Angel's Blood

di C and S_StorieMentali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 10 ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 11 ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 ***


Premetto che essere la figlia dei due Shadowhunters più famosi degli ultimi tempi non è per niente così eccitante come sembra.
Mi spiego: se i tuoi genitori, durante la loro adolescenza, hanno compiuto mirabolanti avventure che farebbero la barba persino a un cane parlante (di questo parleremo più tardi... Effettivamente riguarda più me che loro, la storia del cane), be', tutti si aspettano grandi cose da te. E, alla fine, la troppa pressione ti fa esplodere.
Se, in più, il tuo nonno malvagio ha deciso di aggiungere al sangue dei tuoi genitori un pochino di superpoteri angelici, sei fregato. Aggiungiamo anche che quei poteri si trasmettono ai figli, e allora sei proprio nella merda fino al collo. Perché, alla fine, ti trovi col sangue quasi tre volte più "angelico" della media. In poche parole, equivale a metterti in testa un cartello al neon con una freccia enorme puntata sulla tua testa e la scritta "Caro demone, carne fresca di angioletto. Prendila finché è piccola, perché da grande ti può spaccare il culo."
Tralasciando il fatto che non sono proprio un "angioletto" come si potrebbe pensare (niente ali piumose, aspetto divino o carattere esemplare), questo fatto è proprio la causa di ciò che vi racconterò.
Per farla breve, quando ero una frugoletta adorabile e innocente e hanno scoperto questa cosa del sangue, mi hanno costretta a inserirmi anche nel mondo mondano (perdonate il gioco di parole): l'odore di tanti mondani intorno a me avrebbe coperto il mio (a quanto pare, i demoni sentono la puzza di angelo a distanza di kilometri. E lavarsi non serve a niente). Alla fine, potrei dire di essere diventata una specie di Superman, o Spider-Man, con la differenza che non sono mai stata un'eroina o un beneficio per la società.
Se, leggendo questa storia, credete di scoprire le grandi imprese della Figlia-Quindicenne-Di-Jace-HerondaleLightwoodMorgensternWayland-E-Clary-FrayFairchildMorgenstern (scusate se mi sono scordata qualche cognome), allora è meglio che lasciate perdere, perché la cruda verità che vi racconterò tratta ben altro. Intendo, qualcosa ve la dirò, ma potreste non trovare moralmente corrette alcune delle mie decisioni, che come appurerete non sempre sono condivise da chi mi sta intorno.
E se ancora non desistete dal voler leggere questa storia, sappiate che mi scuso in anticipo. Io vi ho avvisati.

P.S.: Quasi dimenticavo, dovete pur sapere il mio nome, no? Mi chiamo Samantha. Samantha Herondale.
(Non male come presentazione, eh? Sì, decisamente. Mi dà proprio un'aria baldanzosa).
 
********
 
 
 
 
 
-Dovevi proprio uscire allo scoperto in quel modo?- mi domandò Chris, imbronciato. Sbuffai e alzai gli occhi al cielo.
Mio fratello poteva essere davvero irritante, quando voleva.
Entrammo nell'ascensore dell'Istituto. Chris schiacciò il pulsante con la freccia che puntava verso l'alto, e il vecchio ascensore partì cigolando.
Guardai il nostro riflesso nelle porte di metallo. Avevamo la tenuta nera stracciata in più punti, la faccia sporca di terra e dei rami fra i capelli. Mi venne quasi da ridere, nonostante mio fratello avesse ancora un'espressione contrariata.
Ci somigliavamo abbastanza, io e Chris, anche se la sfiga genetica del sangue si era riversata solo su di me. Avevamo più o meno gli stessi lineamenti, simili a quelli di nostra madre, ma lui aveva anche i suoi occhi verdi e le sue labbra sottili. Io, invece, avevo ereditato gli occhi castano dorato e la bocca carnosa di mio padre, da cui avevamo entrambi preso i capelli biondi. Chris era un anno più grande di me. Sfortunatamente, a lui era andata tutta l'altezza, ed era anche muscoloso per effetto dell’allenamento, mentre io ero praticamente una nana.
Le porte dell'ascensore si aprirono sul solito tetro corridoio. Quando si richiusero alle nostre spalle, dopo che fummo usciti, Chris scoppiò a ridere. Era questo il bello di lui: anche se mi rimproverava, da bravo fratello maggiore qual era, non se la prendeva mai sul serio.
-Hai lasciato Max a pulire tutto- disse, fra le lacrime per il troppo ridere. Eravamo piegati in due, le mani alla pancia.
Avevo praticamente costretto Max, che, anche se era mio coetaneo, era il migliore amico di Chris, a tirare a lucido la facciata dell'Istituto dopo che ci avevamo spiaccicato sopra un Raum.
In realtà, se avessi rispettato il piano prestabilito, non avremmo indotto -per sbaglio- il demone ad avvicinarsi all'edificio, l'avremmo attaccato alle spalle senza che se ne accorgesse, e non ci sarebbero stati nessuna macchia di icore e interiora fumanti e, per una volta, nessun Max incazzato con me. Ma così non era.
Io e Chris ci accorgemmo a malapena che l'ascensore era sceso e risalito, finché non sentimmo la voce profonda e decisamente irritata di Max.
-Divertente, davvero divertente. -
Quando lo vedemmo, Chris cercò di darsi un contegno. Io me ne fregai e gli risi in faccia ancora più forte: era tutto impiastricciato e puzzava di uova marce.
Sembrava meno perfetto del solito, un po'più normale.
-Avresti dovuto attenerti al piano. Avresti potuto farci ammazzare!- urlò il figlio di Simon e Isabelle.
-Be, noi siamo ancora vivi. E il Raum è morto...- dissi.
Per quanto gli arrivassi a malapena al petto, lo squadrai dal basso verso l'alto, con finta aria di superiorità, dai piedi al torace e le braccia muscolosi, alla faccia, con la mascella leggermente marcata, il naso dritto e gli occhi cangianti dal nocciola al verde coperti un po' dai capelli neri. Oggettivamente, se Max Lewis non avesse avuto il carattere di Max Lewis, ci avrei fatto un pensierino da tempo.
Il marcio in lui, infatti, stava dentro: un po' come quella storia mondana dove c'è una vecchina che offre una bellissima mela, rossa e lucida, ad una ragazza, che appena le dà un morso muore, perché il frutto era avvelenato.
Con Max era più o meno la stessa cosa: bello fuori, una fottuta merdina dentro.
O, almeno, io lo reputavo tale, con quella sua fastidiosa grazia nel combattimento, la sua convinzione di essere migliore di me e il suo comportamento impeccabile verso chiunque non fossi io. Per non parlare di come lo credevano perfetto gli altri: mai avventato, sempre bilanciato e ordinato.
Era semplicemente odioso. E quante volte mi ero sentita dire -Samantha, devi essere più responsabile. Samantha, lo sai che devi stare particolarmente attenta, il tuo sangue attira i demoni come la cacca fa con le mosche. Samantha, perché non prendi esempio da Max?-
Okay, mio padre non aveva mai detto quella cosa della cacca, ma gira e rigira il concetto era sempre quello: Max, che avevo appositamente denominato "Il-Perfetto-del-Cazzo" (IPC, per farla breve) era, appunto, perfetto, ed io avrei dovuto essere altrettanto, quando invece ero l'esatto opposto.
E infatti: -Ora vado dritto da tuo padre e lo metto al corrente di questa tua ultima bravata.-
Assunsi un'espressione seria -Andiamo, Max. Non vorrai davvero fare così per uno scherzo innocente! E poi, la poltiglia di Raum addosso ti dona.- cercai di sdrammatizzare, facendo del sarcasmo, al mio solito.
Ma, con me, IPC sembrava non afferrare mai il sarcasmo.
Max mi oltrepassò dandomi una spallata che per poco non mi fece cadere a terra e borbottando qualche insulto incomprensibile. Restai a guardarlo mentre si allontanava velocemente nel corridoio, diretto verso la Biblioteca, dove sperava di convincere mio padre a darmi una bella punizione.


 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


Come ogni mattina, uscii dall'Istituto di New York e mi voltai un attimo per dare un ultimo sguardo all'imponente costruzione prima che si trasformasse in una cattedrale abbandonata sotto i miei occhi. Eppure riuscivo sempre a percepirlo, lo strano luccichio che indicava che quell'aspetto non era reale.
Ad ogni modo, mi misi in marcia verso la scuola, la faccia avvolta nella sciarpa contro la fredda aria di dicembre. Mi complimentai tra me e me per come, il giorno prima, ero riuscita a stendere Max agli allenamenti e anche a studiare benissimo le venti pagine di storia che la mia prof mondana aveva assegnato. Insomma, filava tutto liscio come l'olio. Ero convinta che, a quel punto, niente avrebbe potuto distogliermi dalla felicità che quell'autocompiacimento mi stava dando.
La consapevolezza che non avrei potuto pensare cosa più sbagliata mi colpì come uno schiaffo in pieno viso quando entrai in classe.
Lì per lì, non mi accorsi di niente.
Poi, raggiunto il mio banco all'ultima fila, percepii uno strano formicolio alla nuca, esattamente quello che si prova quando si avverte di essere osservati.
Mi guardai dietro e, mollemente appoggiato sulla sedia, vidi il caro vecchio Max, con un ghigno divertito stampato in faccia.
Mi resi conto solo in quel momento di avere la bocca semiaperta per lo stupore e il disappunto.
Anche buona parte delle altre ragazze della classe lo stava guardando, ma con la bocca proprio spalancata per sbavare.
La cosa più ripugnante era che anche la mia migliore amica Chloe era impegnata nell'ammirazione di Max, neanche fosse un adone greco.
Mi lasciai cadere sulla sedia accanto a quella di Chloe.
-Hai visto quello nuovo? Mio Dio, è così...- fece lei con aria sognante, una volta che si fu ripresa dalla trance -...figo.-
Oh, Raziel. Conoscevo Chloe da quando avevamo sei anni. E se c'era una cosa che sapevo di lei, perché valeva anche per me, era che, secondo la sua opinione, non poteva esistere qualcuno degno di essere chiamato figo, fatta eccezione per alcuni attori e i protagonisti maschili dei nostri libri preferiti.
Fu per questo che cominciai a preoccuparmi sul serio: immaginavo che Max avrebbe fatto il perfetto della situazione anche lì.
Cioè, la scuola mondana era sempre stato il posto dove eccellevo, proprio perché IPC era come se non esistesse. Adesso ero fermamente convinta che si sarebbe messo a fare Raziel sceso in Terra pure là.
La professoressa Martin fece il suo ingresso in classe: solito giubbetto in pelle, soliti jeans aderenti in posti sbagliati, solita camicetta a sbuffo e solita convinzione di avere vent'anni, nonostante ne avesse sessanta e ne dimostrasse ottanta.
Girava voce che tentasse di adescare poveri studenti (maschi, questo bisognava concederglielo) dietro la scuola. Per me era semplicemente una rachitica professoressa di storia leggermente esaltata. Come altro si potrebbe definire una che sorride solo quando mette in difficoltà gli studenti durante le interrogazioni? Ogni volta che capitava, gli occhi le luccicavano e si tiravano verso i capelli tinti simili a paglia, per quanto quelli erano stretti in una crocchia, e storceva la bocca in un ghigno maliziosamente malefico. Tra i vari demoni che avevo incontrato, ben pochi mi erano sembrati sadici come lei.
-Oggi interroghiamo Herondale!-
Stronza.
Comunque, avevo studiato benissimo e potevo stare tranquilla. Avrei dimostrato a IPC che anch'io potevo eccellere in qualcosa.
*****
-Bene, sei andata molto bene. Nove-
Ovvio. Dopo aver studiato fino a tardi la notte prima, mi sentivo decisamente soddisfatta. Mi sentivo soddisfatta soprattutto perché sapevo che Max mi aveva ascoltato e aveva capito che, con me, non c'era storia. Per una volta, mi sentivo migliore di lui. Mi crogiolavo nella gloria, sapendo che aveva sentito ogni mia parola riguardo l'assassinio di Giulio Cesare e il periodo in cui è avvenuto. Avevo persino detto la frase che Cesare rivolse a suo figlio, quando il poveraccio s' accorse che tra quelli che l’avevano fottuto c’era il caro Bruto.
Certo, l'avevo detta con accento americano, e non so quanto l'avessi storpiata, ma l'impegno c'era stato, e la perfezione non esiste.
Una mano alzata. Dimentico sempre che qualcuno di perfetto c'è.
-Ah, Lewis, tu sei il nuovo studente- la Martin squadrò Max, che si stava dimenando per far notare la sua fottuta mano alzata.
-Professoressa, se mi è concesso, la pronuncia corretta sarebbe Tu quoque, Brute, fili mi!- Sfoderò un perfetto accento e una perfetta cadenza latina, sembrava un oratore romano. Gli mancavano solo la toga e la corona d'alloro. Dio, quanto lo odiavo.
La Martin lo guardò ammirata, e un coro di sospiri si levò dalle altre ragazze della classe. Fui costretta a sentire cose tipo:
-Ommioddio, quanto è figo!-
-Hai sentito che pronuncia?-
-E che voce, poi...-
-Sembra ancora più sexy!-
Sto per vomitare, avrei voluto dire io.
Max continuò col suo sproloquio che sprizzava perfezione -Herindille, giusto?- Mi lanciò un'occhiata di finto dubbio, come se non mi conoscesse. Sentii la rabbia cominciare a salire. Ma certo, pronunciava alla perfezione una citazione latina e poi diceva il mio cognome in modo assurdo. E nessuno, tranne me, sembrò notarlo.
Continuai a puntare il mio sguardo sulla cattedra. Aprii la bocca per replicare e dirgli il mio cognome correttamente, ma non aveva ancora finito. Si rivolse direttamente a me. E io continuai a non guardarlo. -Tu, invece, hai detto Tu quoque, Brutus, filius mi. Ora, sicuramente non è colpa tua se non riesci a pronunciarla correttamente, comunque la mia è solo una precisazione.-
Mi sentii avvampare.
-Perfetto, Lewis, a dir poco P-E-R-F-E-T-T-O!- la Martin cominciò a fargli una valanga di complimenti.
-Ora ti metto un bel nove + sul registro, che ne dici?-
Cominciai a credere alle voci su di lei. Cercando di cacciare giù il vomito -mi era appena comparsa nella testa un'immagine della Martin avvinghiata a Max- contai fino a dieci per non esplodere.
*****
Quando suonò la campanella alla fine delle lezioni, mi precipitai fuori dalla scuola e mi avviai verso l'Istituto il più velocemente possibile, per quanto le mie gambe "Non-Convenzionalmente-Lunghe" me lo permettessero.
-Samantha!- Max gridò alle mie spalle.
-Ma bravo, ora ti sei pure ricordato come mi chiamo!- gli urlai, non voltandomi e accelerando il passo.
Mi raggiunse in poche falcate. Imprecai mentalmente contro le sue gambe lunghe. Mi afferrò un braccio e mi costrinse a voltarmi, in modo che potessi guardarlo dritto nella stampa della felpa mondana che portava sotto il giaccone. Pensai per un attimo a come dovesse essere esilarante, per Chris, guardarci litigare: io sembravo più piccola della mia età, chiunque non mi conosceva mi dava un paio d’anni in meno. Max, invece, troneggiava su un sacco di persone, perciò era facile credere che fosse più che quindicenne.
Così, ogni volta che io e IPC litigavamo, ero costretta a farmi venire il torcicollo per guardarlo minacciosamente negli occhi.
-Ti vuoi fermare?!- Max assunse quel suo tono di superiorità che usava ogni volta che mi doveva rimproverare come se fossi una bambina piccola, e che mi faceva saltare i nervi.
-Non mi fermo finché non mi dici cosa cazzo ci facevi a scuola! Cos' è questa storia che ora fai parte della mia classe?-
Max sghignazzò -Sei arrabbiata solo perché mi ha messo nove+ perché ti ho corretta...-
-Anche! Perché adesso ti metti a fare il perfetto della situazione pure lì. Le uniche ore al giorno in cui non ero costretta a sopportarti sono sparite... Puff!- mimai un'esplosione, giusto per rendere più chiaro il concetto -E ora, di grazia, potresti dirmi il motivo?-
-Tuo padre vuole che ti controlli anche a scuola. Dopo il casino che hai fatto l'altro giorno, è chiaro che hai bisogno di...-
-Questa è solo la tua vendetta per uno stupido scherzo che ti ho fatto!- sbottai -Non ho bisogno di un babysitter! Posso cavarmela benissimo da sola.-
-No, non puoi. Perché sei troppo avventata. Samantha, tu non pensi mai a quello che potrebbe succedere a te o a chi ti sta intorno per ogni cosa sconsiderata che fai. È sempre la stessa storia. Se non fosse stato per te, il Raum non si sarebbe mai avvicinato all'Istituto.-
Max piantò i suoi occhi, in quel momento quasi ambrati, nei miei.
-So benissimo che è sempre la stessa storia- dissi, a denti stretti -ma giuro che appena torno ne parlo direttamente con mio padre. E farò di tutto per sollevarti dal tuo incarico di balia, così entrambi riavremo le nostre ore di pace senza l'altro.
E io non sarò costretta a vederti essere migliore di me anche nella scuola mondana. -
Max strinse le labbra in una linea dritta e mollò la presa sul mio braccio, quindi continuò a percorrere la strada verso l'Istituto.
Non gli avrei dato la soddisfazione di compiere un'uscita trionfale, così, facendo la cosa più dignitosa che mi passò per la testa, mi misi a trotterellare per tenere il suo passo. Io e Max arrivammo all'Istituto non parlandoci e odiandoci reciprocamente in silenzio.
Prendemmo l'ascensore e ognuno si fiondò in camera sua sbattendo la porta.






COMMENTO SCRITTRICI:
Ecco, quanto sarà durata la nostra pazienza prima di pubblicare il CAPITOLO 2? Mezz'ora? Vabbè, lasciamo stare. Vi avvertiamo che anche il terzo capitolo è pronto, ma, per oggi, non pubblicheremo più niente. E 'sta volta è una promessa solenne!
Comunque, speriamo che la nostra storia vi stia attirando. Soprattutto, speriamo che vi stiano piacendo i nostri personaggi, perchè li abbiamo creati noi e li amiamo. 
Vi avvisiamo che nel prossimo capitolo ci saranno anche Jace e Clary. Non vi anticipiamo niente, ma a noi è piaciuto tantissimo scriverlo, quindi, se è valsa la pena di leggere ciò che abbiamo pubblicato fino ad ora, il prossimo capitolo vi conquisterà più dei precedenti.
Se vi va, fateci sapere cosa pensate della nostra storia. ;) 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 ***


Sotto molti punti di vista, mi sono sempre considerata uguale a mio padre. Tra di noi c’è sempre stato un feeling particolare, qualcosa che va ben oltre la somiglianza fisica. Entrambi siamo testardi, orgogliosi e non molto rispettosi delle regole (e qui un ringraziamento particolare va a zio Alec, che –durante le pause dai suoi viaggi in giro per il mondo con Magnus- mi ha raccontato come si comportava il piccolo Jace).
E quando ero andata a dirgli che non volevo avere Max come guardia del corpo e che ero abbastanza grande e vaccinata da potermi benissimo proteggere da sola, non mi aspettavo una reazione così esagerata. 
-Devi assolutamente risolvere questa storia!- dissi alzando la voce -Non puoi punirmi in questo modo... Non è giusto, e lo sai. Non puoi costringermi ad avere Max come balia tutto il tempo.-
Le sopracciglia di mio padre schizzarono verso l’alto. Era seduto alla scrivania della Biblioteca. -Samantha, non lo faccio per essere severo... Non è una punizione.- disse con voce pacata -È solo per il tuo bene. Dovresti stare particolarmente attenta, per il tuo sangue, e invece fai sempre l'esatto opposto. Questa tua bravata è stata l'ultima goccia. Cerco solo di proteggerti.-
-Sono abbastanza grande per proteggermi da sola: ho quindici anni, e non puoi negare che io sia piuttosto brava nel combattimento. Non c'è bisogno che Max... Oh Raziel, lui è così snervante e…-
Mio padre si mise in piedi, la luce del mattino baluginò tra i suoi capelli biondi striati di grigio e nei suoi occhi uguali ai miei.
-Ora basta.- disse, continuando a tenere un tono di voce basso. Avrei preferito che urlasse. -Non sei abbastanza grande o matura per vedertela da sola. Max continuerà a fare quello che dico io. Ho preso la mia decisione e non ammetto repliche.-
Avrei voluto ribattere in modo efficace, ma non riuscii a trovare qualcosa di sufficientemente sarcastico. Così sfoderai il mio ultimo asso nella manica. Feci la mia migliore espressione da cucciolo ferito e piagnucolai: -Ma papà, credevo che non mi sottovalutassi! Perché non ti fidi di me?-
Ora non puoi che cedere, vero paparino? Pensai.
-Come pretendi che possa fidarmi di te se sei così impulsiva? Ti metti sempre nei guai, non ascolti nessuno, neanche tuo fratello, e non hai alcun freno!- quelle parole taglienti fecero scoppiare le mie speranze come una bolla di sapone.
Eh, no! dissi a me stessa, questo non lo doveva proprio dire. Non si doveva permettere.
-Come puoi anche solo pensare di farmi la predica se sei il primo ad avere la fama  di esserti sempre comportato così?-
Ora anche lui si era arrabbiato sul serio.
-Sono tuo padre e non osare più rivolgerti a me in questo modo- sibilò con voce glaciale –Max si prenderà cura di te. Il discorso è chiuso.-
Certo, fantastico Jace Herondale, fa' come ti pare, come sempre. Continua a trattarmi come una bambina. Tutto questo lo pensai, ma non lo dissi ad alta voce. Chiusi gli occhi per un paio di secondi e sospirai. Mio padre era stato troppo lapidario, non me la sentivo di replicare ancora. Abbassai lo sguardo sulle espressioni sofferenti degli angeli sotto la scrivania. Anch’io mi sentivo come se stessi reggendo un enorme peso sulle spalle.
Mi girai e mi allontanai. Uscii sbattendo la porta, con tutte le intenzioni di andare a picchiare qualcuno (possibilmente qualche borioso, arrogante ed incredibilmente fastidioso esemplare di cacca ambulante sotto il nome di “Max”).
Tuttavia, trovai mia madre ad aspettarmi.
-Tuo padre ha ragione. E non dovresti rivolgerti a lui in quel modo.-
Questo fece male. Credevo mi avrebbe appoggiata.
-Non dovresti ascoltare le conversazioni altrui.-
Sospirò e si avvicinò a me. Mi ritrassi, ma lei sembrò non accorgersene e continuò -Lo so che ti sembra ingiusto, ma... Siamo solo preoccupati, Samantha. Sai che io e tuo padre abbiamo passato cose terribili, ed eravamo più grandi di te di pochissimo. E nel nostro sangue la percentuale angelica era molto più bassa rispetto alla tua. Capisci, tesoro?-
Aveva un'aria grave. Odiavo quando mia madre mi faceva queste specie di prediche chiamandomi tesoro. Era come se cercasse di indorare la pillola, che era la cosa che sopportavo di meno quando qualcosa andava male. La verità si deve dire nuda e cruda. Cercare di addolcirla o usare nomignoli mielosi è una grande stronzata.
Sollevò una mano quel tanto che bastava per accarezzarmi una guancia -le arrivavo al naso- e io la lasciai fare.
Ovviamente, sapevo che erano davvero preoccupati, ma non avevo cinque anni!
Non dissi niente. Abbassai lo sguardo e mi diressi verso la mia stanza per prepararmi ad andare a scuola.
*****
-Potresti, di grazia, smettere di fissarlo come un'idiota?- dissi a Chloe, che aveva gli occhi grigi sbarrati e sognanti puntati su Max. -Starei cercando di mangiare.-
Mi guardò e scosse la testa, i boccoli castani ondeggiarono.
-Proprio no, Sam- fece, la fronte aggrottata -vedi, lui è così... perfetto! È bello, terribilmente figo, intelligente, e...-
-E tu ti sei presa una cotta stratosferica- conclusi con voce strascicata.
Chloe annuì, abbassando lo sguardo e arrossendo leggermente. Quel giorno si era truccata. Sbuffai e addentai un pezzo del polpettone plasticoso della mensa.
-Non piace anche a te, vero? Ho visto che lo guardavi.-
Per poco non mi strozzai. -Certo, noti che lo guardo, ma non come lo guardo! Davvero non ti sei accorta che avevo un'espressione disgustata e vagamente omicida?-
Chloe ci pensò un attimo. -Be', non capisco cosa tu abbia contro di lui. Voglio dire, neanche lo conosci!-
Avrei voluto urlarle che in realtà era lei quella che non lo conosceva. Ma non potevo. Pensai a quante altre volte il peso del mio segreto era stato così ingombrante. Una volta, ad esempio, Chloe mi aveva invitato a passare l'estate da sua zia. Fui costretta a dirle di no, non solo per proteggere sia me che lei dai demoni, ma anche perché sarebbe stato troppo difficile nascondere i marchi: la zia di Chloe abitava in una casa al mare e io non potevo indossare qualcosa di meno coprente di maniche lunghe e pantaloni.
-È solo che non sembra uno apposto, tutto qui.-
-Quindi- disse Chloe con aria contrariata -ti sta antipatico solo perché non ti sembra uno apposto?-
-Io...- cercai di trovare una scusa il prima possibile.
-Vaffanculo!- la voce incavolata di Lucas mi salvò. Mi voltai verso il mio amico. Era di altezza normale e piuttosto mingherlino, ma non scheletrico. Insomma, non era certo una montagna di muscoli, però era in forma.
Comunque io non me ne ero mai importata, perché conoscevo Lucas, i suoi occhioni blu e i suoi capelli biondo cenere sin da quando conoscevo Chloe.
Eravamo sempre stati quasi come fratelli. Un po' come i tre moschettieri, ma meno fighi. O almeno in parte: dall'inizio dell'anno scolastico, Lucas si era messo in testa di dover compiere un'ascesa sociale. Quando i "fighi" della scuola si erano resi conto che aveva un aspetto passabile avevano deciso di accoglierlo fra loro, nonostante continuasse ad essere amico mio e di Chloe, che ci eravamo rifiutate di prendere parte al suo piano.
Così lui aveva iniziato ad uscire con Kara Wellson, che era una del terzo anno e aveva occhi castani e capelli color biondo tinto, oltre a un balcone ed un culo decisamente considerevoli, per cui la maggior parte della popolazione maschile della nostra scuola la teneva in alta considerazione, anche i ragazzi più grandi.
Così Lucas era finito a pranzare spesso al tavolo della gente popolare la mattina e a giocare di nascosto ai videogame di pomeriggio. Nel seminterrato di casa sua (-Cosa credi, Sam? Non posso mica permettermi che Kara scopra che passo due ore al giorno giocando online con tizi oltreoceano che neanche conosco! Mi pianterebbe all’istante!).
Il mio amico si lasciò cadere pesantemente sulla sedia accanto a me e sbatté il suo vassoio sul tavolo.
-Ma guarda chi c'è!- dissi -Come mai non sei con Kara?-
Lucas mi guardò, torvo.
Non disse niente, fece un semplice gesto col mento in direzione di un tavolo.
E allora capii. La bella Kara si stava letteralmente strusciando su Max, che era seduto al solito posto di Lucas.
-Oh...- feci, comprensiva -Be', Lukie, lo sai che la tua ragazza è una stronza, non dovresti meravigliarti tanto.- Guardai di nuovo verso Max e Kara, circondati da cheerleader e giocatori di football. Lei aveva quell'odiosa divisa da cheerleader tutta aderente. Max, strano a dirlo, era abbastanza rosso in viso e guardava in basso. Se si fosse girato di un millimetro, probabilmente la sua faccia sarebbe stata spiaccicata contro le enormi tette di Kara.
-E poi, quello nuovo non sembra neanche a suo agio- dissi, con un tono solo vagamente convinto.
In quel momento mi ricordai di Chloe e mi voltai nella sua direzione. Teneva gli occhi fissi sul disgustoso piatto della mensa.
-Be'- esclamai -credo proprio che passerò un po' di tempo con voi due depressi per amore.Bleah!- feci finta di mettermi un dito in gola e mimai un conato di vomito. Mi misi a ridere. Niente. Mi sentii incredibilmente scema. Erano entrambi muti e sordi.
-Okay.- sospirai, tornando a mangiare e pensando all'ennesimo problema che la presenza di Max a scuola stava causando.
*****
Finalmente suonò la campanella che segnava la fine della sesta ora. Mi fiondai fuori dalla scuola, sperando di poter mettere una buona distanza tra me e IPC. Non feci in tempo ad imboccare la strada di casa che lui mi affiancò, trattenendo a stento un ghigno. Decisi di ignorarlo e posi la mia attenzione sul paesaggio circostante. I taxi gialli sfrecciavano lungo la strada, lasciando dietro di loro una nuvola di smog. Stavo per tossire, quando Max scoppiò in una fragorosa e alquanto irritante risata. Mi voltai e lo fulminai, seccata, ma lui non smise di sghignazzare.
-Posso capire cos’è che ti fa ridere tanto?- sbottai.
-È il tuo comportamento. Nessuno aveva mai fissato dei noiosissimi taxi così intensamente pur di ignorarmi. A giudicare dall’impegno che ci stai mettendo, credo di dovermi sentire molto lusingato.- Abbassò la testa per piantare i suoi occhi nei miei, divertito. Era incredibile quanto potesse irritarmi. Lo odiavo per questo. Lo odiavo per essere sempre perfetto. Lo odiavo perché i miei migliori amici stavano soffrendo per colpa sua.
-Tieni a freno il tuo ego smisurato.- dissi -Stavo solo considerando l’idea di prendere un taxi.- Mi resi conto di quanto quella scusa fosse patetica mentre la pronunciavo: l’Istituto si trovava a due isolati dalla scuola.
Max non si prese la briga di puntualizzare. Si limitò ad un -Sì, come no!- continuando a sogghignare. Oh Raziel, cosa avrei fatto pur di toglierli quel sorrisetto dalla faccia. Contemplai l’idea di grattarglielo via con un coltello mentre dormiva. Certo, userò un coltello.
-Perché, non credi che prendendo un taxi faremmo prima?- dissi, sfidandolo a controbattere.
-Ti sbagli. Se mi mettessi a correre, riuscirei ad arrivare all’Istituto in un battibaleno.-
-Be’, anch’io ci riuscirei. E ti farei mangiare la polvere.- ribattei, sicura.
-Certo, credici. Tu- mi puntò un dito contro –non puoi competere con me.-  e indicò sé stesso.
Scoppiai in una risata senza allegria e, con fare arrogante, lo squadrai da capo a piedi (cosa piuttosto difficile, vista la differenza d’altezza). -Riuscirei ad arrivare prima di te anche passando da Central Park.- lo sfidai.
Aggrottò la fronte, poi disse: -Ci sto.-
Ci mettemmo in posizione, accovacciati.
-Paura, Lewis?- lo provocai.
-Ti piacerebbe, Herondale- rispose.*
-Tre…- cominciai a contare.
-…due…- continuò Max.
-…uno!- gridammo insieme.
Scattai come una molla e, velocissima, mi diressi verso Central Park, mentre Max mi stava alle calcagna. Attraversai l’entrata, trovandomi in uno dei luoghi di New York che preferivo. Lo adoravo anche in pieno inverno, con la neve che copriva le altalene che amavo da bambina, e gli alberi spogli. Man mano che mi addentravo nel parco, mi sembrava di allontanarmi dalla città, dai suoi rumori e dal suo malsano odore di smog, e mi piaceva da impazzire, anche se il vento gelido mi sferzava le guance e mi affettava l’aria nei polmoni. Invece di attraversare il parco tagliandolo, decisi di passare accanto al laghetto, per poter ammirare la patina di ghiaccio che vi si era sicuramente creata sopra. Per un momento, mi dimenticai di Max, mi dimenticai della scommessa, mi dimenticai il rancore. Sapevo di poter vincere, ma esistevamo soltanto io e il lago, ed ero a malapena consapevole del fatto che IPC fosse scomparso dalla mia vista.
Avrà preso una scorciatoia, pensai, o avrà sicuramente continuato a correre sul sentiero che avevamo accordato.
Smisi di correre e mi avvicinai alla riva: come avevo pensato, c’era uno strato ghiacciato che copriva l’acqua. Lo sfiorai con la punta della scarpa e sentii uno strano scricchiolio. Spostai il piede e notai una piccola crepa sulla superficie altrimenti liscia. Con un suono decisamente sinistro, altre fratture cominciarono a diramarsi dalla prima, espandendosi a raggiera.
Sentii un rumore secco alle mie spalle e mi voltai per ispezionare la zona con lo sguardo: non c’era nulla di insolito, oltre ad un moccioso di dieci anni che si aggirava nei pressi del laghetto.
Decisi di riprendere la corsa. Risentii quello strano rumore, ma più vicino, praticamente alla mia destra. Si trasformò in una sorta di basso ringhio, e un brivido freddo mi corse giù per la schiena. Quando mi voltai, mi resi conto che il moccioso non era affatto ciò che credevo. Un Kappa. Un Kappa. Feci una risata amara, pensando a quanto poco attenta ero stata.
Il demone puntò i suoi occhi gialli e piccoli su di me ed emise un ruggito, spalancando il becco pieno di zanne lunghe e ricurve. Mi sentii rizzare i peli sulla nuca e, continuando a correre, mi tolsi lo zaino dalle spalle e mi misi a frugarci dentro febbrilmente. Il Kappa si fermò, ma solo per prendere la rincorsa. Maledizione, è veloce, pensai. Ti prego, dimmi che ho un pugnale. Il mostro era ormai a pochi metri da me, e io riuscivo a sentire il suo odore ripugnante.
Pregando di trovare anche solo un paio di forbici, l’unica “arma” che invece riuscii a reperire fu il righello di 60 centimetri che a scuola usavamo per l’ora di arte.
-Wow,- dissi a me stessa con sarcasmo. Immaginavo che parlare con sé stessi fosse una delle ultime cose che si fanno in punto di morte -ora sì che sono pronta per uno scontro!-
Il Kappa spiccò un salto, il guscio da tartaruga e le squame che scintillavano, ed io mi buttai a terra, rotolando di lato. Mi alzai e gli rifilai un calcio nel ventre, facendolo retrocedere. Non sarò stata armata, certo, ma rimanevo comunque una buona combattente. Brandii il righello e colpii il demone alla testa. La mossa sarebbe stata più efficace se il Kappa non l’avesse parzialmente schivata. Il mostro cercò di azzannarmi la spalla, ma con uno scatto felino lo evitai e gli rifilai un potente calcio nel petto che lo fece crollare. Ero riuscita a tramortire il Kappa, ma era ancora pericoloso: non potevo ucciderlo. Stavo per darmi alla fuga, quando il lago esplose. Un colpo sulla schiena mi mozzò il fiato ed io caddi riversa sull’erba. Non ci fu bisogno di alzare lo sguardo per capire che un altro demone mi aveva aggredita. Fu sufficiente la puzza del suo alito fetido sulla mia nuca.
Indistintamente, sentii anche l’altro demone che si rialzava. Potevo affrontarne uno, ma contro due Kappa e con nessuna arma di adamas a disposizione non ce l’avrei mai fatta. Riuscii a girarmi di schiena sull’erba, e il demone numero 2 spalancò il becco, beandomi della vista delle sue zanne affilate.
Hai due secondi prima che un Kappa ti faccia a fettine, mi dissi, pensa, Samantha, pensa… Ma certo! Ogni oggetto che hai a disposizione può diventare un’arma. Queste parole mi rimbombarono nella mente con la voce di mio padre: era una delle prime nozioni sul combattimento che ogni Shadowhunter deve apprendere.
Rafforzai la presa sul righello e feci scattare il braccio destro in avanti, trafiggendogli la gola. Il mostro si contorse e, soffocando, mi ricoprì di una sostanza giallognola che mi si appiccicò ai vestiti e ai capelli, e che aveva un odore nauseante.
Mi rimisi in piedi a fatica ed estrassi il righello dalla bocca del Kappa, pronta ad occuparmi del secondo demone. Mi guardai intorno, ma lo trovai sgozzato a qualche metro da me. E accanto al mostro, in piedi e senza neanche un graffio o un capello fuori posto, c’era Max. Si era tolto la giacca e la felpa ed ora indossava una maglietta nera a maniche corte. Le rune nere spiccavano sulle sue braccia e abbracciavano le curve dei suoi bicipiti. Il sudore aveva reso la maglietta aderente, come una seconda pelle, e si distinguevano le linee del torace sotto di essa. Dovevo averlo osservato basita fin troppo a lungo, perché, passandosi un pugnale di adamas da una mano all’altra ghignò e mi disse: -Un righello, Herondale? Seriamente?-
-Non avevo alcun bisogno del tuo aiuto- tagliai corto, piccata.
-Se fossi in te, sarei più gentile- ribatté lui, divertito.
-E perché mai?- domandai, sarcastica.
-Perché sono sicuro che tu non voglia che Jace venga a conoscenza dell’accaduto.-
Mi guardò strafottente, pronto a godersi la mia reazione. Strinsi i pugni e lo fissai intensamente. Se uno sguardo avesse potuto uccidere, Max avrebbe preso fuoco sotto i miei occhi e sarebbe andato a fare compagnia ai Kappa. Lo odiavo, con tutta me stessa.
-Cosa vuoi, Lewis?-
Scoppiò a ridere e mi guardò, una decisa scintilla di divertimento negli occhi. -Tieniti a disposizione, Herondale.-
Giurai a me stessa che prima o poi lo avrei ammazzato.    




