.
-Non si arriverà a tanto- disse Kili con decisione.
-Lo hai sentito anche tu- Fili abbassò il tono della voce e socchiuse gli occhi color cristallo.
Anche Elemmire l’aveva sentito. Come tutti loro.
-Sono forse nel torto? Ho forse sbagliato?- aveva urlato Thorin appena Bard se n’era andato. Il contegno da statua marmorea aveva lasciato il posto ad uno sguardo stralunato e infiammato –E’ venuto ad avanzare pretese nella mia casa, cosa avrei dovuto fare? Mi sarei dovuto abbassare a parlamentare con lui? Cosa avrei dovuto fare?
Nessuno aveva alzato lo sguardo. Non Balin né Dwalin, non Kili né Fili né Dori. Un silenzio greve come la pietra che aveva immobilizzato tutti quanti finché Thorin, come preso da una febbre, si era precipitato giù dalla barricata e di nuovo nelle viscere della Montagna. Ogni nano, alla spicciolata, se n’era andato dal belvedere, ma solo il colossale Dwalin aveva seguito il re.
-Rinsavirà- ostinato, Kili incrociò le braccia sul petto, ma Elemmire si avvide che stava tremando come un bambino.
-Forse, ma nel frattempo non è prevedibile. Non sappiamo cosa sta succedendo là fuori, ma torce si muovono su e giù per la montagna e polvere si alza come sotto l’avanzata di cavalieri. Su una cosa Thorin ha ragione: qualunque cosa succeda dobbiamo essere pronti al peggio, ognuno di noi.
-Ho già combattuto altrove, Kili, l’hai dimenticato?- chiese Elemmire guardando gli occhi verdi del nano. La loro espressione si addolcì un poco:-Per legittima difesa. Adesso che da un momento all’altro te ne tornerai a casa tua non voglio che tu ti metta in pericolo inutilmente.
Un fiotto di calore bollente, ma che dico, capace di fonderla, scese nelle vene di Elemmire. Involontariamente le sue labbra sottili si piegarono in un sorriso e le sue dita sfiorarono il braccio di Kili in un gesto che, forse, tradiva tutta la sua tenerezza. Ma quando le parole fecero più presa in lei fu facile ricomporsi: stava per tornare a casa.
-Proprio perché nemmeno io voglio mettermi in pericolo inutilmente credo sia bene che indossi una protezione. Non scenderò in campo con voi, se ti fa sentire più sicuro, ma non voglio correre alcun rischio.
-Me lo stai promettendo?- Kili inclinò la testa di lato. Elemmire annuì.
-Ci sono delle cotte elfiche, qui da qualche parte. Vado a prenderne una che potrebbe starle- Fili girò sui tacchi in un tintinnio di treccine e pendenti. Tornò poco dopo con una maglia lunga fino a metà coscia, avvitata, di anelli argentati che scorrevano uno sull’altro come onde del mare. Elemmire si sedette e si tolse la tunica, rimanendo solo con la camicia. Il freddo della pietra le accarezzò viscido la pelle sotto lo strato di cotone grezzo. Quando Kili le fece passare la cotta sopra la testa e l’aiutò a infilarla l’emozione fu grandiosa, nonostante tutto. Il peso era più di quanto si fosse immaginata, ma così ben distribuito che le permetteva di muoversi agevolmente e di alzare le braccia senza fatica. Sfiorò il metallo gelido con la punta delle dita e si sentì invulnerabile. Kili le scostò i capelli neri dalla schiena rovesciandole una cascata di inchiostro sulla spalla destra e con le sue dita callose toccò prima il collo sottile, poi il bordo della cotta. Elemmire trattenette un brivido di emozione.
-La senti comoda? È troppo pesante?
-E’ perfetta- si girò leggermente a guardare il nano –Mi sento invulnerabile.
-Ma non lo sei- Kili girò attorno allo sgabello e le si parò davanti –Devi ricordarti che non lo sei. Una cotta di maglia ti proteggerà da ogni colpo sferrato da una lama, facendolo scivolare sugli anelli, ma sarà come un altro strato di tessuto per le punte di frecce o spade. È solo una precauzione dopotutto, me l’hai promesso.
-L’ho promesso- sospirò Elemmire, già pentita. Rifiutò l’aiuto di Kili per rinfilarsi la tunica sopra la cotta ma accettò di farsi guidare nei labirinti della Montagna, di nuovo su verso la barricata. Ma nonostante le precauzioni prese nessun avvenimento turbò la giornata. Quando il sole infine tramontò e scese una nebbia così fitta che la si sarebbe potuta imbottigliare si ritirarono tutti nella sala d’ingresso, che ora aveva uno scintillante pavimento d’oro, dove Thorin aveva cercato di affogare Smaug, e si sedettero ognuno con le spalle al muro sotto le colonne rimaste in piedi. Nessuno mangiò, nessuno parlò. L’ormai evidente pazzia di Thorin aveva gettato la compagnia in un umor tetro e silenzioso. I nani andarono a dormire presto, ma Elemmire non aveva sonno, nonostante fosse la sua seconda notte in bianco, e si offrì di coprire il primo turno di guardia per raccogliere un poco i suoi pensieri. Si appollaiò sull’orlo della barricata a fissare la notte, una lanterna cieca accanto a lei. La nebbia si era dissipata e piccoli fiocchi bianchi volteggiavano nell’aria. Iniziava a nevicare.
C’era stato un momento, perfino abbastanza felice, in cui le era sembrata chiarissima la strada da percorrere: non aveva avuto alcun dubbio sul fatto che il suo destino fosse seguire i nani fino ad Erebor, perché lì si sarebbe aperto il Portale per riportarla a casa. Questo non era successo; ed Elemmire non aveva alcuna voglia di ritornarci, a casa. Inspirò l’aria gelida sperando potesse congelare qualche suo pensiero, di modo che avrebbe potuto fermare il vortice che le premeva dentro e analizzare ogni problema con tranquillità. C’era la confusione di non sapere cosa fare, dove andare; c’era l’angoscia per quello che l’alba avrebbe portato; e soprattutto sentiva in sé la tristezza. Troppe cose minacciavano di lacerarla in mille pezzi: la pazzia di Thorin, la separazione da Kili, l’amore per Kili. Si sarebbe gettata dalla barricata per trovare pace da quei pensieri che si rincorrevano in gorghi frenetici. Iniziò a nevicare a piccoli fiocchi duri; la pietra su cui era seduta iniziò a scricchiolare sotto una patina di ghiaccio e il freddo le si insinuò in fondo alle ossa.
-Non dovresti stare qui al freddo da sola- la voce di Kili, anche se la fece sobbalzare, portò un fiotto di calore nel suo corpo freddo. No, si rese conto, era calore materiale. Il nano le aveva poggiato il suo mantello di pelliccia sulle spalle. Elemmire non poté trattenersi dallo stringersi riconoscente nelle soffici volute.
-Nulla di nuovo là fuori. E se anche fosse io non l’avrei visto con questo tempo.
-Perché allora sei qui?- Kili la guardò con viva curiosità.
-Per prendere un po’ d’aria fresca- sospirò Elemmire, conscia della fragilità delle sue muraglie.
Kili si limitò a guardarla in silenzio, senza credere ad una sola parola.
-Avevo bisogno di pensare un po’- si decise così a sussurrare Elemmire.
-Pensare a cosa, esattamente?
L’ululare del vento riempì il silenzio. Avrebbe avuto il coraggio di dire la verità?
-Non voglio tornare a casa- mormorò. Ringraziò che il freddo le aveva congelato le lacrime prima ancora che potessero sgorgare.
-Nemmeno io voglio che tu torni a casa- sussurrò Kili guardandola.
Elemmire si costrinse a rimanere impassibile e a fissare la notte bianca.
-Tu perché sei venuto qui al freddo?- chiese poi stringendosi con sussiego nel mantello.
-Diciamo che anch’io ho le mie gatte da pelare e credevo che starmene qui mi avrebbe aiutato a fare chiarezza.
-E ti sta aiutando?
-Diciamo- Kili la guardò e accennò un sorriso –Un po’ sì, un po’…
-Ti va di parlarne?- Elemmire avrebbe evitato a qualunque costo che la conversazione tornasse su di lei.
-Sì, mi andrebbe- Kili abbassò lo sguardo e le cortine di capelli scuri, imperlati di neve che il vento poggiava su di loro, gli coprirono il viso –Non so più cosa sta succedendo.
Benvenuto tra noi, si disse Elemmire.
-Sfogati se hai bisogno- timidamente raggiunse la mano del nano e la sfiorò. Lui la prese e vi intrecciò saldamente le dita.
-Mi chiedo se siamo noi dalla parte del giusto.
-Cosa intendi dire?
-Ho sempre pensato che qualunque cosa zio Thorin facesse sarebbe stata per il bene comune, per l’onore del nostro nome. L’ho sempre ammirato e rispettato per questo, mi sono sempre fidato di lui. Ma ora- boccheggiò ed Elemmire vide gli occhi verdi riempirsi di lacrime –Ora non so più con chi parlo quando guardo lui. Non so più cosa stiamo facendo qui. Eravamo partiti per riconquistare Erebor, dovevano esserci feste e rulli di tamburi e acclamazioni, invece abbiamo scatenato fuoco di drago su degli innocenti e noi…noi affiliamo le armi invece che suonare. Non era così che le cose sarebbero dovute andare. E lui non capisce più nulla. Non sente più nulla, non vede più nulla. Non lo riconosco più.
Elemmire non si poté trattenere ancora. Di slancio abbracciò Kili, lo tenne stretto a sé mentre lo sentiva piangere in silenzio. Gli si fece più vicina e coprì anche lui con il mantello di pelliccia.
-Cosa dovrei fare ora Elemmire? Non posso più seguirlo, non dove lui vuole andare, ma è mio zio e il mio re. Ho giurato, ho promesso…
-Hai giurato fedeltà ad un nano diverso- mormorò Elemmire poggiando il mento sui capelli di Kili e chiudendo gli occhi mentre un ormai noto brivido la percorreva –Questo non è Thorin.
-E se invece lo fosse?- Kili si tirò su all’improvviso e la guardò ad occhi sgranati –Come faccio a sapere che non era quella di prima una finzione? Che questo non è davvero mio zio, la più vera e profonda parte di lui.
Elemmire cercò disperatamente qualcosa da dire.
-Lo sai e basta- balbettò –Perché Thorin non è la sua follia. È qualcosa che dipende da questa montagna, dal tesoro che custodisce, forse perfino dai rimasugli di drago che vi restano ancora. Tu devi fidarti di te stesso Kili. E di lui, soprattutto.
Kili la guardò intensamente. I loro respiri si condensavano i nuvole bianche mentre la neve cadeva silenziosa.
-E c’è qualcos’altro.
Lo so, avrebbe voluto dire Elemmire. Lo poteva leggere in quello sguardo che la faceva bruciare come se fosse stata seduta su tizzoni ardenti.
-Credo di non essere abbastanza forte per affrontare quello che succederà.
-Non si arriverà alla guerra Kili. Balin, Dwalin, loro fermeranno Thorin, non gli lasceranno dichiarare guerra ad un popolo di raminghi. Voi…
Kili la interruppe scuotendo la testa:-Non è certo a quello che mi riferivo. Quanto tempo ci rimane Elemmire? Prima che tu faccia ritorno a casa tua?
-Non lo so- sussurrò Elemmire, ed era sincera –Perché me lo chiedi?
-Perché per ogni giorno che tu passi vicino a me io guadagno un giorno di vita. Per ogni parola che mi rivolgi scavi un po’ più profondamente nelle mie ferite e allo stesso tempo quelle fanno un po’ meno male. Non so come tu riesca a farmi sentire il calore dell’estate anche in inverno, come se il sangue nelle mie vene si fosse mutato in fuoco liquido. Non ho pace, non ho requie, sono come un cervo ferito che non riesce a liberarsi della freccia che lo ha colpito. Sei il mio pensiero fisso in ogni momento e sento…sì, sento che senza di te io soffocherei. Ho bisogno di te come l’aria che respiro. Con quali altre parole posso dirtelo? Io mi sto innamorando di te, Elemmire. È folle. Lo so che è folle. Ma non posso mentire a me stesso su quello che provo.
Elemmire si girò verso Kili, gli occhi pieni di lacrime di gioia che minacciavano di traboccare come da una coppa. Erano ancora abbracciati sotto il mantello: bastò a Kili chinarsi in avanti dolcemente per far toccare le labbra. Le diede un bacio da febbricitante, timido e tremante, poi dischiuse le labbra e la baciò a fondo, con la lingua calda che scivolava tra i denti di Elemmire. Entrambi ignorando il come, si ritrovarono abbracciati strettamente, le mani avvinghiate ai capelli, succhiando ognuno il respiro dell’altra, baciandosi forsennatamente al ritmo dei loro cuori impazziti. Le labbra bagnate di Kili affondarono nel collo bianco di Elemmire, lo coprirono di baci d’addio, poi le bocche tornarono a congiungersi e uno stato di felicità così acuto da sembrare sofferenza portò Elemmire ad accarezzare con le mani il profilo del corpo di Kili, i muscoli delle braccia, la vita, la schiena. Il nano la stringeva tra braccia forti ed incommensurabilmente tenere, le scostava i capelli neri per poterle baciare l’incavo tra il capo e il collo, ed Elemmire si accorse che stava piangendo. Sempre avvolti nella stessa pelliccia scivolarono a terra, distesi, le mani, le braccia e le gambe intrecciate, un’agitazione febbrile addosso. Le maglie di ferro si strusciavano l’una all’altra e il loro ruvido tocco graffiava le mani di entrambi mentre cercavano di scambiarsi goffe carezze rese audaci dall’emozione inaspettata. Elemmire sentì la mano di Kili poggiata sul suo fianco, e poi sempre più già sulla coscia, sul gluteo, e mentre un calore vorticoso le esplodeva nel petto sentì il respiro bloccarsi. Fu una frazione di secondo. Una visione le passò davanti agli occhi, vivida come se il tempo non fosse passato. Vide Garen, il fratello di Andra, la sua migliore amica, affacciarsi alla porta della loro camera mentre studiavano e canticchiare qualcosa. No, non stava cantando. Diceva qualcosa.
-Lo sapevate che per l’episodio della morte di Kili e Fili in battaglia Tolkien si ispirò a Cloridano e Medoro?
Riemerse dalla visione boccheggiando. Scansò Kili e si alzò violentemente a sedere nel tentativo di recuperare il respiro.
-Elemmire? Elemmire, stai bene?
Il nano la guardava: aveva gli occhi scintillanti e le guance rosse. Emanava calore al sol guardarlo.
-Ho fatto qualcosa che non dovevo?- Kili si avvicinò per scostarle i capelli ma Elemmire, di scatto, allontanò la sua mano.
Ecco cosa stava cercando di ricordare. Ecco la memoria sepolta nel suo inconscio che l’avvertiva, la metteva in guardia, le imponeva di non affezionarsi. La morte di Kili e Fili.
Il respiro le mancò di nuovo ma questa volta poté quasi sentire i muscoli del petto contrarsi. Iniziò a tremare in preda a brividi freddi. Da lontanissimo sentì la voce di Kili che la chiamava: la ignorò e barcollando, al buio, rientrò nella Montagna. Scese le scale che conducevano alla Sala grande rischiando di cadere almeno due volte e appena trovò un angolo di muro libero si accasciò. Raggomitolata su se stessa con le ginocchia strette al petto e le braccia sulla testa riprese il controllo del suo respiro. Sarebbe morto, ora lo sapeva. Era scritto che sarebbe morto. Una lama di ghiaccio la perforò fino all’intestino. Sentiva il bisogno di piangere ma ricacciò indietro le lacrime. Doveva restare lucida. Riflettere.
Sarebbe morto. In battaglia. Sarebbero morti entrambi.
Si impose di numerare i respiri. Uno, due e tre, inspirare.
Era scritto, era scritto, era scritto.
Uno, due e tre, espirare.
Non si può cambiare il destino.
Uno, due e tre, inspirare.
Nessuno può cambiare il destino.
Uno, due e tre, espirare.
Magari si può.
Uno, due…
Deve esserci un modo.
Uno due e tre…
Devo trovare un modo.
Rialzò la testa che stava singhiozzando.
C’era un modo. C’era stato da sempre un modo. Era lì, davanti ai suoi occhi.
Oh, certo che si poteva cambiare il destino. Ma ad un prezzo.
Le sembrò di sentire la voce di Galadriel nella sua testa. Se cercherai di interferire nella storia, diverrai parte integrante della stessa. Non poteva farlo. Non doveva farlo. Per la prima volta dopo mesi sentì prepotente il richiamo della sua dimensione, del suo mondo, della tecnologia, del comfort, della normalità. Un conto era non voler tornare a casa nel momento presente, un altro conto non poterlo fare mai più. Una leggera sensazione di nausea l’assalì: non poteva rimanere prigioniera lì per sempre.
Poi ricordò il sapore della bocca di Kili. Le labbra morbide ed umide, il battito affannoso del cuore, il solletico che le aveva fatto la barba. Si lasciò travolgere da un’altra ondata di lacrime mentre si dondolava avanti e indietro, lacerata. Cosa le sarebbe importato di tornare a casa se Kili fosse morto? Non sarebbe anche una parte di lei morta con lui? Qualcosa in lei si ribellò, non seppe dire bene a cosa. La sua strada era tracciata con un’evidenza spaventosa: poteva tornare a casa, e Kili sarebbe morto, oppure sacrificare la sua vita passata e cercare di salvarlo. Ecco a cosa si riduce tutto questo viaggio, si disse mentre si chiudeva sempre più sul dolore pulsante che minacciava di spaccarla in due, una metà per ogni divisione.
O io o lui.
Non posso, non posso, continuò a ripetersi. Io voglio tornare a casa. Io voglio tornare a casa.
Casa. Continuò a ripetersi la parola nella testa per tutta la notte. Quando i singhiozzi smisero di scuoterla come venti di tempesta Elemmire si rialzò in piedi. Una leggerissima luce filtrava dall’apertura. L’alba era vicina. Un dolore fino a quel momento sconosciuto le ronzava nelle orecchie e nel cuore, ma non lasciò che la facesse crollare a pezzi mentre si legava al fianco il fodero di Nen Girith e a tracolla poneva arco e frecce. Nella luce grigia dell’alba avanzò come una dea guerriera. L’azzurro dei suoi occhi era intorbidito dai demoni che l’agitavano, ma non se ne curò. Respirò l’aria gelida e ricacciò indietro le lacrime bollenti prima che si congelassero sulle sue ciglia. Aveva preso la sua decisione. 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** la battaglia delle cinque armate ***


Il mattino illuminò un paesaggio ghiacciato, congelato in un singolo e bianco istante. Soffice neve copriva le rocce e stalattiti di ghiaccio pendevano dalla bocca della Montagna. L’aria era gelida e i respiri si condensavano contro il cielo appena solcato da qualche nube. Ben retti sulla barricata, i nani aspettavano. Elemmire e Kili non si rivolsero la parola. Gli sguardi di ognuno erano fieramente puntati sulla strada che conduceva all’ingresso, perché il mattino era chiaro come un diamante ma la neve attutiva ogni rumore.
Quando poi l’esercito fu visibile, nessuno poté dirsi realmente sorpreso. Spade, asce e mazze furono sfoderate. Kili incoccò. L’oro degli elmi non lasciava spazio a supposizioni: era un esercito di elfi. A centinaia e centinaia marciavano in mezzo alla neve come automi, apparentemente insensibili al freddo o al ghiaccio. Alcuni erano armati di archi, altri di lunghe e sottili lance. Ve n’erano qualche decina a cavallo di destrieri immacolati. Le chiome che spaziavano dal rosso al biondo parlavano chiaro: non solo elfi, ma silvani. Dunque di certo non fu con sorpresa che, svoltata una curva, re Thranduil del Bosco Atro si fece avanti in sella ad un’enorme renna dalle monumentali corna. Accanto a lui cavalcava Bard di Esgaroth, il viso pallido determinato quando quello dell’elfo era gelido. Con loro cavalcava anche qualcun altro. Un uomo vecchio, lacero, con un mantello grigio sulle spalle e un cappello a punta che nella mano destra impugnava un lungo e spesso bastone nodoso a mo’ di lancia.
Elemmire fece fatica a riconoscere Gandalf. Lo stregone pareva invecchiato di molti anni e la sua figura era più scarna che mai. Tuttavia, l’impressione era che fosse lui a guidare il gruppo, e di sicuro fu colui che diede alle truppe l’ordine di fermarsi. Thranduil e Bard cavalcarono in avanti e si fermarono esattamente sotto al portone barricato.
-Incocca Kili- disse Thorin a voce abbastanza alta perché i due cavalieri potessero sentirlo.