COMMENTO SCRITTRICI:
Ehm-ehm, *colpetto di tosse* ecco il CAPITOLO 3. Speriamo che vi sia piaciuto, perché abbiamo amato scriverlo. 
Ci scusiamo per non aver aggiornato ieri come promesso, ma abbiamo avuto un piccolo contrattempo.
Comunque, vogliamo ringraziarvi per averci inserito tra i preferiti, ricordati o seguiti e per aver recensito solo dopo il prologo e i primi due capitoli. Non ci saremmo mai aspettate questo successo così presto, anche se speriamo di riscuoterne sempre di più.
Quindi grazie, grazie, grazie. :D
P.S. Fateci sapere cosa pensate di questo capitolo! ;)
*Per queste due battute ci siamo ispirate a Harry Potter ("Paura, Potter?"-"Ti piacerebbe, Malfoy") perché lo amiamo. <3

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 ***


Il sudore mi imperlava la fronte. Guardai il sacco da boxe davanti a me: era nero, in pelle e super resistente.
Inspirai a pieni polmoni l’odore della palestra, del sudore e degli attrezzi lucidati. Adoravo quel posto: in fondo, ero cresciuta lì.
Indossai i guanti da pugile e mi preparai a colpire il sacco, quando la porta della palestra cigolò. Probabilmente è Chris, pensai.
Iniziai a sferrare calci e pugni al sacco, facendolo oscillare avanti e indietro. Constatai, affaticata, che era davvero pesante: d’altronde mi ero allenata tutto il pomeriggio con i salti mortali e le energie cominciavano a scarseggiare. L’immagine di una barretta di cioccolato con dentro strati e strati di caramello fuso e nocciole croccanti mi balenò nella mente. Mi ritrovai a sbavare, affamata.
-Tutto qui quello che sai fare, Herondale?- Solo il suono di quella voce ebbe il potere di irritarmi profondamente. Mi girai lentamente, mettendo su la mia migliore faccia strafottente.
Ed eccolo lì, in tutto il suo merdoso splendore. Appoggiato al muro della palestra, con le braccia conserte e un sorriso beffardo stampato in faccia. Maxime Lewis, soprannominato “IPC” dall’illustre sottoscritta, indossava la tenuta da palestra: una canotta nera iper-aderente e un comune pantalone di tuta. Era incredibile quanto fottutamente gli donasse, quando a me faceva apparire ancora più nana di quanto già non fossi.
-Cosa vuoi, Lewis?- dissi sprezzante
-Allenarmi.- il suo ghigno si allargò –Certo, se tu cadessi ora, mi divertirei di più.-
-Fottiti.-
-Con piacere, Herondale!- esclamò, sfoggiando il migliore dei suoi maledetti sorrisi da angelo.
Tornai al sacco, infuriata. Quanto avrei voluto picchiarlo fino a sentirlo invocare pietà!
All’improvviso il sacco mi sembrò sin troppo simile a IPC: stessa tenuta resistente, stessi capelli neri, stessa faccia da stronzo. Tirai un pugno al centro, proprio in mezzo alla fronte. Non contenta, sferrai un calcio rotante nella speranza di demolirlo. Una risata riecheggiò nella palestra.
-Complimenti, Herondale. Peccato che con un calcio del genere non feriresti neanche un Dimenticato.-
Non mi voltai nemmeno, non volevo dargli la soddisfazione di vedermi offesa dalle sue parole. Piuttosto mi accanii contro quel maledetto sacco da boxe ancora privo della minima ammaccatura. Pugni micidiali, calci rotanti e spallate poderose. Avevo decisamente perso il controllo. Le mani mi dolevano, una spalla si era scorticata e non sentivo più le gambe. Mi girai per riprendere fiato e mi osservai allo specchio posizionato in un angolo della palestra: ero sudata, con i capelli appiccicati alla fronte, la faccia rossa, il petto che si alzava e abbassava velocemente e tagli e lividi dappertutto.
Guardai nella direzione di Max e lo vidi cimentarsi coi pesi. Era supino e stava sollevando un attrezzo di minimo cinquanta chili. La cosa buffa e per niente gratificante era che, oltre qualche gocciolina di sudore che gli colava lungo i bicipiti, era assurdamente perfetto. Guardai imbambolata i suoi capelli: non erano minimamente scompigliati. Per l’Angelo, quanto cavolo di gel si metteva?
Posai la mia attenzione sul suo viso. Mi resi conto, molto imbarazzata, che i suoi occhi verdi, vispi ed orgogliosi, mi stavano fissando, con una scintilla di autocompiacimento, mentre il suo viso si distese in un ulteriore ghigno. Arrossii violentemente e mi girai, sperando che non avesse notato il colorito acceso delle mie guance. In preda alla frustrazione, tirai un ultimo pugno al sacco, che cadde sul pavimento con un tonfo sordo, disperdendo un po’ di imbottitura e cancellando quell’atmosfera sospesa fra di noi.
*****
Gemetti di dolore. Guardai il mio dito sanguinante prima di rivolgere la mia attenzione a quel gattaccio.
-Per l’Angelo, perché odi qualsiasi essere vivente?- Mi dovetti ricredere quando il gatto traditore andò a strusciarsi sulle gambe di IPC, che lo stava tranquillamente accarezzando. Lanciai un occhiata velenosa a Church. È mai possibile che nessuno, tranne me, odi quella specie di essere umano?!
-Sorellina, abbiamo una missione. Tutti ci stanno aspettando in biblioteca- disse Chris. Mi alzai ed iniziai a correre, cercando di tenere a freno l’eccitazione. Adoravo le missioni. Spalancai l’imponente portone della biblioteca, ed entrai. Mamma, papà, zia Isabelle e zio Simon erano seduti attorno alla scrivania di mogano, e stavano sorseggiando del thè.
-Spero che la difficile missione non sia togliere le vostre tazzine.- dissi, accigliandomi contrariata. Mio padre sogghignò e poggiò la tazzina sulla scrivania.- In effetti, non sarebbe una cattiva idea… Lo potrete fare quando tornerete. Comunque, abbiamo individuato una discreta attività demoniaca al Pandemonium Club. Sapete, quello dove…-
-…Dove hai incontrato la mamma per la prima volta. Ti prego, risparmiaci la storia.- Sbuffai annoiata. Mio padre non perdeva occasione di raccontare le sue avventure, di come aveva salvato il mondo e bla bla bla. Sinceramente ho sempre pensato che il suo sia un caso di narcisismo incurabile.
-Oh sì, proprio quello- concordò mia madre, mentre si alzava e poggiava la mano sulla spalla di mio padre. Lui le sorrise e lei gli scompigliò i serafici capelli biondi. Stavo per avere un attacco di diabete. Per fortuna, a rompere il fin troppo romantico quadretto, intervenne zia Isabelle. -Ragazzi, insieme alle armi portate anche qualcosa di carino. Dopo aver ucciso il demone, ammesso che sia uno, potete divertirvi un po’.-
Chris e Max batterono il pugno e sparirono dietro la porta, probabilmente diretti all’armeria. Io, invece, corsi nella mia stanza e spalancai l’armadio. Un brivido freddo mi attraversò, mentre osservavo i miei jeans strappati e le magliette larghe. Non possedevo nulla di… femminile. Stavo optando per una maglietta leggermente più scollata delle altre, quando una voce scandalizzata mi fece voltare
-Non penserai di indossare quell’obbrobio, vero? Neanche tua madre ha vestiti così orrendi, e fidati… un Raum si veste meglio di lei.-
Sobbalzai e mi voltai, imbarazzata. -Zia, non ti ho sentita entrare. E comunque, non penso che un demone abbia dei vestiti- dissi dubbiosa.
-Appunto- sogghignò divertita -Seguimi.- Cominciai a seguirla per i corridoi bui, sicura che mi stesse portando nei suoi appartamenti, ma lei prese una strada completamente diversa, portandomi in un’ala dell’Istituto a cui non avevo mai prestato attenzione. Si diresse sicura verso una  porta e l’aprì. Entrai e venni catapultata nel mondo di Barbie, quella bambola mondana tutta tette e plastica: mi trovavo in una stanza completamente rosa con una cabina armadio gigantesca e uno specchio immenso. Zia Isabelle entrò in modalità “trova abito” e cominciò a rovistare nei cassetti pieni.
La osservai mentre si metteva una ciocca di capelli dietro l’orecchio e con espressione concentrata valutava questo o quell’abito. Nonostante avesse quarant’anni suonati, rimaneva la donna più bella che avessi mai visto: sembrava una dea, con i suoi lunghi capelli neri ed il fisico atletico. Le piccole rughe di espressione conferivano al suo viso un’aria più matura, più vissuta. Stavo fissando imbambolata la sfilza di trucchi sul comò (di cui a malapena sapevo pronunciare il nome), quando zia Isabelle mi mostrò orgogliosa una maglietta senza maniche ed una gonna che a me sembrava una cintura larga. Rimasi a bocca aperta, traumatizzata. Non indosserò mai qualcosa del genere, decisi sicura. Cercai di inventare una scusa su due piedi per evitare anche solo di provare quello strano abbinamento, ma zia Isabelle non volle sentire ragioni. -Provateli e torna da me. Dobbiamo ancora pensare al trucco. Ed una ragazza non si può definire tale senza il suo fedele compagno.- Andò verso lo specchio, tornò verso di me e mi sventolò sotto al naso un pennellone, con aria posseduta. Indietreggiai e sfoggiai il mio miglior sorriso a trentadue denti, mentre la zia, con fare assatanato, mi elencava le cose INDISPENSABILI per la vita di una ragazza: - …eyeliner, rossetto, ombretto, fard, blush, push up, minigonna, dentifricio sbiancante…-
Indietreggiai sempre più, fino a toccare il pomello della porta. Lo girai, uscì e con uno scatto la chiusi alle mie spalle. Cominciai a correre, mentre zia Isabelle urlava: -Non dimenticare gli stivali di pelle!- A volte mi chiedo se ci sia una persona normale nella mia famiglia. Rabbrividii: purtroppo conoscevo la risposta.
Tornai nella mia stanza e con fare titubante poggiai sul letto i due indumenti. La maglietta era nera, con dei brillantini sotto la linea del seno. Mi piaceva, ma la gonna era improponibile: nera, aderente -troppo aderente- e non arrivava neanche a metà coscia. Mi sentii in imbarazzo soltanto a guardarla. Fu il pensiero di zia Isabelle che mi inseguiva con il pennellone a mo’ di arma, per punire il mio gusto discutibile, a convincermi  a provarla. Andai in bagno e mi guardai nel misero specchio: tutto sommato ero carina, ma davvero indecente. La maglietta metteva in risalto le poche curve che avevo (grazie mamma! Almeno non ero schifosamente magra come lei e quindi avevo i fianchi un po’ più larghi),  e la gonna mi faceva sembrare ancora più nana (ripeto: grazie mamma!).
Tornai esitante -e sì, parecchio spaventata- nella camera di zia Isabelle. Si stava rifacendo il trucco, tenendo in bilico con una mano una specie di pennellino nero, mentre nell’altra troneggiava il suo inseparabile pennellone. Tremai impercettibilmente.
-Eccoti, cara. Su, sbrigati!- Mi fece accomodare su uno sgabello girevole (ovviamente rosa) e mi ordinò di chiudere gli occhi. Non mi sentii di disubbidire: aveva ancora il pennellone.
Zia Isabelle cominciò quella che per lei fu una piacevole esperienza, ma per me un incubo interminabile. Dopo forse cinque minuti, forse due giorni, mi disse di aprire gli occhi. Mi rimirai nello specchio, e per poco non caddi dalla sedia. Ero un’altra persona, un’altra Samantha. I capelli biondi erano raccolti in una coda alta, gli occhi erano cerchiati di nero e le mie labbra erano rosse. Stentavo seriamente a riconoscermi.
-Che ne dici, tesoro? Ora si che si ragiona!- Mi alzai intontita e con passo robotico uscii dalla stanza. Corsi in camera e, con mani tremanti, cominciai a lavarmi la faccia, prima delicatamente, poi rabbiosamente. Il risultato fu deludente. Mi guardai frustrata: avevo appena perso una battaglia contro un pennellone e il trucco si era a malapena sbiadito. Presi la mia amata giacca di pelle e mi armai. Mi diedi un’ultima occhiata allo specchio del bagno. Mi sentivo decisamente a disagio. Sperai solo che quella serata finisse al più presto.
*****
Le luci del Pandemonium mi accecarono, mentre il suono della musica mi assordava. Mi guardai intorno, ma non notai nulla di insolito: ragazze svestite ballavano ammiccando, ragazzi sudati si dimenavano e persone ubriache vomitavano. Storsi il naso, cercando di non rimettere la cena. Osservai Chris e Max dall’altra parte della discoteca, mentre cercavano di farsi largo fra la folla. Chris alzò un dito e se lo portò alle labbra. Era il segnale. Mi mossi furtiva tra ragazzi ubriachi, cercando di individuare il demone. Vidi Max fermarsi e sussurrare qualcosa a mio fratello. Sembravano turbati. Spostai lo sguardo e mi concentrai: passai in rassegna ogni viso, ogni ragazzo finchè non lo trovai: era di media statura e piuttosto grosso, con capelli rossi sparati in aria ed un’espressione famelica. All’inizio non capii. Mi sembrava un demone qualsiasi, non particolarmente pericoloso. Lanciai uno sguardo a mio fratello. Impercettibilmente lui fece di no con la testa. Lo guardai con aria interrogativa, e lui mi invitò ad osservare meglio. Solo allora notai che il demone era già a caccia. Una ragazza gli si stava strusciando addosso in maniera piuttosto provocante. Era stretta in un miniabito dorato, che non riusciva a coprire neanche il minimo indispensabile. Un senso di familiarità mi invase, e cercai di capire dove potessi averla già vista. Fu un attimo: una luce più forte delle altre la illuminò, mostrandone il volto. Un rivolo di sudore freddo mi colò giù dalla fronte, mentre iniziavo a tremare. Ero arrivata tardi. Il demone aveva già puntato il suo obbiettivo: Kara. Raggiunsi Chris e Max. Ci guardammo: il demone non era un problema, ma Kara… C’era il rischio che vedesse qualcosa o peggio che non vedesse nulla e si facesse fare a pezzi senza accorgersene.
-Seguiamo il piano- disse Max -Kara la distraggo io.- Annuii: era l’unica alternativa che avevamo.
Mi girai, pronta ad entrare in azione, ma non vidi più né il demone né Kara. Ricontrollai, ma erano scomparsi. Aprii con furia la porta del bagno delle ragazze, mentre Chris spalancava quella dei maschi: il demone non c’era. Al suo posto, delle ragazze sbalordite mi fissavano come se fossi matta. Una, in particolare, aveva il rossetto in mano e le labbra tutte sbavate. Mi voltai appena in tempo per evitare la valanga di insulti rivolti a me. Mi guardai intorno: dovevo agire in fretta, o per Kara sarebbe stato troppo tardi. Intendiamoci, era una stronza manipolatrice, che faceva soffrire il mio amico e non si curava degli altri, ma era pur sempre una mondana ed il mio compito era quello di proteggerla. Udii un urlo sopra la musica assordante. Il sangue mi si ghiacciò nelle vene mentre correvo nella direzione da cui era partito il grido, immediatamente seguita da Chris. Stavo per spalancare la porta di quello che credevo fosse una sorta di sgabuzzino, quando Chris mi bloccò. -Ti riconoscerà, e farà domande. Lascia la cosa a me.- Annuii e mi scostai, mentre mio fratello entrava furtivo. Mi appoggiai allo stipite, pronta ad intervenire in caso di bisogno. Intravidi Max accanto a Chris, mentre lentamente si avvicinava ad una Kara piuttosto confusa. Con uno scatto velocissimo la tramortì e lei cadde a terra come un sacco di patate. So che non avrei dovuto, ma dentro di me esultai. Ogni singola cellula del mio corpo gioì, in preda ad un’esaltazione assurda. Ehi, hai voluto fare la puttana con chiunque ti passasse a tiro? Bene, ora dormi.
Un sorriso sornione mi si dipinse in volto. Chris, veloce come la luce, estrasse una spada angelica e trafisse il demone, che si contorse e si accartocciò prima di sparire. Un lieve odore di marcio invase la stanza. Entrai, facendo attenzione ai cavi elettrici sparsi per il pavimento. – Chi riporta la pantera a casa?- disse Chris. Cominciai a guardarmi in giro, improvvisamente interessata agli strati di polvere delle pareti. IPC sospirò e prese Kara in braccio. Dovevo ammetterlo: stavo rosicando in una maniera incredibile. Nessuno mi aveva mai preso in braccio a quel modo -a parte papà e zio Simon, ma loro non contano-, ed ora Max la sollevava senza mostrare il minimo sforzo -cosa piuttosto ammirevole, visto che solo il petto doveva pesare venti chili. Ma, ehi, tutto quel silicone non era sicuramente leggero!-. Cercai di non dare a vedere la mia irritazione, ma non dovevo esserci riuscita bene, perché quando Max mi passò accanto, ghignò e mi sussurrò all’orecchio -Bella gonna, Herondale.-
-Fregati, Lewis.- sbottai. Lui rise e se ne andò con Kara fra le braccia, mentre io, rossa in volto, mi abbassavo la gonna.
*****
Ero nell’istituto. Chris premette il bottone e chiamò l’ascensore che arrivò cigolando. Mio fratello entrò, invitandomi a fare lo stesso. Scossi la testa, titubante. -Voglio sapere come è finita con Kara. Sai se ha visto qualcosa, o roba così?-
Lui annuì, poi, con fare noncurante, disse: -Oh, di sicuro Max le ha fatto dimenticare tutto.- Lo guardai stralunata, cercando di seguire il ragionamento di mio fratello. Ma non ci riuscii. -E come avrebbe fatto, scusa? Ha una sorta di pozione, o che so io?- Chris scoppiò in una risata fragorosa. Lo guardai irritata. Ma che ci trova di tanto divertente? 
La mia espressione non fece che peggiorare la sua già precaria situazione, costringendolo a reggersi alla parete dell’ascensore per non cadere. Ora ero davvero furiosa.
-Sai, sorellina, noi uomini non abbiamo bisogno di una pozione. Specialmente Max.- Gli stavo per chiedere spiegazioni, quando la porta dell’ascensore si aprì e uscimmo nel corridoio.
Poi fu come se un fulmine mi avesse colpita in testa. Tutta quella voglia di portarla a casa, di prenderla in braccio, di preoccuparsi di lei. Max Lewis non si era mai fregato di niente e di nessuno, a parte Chris, ma loro erano parabatai, non valeva. Strinsi i pugni. Ma cosa mi importava?! Max Lewis poteva baciare chi voleva. Al massimo avrei fatto le condoglianze alla povera ragazza inconsapevole, caduta vittima del suo fascino. Ed allora perché ero così turbata? Perché mi tremavano le mani? Digrignai i denti, pronta ad andarmene. Schiacciai il pulsante dell’ascensore ed attesi finché l’ascensore non arrivò e scesi. Appena uscita, visto che ero molto normale, decisi di risalire e richiamai l’ascensore. Sentii una folata di vento raggiungermi, seguita dal rumore di una porta che si chiudeva. Non mi girai. Sapevo già chi era. Pregai mentalmente l’ascensore, nella speranza che si desse una mossa e mi togliesse dai guai. Ma il bastardo continuò lentamente, troppo lentamente, a scendere, lasciandomi nella fossa dei leoni. O meglio del leone. Decisi di ignorarlo. Guardai concentrata i bassorilievi che adornavano la sala, cercando qualunque pretesto per distrarmi e non rivolgergli la parola. Sentivo distintamente il calore del suo corpo accanto al mio. Sarà che avevo freddo, sarà che ero emotivamente instabile, ma mi sentii attirata da lui. Non resistetti e gli lanciai un occhiata. Brava Samantha, brava, meno male che lo dovevi ignorare. Era diverso, ma inizialmente non capii perché. Lo osservai meglio: i primi bottoni della camicia erano slacciati, lasciando intravedere il suo petto muscoloso. I capelli erano spettinati (ma dov’era finito il gel?!) e soprattutto aveva le labbra gonfie e rosse. Ho sempre nutrito seri sospetti sulla sua bisessualità, ma non credevo arrivasse a mettersi il rossetto. Lui ghignò, strafottente. Mi voltai, rossa in viso per essere stata colta in fallo. Stupida, stupida, stupida. E meno male che godevo di riflessi eccezionali. Be’, il danno era fatto, tanto valeva continuare. Fissai dritto di fronte a me e con la mia migliore voce indifferente chiesi:-Come sta Kara? Ricorda nulla?-
Lui mi fissò, vagamente divertito.
-Sì, sono piuttosto bravo a mentire. Comunque è tutto okay. Non ha visto nulla della trasformazione.- Entrò in ascensore. Lo seguii. Schiacciai il pulsante e l’aggeggio infernale partì. Guardai Max di sottecchi: aveva un’aria indifferente, come se niente lo toccasse veramente, come se fosse superiore a tutto e a tutti. Sbuffai, forse troppo rumorosamente, perché lui si voltò e con un tono piacevolmente sorpreso disse: -Comunque, la Wellson bacia da Dio.-
Lo guardai sconvolta. Lo sapevo, sapevo come era Kara e soprattutto conoscevo Max, eppure una piccolissima parte di me aveva sperato che non fosse andata così. Mi sentii ferita, tradita e non sapevo neanche perché. Max non era nulla per me, solo IPC, uno stronzo. Che cazzo mi sta succedendo? Mi sarà venuto il ciclo. Lo guardai furiosa. Volevo toglierli quell’espressione dalla faccia, quel maledetto ghigno strafottente. Ero disgustata dal suo comportamento, ogni parte di me voleva ucciderlo. Con un riflesso involontario (almeno credo), la mia mano schiaffeggiò IPC, che rimase di sasso. Avevo l’affanno, e guardai sorpresa la mia mano e l’impronta delle mie dita sulla guancia di lui, che mi fissava ferito. Dovrei scusarmi, pensai. Ma poi: ‘Fanculo, l’ha voluto lui.
-Sei uno stronzo senza cuore! Kara sta con il mio migliore amico, e tu stai rovinando tutto, rovini sempre tutto. Non ti sopporto più, sei solo un insensibile coglione.- Urlai senza alcun ritegno, fuori di me. Ora anche lui era incazzato. I suoi occhi mi fulminarono mentre, senza pietà, gridava: -Senti chi parla! Sei solo un egocentrica, che smania per avere un po’ d’attenzione. Ti dirò una cosa: non sei tu il centro dell’universo, non ruota tutto intorno a te. Sei così presa da te stessa che non ti accorgi di chi ti sta intorno!-
Lo guardai. Ogni parola era stata una freccia scoccata al cuore che, piano piano, si era trasformato in un bersaglio che lui aveva centrato. Cercai di non piangere, di non dare a vedere come quelle parole mi avessero ferita, ma gli occhi mi si fecero lucidi. Lui capì e si avvicinò a me, cercando una maniera per cancellare quella tensione nata tra noi. Lo guardai e l’aria divenne elettrica. Lessi nei suoi occhi marroni una sicurezza disarmante. Non mi avrebbe chiesto scusa. Non che lo volessi, comunque. Mi venne un groppo in gola, ma trattenni le lacrime. Non gli avrei dato questa soddisfazione.  L’ascensore si aprì e, prima di correre a rifugiarmi nella mia stanza, gli sibilai: -Ti odio, Lewis.-




COMMENTO SCRITTRICI:
Ehm-ehm, speriamo che questo capitolo sia stato di vostro gradimento.
Vi ringraziamo ancora per i preferiti, le recensioni e quant'altro e vi annunciamo che dal prossimo capitolo si entrerà nel vivo della storia...
Be', il nostro commento finisce qui, stavolta, perché andiamo entrambe di fretta. :")
Baci,
C&S

 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 ***


I miei occhi si aprirono su un cielo azzurro, limpido, diverso da quello invernale che ci sarebbe dovuto essere. Neanche una nuvola, o un rumore: tutto sembrava surreale.
A poco a poco, diventai consapevole di una superficie dura e fredda sotto la mia schiena. Lentamente, allungai le mani e le poggiai a terra, in modo da darmi lo slancio per mettermi in piedi. Appena sollevai il busto, però, mi ritrovai in piedi, come se il mio corpo avesse compiuto un piccolo volo. Avvertii un lieve capogiro, ma svanì subito.
Una terrazza, pensai, sono su una terrazza. Mi guardai intorno: la terrazza era circolare e abbastanza piccola. Proprio nel centro, a occuparla in gran parte, c’era la scultura dorata di un’enorme fiammata. Riprendendomi dallo stordimento iniziale, camminai verso una ringhiera articolata di rame. Feci una panoramica con lo sguardo: dell’acqua scintillava sotto i raggi del sole e i grattacieli di New York svettavano sullo sfondo, anche loro bagnati dalla luce. Abbassai lo sguardo e per poco non caddi nel vuoto: era questo ciò che vedevo, oltre a sprazzi verdi di rame e, sul fondo, erba e acqua.
Girai intorno alla scultura e mi trovai sospesa sulla testa della Statua della Libertà, lo sguardo fiero puntato dritto davanti a sé.
Sentii uno strano formicolio nelle mani e nei piedi, poi il viso della statua si voltò verso di me. Quando prese a mutare, avvertii distintamente un nodo allo stomaco e trasalii. Sotto i miei occhi, si trasformò completamente. Rimasi senza fiato: non avevo mai visto niente di così… bello. Bello e inquietante. Un paio di occhi splendenti, del colore dell’oro fuso, si spalancarono su di me, incorniciati da una marea di riccioli biondi e lucenti. Tutta la statua divenne bianca e incominciò a brillare di una luce calda, intensa, avvolgente. Mi sentii travolta dal potere che emanava e chiusi gli occhi per non essere abbagliata.
Tutt’a un tratto, una voce dolce e acuta -non avevo mai sentito niente di simile- si levò nell’aria, disperdendo una melodia tanto bella che compresi subito non essere umana.
Dischiusi gli occhi e restai sbalordita: era la statua a cantare, e indossava una lunghissima veste di un bianco accecante, così come le due enormi ali piumose che le si aprivano dietro la schiena. Un angelo, furono le uniche parole che la mia mente riuscì ad elaborare. E più la musica andava avanti, più mi sentivo rilassata, quasi assonnata, in trance.
Continuai a non comprendere le parole della canzone, ma ebbi la sensazione che mi spingessero verso la scultura dorata. Mi ci fermai proprio davanti e allungai la mano senza volerlo, come se qualcun’altro avesse preso il controllo del mio corpo. Mi resi conto di toccare una runa del Potere Angelico solo quando quella prese a brillare e divenne incandescente. Il bagliore si sollevò come un serpente dalla scultura e cominciò ad avvolgermi il braccio, risalendolo, avvolgendomi interamente. Mi venne voglia di urlare, ma la gola cominciò a bruciarmi terribilmente, e non riuscii a farlo.
All’improvviso, il bozzolo di luce svanì. La scultura era diventata lucidissima. Mi ci specchiai dentro e rimasi stupita e terrorizzata al tempo stesso: avevo la pelle e i capelli che emanavano un flebile scintillio, gli occhi dorati come quelli dell’angelo e un paio di gigantesche ali candide che mi spuntavano dalla schiena.
Stavolta urlai davvero, e ci misi tutto il fiato che avevo in corpo.
Mi svegliai di soprassalto, saltando a sedere sul letto e ansimando. Il sudore mi bagnava la schiena e la fronte. Mi guardai intorno: c’erano il solito buio della mia stanza, e la luce della luna entrava normalmente dalla finestra, dalla quale riuscivo a vedere una leggera neve che cominciava a fioccare giù dal cielo nero.
Quella notte sentii gli occhi dorati dell’angelo che mi fissavano per tutto il tempo. 
*****
A svegliarmi fu il suono del cellulare sul comodino accanto al letto.
Svogliatamente, mi misi seduta e risposi.
-Sì?- feci, la voce impastata per il sonno.
-Sam?- il tono squillante di Chloe dall'altro capo del telefono mi fece sobbalzare.
-Cazzo, Chloe, sono- guardai la sveglia -le sette e mezza del primo giorno di vacanze di Natale... Cosa ci fai in piedi così presto?- Prima che rispondesse la bloccai: -Rettifico: perché mi hai chiamata così presto? Stavo dormendo.-
-Be', c'è da fare lo shopping natalizio, no? Avevamo deciso di comprare i regali insieme...-
-Ah...- risposi, ricordandomi all'improvviso -È comunque presto... Non tutti hanno la tua voglia di saltare giù dal letto, il 23 dicembre. Allora... tra due ore e mezza all'entrata del centro commerciale?- tentai.
-Mezz'ora.-
-Un'ora o non mi sposto- dissi, irremovibile. Chloe sospirò.
-E va bene. Ci vediamo tra un'ora. Adesso chiamo Lucas e lo avviso.-
-Chloe, un'ultima cosa...-
-Dimmi!-
-Ma tu non hai un cavolo da fare adesso oltre chiamare i tuoi amici e svegliarli urlando nel telefono?-
-Mi prendi in giro? Sbrigati, piuttosto, che sei sempre in ritardo.-
Stavolta toccò a me sospirare. -Okay, d'accordo... Basta che non mi gridi contro come una squinternata.-
-Sei tremenda, alle volte...- disse ridendo.
-Ma sono anche la tua migliore amica- replicai -quindi arrangiati.-
-Ho capito, ciao. E ricordati...-
-Sì- feci, esasperata, -tra un'ora. Ciao- e attaccai.


Dato che era presto e dovevo essere veloce, decisi di alzarmi e andare al piano di sotto per fare colazione senza cambiarmi, tanto ero sicura che in cucina non avrei trovato nessuno.
Mi infilai la vestaglia e uscii.
Percorsi il corridoio fino alle scale, scesi e mi diressi verso la cucina. Entrai stropicciandomi gli occhi e sbadigliando.
-Buongiorno, sole!- esclamò Simon, divertito.
Cercando di uscire dalla paralisi che lo shock mi aveva provocato, abbassai le mani e aprii gli occhi. Inorridii: attorno al tavolo c'era l'Istituto al completo, più gli ospiti saltuari.
Gli occhi di mamma, papà, Isabelle, Simon, Chris, Magnus e Alec erano puntati su di me. Max mi fissava da sopra il bordo della sua tazza, ero sicura che stesse nascondendo uno dei suoi soliti maledetti ghigni.
-Ehm... Io non... Che cosa...-farfugliai. Chris ridacchiò e mi sentii avvampare. -Possibile che tutti tranne me siano arzilli a quest'ora? Credevo che non ci fosse nessuno, qui. E tu...- puntai l'indice contro mia madre -...Tu dovevi svegliarmi e avvisarmi che c'era in programma una rimpatriata mattutina. È stata Chloe a farmi alzare- dissi.
-Tesoro- mi interruppe lei -guarda che io ho provato ad avvisarti, ma dormivi tanto profondamente che ti sei a malapena mossa, e poi stanotte le tue urla si sono sentite per tutto l’Istituto. Sono venuta a controllarti, ma stavi già dormendo.- Si accigliò, preoccupata. 
-Era solo un brutto sogno…- borbottai, arrossendo ancora di più e incrociando le braccia davanti al petto.
-Fiorellino, calmati- intervenne Magnus -siamo tutti in piedi perché dovevate aspettarci al Portale. Sapevi che saremmo arrivati oggi- disse, facendo con la testa un cenno verso Alec, seduto accanto a lui.
-Oh...- feci -Be', a quanto pare oggi mi scordo di tutto.-
Mamma ridacchiò e mi indicò il posto libero tra lei e Max. Sbuffai e mi andai a sedere.
-E allora, cosa voleva Chloe?- mi chiese.
-Tra meno di un'ora devo essere davanti al centro commerciale. Shopping natalizio- spiegai brevemente.
-Be'- intervenne Isabelle -allora perché non vai con Max? Anche lui ha appuntamento lì con un'amica. Come si chiama, caro? Katie? No, aspetta... Kara! Già, frequenta la vostra stessa scuola. Potreste andare tutti e quattro, no?-
Sentii Max irrigidirsi accanto a me: non ci eravamo parlati da quando, solo qualche giorno prima, l'avevo schiaffeggiato in ascensore.
Percepii il sangue ribollirmi nelle vene al ricordo dell'impronta delle mie dita stampate sulla sua guancia e delle sue parole taglienti.
La zia continuò imperterrita a parlare: -Servono le decorazioni per la festa di domani sera. E anche gli ingredienti per la cucina. Credo di avere qui la lista...- Si alzò e andò verso l'isola della cucina, quindi torno a tavola con una lista della spesa coperta di una scrittura fitta. Me la passò e io la scrutai, notando gli Xoxo sul fondo del foglio, dove Isabelle li metteva sempre.
-Ed esattamente, come speri che si possano comprare tutte queste cose in una mattinata?- domandai, scettica.
-È per questo che lo farete insieme!- disse lei, esasperata -Io devo stare qui per progettare le decorazioni e tutto il resto.-
-Riformulo la domanda.- feci -Come credi che noi due possiamo riuscire a combinare qualcosa insieme senza litigare? Sapete tutti benissimo che è praticamente impossibile. Io e tuo figlio- continuai, senza il minimo imbarazzo -Non ci parliamo neanche dopo la litigata di qualche giorno fa...-
-E perché mai avreste litigato, stavolta?- chiese Simon. Pensai veloce ad una scusa per non parlare dello schiaffo e non dire la verità.
-Motivi futili... Noi non siamo amici per la pelle come te e mia madre.- lo liquidai -Ma io- e mi indicai la faccia -non ho intenzione di uscire con lui e la sua amica, che tralaltro non ho mai sopportato.-
-Parla lo spaventapasseri!-
Mi girai scandalizzata verso Max. -Parla quello che sembrava muto- ribattei, acida.
-Uno: anche tu non mi hai parlato- disse, alzando un dito. Poi ne sollevò un altro: -Due: si vede che non ti sei guardata allo specchio prima di venire a bearci della tua presenza. Oltre a essere scorbutica come al solito, hai anche i capelli sparati in aria e la vestaglia che ti fa sembrare più bassa che mai.-
Allora cominciai ad incavolarmi sul serio, e non mi importava se tutti ci stavano guardando. Mi girai completamente con il busto per fronteggiarlo.
-Almeno io non ho bisogno delle dita per tenere il conto- lo provocai -o di puntualizzare su qualsiasi cosa dicano gli altri per sentirmi perfetta. O di uscire con una bionda tinta per sentirmi più importante.-
-Non sono fatti tuoi- disse, gli occhi che dardeggiavano per la rabbia.
-Ah, no, dici? Kara sta con il mio migliore amico, ti rendi conto?-
-Veramente lo ha lasciato ieri… Come, il tuo caro amico non te lo ha detto?- chiese, con finto stupore.
-Me l'avrebbe detto oggi, visto che anche lui viene con me e Chloe- ribattei, con convinzione, cercando di mascherare il pugno allo stomaco che avevo appena avvertito: Lucas non mi aveva ancora detto niente. Avrebbe dovuto, invece, perché ero la sua migliore amica. -E comunque l'ha lasciato per colpa tua!- gli inveii contro -E lo sai benissimo. Hai idea di quanto Lucas abbia faticato anche solo per farsi notare da Kara? E ora hai rovinato tutto... Se proprio devi uscire con quella, trovatevi altro posto dove andare, non voglio rischiare di incontrarvi: per lui sarebbe troppo. E anche Chloe...-
-La vuoi smettere?!- sbottò Max -Smettila di cercare sempre di proteggerlo e difenderlo. Credo che sappia farlo da solo, non c'è bisogno che ti ci metti di mezzo tu, che potresti anche fare casini, conoscendoti.-
-È il mio migliore amico, Max: è normale che voglia aiutarlo- dissi.
-La finite, voi due?- intervenne mio padre, la voce ferma -Samantha, Max, andrete entrambi al centro commerciale, se è lì che volete andare.- Stavo per aprire la bocca e replicare, ma continuò a parlare: -Non dovete andare insieme, potete stare separati, e se vi vedete potete cambiare strada e ignorarvi. Il centro è grande, non dovrebbero esserci problemi. Dividete equamente la lista di Isabelle e comprate quello che c’è scritto. Poi siete liberi, ma rientrate per pranzo.-
Stavo valutando che non era affatto male come idea, poi Magnus se ne uscì con: -Cavolo, ragazzi, sembrate due vecchi sposini quando litigate!- Max si strozzò con il thè che stava bevendo da una tazza, cominciò a sputacchiare e si sbrodolò la maglietta. Sarei scoppiata a ridere, se non fossi stata troppo impegnata a rivolgere allo stregone la mia migliore occhiataccia.
-Per l’Angelo!- s’intromise Alec. -Jace, guarda tua figlia, guarda quell’espressione: è terribilmente identica a te, quando fa così! È esattamente la tua versione femminile, piccoletta e con i capelli lunghi. Fa impressione!- scoppiarono tutti a ridere, tranne me. Mi alzai mi diressi verso la porta. -Buona giornata a tutti, e grazie per non avermi fatto fare colazione… Tanto peggio per voi: divento intrattabile, quando non la faccio.-
-Vuoi dire più intrattabile- mi rimbrottò IPC. Mio fratello si piegò in due dalle risate.
-Chris!- sbottai.
-Che c’è?- chiese lui, cercando di trattenersi -Non puoi dire che Max non abbia ragione!-
-Be’…- feci, squadrando IPC -Almeno io non mi sbrodolo come i bambini piccoli.-
E con questo mi congedai.
****              
-Allora, Sam? Direi che abbiamo finito: tu hai anche completato la lista che ti hanno dato i tuoi. A proposito: non li vedo da tanto, per questo Natale ci saranno?- mi chiese Chloe. La scusa che avevo accampato sin da quando ci conoscevamo per non invitarla mai a casa mia e farle vedere il meno possibile i miei genitori era che loro giravano sempre il mondo per lavoro e anch'io non li vedevo quasi mai.
-Sì, Chloe. Loro... Ci saranno, quest'anno. Faremo una festa con dei parenti e alcuni loro amici, per questo ho dovuto comprare tutte queste cose- risposi, facendo un cenno con la testa in direzione dello stracolmo carrello che stavo spingendo, con Lucas che stava davanti per evitare che andassi a sbattere da qualche parte. Ero talmente impegnata nel raccontarle la mia non-completa-verità che non mi accorsi che si era fermato e lo colpii in pieno.
-Scusa, Luckie!- dissi -Perché ti sei... Oh!- Seguii la direzione dello sguardo del mio amico e vidi Kara avanzare verso di noi, parlando animatamente con quello che ero sicura essere Max, semi-nascosto dall'enorme pila di buste stracolme di abiti sopra quella che doveva essere la sua parte di spesa dentro ad un carrello.
Quando arrivarono di fronte a noi, si bloccarono, IPC con un'espressione che rifletteva esattamente i miei pensieri: “Non dovrebbero esserci problemi”, eh? Be', papino, la prossima rivaluta le probabilità.
-Kara?- fece Lucas, incerto. Povero, povero amico mio!
-Luckie Puckie!- esclamò lei, odiosamente esaltata -Oh, tesoro, perché mi guardi così?- chiese poi, notando l’espressione di Lucas -Non sarà perché... Caro, no! È passata, okay? Siamo amici!-
Lucas la fulminò. -Mi hai mollato solo ieri, cavolo! Con un fottuto messaggio! E già te ne vai in giro con un'altro...-
-Lucas- intervenni, cercando di essere il più delicata possibile -Lucas, andiamo...-
-No!- si girò verso di me, sgomento -Tu non capisci, non...-
-Luckie, ho detto che è meglio andare- guardai Chloe, che si fissava la punta delle scarpe. Mi staccai dal carrello e tirai il mio amico per un braccio, afferrandogli la mano -Andiamo, dai...-
Lanciai uno sguardo verso Max, che teneva gli occhi incollati su di me e sulla mia mano che strattonava quella di Lucas.
-Sì, Kara- disse -andiamo anche noi. Anzi...- a questo punto fissò i suoi occhi nei miei -Domani diamo una festa. Perché non vieni? Ti faccio conoscere i miei e... Aspetta, ti do subito l’indirizzo...- i suoi occhi luccicarono. Ero ansiosa di scoprire quale bugia avrebbe usato, e invece: -Hai presente dov’è la casa di Herondale?- Mi indicò -Sai, i suoi e i miei genitori sono molto amici, e il party è da loro.-
Non era la totale verità, ma bastò a sortire l'effetto da lui sperato: Chloe e Lucas si voltarono verso di me, scandalizzati.
-Tu...- borbottò il mio amico, incerto. Poi alzò la voce. -Sta scherzando, vero?- abbassai lo sguardo sul pavimento e mi sentii avvampare, sia di rabbia che di vergogna: anche io mi sarei sentita tradita, al suo posto.
-Sam, perché non mi hai detto niente? Tu lo conoscevi da un sacco- puntò un dito contro Max -e non mi hai detto niente! Avresti dovuto, invece...-
-Non è così facile come sembra- dissi, alzando gli occhi. -Semplicemente, non potevo dirtelo.-
-Be', però l'ho appena saputo da lui! E non mi pare che abbia avuto problemi a dirmi la verità. Credevo che fossi mia amica, Sam.-
Lucas si allontanò frettolosamente verso l'uscita, lasciandomi ferita e umiliata nel bel mezzo della corsia. Kara, Chloe e Max mi fissavano, quest'ultimo con un'espressione indecifrabile sul viso.
Mi venne voglia di schiaffeggiarlo di nuovo: sapevo che era uno stronzo, ma perché dire quelle cose? Perché cercare di mettermi contro il mio amico? Decisi comunque di ignorarlo, avevo cose più importanti da sbrigare.
-Chloe, per favore, puoi pensare tu a portare fuori il carrello?- chiesi.
-Va bene- rispose lei, con un filo di voce.
Non mi degnai neanche di guardare Max, e schizzai lungo il corridoio per raggiungere Lucas.
Lo trovai fuori, seduto sugli scalini, le spalle curve. Cadeva una neve leggerissima, i fiocchi che s’infrangevano appena toccavano l’asfalto.
-Ehi...- feci, avvicinandomi.
-Va' via, non è aria- disse, la voce dura.
Sospirai e mi sedetti accanto a lui. -Senti, mi dispiace di non aver detto sin da subito la verità. È che mi sentivo un po' in imbarazzo...- sentii una fitta allo stomaco, sapendo di mentire ancora. -Ma tu sei il mio migliore amico, non mi sarei dovuta preoccupare anche di te. Scusa- dissi, la voce leggermente incrinata.
-È passato- rispose, con un'alzata di spalle. -È solo che sono ancora sconvolto per come mi ha piantato Kara, quindi, dopo averla vista con quello, scoprire che mi avevi mentito è stato davvero un brutto colpo.-
-Capisco...- confermai, avvertendo il suono amaro delle sue parole. -Comunque, non lo sopporto minimamente,
e i nostri genitori sono quasi come fratelli, quindi anche io sono abbastanza nei casini.-
Sorrise. -Allora mi dispiace per te.-
Ridacchiai. -Be', quindi mi perdoni? Sono ancora tua amica?-
-Ovvio, Sam. La migliore in assoluto- rispose, una nota di esasperazione nella voce.
Lo abbracciai, grata che tutto si fosse risolto per il meglio. -Ad ogni modo- sussurrai -se domani vuoi venire alla festa e provarci di nuovo con Kara, per me non ci sono problemi.-
-Stai scherzando?- domandò, divertito. -Ho chiuso con le stronze- proclamò solennemente, poi ci mettemmo a ridere.
-Ehm-ehm- un colpetto di tosse alle nostre spalle ci fece scogliere dall'abbraccio. Chloe si sedette di fianco a me, mentre, dietro di lei, Max, accanto a Kara, arrancava giù per lo scivolo spingendo un carrello con le nostre spese messe insieme, lo sguardo puntato dritto davanti a sé e le labbra strette in una linea sottile.
-Si sono molto gentilmente offerti di portarci la spesa- dichiarò la mia amica. -Credo che la Wellson si sia sentita un po' in colpa, dopotutto: ha costretto Lewis a trascinare la spesa di tutti. La portano loro con la macchina di lei a casa tua- mi guardò. -A proposito, questa sì che è una novità. Ma ho deciso che non m'importa, anche perché ho visto che voi due avete fatto pace. Comunque, ho perso ogni interesse per quello: sa essere proprio uno stronzo, non è così perfetto come sembrava. Allora... Sono invitata anch'io alla festa, vero? In tanti anni non ho mai visto casa tua- vomitò tutte queste parole senza bloccarsi, e mi chiesi come fosse possibile.
-È sorprendente questa tua capacità di parlare di mille cose in un minuto, sai?- le dissi. Poi sorrisi. -Certo che sei invitata.-
*****
-Sicura che siano sicuri?- chiesi a Chloe, guardando allo specchio della mia camera gli stivaletti color camoscio -come li aveva definiti la mia amica- su cui stavo cercando di tenermi in equilibrio: avevano il tacco.
-Certo, Sam, stai tranquilla: il tacco è leggerissimo. E poi, sembri più alta…- disse soddisfatta.
Mi voltai e la squadrai, il lungo vestito viola che evidenziava il suo fisico magro e alto, il trucco perfetto, i capelli allisciati, un paio di alti tacchi argentati e delle rune finte disegnate con l’eyeliner sulle braccia (-Ogni anno c’è un nuovo tema, Chloe. Quest’anno ci si disegna le braccia-). Ripensai a quando era entrata nell’Istituto: era tanto stupita che avevo temuto che sarebbe rimasta a vita con la bocca aperta.
-Credevo ci fosse una vecchia chiesa, qui!- aveva esclamato.
-Restauri miracolosi- avevo mentito brevemente.
-Cinque centimetri in più per una sera non mi cambieranno la vita, cara mia- le feci osservare.
-Sta’ zitta- mi liquidò. -Devi solo concentrarti per non cadere a terra. E poi, stai benissimo!-
Mi diedi un’altra occhiata: Chloe, elettrizzata, si era presentata con largo anticipo, e il risultato era che indossavo un vestito di stoffa leggera giallina con un cinturino marrone appena sopra la vita che lo faceva ricadere a casacca sui miei fianchi, i capelli mi ricadevano in boccoli ordinati sulle spalle, le rune mi avvolgevano le braccia e avevo sul viso un trucco leggero (-Il mascara è vitale, Sam: hai le ciglia lunghe ma chiare, e questo è male…). Per la prima volta, mi sentivo più femminile, anche se non ero molto a mio agio.
Qualcuno bussò alla porta. -Sam!- Lucas.
Io e Chloe uscimmo, e trovammo il nostro amico ad aspettarci, addosso una camicia bianca, jeans eleganti e un paio di scarpe nere.
-Ragazze...- disse, con un goffo inchino e un tono cortese. Sollevò gli occhi e ci osservò, poi il suo sguardo indugiò su Chloe. -Stai benissimo- sussurrò, squadrandola da capo a piedi. Poi sembrò rendersi conto di quello che aveva detto e si voltò arrossendo verso di me, così come Chloe.
-Già, state benissimo. Credo che questa sia la prima volta che ti vedo con un vestito, Sam. Comunque, è proprio figa questa tradizione di dipingersi la pelle che stanno usando come tema della festa. Guarda qui...- si sollevò la manica della camicia e mostrò una runa tutta storta disegnata con la matita per occhi. -Grazie per avermi avvisato a riguardo, comunque: mi sarei sentito a disagio ad essere l'unico senza questi disegni, per quanto siano strani. Ho dovuto rubare i trucchi di mia madre, per farli- disse, con una punta di divertimento nella voce. -Certo, i tuoi sono molto meglio...- aggiunse, osservando i marchi sulle mie braccia. -Allora, vogliamo andare?- si mise tra me e Chloe, si girò in modo da starci affianco e ci porse un braccio per una. Feci passare il mio braccio sinistro intorno al destro di Lucas, e Chloe fece lo stesso dalla parte opposta. Ci avviamo, io cercando di concentrarmi per non cadere dai tacchi. Dopo un po', riuscii a prendere il ritmo e mi sentii più sicura. Condussi i miei amici verso la sala da ballo, e ci bloccammo davanti alla grande porta di legno.
-Ancora non riesco a credere che tu vivi qui- mi disse Chloe, scuotendo la testa.
-Già, neanch'io- confermò
Lucas -Ora capisco perché non ci avevi mai invitati a casa tua- aggiunse, sorridendomi.
No, Luckie, non puoi capire, avrei voluto dirgli, ma mi trattenni. Mi sentivo comunque molto più leggera, dovendo nascondere ai miei amici una porzione decisamente minore della mia vita: ora erano a casa mia e, anche se non sapevano la verità, potevo stare in loro presenza con i marchi scoperti. -Be', sì, adesso stai zitto che devo impegnarmi per non cadere appena entro- ribattei, preoccupata.
-I tuoi modi gentili mi fanno sempre commuovere- scherzò. Spinsi la porta col braccio libero, e, mentre entravamo, ci mettemmo tutti e tre a ridere per la battuta di Lucas. Fummo investiti dalla luce dei lampadari che pendevano dal soffitto. La sala era adornata di stelle di Natale raccolte in grossi bouquet, alcuni dei quali erano anche appesi alle pareti. Lungo il perimetro della stanza erano disposti dei lunghi tavoli coperti da tovaglie rosse e, sopra, un numero spropositato di vassoi colmi di cibo, e bottiglie di spumante con le bollicine che si vedevano anche da lontano. Per la sala ballavano molte coppie, o dei capannelli di persone parlavano e scherzavano, tutti vestiti elegantemente, con le rune nere che spiccavano sulle braccia delle signore e sul collo degli uomini. Sentii i miei amici trattenere il fiato.
I miei genitori, mia madre con un lungo vestito verde e mio padre con uno smoking, si avvicinarono a noi.
-Questi devono essere i tuoi amici.- mi disse la mamma, sorridendo -Era un sacco che non vi vedevo, ragazzi- aggiunse, rivolgendosi a loro -Cavolo, come siete cresciuti!- il suo sorriso si allargò. Poi guardò mio padre.
-Buonasera- disse lui, pacatamente. -Concordo in pieno con mia moglie- sorrise impercettibilmente -Ora vi lasciamo a divertirvi.-
-Grazie per averci permesso di venire alla vostra festa- intervenne Chloe, timidamente.
-Già, grazie- rincarò Lucas, esibendo un sorriso smagliante.
Mia madre sorrise di rimando, di nuovo. -Figuratevi, cari, per noi è un piacere!-
Dopo che furono scambiati un po'di convenevoli, finalmente mamma e papà si allontanarono e noi proseguimmo. Non passarono pochi secondi che un ragazzo dell'altezza di Chloe, con le spalle larghe, gli occhi azzurri e i capelli rossi si avvicinò alla mia amica.
-Il mio nome è Ryan.- disse, cortese -Ti va di ballare? - le chiese poi, senza neanche una punta d'imbarazzo. Siccome lui era carino e Chloe non era stupida, lei accettò, e lui la trascinò via.
Lucas aveva osservato attentamente tutta la scena, con un'espressione indecifrabile, e adesso teneva gli occhi fissi sul punto in cui, sino a qualche secondo prima, c'era stata la mano di Chloe.
-Allora mi inviti a ballare, visto che nessuno di noi due ha il compagno?- domandai.
Lucas annuii e si girò verso di me. -Però ti avverto- feci, con aria saputa -io sono una scimmia per quanto riguarda la danza, e i tacchi non aiutano.-
Il mio amico rise leggermente e mi prese una mano. Portò l'altra sul mio fianco e cominciammo a dondolare. -Anche tu fai abbastanza schifo a ballare, però- constatai divertita.
Mi resi conto che non mi aveva sentita quando vidi il suo sguardo puntato verso la parte opposta della sala, dove c’era Chloe che ondeggiava con Ryan.
-Lucas- lo chiamai. Lui si riscosse e mi fissò, in faccia l'espressione tipica di chi si è appena svegliato. -Scommetto che balleresti meglio con Chloe- lo schernii, sghignazzando.
Lui aggrottò le sopracciglia. -Si vede tanto?- chiese, esasperato.
Annuii. -Perlomeno, l'ho notato io che vi conosco come le mie tasche...-
-È che è tutto così strano, Sam. Stiamo parlando di Chloe, la nostra amica. Come è possibile che adesso mi piaccia? E con Kara ho rotto solo due giorni fa.-
-Non so, Luckie. Credo che succeda... E basta. Non puoi decidere tu- risposi.
-Come sei saggia, amica mia!- disse, divertito.
Risi. -E comunque, tra non molto mio zio salirà su una sedia e dirà a tutti di cambiare partner. Se ci sbrighiamo, puoi ballare con lei. Io ho bisogno di una pausa.- In realtà era tipico dei balli Shadowhunter, scambiare compagno ad un certo punto della danza. Non avevo mai ballato prima d'allora, non veramente. Di solito finiva che mi mettevo in un angolo a guardare gli altri volteggiare o me ne andavo a zonzo per l'Istituto.
Lucas annuii, sorridendo. -Non le dirai niente, vero? Voglio prima capire cosa prova lei- mi disse.
-Sta' tranquillo- lo rassicurai.
Dopo un po', come avevo previsto, Alec si issò su una sedia, uno smoking blu indosso, e attirò l'attenzione battendo le mani. La musica si fermò. -Come da tradizione del ballo- disse, ad alta voce, a questo punto si cambia il partner. Quindi cercate un nuovo compagno o una nuova compagna!- Poi fece un cenno e la musica ripartì. Io e Lucas ci precipitammo in direzione di Chloe. Senza troppi complimenti, il mio amico attirò Chloe verso di sé e la trascinò via. Lei non disse niente e, prima di sparire tra la folla, Lucas girò la testa verso di me, come a chiedermi aiuto. Gli feci un sorriso d'incoraggiamento e gli mostrai il pollice in su.
Contenta di potermi finalmente andare a sedere o di uscire dalla sala per farmi i cavoli miei e lasciarmi alle spalle tutta quella gente, mi voltai e andai in direzione della porta. Ero talmente rilassata all'idea di andare a cambiarmi, togliere i tacchi e magari allenarmi con la spada in palestra che mi scordai di concentrarmi per stare in equilibrio. Presi una storta alla caviglia sinistra e inciampai goffamente nei miei stessi piedi. Mi si sarebbe spiaccicata la faccia sul pavimento, se un paio di mani grandi non mi avessero afferrato i fianchi da dietro. Mentre il mio "salvatore" mi sollevava e mi faceva girare, mi sentii stordita. Avvertii la testa che cominciava a girarmi e un brivido percorrermi la schiena quando sollevai la testa e gli occhi di Max si piantarono nei miei. Sotto la luce dei lampadari le sue iridi sembravano di vetro ambrato, e percepii la gola che mi si asciugava.
-Io...- provai a dire. Le mani di Max si serrarono ancora più forte sui miei fianchi, tanto che potei avvertirne il calore attraverso la stoffa del vestito, e i suoi occhi sembrarono ancora più penetranti. Indossava uno smoking nero, con la cravatta rossa.
-Posso chiederti di ballare o mi griderai in faccia mille insulti?- mi chiese, una leggera nota di fastidio nella voce.
Ingoiai a vuoto prima di rispondere, ben consapevole delle sue mani sul mio vestito. Mi diedi della stupida e cercai di darmi un contegno, anche se sentii le guance che mi si riscaldavano leggermente. Incrociai le braccia sul petto e puntai gli occhi sul nodo della cravatta di IPC. -Certo, se me lo chiedi con così tanta galanteria…- risposi, sarcastica.
-Allora va bene- disse, e mi trascinò verso il centro della sala, nel cuore della folla. Quando ci arrivammo, per poco non inciampai di nuovo, ma Max mi sostenne. Poi portò le mani dietro la mia schiena e io gli allacciai le mie sulla nuca. Fece un passo avanti e cominciammo a ballare, o almeno a dondolare avanti e indietro sul ritmo del lento. Avvertii un nodo allo stomaco. Ribrezzo, pensai. O forse la situazione era semplicemente troppo strana.
-Guarda che il mio commento era ironico- lo ripresi -Non ti avevo autorizzato a portarmi qui con la forza.-
-Invece dovresti ringraziarmi- piegò il collo per guardarmi meglio -se non fosse stato per me, saresti già caduta. Non che mi sarebbe dispiaciuto, ovvio- aggiunse con un'alzata di spalle, facendomi ribollire il sangue. -O sei ubriaca o non riesci a camminare con i tacchi. Propenderei per la seconda, dato che sei alta cinque centimetri in più del solito, anche se resti lo stesso al di sotto del metro e cinquantasei. Praticamente mi stai usando come bastone per non finire a terra.- Ghignò leggermente.
Tolsi le mani dalla sua nuca e le posai sulle sue braccia, allontanandomi leggermente. -Mi hai invitata a ballare solo per prendermi in giro?- sbottai -Non sei capace di non darmi addosso solo per qualche ora?-
-Ti ho invitata perché sei stata l'unica che ho trovato- rispose, con tono piatto -anche i tuoi amici si sono messi a ballare insieme, e tu sei rimasta senza quello. Così come io sono rimasto senza Kara.-
-È diverso- ribattei -Lucas è il mio migliore amico, e l'ho aiutato io a ballare con Chloe perché... Be', sono fatti suoi. Kara, invece, è la tua ragazza.-
L'espressione che Max assunse era uguale a quella che gli si era dipinta in volto dopo che l'avevo schiaffeggiato: genuino stupore.
-Cosa credi?- domandai, nella voce un sorriso amaro -Voi uscite insieme, e vi baciate, e vi piacete: lei è la tua ragazza.-
Max non rispose, solo la sua faccia a poco a poco divenne indecifrabile, gli occhi fissi lontano, forse a cercare lei, a pensare ad un modo per chiederle di ballare di nuovo.
-Già...- feci -Io... Io vado.- Staccai le mani da lui, che allentò la presa sui miei fianchi.
Mi liberai dalle sue braccia e cominciai ad allontanarmi. Non feci che pochi passi quando Max mi afferrò il polso e mi attirò di nuovo a sé. Sbattei contro il suo corpo e sentii un altro odioso brivido. Per l'Angelo, pensai, i tacchi fanno male anche alla salute mentale. Già, è tutta colpa loro.
IPC si piegò in avanti, all'altezza del mio orecchio. -Resta solo fino alla fine di questo ballo: me l'hai concesso. Poi potrai andare via. Tanto che differenza fa, per te?- sussurrò, la voce stranamente incrinata.
Una stupida vocina in un angolo recondito del mio cervello mi suggerì che, in realtà, c'era una grande differenza. Ma la ignorai e annuii piano. Max riportò le mani sulla mia schiena e mi avvicinò più di come aveva fatto poco prima. Sapevo che non avrei dovuto. Sapevo che era maledettamente sbagliato, che io lo odiavo e lui stava con Kara. Ma gli allacciai le braccia dietro la schiena, stavolta, e ricambiai la stretta.
Sapevo che era sbagliato. Ma poggiai la testa sul petto solido di Max, e sentii il suo cuore battere distintamente.