Il giovane nano tese l’arco. E così fecero centinaia di elfi. D’un tratto le punte delle frecce furono tutte puntate contro l’apertura. Di riflesso, Elemmire si accucciò a terra aspettando un sibilo che non venne. Rialzando la testa, vide che solo Kili, Fili e Thorin erano rimasti in piedi come statue di granito. Thorin fece segno a Kili di abbassare l’arco e un confortante rumore dall’altra parte indicò che l’armata di elfi aveva fatto altrettanto.
-Siamo venuti a dire che abbiamo ricevuto ed accettato la vostra offerta di pagamento- la voce di re Thranduil era gelida come una lama di ghiaccio. Elemmire si sporse leggermente per guardare.
-Quale pagamento?- rise Thorin –Voi non avete assolutamente nulla.
Thranduil guardò Bard. L’uomo respirò profondamente e infilò la mano nelle bisacce della sua cavalcatura.
-Abbiamo questo.
Quando alzò la mano, parve ad Elemmire che stesse tenendo tra le dita un pugno di pura luce. Nel guardarlo meglio poi, intravide scintille rosse e spirali blu che nuotavano nel bagliore come pesci in una boccia. Sbatté le palpebre.
-Hanno l’Arkengemma- mai si sarebbe aspettata che la voce di Kili potesse contenere così tanta rabbia e disgusto –Ladri! Schifosi ladri!
-Il re può riaverla indietro quando vuole- Bard lanciò la gemma in aria e la riprese con sicurezza tra le dita –A patto ovviamente che onori le sue promesse e paghi il dovuto.
Questa volta Bard pose l’Arkengemma dentro la sua camicia, sul petto. E sotto la stoffa il gioiello illuminò il riverbero di una solida cotta di maglia.
Thorin rise ancora, una risata folle che le fece accapponare la pelle:-Ci prendete per sciocchi, vero? Credete che non sappia riconoscere un trucco di magia elfica dalla vera Arkengemma?
-Quella è la vera Arkengemma Thorin.
Qualcuno avrebbe dovuto notarlo, che quella mattina Bilbo era assente. E che lo era stato anche la sera prima. Elemmire di certo non se n’era accorta.
Thorin si girò verso lo hobbit, la sua espressione di colpo concentrata.
-Gliel’ho data io stesso, stanotte, in quanto mia quattordicesima parte di bottino. Ce l’ho da quando siamo arrivati, e ho pensato fosse il modo migliore per metterla a frutto.
-Tu mi avresti derubato?
-Oh, no, non derubato. È mia di diritto. È la mia unica pretesa in quanto scassinatore.
-Pretesa! Ah, pretesa!- Thorin urlò così all’improvviso che Elemmire ne fu spaventata. Si accucciò di nuovo con le spalle alla barricata –Con che diritto tu avanzi pretese sul MIO tesoro? E dopo di questo cosa succederà?
Thorin si girò verso di lei con gli occhi infiammati di ira. Elemmire cercò di farsi più piccola che poteva:-Adesso inizierai anche tu ad avanzare pretese? Magari su mio nipote, sulla mia dinastia e sulla mia casata? Magari sui miei eredi?
La sorpresa e l’imbarazzo le fecero salire il sangue al viso.
-No- boccheggiò –No, io non ho mai…
-Lei non c’entra assolutamente nulla, Thorin. Il problema sei tu. Sei cambiato. Il nano che ho conosciuto a casa Baggins non si sarebbe mai rimangiato la parola data e mai, mai avrebbe dubitato dei suoi familiari, della loro lealtà!
Bilbo fronteggiò Thorin ostentando una pacata ma inflessibile fermezza. Con la testa alta guardava il nano negli occhi, quegli occhi che brillavano come tizzoni, come fuochi d’inferno.
-Tu parli a me di lealtà, mezz’uomo?- il ruggito di Thorin fece tremare le pietre. Elemmire si coprì la testa con le braccia –Tu, verme strisciante, tu che ti sei macchiato di tradimento?
Dwalin intervenne in tempo per impedire a Thorin di avventarsi sullo hobbit.
-Prendete il traditore e la puttana e legateli- ordinò, all’improvviso gelido. Elemmire sentì un brivido percorrerla. Dwalin si mosse lentamente e si parò di fronte a lei. Il grande nano teneva gli occhi bassi, mortificato, e con delicatezza le legò le braccia dietro le schiena.
-Dwalin, io non ho fatto nulla, lo giuro, non so di cosa stia parlando…- sussurrò Elemmire sull’orlo delle lacrime.
-Lo so, lo so- rispose –Ma è meglio dargli quello che vuole. Non vi farà del male.
Elemmire trattenne un fremito di paura. Poteva credere alle parole del nano se nemmeno lui ci credeva davvero?
-E ora, prendeteli e buttateli sotto.
Elemmire sgranò gli occhi: c’era un salto di almeno trenta metri dalla fortificazione fino al suolo. Trenta? Anche quaranta, si corresse mentalmente. Iniziò a tremare.
Nessuno si mosse. Sulla barricata scese il silenzio. Ogni nano rimase come pietrificato al suo posto.
-Non mi avete sentito? Ho detto di buttare giù i traditori.
Elemmire si appoggiò con la schiena alla roccia e si concesse di guardare, per un attimo, Kili. Il nano teneva la mascella così serrata che poteva vedere ogni singolo muscolo del collo contrarsi. Le nocche con cui stringeva l’arco erano bianche ma non si muoveva di un soffio.
-Non mi avete sentito?- Thorin prese Fili per il bavero della tunica e lo spinse contro Bilbo. Il giovane nano si divincolò e poi in silenzio si parò tra lo zio e lo hobbit. All’improvviso tutti divennero consapevoli del micidiale spadone che pendeva al fianco di Fili, e la parola “insubordinazione” sfiorò le menti di molti.
-Sta bene. Lo farò io allora- con una poderosa spallata Thorin gettò a terra Fili e afferrò Bilbo. Come se lo hobbit fosse stato senza peso lo tenne sollevato sopra l’orlo della fortificazione. Elemmire iniziò a divincolarsi febbrilmente dalle corde che la legavano fino a spezzarle.
-Se non ti piace il mio scassinatore ti pregherei almeno di non rovinarmelo. A me serve ancora tutto intero.
Gandalf avanzò in sella al suo stallone, il bastone tenuto alto e la voce che echeggiava tra le pietre. La vista dello stregone parve far desistere Thorin e per un momento il nano abbassò il braccio. Fu sufficiente a Bilbo per sgusciare via. Bofur fu fulmineo nel tendere a lui e ad Elemmire una corda ben spessa:-Andate, veloci.
Bilbo legò un’estremità della corda ad una guglia della fortificazione e si calò di sotto, ma Elemmire non si mosse:-Andare dove?
La stavano cacciando?
-Via, veloce, non fatevi vedere. Prima che si riprenda.
-Mai più stringerò accordi con gli stregoni- stava tuonando Thorin. Elemmire si strinse meglio il cinturone, mise in spalla la faretra e, afferrata saldamente la corda, saltò oltre il bordo. La sensazione fu suggestiva: era sospesa nel vuoto e il suo primo istinto fu di rimanere appesa e gridare aiuto. Ma le voci che si alzavano sempre più da una parte e dall’altra le fecero recuperare un minimo di lucidità: con gli occhi chiusi e appoggiandosi alla parete di roccia irregolare che era la muraglia iniziò a calarsi. Furono minuti lunghissimi. Si aspettava ad ogni frazione di secondo che qualcuno tagliasse la corda facendola precipitare a terra e il battito del suo cuore era così frenetico da sovrastare qualsiasi altro rumore. Prima di toccare terra sentì due braccia forti attorno al busto che la presero e la poggiarono delicatamente al suolo. Frastornata, ebbe bisogno di appoggiarsi a Bard per recuperare l’equilibrio e schiarirsi la mente.
-Stai bene?- le chiese l’uomo poggiandole le mani sulle spalle. Non attese risposta e alzò lo sguardo verso la barricata. La barricata.
-Allora, Scudodiquercia, avrai pace o guerra?- Elemmire avvertì la sofferenza nella voce di Bard. Da vicino era chiaro poi che non dormiva da molte notti. Guardò anche lei la cima della fortificazione: sembrava così impenetrabile dal basso quanto era fragile dall’interno. Una piccola ombra nera si dipinse sul cielo all’improvviso plumbeo che minacciava ancora una volta neve. Uno svolazzo di piume e un verso gracchiante la seguivano: un corvo. L’uccello si appollaiò sulla guglia da cui la corda ancora pendeva ed Elemmire udì il grido di giubilo dei nani.
-Avrò la guerra- urlò Thorin. Un ruggito seguì le sue parole.
E la terra tremò. Un rumore continuo come di martellate la scuoteva. Istintivamente Elemmire sfoderò Nen Girith e si guardò intorno, i sensi all’erta. Dietro Erebor, lo notò solo in quel momento, c’era una specie di giogo montuoso che degradava dolcemente verso sud-est. I pochi alberi che rachitici si arrampicavano sulla roccia erano coperti di neve, ma qualcosa li stava scuotendo perché una cascata di fiocchi congelati cadeva dai rami fino al suolo.
-Arriva qualcuno, in formazione- urlò Bard risalendo a cavallo e trotterellando verso i suoi. Thranduil gridò una serie di ordini in elfico alle sue armate che incoccarono le frecce e presero la mira. Nella confusione che si stava scatenando Elemmire fece vagare disperatamente lo sguardo attorno a sé alla ricerca di Gandalf. Si confuse tra le truppe degli uomini e si fece trasportare dai loro passi. L’esercito di pescatori e contadini si fermò all’improvviso ed Elemmire rischiò di infilzare l’uomo che le stava davanti. Abbassò la lama e si alzò in punta di piedi per vedere. La sommità del giogo roccioso era coperta di figure. Sembravano degli orsi in armatura e solo dopo un’acuta analisi si rese conto che erano nani. Nani avvolti nel ferro che brandivano armi di acciaio in sella a delle enormi capre. Li guidava un nano dalla stazza notevole con una lunga barba nera come l’inchiostro e una mazza da guerra alta quasi quanto lei al fianco.
-Elemmire! Elemmire- all’improvviso la voce di Gandalf la stava chiamando. Elemmire si svincolò come poté e raggiunse lo stregone che, in sella al suo cavallo, si faceva strada tra i fanti.
-Dove ti eri cacciata, ti ho cercata ovunque!
-Cosa sta succedendo Gandalf? Chi sono quelli?
-Quelli? Quelli sono i nani dei Colli Ferrosi guidati dal loro principe, Dain Piediferro. Quello zuccone di Thorin deve averli convocati in armi appena presa la Montagna. Come se non avessimo abbastanza grane per conto nostro senza l’intervento di un esercito di nani!
Un ruggito bestiale squarciò il silenzio. Elemmire si girò: i nani si erano lanciati al galoppo giù per la collina con le armi sguainate.
-Ci stanno attaccando!- esclamò incredula. No, non poteva esserci battaglia… Tutti gli incubi degli ultimi mesi, le oscure profezie e premonizioni, l’assalirono di colpo.
-Trovati un posto nelle retrovie e non muoverti di lì- le ordinò Gandalf prima di galoppare in avanti. Elemmire venne sballottata di qua e di là da gente che si muoveva, che si accalcava e si urtava, mentre il suono di ordini gridati in tre lingue diverse, il sibilo delle frecce e il cozzare dei metalli le rendeva difficile udire il suono dei suoi pensieri. Si impose di non cadere nella trappola del panico.
La terra tremò di nuovo. D’istinto, Elemmire si girò verso il colle da cui ancora defluivano nani a dorso di capre. Una profonda voragine si aprì nel terreno, ingoiando bestie e cavalieri senza distinzione, e nel polverone di roccia stritolata e neve frantumata che ne seguì si profilarono alcune figure. Elemmire le aveva già viste, si ricordò in un guizzo. Erano Troll. E in mezzo a loro sciamarono un numero indefinito di orchi a cavallo di Mannari. Alle urla di uomini e nani si aggiunsero i ruggiti e gli ululati. I tre eserciti che fino a quel momento avevano mulinato le spade e le mazze gli uni contro gli altri –e del sangue macchiava già la candida neve- dovettero riorganizzarsi per far fronte comune. La confusione era assoluta ed iniziò la carneficina. Incapace di stare a guardare, Elemmire si gettò nella mischia. C’era stata una consapevolezza che l’aveva sempre accompagnata negli altri combattimenti che aveva affrontato, e cioè di avere accanto a sé persone che non avrebbero permesso che nulla di male le accadesse. Ma adesso, in campo aperto, ognuno valeva per sé; ed Elemmire si ritrovò di fronte alla vertiginosa prospettiva di poter, da un momento all’altro, morire. Decise di ignorare la paura che vorace e stridente le attraversava le viscere. Alzò la spada e iniziò ad uccidere. Gli orchi indossavano sommarie parti di armatura: era quindi vitale colpirli nei punti scoperti. In cuor suo ringrazio la sua buona stella che le aveva dato modo di procurarsi una cotta di maglia: più di una volta sentì la lama di una spada scivolare sugli anelli del dorso lasciandole una striscia indolenzita o un livido. Cercò freneticamente di riunirsi alle armate degli uomini di Bard, perché sapeva fin troppo bene che una preda isolata attira i cacciatori come il sangue le mosche, e si sorprese di vedere solo elmi dorati e di acciaio brunito a perdita d’occhio. Girò la testa verso Dale e il cuore le saltò in petto. Ecco perché non era rimasto nessun uomo davanti ad Erebor: i Troll, con alcuni battaglioni di orchi, si stavano dirigendo verso le rovine dell’antica città.
Mio Dio, pensò attonita, lì ci sono i bambini. A colpi di lama si fece strada fino al sentiero che scendeva a Dale e iniziò a correre sul ghiaccio. Dietro di sé sentì un rimbombare di zoccoli: si fermò sul bordo della strada con la spada alzata, l’elsa viscida di sangue che le impregnava le dita, ma era solo un cavallo che, perduto il cavaliere, cercava di tornare verso la città. Elemmire si pulì le mani sporche di sangue sulle brache per non spaventare l’animale, lo avvicinò e calmatolo salì in sella. Il cavallo, evidentemente addestrato appositamente, partì al galoppo senza che lei avesse tempo nemmeno di sfiorare le briglie, il che non le fu certo di vantaggio. Stringendosi forte al collo della bestia, Elemmire si concentrò per non cadere a terra.
Sotto le mura di Dale si stava svolgendo un cruento assedio. I Troll stavano demolendo le mura pietra dopo pietra mentre gli abitanti, dalle torri diroccate, cercavano di fermarli con lanci di frecce e detriti. Elemmire cercò di non tremare di paura mentre alzava il busto dal cavallo lanciato al galoppo per estrarre una freccia dalla faretra. Tirò le redini e si fermò a debita distanza. Si alzò sulle staffe come un’amazzone e prese la mira. Doveva entrare in città e c’era un solo modo per farlo: liberare l’entrata principale. Aveva le mani sudate ma si impose di non sbagliare. La freccia compì una traiettoria perfetta e colpì il bersaglio: la grande testa calva del Troll. Il mostro intento alla demolizione ululò di dolore e si guardò intorno, confuso. Una freccia sola non basta, si rese conto Elemmire. Incoccò ancora e scoccò. Stavolta non solo il Troll, ma tutti gli orchi che erano attorno a lui si girarono verso di lei. Elemmire sentì la paura stringerle il petto, ma si disse che non le sarebbe mai capitata un’altra opportunità. Aspettò che si avvicinassero, tutti quanti, e quando fu certa di non sbagliare scoccò un’ultima freccia. L’asta bianca si conficcò in profondità nell’occhio del Troll. La bestia mugghiò, ondeggiò sui piedi e poi crollò a terra, schiacciando molti dei suoi. Dalla città si udirono grida di giubilo ed Elemmire stessa non poté che sorridere, orgogliosa.
Non si godette a lungo il suo momento di gloria. Gli orchi, fortunatamente appiedati, le erano quasi addosso. Spronò al galoppo il cavallo e chiuse gli occhi. Presto una folla di ributtanti creature le s accalcò intorno. Sollevò la spada, incrostata di sangue nero, e sfruttò la posizione soprelevata per aprirsi la strada a fendenti. Tranciò la testa ad un orco che aveva cercato di tirarla giù dalla sella e ad un altro mozzò il braccio che si era proteso verso il suo morbido collo. Si abbassò di nuovo sul collo del cavallo e si rese conto che doveva essere stato la cavalcatura di un elfo, perché era addestrato a mordere e scalciare per tenere gli orchi a debita distanza. Rincuorata e piena di gratitudine per la splendida bestia, Elemmire raggiunse al galoppo il portale e gli uomini che da dentro lo difendevano aprirono un sottile spiraglio per farla entrare, toccandole le gambe e le braccia come con una reliquia. Fu il momento in cui si rese conto di essere ferita. Nella mischia una lama doveva averla colpita perché un lungo sfregio, non profondo ma lungo tutto il suo polpaccio, le macchiava la stoffa dei pantaloni di sangue vermiglio. In un lampo si ricordò della freccia avvelenata che aveva colpito Kili e tremò. Frenò il cavallo e scese di sella. Il dolore non era tale da impedirle di reggersi sulle gambe, e questo la fece sentire più tranquilla. Strappò i brandelli di stoffa che ancora penzolavano sulla ferita e li annodò per formare una specie di laccio emostatico all’altezza del ginocchio. Questo avrebbe rallentato il propagarsi del veleno, se ce n’era, e non le sarebbe stato d’intralcio mentre si muoveva a cavallo. Al passo percorse le strade piene di macerie innevate e si orientò ascoltando da dove provenivano le urla. Con la spada in pugno svoltò un angolo e quasi fu travolta da una folla di donne che correva.
-Hanno aperto una breccia!
-Sono dentro!
-Che gli dei ci salvino tutti!
Il coro di voci disperate e pianti di bambini fu seguito da ruggiti e stridii di spade. Elemmire rimase indecisa: doveva andare con quelle indifese, pensare alla loro protezione, o unirsi alla lotta dove le mura erano state prese? Soppesò la situazione per un attimo mentre il cavallo scalpitava inquieto, poi vide un altro gruppo di donne e bambini sopraggiungere dalla medesima direzione. Era guidato dal giovanissimo figlio di Bard, Bain.
-Bain, Bain!- Elemmire lo chiamò e il ragazzo si fermò vicino al suo cavallo, guardandola con occhi da adulto nel viso pallido di un bambino.
-Dove stai andando?
-Devo portare gli indifesi alle rovine della fortezza e difenderli- come per dare forza alle sue parole, Bain alzò la spada che aveva in mano, uno spadone lungo, troppo lungo per lui. Elemmire sentì una stretta al cuore:-Hai bisogno di un rinforzo?
-Mio padre mi ha detto di mandargli tutti i guerrieri che riuscivo a trovare- il ragazzo la soppesò con lo sguardo, prima le sue chiome scarmigliate e poi la spada intrisa di sangue –Quindi suppongo tu serva più a lui che a me.
-Dov’è lui ora?
-Alla breccia sulle mura- rispose una prosperosa donna dal viso rubizzo che stringeva al petto un bimbo biondo –Vola da lui, ragazza, noi sappiamo come badare a noi stesse.
Elemmire spronò il cavallo e si separò dal gruppo. Una grande rabbia si fece strada in lei. I bambini non dovrebbero tenere spade e combattere, pensò con amarezza. Strinse più forte l’elsa della spada. Gli zoccoli del cavallo producevano scintille sulle pietre della strada mentre al galoppo sostenuto si dirigevano verso le mura. Elemmire iniziò a vedere i corpi: uomini che giacevano riversi ai lati della strada, oppure sui davanzali delle finestre, gli occhi aperti in un muto grido. Non poté trattenersi dallo scendere di sella per avvicinarsi agli uomini. Con le lacrime agli occhi tastò la fronte e il polso di ognuno alla ricerca di un debolissimo battito vitale, ma non ve n’era. Morti. Sotto i suoi stivali le crepe del lastricato trasudavano sangue. Rimontò a cavallo e prese una strada laterale: era chiaro che gli orchi erano già passati di lì. Risalì molte viuzze ingombre di macerie e cadaveri seguendo una scia di sangue che diventava sempre più fresca. Il cavallo mostrava chiari segni di nervosismo e l’odore della morte dava la nausea anche a lei. Si fermò al capezzale di un vecchio che aveva rantolato chiedendo dell’acqua e gli concesse la dignità di non spirare da solo; poi infine raggiunse lo stremato manipolo di uomini del Lago. Tra di loro, Bard quasi si confondeva. Aveva perso chissà dove il cavallo e un taglio sulla fronte gli faceva colare sangue negli occhi e lungo la guancia, ma sembrava non accorgersene perché combatteva come una furia, i denti snudati in un ruggito mentre teneva a bada i nemici. Elemmire non aspettò ordini: piombò in mezzo agli orchi, che la strettoia della strada aveva messo in difficoltà, e a sangue freddo ne uccide una mezza dozzina  prima che qualcuno potesse capire cos’era successo. Altri caddero sotto gli zoccoli affilati del cavallo. Grati per il momento di respiro che il diversivo aveva dato loro, gli uomini si riorganizzarono e attaccarono con rinnovato vigore. Gli orchi rimasti ritirarono e verso una strada secondaria e nessuno pensò ad inseguirli.