COMMENTO SCRITTRICI:
Prima di ogni cosa, ci scusiamo per aver tardato nell'aggiornamento, ma la scuola è ricominciata e noi siamo al primo anno di liceo scientifico e in questo periodo i prof devono definire i voti del primo quadrimestre e... 
Vabbè, scusateci per avervi stancato con le nostre elucubrazioni mentali, ma abbiamo fatto i salti mortali per riuscire a pubblicare questo capitolo, che speriamo vi sia piaciuto (ad ogni modo, fateci sapere tramite recensioni ;) ).
Per non farvi scervellare abbiamo stabilito così: ogni settimana (quindi aggiorneremo mercoledì prossimo) pubblicheremo un capitolo più lungo del prologo e dei primi 4, più o meno come questo, se non più lungo.
Detto questo, vi ringraziamo infinitamente per i preferiti, le recensioni, i ricordati e i seguiti... 
Alla prossima! :D

  

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 ***


Lanciò un occhiata nel corridoio, poi chiuse la porta alle sue spalle. Prese la chiave della stanza dal cassetto e, con fare cospiratore, la infilò nella toppa, per poi girarla, chiudendosi dentro. Ghignò, soddisfatta. Ora nessuno l’avrebbe disturbata. Si guardò intorno, assaporando il momento. L’eccitazione mista ad aspettativa crebbe in lei. Stava per dirigersi verso il suo portagioie, quando il suo cellulare suonò, diffondendo nella stanza l’hit del momento. Guardò rapida lo schermo luminoso, per poi spegnere il telefono. Prese tra le mani una scatola rosa, piena di brillantini e tempestata di gemme. L’aprì e con fare sicuro estrasse una specie di bacchetta trasparente. Era lunga una ventina di centimetri, con varie decorazioni raffiguranti uomini alati e strani simboli, ma nel complesso era stupenda. Sembrava brillare di luce propria. La rigirò fra le dita, curiosa. Non capiva da dove potesse uscire il liquido nero. Eppure non aveva alcun dubbio: a lui era bastato tracciare linee confuse sul braccio, e quella specie di bacchetta aveva rilasciato il suo fluido, così  simile all’eyeliner. Si mise davanti allo specchio e si rimirò. Era sicura di sé mentre si lisciava i capelli con una mano, incurante di tutto. Rafforzò la presa sulla bacchetta e, con fare incerto, la poggiò sul suo braccio pallido.
*****
Spalancai gli occhi. Guardai impotente il soffitto, mentre un attacco di nausea mi investiva. Scalciai via le coperte, e corsi verso il bagno. Inciampai nei miei stessi passi, e arrancando riuscii ad aprire la porta. Mi aggrappai con le mani alla tavoletta, mentre cominciavo a vomitare. I conati erano violenti e continui, e le nocche mi diventarono bianche per lo sforzo. La nausea non accennava a diminuire, ma oramai la cena era andata. Rimasi piegata in due, con una mano sullo stomaco, mentre i brividi mi assalivano.
Stremata, mi appoggiai alla parete del bagno, mentre l’odore rancido del vomito si diffondeva nella stanza. Respira, Sam, respira. Cominciai ad inalare grandi quantità d’aria, cercando di mantenere la calma. Ma non smisi di tremare. Posai le mani in grembo, affranta. Non potevo più rimandare. Dovevo parlarne con qualcuno. Assolutamente. Non ce la facevo più. Tremai violentemente al ricordo dell’incubo appena fatto. Quelle due ombre indistinte, che scattavano l’una verso l’altra, combattendo. Io, imprigionata in una trappola ghiacciata. E lui, sempre lui, che da ormai più di tre settimane infestava le mie notti. Quell’uomo dalle grandi ali dorate, con quei riccioli biondi, con quella voce così misteriosa e speciale. Lo stesso che nel mio sogno guardava preoccupato le due ombre combattere, per poi puntare i suoi occhi infuocati su di me. Un brivido più lungo degli altri mi attraversò, mentre l’ammonimento dell’angelo mi risuonava nella mente. Stai in guardia. Stai in guardia. Stai in guardia.
Portai le ginocchia al petto, prendendomi la testa tra le mani. Cominciai a dondolare, seguendo il ritmo delle parole dell’uomo alato. Dopo un tempo che mi parve infinito, alzai lo sguardo ed osservai stralunata il riflesso che lo specchio malandato mi restituiva. Ero completamente sconvolta, con i capelli appiccicati alla fronte e le rune nere che spiccavano sulla mia pelle diafana. Facendo leva sulle mani, mi alzai e barcollai fino alla mia stanza. Era completamente buia. Solo la pallida luce lunare illuminava le pareti. A tentoni, riuscii a trovare il letto. Mi stesi e mi coprii per nascondere il mio corpo tremante. Guardai la luna calante dalla finestra e mi addormentai, ma gli occhi infuocati dell’angelo mi perseguitarono per tutta la notte.
*****
Annoiata, scarabocchiai una runa sul libro di storia, cercando di distrarmi. Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra, osservando indifferente i fiocchi di neve che si rincorrevano in una strana danza, trasportati dal vento. Quanto avrei voluto essere fuori di lì! Eppure la scuola era ricominciata solo da una settimana. Un anno mi parve un tempo infinitamente breve messo a confronto con una lezione della Martin. Le palpebre mi si stavano chiudendo. Era ormai da una settimana che non riuscivo a dormire. Facevo sempre lo stesso sogno. Lo stesso angelo, le stesse ombre, le stesse parole. Sospirai, affranta. Stavo cominciando a fantasticare su quanto sarebbe stato bello avere un cuscino morbido, quando la campanella del pranzo suonò, risvegliandomi dai  miei sogni.
Con passo svogliato, mi diressi verso la mensa, attorniata da Chloe e Lucas. Ci mettemmo in fila, aspettando di ricevere il nostro pranzo.  Guardai tutti i ragazzi che stavano prima di me ed impallidii. Ci sarebbe voluta un eternità. Sbuffai rumorosamente; Lucas si voltò verso di me e ridacchiò. All’improvviso, i ragazzi dietro di me si scostarono, per fare spazio a qualcuno. Mi voltai. Ed eccolo lì, IPC. Mani in tasca, capelli spettinati, sguardo strafottente, ghigno made-in-Lewis. Sì, bravi spostatevi. E’ arrivato Mosè a dividere le acque. Si fermò vicino a me, fissandomi divertito.
Lucas si voltò, chiedendomi con lo sguardo se dovesse intervenire. Feci di no con la testa. I nostri movimenti non erano sfuggiti a IPC, che fulminò il mio amico, prima di rivolgere il suo sguardo indecifrabile su di me. -E così, Herondale, non riesci a dormire. Mi chiedo cosa tu faccia durante la notte… -
-Non iniziare Lewis. Non ho voglia di ascoltare le tue ridicole battutine di seconda generazione. Quindi, risparmiamele.-
La fila della mensa avanzò. Feci un passo, e lui mi seguì. Guardai fissa davanti a me, ma non mi sfuggì il ghigno che gli comparve sul viso. Sbuffai, e lo fulminai con lo sguardo, mentre lui scoppiava in una fragorosa risata. Molti ragazzi si voltarono dalla nostra parte, fissandoci curiosi. Li ignorai e continuai ad avanzare.
Mi girai e lo guardai attentamente. Mi sembrava diverso: aveva i capelli più scombinati del solito (avrà finito il gel, mi dissi) e delle occhiaie violacee sotto gli occhi. Rettifico: non somigliava a Mosè: Mosè era sicuramente più pettinato e usava il correttore, o la cacca di colomba. I suoi occhi saettarono verso di me, cogliendomi in fallo. Inoltre, Mosè di certo non aveva riflessi tanto buoni.  -Sai, Sam, dovrei farti pagare per ogni volta che mi guardi di soppiatto. A quest’ora sarei ricco.-
Lo guardai allibita, sperando che non notasse il rossore che si stava diffondendo sulle mie guance. La fila avanzò, ed io con lei. Sentii un rumore di passi. Stavo per girarmi ed urlare a IPC di lasciarmi in pace, quando una mano mi strinse il fianco, possessiva. Un calore si irradiò dalle sue dita, per diffondersi in ognuna delle cellule del mio corpo. Non avevo bisogno di girarmi per sapere che era lui. Le sue labbra si accostarono al mio orecchio e mi sussurrarono: -Oggi caccia, Herondale. Vedi di esserci.-
Come in un sogno, annuii piano, incapace di pensare o di reagire. Ero distintamente consapevole che stavamo bloccando la fila e che tutta la mensa ci stava guardando. Ma il calore che sentivo era incredibilmente piacevole. Se da una parte volevo vederlo sparire, dall’altra lo volevo più vicino a me. All’improvviso, come era arrivato, se ne andò, lasciandomi sola. Dovetti mordermi le labbra a sangue per non emettere un gemito di protesta, mentre quella strana tensione fra noi spariva.
Aprii gli occhi. Non mi ero accorta di averli chiusi. Imbambolata, seguii la fila mentre Chloe, Lucas ed altri duecento ragazzi guardavano prima me e poi IPC, non riuscendo a capire cosa fosse appena successo.
Be’, pensai, se vi può consolare, neanche io ci ho capito nulla.
*****
Inspirai a pieni polmoni l’odore della notte, mentre il buio mi avvolgeva. Mi guardai intorno, eccitata. Era incredibile come le cose cambiavano, di notte: le tinte delle case perdevano i loro colori vivaci, per diventare una massa scura ed indefinita. Le foglie passavano dal verde al grigio perlaceo. Tutto mutava sotto la luce della luna: perfino il cielo sembrava abbassarsi, come per proteggere il mondo dai pericoli del buio.
I rumori risultavano ora appiattiti, ora acuti e nitidi. Il tutto accompagnato dalla serena armonia della notte. Mi girai, e raggiunsi con un paio di falcate Chris e Max. Mio fratello aveva in mano il suo sensore, che vibrava violentemente. IPC si girò e accarezzò con lo sguardo lo stretto vicolo buio.
Alzai gli occhi al cielo: la cosa noiosa della caccia era riuscire a scovare i demoni. Di solito erano loro a trovare noi, e ci risparmiavano un sacco di fatica. Può sembrare strano, ma localizzare un ammasso di bava e zanne è piuttosto complicato.
All’improvviso, Max scattò in avanti e, silenzioso come un gatto, scavalcò un muretto, invitandoci a seguirlo. Ci ritrovammo in un vicolo chiuso, che puzzava di alcool e pipì di gatto. Arricciai il naso e cominciai ad ispezionare con lo sguardo la strada: apparentemente nulla d’insolito.
Guardai mio fratello con aria interrogativa, ma lui fece di no con la testa. Stavo per chiedere a IPC dove cavolo ci avesse portati, quando una massa informe calò veloce su di noi. Feci appena in tempo a rotolare via, quando sentii uno schianto terribile, seguito da un urlo acuto. Mi rimisi in piedi e vidi Chris sguainare una spada angelica. Sussurrò Marut e quella brillò.
Intanto IPC teneva il demone occupato . Con destrezza aveva estratto un pugnale e stava letteralmente giocando con un Kuri. Lo osservai schifata: non lo avrei mai ammesso, ma avevo il terrore dei ragni. E invece eccomi lì, con un ragno gigante munito di tenaglie avvelenate e zanne affilate a pochi passi da me.
Estrassi una spada e cominciai a rotearla nella mano. Non intervenni: IPC se la stava cavando benissimo da solo. Distolsi lo sguardo mentre Max decapitava il Kuri. Il suono della spada che si infrangeva nelle membra gelatinose del demone mi provocò brividi di ribrezzo lungo il corpo.
IPC pulì la spada, sporca di liquido giallastro, e si girò verso me e Chris. -I Kuri cacciano in branco.- spiegò brevemente -Andiamocene di qui.-
Cominciammo a correre, stando attenti ad eventuali rumori. Ispezionai con lo sguardo il vicolo, temendo qualunque movimento sospetto. Stavo per svoltare l’angolo, quando un urlo mi fece voltare. Vidi Chris, piegato in due dal dolore, che si reggeva a Max, che lo guardava preoccupato. Chris strillò più forte, e si accasciò. Feci un passo verso di lui. Appena poggiai il piede sull’asfalto, una fitta lancinante mi attraversò e mi spezzò il respiro. Ogni singola cellula del mio corpo fu investita da un fuoco bollente e devastante. Ogni parte del mio essere urlò, in preda ad un dolore mai provato prima. Mi piegai in due, ma le fitte triplicarono, togliendomi il respiro. Un’esplosione mortale mi si stava diffondendo sotto pelle, distruggendomi. Piccole frecce infuocate mi trafissero. Caddi a terra, senza smettere di urlare. Le corde vocali mi dolevano. Il mio corpo era in fiamme. Non riuscivo a respirare. Cercai di inspirare, ma i polmoni non rispondevano. Strinsi le mani a pugno, mentre le mie urla si trasformavano in rantoli, sempre più deboli. Il mio petto si muoveva sempre meno, mentre la mia gola bruciava. Mi voltai.
Max stava curando Chris, che si muoveva appena. Dei rumori spaventosi lacerarono la notte. IPC si voltò. L’ultima cosa che vidi fu il suo sguardo disperato che mi trafiggeva, mentre urlava il mio nome. Poi fu il buio.
*****
Fuoco. Fuoco che brucia, che logora, che distrugge. Rode il mio cuore, il mio corpo  e non lascia nulla. Socchiusi le palpebre, ed una fitta tremenda mi investì. Gemetti piano. I miei occhi vagarono sulle pareti bianche della stanza, sulle lenzuola immacolate e sui medicinali riposti in una mensola. Tutto mi appariva sfocato, irreale. Inizialmente non capii niente: sembrava l’infermeria dell’Istituto, ma io ero andata a caccia, ed ero sicura di non essere stata ferita. Cosa stava succedendo? Cercai di mettermi a sedere, ma il dolore atroce che provai mi fece desistere. Girai lo sguardo e vidi Chris nel lettino adiacente al mio. Era messo male: aveva bruciature su tutto il corpo, ed una benda intorno alla testa. Eppure dormiva sereno.
Accanto a lui, notai un ombra indistinta. Cercai di mettere a fuoco la figura, ma non ci riuscii. Sbattei le palpebre un paio di volte, e riprovai. Cominciò a divenire più definita. Spalle larghe e fisico scolpito. L’ombra imbevve una fascia in una bacinella, per poi posarla sul petto di mio fratello. Successivamente si alzò, e con grazia prese un balsamo dalla mensola. Aprì il barattolo con circospezione e cominciò a spalmare la crema sulle bruciature di Chris. Usava una delicatezza immensa, come se temesse di fargli male. Improvvisamente si girò. Chiusi immediatamente gli occhi, fingendomi addormentata. La figura mi si avvicinò. Mi mossi appena, per far ricadere una ciocca di capelli davanti agli occhi. Mi morsi un labbro, per evitare di gemere: il dolore, grazie alla mia mossa non tanto astuta, era aumentato. Schiusi le palpebre, e lo vidi: era stanco, con i capelli sparati in tutte le direzioni. Aveva occhiaie violacee intorno agli occhi. La canottiera nera che indossava metteva in risalto le sue braccia muscolose. Non potei fare a meno di notare che aveva la pelle scorticata e bruciata. Le vene erano messe in risalto dal rosso vivo dell’epidermide.
Attraverso i miei capelli biondi, vidi Max avvicinarsi a me. Prese il balsamo che aveva messo a Chris, e mi scostò i capelli dal viso. Non riuscii a resistere. Aprii gli occhi e lo fissai. Tutto mi apparve sfocato, ma i suoi occhi non mi erano mai sembrati così vivi. Prese la crema con due dita, e sempre guardandomi negli occhi, mi abbassò la manica della canottiera, lasciando la mia spalla nuda. Ero bollente, e avevo più vampate di calore di una donna in menopausa, eppure tutto il mio corpo tremò.
Max poggiò le sue dite sulla mia spalla, e con una delicatezza infinita cominciò a spalmare il balsamo, che mi donò un sollievo immediato. Chiusi gli occhi, e quando gli riaprii tutto mi apparve più definito. Lo fissai. Lui ricambiò il mio sguardo. Ora, avrei dovuto ringraziarlo per quello che aveva fatto per me, ma le parole non mi uscirono. Mi limitai ad osservare i suoi occhi verdi, mentre lui mi guardava con un’espressione indecifrabile sul viso. Poi, con fare sicuro, la sua mano si avvicinò al mio viso. Ogni mio nervo vibrò, quando lui mi accarezzò il volto, con una dolcezza che non avrei mai creduto potesse avere. Il calore delle sue dita, la sua delicatezza, la sua vicinanza, erano meglio di qualunque balsamo guaritore. Non riuscii a trattenermi. Sospirai di piacere, ma fu un suono talmente impercettibile che Max non sembrò notarlo. Con voce profonda , mi sussurrò: -Riposa, Herondale.-
Quando le sue dita si allontanarono dal mio viso, il senso di vuoto che provai fu immenso. L’ultima cosa che vidi prima di addormentarmi fu la schiena di Max che usciva dall’infermeria.
*****
Sbuffai. Ero seduta nella Biblioteca. Intorno a me c’era tutta la mia famiglia. E tutti erano preoccupati, mentre posavano lo sguardo su me e Chris. Stranamente, mia madre prese la parola. -Max, caro, vorresti raccontarci cosa è accaduto? Non tralasciare nessun dettaglio.-
IPC si schiarì la voce e iniziò a parlare con voce indifferente ma sicura. Sentir narrare l’accaduto risvegliò in me tutte le emozioni provate. Dall’eccitazione violenta della caccia per arrivare al dolore atroce e devastante di quei momenti. Cercai di trattenere un gemito. Posai lo sguardo su Chris: lui, oltre qualche bruciatura lungo il petto e la benda attorno alla testa, non aveva recato danni gravi -senza dubbio, in infermeria mi era sembrato che stesse molto peggio-. Io, invece, avevo il busto fasciato da lunghe bende magiche, che di miracoloso non avevano nulla.
-Max, so di farti rivivere dei brutti momenti, ma devo chiedertelo: come hai fatto a salvare Sam e Chris?- mi voltai, improvvisamente interessata. Io mi ero risvegliata nell’infermeria, dopo essere svenuta nella stradina. Non ricordavo altro. Ero davvero curiosa di sapere come IPC aveva fatto a riportarci all’Istituto. Lo vidi impallidire, mentre si torturava con i denti il labbro carnoso.
Poi, con fare sbrigativo, rispose: -Ho immediatamente soccorso Chris, che era accasciato accanto a me. Le normali rune di guarigione non hanno sortito effetto, e ho dovuto ricorrere a rune più complesse, che hanno esaurito le mie forze. Poi Chris è svenuto, ma Samantha continuava ad urlare. Ho cercato di guarirla, ma non ne avevo le forze. Lei è svenuta, ed io ero nel panico. Per qualche decina di secondi non ha più respirato, e ho temuto che fosse morta. L’ho presa in braccio, e stavo per raccogliere Chris, quando cinque Kuri hanno invaso la stradina, bloccandone le uscite. Ho avuto appena il tempo di portare al sicuro Samantha che i demoni mi hanno attaccato.-  A questo punto fece una lunga pausa, e tutti noi pendemmo dalle sue labbra. -I Kuri sono demoni pericolosi e spietati e cacciano in branco. Noi tre avremmo potuto ucciderli senza alcuno sforzo, ma io e Chris… be’, eravamo in pausa. Eravamo in trappola. Ci hanno accerchiato. Avevo solo un coltello. Sono riuscito ad ucciderne tre, ma uno mi ha immobilizzato, e l’altro mi ha ferito con le zanne.-
Il silenzio scese nella Biblioteca. Mamma e papà guardavano sbalorditi IPC, come se lo vedessero per la prima volta. Alec rimase a bocca aperta, mentre zia Isabelle e zio Simon guardavano loro figlio con un grande orgoglio negli occhi, che mi mise i brividi. Non riuscii a nascondere l’ammirazione che provai per Max in quel momento. Poteva anche essere uno stronzo, ma era un ottimo guerriero.
-E come hai fatto ad uscirne vivo? Certo che in tanti secoli di vita, ne ho visti davvero pochi con la tua fortuna, micino…- disse zio Magnus, con uno sguardo divertito.
Max ghignò e rispose con arroganza: -Be’, Magnus, di sicuro non hai mai visto qualcuno bello come me…- Rise. Ritiro tutto: era solo uno stronzo con una fortuna grande come il culo della sua ragazza.
-Oh, ci puoi scommettere, micino!- replicò zio Magnus, sbattendo le ciglia finte e scrutando IPC con sguardo predatore.
-Magnus, ma che cosa ti salta in mente?!- urlò scandalizzato zio Alec, mentre tutti scoppiavano a ridere.
Io, invece, guardai preoccupata zio Magnus e IPC che si lanciavano sguardi infuocati. Forse stavano solo cercando di alleggerire la tensione, ma mi chiesi comunque se fosse possibile che tanti membri della nostra male assortita famiglia avessero tendenze omosessuali.
Zio Alec cercò di riprendere il controllo della situazione, chiedendo a Max di proseguire. Mio padre ghignò e lo fissò divertito: -Che c’è, Alec, cambi discorso? Devi ammettere che Max è molto più attraente di te, fratello.-  Zia Isabelle batté le mani tutta contenta, sfidando il fratello a controbattere.
Mio padre incitò IPC a continuare, ma zio Magnus scosse la testa ed agitò le mani, con fare irritato. -Oh, Jace, Jace, che devi sapere ancora? Oramai la situazione è chiara. I tuoi figli hanno sangue angelico tre volte più del normale nelle vene. Era inevitabile che sarebbe successo qualcosa. Io ti avevo avvertito.-
Non capii a cosa stesse alludendo zio Magnus, ma mio padre si alzò di scatto dalla sedia. Era furioso. Attraversò a grandi falcate la stanza e sbatté Magnus al muro, ferocemente. Digrignò i denti e gli puntò un gomito sotto alla gola. -Tu, stregone del cazzo, tu mi avevi detto che questo non sarebbe accaduto. Mi avevi promesso che non ci sarebbero state complicazioni!-
Alec scattò in piedi, afferrò mio padre per la spalle e lo fece voltare, per poi farlo allontanare tirandolo per i polsi. -Jace, piantala-
Si fronteggiarono per qualche istante, entrambi infuriati. Poi papà si liberò dalla sua stretta e poggiò le mani sul tavolo. Riuscii a vedere le vene delle braccia che gli pulsavano.
-Papà, di che state parlando?- Chris si era fatto avanti, e con fare timido guardava gli adulti presenti nella sala, tutti improvvisamente zitti e con gli occhi bassi. Max diede man forte a mio fratello, incitando mio padre a parlare. Ero terribilmente confusa. Non ci stavo capendo più niente. Guardai i miei genitori. Mia madre aveva abbracciato mio padre da dietro e singhiozzava. Mi alzai.
Ignorando le fitte dolorose, mi diressi verso di loro. Tutti avevano gli occhi puntati su di me. Fissai mio padre. Per un po’ sostenne il mio sguardo, erigendo una barriera tra noi. Ma poi essa crollò. Ed eccoci. I nostri occhi si incontrarono.  Oro nell’oro. Padre e figlia. E quello che lessi nel suo sguardo mi provocò un dolore più pungente ed intenso di quello provato qualche giorno prima. Mi spezzò. Mi ruppe in mille pezzi. Mi sentii terribilmente a disagio: perché quello sguardo? Mi aveva guardata come se fossi un enorme problema. Un errore. Osservai mia madre. Stava piangendo, e i suoi occhi verdi urlavano ciò che provava: ero un errore. Ero la loro bambina ed ero un errore. Mamma cercò di prendermi una mano, ma io la scacciai.
Le lacrime sgorgarono dai miei occhi, bagnandomi le guance. Strinsi i pugni. Avrei voluto gridare che mi avevano ferita, che erano degli stronzi senza cuore. Invece corsi via, per quanto il mio corpo pieno di acciacchi me lo permettesse. Mi fermai in mezzo al corridoio e mi appoggiai al muro, disperata. Piansi e singhiozzai come mai avevo fatto. Mi presi la testa tra le mani e crollai in ginocchio.
All’improvviso, una mano calda mi accarezzò i capelli, mentre l’odore di menta mi colpì. Chris mi abbracciò e mi strinse forte fra le sue braccia. Gememmo di dolore entrambi, ma nessuno dei due se ne curò. Mi voltai, ed affondai la testa nel suo petto, mentre mi aggrappavo alle sue braccia solide. Lui mi circondò e cominciò a piangere sulla mia spalla.
-Anche tu l’hai visto, Chris?- chiesi, con la voce rotta dal pianto, piena di rabbia. -Quello sguardo, intendo. Ci hanno guardato come se fossimo degli errori, come se si fossero pentiti di averci avuti. Siamo davvero solo questo, Chris?-
Zio Magnus aveva nominato il mio sangue più angelico del normale. Oltre a dover stare particolarmente attenta ai demoni, questo fatto non aveva mai avuto implicazioni ulteriori. Ma ce ne dovevano essere per forza, se lo stregone l’aveva chiamato in causa proprio ora. Se papà lo aveva assalito come una belva feroce. Se i miei genitori avevano guardato me e Chris in quel modo. Una crepa si creò nel mio cuore, e singhiozzai più forte. Mio fratello mi prese il mento fra le dita e mi fece alzare lo sguardo. Ci guardammo intensamente. Mi ricordai di quando, da piccola, combinavo dei guai, tipo infilare le lucertole nel letto di mamma e papà, e mio padre mi sgridava e mi metteva in punizione. Allora piangevo, e solo Chris si avvicinava e mi abbracciava, mio fratello con quel suo lieve profumo di menta. Premetti la mia fronte sulla sua e, con tono incrinato, gli sussurrai: -Ti voglio bene, Chris.-
Lui mi accarezzò il viso. -Anch’io, sorellina.- sorrise -Non dimenticartelo mai.-





COMMENTO SCRITTRICI:
Molto velocemente, ringraziamo i lettori e chiediamo scusa per non aver pubblicato un capitolo lungo come promesso. Le verifiche e le interrogazioni ci stanno stremando, quindi è già tanto se abbiamo aggiornato in tempo. 
Una piccola nota... Sembra che qualcuno apprezzi particolarmente la nostra storia, dato che abbiamo trovato qualche scopiazzatore. Roba che hanno copiato il nome "Samantha" e poi ci hanno detto che è stata solo una coincidenza, nonostante nella storia si vedano tante scopiazzature. Qualcun'altro ha usato il nostro stesso titolo ma con "demone" al posto di "angelo", anche se la trama si distacca decisamente rispetto al primo scopiazzatore. Sembra che ora a tanti sia venuta la voglia di scrivere dei discendenti dei personaggi di TMI... Ma che ci vogliamo fare? è il prezzo del successo, no? Queste persone sappiano comunque che controlliamo tutte le storie pubblicate/aggiornate più recentemente, e che, in caso di violazioni di copyright troppo importanti, non esiteremo a contattare la direzione di efp. :)
Ci scusiamo con i lettori onesti per questa nostra "minaccia", ma non è assolutamente diretta a voi. Voi, vi amiamo. <3
Baci,
C&S

  

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 ***


IMPORTANTE: Ci scusiamo per il ritardo. D'ora in poi pubblicheremo ogni venerdì sera. Buona lettura!



La luce della luna proiettava strane ombre sul soffitto. Cosa sono, quelli, i rami degli alberi che ondeggiano nel cortile? O il profilo di qualche demone spaventoso?
Mi giravo i pollici, sdraiata sul letto, le coperte tirate da un lato, gli occhi di oro fuso dell'angelo impressi nella mente. Poi quegli occhi si erano trasformati in altri occhi, sempre dorati, ma caldi, castani ambrati, come i miei. Occhi che mi bucavano l'anima. Sei un errore. Sei un errore. Rividi nella mente la scena di qualche ora prima. Magnus che blaterava qualcosa sul sangue, mio e di mio fratello, mio padre che si scagliava su di lui, Alec che lo bloccava, la vena pulsante sul braccio di mio padre, le lacrime di mia madre, gli occhi di mio padre, gli occhi di mia madre, io che scacciavo la sua mano che mi si avvicinava. Un errore. Sei un errore. Quelle parole rimaste impronunciate, se non per quello sguardo. Poi le mie lacrime nel corridoio, il profumo di menta di Chris, le sue lacrime, un abbraccio che mi aveva consolato solo finché non me ne ero andata a dormire, senza mangiare, lo stomaco chiuso, solo finché non mi ero svegliata dopo l'ennesimo incubo e non ero riuscita a riprendere sonno. E allora avevo ricordato. Quello sguardo colpevole. Sei un errore.
Sentii gli occhi che bruciavano e le lacrime che minacciavano di sgorgare, di nuovo. Mi misi seduta e appoggiai la testa sul muro dietro la spalliera del letto. Il freddo della parete mi aiutò a sentirmi più lucida.
Mi tornarono in mente le parole di Magnus. Oh, Jace, Jace, che devi sapere ancora? Oramai la situazione è chiara. I tuoi figli hanno sangue angelico tre volte più del normale nelle vene. Era inevitabile che sarebbe successo qualcosa. Io ti avevo avvertito.
Ecco un altro bel problema. Ero sicura che lo sguardo dei miei genitori fosse dovuto alle parole di Magnus. Ma cosa intendeva, lo stregone? Possibile che la faccenda del sangue comprendesse risvolti di cui non ero a conoscenza? Qualcosa che mamma e papà, e anche Magnus, sapevano e io no? Molto probabile, mi dissi.
Mi sentii tradita per l'ennesima volta in cui venivo trattata come una bambina. Dovevo sapere. Dovevo necessariamente sapere. Ma a chi chiedere? Naturalmente, Magnus e i miei erano fuori discussione. Anche gli altri adulti, dal momento che avrebbero riferito tutto ai sopra citati.
Passai il tempo a rodermi il cervello, finché non mi addormentai.
*****
-Sam.-
La voce di Chris, a un palmo dalla mia faccia, mi svegliò.
Aprii gli occhi. Mio fratello aveva delle occhiaie profonde, lo sguardo un po' assonnato: anche lui non aveva dormito granché, quindi.
-'Cazzo vuoi?- feci, la voce impastata -È sabato mattina e io sono moralmente a pezzi. In futuro non potresti, che so, essere più sensibile? Anzi, no...- mi corressi -Potresti cominciare ad essere sensibile fin da ora e lasciarmi dormire. Solo per un po', fratello, okay?-
Chris ridacchiò. -Oggi dobbiamo andare a pranzo dai nonni- si giustificò. -Hanno detto di venire a svegliarti. Dobbiamo essere a casa loro per mezzogiorno.-
-Che ore sono?- domandai, irritata.
-Le undici- rispose Chris -e sappiamo tutti che ci metti due ore per vestirti, nonostante è evidente che ti metti addosso le prime cose che trovi nell'armadio. Max dice che, secondo lui, dormi sul cesso. Ti ricordi quando eravamo bambini e ti abbiamo trovata addormentata proprio lì?-
Emisi un verso di rabbiosa protesta e gli tirai il cuscino in faccia, alzandomi. Chris scoppiò a ridere, e io lo spinsi fuori dalla stanza.
Aprii l'armadio e presi la prima felpa e il primo paio di jeans puliti che mi capitarono sottomano. Già potevo sentire le proteste di mia nonna (-Ma sei una signorina, Samantha, non dovresti cominciare a curarti un po' di più?-) e Luke che ribatteva, strizzandomi l'occhio e ridacchiando (-Jocelyn, guarda che per me sta benissimo. Non trovi anche tu che nostra nipote sia un fiore?- A questo punto, solitamente, la nonna alzava gli occhi al cielo.)
Sorrisi tra me e me immaginandomi la scena, mentre andavo verso il bagno. Stavo aprendo la porta per entrarci quando, da fuori della mia stanza, sentii la voce divertita di Max. -Vedi, vecchio mio, credo che la mia ipotesi sia corretta. Scommetto che, se entrassimo, la troveremmo a ronfare sul cesso.-
E giù uno scroscio di risate da parte di mio fratello.
Recuperai velocemente gli scarponi da sotto il letto e li indossai. Buttai i vestiti sul letto e, come una furia, mi avventai sulla porta e la spalancai, al massimo dell'ira. Due secondi. Poi l'impronta del mio scarpone destro fu stampata sul culo di IPC, e quella del sinistro sul culo di Chris.
Mi sentivo le guance in fiamme per la rabbia. Quei due si voltarono. Max aveva un'espressione scandalizzata, Chris mi guardava come un bambino colto in flagrante mentre rubava le caramelle.
-Brutti coglioni!- strepitai -Tutti e due! Come avete potuto? Vergogna! Dovreste portarmi più rispetto, invece: qui dentro sono l'unica ragazza sotto i quarant'anni, come vi siete permessi?!-
IPC mi interruppe, la voce ferma e pacata: -Si può sapere, allora, cosa fai in bagno in così tanto tempo?- chiese, una scintilla di malizia canzonatoria negli occhi.
Chris scoppiò di nuovo a ridere.
-Non dovreste permettervi e basta!- gridai, isterica, senza neanche degnarmi di rispondere alla sua provocazione, rientrando in camera e sbattendo la porta, per poi fiondarmi in bagno e vestirmi.
*****
La casa di Luke era sempre stata quella, dopo che si era trasferito da Idris. Lui e la nonna l'avevano rinnovata da un paio d'anni. Poi avevano preso in custodia il gatto di Magnus. Nonostante fosse sorprendentemente longevo (come Church, credo che i gatti dei Nephilim e degli stregoni abbiano qualche strano gene per cui sembra che non debbano mai morire), il Presidente Miao era decisamente invecchiato. In poco tempo, aveva cominciato non solo a prendere i tappeti nuovi come suo “grattatoio” personale, ma anche come gabinetto. Ogni volta che la mollava, la nonna si metteva a brontolare e, quando proprio la prendevano gli attacchi d'isteria tipici anche di mia madre, minacciava di farlo a pezzi, o roba così.
Stavo giusto entrando quando cominciò a dire a Magnus che, in un futuro non troppo lontano, avrebbe ammazzato quel gatto. -Senti, caro mio- voce saputa e mani sui fianchi fasciati dal grembiule da cucina -quell'ammasso di lardo e peli che quel tuo vecchio gattaccio è ha appena defecato sul tappeto nuovo. L'ho cambiato una settimana fa, cavolo, solo una settimana fa!- gli agitò un indice sotto al naso -Hai idea di quanto costi far lavare i tappeti o comprarne di nuovi?-
Proprio in quel momento, il Presidente Miao entrò nella stanza con aria altezzosa -o almeno credo, non è che sia la ragazza che sussurra ai gatti o cose così- e andò a strusciarsi sulle gambe di Magnus, facendo le fusa.
Guardai la nonna e fui sicura che stesse per collassare, tanto la vena pulsante sul suo collo faceva impressione.
Poi il nonno fece il suo ingresso in cucina: soliti occhialetti, soliti capelli grigi, in contrasto con gli occhi azzurri che sembravano quelli di un bambino, e solita camicia di flanella.
Mi buttai su di lui e lo abbracciai: volevo un bene immenso a Luke, l'unico che mi aveva sempre trattato come meritavo, non come una stupida bambina. Avevo bisogno di lui, ora più che mai, dopo quello sguardo, dopo le lacrime. Avevo bisogno del suo odore di buono (sì, se c'è un odore di buono, era proprio quello di mio nonno) e delle sue braccia. E mi lasciai cullare, quando mi depose un bacio tenero tra i capelli.
-Sam- mi disse, ridacchiando- anche tu mi sei mancata, ma ora lascia respirare il tuo vecchio nonno. Non puoi più appenderti così, tesoro.-
E il tono con cui pronunciò quelle parole era tanto dolce che mi dimenticai per un po' di tutti i problemi. Mio nonno era l'unica persona che mi piaceva quando mi chiamava "tesoro". Se lo facevano gli altri, semplicemente mi sentivo stupida. Non so perché. Ma lui era il nonno, e andava benissimo se mi affibbiava nomignoli mielosi.
Improvvisamente, mi resi conto di aver trovato una risposta alle mie domande: potevo chiedere a lui della faccenda del sangue. Lui mi avrebbe sicuramente detto la verità. Decisi di aspettare di stare solo noi due. Io e Luke, nessun'altro.
*****
Mi alzai dal tavolo e uscii dalla cucina. Mi buttai sul divano, massaggiandomi la pancia dopo aver mangiato come una betoniera. L'altro pregio di Luke era che cucinava benissimo. Non si direbbe, dato che pensare "Quel lupo mannaro è una favola ai fornelli" sembrava un tantino strano. Come sapere che il Presidente Miao andava d'accordo più con un figlio della luna che con mia nonna. Credo fosse perché Luke gli allungava il cibo sotto il tavolo. O, semplicemente, avevano stabilito un rapporto di pace per sopravvivere alla convivenza con quella squinternata di mia nonna. In questo caso, la cosa non mi sorprenderebbe affatto: durante il pranzo, la nonna non aveva perso occasione per dire cose del tipo -Ma che capelli, amore! Non dovresti tagliarli? Non che non mi piacciano, eh... Però potresti sfoltirli, non so... In modo che sembrino più ordinati.-
Per non parlare o guardare i miei genitori o Magnus, per far loro capire quanto mi avevano offesa, mi ero concentrata sul cibo. Il risultato era che sentivo la pancia scoppiare. Mi stesi e mi premetti un cuscino del divano sulla faccia.
La porta della cucina si aprì.
Qualcuno si lasciò cadere seduto vicino a me. Qualcun'altro si buttò sull'altra poltrona.
-Dici che dorme?- chiese la voce di Chris accanto a me.
-Naaah!- rispose Max dalla poltrona -Vedi?-
Percepii un pizzico leggero sul braccio. Scattai seduta, brandendo il cuscino con aria molto minacciosa.
-Che ti dicevo?- disse IPC a Chris, sghignazzando.
-Cosa avete oggi?- sbottai -Non potevate starvene con gli altri e lasciarmi in pace?-
-Ci hanno mandato loro qui.- replicò Chris -Discorsi da adulti che non possiamo sentire, o almeno così hanno detto.-
Guardai prima lui e poi Max -E voi vi siete fatti trattare come bambini senza protestare?-
-Riguarda il Conclave- replicò Max, pacatamente -e nessuno di noi ha diciotto anni, quindi nessuno di noi ne è un membro effettivo. Per la Legge, noi siamo bambini. E dobbiamo starne fuori.-
-Sai dove te la puoi mettere la tua Legge?- lo provocai -Me ne frego- aggiunsi, cominciando a studiare i cristalli sul tavolino da caffè del salotto. Mi chinai su una piccola coppa e la presi in mano, stando attenta a non romperla. Mi diressi verso la porta chiusa della cucina.
-Cosa stai facendo?- domandò Max.
-Non ho intenzione di farmi diventare l'orecchio rosso premendolo contro la porta- dissi esaminando il legno rossiccio. Mentre mi accovacciavo, sentii IPC che sbuffava. Poggiai la coppetta sopra la porta, poi l'orecchio sopra la coppetta.
-...Quindi li hanno inseguiti- la voce di Luke era preoccupata.
-Sì- confermò mio padre -Magnus dice che è colpa del sangue. Stanno cominciando a sentirlo di più. Hanno capito come seguire la pista dell'odore: erano troppi, e troppo determinati. Sono svenuti entrambi.-
Rafforzai la presa sulla coppetta.
-E cosa proponete di fare?- chiese mia nonna, grave.
-Ci sto lavorando- intervenne Magnus -ma ancora non ho avuto segnali di miglioramento nelle mie ricerche. Dovremmo cominciare a giocare anche su un altro tipo di magia.- fece una lunga pausa -Ho pensato, ecco... forse... Le fate...- farfugliò.
-No!- intervenne mia madre -È pericoloso, e...-
-Le fate sono troppo astute- aggiunse Simon -Vi ricordate il trucchetto degli anelli, durante la Guerra Oscura? È così che la regina e Sebastian controllavano le nostre conversazioni.-
-Già...- convenne Isabelle.
-E sappiamo tutti che le fate, in particolare la loro sovrana, sono assetate di potere. Potrebbero decidere di aggirarli per prendere i poteri- fece notare Alec.
-E allora?- domandò Magnus -Avete altre idee?-
-Continua le tue ricerche- disse mio padre con voce ferma -Non ho intenzione di esporre i ragazzi ai pericoli delle fate. Vediamo come si evolve la situazione.-
-Sono d'accordo- sospirò Luke -E se avete bisogno di sorveglianza in più, posso chiedere a Maia di inviare un paio dei nostri come protezione. Anche se è invecchiata, resta pur sempre il capobranco.-
-Se lo ritieni opportuno...- asserì papà -Ma di nascosto dai ragazzi. È per proteggerli, che non devono sapere niente. Almeno per ora.-
-E non credi che faresti meglio a dirglielo? Sarebbero più attenti... Più pronti- contestò mio nonno.
-Sì, Jace.- convenne Alec -Forse è meglio. Sai com'è tua figlia, tralaltro. Si dimostrerà molto più collaborativa se le dici la verità. E, scusami, ma io sono d'accordo con lei. L'hai vista, ieri? La sensazione di essere tradita o non ben voluta le si leggeva negli occhi. Non capirà mai, se non le dici cosa sta succedendo. Devi farlo, amico. Devi dirglielo.-
-Sono i miei figli- ribatté mio padre, deciso. -Si tratta di mia figlia: non ho intenzione di farle sapere niente fino a quando non lo riterrò opportuno.-
-Ma, Jace...- tentò Isabelle.
-No, Izzy. No- la interruppe lapidario.
Sentii il rumore delle sedie che venivano allontanate dal tavolo, e, velocemente, mi staccai dalla porta. Rimisi la coppetta sul tavolo e mi sedetti vicino a Chris.
La porta della cucina si aprì e ne uscì mia nonna, con un vassoio carico di pasticcini tra le mani. -Volete favorire?- chiese, entrando in salotto con un enorme sorriso.
Tutti gli altri adulti la seguirono a ruota. Poggiò il vassoio sul tavolino, proprio davanti a me, con quel suo sorriso tirato sempre stampato in faccia.
Non resistetti alla tentazione. -Avete qualcosa da farvi perdonare?- li provocai tutti, squadrandoli e facendo un cenno col mento in direzione dei pasticcini.
Ci fu un sussulto generale.
-Ma no, cara!- disse la nonna, usando un tono fin troppo dolce -Prendi un dolcetto.-
Tutti gli occhi erano puntati su di me. Adocchiai un bignè e lo afferrai, e li liquidai facendo un gesto con la mano. -Be', allora smettetela di fissarmi. Siete inquietanti, e non posso mangiare se mi sembra che ci siano dei falchi che cercano di forarmi il cervello con gli occhi.-
-Che paragone delicato!- commentò Max.
Lo guardai con sufficienza e feci un'alzata di spalle, addentando il dolce. Nella mia testa, un solo pensiero: sarei andata a chiedere alle fate.
*****
-Cosa c'è?- chiese Luke, dopo che lo ebbi trascinato in un angolo del salotto, lontano dal caos degli altri.
-Vi ho sentiti- dissi, senza troppi complimenti.
-Lo so- replicò, aggrottando le sopracciglia -ho sentito il tuo respiro e il tuo odore. Sono vecchio, ma resto sempre un figlio della luna.-
-Hai ragione.- sospirai -Però devo dirti una cosa...- a lui potevo dirlo: era stato il primo a contestare mio padre per fare in modo che mi dicesse la verità. Che poi -almeno in parte- l'avevo scoperta da sola, era un'altra storia. -Io ci vado- dissi.
-Frena...- fece Luke -Dove vuoi andare?-
-Dalle fate. Ci vado.-
-Cosa? Tu non puoi... Ti vieto di andarci!-
-Ma mi hai appoggiata, prima!-
-Certo, ma perché tuo padre ti dicesse la verità, non perché tu vada a metterti nei guai con le fate! Senti, non so quanto tu abbia sentito, e neanche noi sappiamo cosa stia succedendo di preciso, ma non puoi andare alla Corte Seelie. È troppo pericoloso: non hai idea di cosa potrebbero farti, senza neanche che tu te ne accorga.-
-Ma...- provai a interrompere quel fiume di parole, senza successo.
-Non dirò a nessuno di questa conversazione, ma se mi arrivano notizie di una tua improvvisa sparizione, sarò io a riferire a tuo padre dove cercarti. Sono stato chiaro?-
Avrei voluto solo urlare e tempestarlo di pugni, ma mi trattenni. Abbassai lo sguardo e mi fissai le scarpe. -Chiarissimo- risposi.
*****
Quando svanì ogni rumore, mi misi seduta sul letto. Lentamente, i miei occhi si abituarono alla quasi totale oscurità nella stanza. Riuscii a distinguere il comò e l'armadio grazie alla luce della luna. Afferrai lo stilo dal comodino e mi chinai sotto al letto per prendere gli stivali. Li avrei indossati una volta fuori, altrimenti avrei fatto troppo rumore. Mi alzai e raccolsi la borsa con le armi che avevo preparato. Cercando di non farle tintinnare, mi diressi verso la finestra e girai la maniglia, aprendola. L'aria fredda della notte mi colpì in faccia. La inspirai a pieni polmoni, legandomi i capelli in una coda alta. Raccattai dal pavimento la scaletta di corda (sì, mi ero attrezzata molto bene) e, reggendone un'estremità, la lasciai penzolare oltre il davanzale. Facendo dei nodi strettissimi, la assicurai alla gamba del comò. Mi issai sul davanzale e mi accovacciai. Misi un piede sul primo piolo, ondeggiando per controllarne la stabilità. Presi un respiro profondo e cominciai a scendere, cercando di non guardare in basso. Una volta arrivata giù, poggiai a terra la borsa che mi ero messa a tracolla e indossai gli stivali. Contemplai l'idea di rimuovere la scaletta, ma a che pro? Mi sarebbe poi servita per risalire senza essere notata. Mi abbassai e aprii la borsa. Estrassi tutte le armi -due spade angeliche, due pugnali di adamas e un coltello di ferro (stavo pur sempre andando dalle fate)- e le infilai nei foderi appesi alla schiena e nella cintura. Nascosi la borsa in un cespuglio e mi avviai.
Durante il cammino verso Central Park, pensai a come chiedere quello che volevo alla Regina della Corte Seelie. Ero scappata per andare a incontrarla contro la volontà dei miei genitori, certo, ma sapevo benissimo della fama del Piccolo Popolo per i suoi sotterfugi. Sarei stata attenta, mi dissi.
Arrivai così davanti al laghetto del parco, quello dove i demoni-lucertola mi avevano attaccato. Studiai la superficie iridescente dell'acqua sotto i raggi lunari. Sapevo, ovviamente, che l'unica entrata possibile era quella. Non potevo trovare un'altra via per il Sottomondo. Però l'acqua doveva essere così fredda, a gennaio!
Estrassi la strega luce dalla tasca del giubbino e la strinsi nella mano. Subito, quella emanò un bagliore che creò una pozza di luce intorno a me.
-Andiamo- bisbigliai a me stessa, cercando di farmi coraggio. L'idea delle fate m'inquietava, ma la voglia di scoprire qualcosa in più riguardo la verità era semplicemente troppo forte. Prima che quel frammento di impavidità si staccasse da me, misi un piede nell'acqua. Il freddo mi attraversò le scarpe, i calzini e poi mi si diffuse nel corpo, come veleno. Rabbrividii, immergendo anche l'altro piede. Avanzai nel laghetto, combattendo contro il gelo e cominciando a pentirmi di essere scappata per quello, l'acqua che gorgogliava al mio passaggio. Quando fui immersa fino alla vita, una attimo prima di decidermi a girarmi e andarmene, inspirai il più aria possibile e mi tuffai.
Chiusi forte gli occhi, sentendomi cadere sempre più in basso, sempre più veloce.
L'atterraggio sul terreno duro mi spezzò il fiato. Appena i nervi smisero di formicolare, mi alzai, facendo leva col braccio sul ginocchio. Era asciutto. Ero tutta asciutta, constatai con sorpresa. Mi guardai intorno, incantata: un tappeto di muschio ricopriva un'intera galleria. In alcuni punti, sembrava persino fluorescente. A intervalli regolari, altri corridoi si aprivano su quello principale. Mi resi conto che l'ambiente era illuminato di per sé, quindi spensi la strega luce e la riposi in tasca.
Uscita dallo shock iniziale, decisi di avviarmi. Non sapevo, di preciso, in che direzione andare, ma supponevo che ci fosse un qualche incantesimo per condurmi dalla parte giusta.
Proprio mentre alzavo il primo piede, qualcos'altro -o meglio, qualcun'altro- mi piombò addosso, buttandomi di nuovo a terra.
-Merda.- La voce di Max mi arrivò alle orecchie attutita, perché avevo in faccia un lembo della sua giacca. Profumava di sapone, realizzai.
Dato che ero caduta a pancia in giù, potevo sentire il suo respiro, affannato per il capitombolo, che muoveva i miei capelli. Ignorando lo strano brivido che mi scosse, cercai di strisciare via da sotto il corpo di IPC, inutilmente: ero bloccata sotto il suo peso.
Sollevai un braccio per cercare di colpirlo alla cieca. -Mi stai schiacciando!- protestai -Lèvati.-
Max borbottò qualche scusa incomprensibile e fece leva con le braccia ai lati del mio corpo per alzarsi.
Appena fu in piedi, mi misi seduta. -Be'?- lo provocai -Non mi aiuti ad alzarmi, visto che è colpa tua se mi sono quasi spiaccicata la faccia al suolo?-
Lui mi prese alla lettera e mi allungò una mano sotto al naso, infastidito. Stavo per porgergli la mia, poi spostò il braccio dietro il collo della mia giacca e mi tirò su di peso, mentre mi metteva le mani sotto le ascelle. Continuò a tenermi sollevata dal suolo tendendo le braccia e sghignazzando: avevo i piedi penzoloni. Cercai di scalciare per liberarmi, ma fu tutto vano: sembrava che tenesse una bambina piccola.
-Senti- dissi -o mi metti a terra immediatamente o giuro che ti gratto via la faccia...-
-Curioso come riesci a minacciarmi anche in questa situazione di evidente svantaggio per te- mi interruppe. -Hai intenzione di continuare ancora per molto?- chiese, spostando gli occhi dal mio viso alle mie gambe che scalciavano.
Emisi un verso irritato e allungai le braccia per cercare di colpirlo in faccia: tutto inutile, non riuscivo a raggiungerla.
-Be'- fece -se proprio insisti...- Con un'alzata di spalle, mi lasciò andare senza preavviso.
Fortunatamente, atterrai sui piedi, anche se lo sgradevole contraccolpo si propagò in tutto il corpo. Dopo qualche secondo, mi rimisi con la schiena dritta e puntai un dito contro Max, guardandolo bene in faccia. -Grazie per la gentilezza- dissi, ironica -ma ora si può sapere cosa cazzo ci fai qui? Quello che ho intenzione di fare non ti riguarda.-
-Tuo fratello ha la camera di fronte alla tua- spiegò -ha sentito il freddo che proveniva dalla finestra aperta della tua stanza ed è andato a controllare, ma tu non c'eri. Quindi è venuto da me. Siamo tornati in camera tua, e abbiamo trovato la scaletta che pendeva dal davanzale. Ma rilassati- aggiunse con un'alzata di spalle -gli adulti non sanno niente.-
-Frena...- feci -C'è anche Chris?-
Proprio in quel momento, in un turbine di capelli biondi e tenuta nera, mio fratello spuntò dal soffitto e cadde al suolo, urlando. Dopo due secondi, scattò in piedi e ci guardò con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all'altro. -Che figata!- esclamò -Dovremmo rifarlo, qualche volta.-
-Ma sei matto?- domandai, roteando gli occhi.
Prima che potessi fare qualsiasi cosa, Chris, con uno scatto felino, m'intrappolò la testa tra il braccio e la costola. -Oh!- mi canzonò -La mia sorellina sempre così scontrosa! Io cerco di proteggerti, e tu cosa fai? Mi tratti così!- Chiuse la mano a pugno e la usò per scompigliarmi i capelli.
-Chris!- strepitai -Mollami!-
Lui scoppiò a ridere e mi lasciò andare.
-Ora basta!- sbottai -Sono venuta qui per uno scopo ben preciso, e mi avete già fatto perdere del tempo prezioso. Se proprio dovete accompagnarmi, non dovete più intralciare il mio cammino!-
Max fece una pernacchia e Chris rise ancora più forte di prima.
Con un verso di esasperazione, mi voltai e mi incamminai nella direzione che avevo scelto prima.
Dopo qualche passo, IPC mi richiamò con un finto colpetto di tosse. Mi voltai: si era sollevato la manica destra, e con un dito della mano sinistra indicava una runa sul suo braccio: il Marchio Vero Nord, usato per orientarsi e trovare la giusta direzione. E indicava il verso opposto rispetto a quello che stavo prendendo io.
IPC mi guardò aggrottando le sopracciglia, con aria di sufficienza.
Sbuffai e cominciai a camminare nella direzione indicata dal Marchio.
Più ci inoltravamo nelle gallerie, più l'odore di terra umida e muschio mi penetrava nelle narici. A un certo punto, dovetti riaccendere la strega luce per il buio crescente. Improvvisamente, dopo che svoltammo una curva, una luce fortissima inondò la galleria. Proveniva da dietro una tendina fatta di rami intrecciati, decorata con delle farfalle colorate. A primo impatto, sembravano imbalsamate. Poi, guardando meglio, mi resi conto che muovevano impercettibilmente le ali: stavano agonizzando. Mi chiesi chi mai avesse potuto fare una cosa così crudele.
Una mano sulla spalla mi riportò alla realtà e mi fece voltare. Max annuì. Mi rigirai e presi un respiro profondo.
Allungai una mano e scostai la tendina. Entrammo, e io chiusi gli occhi per adattarmi alla luce più intensa.
La stanza era addobbata come un bosco d'inverno, con cristalli di ghiaccio che pendevano dal soffitto di rovi spogli e un tappeto di neve fresca per terra.
E lì, mollemente adagiata su un divano bianco, stava la regina. I capelli scarlatti sembravano una macchia di sangue in mezzo a tutto quel bianco accecante, che comprendeva anche il lungo vestito semi-trasparente della fata e la sua pelle diafana.
La regina aveva gli occhi chiusi, eppure notò la nostra presenza.
-Figlia degli Angeli- disse, con voce suadente -Mi chiedevo quando saresti arrivata. È molto tempo che ti aspetto.- Un brivido mi percorse la schiena. La regina si mise seduta; il vestito le scivolò sul corpo come acqua. Aprì gli occhi, simili a vetro blu, e mi sembrarono fatti dello stesso ghiaccio dei cristalli.
-Regina- la salutai, con la voce tremante e un cenno del capo.
I suoi occhi saettarono alle mie spalle, per poi tornare a posarsi su di me. -Hai due baldi accompagnatori, vedo. Chi abbiamo qui?- guardò Chris e Max -Il fratellino altrettanto angelico e... Oh, il figlio dell'ex Diurno, giusto? Un giorno tutti i vostri genitori vennero qui. Il Diurno e la ragazzina rossa stavano insieme all'epoca, sapete? Ma erano destinati a essere solo buoni amici. Oh, sì... Quando ho chiesto alla ragazzina di dare il bacio che più bramava, ha scelto il biondino. Certo, lui era bellissimo...- sospirò, e mi sentii un nodo allo stomaco -E io ho sempre avuto un debole per le cose belle. In un modo particolare tu me lo ricordi, sai, piccola Nephilim?- avvertii il sangue raggelarsi nelle vene appena quegli occhi di ghiaccio mi squadrarono –Ma sembri quasi una bimba e, ovviamente, non ho strane... tendenze come i figli di Lilith... Perché non vi avvicinate, ragazzi?- fece una risata fredda -Non vi mangio mica!-
Chris e Max mi spalleggiarono, e sentii il calore dei loro corpi vicino al mio.
-Così...- proseguì la regina con la sua voce di ghiaccio -I tuoi accompagnatori non sanno perché sei qui... Non sarebbero neanche dovuti essere i tuoi accompagnatori, a quanto posso capire. Cos'è, sei una testa calda? Mi piacciono i caratteri forti, sai... Sono i più divertenti con cui giocare.- Un altro brivido, più forte del precedente, mi scosse da capo a piedi.
-Come...- cercai di chiedere, la voce quasi un sussurro.
-Io so tutto quello che accade nel Sopramondo perché ho i miei informatori. So tutto del Sottomondo, perché è il mio regno. Avrei quasi voluto essere te, quando il ragazzo ti è piombato addosso.- sospirò -Ma evidentemente non ti rendi conto di quello che hai a disposizione, o non vuoi rendertene conto.-
Mi sentii avvampare, un po' per l'imbarazzo, un po' per la rabbia: stava cercando di sviarmi, per caso? Parlava di tutto tranne che di ciò che volevo sapere.
-Senti- dissi (non credevo che le fate si preoccupassero troppo del "lei" o del "tu") -Visto che sai tutto, sai anche perché sono qui. Potresti avere delle risposte in merito a cosa sta succedendo a causa... A causa del mio sangue. Voglio sapere perché tutti sono così preoccupati. Io... Ho bisogno di conoscere la verità. Le fate non possono mentire, no? Sotterfugi a parte, ovvio. Spero... di non offenderti, ecco. Però sai che non è di svianti consigli di cuore che ho bisogno.-
-Credimi, sfacciata ragazzina- replicò, glaciale -tu hai bisogno di molte cose, e la verità può essere molto pericolosa. Non hai idea di quella che ti riguarda, peraltro.- Mi fulminò, la mascella del suo visetto da angelo irrigidita. -Vieni qui, piccola Nephilim.- Mi invitò con un cenno della mano.
Deglutii. Chris mi punzecchiò la schiena con un dito per spronarmi. Mi avvicinai lentamente, come un automa arrugginito, nel passo una leggera esitazione.
Quando fui arrivata al cospetto della Regina, lei si mise in piedi. Mentre si avvicinava, l'abito bianco si muoveva leggero come l'aria. Mi superava in altezza di un'abbondante ventina di centimetri.
Rimasi immobile mentre mi girava intorno; potevo sentire il suo sguardo ghiacciato perforarmi la pelle, acuto come uno spillo.
-Tu mi temi, piccola Nephilim. Non puoi ancora capire il potere che hai e hai paura di me, lo sento.-
Sapevo che mi stava provocando, e dovetti mordermi il labbro per non replicare... Eppure, aveva ragione la Regina: mi metteva in soggezione.
Mi si fece ancora più vicina. A questo punto, mi aspettavo di sentire il calore del suo corpo. Invece niente. Sembrava parte del paesaggio invernale, fredda in ogni suo aspetto. E questo mi mise ancora più agitazione.
Sentii il cuore balzarmi in gola quando la sua voce mi sibilò all'orecchio: -Tu non hai idea di ciò che ti scorre nelle vene, piccolo angelo.- Si voltò. -E anche nelle vene di tuo fratello.- Mi guardò di nuovo. -Ma sembra che il Liberato abbia scelto te. Ti avrà sicuramente già inviato dei messaggi... Fai sogni strani, ultimamente, piccola Nephilim? Tu e i tuoi amici, qui?- Fece un cenno con la testa in direzione di Chris e Max.
La guardai sbalordita. La Regina scoppiò a ridere; non capivo cosa ci fosse di tanto divertente, in tutto quello. Sembrava che mi stesse usando come passatempo, come una distrazione, un giocattolo.
-Allora puoi dirmi che sta succedendo?- le chiesi, spazientita.
La Regina riassunse un'aria seria all'improvviso. -Sarò sincera, d'altro canto non potrei fare altrimenti: neanche io so cosa stia di preciso avvenendo con questa faccenda, e comunque non spetterebbe a me dirti la verità... E potrei persino uccidere, sai, per avere il tuo sangue. Ma c'è qualcosa di grande e spaventoso, in serbo per te, questo lo posso
avvertire. Dovrai intraprendere un viaggio, figlia dell'Angelo, e non sarai da sola. Ma alla fine, dovrai scegliere. E quella scelta la potrai compiere solo tu, nessun altro... Non posso andare oltre. Qualcun'altro ti introdurrà sulla strada da percorrere. E sarà spaventosa, buia, incerta.-
Più la fata andava avanti, più mi sentivo le gambe cedere. Caddi in ginocchio, chiudendo gli occhi, la schiena accasciata.
La voce della Regina continuò a rimbombarmi nella testa: -Il tuo cammino sarà in salita, angioletto, fatto di ghiaccio e sangue. Non c'è niente che tu possa fare per evitarlo.-
Il mio corpo fu scosso da spasmi profondi mentre quelle parole mi appesantivano il cuore come un macigno e mi martellavano i pensieri. Mi portai le mani alle tempie e strinsi i denti.
-Solo la tua scelta finale sarà per te di libero arbitrio. Sarà quella a decidere le sorti...-
-Fermati!- urlò Chris -Cosa le stai facendo?-
La regina si voltò verso di lui, glaciale. -L'avevo avvertita che la verità è pericolosa. E questo è solo quello che so io. Non è ancora in grado di reggere.- Mi guardò di nuovo, poi fece un gesto noncurante con la mano. -Portatela via. Non posso aiutarla più di così.-
Percepii qualcuno avvicinarsi e sollevarmi. Max. Riuscivo a riconoscerlo anche se tenevo gli occhi chiusi, dal profumo e dal calore. Con me in braccio, tornò accanto a Chris. -Andiamo- lo sentii sussurrare a mio fratello.
-Ti salutiamo, Regina. Grazie per averci ricevuti- disse Chris.
Mentre uscivamo, non udii alcuna risposta. Dopo che svoltammo un po' di curve -potevo avvertirle dal passo di Max- non ce la feci più: lacrime calde e silenziose cominciarono a rigarmi il viso, bagnando la tenuta di Max, a cui mi aggrappai con le dita.
-Shh...- lo sentì bisbigliare -Shh. Va tutto bene, okay? Siamo quasi fuori.-
In quel momento avvertii che stavamo scalando una pendenza. Qualche secondo dopo l'aria notturna mi investì il viso.
-Posso camminare- dissi, asciugandomi la faccia con una manica.
Max mi lasciò a terra.
-Come stai?- domandò Chris.
-Io... Sto bene, credo- borbottai. Ma non era vero: continuavo a sentire le parole della Regina, ognuna come un pugno più forte del precedente.
Ci incamminammo verso l'Istituto, e nessuno di noi parlò. Chris salì per primo la scaletta. Una volta che fu dentro, mi apprestai a salire anch'io, ma Max mi bloccò afferrandomi il braccio.
-Quello che hai origliato a casa di Luke... È quello che ti ha spinto ad andare alla Corte Seelie, vero?-
-Sì.-
-Adesso capisci perché gli adulti avevano scartato la possibilità di andare dalle fate?-
-Sì- risposi nuovamente, abbassando lo sguardo.
-Hai la minima idea di quello che ci hai fatto passare quando ti sei accasciata al suolo? A tuo fratello e... anche a me.-
Stavolta lo guardai spiazzata.
-Eri in pericolo, Herondale- aggiunse, notando la mia espressione. Il suo tono si fece più duro e accondiscendente. -Le fate possono spingerti a fare quello che vogliono senza che tu te ne accorga, lavorando sulla tua testa. Cosa sarebbe successo se non ti avessimo seguita? Se Chris non avesse bloccato la Regina? Saresti impazzita, ecco cosa. Ti saresti persa nella tua mente senza riuscire a uscirne...-
-Credi che non lo sappia?- sbottai, irritata -Ma avevo bisogno di sapere.-
-E cosa ne hai ricavato?- ribatté -Nemmeno lei sapeva dirti con certezza cosa sta succedendo.-
-Almeno so qualcosa di più... Qualcosa di terribile, certo.- ammisi -Ma è sempre meglio di niente.-
-Senti, non so come prendere quello che ti ha detto. Ma anch'io ho fatto dei sogni, Samantha, e non erano belli. E così pure Chris: ne abbiamo parlato mentre ti seguivamo. E poi, chi è il Liberato? Cosa significa che ti ha scelta? In che cosa consiste questo "cammino di ghiaccio e sangue"? Ci sono troppi punti oscuri...-
-Lo so!- esclamai, fissando i miei occhi nei suoi. -È per questo che devo scoprire la verità. E lo farò, in un modo o nell'altro. Troverò chi deve indicarmi il viaggio da intraprendere.-
-Se è destino come ha detto la fata- replicò Max -sarà lui a trovare te. Non c'è bisogno che ti metti in pericolo senza rifletterci.-
Sospirai. Aveva ragione, dopotutto. -Va bene- sussurrai.
Max sembrò rilassarsi. -E ora sali- disse, facendo un cenno verso la scaletta -prima che si sveglino tutti. Non ho intenzione di finire nei guai.-
Roteai gli occhi e mi girai. Misi un piede sul primo piolo e mi issai, controllandone la stabilità. La corda era umida e scivolosa, perché l'aria fredda della notte vi si era condensata sopra. Max si mise a reggere la scaletta.
Mettendo un piede sul quarto piolo, scivolai.
-Sta' attenta!- esclamò IPC, mentre una delle mie gambe era a due centimetri dal colpirlo.
Rimasi appesa con le braccia, le gambe che ondeggiavano. Ero all'altezza di Max. -Ma guarda!- scherzai, il viso a un palmo dal suo -È tutto diverso da questa prospettiva così alta.-
-Già- mi canzonò IPC, gli occhi scintillanti -Peccato solo che questa sarà l'unica volta in vita tua in cui sarai alta, si fa per dire, quanto me. Quindi goditela.-
-Potrei, se tu non mi stessi ostruendo la visuale.-
-Ma di cosa parli? Sono uno spettacolo!-
Scoppiai a ridere. -Certo,ti piacerebbe...- Scossi la testa e, con cautela, ripresi a salire. Una volta entrata, ressi la scaletta per Max, che balzò dentro con eleganza felina.
Tirammo su la scaletta e chiudemmo la finestra.
-Allora, buonanotte- dissi.
Mi sembrò che stesse riflettendo per alcuni secondi su qualcosa, guardandomi. Poi scosse la testa. -Buonanotte- e uscì dalla mia stanza.
*****
-Andiamo, sbrigati!- mi incitò Max, mentre gli correvo dietro, lo zaino che mi batteva ritmicamente sulla spalla. Non avevo sentito la sveglia suonare e, per colpa mia, stavamo facendo tardi per la scuola. -Entreremo a lezione iniziata. Se solo ti fossi decisa ad alzarti prima... Dannazione!- imprecò.
-Potresti rallentare, per favore?- chiesi, ansimando -Non riesco a tenere il passo!-
-Me ne sbatto! Datti una mossa!-
-La tua gentilezza mi commuove...- ironizzai.
-Arrangiati.-
-Ehi!- esclamai, mentre inciampavo.
Il grigio dell'asfalto mi si avvicinò pericolosamente al naso, poi si bloccò all'improvviso. Avvertii la pressione delle braccia di qualcuno intorno alla vita. Ma non era Max, lui l'avrei riconosciuto.
Quel "qualcuno" mi aiutò ad alzarmi. -Stai bene?- mi chiese una voce dolce. Sollevai gli occhi su un ragazzo di media statura, magro, con capelli e occhi castani, molto carino.
Arrossii violentemente. -Io... sì... grazie- balbettai.
Lui sorrise, cordiale, e pensai che fosse ancora più carino quando sorrideva. -Non c'è problema- ribatté -Ho visto che stavi cadendo e mi sono detto che sarebbe stato un peccato se una ragazza che sembra così dolce e carina si fosse fatta male.-
Abbassai lo sguardo e arrossii maggiormente.
-Dolce e carina?- sentii dire dalla voce di Max -Ma l'hai guardata bene? Poi aspetta di conoscerla e vedrai.-
Il ragazzo gli lanciò un'occhiata, sicuramente pensando, anche lui irritato, che uno doveva essere proprio coglione a intervenire in quel modo in una situazione del genere.
-Scusalo- dissi, sorridendo imbarazzata -è il mio stupido cugino.- Fu la prima cosa che mi passò per la mente.
Il ragazzo si voltò di nuovo verso di me. Sorrise ancora. -Spero di rivederti- mi disse -e mi dispiace per il tuo cugino guastafeste.- Rise.
-Anche a me piacerebbe rivederti- risposi, un po' per far capire a Max che il suo commento era stato ignorato, un po' perché volevo veramente incontrarlo di nuovo.
Il ragazzo si allontanò, i capelli
lisci mossi dal vento, una mano alzata in segno di saluto verso di me.
Ricominciai a camminare.
-Da quando sono tuo cugino?- domandò Max, una nota di irritazione nella voce.
Con tono indifferente, dissi semplicemente la verità, che sembrò innervosirlo ancora di più: -Oh be', ero troppo impegnata a fare la conoscenza di quel ragazzo per preoccuparmi del fatto che tu sia mio cugino o meno.-
*****
-Da oggi abbiamo un nuovo compagno- annunciò la Martin, qualche minuto più tardi -Puoi entrare, Owen Sherman.-
Il ragazzo dai capelli castani fece il suo ingresso in classe. Fece una panoramica degli alunni con gli occhi. Poi il suo sguardo indugiò su di me e Owen sorrise.
*****
Non c'erano stelle, quella sera. Il cielo era buio, un imponente manto nero, osservatore silenzioso delle vicende terrene. Due figure si muovevano furtive negli stretti vicoli di New York. Una era più bassa e tarchiata, con uno strano fazzoletto sulla testa. L'altra, visibilmente più giovane, dimenava le braccia e scuoteva la testa, in preda ad un qualche attacco isterico. Spesso arrancava e con le unghie laccate di fucsia grattava i muri, creando rumori striduli che graffiavano la fresca aria notturna. All'improvviso la prima figura si fermò e si guardò intorno, alla ricerca di una possibile presenza. Poi, con mani tremanti, estrasse un sottile oggetto che brillava alla luce della luna. Con esso, quasi fosse un pennello, cominciò a disegnare strani vortici sul selciato. Dalla punta dell'oggetto scaturì una polverina argentata, che illuminò il vicolo. Una strana musica si diffuse nella notte. Melodiosa, calda, avvolgente. Sembrava portare con sé delle risate cristalline e canti ipnotici. Entrambe le figure rimasero a bocca aperta ed istintivamente aprirono le braccia, come per accogliere qualcuno. Le ombre intorno al cerchio si addensarono e vorticarono, fino a creare un piccolo tornado. Le carte che sporcavano il vicolo volarono via e le due figure si aggrapparono ad un muro scrostato per non cadere. Una luce brillò, e come era arrivato il ciclone se ne andò, adagiando al centro del cerchio una figura slanciata, che guardò le due sagome rannicchiate vicino al muro.
Il suo sorriso divertito fu un lampo bianco nell'oscurità. Con fare annoiato, fece cenno alle due figure impaurite di avvicinarsi, mentre si arrotolava una ciocca di capelli fra le dita affusolate. La prima figura si prostrò ai suoi piedi invocando il suo nome. Il fazzoletto che aveva intorno al collo cadde, rivelando la sua persona. Ora una donna vecchia e brutta guardava l'ombra con timore reverenziale. La seconda figura, invece, aveva cominciato a camminare in cerchio. L'ombra, con grazia eterea, le si avvicinò. La figura mostrò i denti sporchi di sangue e ringhiò con ferocia. L'ombra sogghignò, per poi rivolgersi alla vecchia. - Ben fatto, Clelia. La ragazza non ha ancora compiuto la sua totale trasformazione. Sarà una preziosa risorsa.- Raccolse un bastoncino da terra e lo lanciò nell'oscurità. Subito la figura scattò alla rincorsa del legnetto, ululando. - È stupida, ma veloce. Ingenua, ma feroce. Il tuo lavoro verrà ricompensato.- L'ombra si allontanò nel buio del vicolo, senza voltarsi indietro. Prima di scomparire, si rivolse alla vecchia con voce suadente- Aspettati dei cambiamenti, Clelia: si inizia a giocare.- Con un lampo argentato scomparve, lasciando le due figure sole nella stradina