-Ti siamo debitrici, Elemmire- Bard le strinse la mano in una morsa ferrea, da guerriero.
-Ho incontrato Bain, mi ha detto che avevano aperto una braccia.
-Bain! Sta bene?
-Stava salendo verso la fortezza, come tu gli hai detto.
-Saranno al sicuro lì- Bard sembrò voler convincere se stesso –Dobbiamo dare la caccia a quelli che rimangono in città e sbarrare le brecce che si sono formate nelle mura. Avevano pensato che sarebbe stati facile fare strage di indifesi con i Troll, ma a quanto pare ci siamo dimostrarti un osso più duro del previsto, perché in pochi hanno dato man forte ai mostri.
-Sono al tuo comando- Elemmire, chissà come, riuscì a sorridere.
-Torna alle mura. Hai un arco, perciò trovati una postazione elevata e difendila a costo della vita.
-Non penso di poterla difendere altrimenti- Elemmire fece rigirare il cavallo e al trotto ridiscese le stesse identiche strade che aveva fatto all’andata. Da qualche parte la carneficina continuava, ma quella parte di città era tranquilla. Per la prima volta Elemmire si rese conto di quale vantaggio le avesse dato stare in sella ad un cavallo e ringraziò, ancora una volta. Raggiunse una delle torrette di avvistamento, ormai diroccate, che sorgeva a poca distanza da un ingresso secondario che dava ad ovest, e lasciato il cavallo prese posizione. Dovette scavalcare pezzi di davanzale e solaio che erano crollati all’interno della torretta, ma in un modo o nell’altro si issò in cima e si mise di guardia. Sistemò accanto a sé la faretra e l’arco, pulì la spada sui pantaloni e analizzò i danni riportati. La gamba ferita le prudeva per via del laccio emostatico, ma l’emorragia si era bloccata da tempo e la pelle intorno al taglio non era nera né mandava cattivo odore. Ovunque, sotto la cotta di maglia, sentiva pulsare lividi e contusioni e quando cercò di prendere un respiro profondo si accorse che doveva avere una costola incrinata.
Poteva andare peggio, si disse. Si accucciò sul davanzale mezzo crollato e fissò la Montagna, i suoi picchi coperti di nebbia e neve. La cosa che la rendeva tranquilla era sapere che Kili era al sicuro, asserragliato dentro la fortificazione. Chiuse gli occhi: non si sarebbe rimangiata la sua decisione. Così era, così sarebbe stato. Si scostò i capelli dal viso schizzato di sangue. D’un tratto due figure comparvero sulla strada che portava alla porta. Elemmire si alzò in piedi di scatto e imbracciò l’arco, per poi schizzare fuori dalla torre quando un guizzo di capelli rossi catturò il suo occhio.
Uscì dalla costruzione cadente appena in tempo per vedere i due cavalli, uno bianco e uno baio, entrare dalla porta. Tauriel e Legolas apparivano stremati, ma non avevano ferite.
-Mellon Eldarin- Tauriel le rivolse stancamente la parola –Che cosa ci fai qui?
-Si sono introdotti nella città. Hanno aperto delle brecce, ma li abbiamo ricacciati indietro.
-Chi?- Legolas aggrottò le sopracciglia.
Elemmire li guardò sbalordita:-Gli orchi, ovviamente.
Tauriel e Legolas si guardarono, puro terrore nei loro occhi. –Ci siamo sbagliati- sussurrò Tauriel –Ecco perché a Colle Corvo c’erano cadaveri.
Elemmire rimase a fissarli senza capire.
-Elemmire, si combatte solo qui?
-No. Hanno attaccato ai piedi della Montagna, poi alcuni con i Troll sono venuti qui. Thranduil e gli elfi, insieme ai nani di Dain, sono ancora là.
-Era un diversivo- Tauriel si portò le mani ai capelli in un gesto di pura disperazione –Non capite? Era un diversivo.
-Cosa era un diversivo?- Elemmire sentì crescere in sé la paura davanti all’angoscia dell’elfa.
-Noi veniamo da i confini con Angmar. Abbiamo cavalcato tutta la notte per battere sul tempo un’armata di orchi guidati da Bolg in persone che sta arrivando qui dall’ovest. È l’armata più grande che sia mai stata vista da occhio umano, migliaia e migliaia di orchi e attaccheranno da Colle Corvo gettandosi da questa parte. Quello è il grosso delle forze. Quelle che avete combattuto finora erano un diversivo per stremarvi e dividervi in tanti gruppi frazionati, in modo da potervi spazzare via in un colpo solo.
Elemmire sentì le vertigini assalirla. –No- mormorò. Non aveva la forza per affrontare altre milizie fresche ed uscirne viva. Nessuno ne aveva la forza.
-Dobbiamo parlare con un capo militare. Chi comanda qui?
-Bard. Venite con me- mentre tutto lo sconforto e la stanchezza le cadevano d’un tratto sulle spalle, Elemmire risalì per l’ennesima volta a cavallo e guidò i due elfi attraverso le strade fino alla fortezza, che mezza carbonizzata dalle fiamme del drago dominava la città di Dale dall’alto. Aveva intuito bene: trovarono lì Bard che stava distribuendo vino ai feriti e ai superstiti. L’uomo aveva un sorriso stanco ma soddisfatto:- Li abbiamo respinti, Elemmire. Non ce n’è rimasto uno solo.
L’espressione terrea di Elemmire dovette fargli capire che qualcosa non andava. Bard guardò i due elfi che cavalcavano alle sue spalle e scambiò con loro parole che Elemmire non udì, la sua attenzione all’improvviso catalizzata dal coro di lamenti che proveniva dalle tettoie sotto cui erano sdraiati i feriti. Aveva combattuto tutto il giorno e se l’era cavata, ma questo non cambiava la sua natura: scese di sella e si avvicinò. Una donna la urtò e quando si girò per chiederle scusa i suoi occhi si illuminarono:-Tu sei quella che ha ucciso il Troll. Ti ho vista prima.
Elemmire fece un gesto con la mano:-Posso essere d’aiuto?
-Hai mai curato un ferito di guerra prima?- chiese la donna con aria materna.
Elemmire scosse la testa. –Ma ho curato delle ferite, se è questo che intendete- aggiunse poi in fretta.
La donna scosse la testa:-Non darmi del voi, ragazza, qui siamo tutti uguali. Vieni, se insisti, ma a meno che tu non sia una maga non credo che sarai molto di aiuto.
Elemmire la seguì con passo tremante sotto una tenda alzata alla bell’e meglio. Il tanfo orribile del sangue e della morte impregnava l’aria densa come acqua. Elemmire tossì, il puzzo che le chiudeva la gola. Alla luce debole di alcune candele erano sdraiati decine di feriti, la maggior parte coperti di sangue. Un giovane a pochi passi da lei aveva una gamba completamente squarciata a metà, l’osso che si vedeva sotto il muscolo rosso e palpitante. Ad un altro mancava del tutto un braccio e la camicia era così intrisa di sangue che sgocciolava sulla roccia e sulla pietra creando un sottile rivolo rosso. La donna con cui aveva parlato si diresse verso un guerriero che aveva ancora mezza lama di spada conficcata nelle budella. Elemmire capì che se l’avessero estratta l’uomo sarebbe morto dissanguato in pochi minuti. Sentì la gola chiudersi e le mancò l’aria. A tentoni trovò l’ingresso della tenda ed uscì fuori. L’aria gelida la schiaffeggiò e le liberò i polmoni. Respirando boccate d’aria che presto divennero singhiozzi si accasciò per terra, tutto quel sangue impresso nella retina come un marchio, il puzzo della morte sui vestiti. Ad occhi disperatamente aperti calmò il suo respiro impazzito e si asciugò le lacrime. La morte. La morte. Poteva sentire il rumore di vite che si spegnevano di colpo.
A poca distanza da lei, Tauriel e Legolas stavano parlando con Gandalf. Elemmire registrò l’informazione in modo meccanico, ma in un attimo le tornò addosso la stanchezza e l’angoscia. Sarebbe morta anche lei, e presto. Il pensiero la fece alzare come una molla e con passi veloci si diresse verso lo stregone lasciandosi dietro una scia di paura.
-E Colle Corvo sia dunque- Gandalf cercava di mantenersi calmo, ma da come muoveva gli occhi si capiva che un tipo particolare di terrore afferrava anche lui –Me lo sentivo che l’idea di Thorin era pessima.
-Quale idea?- si intromise Elemmire, all’improvviso all’erta.
-Quella di salire fino a Colle Corvo. Gli era sembrato di vedere Bolg lassù e volevano andare in avanscoperta.
-Volevano?- eccola di nuovo, la paura. Bruciante, dolorosa.
-Lui, Dwalin, Fili e Kili si sono fatti strada con l’acciaio tra gli orchi per salire sopra quel picco ghiacciato. È stato uno spettacolo notevole.
-Ma ci sono delle armate che stanno arrivando a Colle Corvo! Loro…- avrebbe voluto dire che sarebbero stati uccisi e che era stata l’idea folle di un folle salire su quella montagna di ghiaccio, ma un altro pensiero si sostituì al primo –Loro non sanno nulla, vero Gandalf?
E come potevano? Era stata lei la prima ad ascoltare la notizia. Ovviamente non sapevano nulla. E c’era di più. Elemmire aveva visto Colle Corvo: vi aveva montato la guardia davanti nemmeno un’ora prima. Era un picco desolato coperto di rovine, con una cascata congelata sul lato verso Dale e uno strapiombo pauroso verso Erebor. Con quel tempo sarebbe stato un miracolo scenderne; ma il cielo si andava sempre più scurendo e già minuscoli fiocchi volteggiavano nell’aria. Sarebbero rimasti intrappolati lì sopra. Sarebbero stati massacrati. Una voce dentro di lei urlò.
-Andrò ad avvertirli- Gandalf stava dicendo qualcosa ma Elemmire lo interruppe, nelle orecchie solo il battito del suo cuore che contava i secondi –Hanno bisogno di qualcuno che li avvisi di quello che sta per arrivare. Io ho un cavallo, posso raggiungere Colle Corvo in poco tempo, magari battere sul tempo gli orchi!
-Ti farai ammazzare- stavolta la voce era di Tauriel, dura e tagliente come un diamante –Non c’è bisogno di un altro cadavere lì sopra, ma di due braccia forti qui.
-Eppure io andrò- affermò risoluta Elemmire.
-Andrai dove?- da una delle numerose tende spuntò fuori una testa bionda e ricciuta e un naso all’insù. Bilbo la fissò con lo sguardo corrucciato.
-Il grosso dell’armata sta arrivando a Colle Corvo, dove sono Thorin e alcuni nani, e io vado ad avvisarli.
-Vengo anch’io- Bilbo non la fece neppure terminare –Ovviamente vengo anch’io. Hai un cavallo?
Elemmire annuì.
-Non siate sciocchi- Tauriel incrociò le braccia sul petto –Perché gettare così le vostre vite? Mithrandir, dite qualcosa!
-Tauriel, abbiamo bisogno di messaggeri. Thorin non sa a cosa è andato incontro e qualcuno deve dirglielo prima che sia troppo tardi. Se non andranno loro, andrò io.
-No Mithrandir, tu servi qui! Per organizzare la resistenza, per dare fiducia agli uomini. Non c’è nessuno che…
-Andremo anche noi- Legolas, che era rimasto in silenzio per tutta la conversazione, si fece avanti –E’ per questo che siamo venuti qui. Per avvertire prima che fosse troppo tardi. Se partiamo subito possiamo ancora raggiungere Colle Corvo prima di Bolg.
Legolas aggiunse alcune parole in elfico per Tauriel, che non rispose e abbassò la testa.
Elemmire risalì in sella. Si disse che se fosse sopravvissuta avrebbe lei stessa nutrito il cavallo dalla sua stessa tavola. Dietro di lei si issò Bilbo. I tre cavalieri salutarono Gandalf, che rivolse ad Elemmire uno sguardo molto penetrante, e poi partirono. Tauriel e Legolas li guidarono al trotto sostenuto fuori da Dale e poi su per un sentiero che saliva verso il colle ghiacciato. La neve iniziava a cadere. 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Colle Corvo ***


 
Colle Corvo sorgeva, a linea d’aria, dietro Erebor. Protetto a ovest dal massiccio principale della Montagna, era del tutto esposto a nord e ad est; venti violenti sferzavano le sue guglie frastagliate e scavavano tunnel nella roccia alti quanto un nano. Una serie di rozzi gradini erano stati intagliati sul fianco in modo che un nano, a dorso di una robusta cavalcatura, potesse tentare l’ascesa. Ma gli elfi ed Elemmire avevano solo cavalli e la superficie della roccia era coperta di infido ghiaccio. Si risolsero così a salire a piedi, gli archi pronti tra le mani intirizzite dal gelo. Superarono una monumentale cascata congelata e risalendone il corso conquistarono la sommità del colle. Dove il fiume era ghiacciato c’era una striscia di azzurro luminoso che intervallava la grigia pietra. La neve scendeva fitta e già iniziava a poggiarsi sui loro capelli in piccoli fiocchi bianchissimi. Elemmire stava tremando dal freddo e si rammaricò di non avere con sé un mantello ma solo gli indumenti da battaglia. La cotta di maglia era gelata sopra la camicia.
Legolas fece cenno loro di muoversi in silenzio e incoccò una freccia. Elemmire sguainò la spada e rivedere la lama appena appannata di sangue nero le fece tornare in mente l’infermeria. Ricacciò indietro il pensiero della morte.
-Capre- Legolas fu il primo a vederle. Quattro enormi montoni dal folto vello nero e le corna splendidamente ricurve erano accovacciati gli uni stretti agli altri per scaldarsi, i loro respiri che si condensavano nell’aria gelata.
-Sono le cavalcature dei nani. Non devono essere molto lontani- disse Bilbo tenendo alta Pungolo, la sua spada.
-No- concordò Tauriel –Dobbiamo trovarli prima che arrivino gli orchi. È di essenziale importanza che ci ricongiungiamo con il grosso dell’esercito davanti ad Erebor.
-O quel che ne è rimasto- mormorò Legolas.
-Non importa quanto ne è rimasto, dal momento che abbiamo vinto.
Il tono di voce di un re è qualcosa che non si dimentica. Figurarsi quello di un re dei nani.
Elemmire si girò lentamente. Thorin e Dwalin erano dietro di loro, le armi sguainate ma in apparenza non troppa fretta di usarle. Thorin aveva i capelli sciolti sulle spalle e nessun cerchio d’oro, nessun simbolo che marcasse il suo rango.
-Thorin- Bilbo si fece avanti sgomitando –Dobbiamo andarcene subito. Ne arriveranno altri, forse sono già dall’altra parte del colle. Sono migliaia di migliaia. Quello che ci ha attaccato non era che un decimo delle loro forze, un diversivo per dividerci e spossarci. Il grosso delle truppe che guida Bolg arriverà a breve e passerà da qui, da Colle Corvo. La strada inizia a ghiacciare, non possiamo aspettare a lungo o rimarremo bloccati.
-Siete venuti fin qui per avvisarci?- Thorin guardò prima Bilbo e poi Elemmire con un’espressione quasi dolce. Elemmire strinse di più l’elsa della spada e si preparò alla reazione imprevedibile di un matto. Ma Thorin si volse verso Dwalin e disse:-Fa che non sia in vano. Cerca i ragazzi, riportali qui.
Dwalin partì trotterellando verso le rovine delle torrette di avvistamento, ma Thorin si avvicinò. Guardò negli occhi Bilbo, poi le tue stelle di marmo grigio si alzarono e incontrarono le punte di zaffiro di Elemmire. Non c’era traccia di fuoco e fiamme, né un velo di fumo li annebbiava. Erano all’improvviso tersi come il cielo di un mattino d’inverno. Il cielo plumbeo li faceva sembrare quasi verdi e per un attimo ad Elemmire parve di fissarsi allo specchio. Thorin si toccò il petto con la mano destra e abbassò la testa con dignità. –Perdonatemi- sussurrò. Non servì altro. Bilbo abbracciò il nano come se avesse ritrovato un vecchio amico ed Elemmire, d’improvviso più leggera e fiduciosa, si portò la mano destra al petto e chinò il capo. Era guarito. Il re era tornato.
-Elemmire!- un’altra voce le allargò il petto e le fece spiccare il volo. Kili era in piedi sulle rocce, qualche metro più in alto di lei, e nonostante fosse sporco di sangue c’erano ottime possibilità che non fosse il suo. Sorrideva con talmente tanto trasporto che Elemmire non poté che ricambiarlo. Una corda dolorosa suonò in lei. Si trattennero uno davanti all’altra, la stessa forza che li portava in avanti che imponeva loro di rimanere fermi, finché Fili non intervenne e mise la mano sulla spalla del fratello. Lanciò ad Elemmire uno sguardo profondo che sapeva più di fratellanza che amicizia e poi disse:-Non dobbiamo perdere tempo. Dobbiamo prendere la strada che torna giù prima che ghiacci.
I due nani saltarono al suolo seguiti da uno sferragliare di armature e spade. Elemmire vide che Kili non aveva con sé l’arco.
-Dobbiamo avvertire mio padre, quindi vediamo di incamminarci- Legolas, asciutto come sempre, girò sui tacchi e incominciò a scendere lungo la strada, tra le guglie rocciose che pesavano sul suo capo come condanne. Ma dopo pochi passi scivolò e dovette reggersi alla parete per non precipitare. Imprecò in elfico e poi alzò lo sguardo su quelli che erano rimasti indietro:-E’ già tutto ghiacciato. Dobbiamo procedere lentamente e sperare che non inizi a soffiare vento. Elemmire, scendi tu per prima, stammi vicina.
Elemmire scese piano sul viottolo e ricordò di non guardare in basso. Afferrò la mano di Legolas e dietro di sé vide la rossa figura di Tauriel. Fece qualche passo, scivolò costringendo Legolas a fermarsi e a rialzarla. La sua cotta di maglia rigò il ghiaccio e le sua membra erano così congelate che era difficile controllarle e coordinarle. Sorretta dai due elfi fece ancora dei passi.
Un improvviso rumore le fece perdere ancora la concentrazione e l’equilibrio. Un urlo sopra di loro fu seguito dal rumore di spade che cozzavano tra loro e richiami in una lingua gutturale.
-Maledizione, è troppo tardi- Legolas la spinse senza tante cerimonie contro la parete di roccia e raggiunse Tauriel. Parlarono tra loro concitatamente in elfico, uno indicando Elemmire, l’altra la strada, poi Tauriel sbottò:-Meglio morte qui sopra che spiaccicate sulle rocce!
-E allora non perdete tempo- Legolas aiutò Tauriel a risalire i pochi metri che avevano faticosamente ridisceso e l’elfa a sua volta issò Elemmire di nuovo sulla parete di roccia. Alcuni cadaveri di orchi erano a terra, mutilati e sgozzati. I quattro nani e lo hobbit stavano riprendendo fiato e sangue nero fresco colava dalle loro lame.
-Sono già qui- boccheggiò Fili.
-Perché siete risaliti? Dovete portare al sicuro Elemmire e Bilbo e avvertire Thranduil!- ci mancò poco che Kili non aggredisse Legolas. L’elfo lo guardò sprezzante, ma fu Tauriel a rispondere con vigore:-La strada è quasi impraticabile. Per il tempo che impiegheremmo a scendere qualche costone gli orchi saranno già alle nostre calcagna, e dal basso saremmo una facile preda. E non so se hai avuto la fortuna di vederlo, ma Elemmire e Bilbo combattono quanto me e te. Hanno diritto ad una morte dignitosa con la spada in pugno.
-Hanno ancora più diritto ad una lunga vita- protestò Kili.
-Volgendo le spalle? Tu lo faresti, figlio di Durin?
-Io non lo farei- Elemmire aveva provato un crescente fastidio nel vedersi sballottata qui e là come se non fosse stata presente, come se non fosse stata in grado di decidere per sé –E non è affatto detto che moriremo qui. Gandalf sa delle forze che stanno arrivando ora su Colle Corvo e sa anche che noi siamo qui sopra. Avviserà Thranduil, riuniranno l’esercito e troveranno un modo per arrivare qui. Dobbiamo solo rimanere vivi finché non giungeranno i rinforzi.
-La strada è ghiacciata e i nostri sono in minoranza con un rapporto di uno a cinque. Gandalf non sprecherà mai vite preziose per salire fin quassù a combattere una battaglia persa in partenza. Aspetterà che gli orchi scendano dal Colle e li aspetterà sotto.
-E credi che tuo padre non si opporrà, sapendo che suo figlio è qui sopra, in prima linea?- in realtà Elemmire non era certa dello stato di cose tra Thranduil e Legolas. L’elfo era pur sempre scappato con la sua amante, ma le parole sembrarono fare un qualche effetto.