COMMENTO AUTRICI: Niente, vogliamo ringraziarvi ancora per l'appoggio. Andiamo di fretta, di nuovo :') .
Continuate a seguirci, recensirci e metterci tra i preferiti. ;)
L'affetto è immenso, baci,
C&S

P.S. Un saluto speciale, anche se in ritardo, a clarissa_prior, che ci ha offerto importanti spunti per il CAPITOLO 4. 

 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 8 ***


PREMESSA: Dopo un ritardo di tre settimane e un giorno, ecco che aggiorniamo (non preoccupatevi, ci facciamo pena da sole sapendo quanto ci abbiamo messo per pubblicare questo capitolo).
Ad ogni modo, è il più lungo che abbiamo scritto finora. Cercheremo di non tardare più così tanto. Chiediamo venia! 

Ci "sentiamo" nel commento alla fine del capitolo. ;)
Buona lettura!



Svogliatamente, rigirai con la forchetta la frittata della mensa che avevo nel piatto. Non ero sicura che quelle cose marroni all’interno fossero commestibili…
Anche gli occhi di quel ragazzo nuovo erano marroni… Ormai erano passate due settimane da quando era arrivato a scuola. Chloe sosteneva che ci provava con me (-È chiaro come il sole, Sam… Non fa che sorriderti e avvicinarsi per parlarti… E non mi guardare così. Lui è carino, poi, che problema hai?-). E l’idea, a dire il vero, non mi disturbava affatto.
-Posso?- La voce del ragazzo dagli occhi color cioccolato mi fece sobbalzare.
Alzai gli occhi dal piatto e gli sorrisi. Alle sue spalle, vidi Chloe e Lucas che si avvicinavano con i vassoi. Appena si accorsero del ragazzo di fronte a me, mi mostrarono i pollici in su, ghignarono e diressero verso un altro tavolo. Stupidi migliori amici.
Guardai Owen. -Certo che puoi sederti… Non c’è problema, per me.-
Annuì in segno di ringraziamento e spostò la sedia di fronte a me, per poi sedercisi e poggiare sul tavolo il suo piatto.
-Allora…- fece, sorridendo goffamente e grattandosi la testa in modo adorabile. -Ti va di fare una passeggiata al parco, oggi pomeriggio? Central Park mi sembra perfetto, e so per certo che è bellissimo in questo periodo... Non so, potremmo mangiare un gelato e chiacchierare seduti sulla panchina.-
Chloe aveva ragione, quindi. Quello nuovo ci provava con me. Era la prima volta che un ragazzo lo faceva. Era una bella sensazione, dopotutto, sapere di piacere a qualcuno.
Giusto perché mi sembrava più dolce quando era imbarazzato, infierii: -Ehm... È gennaio. E fa un freddo cane: non credo che mangiare un gelato sia la scelta migliore.-
Owen proruppe in una risata nervosa. -Già, hai ragione... Comunque, l'invito è valido lo stesso... Sai, vorrei conoscerti meglio.-
Mi sentii avvampare. Fu in quel momento che capii che Owen non era per niente inesperto: quello era solo il suo modo timido per approcciarsi alle ragazze. La naturalezza con cui mi aveva appena chiesto di uscire era sconcertante. E io ero del tutto impedita, in quei casi. -Be'... Io...- balbettai. Ovvio che volevo conoscerlo meglio anch'io! -Certo- dissi infine.
Owen si illuminò. -Posso considerarlo un appuntamento?-
Arrossii ancora di più. -Sì- risposi, sorridendo imbarazzata e abbassando lo sguardo.
*****
 
Prima di uscire dalla mia stanza, mi guardai un'ultima volta allo specchio: scarponi, jeans e camicetta (per una volta avevo scelto quella che sembrava la più carina, rossa con le righine bianche e un taschino sul petto). Mi ero pettinata i capelli come meglio avevo potuto, ripassandoli almeno cinque volte con la spazzola e fermando il mio ciuffo ribelle -quello che mi cadeva sempre sugli occhi- con un ferretto. Avevo sgraffignato dei trucchi dal beauty-case di Isabelle, ma ero riuscita ad applicare solo un po' di mascara, che comunque, decisi, non mi stava affatto male. Mi misi a tracolla la borsetta blu che mi ero preparata, con il telefono e dieci dollari, giusto nel caso in cui mi fossi dovuta pagare uno spuntino; non avevo la più pallida idea di come funzionassero gli appuntamenti. Ma, come avrete già capito, avevo cercato di rendermi più decente del solito.
Come una cretina, sorrisi al mio riflesso prima di aprire la porta. La richiusi alle mie spalle e mi incamminai per i corridoi. Arrivata davanti all'ascensore, premetti il pulsante di chiamata e attesi. Quando mi si aprì di fronte, entrai. Mi lanciai un'altra occhiate nelle pareti di metallo, prima di schiacciare il tasto per scendere. Rimasi di spalle all'entrata, sentendo il rumore delle porte che si chiudevano cigolando.
Poi ci fu un suono secco, e quelle si bloccarono. Qualcuno fece il suo ingresso nell'ascensore, e avvertii un calore familiare che si avvicinava.
Lì per lì, lo ignorai.
Poi la voce di Max chiese: -Dove vai?- Mi girai sbuffando e alzando gli occhi al cielo.
Scrollai le spalle, fronteggiando IPC. -Non sono fatti tuoi- risposi, seccata.
Lui mi squadrò da capo a piedi. -E, di grazia, posso almeno sapere come mai sei vestita in modo femminile? O perlomeno più femminile del solito...- Si chinò in avanti per studiarmi meglio e si appoggiò alla parete
dell'ascensore mettendo una mano vicino al mio orecchio; aggrottai le sopracciglia. -Cosa hai agli occhi?-
Spostai lo sguardo alle sue spalle, ignorandolo e stringendo le labbra. Lo sentii inspirare.
-Hai messo il profumo?- Aveva un tono sbalordito.
Mi voltai verso di lui. Era vicinissimo. La sua faccia era a pochi centimetri dalla mia. Un brivido mi corse lungo la schiena mentre sentivo di aspettare qualcosa. Di preciso che cosa, non avrei saputo dirlo.
-Per l'Angelo, Herondale...- Si allontanò, e la prospettiva di quel qualcosa svanì nel nulla, lasciandomi con una sensazione amara nello stomaco. Delusione? No, impossibile. -Sul serio?- Mi lanciò un'occhiata divertita, nella sua voce potevo avvertire una nota canzonatoria. -Profumo al miele?-
Arrossii perché mi stava facendo montare la rabbia, con quella sua fastidiosa presa in giro. Ma soprattutto arrossii per la vergogna: avevo sempre criticato, tra me e me, quelle stupide ragazzine disposte a cambiare pur di piacere o farsi notare. Avevo visto compagne che, da un giorno all'altro, si truccavano pesantemente e si vestivano con un'attenzione paurosa, prediligendo abiti aderenti. Certo, non avevo esagerato così tanto... Ma, per un attimo, mi sentii abbastanza da schifo. Però, forse, volevo davvero piacere ad Owen. Possibile? Non ero mai stata veramente innamorata di qualcuno. O, perlomeno, non avevo mai preso delle cotte. Era questo che si provava? Per questo si era disposti a cambiare, per qualcuno a cui invece non avrei dovuto temere di mostrarmi interamente così com'ero?
-Allora?- La voce di IPC mi riscosse da quei pensieri, e capii che si aspettava davvero una risposta alla sua provocazione.
Fortunatamente, proprio in quel momento la porta dell'ascensore si aprì e io mi precipitai fuori. Lanciai un'occhiata a Max, poi distolsi subito lo sguardo e mi allontanai, sentendo la nuca formicolare sotto i suoi occhi circospetti.
Appena prima di chiudere i pesanti battenti del portone alle mie spalle e sentire quella fastidiosa sensazione attenuarsi, udii il tono infastidito di IPC: -Grazie per l'eloquenza!-
*****
 
La neve era stata ammucchiata lungo i cigli dei sentieri, ma potevo sentire ugualmente lo scricchiolio del ghiaccio che si frantumava sotto gli scarponi. Mi persi qualche secondo ad osservare le nuvolette di fiato condensato che uscivano dalla mia bocca, regolari come il mio respiro scandito dai passi. Rallentai in prossimità di una grande quercia, dove Owen mi aveva dato appuntamento.
E lui era lì, la schiena poggiata sul tronco. Si mise dritto non appena mi vide, sorridendo. Per l'Angelo, quanto sorrideva! Mi si avvicinò a grandi falcate. -Cosa ti va di fare?-
Alzai un angolo della bocca, imbarazzata... Ho già detto che non ero per niente pratica di quelle cose? -Quello che vuoi.- La mia voce risultò leggermente stridula. -Voglio dire...- ripresi -Possiamo fare quello che avevi programmato... Se hai già programmato qualcosa, intendo.-
Owen si illuminò. -Be'- disse -effettivamente, la mia idea di appuntamento non è molto pretenziosa. Sai, vorrei solo camminare un po' e chiacchierare, in modo che possiamo apprendere qualcosa di più l'uno dell'altra.- Si grattò il mento, pensieroso. -Poi potremmo sederci su una panchina e mangiare un gelato... Lo so che fa freddo, come hai detto
stamattina tu stessa, ma sarebbe super-speciale mangiare un gelato con questo freddo, non trovi? Non sarà difficile trovare un carretto che li vende.-
Risi piano. -Ti piace l'originalità, quindi?-
-Ovvio! È per questo che mi sei piaciuta subito... Hai qualcosa di particolare, diverso da tutte le altre ragazze.- Lo disse con una leggerezza tale da sconvolgermi.
Sentii le guance andare a fuoco. -Ecco...- dissi. -Grazie... E scusa se non so cosa aggiungere. Queste cose non sono il mio forte.- Stirai la faccia in un sorriso imbarazzato.
-Non preoccuparti!- mi rassicurò. -Anche perché sei carina quando diventi tutta rossa.-
Risi e rise anche lui. Poi si fece più serio. -Allora, andiamo? Suppongo che sarebbe troppo chiederti di darmi la mano, vero?-
Annuii convinta e lui ridacchiò. -Tanto ti convinco, prima o poi!-
-Sappi che sono testarda- dichiarai solennemente. Sorridemmo entrambi mentre cominciavamo a camminare.
*****
 
Stare con Owen era piacevole. Per tutta la durata dell'appuntamento era stato gentile, e carino, e divertente. Avevo passato un paio di ore di relax, passeggiando per il parco, ridendo, parlando, e ora ero seduta con lui su una panchina sotto una quercia.
Dalla tasca di Owen provenne il suono di un messaggio. Tirò fuori il cellulare e lesse qualcosa sullo schermo. Si accigliò. -Oh, cavolo...-
-Cosa c'è?- chiesi.
Mi guardò. -Mi spiace- rispose. -Mia madre dice che devo tornare a casa... C'è un problema.-
-Tutto bene?- domandai.
-Sì, sì... Non preoccuparti. Non è niente di grave. Ha solo bisogno di me.- Si alzò in piedi e mi scrutò. -Magari potresti accompagnarmi fino all'uscita. Che ne dici?-
-Va bene.- Annuii, un po' delusa.
 