-Litigare ora non servirà a nulla- intervenne Fili con praticità –Posizioniamoci. Era solo un’avanguardia, abbiamo ancora del tempo. Se giochiamo bene le nostre carte possiamo avere qualche possibilità. La strettoia da cui passeranno impedisce il transito di più di due orchi affiancati, e il ghiaccio sarà un problema anche per loro. Inoltre, non sanno che noi li stiamo aspettando, il che ci dà un certo vantaggio.
-E non conoscono il territorio. Sta scendendo la nebbia, il loro slancio si infrangerà contro le rocce quando non riusciranno più a capire dove mettono i piedi.
-Bravissimo fratellino- Fili batté una mano sulla spalla di Kili e i due nani si guardarono con esaltazione.
-Non abbiamo tempo- le parole lapidarie di Dwalin gelarono il sangue nelle vene di tutti. L’enorme nano dal cranio tatuato era girato verso le rovine –Non passeranno dalla strettoia che collega Colle Corvo al nord. Passeranno sottoterra, da tunnel scavati sotto le rovine.
-Come fai a saperlo?- chiese Tauriel.
-Perché è la strada più veloce. Se come dite voi Bolg è partito dagli Ered Mithrin ieri al tramonto c’è un solo percorso che gli assicurerebbe di essere qui a momenti, ed è da quei tunnel. La marcia attraverso i monti richiederebbe almeno una giornata intera, anche senza soste.
-Dobbiamo allora metterci al riparo- disse Fili –Passando dalle rovine saremo esattamente davanti a loro con le rocce e il precipizio a chiuderci le spalle.
Thorin era rimasto in silenzio, pensando. Accigliato guardò i suoi nani, poi decretò:-Dobbiamo dividerci. C’è una torretta di osservazione ancora in piedi poco più sopra, che dà un’ampia visuale sull’area delle rovine e sul fiume ghiacciato dall’altra parte. Chi può scoccare frecce dovrebbe salire lì sopra. Sarà fuori tiro e potrà fare strage indisturbato. Noi nani dovremmo appostarci all’entrata dei tunnel. Sappiamo muoverci sottoterra e chiuderemo alcune bocche, in modo da costringerli a usare altre vie che li porteranno direttamente sotto il tiro delle frecce. Infine gli elfi e Bilbo dovrebbero rimanere qui, e proteggere la strada principale.
-Principale? Vuoi dire che c’è n’è un’altra?- esclamò Kili, sbigottito.
-E’ un sentiero che segue il letto del fiume e porta a nord di Erebor. Di solito è allagato e pericoloso, ma se il corso si è ghiacciato i superstiti tra noi potranno percorrerlo e ritirarsi senza il pericolo di essere inseguiti. Il ghiaccio creperebbe sotto il peso degli orchi.
Due cose furono subito chiare ad Elemmire: che le era stata riservata la posizione più sicura di tutte, visto che era l’unica con un arco in spalla, e che Thorin non credeva nessuno dei nani potesse sopravvivere per ritirarsi. Infatti, si era resa conto quel giorno, il peso di un orco non era di molto superiore a quello di un nano in armatura: il ghiaccio si sarebbe crepato anche sotto i passi di Thorin o Dwalin. Gli unici abbastanza leggeri per passare dalla via del fiume erano lei, Bilbo e gli elfi; nessun nano sarebbe risceso da lì. Morte o vittoria. Lesse lo stesso pensiero negli occhi iridescenti di Kili.
-Non rimanete troppo a lungo dei tunnel- raccomandò –Se sarete in difficoltà non potrò aiutarvi. Riemergete in fretta e spingete gli orchi dove posso colpirli.
E dove posso proteggervi, pensò.
Si separò con un abbraccio da Tauriel, che le assicurò:-Ci vedremo questa sera nell’accampamento.
Guardò con il cuore pieno di angoscia Kili che le voltava le spalle per seguire gli zii e il fratello tra le infide rovine. Avrebbe voluto dirgli che lo amava, ma si voltò anche lei e iniziò ad arrampicarsi sulle rocce per raggiungere la torretta. La nebbia era fitta, la neve aveva smesso di cadere e le pietre erano umide e gelide. Il freddo le si era insinuato in ogni frammento di corpo. Dopo che si fu posizionata sulla cima diroccata della torre iniziò a soffiarsi sulle mani per scaldarle, e senza perdere tempo incoccò, pronta a colpire al minimo movimento. C’era un silenzio pesante come una cappa di piombo. Aspettò.
Gli orchi arrivarono tutti d’un tratto. Sbucarono dalla terra come funghi, grugnendo maledizioni e squittendo di frustrazione. Elemmire prese un profondo respiro e iniziò a scoccare. Il raffinato impennaggio di cigno bianco andava sempre a segno. Gli orchi si guardavano intorno per cercare l’origine di quella mattanza, ma lei continuò a massacrarli dall’alto senza un attimo di tregua. Lasciò che andassero nel panico e così scoccò metà delle sue frecce, circa una trentina. Orchi continuavano ad affluire da un solo ingresso, confusi e sperduti; ma dopo un poco alcuni che dovevano essere i comandanti ripresero il controllo delle truppe e le guidarono verso la strada della montagna. Fu allora che la loro strada venne sbarrata dai quattro nani. L’inferiorità numerica era così schiacciante che Elemmire ebbe un attimo di disperazione purissima. Ma subito si ricredette: all’unisono i quattro guerrieri sguainarono le armi e un grido feroce di battaglia fece vibrare i loro petti. Si lanciarono all’assalto. Ed Elemmire era pronta a giurarlo, non aveva mai visto nessuno combattere con pari bravura e foga. Le lame di acciaio attraversavano la carne come avrebbero tagliato un pezzo di arrosto ben cotto, e il cozzare di spade sulle cotte di maglia, di asce e mazze, di elmi e scudi era una sinfonia terribile. Elemmire non perse di vista Kili e Fili per un secondo. Spesso le sue frecce bianche freddarono gli avversari che si avvicinavano alle spalle dei due nani. Combattere i loro stessi nemici la faceva sentire come se anche lei fosse stata lì con loro; aveva preso la sua decisione e nulla l’avrebbe dissuasa. Aveva deciso che avrebbe salvato Kili al costo della sua vita, del suo mondo. Nemmeno il freddo poteva bloccare quel tipo di determinazione. I quattro nani, da soli riuscirono a uccidere un’enorme quantità di orchi, e a bloccarli sotto la torretta per qualche tempo, ma alla fine la superiorità si fece valere e interi battaglioni iniziarono ad eludere i colpi di Thorin e Dwalin per dirigersi nella nebbia verso la strada che scendeva a valle. Presto la mischia si divise in tanti piccoli duelli e Kili e Fili vennero separati. Ad Elemmire rimanevano poche frecce, che usava con parsimonia. Ogni tanto il glifo elfico che portava sulla fronte pizzicava: era un segno forse che qualcosa stava succedendo tra le stelle? Per ultimo dai tunnel nella roccia sbucò Bolg. Il gigantesco orco pallido aveva perso un occhio durante l’autunno, forse in un contenzioso con qualche battaglione elfico, ma il ghigno che aveva stampato sul viso era crudele come la prima volta che l’aveva visto e la spada ricurva da battaglia scintillava minacciosa. I piccoli occhi rossi guardarono Thorin e questo, come richiamato da una forza magnetica, si girò a guardarlo a sua volta. Nessuno dei due disse una parola, ma fu chiaro che i loro due distinti destini li avevano condotti a quel punto con lo stesso grido di battaglia sulle labbra. Vittoria o morte. Dall’alto, Elemmire vide solo che i due nemici giurati si fronteggiavano come lupi, disegnando circoli sul ghiaccio, gli occhi dell’uno puntati sulla gola dell’altro. Incrociarono le lame che sprizzarono scintille. Thorin brandiva la superba spada di Gondolin, gemella di Nen Girith; e la differenza di altezza era ormai un dettaglio trascurabile davanti alla serrata ferocia, al desiderio e alla ripugnanza della danza delle spade. Presto scomparvero alla vista, ed Elemmire capì che nessun potere le era dato su quei due destini. Tornò a concentrarsi su Kili e Fili. Avevano ricevuto leggere ferite, e schizzi di sangue vermiglio si mischiavano a quello nero. Erano stanchi, non era difficile capirlo. Le braccia si alzavano più lente a parare i colpi, e spesso preferivano scansarsi che difendersi; ma attorno a loro nemici sempre freschi si moltiplicavano. Elemmire incoccò. L’avrebbe salvato, o sarebbe morta anche lei una volta e per sempre.
Un rumore alle sue spalle la distrasse. Fece appena in tempo a girarsi e a rotolare di fianco, l’arco che all’improvviso cadeva a terra inerte. Dove un secondo prima c’era lei un secondo dopo si abbatté una mazza da guerra. Elemmire si rialzò in fretta e sguainò Nen Girith. La lama era di un blu accecante. Fronteggio l’orco con rabbia, aspettando la sua mossa. Il mostro alzò la massa fulmineo, puntando alla sua testa, ma all’ultimo momento deviò e la colpì sulle costole. La cotta attutì il colpo, ma lo stesso il dolore le impedì di respirare per un poco. Mentre cercava di riprendersi la mazza calò ancora. Il colpo la spinse conto la parete della torretta, ogni soffio d’aria spremuto fuori dai suoi polmoni. Si accasciò a terra, costringendosi a respirare. L’aria fredda e la polvere le invasero il naso e la fecero tossire. Quando l’orco cercò di colpirla ancora si spostò di lato una, due volte, recuperò la spada e con un fendente tranciò la gamba della creatura. L’osso si spezzò di netto sotto l’acciaio elfico e l’orco ululò di dolore. Elemmire lo superò zoppicando e si precipitò al balcone. Riprese l’arco, controllò istantaneamente che la corda fosse ancora ben tesa e incoccò. Due secondi dopo sarebbe stato troppo tardi: Kili era ferito. Si teneva il braccio al corpo, il viso contratto in un’espressione di dolore, mentre Fili sopra di lui brandiva un’ascia che non era la sua, facendo scudo al fratello col suo corpo. Lo stesso, un orco eluse la guardia di Fili e allungò la spada verso il corpo riverso di Kili. Il nano abbassò la testa, accomiatandosi con la vita, ed Elemmire scoccò la sua freccia. Penetrò nella testa dell’orco che, come sorpreso, lasciò scivolare l’arma e cadde sopra Kili.
Un dolore lancinante spaccò in due la testa di Elemmire. Il glifo sulla sua fronte bruciò come fuoco vivo, come acido che le corrodeva la pelle e le ossa facendosi strada fino al cervello. Quando il dolore scemò, Elemmire, la visione annebbiata, cercò a tentoni la faretra. Vi trovò dentro un’ultima freccia. La incoccò e si preparò a scoccare, puntando ad un orco che stava mettendo Fili molto in difficoltà, ma esitò, per paura di colpire anche il giovane nano. Fu una questione di attimi. Nel momento stesso in cui il suo muscolo si preparò a rilasciare la freccia, un tipo diverso di dolore, questa volta fisico e gelido, le trafisse la spalla. Urlò, lasciò andare l’arco, la freccia si perse nella nebbia. Con la coda dell’occhio vide l’orco alle sue spalle: si era trascinato sulla gamba mozzata e brandiva Nen Girith, sottile come uno spiedo nelle sue mani. Le tirò i capelli e la costrinse a inginocchiarsi, mentre con la lama della spada che le era appartenuta si faceva strada sempre più oltre gli anelli spezzati della cotta di maglia, oltre la morbida carne e le articolazioni. Elemmire sentì un freddo bruciante paralizzarle la schiena. Le sue urla si fecero strazianti. La sua visione si annebbiò, diventando confusa e grigia. Respirare diventò pesante, impossibile, come sott’acqua. Come contemplandosi dall’esterno, capì di star morendo. Kili, pensò, oh Kili…
Un ultimo guizzo di lucidità le permise di vedere il suo arco di corno a terra. Come in trance lo afferrò e colpì alla cieca dietro di sé; la lama gelida venne all’improvviso rimossa dal suo corpo e un dolore bruciante, insopportabile, la sostituì. Elemmire cercò Nen Girith a tentoni e la piantò nel corpo dell’orco. Fu l’ultima cosa che vide, poi il pavimento le venne incontro a velocità vertiginosa e tutto divenne bianco.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** febbricitanti ***


-Si sta riprendendo. Veloce, veloce, chiama Gandalf. Avanti, bambina, forza, segui la mia voce.
Tutto era dolore. Ogni respiro era una coltellata tra le costole e i muscoli sembravano essersi liquefatti nel suo corpo in un brodo di lava. Le voci le arrivavano come da sott’acqua e ancora non riusciva a vedere nulla. Socchiuse le palpebre, e il gesto le causò una rinnovata fitta di dolore alla fronte. Le ci volle tempo per mettere a fuoco e ancora di più per capire chi aveva davanti a sé. Era un nano. Una qualche parte della sua testa le comunicò che si chiamava Oin. Il nome non aveva alcun significato. –Dove sono?- rantolò –Che posto è questo?
Prima che il nano potesse fermarla cercò di alzarsi, ma il dolore alla schiena fu così forte che la fece ricadere all’indietro in singhiozzi terrorizzati. L’agonia le riportò alla mente tutto quello che era successo e la paura minacciò di farla impazzire:-Lui mi ha attaccato, era salito sulla torre, Fili era in difficoltà, avevo scoccato, ma non so cosa sia successo, dovevo salvarli, dovevo fare qualcosa, oddio ditemi che sono vivi, devono essere vivi!
-Calmati bambina, stai calma. Respira, così, non troppo a fondo. Hai alcune costole rotte e devi essere cauta. Hai perso molto sangue.
-Sono vivi?- Elemmire vedeva tutto rosso. Il dolore minacciava di farle perdere conoscenza di nuovo.
-Sta arrivando Gandalf. Queste domande rivolgile a lui.
Oin si allontanò da lei. Elemmire abbassò le palpebre e cercò di contare i suoi respiri per reprimere i singhiozzi, che le causavano dolori indicibili in ogni parte del corpo. Quando di nuovo spalancò gli occhi su di lei era chino Gandalf. Lo stregone era sporco e insanguinato, ma la guardava con dolcezza.
-Gandalf, Gandalf ti prego dimmi che sono vivi, dimmi che li ho salvati- lacrime bollenti le scivolarono sulle guance bagnandole le orecchie.
-Mia coraggiosa, coraggiosa Elemmire. Avrei voluto assistere allo spettacolo sublime di un’arciera che con una freccia di cigno bianco cambiava il corso del destino, sacrificando metà della sua vita. Quel singolo dardo ha salvato la vita al principe Kili, che è stato ritrovato svenuto, ma vivo, sotto il cadavere dell’orco che avrebbe dovuto essere il suo assassino, a giudicare da come la freccia gli aveva spaccato in due la testa.
-E Fili? Non ho fatto in tempo a vedere se la freccia avesse colpito il bersaglio. Mi stava uccidendo.
-Per fare uno scambio equo con il destino avresti dovuto dare qualcos’altro in cambio della vita del giovane Fili. A tua disposizione avevi solo due vite, e una l’avevi già sacrificata. Un attimo di esitazione in più, e Fili ora sarebbe Re Sotto la Montagna, e tu un cadavere.
-Perché Fili? Thorin è il Re Sotto la Montagna. Oh, Gandalf, no, no, non dirmelo ti prego.
Gandalf non disse nulla. Abbassò solo il capo. Elemmire tentò di reprimere i singhiozzi, ma non vi riuscì. Precipitò di nuovo nell’abisso dell’incoscienza incalzata da coltellate di dolore alle costole.
 
In seguito, non avrebbe ricordato nulla di quello che le stava succedendo. Qualcuno le cauterizzò lo squarcio sulla schiena, un dolore così simile alla morte che la lasciò tramortita e inerte. Ai lati della sua mente c’erano le brume dell’oblio eterno che la chiamavano, invitanti, ma continuavano a dirle di rimanere sveglia, e per impedirle di cedere alla nebbia le facevano domande a cui Elemmire rispondeva confusamente. La differenza tra il giorno e la notte scomparve. Tutto ciò che Elemmire sapeva era che sprofondava sempre più. Guardava se stessa come dall’esterno, e con lucidità disarmante si rese conto che doveva soffrire di febbre. Qualcuno le portava sovente da bere, ma l’acqua bruciava come fuoco nella sua gola rovente. Poi, dopo un tempo indefinito e dilatato, la febbre passò, la sua mente si schiarì e iniziò a riconoscere le persone che venivano a medicarla. Oin la faceva sedere, le dava da bere acqua e poi, quando dimostrò segni di miglioramento, brodo caldo; l’accompagnava fino alla latrina e le rimboccava le coperte come un padre; si rivolgeva a lei chiamandola “figliola”. Dovettero passare due giorni prima che si riprendesse del tutto. L’alba del terzo giorno chiese dove si trovava e le risposero:-Nella Montagna.
Chiese dell’acqua calda per lavarsi e per la prima volta si alzò in piedi con le sue forze ed esaminò il suo corpo. Puzzava di sangue e sudore; lividi viola le costellavano il magro torace, e pruriginosi punti di sutura sopra la spalla le impedivano di alzare il braccio sinistro. Aveva avuto una fortuna sfacciata: Nen Girith era stata ad un passo dal trafiggerle il cuore. La stanza dove era stata ricoverata per tutto quel tempo era un piccolo sgabuzzino di pietra senza finestre, riscaldato da bracieri. Con attenzione di liberò degli indumenti che portava dalla battaglia e si lavò con acqua tiepida e sapone finché il bianco della sua pelle e il nero dei suoi capelli corvini non furono più annebbiati da strati di sporco e sangue. Le sue chiome avevano raggiunto lunghezze vertiginose, scendendo appena ondulate fin sopra le ginocchia. Avvolta da asciugamani aspettò che le portassero delle vesti, e se ne risentì quando entrò un nano dalla corta barbetta rossa con dei panni piegati sulle braccia. Il nano era singolare: aveva una sottana rossa e la camicia blu mostrava i rigonfiamenti dei seni. Con sgomento Elemmire si rese conto che era una nana, con tanto di barba e tutto il resto, e dietro di lei strascicava un mantello di velluto dalle tinte fosche.
La nana poggiò le vesti accanto a lei, sul letto, e la guardò con profondi occhi azzurri. Parlò con voce profonda e dal forte accento:-Non credo tu mi conosca, ragazza. Mi chiamo Lanvè e Dain Piediferro dei Colli Ferrosi è mio marito. Ti ho vista sul campo di battaglia, dove ho combattuto anch’io, e so che ti hanno recuperata a Colle Corvo che stavi tra la vita e la morte. Dain mi manda qui per assicurarsi che tu stia bene e per estinguere il debito di riconoscenza che ha con te per aver salvato la vita a suo nipote, il principe Kili. Queste vesti sono un suo dono per te.
Lanvè aveva parlato con voce monocorde come se si fosse imparata a memoria il discorso. Iniziò a dispiegare davanti ad Elemmire il dono di Dain. Si trattava di una finissima camicia bianca, che Lanvè aiutò Elemmire ad infilare senza strappare i punti alle spalle, un corpetto di cuoio con delle bretelle sottili che si adagiavano un po’ civettualmente sulle braccia ed una gonna di spessa stoffa azzurra un po’ scolorita.
-Devi essere orgogliosa a portare queste ferite- le parlò Lanvè mentre le allacciava il corpetto in un modo che le fece dolere tutte le costole. Elemmire non rispose, ma domando:-Cos’è successo mentre sono stata in convalescenza?
-Dain Piediferro dei Colli Ferrosi è stato nominato reggente di Erebor- rispose laconica.
-Ma Kili è vivo, non è così?- Elemmire dovette trattenersi dallo girarsi di scatto. Il suo cuore prese a galoppare.
-Il principe è vivo, ma a nessuno è dato di vederlo. Le ferite che ha riportato lo hanno condotto molto vicino alla morte. Si dice- Lanvè strinse con forza i lacci strappandole un grido –che se non fosse stato per il tempismo di un’arciera egli avrebbe trovato la stessa morte di suo zio e di suo fratello.
Elemmire si sentì gelare.
-Quando sono stati celebrati i funerali del re?- chiese d’improvviso inquieta.
-Non c’è stata ancora nessuna cerimonia. Il generale Dwalin ritiene che sia opportuno aspettare che il principe Kili si sia rimesso in modo che egli stesso possa ufficiare il rito. In attesa della sua guarigione i due corpi sono tenuti in una bara di ghiaccio nel cuore della Montagna.
-Ditemi, madama Lanvè- Elemmire era incerta su come avrebbe dovuto chiamare la moglie del reggente momentaneo –Come avete fatto a trovarmi?
-Gandalf guidò l’esercito rimasto su Colle Corvo a dorso di aquile. Alcuni arcieri elfici si posizionarono su quella stessa torre dove voi giacevate riversa, prossima alla morte. Gandalf in persona si è occupato di riportarvi qui, assieme al corpo dell’elfa dai capelli rossi.