Eravamo quasi all'uscita, e stavamo passando sotto i rami di un albero. Owen si mise di fronte a me. -Allora, ci vediamo domani a scuola.-
-Certo.- Sorrisi. -Davvero... Non hai idea di quanto sia dispiaciuto.... Avremmo potuto stare un po' di più insieme, oggi pomeriggio.-
Mi sentii mortificata solo per il tono triste che aveva usato. -Non c'è problema- dissi. -Non è colpa tua. Dovremmo rifarlo, qualche volta... Mi sono divertita, grazie mille.-
-Grazie a te- sorrise -per aver accettato il mio invito. Anche io sono stato bene, oggi.- Poi fece una cosa del tutto inaspettata: allungò una mano fino a prendere la mia, e si avvicinò piano. Divenne sempre più vicino, ancora più vicino.
Capii cosa stava succedendo quando chiuse gli occhi, le sue labbra a un soffio dalle mie.
Come mi sentivo? Be', stavo per dare il mio primo bacio: di sicuro provavo una strana sensazione. Non saprei descriverla precisamente: ero spiazzata, e impaziente al tempo stesso. Volevo dare il mio primo bacio a Owen, non mi sarei tirata indietro, sebbene avessi timore di sbagliare qualcosa. Chiusi gli occhi anche io, sentendo il calore del suo fiato e delle sue labbra quasi sulle mie.
Poi ci fu un rumore secco, come di ramo che si spezzi. Un ramo grosso.
Owen spalancò gli occhi e balzò all'indietro, colto alla sprovvista come me.
-Cosa è stato?- chiesi.
-Non so- rispose Owen. -Mi dispiace solo che ci abbia interrotti...-
Arrossii. -E ora?-
-Mi piacerebbe riprendere da dove ci eravamo fermati... Ma, purtroppo, sono un romantico, e voglio che si ricrei un'atmosfera speciale prima di baciarti.-
Scoppiai a ridere. -Allora sei proprio fissato.-
All'improvviso, si avvicinò e mi zittì con un bacio sulla guancia. Sorrise. -Questo non valeva, sappilo.-
-D'accordo- acconsentii, sollevando un angolo della bocca.
Owen si allontanò e uscì dal cancello, mentre ci salutavamo con la mano.
Stavo per andarmene anche io, poi ci fu una serie di rumori uguali a quello che aveva interrotto me e Owen. Provenivano decisamente da dietro il tronco dell'albero. Il mio primo pensiero fu un demone.
Mi avvicinai lentamente, cominciando a girarci intorno.
In un attimo, qualcuno si buttò su di me e mi tappò la bocca. Quel calore. Quell'odore.
-Non sopporterei un tuo urlo, quindi prometti di non gridare quando ti avrò tolto la mano dalla bocca. Sei già insopportabile se parli normalmente- sibilò la voce di IPC.
Mi sentii il sangue ribollire nelle vene da quanto ero incavolata. Tirai un morso alla mano di Max, che mi lasciò andare in un battibaleno, scuotendo il braccio e soffiandosi sul palmo, dove c'era il segno dei miei denti.
-Dico, sei diventata pure cannibale, adesso?! Non ti bastava essere una semplice squilibrata?-
-Tu mi stavi spiando!- lo accusai. -Mi hai seguita e mi hai spiata-
-Senti...- provò a dire.
-Senti un corno!- sbraitai. -Stavolta hai esagerato...- Facendo due conti, riuscii anche a capire qualcos'altro. E quello che avevo capito, glielo vomitai addosso: -Sei stato tu a fare rumore, prima! Sei stato tu ad interromperci... Come ti sei permesso?-
-Perdonami, ma sono caduto dall'albero. Non era mia intenzione bloccare il tuo amichetto prima che ti divorasse la faccia con le labbra…- disse, con un sarcasmo che mi attaccò i nervi.
-E cosa ci facevi sull'albero? Mi stavi spiando, ecco cosa! Non ho bisogno che tu mi faccia da balia anche per queste cose, capito? Non sono affari tuoi.-
-Dì un po'...- m'interruppe. -Quando ti mostrerai al tuo amico in tutta la tua odiosità? Tanto prima o poi si accorgerà da solo che sei impossibile... O forse, non so, é solo stupido e per questo ti vede come la persona più squisita del mondo.-
Quelle parole mi fecero imbestialire ancora di più e mi ferirono al tempo stesso. -Sai che ti dico?- lo provocai. Pensai solo a cercare di farlo sentire in colpa per quello che mi aveva appena detto. Lo guardai negli occhi, quasi facendomi venire il torcicollo. -"Odiosità" mi sembra un po' troppo grossa come parola, soprattutto detta da te. E non mi ero accorta di essere talmente tanto impossibile che sei costretto a pedinarmi per farmi la predica ogni volta. E nessuno ti obbliga a farlo: se mi trovi così odiosa, puoi anche non parlarmi più. Non importa, per quanto mi riguarda. Fa' come ti pare, così puoi odiarmi in silenzio e siamo tutti più contenti. E quello assurdo sei tu, se sei convinto che qualcuno deve essere stupido per volermi frequentare.-
Lo vidi interdetto per qualche secondo. Forse si stava ripetendo mentalmente gli insulti che mi aveva rivolto. Dalla sua espressione, sembrava aver capito di avere esagerato: era stato troppo serio mentre mi inveiva contro, non aveva sfoggiato il solito ghigno che contrassegnava i nostri litigi, le reciproche provocazioni, i battibecchi. E anche dai suoi occhi lo potevo capire, perché non avevano mai avuto un colore tanto ombroso.
Mi sentii una stupida quando avvertii gli occhi che pungevano.
-Non intendevo...- cominciò Max a bassa voce, improvvisamente più tranquillo.
Puntai lo sguardo alla mia altezza, esattamente sotto il suo petto che si alzava e si abbassava velocemente. -Invece intendevi proprio quello- lo bloccai, il tono fermo. -Io sarò impulsiva nei fatti, come tutti mi accusate di essere... Ma almeno penso alle cose, prima di dirle. Lo sai, la gente potrebbe non rimanerci tanto bene, se la insulti in questa maniera.- Anche se ero tentata, non alzai gli occhi per verificare l'effetto delle mie parole. Semplicemente, scossi la testa e mi girai, avviandomi.
Dopo qualche secondo, IPC mi richiamò: -Ehi, aspetta!-
Cominciai a camminare più velocemente quando udii i passi di Max che si avvicinavano, ignorandolo.
Poi riuscì ad afferrarmi il polso; un brivido mi scese lungo la schiena, ma attribuii la colpa al freddo. Max aveva la mano calda, e mi chiesi come fosse possibile, dal momento che, come me, non indossava i guanti, ma io avevo la mano ghiacciata.
Un'ondata di calore mi investì, e sciolse il freddo che mi stava congelando. Guardai a terra. Ai lati del sentiero c'era ancora la neve. Non era fresca, era molle, perché ormai aveva smesso di nevicare.
Mi ricordai di quando, da piccoli, io e Chris facevamo i pupazzi di neve. Avevamo smesso quando io avevo dieci anni. L'ultimo l'avevamo costruito a gennaio, e io avevo compiuto gli anni il 18 settembre. È stato in quell'anno che Max è veramente entrato nelle nostre vite. Prima lo vedevamo solo in occasione delle feste come Natale o il compleanno dei nostri genitori, e comunque lui giocava quasi solo con Chris (-Perché non giocate anche con tua sorella, Christopher?- -Ma lei è una femmina, mamma!).
Quando avevo saputo che Simon, il mio zio preferito, si sarebbe trasferito nel nostro Istituto, ero stata felicissima. Non sapevo che nel pacchetto era compreso un bimbetto arrogante.
-Ti ricordi di Max, Sammy?- mi aveva chiesto Simon, indicando il ragazzino moro accanto a lui. All'epoca avevamo la stessa altezza.
Avevo squadrato quel bambino dagli occhi caleidoscopici. Era cresciuto dall'ultima volta che l'avevo visto. Prima era più basso di me di uno sputo. Non sembrò tanto male, all'inizio. Dopo qualche giorno, però, avevamo avuto la nostra prima litigata. Credo fosse perché mi aveva calpestato per sbaglio una copia di Harry Potter (in quel periodo io e Chloe ci stavamo appassionando alla lettura, e Harry Potter era sacro. Ecco perché mi ero arrabbiata un sacco). Avevo cominciato a urlare contro al piccolo IPC, e poi si era incavolato pure lui perché sosteneva che lo stessi accusando ingiustamente. Ma io lo avevo visto con i miei occhi.
Tornai con la mente al presente e mi chinai. Con la mano libera dalla stretta di Max presi un mucchietto di neve.
-Cosa stai facendo?- domandò IPC.
Non risposi. Cercando di non fargli vedere niente, gli diedi le spalle. Compattai la neve in una palla, ignorando il freddo del ghiaccio. Mi alzai in piedi.
Max mi guardò con aria interrogativa, aggrottando le sopracciglia.
Arricciai le labbra e gli tirai le neve in faccia.
-Ma sei matta?!- urlò, lasciandomi il polso. -È ghiacciata!-
-È neve, Capitan Ovvio... Unita alla mia vendetta.- Sorrisi beffarda.
Prima che potessi fare qualsiasi cosa, una palla di neve mi colpì in testa, spiaccicandosi sui capelli. Seguì una risata da parte di Max.
Mi scossi via la neve dalla faccia e ne raccolsi un altro po', facendo una palla. Colpii IPC sul piumone, proprio sul petto.
Da quel punto in poi cominciò una vera e propria battaglia: sempre più velocemente ammucchiavamo un po' di neve, la compattavamo in delle sfere e poi ce la lanciavamo. Cominciai a ridere davvero. Non per sarcasmo o per provocare Max... Solo perché mi stavo divertendo.
E anche Max rideva. E non per sfottermi, lo potevo sentire. Questa risata era diversa, era vera. Mentre era chinato per prendere altra neve, dandomi le spalle, mi preparai ad attaccare: data la differenza di altezza, quella era l'unica occasione che avevo per colpirlo proprio sulla testa.
Corsi verso di lui e caricai indietro il braccio per tirare. In quel momento cominciò ad alzarsi. Gli fui addosso con tutto il mio peso, e Max, preso alla sprovvista, barcollò e cadde all'indietro sulla neve, e io sopra di lui.
Continuammo a ridere come matti, e sentivo il suo petto tremare per le risate contro il mio.
Poi Max si fece serio all'improvviso. -Che c'è?- domandai d'istinto.
-Aspetta...- fece. Corrugò la fronte e allungò una mano verso di me, poi la posò sui miei capelli. Cominciò a scuoterli. -Hai la neve impigliata nei capelli- disse semplicemente.
-Ah- grugnii. Un altro brivido mi attraversò il corpo.
Max se ne accorse. -Hai freddo?- mi chiese, con indifferenza.
-Io non...- cominciai. Poi mi bloccai quando IPC mi mise le mani sui fianchi, e sentii lo stesso strano calore che avevo provato al ballo di Natale.
-Conviene che ci alziamo, Herondale. So che starmi addosso è un'esperienza irripetibilmente fantastica... Ma stai cominciando a congelare sul serio.-
Arrossii violentemente e lo colpii leggermente sul petto con una mano. -Forse hai troppa stima in te stesso- borbottai.
-Vuoi forse negare- chiese sconvolto -che ti stia piacendo?-
Stava solo facendo delle battute, lo capivo dal tono palesemente finto delle sue parole. Però mi sentii ugualmente in imbarazzo. -Sta' zitto- mugugnai, mentre mi alzavo. Quando fui in piedi, si mise su anche lui. Tremai per il freddo, perché la neve nei capelli mi aveva davvero fatta ghiacciare.
-Hai una molla per capelli?- chiese, pensieroso.
-Ah, allora hai finalmente deciso di dichiarare il tuo lato femminile? Sai, credo però che dovrai farti crescere i capelli, prima di metterti i fermagli- dissi.
Max sbuffò. -Ce l'hai o no?-
Alzai gli occhi al cielo e mi sollevai di poco la manica, per scoprire il polso dove tenevo sempre un elastico di emergenza. Me lo sfilai e glielo passai.
Senza alcun preavviso, IPC si mise alle mie spalle e cominciò ad armeggiare con i miei capelli.
-Che fai?- chiesi. Non mi piaceva quando mi toccavano i capelli. Eppure non insistetti perché la piantasse.
Max non rispose. Cominciò a fare una coda di cavallo. Passarono un paio di minuti. Mi girò intorno. Quando mi fu di fronte, fece un'alzata di spalle. -Hai i capelli bagnati. Ti raffreddi se li tieni sciolti sul collo- disse con noncuranza, rispondendo alla mia espressione interrogativa. -E ora torniamo all'Istituto...-
-Comunque- feci, con aria altezzosa e mettendomi in punta per scuotergli l'indice sotto il naso -sono ancora incazzata nera con te per quello che hai fatto e detto.-
-Ecco,- replicò con un ghigno -vedi che sei insopportabile?-
-Senti chi parla!-
Scoppiò a ridere e si batté un colpo sulla fronte. -Be', forse non hai tutti i torti...-
-Alleluia!- esultai, alzando gli occhi al cielo e cominciando a camminare. Mentre passavo accanto a Max, lo spinsi di lato.
Tornammo a casa fianco a fianco, prendendoci a spallate. O meglio, lui mi prendeva a colpi di costole, data la differenza di altezza.
*****
 
 
Il giorno dopo stavo camminando lungo i corridoi della scuola. Mi diressi verso l’aula di storia. L’ultima cosa che desideravo era passare un’ora intera a sentire la Martin mentre lodava la brillante perspicacia di Max. Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. L’unica nota positiva in quella melodia di negatività era che avrei rivisto Owen. Oh sì, quegli occhi nocciola e quel sorriso tenero mi  avrebbero decisamente salvato dall’oblio. Sorrisi. Non mi ero mai sentita così a mio agio con qualcuno. Owen mi faceva sentire sicura.
L’irritante suono della campanella mi riportò alla triste realtà. Cercai di riafferrare la sua immagine, ma essa sfuggì, insieme alla mia (alquanto breve) felicità. Con passo lento e pesante raggiunsi l’aula. Biascicai un ”buongiorno” e presi posto al mio solito banco.
L’aula era ancora semi vuota, e la Martin continuava a fissare irritata il grande orologio alla parete, pronta a riprendere i poveri ritardatari.
Preparai l’occorrente per la lezione: posizionai il borsellino e il diario davanti a me, creando un impenetrabile barriera contro la noia.
Dopo un po’ di minuti la classe si riempì e la lezione cominciò, per l’immensa gioia della sottoscritta. Annoiata, iniziai a scarabocchiare una runa sul libro di storia. Gettai lo sguardo sul secondo banco della prima fila, sperando d’incontrare lo sguardo di un paio d’occhi castani. Invece vidi soltanto un banco vuoto.  Sospirai, frustrata.
All’improvviso sentii il mio cellulare vibrare. Attenta a non farmi vedere dalla Martin, lo estrassi dalla tasca dei jeans ed osservai lo schermo. Owen mi aveva appena mandato un messaggio. Con trepidazione aprii la notifica e lessi tutto d’un fiato le poche righe:
 
Sei libera stasera, dolcezza? Okay, ignora la mia frase baldanzosa. Stasera i miei non ci sono, quindi organizzo una festa a casa mia (ti invio l’indirizzo via mail). Ovviamente tu sei invitata. E non accetto un no come risposta. Anche a costo di portarti di peso. Sai, sto ridendo come un matto immaginando la tua faccia in questo momento… Comunque non sto scherzando, Sam. Devo dirti una cosa importante. Ti aspetterò con ansia.
Baci,
Owen
 
Lo rilessi altre due volte. Sorrisi leggendo la prima parte del messaggio, immaginando lui che mi caricava sulle spalle e mi portava a casa sua. Povero, ingenuo, dolcissimo Owen. Pensai che se solo avesse saputo della mia abilità nel karate, non avrebbe detto così.
Ma il resto dell’sms…di che cosa mi doveva parlare? Un brivido freddo mi attraversò. Avevo una brutta sensazione. Avevo forse fatto qualcosa di sbagliato? Rimisi il telefono in tasca ed iniziai a tormentarmi il labbro. In preda all’ansia cominciai a muovere il piede e arrotolai una ciocca di capelli fra le dita. Forse Owen si era reso conto che non ero perfetta...
Passai il resto della lezione a scervellarmi sul motivo di quel messaggio. Cosa intendeva Owen con quel “ devo dirti una cosa importante”?
La campanella suonò ed io, veloce come la luce, mi fiondai fuori dalla classe. Ero intenzionata ad andare in fondo alla questione: sarei andata alla festa.
*****
 
Guardai sconsolata il mio piccolo e male assortito armadio. Era da circa due ore che cercavo qualcosa da mettermi, ma non avevo avuto successo. Mi misi le mani fra i capelli e mi sedetti sul letto, sconsolata. Non avevo alcuna speranza di far colpo su Owen. E pensare che avevo pure rubato un vestito di mia madre! Ma zia Isabelle aveva ragione: un demone aveva più buon gusto. Mi portai le ginocchia al petto e cercai di non cedere al panico crescente. Calma Sam, calma. Alla fine devi solo trovare qualcosa da mettere alla festa del tuo quasi-ragazzo. Ce la puoi fare. Hai affrontato cose ben peggiori. 
Gettai una fugace occhiata al mio armadio non-proprio-fornito e mi alzai. Strinsi i pugni ed ignorai le t-shirt sul pavimento, per non parlare delle canottiere sporche ammucchiate in un angolo. Feci due respiri profondi… E cominciai a piagnucolare disperata.
Mi rimaneva solo un asso nella manica, e avevo intenzione di sfruttarlo. Mi misi lentamente in ginocchio e giunsi le mani. Cominciai a dondolare avanti e indietro, e con voce solenne proclamai: -Oh, grande Raziel, tu che hai dato origine alla mia nobile stirpe, aiuta una tua fedele discepola. Io Ti imploro: manda dal cielo un vestito per me (lo vorrei semplice, né troppo corto né troppo attillato, possibilmente senza lustrini. Ma decidi Tu: nutro un immensa fiducia nel Tuo angelico buon gusto). Se puoi, oh Grande Angelo, manda anche un paio di scarpe. Sono fermamente convinta che le mie Converse non siano degne del tuo Magnifico e Angelico abito. Oh, Raziel, così io ti prego. Esaudisci la richiesta della tua umile e disperata seguace.-
Continuai ad invocarlo per una buona mezz’ora, ma niente cadde magicamente dal cielo. Arrivai alla conclusione che le schiere celesti avessero esaurito la scorta di abiti per ragazze in piena crisi adolescenziale.
Ora ero chiaramente, assolutamente, inequivocabilmente nella merda. Cominciai a saltare disperatamente nella stanza, pensando ad una soluzione. Decisi di affrontare la questione in maniera razionale ed obiettiva.
Problema: Owen, il mio quasi-ragazzo, voleva piantarmi alla sua festa. Be’, tecnicamente non poteva piantarmi perché non stavamo ufficialmente insieme.
Soluzione: dovevo assolutamente fare cambiare idea a Owen. In fretta. Gli avrei dimostrato che anche io potevo essere una ragazza graziosa e raffinata.
Ed ora la domanda da un milione di dollari. Come potevo fare? Guardai il mio riflesso nel piccolo specchio appeso alla parete: avevo i capelli in disordine e un’aria assatanata. Pessimo inizio: Owen mi aveva notata tra decine di ragazze più belle ed educate. Forse avrei dovuto solo essere me stessa... Ma avevo il terrore che non sarebbe bastato.
Gettai un’ultima occhiata al mio riflesso e decisi: sarei stata semplicemente come ero sempre stata, sperando che Owen mi avrebbe accettata con tutti i miei difetti (che erano relativamente pochi), le mie imperfezioni (praticamente inesistenti) e le mie incertezze (nulle).
Mi legai i capelli, agguantai una mascherina anti-gas e aprii le ante dell’armadio.
*****
Mi rimirai per l’ultima volta nello specchio. Dovevo ammettere che ero quasi accettabile: i capelli biondi cadevano ondulati sulle spalle e disegnavano onde sinuose sulla schiena. Indossavo i miei jeans preferiti ed una semplice camicia bianca. Non mi facevano sembrare una modella, ma mi slanciavano. Non mi ero truccata, ma i miei occhi dorati mi restituirono uno sguardo soddisfatto: ora ero pronta. E in ritardo.
Ignorai la situazione pietosa in cui si trovava la mia stanza e mi preparai per uscire. Sarebbe stata una serata memorabile. Preparati, Owen, pensai, Samantha Herondale sta arrivando.
*****
 
Rimasi a bocca aperta guardando la grande villa stracolma di ragazzi. Owen aveva riscosso sin da subito molta popolarità, ma non credevo conoscesse tante persone.
Individuai con facilità due membri della squadra di football della scuola che facevano a botte, attorniati da gente che urlava e li incitava a darci dentro. La musica ad alto volume risuonava per la strada e dal grande balcone intravedevo ragazzi che ballavano e si scatenavano. Cominciai a sudare freddo e mi asciugai le mani sulla camicetta, a disagio: non amavo le feste, anzi le evitavo il più delle volte, e c’ero sempre andata con Chloe e Lucas. Invece ora ero sola, e l’agitazione cresceva.
Imboccai il vialetto ed entrai senza bussare. Dentro la casa il rumore era assordante e la musica rimbombava nella mia testa, confondendomi. Mi guardai intorno: c’era un lungo tavolo con alcolici di ogni tipo e patatine in quantità industriale, e al centro della stanza c’era la postazione del dj che, dovevo ammetterlo, stava facendo un ottimo lavoro. Mi avvicinai alla calca di gente, cercando con gli occhi Owen. Mi feci spazio fra ragazzi accaldati e scatenati, che si muovevano a ritmo di musica, mentre cercavo disperatamente un paio di occhi nocciola. Ma dov’era finito?
Riuscii a fatica a raggiungere la cucina. Entrai e mi poggiai al muro, tentando di calmare il battito affannoso del mio cuore. Ma anche lì non ero sola: chi si ingozzava di patatine, chi vomitava nel lavabo, chi si scambiava baci lascivi sul tavolo. Ispezionai la sala in cerca di Owen, ma non lo vidi da nessuna parte. Cominciai ad innervosirmi: perché aveva insistito tanto in modo che venissi alla festa, se poi non si presentava? Sbuffai.
Stavo per tornare nel salone, quando due braccia mi avvolsero da dietro e mi strinsero. Mi girai, decisa a non dargliela vinta.
I suoi occhi nocciola mi fissarono contenti mentre aumentava la presa sui miei fianchi. -Dov’eri finita Sam? Ti ho cercata dappertutto.- esclamò lui.
Lo guardai indispettita -In realtà io ti stavo cercando, ma non eri da nessuna parte. Credo tu mi debba una spiegazione, dolcezza.-
Owen mi guardò, per poi piegarsi in due dalle risate, allentando la presa su di me.
Mi allontanai irritata. Ma cosa ci trovava di così divertente? 
Alzò gli occhi su di me e mi sorrise, sussurrando: -Lo sapevo che non avrei dovuto chiamarti così… Ma non ho resistito. La tua faccia è semplicemente fantastica.-
Lo guardai allibita, ma la sua risata era contagiosa. Gli sorrisi e gli buttai le braccia al collo, scordando per un attimo la timidezza che mi assaliva quando ero in sua presenza. -Solo per questa volta ti perdono. Ma non farlo mai più.-
Lui sogghignò e mi condusse nel salone.
La musica mi assordò e feci fatica a seguire Owen nella calca, che era aumentata rispetto a quando ero arrivata. Mi aggrappai alla sua maglietta e lui mi portò sulla pista da ballo e cominciò a muoversi a ritmo, prendendomi per la mano.
Cercai di apparire disinvolta, ma non ero esattamente una brava ballerina, ed odiavo l’aria calda e soffocante che mi avvolgeva. Dopo un paio di balli, ero sudata ed avevo i capelli appiccicati alla fronte.
Owen mi urlò qualcosa, ma nel casino generale non riuscii a capire una parola. Allora lui mi si avvicinò e gridò: -Vado a prendere qualcosa da bere. Aspettami qui.-
Annuii e continuai a ballare. Curiosa, gettai un’occhiata intorno a me. Dappertutto c’erano ragazzi che di dimenavano. La maggior parte di loro aveva una bottiglia di birra in mano e l’aria un po’ persa, tipica di chi è ormai sbronzo. All’improvviso una ragazza mi urtò, rovesciando il contenuto della sua bottiglia sulla mia camicetta immacolata, creando una macchia, che si allargò sempre più. La camicia divenne appiccicosa e puzzolente. La squadrai con occhi inviperiti.
Indossava un miniabito viola e dei tacchi a spillo che più che scarpe sembravano dei trampoli. Aveva circa diciassette anni e un’aria decisamente ubriaca. Biascicò un indistinto “scusa” e si dileguò tra la folla. Come si era permessa quell’oca senza cervello? Ci avevo messo tre ore per scegliere quella fottuta camicetta! 
Con passo deciso, spintonai un paio di ragazzi e mi diressi in cucina. Agguantai un tovagliolo e lo premetti sulla camicia, nel disperato tentativo di far sparire quella dannata macchia. Se possibile, peggiorai la già disastrosa situazione. Sbuffai esasperata ed inveii contro quella stronza che mi aveva appena rovinato la serata. Ma si poteva essere più idioti? Per di più, la camicetta era diventata semi trasparente, lasciando intravedere il mio ventre e le spalline del reggiseno.
Disperata, tornai nel salone. Volevo dire a Owen che per me la festa era finita e che tornavo a casa. Lo intravidi al bancone degli alcolici e mi diressi verso di lui.
Aveva in mano un bicchiere e stava versando un liquido ambrato da una bottiglia. Era serio e fissava attento lo scorrere del fluido.  Appena mi vide, smise di versare la bevanda, e poggiò frettolosamente la bottiglia sul tavolo. La sua espressione seria fu sostituita da un sorriso a trentadue denti, mentre mi porgeva il bicchiere. Mi fissò ed indicò perplesso la mia camicetta.
Gli feci cenno di lasciar perdere: il solo pensare a quella stronza mi irritava profondamente.
Owen si versò un bicchiere di sambuca e mi prese dolcemente la mano, mentre mi conduceva su per le scale. Lo seguii incuriosita e timorosa: forse stava per dirmi il motivo per cui aveva insistito affinché andassi alla festa. Mi tornò in mente il suo messaggio: devo dirti una cosa importante. Il rumore assordante della musica diminuii a mano a mano che salivamo, diventando solo un flebile suono. Raggiungemmo il pianerottolo.
A quel punto Owen mi attirò a se, stringendomi.
Sentii distintamente il tessuto della sua t-shirt contro quello della mia camicia umida. Un dolce tepore si diffuse sul mio petto.
Owen mi baciò la guancia e mi fece alzare lo sguardo su di lui.
Era bello, anche nel buio. I suoi occhi brillavano divertiti, mentre rafforzava la presa sul mio fianco.
Lo osservai incantata. Era la prima volta quella sera che eravamo solo noi due. -Non bevi il tuo drink, Sam?- domandò piano. -Ti giuro che ho preso il meno forte… Ho la sensazione che non reggi l’alcool.- Mi sorrise.
Fissai la bevanda: sembrava tequila, ma aveva uno strano (seppur inebriante) odore. Avvicinai il bicchiere alle labbra e buttai giù un sorso. Non avevo mai assaggiato nulla di simile, ma il sapore non era male. Il liquido mi scese lungo la gola, irradiando un calore bruciante. Alzai lo sguardo su Owen, che sorrideva soddisfatto.
All’improvviso mi spinse contro il muro, ed avvicinò il suo viso al mio.
Riuscii a contare le lentiggini sul suo naso e avvertii il leggero odore di sambuca del suo alito. Lo guardai negli occhi nocciola. Il giorno precedente eravamo stati interrotti prima del bacio. Ora bramavo quel contatto. -E’ un’atmosfera abbastanza romantica, Owen?- Fissai le sue labbra sottili e, quasi involontariamente, mi avvicinai a lui.
Owen fece lo stesso, e ci trovammo a pochi centimetri l’uno dall’altra.
Stavo per annullare le distanze tra noi due, quando un risolino acuto mi fece voltare di scatto. Quello che vidi mi raggelò il sangue nelle vene. Era la stronza di prima, solo che ora era avvinghiata ad un ragazzo alto e muscoloso, palesemente infastidito dalle sue continue attenzioni. Prima che lui potesse respingerla, lei cominciò a sbottonargli la camicia.
Owen tossì irritato, cercando di richiamare la loro attenzione.
La stronza si girò sorridente mentre continuava a cercare di sfilare i bottoni dalle asole. Lui si voltò, circospetto.
Inizialmente, nell’oscurità, non riuscii a riconoscerlo. Dopo che i miei occhi si furono abituati al buio, misi a fuoco il suo volto. Non riuscii a nascondere il mio stupore quando vidi quegli occhi verdi.
Cosa cazzo ci faceva Max alla festa? E non stava con Kara, lui che comunque non cacciava quella smorfiosa col vestito viola?
Anche Owen lo riconobbe, perché sbuffò sonoramente e si allontanò da me.
IPC mi lanciò uno sguardo duro, penetrante. Non riuscii a reggere il confronto con i suoi occhi, così abbassai lo sguardo.
-Si può sapere cosa ci fai qui, Lewis?- sibilò Owen.
In preda al nervosismo bevvi un altro sorso del mio drink. Cominciò a girarmi la testa.
-Già soffri di demenza senile, Sherman? Sei stato tu ad invitarmi alla tua insignificante festa. Piuttosto, non dovresti essere giù a prenderti cura dei tuoi ospiti? È in corso una rissa nella cucina. Ti consiglio di affrettarti, se non vuoi essere costretto a chiamare un’ambulanza.-
Ebbi la netta sensazione che Max lo stesse minacciando, ed in maniera neanche tanto velata. Sentii Owen irrigidirsi accanto a me, mentre squadrava con odio IPC.
Gli strinsi la mano e gli feci cenno di andare a controllare la situazione al piano di sotto: dopotutto, lui era il padrone di casa.
Owen si girò verso di me e mi baciò all’angolo della bocca, delicatamente. Poi guardò vittorioso Max e si diresse verso le scale, saltando gli scalini a due a due.
Sentii lo stomaco contorcersi in una morsa dolorosa, mentre con  un gesto involontario portavo la mano sulle mie labbra, nel punto dove Owen mi aveva baciata. Non ebbi il tempo di metabolizzare la cosa, che qualcosa attirò la mia attenzione.
La stronza stava continuando a strusciarsi su Max, cercando di toglierli la camicia bianca. Lui, ora, non faceva niente per contrastarla. Mi guardava in modo imperturbabile.
Ero sicura di aver visto un lampo d’ira nei suoi occhi, ma sicuramente mi sbagliavo. Con un gesto stizzito tracannai ciò che restava del mio drink, mentre la testa cominciava a pulsare. Barcollai un po’ e superai IPC e la stronza, per dirigermi verso il piano inferiore.
 