Una doccia fredda colpì Elemmire in pieno petto:-Tauriel è morta?- chiese incredula. Nessuno poteva uccidere un elfo.
-Respirava ancora quando la trovammo. Chiese di essere sostenuta per dare un ultimo sguardo alle lontane cime del Bosco Atro e spirò.
Elemmire si trovò gli occhi all’improvviso pieni di lacrime. Si portò le mani al viso per nasconderle. Così tanto dolore. Così tanta morte.
-E lo hobbit?- si arrischiò a chiedere dopo che si fu asciugata il viso.
-Egli sta bene. Ha deciso di accamparsi con gli umani nei pressi di Dale, di cui Bard del Lago sarà il nuovo re.
-Dov’è Bard? Posso vederlo?
-E’ tornato stanotte. Lui e il re degli elfi erano andati a caccia degli ultimi orchi superstiti che si erano nascosti nella Desolazione. Bene, ragazza- Lanvè si allontanò da lei e la contemplò con occhio critico –Togliti quei capelli dal viso come se fossi a lutto e sarai presentabile. Ti farò portare un paio di scarpe e poi qualcuno verrà a prenderti per conferire con Dain in persona.
-Non mi accompagnerete voi?
Lanvè rise:-Mi hai presa per una cameriera? Ero solo curiosa di conoscere l’umana che ha salvato la razza di Durin dall’estinzione.
-Come fate a sapere che sia stata proprio io?- Elemmire cercò di non far trasparire la sfida nel suo tono di voce.
-Perché siete stata trovata con un arco spezzato al vostro fianco- Lanvè le voltò le spalle –E il cadavere sotto cui è stato trovato il principe, vivo per miracolo, era stata ucciso da una freccia bianca.
Elemmire avrebbe voluto domandare cosa sarebbe successo a quel punto, ma l’enigmatica nana era già uscita dalla stanza. Si sedette sul letto e cercò di metabolizzare ogni cosa. Un senso di vago stupore si era impadronito di lei: era stupita di essere viva, in primo luogo, e di quanto il dolore del suo cuore si mischiasse inevitabilmente con quello delle sue ferite ancora fresche. Era confusa e non capiva molto di quello che la circondava: perché era stata ricoverata nella Montagna invece che nell’accampamento degli uomini? E perché Lanvè aveva insistito così tanto per visitarla? D’improvviso si rese conto di non sapere nulla di come funzionassero le tradizioni dei nani a proposito di dinastie, reggenze e funerali. Se era destinata a rimanere lì per sempre avrebbe dovuto iniziare a sapere come muoversi. Il dolore della separazione dal suo mondo si accordò a tutti gli altri. Elemmire fu di nuovo sul punto di piangere, ma con uno sforzo titanico per la sua ancor debole volontà chiuse tutte le emozioni a chiave nel suo cuore e si disse di essere cauta e di mantenere un basso profilo. Avrebbe dovuto osservare ed imparare in fretta.
Sospirò. Che ironico sarebbe stato se il peggio fosse iniziato proprio ora.
Un nano in tenuta da lavoro le porto un paio di scarpe di pelle grigia. Erano rigide e scomode, ma Elemmire non si lamentò. Si fece condurre fuori dalla stanza senza guardare indietro. Percorsero alcuni corridoi di pietra illuminati da torce vivide. Elemmire provò a chiedere che ora fosse o dove stessero andando, ma non ebbe risposta. Dopo molte scale sbucarono in un corridoio larghissimo. Al fondo c’era un porta di pesantissimo ebano intagliato con un carro da guerra guidato da unicorni, e sopra un nano dalla barba lunghissima che uccideva un leone con una lancia. Il bassorilievo era così bello che le figure vibravano di vita e movimento mentre le ombre delle torce le accarezzavano come mani dalle dita tese. A guardia del portone c’erano due nani in armatura. Il silenzioso accompagnatore di Elemmire scambiò con loro poche parole gutturali, poi la condusse in avanti e spalancò i battenti. La sala dove i due fecero il loro ingresso era ottagonale, di pietra ruvida e viva. L’alto soffitto era rischiarato da torce alte quanto un nano infisse a sette piedi di altezza. Le pareti erano coperte di scene di caccia al lupo, con giovani nani armati di lance e archi. Ma Elemmire non si fermò a lungo a contemplare le decorazioni: al centro della sala c’era un tavolo rotondo attorno al quale sedevano dei nani. Il suo accompagnatore si inchinò e nello stesso silenzio che aveva mantenuto per tutto il percorso uscì. Elemmire rimase sola davanti ai nani riuniti. Uno di loro si schiarì la voce:-Tu devi essere Elemmire.
C’era qualcosa nel modo in cui pronunciava il suo nome che le diede fastidio. Forse a causa della fortissima inflessione, o del fatto che aveva sbagliato l’accento. Elemmire non ritenne di correggerlo. Si inchinò:-Sono io. Ho il privilegio di parlare con Dain Piediferro?
Il nano davanti a lei aveva la barba castana infilata nella cintura e gelidi occhi azzurri. Attorno al capo indossava un diadema d’argento con al centro uno zaffiro. Aveva un portamento fiero e lo sguardo intelligente e penetrante, anche se freddo e diffidente come quello di un animale selvatico.
-E’ così. La tua fama ti precede, Elemmire- Dain si alzò in piedi e si rivolse ai nani seduti con lui –Il Consiglio è sciolto. Vi prego ora di lasciarci.
Come un solo corpo i nani si alzarono e in silenzio la superarono. La porta si richiuse con un rumore sordo alle sue spalle. Lei e Dain rimasero a fissarsi. Elemmire sentiva un rivolo di sudore gelido lungo la schiena che le ricordava quanto fosse ancora debole e come le sue ferite fossero ben lontane dall’essere guarite; ma rimase ben dritta nonostante la fatica.
-Ti prego, siediti.
Dain indicò uno dei seggi vuoti ed Elemmire, lenta e rigida, si accomodò come meglio potè.
-Penserai forse che è singolare che io ti abbia fatta chiamare qui nel cuore della notte- Dain le si rivolse con toni pacati e formali. Teneva le grandi mani tese davanti a sé e il busto leggermente proteso verso di lei.
-Niente affatto. Si dà il caso che io abbia totalmente perso cognizione dello scorrere del tempo durante la mia convalescenza.
-Sarete dunque felice di apprendere che sono passati quattro giorni dalla Battaglia delle Cinque Armate, e che tra poco sorgerà l’alba del quinto.
Elemmire lo guardò in silenzio. Quattro giorni. Erano già passati quattro giorni.
-I medici sono stati molto preoccupati per la tua salute. Sei stata trovata in una pozza di sangue con la schiena squarciata da un colpo che avrebbe dovuto essere mortale, e accanto a voi c’era un cadavere di orco e un arco di corno spezzato.
Elemmire avvertì un doloroso scricchiolio nel suo cuore nell’apprendere che il suo arco, il bellissimo arco che Kili le aveva regalato, si era spezzato.
-Vi abbiamo portata nelle infermerie che respiravate a malapena e per tutto questo tempo nessuno è stato sicuro che sareste uscita dallo stato di delirio a cui la febbre vi aveva portato. Sono perciò sollevato di vedervi sulle vostre gambe, per la barba degli dei.
Elemmire rifletté sulle parole da usare:-Vi ringrazio di cuore per le premure e vi confesso che sono ancora molto debole. Parlare e camminare mi costa fatica. Tuttavia, desidero avere notizie di tutto quello che è accaduto durante la mia malattia e soprattutto sapere cosa ne è del principe Kili.
-Parlate molto bene- sorrise Dain –E non voglio che lo sforzo vi faccia ripiombare nell’oblio. Penso voi sappiate della gloriosa morte di Thorin Scudodiquercia e di suo nipote il principe Fili.
Elemmire ingoiò trattenendo le lacrime. Annuì.
-Mio nipote, nonché principe cadetto, è stato più fortunato. Le sue ferite sono gravissime, ma  rimane vivo. In quanto agli uomini e agli elfi, aspettano ancora una risposta. Non hanno rinunciato alle proposte che a suo tempo riferirono a Thorin, Guntera salvi la sua anima, e aspettano che un re dia loro una risposta. Io ho ricevuto dal Consiglio degli Anziani il titolo di reggente, ma non tutto è in mio potere. Perciò quello che facciamo tutti è aspettare che le condizioni del principe cambino all’improvviso.
-Che egli guarisca, cioè- Elemmire parlò con la voce che tremava.
-O che egli muoia- Dain non si perse in giri di parole –L’unica cosa certa è che Erebor ha bisogno di un re, un re vero. E nel frattempo che mio nipote giace a metà tra la vita e l’oltretomba ci sono un’enormità di lavori da portare a termine. La ricostruzione della Montagna non si può arrestare.
Elemmire annuì. Si sentiva stremata ma ancora non chiese di essere congedata.
-Dovete credermi crudele- riprese Dain dopo un attimo di riflessione –Io parlo con così tanto distacco di un mio congiunto e forse del mio sovrano. Sono certo però che comprendiate la situazione difficile in cui ci pone la sua malattia. Io sono solo un cugino di Thorin e il sangue di Durin è flebile nelle mie vene, ma anch’io ho sempre davanti a me il bene del mio popolo e della Montagna. E non ci sono dubbi che una crisi monarchica indebolisca ancora di più la nostra posizione davanti alle richieste di elfi e umani. Sono certo comprendiate.
-Sì, capisco cosa intendete- sussurrò Elemmire. Davanti ai suoi occhi iniziavano a comparire filamenti di luce –E avete la mia approvazione in questo. Ora però sono molto stanca e sento il bisogno di riposare e portare avanti la mia convalescenza. Vi sono grata per le attenzioni riservatemi.
Dain la guardò con profondità:-Non vi nasconderò Elemmire che è essenzialmente la curiosità che mi ha spinto a convocarvi in un momento per voi così delicato. Vi prego di rimanere ancora un momento e di rispondere alle mie domande sul vostro conto. Non sarò lungo.
Elemmire chiuse gli occhi e si appoggiò con la schiena al seggio, per quanto glielo consentissero le fasciature. Fece con la testa cenno al nano di andare avanti.
-Credo la domanda sia scontata. Mi è stato spiegato in altre sedi da dove venite e quale legame vi legava a Thorin. Mi chiedo se quel legame sia ancora valido.
Elemmire sentiva le forze venirle meno. Respirò a fondo e disse, sempre tenendo gli occhi chiusi:-Il legame di fedeltà era costruito su solide basi di affetto e ammirazione. Perciò sì, quel vincolo rimane. Sono fedele a ciò che rimane della Compagnia.
-Non volevo sentire altro. Avete licenza di andare, e i miei auguri della più pronta guarigione.
 
-Non voglio sentire altro! Mi sembrava di essere stato sufficientemente chiaro quando ho detto che la prima persona che avrebbe dovuto vederla ero io!
La porta si spalancò di colpo ed Elemmire, pur con la schiena in fiamme, schizzò in piedi. Il lungo capello puntuto di Gandalf raschiava il soffitto e il suo mantello grigio faceva ondeggiare le ombre della torcia alla parete. Dietro allo stregone veniva un nano dall’aria assieme terrorizzata e indispettita, vestito di cotta di maglia e con in braccio una lancia.
-Balzûr!- esclamò il nano –Il re Dain l’ha mandata a chiamare. È venuta Lanvè in persona a prenderla.
-Dain non è ancora re- ribatté Gandalf con gli occhi che brillavano di collera –E da quando in qua gli ordini di Lanvè figlia di Eddokzil pesano più dei miei?
Il nano imprecò di nuovo e voltò malamente le spalle richiudendo con un tonfo sordo la porta.
-Cosa ti ha detto Dain?- Gandalf non andò molto per il sottile. Elemmire si risedette sul letto e appoggiò la testa al muro per riposarsi:-A proposito di cosa?
-Di Kili, di chi altri?
Il nome le fece scorrere una scarica di adrenalina nelle vene. Si rimise eretta ignorando il dolore:-Che è in fin di vita.
-E tu hai intenzione di rimanere qui a piangerti addosso finché i vermi con gli mangiano il cuore?
-Posso vederlo?- suo malgrado, un’improvvisa agitazione la fece di nuovo alzare di scatto, con un conseguente spasmo di dolore alla spalla –Non credevo mi fosse concesso. Non ci speravo nemmeno.
-Ovviamente non ti è concesso. Ma se c’è una persona in questa Montagna che ha il diritto di vederlo, immagino quella sia tu- Gandalf la guardò da sotto le cespugliose sopracciglia con due occhi grigi come il mare d’inverno –Non sono così cieco da non vedere la luce, quando me la trovo davanti, e voi due, bhe, voi due insieme siete un’esplosione.
Elemmire avvampò:-Ma lui non sarà in grado di riconoscermi, né di parlare, vero?
-Oh quello dipende interamente da te.
-Da me?
-Mia cara- Gandalf stavolta la guardò con serietà –Onestamente credo che se non sarai in grado tu di salvare la vita al principe Kili, nessuno potrà farlo.
Elemmire rimase a boccheggiare per qualche secondo, puntini bianchi davanti agli occhi, poi quando riprese il controllo del suo respiro mormorò:-Ma io non sono un medico.
-Pure, hai già salvato altre volte la sua vita.
-Sì, ma non ero sola. Non avevo la responsabilità tutta su di me e… Oddio Gandalf non sarò mai capace di farlo- il panico la prese alla gola.
-Elemmire, tu non sarai sola- lo stregone la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo negli occhi. Al suo dito risplendeva un anello con incastonato un rubino che brillava come una fiamma viva –Ma tu vieni da un posto differente, più- cercò le parole tra sé e sé -avanzato. L’ho visto da come ti sei sempre occupata delle ferite di Kili. Hai esperienza e hai metodo e soprattutto sai mantenere il sangue freddo davanti ad ossa rotte e muscoli strappati. Se non lo fai tu, chi lo farà?
Elemmire respirò lentamente, dentro e fuori, per due volte.
-Non devi avere paura. L’hai già fatto in precedenza.
-Lo so- si portò una mano alla tempia e la sua testa iniziò a viaggiare rapidissima. Aveva sacrificato la sua vecchia vita per amore di Kili: voleva ora che ogni sforzo andasse perduto? Non era forse suo compito e interesse provare a prendersi cura, ancora, del giovane nano? Tutto quello che aveva detto Gandalf era vero: non era nuova alle ferite, aveva alle spalle degli studi, seppur modesti, e non sarebbe stata sola.
-Va bene- rispose velocemente –Lo faccio, va bene. Portami da lui Gandalf.
Percorsero di nuovo i tenebrosi corridoi della Montagna. Elemmire aveva le mani sudate e il cuore le batteva fortissimo, ma con tutta se stessa si concentrò su ciò che sapeva. Nel suo vagabondare tra facoltà universitarie, organizzazioni di volontariato e lezioni del liceo si era imbattuta in un corso di medicina naturale. Aveva seguito qualche lezione prima di venire attratta dal corso di gaelico. Sperò dentro di sé che quel poco che ricordava potesse bastare. Non si sforzò neppure di memorizzare la strada che la stava conducendo da Kili: i corridoi erano quasi tutti uguali e dopo aver svoltato a destra, a sinistra, di nuovo a sinistra, aver salito due rampe di scale e aver imboccato un corridoio biforcuto scegliendo la via di destra aveva capito che, pur volendo, non sarebbe mai riuscita a tornare indietro da sola. L’ala della fortezza dove era ricoverato Kili brulicava di guardie che ogni sei passi davano loro l’alt, ma la vista di Gandalf sembrava spezzare in loro ogni ostilità o reticenza. Si facevano da parte con le lunghe barbe impassibili. Elemmire seguiva a fatica lo stregone, coperta di sudore per la fatica e l’agitazione, la gonna e la sottana che strusciavano per terra. si fermarono davanti ad una massiccia porta intagliata con una gloriosa scena di battaglia. Agoné, ricordò Elemmire mentre un frammento delle sue conoscenze di greco antico tornava a galla, la lotta per la vita. Come l’agonia in cui era Kili. Gandalf si fermò e bussò rispettosamente. Un nano venne ad aprire. I baffi grigi e gli occhietti porcini di Oin, che così tante volte avevano popolato il dormiveglia di Elemmire, erano appena visibili nella penombra che regnava nella stanza. Gandalf la spinse dentro senza troppe cerimonie e richiuse la porta.
L’odore dentro la camera era un misto di sudore, medicinali e decomposizione. Assomigliava vagamente alla puzza di morte che aveva sentito nella tenda dell’infermeria, giù a Dale. Quasi sorrise dell’ironia della situazione. Era destino che lei finisse in posti del genere.
Vaghi mozziconi di candela illuminavano appena una stanza che doveva essere piuttosto grande. Un fuoco languiva nel camino e l’aria era asfissiante per il caldo e la mancanza di ossigeno. Da quel poco che riuscì a vedere c’erano arazzi alle pareti, ma non vedeva nulla del mobilio se non un grande letto a baldacchino, in fondo alla stanza. Nani di ogni età vi ronzavano attorno come mosche attorno ad un cadavere. E con orrore Elemmire si rese conto che il puzzo che proveniva dal letto non era molto diverso. Guardò Gandalf con gli occhi sbarrati:-Cosa devo fare?
-Dovresti tu dirlo a me, non il contrario- lo stregone alzò il sopracciglio, ma non c’era traccia di ironia nella sua voce. Era perfettamente serio. Elemmire si impose di darsi una calmata.
-Gandalf, sei certo che Elemmire sia...- Oin stava avanzando delle obiezioni che risuonavano stranamente in accordo con quelle che il suo cuore le stava ripetendo da minuti interi.
-…all’altezza? Ne abbiamo già parlato Oin. Se non riuscirà lei, non riuscirà nessuno.
-D’accordo allora, ragazza. Dicci cosa fare- Oin le si inchinò davanti. Elemmire riuscì solo a vedere uno svolazzo di barba.
-Per prima cosa, spalancate le finestre, se ve ne sono, oppure qualunque apertura per la circolazione dell’aria. Qui dentro non si respira- il caldo era insopportabile e i capelli le si appiccicavano al collo e alla fronte.
-E’ voluto- rispose Oin, titubante –Così il ragazzo rimarrà al caldo.
-Se non c’è ricambio d’ossigeno le forme batteriche nell’aria prolificheranno senza fine e Kili finirà preda di qualche altra infezione letale- Elemmire si fermò di scatto, chiedendosi se non stesse assumendo un tono troppo clinico, incomprensibile al nano. Oin continuava a guardarla di sottecchi, poi quasi sorrise mestamente:-Che mi si arricci la barba se ho capito una parola di quello che ha detto. Va bene, ragazza, si fa come dici tu, per la corona di Durin.
Iniziò ad abbaiare in nanico ai medici e infermieri raccolti attorno al letto. Ci furono calorose obiezioni, ma se non altro Oin sembrava essere il capo lì dentro e riuscì a far sgomberare la stanza in qualche minuto. Molti nani uscendo la guardarono in cagnesco. Oin chiese a Gandalf di aiutarlo a sollevare alcuni arazzi ed Elemmire vide che nascondevano delle grandi finestre a vetri. Lasciò vagare lo sguardò e con stupore vide che nel cuore della Montagna c’era una specie di gigantesca serra naturale. Quello che in origine doveva essere stato solo un crepaccio, magari dovuto a un terremoto, era stato allargato e modificato per formare un larghissimo giardino che si beava della luce del sole e dell’aria frizzante dell’inverno. La neve non riusciva a raggiungerne il fondo, così, rifletté Elemmire, delle piante avrebbero potuto crescerci, se ben riparate. Doveva essere la riserva d’ossigeno di tutta Erebor. Si chiese se esistessero altri posti come quello. Oin e Gandalf spalancarono due delle tre finestre e una ventata di aria gelida e di luce inondò la stanza. Finalmente Elemmire poté guardarsi intorno. I moncherini di candele erano sospesi su sottili candelabri di argento ossidato, e oltre al baldacchino e al caminetto c’erano due tavoli, uno ampio e di legno grezzo con appoggiate sopra una quantità di bende, ciotole e provette, un altro più piccolo e lucido con tutta l’aria di essere uno scrittoio. Sedie di paglia erano disseminate ovunque. Il tutto, ovviamente, a misura di nano.
Sul letto, le cortine blu notte sollevate, giaceva Kili. Era sotto uno strato massiccio di pellicce e coperte e solo la punta del naso e gli occhi erano visibili. Il suo colorito non faceva presagire nulla di buono. Elemmire si rimboccò le maniche della camicia ed iniziò il suo primo turno da infermiera.
-Mastro Oin, rimanete qui con me- chiese –Mi servirà aiuto, temo. Chiedete che ci venga portata molta acqua in un calderone da far bollire sul fuoco, delle bende e molto aglio, quanto più potete trovarne.
-Aye, ragazza- rispose Oin, che per essere duro d’orecchi intendeva perfettamente la sua voce tremante. Elemmire si avvicinò a Kili e con delicatezza iniziò a sollevare le coperte, una ad una. Un puzzo sempre più forte di marcio la investì mano a mano che liberava il corpo del giovane nano dagli strati di indumenti. Kili era incosciente, se ne accorse dal polso debole e dal respiro flebile, e scottava di febbre. Aveva addosso indumenti sudati e ancora sporchi di sangue, che provvide subito a slacciare. Quando gli tolse la giubba e la camicia, l’ondata fetida fu così forte che dovette fermarsi e allontanarsi per non vomitare. Aveva le lacrime agli occhi e sudore freddo le si congelava sulla nuca. Sollevò un lembo della sua gonna e se lo passò davanti alla bocca e al naso, poi tornò al lavoro con una mano sola. Kili aveva un braccio legato al collo con una stretta fasciatura che, valutò Elemmire dall’aspetto, non veniva cambiata almeno da un giorno intero. La slegò con delicatezza, terrorizzata all’idea di cosa avrebbe potuto trovarci sotto, e poi la rimosse.
Il braccio di Kili era completamente nero.
La pelle sull’avambraccio era così gonfia e tesa da dare l’impressione che il minimo tocco l’avrebbe fatta esplodere; trasudava pus e la carne era nera come se fosse stata bruciata. Una ragnatela di venature blu risalivano verso il muscoloso bicipite. E verso il cuore, pensò con terrore. Sempre tenendosi la gonna stretta alla bocca e non osando toccarlo con le mani sporche si avvicinò per esaminare meglio il danno. C’era una ferita lì, si rese conto. I lembi marciti della pelle ormai erano quasi irriconoscibili, e non c’era nessuna traccia di sangue fluido o rappreso che indicasse uno squarcio. Elemmire non aveva dubbi che si trattasse di una cancrena, ma non le era ben chiaro a cosa fosse dovuta. Sicuramente l’ossigenazione del braccio era stata interrotta ed erano in azione dei batteri anaerobici, ma cosa aveva provocato il tutto?  Una ferita che non era stata trattata nel verso giusto, magari con l’applicazione di un laccio emostatico all’altezza della spalla per fermare una copiosa perdita di sangue? Da quel poco che poteva vedere non le sembrava che il taglio sull’avambraccio fosse particolarmente profondo, quindi non doveva aver sanguinato più di altre ferite. Ricordava il momento in cui Kili l’aveva ricevuta: era accasciato ai piedi di Fili e si teneva stretto il braccio al petto. Scosse la testa per far evaporare i pensieri.
Un nano entrò nella stanza portando un grande calderone pieno d’acqua in cui galleggiavano decine di teste d’aglio e numerose pezze bianche, ma a sentire il fetore di morte si immobilizzò e impallidì.
-Copriti il viso con un panno- consigliò Elemmire sovrappensiero, esaminando il materiale fornitole. Si rese conto che il nano era giovanissimo, imberbe, più di quanto lo fosse stato Kili quando l’aveva conosciuto.
-Dov’è mastro Oin?- chiese.
-Ha detto di dirvi, madame, che rimane in farmacia a disposizione per procurarle tutto ciò di cui possa avere bisogno. Mandate pure me per le consegne- il giovane nano aveva un accento nordico fortissimo che gli faceva storpiare quasi tutte le parole.
Così sarebbe stata sola, in fondo. Il panico minacciò di travolgerla di nuovo. Non aveva un libro, né un libretto delle istruzioni sotto mano, e la cosa la faceva impazzire. Si sarebbe mossa a tentoni giocando con la vita della persona a lei più cara. Non puoi permetterti errori, si disse. Prese una benda e la strappò a metà: con un lembo legò i lunghissimi capelli neri, con l’altro si coprì naso e bocca. Le legò assieme con un nodo dietro la testa in modo che stessero ben ferme.
-Come ti chiami?- chiese al giovane nano.
-Stenr- rispose. Era biondo con gli occhi neri come onice.
-Bene Stenr, inizia col ravvivare il fuoco e col chiudere le finestre. Metti a bollire l’acqua mentre io penso a cosa può servirmi.
Stenr si mise all’opera, e anche Elemmire. Cosa poteva servirle? Per le ferite infette i disinfettanti più efficaci erano l’aglio e il sale, lo sapeva, ma per i gonfiori era utile il miele e anche la mirra e i chiodi di garofano erano dei buoni emollienti e antisettici. Sapeva di piante, come l’achillea o la centaurea, ma non aveva mai davvero approfondito le loro proprietà e non se la sentiva di improvvisare proprio in quel momento. Per le piaghe purulente serviva tintura di iperico, di questo era certa, mentre la febbre sarebbe passata con un decotto di corteccia di salice, o al limite con foglie di faggio. La cosa più urgente era però un antibiotico. Quella ferita brulicava di batteri e doveva essere saturata al più presto. Rifletté se fosse stato meglio usare l’origano o lo zenzero, si decise poi per quest’ultimo e per le cipolle, che favorivano la circolazione sanguigna –e con una cancrena la circolazione era esattamente quello di cui c’era bisogno. Infine completò la lista mentale con corteccia di quercia, da applicare all’esterno. Si girò verso Stenr e gli chiese se sarebbe stato in grado di ricordare tutto. Il nano annuì e schizzò via lasciandola di nuovo sola con il corpo inerme di Kili. Elemmire aspettò che l’acqua bollisse sotto la fiamma allegra del camino, sbucciò gli spicchi di aglio e li fece bollire per qualche minuto nel pentolone dove poi intinse le bende, per disinfettarle. Con le finestre chiuse e l’acqua che bolliva c’era di nuovo caldo nella stanza ed Elemmire si slacciò il corpetto in modo che il suo petto rimanesse libero di espirare e inspirare. La leggera camicia era già madida. Stenr fu incredibilmente veloce e rientrò nella stanza portando ceste piene di ampolle e vegetali. Le poggiò sul tavolo grezzo e guardò Elemmire con fare interrogativo. Anche lei si sarebbe guardata in quel modo, se fosse stato possibile. Cosa doveva fare per prima cosa? Con un mestolo di metallo recuperò una benda dal pentolone con l’aglio, aspettò che si raffreddasse tanto da poter essere maneggiata e si avvicinò alla cancrena. Vincendo la repulsione passò la benda disinfettata sulla zona nera e marcia, spremendo fuori l’acqua e l’aglio e osservando quasi con distacco le bollicine che provocava il contatto con la cancrena. È come l’acqua ossigenata, si disse. Ripeté l’operazione con un’altra benda; tra il puzzo della carne putrefatta e quello dell’aglio l’aria doveva essere irrespirabile. Fece cenno a Stenr di riaprire un poco le finestre. Finito di disinfettare prese un recipiente che assomigliava vagamente ad una teiera senza becco e vi tritò lo zenzero e la cipolla, poi vi aggiunse l’acqua del pentolone, già disinfettata, e fece di nuovo bollire il composto. Usò una delle pezze messe a raffreddare per rovesciare il decotto e con un setaccio ne filtrò una parte, mantenendo metà dell’acqua e tutte le parti solide nel panno. Lo attorcigliò e lo legò alla cancrena. Ecco il tuo antibiotico, si disse. Lasciò l’impacco dov’era per qualche minuto mentre esaminava le altre boccette e i mazzi di erbe. Dal colore riconobbe la corteccia di salice e chiese a Stenr altra acqua per poterla bollire, ma poi lo richiamò a metà strada ricordandosi che Kili era incosciente, e quindi non avrebbe potuto bere. Chiese così al suo giovane assistente di procurale dell’argilla: gli avrebbe fatto degli impacchi sul petto. Tolse l’antibiotico e applicò la tintura di iperico sulla piaga purulenta, infine unse l’ultima benda bollita di miele e fasciò il braccio. Avrebbe voluto poter dire che la ferita sembrava già migliorata, ma sapeva bene che non era così: ci sarebbero volute applicazioni di antibiotico due volte al giorno per giorni per vedere qualche miglioramento. E se il sangue non fosse tornato a circolare normalmente, bhe, allora avrebbe dovuto amputargli metà braccio, non c’era scelta. Si accasciò su una sedia per riposare e per ringraziare la sua buona stella che le aveva fatto seguire un corso di medicina naturale. Non si alzò nemmeno quando entrò Stenr: da seduta miscelò acqua e argilla verde (Oin aveva capito perfettamente cosa le serviva), le stese su un panno asciutto e le applicò sul torso coperto di peli scuri di Kili. Premette con la punta delle dita per qualche minuto, lo tolse e ripeté la procedura con altri due impacchi. Si era fatto buio quando finì di rimettere in ordine ogni cosa in modo che Stenr potesse riportare ad Oin le ceste.
Gandalf si affacciò discretamente alla porta e le sorrise:-Al puzzo di morto preferisco decisamente l’aglio.
Elemmire non riusciva a sorridere di rimando. Era ancora più preoccupata di prima: la febbre non sembrava essersi abbassata granché e le condizioni di Kili rimanevano critiche. Di colpo le cadde addosso una profonda stanchezza, e per la prima volta si accorse del dolore sordo e pulsante alla spalla. La sua ferita aveva bisogno di medicazione.
-Oh Gandalf- sussurrò avvertendo il calo di tensione fisica ed emotiva –Non so se ce la farà.
Grosse lacrime le si affacciarono agli occhi e le scivolarono sulle guance. Lo stregone le appoggiò paternamente una mano gigantesca sulla spalla sana, non a confortarla ma a farle sapere che non era sola. Così, in silenzio, aspettarono che Oin stesso venisse a cambiarle le bende e a medicarla con tintura di calendula. 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** luce ***


Elemmire quasi non dormì la sua prima notte da convalescente. La stanchezza e le emozioni erano tante che iniziava a fare incubi appena si lasciava scivolare nel dormiveglia. Aveva chiesto di essere alloggiata su un pagliericcio nella stessa camera di Kili, di cui, sembrava, era stata nominata infermiera ufficiale, e invece cinque nani avevano portato lì il suo lettuccio sbilenco e le sue coperte. Si era raggomitolata sotto la finestra per poter vedere, nello squarcio della roccia, le stelle. Ricordava bene quante volte aveva visto le stelle, con Kili, e le memorie la fecero piangere di nuovo amaramente. Nessuno venne in suo conforto. Prima dell’alba, quando la luce si fece più grigiastra, si alzò, accese alle braci del camino alcune candele e torno a medicare Kili. In previsione si era fatta lasciare l’acqua, l’aglio, il miele e il filtrato del suo decotto: fece bollire a fuoco basso le bende con l’aglio e a parte riscaldò il decotto nel quale poi le intinse. Non era certa che fosse una procedura ortodossa ma non conosceva nessun altro modo per somministrare un liquido essenziale ad una persona in coma. Se funzionavano le flebo, sarebbe andata bene anche l’applicazione diretta. Tuttavia, mantenne due cucchiaini di decotto e con questi bagnò le labbra di Kili. Non sapeva da quanto il nano non bevesse, ma era certa che nelle sue condizioni, con quella febbre e quell’infezione, se non si fosse svegliato entro ventiquattro ore sarebbe morto disidratato. Nella penombra che precede l’alba osservò gli smagriti lineamenti di Kili e li accarezzò in punta di dita. Almeno era lì con lui. Erano insieme, anche se lui non lo sapeva.
Non lo sapeva.
Aveva sentito storie, nel suo mondo, di persone che uscivano dal coma dicendo che la voce di quelli che amavano li aveva guidati. Non sarebbe costato nulla fare un tentativo. Si inginocchiò affianco al letto in camicia e sottana e iniziò a parlare dolcemente:-Kili, non so se mi senti o no. Se mi senti bene, se no, non credo faccia differenza. Vorrei tu sapessi che sono qui. Sono Elemmire. Sono qui che mi prendo cura di te e ti aspetto. Non farti aspettare troppo, va bene?
Le venne portata la colazione a base di carne arrostita per rimetterla in forze e degli abiti puliti e molto più comodi. Evidentemente, si disse Elemmire mentre infilava il gilè di pelle, le scarpe imbottite di calda pelliccia e si allacciava la gonna marrone scuro, avevano capito che tipo era. Quando il nano Stenr, che era diventato il suo cameriere, si ritirò per portare via i suoi abiti smessi venne sostituito da Oin.
-Ti vedo bene ragazza- disse come convenevole. Elemmire dubitava assai di avere un aspetto presentabile. Ringraziò con un cenno del capo:-Valutate il mio lavoro, mastro Oin- chiese per portare la questione nel vivo senza troppi giri di parole.
-So tutto quello che avete fatto. Ricordatevi che ho prelevato io stesso tutti gli elementi di cui avevate bisogno; e devo ammettere, non avrei saputo fare di meglio. Gandalf aveva pienamente ragione su di voi: avete un sangue freddo straordinario e siete padrona di quello che fate.
I complimenti la fecero arrossire:-Vorrei solo poter fare di più. Da quanto tempo non beve?
-E’ caduto nel sonno due notti fa, quindi direi più di un giorno e mezzo. E in quanto a mangiare, ah, non tocca cibo da prima della battaglia.
Lo stomaco di Elemmire si strinse. Non sarebbe mai sopravvissuto così debole.
-Credevo che la battaglia sarebbe stata il peggio- osservò sommessa. Oin la guardò con occhi penetranti:-Oh, no ragazza. Quello che viene dopo è molto, molto peggio. Vedere morire il nano accanto a te trafitto da una lancia di quercia ti spezza il cuore; ma dover dire al tuo amico ferito che non puoi fare nulla per lui, e che morirà presto, questo è ancora peggio, ti strappa via l’anima.
Elemmire ingoiò. Stava iniziando a capirlo anche lei.
-Promettimi solo una cosa- Oin la interpellò un’ultima volta prima di uscire –Dimmi che sei il ragazzo dovesse raggiungere suo zio e suo fratello mentre io non ci sono, farai in modo che non soffra, va bene?
Elemmire chinò il capo per nascondere il labbro che tremava. Devi svegliarti Kili.
Si alzò in piedi e si avvicinò di nuovo al letto, scalpitante. Voleva fare dei nuovi impacchi di argilla verde per cercare ancora una volta di abbassare la febbre.
-Oh Guntera mi salvi, mi ero dimenticato il motivo per cui ero qui- Oin rientrò così di scatto che la fece sobbalzare dolorosamente –Volevo dirvi che tra una medicazione e l’altra mi piacerebbe mostrarvi la farmacia e la biblioteca. Sono certo potreste apprezzarla più di tutti.
-Grazie mastro Oin- Elemmire fece un inchino impacciato –Sarò felicissima di visitarle dopo che avrò finito gli impacchi di argilla. Potreste fornirmi altra acqua ed altre bende?
-Manderò subito Stenr per questo- assicurò soddisfatto Oin nell’uscire, questa volta definitivamente. Elemmire rimase seduta accanto al letto a sussurrare parole nell’orecchio di Kili. Quanto meno il profumo delle erbe copriva il marcio della ferita. Si disse che bruciare dell’incenso nell’aria non sarebbe stata una cattiva idea. Chissà se Oin avrebbe saputo procurargliene un po’. Ripeté gli impacchi di argilla e versò dell’acqua tiepida sulle labbra di Kili. Nessun segno. Se Elemmire non gli avesse più e più volte tastato il polso si sarebbe potuto dire morto. Usò dell’acqua fredda per detergergli la fronte e sperare così che la febbre scendesse: era vitale che Kili si svegliasse. Rimase tutta la mattina a prendersi cura di lui, nonostante fosse sempre più stanca, e quando verso mezzodì toccandogli la fronte la sentì più fresca del solito dovette soffocare a forza la speranza che le saliva in grembo. Applicò altra argilla. Ormai la pelle di Kili era verdognola sotto lo strato appiccicoso che si depositava ogni volta, ma era il minimo. Non volle scoprire la cancrena finché non ebbe bruciato delle bacche di incenso del caminetto e tossito alle esalazioni amare. Quando fu certa che la stanza fosse ben disinfettata, slegò la benda per la medicazione pomeridiana. Stenr era seduto al tavolo dietro di lei, ormai abituato al silenzio e agli ordini secchi, urgenti, e mangiava le focacce d’avena cotte sulla pietra bollente che Elemmire aveva ignorato per pranzo. La pelle intorno alla ferita era meno gonfia, questo era evidente, ma la necrosi non accennava a migliorare. L’ossigeno non tornava a irrorare quella parte di braccio ed Elemmire non riusciva a capire perché. Questa volta aiutata da Stenr applicò antibiotici e disinfettanti in quantità più massicce e per tempi più lunghi, ma sembrava di star trattando carne già completamente morta. Era così marcia che nemmeno i vermi avrebbero gradito di banchettarci dentro. Era opera di un batterio, poco ma sicuro; la ferita doveva essere rimasta sporca di terra per molto tempo e questo, unito alla mancata ossigenazione, aveva favorito all’istante la formazione dell’infezione, che i medici non avevano trattato affatto come avrebbero dovuto. Forse il braccio ferito era rimasto schiacciato per molto tempo sotto i corpi degli Orchi. Sì, questa poteva essere una buona soluzione. Magari un’articolazione era saltata e nessuno aveva avuto la prontezza di rimetterla apposto in tempo perché preso da altre ferite. Già, le altre ferite. Elemmire non aveva esplorato il corpo del nano, ma era certa che non potesse essere tutto lì. Già sul viso si vedevano graffi pittoreschi, e le costole sotto la peluria erano marroni di lividi. Ci sarebbe voluta una crema di arnica, come quelle che usava sua nonna, ma dubitava sarebbero state utili così tardive rispetto all’infortunio. Poi, a giudicare dalle condizioni dei pantaloni, Kili doveva avere ferite anche sulle gambe. Un certo senso di pudore però impediva ad Elemmire di controllare. Aveva ormai capito dalla composizione del suo stesso vestiario che i nani non usavano biancheria intima. Controllò con la coda dell’occhio che Stenr fosse uscito e si accucciò accanto a Kili. Sembrava davvero un ventiduenne e nessuno avrebbe mai solo immaginato che di anni ne aveva ottanta. Elemmire appoggiò il mento accanto all’orecchio del nano, tra i capelli incrostati di sangue e sudiciume, e gli sussurrò:-Sono sempre io Kili. Riesci a sentirmi questa volta? Bene, se è sì, non fermarti. Sono felice di essere qui con te. Svegliati presto Kili, non so quanto ancora resisterò senza dormire. Ho gli incubi ogni volta che chiudo gli occhi. Mi manchi. Cerca di tornare presto, va bene?
Gli depose un leggerissimo bacio sulla guancia e fu soddisfatta di non trovarla più bollente come prima.
 
Un urlo sferzò il silenzio. Oin ed Elemmire alzarono la testa in contemporanea. Oin l’aveva avuta vinta e l’aveva trascinata a forza via dalla camera di Kili per mostrarle la farmacia e farle mangiare qualcosa. Dopo averle spinto in grembo un piatto di piccioni allo spiedo glassati e un bel boccale di birra ambrata l’aveva condotta poco lontano, rimanendo in quell’ala del castello che, a quanto pareva, non era arrivata sotto le grinfie del drago. Interi saloni erano polverosi ma come congelati nel tempo in cui i loro legittimi abitanti erano fuggiti. Tra questi locali c’era l’infermeria, più lunga che larga, sulla cui porta campeggiava un ermellino su screpolato fondo nero. Scaffali, mensole e stipetti rigurgitanti spezie ed erbe mediche avevano fatto brillare gli occhi di Elemmire, suo malgrado, che si era trovata nel suo elemento. Non c’era molta luce e bisognava essere pratici del posto per riconoscere gli ingredienti nella penombra e con le etichette scritte in rune e annebbiate da polvere e ragnatele, ma Oin le assicurò che una volta data una pulita il locale si sarebbe rivelato molto confortevole, anche se buio, e le mostrò le mensole che aveva già iniziato a lucidare il giorno prima. Le boccette che vi erano poggiate sopra erano state trasferite sul lungo bancone al centro della stanza e aspettavano pazienti di essere catalogate. Ci si trovava di tutto lì, le assicurò, e ogni prodotto era in stato di conservazione perfetto. Elemmire non stentava a crederlo. Le ampolle sembravano davvero sottovuoto. Era allora che era arrivato il grido. Era rimbombato su e giù per le aule di pietra, ora più forte ora più debole come un’eco, ma ascoltando meglio ci si accorgeva che in realtà erano tante persone che ripetevano la stessa parola salendo e scendendo scale.
-Che Guntera mi fulmini sul posto- Oin aveva gli occhi sbarrati.
-Cosa dicono?- chiese Elemmire con il naso fuori dalla porta rivolto all’insù.
-Stanno dicendo: è sveglio.
La corsa nel salire le quattro rampe di scale dall’infermeria alla camera furono le più veloci che Elemmire avesse mai fatto. Letteralmente schizzò in cima al corridoio e il brusco sbalzo di pressione le fece volteggiare puntini neri davanti agli occhi. Si fermò per prendere fiato e per preparare le gambe che le tremavano ad entrare nella stanza. La porta era stata chiusa e dall’interno provenivano rumori e voci: qualcuno l’aveva preceduta. Raccolse le forze e spinse i battenti. I nani si girarono verso di lei, tutti quanti. Erano una mezza dozzina che si affaccendavano attorno al letto, ma ognuno di loro interruppe il suo frenetico esaminare e misurare e congetturare per guardarla. Elemmire si sistemò il corpetto di cuoio, sentendosi indicibilmente a disagio, e camminò rigidamente in avanti. La reazione fu inaspettata: i medici si scostarono con aria rispettosa e qualcuno chinò la testa. Elemmire avanzò fino al letto. Kili giaceva nella stessa posizione in cui lei lo aveva medicato così tante volte, ma la testa non era abbandonata mollemente sul cuscino, ma dritta e con la fronte alzata. Il respiro era più regolare e, ci avrebbe giurato, il battito cardiaco più forte. Elemmire avrebbe voluto gettarsi in avanti per coprirlo di baci, ma con professionalità guardò i nani attorno a lei e con tono risoluto disse:-Signori, gradirei essere lasciata sola col paziente per assicurarmi del suo stato.
Non avrebbe mai creduto che sarebbe successo, ma i nani uscirono in silenzio dalla stanza. La porta si chiuse con un leggero tonfo. Il cuore le batteva fortissimo e le mani le tremavano nel girarsi verso Kili; nel momento stesso in cui vide i suoi occhi muoversi sotto le palpebre capì di cosa stava parlando Oin quella mattina, su cosa volesse dire annunciare ad uomo vivo, che parla e ti guarda, che sta per morire.
Oh no. Non può morire ora.
Si schiarì la voce e assunse un tono neutro:-Kili. Kili riesci a sentirmi?
Gli occhi verdi si spalancarono di colpo. Erano infossati e iniettati di sangue, ma lucidi. Elemmire avrebbe voluto ringraziare Iddio per tutta la stanza, ma si ricordò del protocollo. Le avevano spiegato al corso per la croce rossa cosa fare quando un paziente si risveglia dopo molto tempo da uno stato di incoscienza.
-Sai dove ti trovi?- chiese con voce monocorde ma morbida. Kili aprì la bocca ma uscirono solo suoni inarticolati e ruvidi come cartapesta.
-Oh Dio, l’acqua- quel poveretto non beveva da giorni. Elemmire cercò sul tavolaccio se avesse lasciato qualche tazza con un infuso dentro, ma c’era solo il solito calderone in un angolo. Si strinse nelle spalle: quanto meno l’acqua era fresca, e non sapeva ancora di aglio. Con il mestolo ne prese abbastanza da poterla trasportare senza rovesciarla e si sedette sul bordo del letto. Con il braccio sano aiutò Kili a tirarsi appena in piedi e con l’altro, che doleva minacciosamente nel tenere sospeso il mestolo, gli versò l’acqua nella bocca riarsa. Quella stessa bocca che, si ricordò in uno stralcio di pensiero, l’aveva baciata con tanta foga la settimana prima. Il mestolo le tremò in mano e rischiò di affogare il nano rovesciandogli l’acqua nella gola in un colpo solo. Tossendo Kili si sdraiò di nuovo:-Va molto meglio ora- sibilò tra i denti.
-Sai dove ti trovi?- ripeté.
Kili scosse la testa.
-Sai chi sono io?
Kili fece un mezzo sorriso sghembo:-Oh aye, Elemmire.
-E sai chi sei tu?
-Kili, figlio di Farin, principe sotto la Montagna.
La domanda successiva avrebbe dovuto essere su l’ultima cosa che ricordava, ma Elemmire si disse che non era il caso.
-Cosa senti?
Kili si mosse a disagio, i denti stretti:-Un dolore lancinante al braccio, e ho sete.
-Ti farò portare dell’acqua. Sei nella Montagna Kili, sei al sicuro e va tutto bene.
Con rammarico si ricordò che probabilmente, secondo il protocollo, le rassicurazioni andavano prima dell’interrogatorio.
-Lo so che va tutto bene- gli occhi verdi la guardarono e le raschiarono via la carne dal viso per l’intensità –Mi hai aspettato.
Elemmire girò le spalle per nascondere le lacrime di gioia. Come un automa aprì la porta e uscì fuori, trovandosi faccia a faccia con i medici dei nani che, a quanto pareva, aspettavano fuori che qualcuno li chiamasse.
-Signori- esordì con la voce che tremava –Il principe Kili sta bene. È lucido e risponde alle domande. Il fatto però che si sia svegliato non presuppone per forza la sua guarigione. Anzi, l’unica buona notizia è che non morirà di sete.
Per quanto Elemmire fosse serissima nel dirlo, le sarebbe piaciuto vedere qualche risata, o almeno un sorriso, tra le barbe che la fissavano.
-Perciò vi chiedo di pazientare e di lasciarlo riposare, finché non abbia stabilito che egli è fuori pericolo.
Senza una parola i nani se ne andarono inchinandosi uno dopo l’altro di fronte a lei. Alla fine per ultimo rimase solo Stenr, con la solita aria a metà tra il terrore e la noncuranza:-Cosa devo fare madame?
-Vai in infermeria e prendi tutto il necessario da Oin. Stavolta, fatti dare anche la corteccia di salice.
Quando tutti gli ingredienti per la medicazione furono pronti Elemmire si avvicinò di nuovo al letto.
-Kili, sai cosa sto per fare?
-Mi medicherai?- il nano era imperlato di sudore freddo.
-Hai una cancrena al braccio destro. Vuol dire che la zona ha smesso di essere irrorata dal sangue ed è stata attaccata da un’infezione, ed è quindi marcita. L’ho disinfettata e ti sto sottoponendo ad una cura antibiotica, ma…
-Arriva al punto, ti prego.
Elemmire respirò e prese in mano il panno dell’impacco:-Il punto è che ora che sei sveglio non so se farà o no male, quindi ti prego di rimanere fermo.
Kili annuì e buttò pesantemente la testa all’indietro, chiudendo gli occhi. Elemmire iniziò lentamente a medicarlo e il nano rimase immobile.
-Senti dolore?
-Non sento nulla di nuovo. Fa male come prima e sento freddo nelle ossa.
Non bene, rifletté Elemmire. L’area aveva perso del tutto sensibilità, indice che la necrosi era avanzata e anche le terminazioni nervose erano state aggredite e danneggiate. Somministrò al nano l’antibiotico per via orale e poi il decotto di salice per far abbassare ancora la febbre.
-Posso chiederti come ti sei procurato questa ferita?- chiese nello stringere le bende.
Kili rimase con gli occhi chiusi. Per un attimo Elemmire pensò che stesse dormendo, poi lo vide ingoiare a vuoto. Stava soffrendo. E non fisicamente.
-Sono stato colpito da una freccia nera. Un orco cadendo si è appoggiato sull’asta e l’ha spezzata, non prima di aver allargato lo squarcio su tutto l’avambraccio.
Elemmire si fermò colpita da un pensiero. Si girò verso Stenr e chiese che gli procurasse un paio di pinze ed un coltello. Le fece bollire nell’acqua per disinfettarle e le asciugò in un panno pulito, che si legò poi attorno alla bocca e al naso. Congedò Stenr: non sarebbe stato un bello spettacolo.
-Ti consiglio di non aprire gli occhi, lo spettacolo non sarà dei migliori. E nemmeno l’odore, se è per questo.
-Ho già notato l’ultimo punto- digrignò Kili.
Con cautela Elemmire impugnò il coltello e lo passò dentro la cancrena. Sangue nero misto a pus ne uscirono macchiando il pavimento, ma ad un certo punto la lama si bloccò contro qualcosa di duro producendo un rumore metallico.
-Senti dolore?- chiese. Kili scosse la testa, le palpebre serrate. Non era l’osso quindi. Imprecò mentalmente a più riprese: ecco spiegato tutto. Un frammento della punta di freccia era rimasto nella ferita, ostruendo le arterie e impedendo la circolazione sanguigna. Che stupida sono stata, si disse. Era ovvio che, se il sangue non era stato ancora avvelenato, ci doveva essere qualcosa che ostacolava il suo percorso dalla ferita al cuore e viceversa. Prese le grosse pinze e le infilò nello squarcio. Le tenaglie si chiusero su qualcosa di duro e lentamente lei lo estrasse. Brandelli di carne si sfaldarono e un altro fiotto di sangue scuro e puzzolente invase le coperte. Dopo aver fermato l’emorragia ed aver bendato il braccio si sedette ad analizzare l’oggetto reperito: era una scheggia di metallo, lunga e stretta anche se molto spessa, tutta viscida di sangue. Adesso che aveva finalmente la risposta al dilemma si sentiva più ottimista e fiduciosa. Si alzò ancora per applicare nuovi antibiotici ma un solo sguardo alla macchia nera che si allargava sulle bende bianche la fece desistere. A che pro ormai? La necrosi era troppo avanzata per poter essere curata, ormai le era chiaro, visto che l’ossigenazione era appena ripresa; anzi, il sangue infetto rischiava di diffondersi e avvelenare Kili. Con la sua modesta esperienza e i mezzi che aveva a disposizione non poteva davvero fare di meglio. Ingoiò nel contemplare l’unica soluzione possibile e si avvicinò al letto del nano con circospezione.
-Come stai?- chiese poggiandogli una mano sulla fronte.
-Ho freddo, sete, e il dolore al braccio è atroce. Diciamo bene, Elemmire.
-Non voglio nasconderti che stai in bilico tra la vita e la morte, Kili. Pensi di essere abbastanza lucido da prendere una decisione?
Kili, sempre con gli occhi chiusi, annuì. Ed Elemmire fece la sua raggelante proposta.
 
In fin dei conti, non fu terribile. Terribile sarebbe stato un eufemismo.
La mutilazione era un evento estremamente raro nel suo mondo, dovuto a situazioni straordinarie come un incidente stradale. Era anche vero che non aveva mai, prima d’allora, visto dal vivo una cancrena. Aveva dovuto chiedere aiuto a tutta l’équipe dei medici per compiere l’operazione perché, nonostante l’analgesico e la striscia di cuoio preventivamente posizionata nella bocca di Kili, il nano non aveva smesso un attimo di urlare e divincolarsi. Elemmire aveva sentito un conato di vomito appena la lama del coltello, accuratamente disinfettato da lei stessa, era penetrata nella carne ed era dovuta uscire per calmarsi e lasciare che il sudore freddo le si asciugasse addosso. Il suo corpo e la sua mente le avevano fatto capire di aver raggiunto il limite massimo ed era stata per quella che era sembrata un’eternità ad ascoltare le urla strazianti e a piangere in silenzio.
Kili aveva affrontato l’amputazione del braccio come aveva affrontato ogni altro pericolo di quella avventura e presumibilmente della sua vita: con un’espressione concentrata e volitiva negli occhi sbiaditi dalla malattia. Elemmire era stata molto chiara: la scelta era tra perdere un arto e perdere tutto il resto, e non era stato difficile convincerlo. Aveva preso la decisione con una specie di rabbiosa rassegnazione, troppo debole per lottare o imporsi, ed era stato immobile e silenzioso per tutto il tempo in cui la stanza era stata disinfettata, così come gli strumenti da lavoro. Quando aveva davvero realizzato cosa stava succedendo l’aveva implorata un’ultima volta con gli occhi di un animale braccato, ma era troppo tardi. Elemmire avrebbe voluto completare l’operazione, ma non ce l’aveva fatta. Era ferita anche lei, stanca, esausta, non mangiava e non dormiva regolarmente da molto tempo e le emozioni le annebbiavano la testa. Dopo essere uscita non aveva osato tornare nella stanza finché Oin stesso non era venuto a chiamarla, trovandola semi svenuta davanti alla soglia. Tuttavia, Kili stava innegabilmente meglio. Il braccio era stato tranciato dal gomito in giù, il moncherino suturato e bendato secondo le sue direttive (iniziava a dubitare delle arti mediche dei nani) e ora Kili dormiva. Aveva perso la mano sinistra, non quella della spada, ma non avrebbe più potuto tirare con l’arco. O cavalcare. O fare tante altre cose. Nel vederlo così debole, inerme ed indifeso, Elemmire sentì le lacrime rigarle le guance. Non faceva davvero altro che piangere da ore. La luce delle stelle che entrava dalla finestra immergeva la stanza in una gelida penombra e lei, arsa dalla preoccupazione e dalla stanchezza, vegliava il nano dormiente. La sua fronte non scottava più di febbre e se non ci fossero state complicazioni sarebbe guarito. E sopravvissuto. Era quello che contava, cercò di dire a se stessa.
-Da quanto tempo non dormi?
Gandalf non aveva accettato di lasciarla sola. Seduto sul suo letto fumava in silenzio. Elemmire rispose con un mugugno.
-L’hai salvato una seconda volta. Solo questo importa, sai?
Ancora Elemmire non pronunciò parola, ma tirò su col naso.
-A cosa pensi, Elemmire?
Pensava a tante cose. Pensava all’avventura appena conclusa, alle persone che non c’erano più, a quelle che non avrebbe rivisto per tutta la vita. Pensava a Kili, al giovane nano sprezzante del pericolo che aveva affrontato decine di battaglie e ora giaceva nel letto, mutilato. Pensava al bacio che le aveva dato, secoli e secoli prima. Pensava a Galadriel, agli elfi, ai giorni luminosi dell’estate, e di riflesso riconsiderava tutte le sue scelte, in particolare l’ultima, drastica, di non tornare a casa. Pensava a cosa sarebbe successo, ora.
Aveva la testa appoggiata alle braccia conserte sul letto e le lacrime le scivolarono lungo il naso mentre si mordeva il labbro per trattenerle. Era così stanca. Stanca di ogni cosa.
Gandalf annuì lentamente e non le pose più domande. La lasciò piangere in silenzio per un po’, finché non ebbe sfogato tutta la tensione accumulata. Solo a quel punto trovò la forza di dire:-Voglio che si svegli.
-Lo farà. Ma le cose non torneranno le stesse, figliola, lo sai vero?
Elemmire chiuse gli occhi. Lo sapeva, sì.
-La morte, il sacrificio, l’oscurità vi hanno segnati in modo indelebile. Non potrete mai tornare indietro, ma questo non vuol dire che non andrete avanti, e che andando avanti non troverete luce- Gandalf sospirò pesantemente –Tempi bui sono in arrivo, Elemmire, e prima o poi il fulmine della tempesta cadrà di nuovo. Ma la luce di una candela basta a dissipare l’oscurità della notte più fonda. E l’amore, mia cara, l’amore non è una candela, l’amore accende le stelle.
Elemmire lo guardò alzando le sopracciglia.
-Tu lo ami, Elemmire. Un cieco se ne accorgerebbe. E questo basta a illuminare ogni strada che prenderai. Dovunque tu andrai, quella luce non ti abbandonerà mai.
-Quale luce?- chiese con un filo di voce.
-La luce di chi ha sacrificato la sua vita per chi ama! Ti rende quello che sei: è una luce che non si spegne mai, che brucia senza fare male. E lui se ne accorgerà. Oh, vedrai Elemmire. Sono in arrivo tempi bui, ma nella Montagna brilla una stella di rara bellezza- gli occhi dello stregone lampeggiarono verso di lei. 
Elemmire chiuse gli occhi, esausta, e si addormentò dopo poco tempo cullata da una musica lontana. 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** la fine di un problema... ***


Lentamente, il miracolo si compì: la vita tornò nel corpo di Kili. Eliminata la cancrena la sua natura forte e il pieno della giovinezza presero il sopravvento e il nano recuperò il suo vigore. In pochi giorni fu in grado si sedersi e mangiare da solo; dopo nemmeno due settimane si alzò dal letto e barcollando per la lunga degenza camminò nella stanza. Elemmire dovette appoggiarsi allo stipite della porta perché le ginocchia non la ressero quando, entrando nella stanza, lo trovò accanto alla finestra, debole e pallido ma eretto e orgoglioso, che le sorrideva con quei denti bianchi nel viso smagrito. Aveva ripreso a mangiare pane e uova, oltre ai brodi di verdure, e un giorno le chiese perfino del vino. I suoi lunghi capelli scuri ripresero lucentezza e gli occhi verdi, seppure velati da un’impalpabile dolore, tradivano la forza di volontà. Il moncherino era perfettamente guarito e cicatrizzato, e nonostante Kili fosse attraversato da un brivido di orrore ogni volta che lo guardava sembrava aver accettato il male minore con filosofia. In effetti Elemmire si stupì di trovarlo molto più mansueto di come si sarebbe aspettata. Sembrava che l’audacia del giovane principe si fosse congelata in una specie di distaccata saggezza. Man mano che le ferite fisiche guarivano in entrambi, vennero a galla quelle dell’anima. Quando il sole tramontava i fantasmi li assalivano con ferocia spezzandoli in due dal dolore. Allora, senza dire una parola, Elemmire si infilava sotto le coperte di Kili, come aveva fatto molte volte durante il viaggio, e con il suo corpo cercava di attutire i singhiozzi disperati del nano, lo teneva stretto a sé e lui compensava quella spaccatura, quella voragine dentro di lei che la svuotava di energie fino a farla quasi svenire. Non parlavano. Le loro lacrime si confondevano e in quel modo la morte, gli orrori della guerra, il dolore, le separazioni scivolavano fuori, un po’ alla volta. Si aggrappavano l’uno all’altra per non cedere alla disperazione, e anche la morte dopo un po’ passò. Una mattina Elemmire si svegliò da sola nel letto a baldacchino, rannicchiata nella veste da notte sotto le pellicce. Un energico bussare alla porta scacciò i sogni del dormiveglia strappandole uno svogliato “avanti”. Con sua sorpresa due nane barbute e nerborute entrarono nella stanza recando stoffe e cofanetti. La fecero alzare di peso dal letto, la lavarono ignorando le sue proteste e poi la vestirono con una semplice veste azzurro ghiaccio piena di pieghe dallo collo alto e morbido. Sulle spalle le posero un caldo mantello di lana, bianco con bellissimi ricami geometrici dello stesso azzurro della veste e una grossa spilla d’oro pallido che lo chiudeva sul petto; raccolsero indietro i suoi lunghi capelli con un nastro azzurro e le concessero, dopo un’estenuante contesa a gesti, di mettersi da sola i morbidi stivali imbottiti di pelliccia bianca. Pulita e calda nei suoi indumenti Elemmire si trovò a seguirle per i corridoi di pietra. Fiaccole fumose illuminavano i punti bui. Chiese più volte dove fossero dirette, chi le aveva mandate o anche solo come si chiamassero, ma non ottenne risposta. Evidentemente le nane non parlavano la sua lingua. Quando infine si fermarono davanti ad una porta di ottone Elemmire aveva definitivamente perso l’orientamento. Le due nane si inchinarono e la invitarono ad entrare da sola. Elemmire spinse i battenti e la porta si aprì senza un cigolio su cardini oliati di fresco. Mosse qualche passo in una stanza enorme. Il soffitto era basso e questo le concedeva un’aria intima e familiare, ma lo sguardo poteva spaziare a piacimento. C’era un grande camino in cui ruggiva un fuoco allegro, e davanti al camino uno scrittoio di legno massiccio e uno sgabello imbottito; un baldacchino alto e dalle superbe tende blu e viola dominava l’ambiente, ma c’era anche un treppiedi coperto da un voluminoso cuscino con nappe e un tavolo con i piedi di lupo. Elemmire comprese che, tra scale, corridoi e passaggi nella roccia doveva aver attraversato la Montagna da una parte all’altra perché questo appartamento aveva, sorprendentemente, una grande finestra. Le tende viola erano state aperte e la luce del giorno entrava attraverso la sottile seta bianca. Nel complesso, era un ambiente accogliente ed elegante, anche se sobrio e a misura di nano. Elemmire fece ancora qualche passo: la stanza era vuota. Stupita, si sedette sullo sgabello, che aveva l’aria più solida del treppiedi, e si beò del calore del fuoco per un po’. Si sentiva bene: era riposata, al caldo e le ferite iniziavano a cicatrizzare procurandole un piacevole prurito lungo il corpo. Congiunse le mani in grembo e attese. Quando la porta si spalancò di nuovo si alzò per la sorpresa e si guardò attorno: quattro nani entrarono nella stanza. Due di loro, vestiti uguali, avevano l’aria di essere paggi o camerieri; uno era Balin, anche se a stento l’avrebbe riconosciuto con addosso abiti puliti, damascati e ricamati; l’altro era un nano alto e giovane dalla pelle chiara, il viso imberbe e i capelli ramati intrecciati con ninnoli d’oro. La sua veste era sontuosa, di un azzurro con riflessi metallici, e sulle spalle portava drappeggiato un lungo manto che sembrava ricamato di zaffiri.
-Il principe Kili- annunciarono i due paggi, e nell’incontrare gli occhi verdi spruzzati d’oro Elemmire si rese conto che era davvero lui. Si inchinò il meno goffamente possibile.
-Al diavolo i convenevoli- Kili mosse con noncuranza l’unica mano, poi si inchinò con grazia –Credo che Elemmire sappia benissimo chi sono.
Elemmire gli sorrise timidamente, poi si girò verso l’altro nano e lo saluto con un cenno del capo:-Mastro Balin. È un piacere vedervi di nuovo.
-Il piacere è tutto mio figliola- rispose il nano con un sospiro.
Kili congedò i paggi e si avvicinò a lei:-Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare, Elemmire, e ci tengo particolarmente che tu ti unisca alla nostra conversazione.
Con il braccio buono la invitò a spostarsi attorno al tavolo con i piedi di lupo, mentre lui e Balin prendevano posto sui treppiedi.
-Non credo ci saranno mai delle parole per ringraziarti e per sdebitarmi nei tuoi confronti.
-Oh Kili…
-No, lasciami parlare. Tu mi hai salvato la vita offrendoti volontaria e venendomi ad avvisare a Colle Corvo. Mi hai salvato la vita centinaia di volte dall’alto della tua torre con le tue frecce bianche. Hai impedito che il colpo che ha ucciso mio fratello trapassasse anche me, hai medicato una ferita che i medici davano già per spacciata e infine mi hai riportato in vita. Ad un prezzo- Kili alzò appena il moncherino –Ma infinitesimale rispetto a quello che hai fatto per me. Ho saputo poi oggi che hai compiuto tutto ciò mentre eri gravemente ferita anche tu, e che quando mi hanno trovato i cadaveri di orchi attorno a me erano crivellati di tue frecce. Questo Elemmire io lo chiamo coraggio. Lo chiamo sacrificio. E nessuna parola, nessun dono potrà mai esprimere appieno il debito di riconoscenza che mi lega a te. Perciò, alla presenza di Balin, figlio di Farin, scrivano di corte, io Kili, principe di Erebor, erede della stirpe di Durin, ti accordo la protezione del mio casato e l’amicizia della mia gente, assieme al titolo di dama. Erebor sia per te come una seconda patria, dove nessuna tua richiesta passerà mai inosservata e dove sempre troverai cuori leali e grati. Dico questo alla presenza degli dei, e che Guntera mi sia testimone. Hai scritto Balin?
Elemmire aveva ascoltato il monologo con gli occhi sbarrati pieni di lacrime di gioia. Non si era nemmeno accorta che, affianco a lei, Balin stava scrivendo ogni parola di Kili su un rotolo di pergamena.
-..mi sia testimone- la penna smise di grattare il foglio e Balin alzò la testa –Ecco fatto, ora devi solo apporre il sigillo.
-Non posso apporre io il sigillo- disse Kili dopo un attimo di silenzio –Non ho l’anello di zio Thorin.
-Bhe, questo è un problema. Senza sigillo il documento ha validità limitata, lo sai bene.
-Il vero problema è che Dain si è preso anche quello- il viso di Kili si adombrò –Mi chiedo se mi abbia lasciato almeno una testa su cui piangere il giorno dei funerali.
-Quali funerali?- chiese Elemmire guardando prima l’uno e poi l’altro nano.
-Quelli di mio zio e mio fratello- l’inquietante incrinatura nella voce di Kili parlava di un dolore ancora troppo recente e profondo per essere curato –Il cugino Dain sarà immensamente dispiaciuto di non dover far aggiungere una terza lapide nella Sala dei Re, ora che sono tornato in forze.
Balin sbuffò nella barba bianca ma non disse nulla.
-Ma non parliamone ora. Avremo tempo per piangere e preoccuparci, ora voglio sapere cosa ne pensi- Kili le prese con dolcezza la mano ed Elemmire gliela strinse con un sorriso. Aveva un groppo in gola.
-Io non credo di meritare tutto questo. Ho fatto solo quello che potevo e se avessi potuto fare di più…- non riuscì a concludere la frase. La spalla ferita ebbe un fremito e una visione di sangue e pietra gelida, assieme al senso di nausea, la riportò a quando, sulla torre, aveva creduto di stare per morire. Boccheggiò.
-Va bene, figliola, da brava, va tutto bene- Balin si accorse del suo momento di difficoltà e la guardò con un’infinita comprensione negli occhi –Credo tu abbia bisogno di un sorso di qualcosa di forte.
Il nano si alzò dal treppiedi e lasciò la stanza. La mano di Elemmire, tremante, era ancora chiusa in quella di Kili. Le lasciò andare lentamente le dita e la guardò negli occhi.
-Stai bene Elemmire?- le chiese con una venatura di malinconia che non aveva mai avuto.
-Sì. Sto bene, è solo che…
-Ti è tornato in mente. Lo so- Kili abbozzò un sorriso –Non c’è modo per evitarlo. Rilassati e cerca di chiuderlo fuori dalla tua testa. Attacca a quell’immagine il dolore e chiudili fuori entrambi. Ti aiuterà a controllarlo.
Elemmire respirò a fondo per calmare il tremito, poi con uno sforzo enorme rievocò la sensazione di nausea gelida e viscida nei polmoni e vi associò il senso di colpa per la morte di Fili. Con un atto di pura volontà schiacciò il tutto contro il bordo della sua coscienza e imbavagliò le voci che gridavano. L’atto la lasciò sudata e affaticata, ma con il cuore leggero.
-Funziona- sospirò.
-Lo so bene- Kili sembrò sul punto di prenderle di nuovo la mano, ma ci ripensò –Vedrai, dopo un po’ inizi a farlo in automatico e non è più così faticoso. Anche se non finirà mai di tenerti sveglia, la notte. Quelle immagini ti rimangono impresse sulla retina e non le scollerai da lì mai più, mai più.
-Tu hai visto?- chiese Elemmire con un filo di voce. Non avevano mai parlato di quello che era successo appena tre settimane prima.
-Ho visto morire Fili, sì- il nano rabbrividì e chiuse gli occhi, quasi rattrappendosi su se stesso. Rimase in quel modo per pochi secondi, prima di alzare di nuovo gli occhi. Erano iniettati di lacrime represse, ma determinati:-E ti giuro, Elemmire, non avrei voluto essere in nessun altro posto in quel momento, se non lì con lui. Ero convinto che presto sarei morto anch’io.
Avrei potuto salvarvi entrambi.
-E invece no- rispose laconica.
-E invece no- Kili le sorrise mestamente –C’è una cosa che devo chiederti, Elemmire. Non abbiamo più avuto modo di parlarne ma…
La porta si aprì e Balin entrò seguito da un giovane nano che recava un vassoio.
-Ho pensato che avresti desiderato avere qui in camera il tuo pranzo- disse l’anziano nano guardando Kili. L’altro annuì con la fronte corrugata, ma non continuò la frase che aveva incominciato.
Fu un pasto sostanzioso e saporito a base di pane tostato sulle braci con bacon sfrigolante, omelette alle erbe aromatiche, frittele dolci ripiene di marmellata e soffice gelato.
-Dovresti dirglielo, figliolo- mugolò Balin nella barba mentre si puliva le labbra dai baffi bianchi del gelato.
Kili fulminò con lo sguardo lo zio, ma non rispose, intento a leccare il suo cucchiaino. Elemmire allontanò da sé la coppa e guardò Kili cercando di reprimere la stizza. Odiava essere lasciata all’oscuro di cose che avrebbe dovuto sapere.
-Dirmi cosa, esattamente?- chiese con tono leggero dopo essersi schiarita la gola.
-Che sarei sollevato se decidessi di rimanere ospite qui ancora per un po’. So che dopo tutto questo tempo starai morendo dalla voglia di rivedere la tua famiglia, e non dovrei trattenerti ancora di più, ma non posso permettere che tu ti metta in viaggio con l’inverno inoltrato. Voglio che tu aspetti la primavera, Elemmire.
Kili stava dicendo la verità, senza dubbio; ma non la verità a cui alludeva Balin. Tuttavia, le parole ebbero l’effetto di ridestare un sentimento che Elemmire aveva sperato di poter seppellire una volta e per sempre: la nostalgia per casa sua. Presa alla sprovvista, mormorò un frettoloso:-Certamente- prima che il suo stomaco si chiudesse definitivamente, rifiutando il minimo boccone di cibo. Lasciò cadere il cucchiaino intonso ai piedi della coppa.
-Certamente- si riprese subito dopo, raddrizzandosi–Sarò onorata di rimanere ospite qui fino al disgelo.
Balin scosse impercettibilmente la testa e suonò un campanello d’ottone che era poggiato con discrezione sul vassoio. Un giovane paggio ritirò i piatti e il gelato sciolto di Elemmire.
-Da dove vengono tutti questi…
-…nani?
-…inservienti. Avrei detto inservienti.
-E’ la popolazione dei Colli Ferrosi, che distano due giorni di marcia da qui.
-E cosa ci fanno ad Erebor?
-Seguono il loro re- Balin si appoggiò mollemente al treppiedi scrutando con occhi vigili Kili davanti a lui –Dain Piediferro ha decretato che chi lo desideri possa stabilirsi qui ad Erebor insieme a noi sopravvissuti. Ha anche iniziato i lavori per la ricostruzione e metà Montagna è già operativa, come puoi ben vedere. I suoi nani lavorano notte e giorno per riportare queste sale al loro antico splendore.
-E gli uomini del Lago Lungo? Anche loro avevano una città da ricostruire.
-E hanno ancora- Kili si stiracchiò a disagio –Nonostante Dain si comporti come se lo fosse, non è il re di Erebor e non ha alcun potere sul suo Tesoro. Ha lasciato in sospeso la richiesta di Bard, aspettando di vedere se si fosse fatto avanti qualche erede diretto della razza di Durin.
-Lui non lo è?- Elemmire cercò di prendere la palla al balzo. Sentiva che quello che Kili non voleva dirle era strettamente collegato con la sua nuova posizione di principe ed erede.
-Indirettamente. È un cugino di Thorin, nipote del fratello del vecchio nonno Thror. Un ramo cadetto, per intenderci.
-E fammi indovinare chi è l’erede diretto e candidato d’onore al trono- Elemmire inclinò il busto in avanti e guardò dritto negli occhi Kili. Il nano roteò gli occhi:-Non sono io.
-Lo sei- ribatté Balin, raddrizzandosi all’improvviso.
-Non lo sono!
-Sei il figlio di una principessa, il nipote di un re. Nessun altro ha diritto a quella corona più di te.
-Eppure, io non diventerò re- Kili si alzò di scatto e voltò loro le spalle.
-Perché non dovresti?- Elemmire alzò il sopracciglio con aria scettica.
Kili rimase in silenzio. Balin la guardò con eloquenza e scosse la barba bianca.
-Era questo che dovevo sapere? Che non hai intenzione di diventare re?
-No.
-No cosa?
-No che non era questo- Kili la guardò con la coda dell’occhio e allentò la tensione delle spalle –Dovresti sapere che il caro cugino Dain sta cercando in tutti i modi di spodestarmi e di prendere il trono della Montagna per sé, e io non alzerò un dito per impedirlo.
 
-E allora se non lo farai tu, lo farò io!- Elemmire si girò con un moto di stizza e nonostante lo sforzo non riuscì a mantenere la voce neutra e fredda come avrebbe voluto. Guardò negli occhi Kili e per la centesima volta si chiese se tutta quella rabbia l’avrebbe prima o poi incenerita. Kili era venuto a salutarla nella sua vecchia stanza di convalescenza, che ora era riservata a lei sola, e l’aveva trovata vestita della leggera sottoveste da notte, il petto e le spalle scoperte e i capelli ancora umidi dal bagno raccolti in molte trecce sopra le testa. Forse l’intento di Kili era stato pacifico all’inizio, ma la discussione si era subito accesa: Kili urlando e congestionandosi in viso, Elemmire rispondendo in sibili irati e gelide, sarcastiche battute.
-Ma si può sapere dov’è il tuo problema? Tu non c’entri nulla! Tu non appartieni qui! Perché ti interessa tanto che io diventi o no il re?
-Cristo- imprecò sottovoce –Non credevo che me lo avresti chiesto davvero. Non con quel tono.
-Quale tono?
-Come se fosse nel mio interesse farti prendere il posto che ti spetta per diritto di nascita!
-Dain ha altrettanti diritti su quella corona quanto…
-NO! Dain NON ne ha!- Elemmire affondò le unghie nella coperta sulla quale era seduta ma non alzò la voce –Sei tu l’erede diretto. Su quel maledetto trono hanno poggiato il regale posteriore il tuo bisnonno e tuo zio, e l’avrebbero fatto anche tuo nonno e tuo fratello, lo sai benissimo questo!
-Non tirare sempre in mezzo Fili, cazzo!- Elemmire sobbalzò. Non aveva mai sentito Kili usare un linguaggio del genere –Non puoi lasciarlo risposare in pace, una volta tanto?
-Lui non lascia riposare te- replicò tagliente, alzandosi –E nasconderti dietro di lui è un modo troppo facile di evitare il problema. Ma credi che io sia stupida? So benissimo cosa ti sta passando per la testa, e se non lo ammetterai a te stesso per primo allora te lo sbatterò in faccia io, Kili figlio di Dìs.
-Sentiamo. Scommetto che la figlia di un mercante sappia tutto di come gestire il potere.
-No, quello che sa come gestire il potere sei tu- Elemmire si costrinse a sorridere a denti stretti –Hai ricevuto lezioni apposite per tutta la tua vita, e qualcuno si è preso questa briga perché tu sei l’erede legittimo al trono. Io sono solo quella che forse ne capisce qualcosa di sogni, incubi e lutti.
Kili la guardò torvo.
-Tu hai paura, Kili.
-Paura di cosa?- Kili scandì le parole come per scimmiottarla.
-Dovresti dirmelo tu questo, anche se io ho una mia idea. Sei sempre cresciuto con l’idea che, se mai tuo zio fosse venuto a mancare, ci sarebbe stato Fili in prima linea per raccogliere la corona. E ora che è morto anche lui tu hai paura di non essere all’altezza di quello che hanno fatto o avrebbero potuto fare i tuoi predecessori. Siccome è sempre stato Fili quello destinato ad avere il trono, senti che non è il tuo posto, e addirittura preferisci darlo a qualcun alto, qualcuno che non sa nulla di come la Montagna è tornata nelle mani dei nani, qualcuno che non ha mai vissuto da esule e ramingo.
-Io non ho paura- stavolta fu il turno di Kili di sibilare.
-Ne hai. Perché ti conosco, e soprattutto conosco me stessa, e io e te siamo fatti della stessa pasta- con un sospiro si riaccasciò sulle lenzuola. Perché stavano litigando in quel modo da un’ora ormai? Era estenuante.
-E sai cosa ti dico Kili? Che è normale averne, ma non devi lasciare che ti fermi, o non saprai mai cosa vuoi davvero.
-So cosa non voglio- Kili riconobbe la bandiera bianca che svettava nelle sue parole –Non voglio un posto che non mi appartiene.
-Perché non dovrebbe appartenerti? Se per diritto di sangue…
-Non dovrei esserci io lì- Kili si coprì il volto con le mani –Ma non capisci? Non dovrei esserci io.
Elemmire si arrampicò sulle coperte e raggiunse Kili. Lo abbracciò mentre singhiozzava, cullandolo come un bambino e baciandogli i capelli.
-Ehi, mi dispiace. Mi dispiace di aver aperto una discussione del genere. Non pensare mai, mai, neppure per un istante che io possa avere qualche interesse in questa storia. Io voglio solo che tu non faccia scelte di cui poi ti pentirai. Ma sono stata dura, scusami, a volte non mi rendo conto di quanto è ancora fresca la ferita.
Rimasero abbracciati per un po’, poi Kili la scansò con un gesto fermo ma delicato:-Va bene così. Sto bene. Ti chiedo solo una cosa.
Elemmire annuì.
-Non cercare di convincermi quando sai che ho già preso una decisione.
Kili uscì dalla stanza con il capo chino ed Elemmire rimase sola a guardare le candele sciogliersi nei candelabri. Durante la notte si rigirò nel letto, in preda ai dubbi. Quando pensava che tutto si sarebbe avviato verso una soluzione, ecco che aveva a che fare con nuovi problemi! La forza con cui difendeva il diritto di Kili al trono lasciava sorpresa lei per prima: era qualcosa di istintivo, ma chiuse gli occhi e cercò a fondo in se stessa. Aveva vissuto sulla sua pelle tutti i pericoli che gli eredi della razza di Durin avevano dovuto affrontare per giungere al posto che apparteneva loro; meglio, aveva assistito ai momenti di dolore, di scoramento, quando erano stati sul punto di rinunciare e quando la strada era sembrata senza uscita. Aveva visto la determinazione, la tenacia di Thorin; l’orgoglio e il senso di sacrificio di Fili; e ora che loro non c’erano più le sembrava che il minimo che potesse fare per ripagarli del calore, dell’averle trovato una famiglia, un posto nel mondo, dell’averle mostrato il coraggio, la forza di volontà, fosse portare avanti la loro missione fino alla fine. E c’era di più: voleva dire a Kili quelle parole che avrebbero detto loro. Ed era certa che per nulla al mondo Thorin avrebbe voluto vedere suo nipote cedere il trono ad un perfetto sconosciuto. Nel ripensare a Thorin e Fili le si riempirono gli occhi di lacrime. Quanto le mancavano i pacati consigli del nano biondo! Lui avrebbe saputo cosa fare. Lui avrebbe saputo come trattare il fratello. Come poteva far vedere a Kili quello che vedeva anche lei?
Come fa Kili a vedere quello che vedi tu se non riesci a sentire quello che sente lui?
Il pensiero la colpì come una pugnalata nell’orgoglio. Era vero, indubbiamente. Non si era messa per un attimo nei panni del nano. Con notevole sforzo tornò indietro nella sua memoria al periodo subito successivo a quando sua madre era morta. Per mesi aveva perso del tutto ogni voglia di vivere, di fare qualcosa, e le persone che continuavano a ripeterle di essere forte perché era quello che sua madre avrebbe voluto non facevano che peggiorare la situazione. Cosa ne sapevano loro? Cosa potevano saperne? Perché non la lasciavano in pace invece di starle attorno come mosche, ricordandole ogni giorno perché sentiva un enorme buco nero nel cuore? Avrebbe solo voluto tornare alla vita normale, ma non c’era riuscita. Non ci si riesce mai, aveva imparato, dopo che perdi qualcuno così inesorabilmente. L’aveva aiutata stare da sola e fare ciò che sapeva fare meglio: studiare. Si era gettata anima e corpo nella scuola, cercando di riempire le ore vuote con più corsi possibili. Ed era vero, le cose non era migliorate subito e ci aveva messo anni per richiudere quella ferita, ma almeno aveva ripreso a vivere. A fare quello che facevano tutti. Ma lì… Lì era questione di giorni. Gli avvenimenti si susseguivano con velocità folgorante e lei non era certa di poter stare al passo. Non era certa che Kili potesse permettersi di prendere tempo. D’istinto, si alzò dal letto e si avvicinò al tavolo. A tentoni, nel buio, aprì un cassetto e ne estrasse una pila di fogli stropicciati, un calamaio e un sottile stiletto. Si avvicinò poi alla finestra e alla fioca luce che filtrava da fuori iniziò a scrivere. Scrisse per ore. Scrisse della sua frustrazione, della sua confusione, ma soprattutto di sua madre. Descrisse accuratamente i tre mesi successivi alla sua morte: l’ultima volta che l’aveva vista, in partenza per il Brasile, la camicetta bianca, i jeans aderenti, gli scarponi e la solita macchinetta fotografica a tracolla. Quando era stata data per dispersa; quando sua zia era venuta a riprenderla a scuola perché era arrivata la notizia della morte. Il funerale, la bara coperta di fiori, la chiesa gelida e le lacrime che proprio non volevano saperne di uscire. Andra che l’aveva abbracciata singhiozzando, e i professori che le avevano fatto rigidamente le condoglianze due giorni dopo. Anche se faceva male, scrisse ogni cosa. Il risultato fu un foglio disseminato di macchie di inchiostro e parole diseguali, ma non importava. Elemmire lo fece asciugare, poi tenendolo davanti a sé si avvicinò alle ceneri del camino. Vi soffiò sopra, ravvivando le braci che covavano in silenzio, e vi poggiò sopra il foglio. Mentre flebili fiammelle avvolgevano i bordi della pergamena, disintegrandoli, Elemmire giurò che sarebbe stato l’ultimo giorno a lutto della sua vita. Giurò che una volta e per sempre si sarebbe lasciata alle spalle il dolore e le perdite: quelle nuove, quelle antiche, quelle recenti e quelle lontane. Avrebbe deposto il bagaglio della morte e sarebbe diventata stella capace di accendere l’amore. Una stanchezza improvvisa l’avvolse: si buttò sul letto e si addormentò all’istante, mentre nel caminetto continuava a bruciare quella che una volta era stata la sua vita. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2959884