Era ormai mezz’ora che ballavo da sola in mezzo alla gente ubriaca. Owen non si era più fatto vivo, ed io iniziavo a non sentirmi troppo bene: mi girava la testa e lo stomaco bruciava. Sempre continuando a muovermi a ritmo di musica mi avvicinai al muro e mi poggiai contro di esso. Mi presi la testa fra le mani e piagnucolai. Mi sentivo totalmente ubriaca, eppure avevo bevuto solo un fottuto drink. Piegai le ginocchia e mi sedetti sul gelido pavimento. Chiusi gli occhi. Cominciai a sudare ed ondate di calore mi investirono. Ma che cazzo avevo bevuto? 
All’improvviso, una fitta al ventre mi riscosse dai miei pensieri, e aprii gli occhi. Vidi nero. Andai nel panico. Iniziai a sfregare le mani sugli occhi, sperando di riuscire a vedere come prima. Socchiusi le palpebre, ma misi a fuoco solo ombre indistinte. La mia testa fu scossa da pulsazioni dolorose, che sembravano seguire le note della canzone appena messa dal dj. Ritentai, ma non ottenni risultati rilevanti.
Mi rimisi in piedi a fatica, mentre i capelli mi si erano attaccati alla fronte. All’improvviso riuscii a distinguere un’ombra più nitida delle altre. La seguii, mettendo le mani davanti a me per evitare di cadere. Così facendo, arrivai al centro della pista da ballo.
E lì, in mezzo ad ombre confuse e al vociare indistinto, una figura mi apparve chiara e nitida: Max stava ballando con una ragazza, probabilmente con la stronza. Dovetti ammettere che sapeva muoversi davvero bene. Sotto l’effetto dell’alcol, pensai che fosse innegabilmente il ragazzo più attraente in tutta la sala, anche migliore di quelli dell’ultimo anno che avevano un aspetto più adulto del suo. Era circondato da decine e decine di ragazze. Piccoli rivoli di sudore scendevano dal suo collo, per poi seguire la linea degli addominali che si intravedevano dalla camicia mezza sbottonata. La musica cambiò, e con essa il ritmo. Max si muoveva bene, in maniera aggraziata.
Una delle cose belle dell’alcol è la totale mancanza di freni inibitori. Ogni singola cellula del mio corpo voleva andare a ballare con lui. Sentii ogni muscolo contrarsi. Non sapevo se fosse odio o qualche altro sentimento a me sconosciuto, ma mi mossi verso Max. Gli toccai una spalla, facendolo voltare.
Lui tolse immediatamente le mani dai fianchi della stronza.
La ragazza, offesa dalla mancanza di attenzioni, cercò di riprendergli la mano.
La fulminai con lo sguardo e le presi la mano togliendogliela da quella di IPC, che mi guardava imperturbabile.
La stronza si arrese, e se ne andò lanciandomi un’occhiata assassina.
Fissai Max dritto negli occhi. Ero abituata alle sue occhiate cariche di odio, rabbia, indifferenza. Ma ora il suo sguardo era di un verde brillante. Avrei giurato di vedere un lampo di sorpresa e dubbio oscurargli il viso, o forse addirittura compiacimento. Non saprò mai se sia stata una mia iniziativa o se lui mi abbia attirato a sé, so solo che un’ondata di calore si irradiò in ogni parte del mio corpo quando mi avvicinai a lui.
Cominciai a muovermi a ritmo di musica. Fui sorpresa nel constatare che stavo ballando sicura, non timorosa come mi ero aspettata. Mi spinsi ancora più vicino a Max e notai che lui non si era tirato indietro.
Mi allacciò le braccia intorno ai fianchi e mi strinse a sé. Era una presa forte, salda, possessiva. Lo fissai negli occhi.
Probabilmente si era accorto che ero ubriaca, ma non mi respinse, neanche quando gli poggiai le mani sul petto e strinsi la sua cravatta rossa, slacciandola, mentre lui non staccava gli occhi da me. La gettai via e poggiai il capo sul suo petto. Sentii i battiti accelerati del suo cuore e il suo respiro sui capelli. Gli misi le braccia intorno al collo e continuai a muovermi a ritmo di musica.
Il resto dei ragazzi era scomparso. Eravamo solo io e lui. Nessun’altro. E mi sentivo estremamente bene, al sicuro, protetta dal suo abbraccio.
Dopo un paio di secondi lui si chinò. -Quanto hai bevuto, Samantha?- sussurrò al mio orecchio.
Lo guardai e non potei fare a meno di rivolgergli un sorriso birichino. -Oh, molto meno di quanto tu creda, Max!-
All’improvviso la musica cessò e quel momento, quella tensione elettrica fra di noi finì.
Max mi lanciò un ghigno divertito. Poi mi caricò di peso sulle spalle e si fece largo a spintoni tra la folla di gente.
-Che stai facendo? Mettimi giù, oh, mettimi giù!-
Ma IPC, incurante delle mie numerose proteste, rafforzò la presa sui miei fianchi, mentre scoppiava a ridere.
Iniziai a tirargli calci sul petto, mentre tempestavo di pugni la sua schiena. Credevo non fosse possibile, ma qualcuno qui ha bevuto più di me! pensai, e nella mia testa avevo una voce a metà tra la sorpresa e la follia. Mi dimenai come una pazza e affondai i denti nel suo collo.
Max trattenne un verso di dolore. -Cazzo, sta’ ferma Sam!- sibilò. -Ti avverto: continua a dimenarti e non ti lascerò andare.-
Mi fermai, ma continuai ad imprecare contro IPC. Decisamente appena gli passava la sbronza doveva prendere appuntamento con un bravo psicologo. Ma veramente bravo.
Non riuscii a vedere dove mi stava portando. Sentii che ridacchiava come uno psicotico. Ma che ci trovava di così esilarante? -Si può sapere perché ridi tanto, Lewis?-
Lui non smise di sogghignare -Cerca di non fare le fusa, Herondale: così mi fai arrossire.-
Ringraziai mentalmente la mia scomoda posizione, perché in questo modo IPC non poté notare il rossore che si stava diffondendo sulle mie guance. Ma come si permetteva quello stronzo? Io, fare le fusa su di lui? Nei miei… (Ehm, scusate…) Nei suoi sogni, magari! Dannazione all’alcol
Per vendicarmi gli tirai un forte calcio nello stomaco, facendolo barcollare. Ecco, così impari a sparare cazzate, caro il mio IPC. Ma l’unico risultato che ottenni fu l’aumentare delle sue risate, trattenute a stento.
Dopo non so quanto tempo, Max, con un gesto aggraziato, mi mise giù.
Gettai uno sguardo intorno a me: eravamo dietro la casa di Owen, forse vicino all’uscita posteriore. Guardai Max spaesata, ma lui si limitò a sorridere e a lanciarmi un casco... Un casco? Ma dove l’aveva preso? 
Nel frattempo, lui aveva estratto uno stilo dalla tasca posteriore dei pantaloni e aveva iniziato a tracciare delle rune sul selciato.
Attesi impaziente, mentre l’aria fredda della notte mi investiva. Tremai portandomi le braccia al petto, nel tentativo di riscaldarmi.
Max lo notò, ma continuò a disegnare rune sulla strada, facendo sfrigolare lo stilo.
Il classico odore di bruciato si diffuse nello spiazzo. La pressione dell’aria aumentò e cominciò a prendere forma una motocicletta.
Mi stropicciai gli occhi, attribuendo le mie strane visioni all’alcol che avevo in corpo. Ma quando li riaprii, contemplai una grande motocicletta che troneggiava nel vicolo. La osservai incredula, mentre IPC ghignava compiaciuto. -E questa dove l’hai presa?- chiesi, girando intorno alla moto. Non potei non notare che era sicuramente ad alimentazione demoniaca. La fissai stupita. Ero sicura di avere un’espressione un po’ imbambolata, in quel momento.- Bottino di guerra?- tentai.
Ma Max scosse il capo e, con un movimento fluido, salì in sella alla motocicletta, invitandomi con una mano tesa a fare altrettanto. 
Oh, no… Ecco, soffrivo leggermente di vertigini… Dovevo pure avere un punto debole, no? Troppa perfezione fa male alla salute. È scientificamente provato. Almeno credo. 
Feci il possibile per non incontrare lo sguardo di Max e mi tormentai le mani, in cerca di una scusa plausibile. Tentai di guadagnare tempo. -Allora, se non è un bottino di guerra, dove hai preso questa moto?-
Lui sbuffò sonoramente e replicò con voce annoiata: -Quando ho compiuto quindici anni, lo scorso 13 marzo, tuo padre mi ha regalato “il suo gioiello”, o comunque lo chiami. Mi ha portato sul tetto dell’Istituto e mi ha consegnato le chiavi della motocicletta. Sono quasi sicuro che avesse gli occhi, lucidi in quel momento…- cominciò a ridacchiare -e questo è tutto. Vuoi anche conoscere il materiale in cui è realizzata? Il suo numero di serie? Non farmi perdere tempo, Samantha.-
Istintivamente, cominciai ad indietreggiare. Non sarei mai salita su quell’affare.
A quel punto, IPC cominciò a sogghignare, mentre scendeva dalla motocicletta.
Mi allontanai da lui e dalla sua mano tesa, in cerca di una via d’uscita. Ma quando sentii il muro gelido a contatto con la mia schiena, capii di essere in trappola.
Max si avvicinò lento, come la tigre che si accosta alla zebra prima di azzannarla. Lui portò le mani ai lati della mia testa, mentre mi fissava intensamente.
Non riuscii a sottrarmi a quello sguardo, e mi persi in quelle pozze -marroni nella semioscurità- che parevano non avere fine.
Lui  si avvicinò, senza però sfiorarmi.
Un strano calore mi attraversò, e dovetti mordermi le labbra a sangue per non protestare.
-So che hai paura dell’altezza, Samantha- sussurrò Max, la voce profonda. -Ma io non ti lascerò cadere. Fidati di me.-
Lo guardai, esitante, ma il suo sguardo serio mi convinse. Con mano tremante sfiorai il suo polso e lui mi prese la mano. Poi mi porse il casco. Lo infilai e mi avvicinai circospetta alla motocicletta.
Max montò in sella e mi invitò, con un cenno, a fare altrettanto.
Strinsi la sua mano e salii sulla moto. Ringraziai che IPC non potesse vedere il rossore delle mie guance: non sapevo dove mettere le mani.
Le spalle di Max ebbero un fremito, quasi impercettibile. Poi lui prese le mie mani fra le sue e le poggiò sul suo ventre.
Anche attraverso la camicia avvertii i suoi muscoli contratti.
Ingoiai la saliva un paio di volte e feci qualche respiro profondo.
IPC inserì la chiave e diede gas.
Il rumore rimbombante della motocicletta si diffuse nella notte, e con un movimento sicuro Max partì sfrecciando.
In preda al panico rafforzai la mia presa su di lui ed appoggiai la testa sulle sue spalle, per non guardare in basso.
La motocicletta si librò nel cielo stellato.
Il vento mi sferzava il viso mentre le dita diventavano insensibili per il freddo.
Dei brividi mi attraversarono la schiena e mi strinsi di più a Max, pregando che il tragitto verso casa fosse breve.
Non riuscii a trattenere uno sbadiglio.
A giudicare dalla posizione della luna e delle stelle, dovevano essere le due passate.
I battiti del cuore di Max mi cullarono, e lentamente fui accolta dall’abbraccio di Morfeo.



 

COMMENTO SCRITTRICI: 
C: Siamo sentimentali, Potter?
S: Citi ancora Severus Piton?
C: Sempre.
S: *alza gli occhi al cielo* Sei una romantica.
C: Solo se c'è di mezzo una saga, baby.
S: Tu hai dei problemi.
C: Ti posso assicurare che sto bene.
S: Intendevo di sanità mentale.
C: Oooooooh... *faccia comprensiva* Be', se la metti su questo piano...
S: Sul serio, mi preoccupi... Hai bisogno di un bravo psicologo.
C: MUAHAHAHAHAHAHAHAH *risata psicotica* E comunque, sei tu che hai scritto cose oscene nella prima stesura del pezzo della festa... 
S: Ma che dici?!
C: *sguardo eloquente*

S: Okay, è probabile che stessi esagerando un tantino... è tutta colpa di Cinquanta Sfumature di Grigio.
C: Veramente, le mamme non ci hanno permesso di andare a vederlo. E comunque, neanche ci tenevo... *apre un ombrello contro i pomodori lanciati dalle fan di Twilight e Sbrilluccicoso Cullen*
S: Be', comunque è l'aria che si respira in questi giorni...
C: Mr Grey ha sganciato una puzzetta?
S: *tira una botta in testa a C* Ci fai perdere il filo del commento!
C: Va bene, va bene... Allora cominciamo veramente il commento.

Be', questo capitolo è pieno di amour... Non trovate che Owen sia carino? *si protteggono dagli shipper accaniti dei Maxantha* 
Comunque, è stato un capitolo un po' di passaggio, ma ricco di elementi essenziali per l'evoluzione della storia. Ci rendiamo conto del cambiamento brusco di situazione tra il primo pezzo (l'appuntamento con Owen) e il secondo (la festa e la moto), ma è stata una scelta ben meditata e molto discussa tra di noi, e siamo giunte alla conclusione che cercare di lasciarvi un po' spaesati fosse una buona cosa, soprattutto perché avevamo bisogno di un capitolo di relativo stacco dal capitolo 7, che è stato fondamentale dal punto di vista dello sviluppo della storia.
Vi ringraziamo infinitamente per le recensioni, i preferiti, i seguiti e i ricordati che abbiamo riscosso con il capitolo 7.
Vi invitiamo a recensire, soprattutto chi ancora non ci ha lasciato commenti per gli altri capitoli: abbiamo bisogno di conoscere la vostra opinione. ;)
Vi aspettiamo per il prossimo capitolo. Cercheremo di aggiornare in tempo, anche ci siamo rese conto, tra compiti, influenze prima di una e poi dell'altra, che ci possono essere sempre degli imprevisti che ci ritardano, quindi non vi promettiamo una data precisa.
Ad ogni modo, grazie ancora di tutto, non saremmo niente senza di voi. <3
Baci, C&S

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 9 ***


La moto atterrò violentemente sul selciato che conduceva alla porta dell'Istituto, i miei capelli furono sferzati all'indietro. Eravamo appena volati oltre il cancello.
Max tirò i freni, e la moto dapprima inchiodò, poi cominciò ad avanzare sbandando e provocando un forte stridore che sembrava graffiare i timpani come gesso su una lavagna.
-Ahi...- mi lamentai infatti, con una voce palesemente da ubriaca.
La corsa si arrestò per miracolo a due centimetri dalle scale del portone.
Smontai barcollando, e Max fece altrettanto. -Guidi come un ubriaco- gracchiai, ridacchiando come un'imbecille.
-Sì, be'...- rispose lui aggrottando le sopracciglia, la voce instabile. -Tu sei ubriaca.-
Feci un gesto con la mano per liquidarlo. -Tu no, scusa?-
Mi rivolse uno sguardo vacuo, forse sforzandosi di capire il senso delle mie parole avendo tutto quell'alcol in corpo. Quando ci arrivò, si strinse nelle spalle. -Può darsi... Ma credo di reggere bene gli alcolici. Sto benissimo.- S'incamminò verso un cespuglio di rovi, ondeggiando.
Restai a fissarlo imbambolata, e non lo bloccai neanche quando allungò una mano verso un ramo spinoso.
-Ahia!- fece, ritraendo bruscamente il braccio. Poi mi guardò. -Perché il pomello del portone ha le spine?- mugugnò.
Ridacchiai. -Quello non è il pomello del portone... E tu sei completamente brillo.-
-Oooh... Ecco perché mi sta uscendo sangue!- esclamò, avvicinandosi e sventolandomi il dito sotto al naso. Aveva solo una piccolissima puntura da cui usciva un goccio altrettanto insignificante di sangue; non c'era rimasta neanche la spina.
-Bah, non hai niente che non va- dissi -quindi non fare la checca.-
-Quindi non hai intenzione di curarmi?- fece, la voce lagnosa degna di un bambino di quattro anni.
Risi leggermente, alzai gli occhi al cielo e barcollai verso le scale. Dopo qualche scalino ebbi un giramento di testa e mi sbilanciai all'indietro.
Sarei caduta, se Max non mi avesse presa al volo. La sua stretta era meno salda delle precedenti, per via dell'alcol. Ma, forse perché anche io ero brilla, rimasi inerme tra le sue braccia, avvertendo una scarica di brividi lungo la schiena.
Mi rimisi dritta, Max era in piedi uno scalino sotto di me, le braccia ancora intorno al mio corpo.
Aveva gli occhi più scuri, annebbiati dall'alcol. -Aspetta- fece.
Focalizzai l'attenzione sulla sua cravatta. La tirai verso di me, e con essa si avvicinò anche Max.
Singhiozzò a pochi centimetri dal mio viso, e potei avvertire il suo alito che odorava di birra. Storsi il naso: odiavo la birra. Ma non me ne curai, stranamente. Ero concentrata solo sulla faccia che stava a un soffio dalla mia...
-Ehi, voi due!- Un fascio di luce proveniente da dentro l'Istituto ci investì, e io mi sentii spaesata per quell'improvviso cambiamento di situazione.
Magnus comparve sulla cima delle scale, i capelli liberi dal glitter e un pigiama pieno di paillettes dorate addosso.
-Eri tu la lampada?- gracchiò Max. -Mi hai svegliato... C'era un così gradevole buio.-
Ridacchiai. -Effettivamente ci somigli a una lampada, Magnus... Insomma, sei così sbrilluccicoso. Mi chiedo come faccia Alec a dormire tranquillo...- Alzai le spalle. -Oh, be', starà attraversando la crisi di mezza età... Sai, c'è chi si attacca alle automobili, chi al voler essere un palestrato, chi alle donne... Boh, si vede che ad Alec gli piacciono le palle da discoteca...-
-Che cosa ambigua!- esclamò Max, ridendo come un porco.
-Sta' zitto, io parlavo di alta psicologia...-
-Ragazzi!- intervenne lo stregone. -Sapete che ora è?-
Gli rivolgemmo uno sguardo vacuo come risposta.
-Quasi le due e mezza!- urlò. -Quasi le due e mezza! Stavamo per mandare una pattuglia a cercarvi, sono tre ore che facciamo i turni per vedere se sareste tornati. I vostri genitori sono preoccupatissimi. Cosa diranno vedendovi tutti e due ubriachi? E credetemi, è impossibile nasconderlo dato che barcollate e che vi stavate quasi sbaciucchiando, qualche secondo fa... -
-Tu hai bisogno di una vacanza- lo bloccai. -Qui nessuno si quasi–sbaciucchiava con nessun'altro, d'accordo?- Volevo che quel tono risultasse autoritario, ma singhiozzai appena finii di parlare.
-E comunque- intervenne Max, la voce incerta e acuta -io non sono ubriaco.-
Mentre continuava a parlare, gli afferrai un braccio e lo trascinai su per le scale, barcollando io stessa.
Entrammo, e Magnus chiuse il portone, squadrandoci.
-E poi- continuò IPC -semmai era quello là che quasi ti stava mangiando la faccia. Io proprio non lo sopporto quando ti ronza intorno in quella maniera così mielosa... Ma cos'è, un'ape? Non mi piacciono le api. Pungono e fanno bzzzzzzzzz- imitò il ronzio di un'ape e ne mimò il volo. Sembrava un bambino, e per uno strano momento non seppi se trovarlo adorabile o fastidioso.
Magnus lo guardò scettico.
All'improvviso, fui consapevole delle parole che aveva appena detto: "Non sopporto quando ti ronza intorno in quella maniera così mielosa". Arrossii e lo guardai. -E a me viene da vomitare quando Kara ti si struscia addosso- dissi, prima di potermi bloccare. Feci finta di niente. -E non parleresti così se non fossi ubriaco- borbottai poi.
Si rivolse ad un punto indefinito del muro che gli stava accanto, e ci parlò come se quella parete fossi io. -Ti ho detto che- singhiozzò -io l'alcol lo reggo benissimo.- Singhiozzò di nuovo.
-Sono qui- gli feci notare. Si girò verso di me e mi guardò.
-Ah- fece. Squadrò la parete e alzò le spalle. -Be', ti somiglia questa scimmia, non trovi?- Mi scrutò di nuovo e aprì la bocca per dire qualcosa. Poi chiuse gli occhi e si accasciò sul pavimento.
Ridacchiai e mi voltai verso Magnus.
Lo stregone mi restituì un'occhiata perplessa.
Mi strinsi nelle spalle. -È morto?- chiesi con una voce da demente, indicando Max.
Magnus alzò gli occhi al cielo. -No, fiorellino, è vivo... È crollato dopo la sbornia, ecco tutto. Anzi- disse, avvicinandosi a Max -aiutami a portarlo. So che anche tu sei ubriaca, ma almeno sei sveglia.- Afferrò IPC da sotto le ascelle e mi fece cenno di avanzare.
Sospirai e mi spostai verso di loro. Prima guardai Max: aveva il viso rilassato nel sonno, le guance arrossate dall'alcol e gli occhi chiusi; il petto si alzava e si abbassava al ritmo dei respiri profondi.
Mi chinai e presi Max per le caviglie.
Lo sollevammo, e mi resi conto che pesava non poco, soprattutto per l'altezza e per il fatto che era addormentato. Trascinammo Max nell'ascensore e Magnus schiacciò il pulsante con la freccia che puntava verso l’alto. Le porte si chiusero e udii il familiare cigolio.
Mi appoggiai con la schiena alla parete mentre salivamo, sentendo la testa girare.
Quando la luce della cabina si riversò nel tetro corridoio, uscimmo.
Ci misi qualche secondo a rendermi conto che mio padre e Isabelle, uno in pigiama blu scuro e l’altra in camicia da notte color pesco, erano davanti a noi. Gli occhi del mio genitore lampeggiarono, me ne accorsi anche se ero ubriaca.
Fui presa da un conato di vomito, ma cercai di non darlo a vedere.
-Guardate un po’ chi ho trovato…- fece Magnus, facendo un cenno del capo verso me e Max. Lasciai andare le caviglie di IPC.
Isabelle si precipitò verso suo figlio, gli si accovacciò accanto e lo strinse a sé. -Amore mio, che hai?-
Le palpebre di Max tremolarono, e lui finalmente si mosse, ma solo per abbracciare sua madre e affondarle la faccia nel petto. Tenne gli occhi chiusi, e continuò a russare.
Pensai alla comicità di quella scena, soprattutto perché IPC era più imponente di sua madre, eppure la abbracciava come avrebbe fatto un bambino piccolo.
-Oh, il mio tesoro ha tanto bisogno di tanta nanna…-
Sarei scoppiata a ridere e avrei ripreso la scena con il cellulare, ma mi ricordai che mio padre si aspettava una spiegazione.
-Papino…- tentai, la voce arrochita.
-Dove siete stati?-
-Tipo una festa…-
-Una festa?!- gridò. -Noi ci stavamo dannando perché non vi trovavamo! Tranne noi che siamo qui, sono tutti a letto! È tardissimo, te ne rendi conto? Io non so più che fare, cerco di proteggerti e invece tu…-
Non riuscì a finire la frase, perché mi piegai in due davanti ai suoi occhi e vomitai. Sentii l’alcol anche nel naso, mentre la testa mi girava e mi sembrava di rimettere anche l’anima. Una pulsazione dolorosa alle tempie mi mise in ginocchio e mi fece tremare. Avvertii le mani di mio padre che mi tiravano indietro i capelli e mi tenevano la fronte.
Mi rialzai intontita, l’odore pungente del vomito sul pavimento che mi penetrava nelle narici.
Papà mi tenne per le spalle. -Hai bevuto, bambina?- domandò.
Non stetti a riprenderlo per il fatto di avermi chiamata in quel modo. Anche se mi ero liberata della maggior parte dell’alcol, dissi la verità di mia spontanea volontà. -Un po’, papà… Non so come ho fatto a ubriacarmi, giuro che ne ho preso solo un bicchiere, dopo che mi avevano detto per certo che il cocktail non era tanto forte… E comunque ho bevuto meno di lui.- Indicai Max.
-Meno male che avete solo bevuto…- sospirò Isabelle.
Mio padre la fulminò. -Solo bevuto, Izzy? Non è già abbastanza, secondo te?-
-Poteva capitare qualcosa di molto peggio, Jace. Quando li ho visti conciati così ho pensato al peggio. Ho pensato che qualcuno o qualcosa li avesse attaccati…-
Mio padre sollevò un sopracciglio.
-Non metto in dubbio che debbano essere messi in punizione- lo precedette, deludendomi -ma le spiegazioni sarà il caso di rimandarle a domani.- Abbassò lo sguardo su suo figlio. -Hanno bisogno di riposare, ora.-
-E va bene- sospirò mio padre. -Sono stanco morto anch’io. Vado a prendere l’occorrente per pulire questo disastro.-
-Ci penso io- disse Isabelle -tu vai a dormire.-
Mio padre annuì e si allontanò.
Isabelle guardò Magnus. -Puoi portare tu i ragazzi in camera?-
-Certo- rispose lo stregone.
 
Trasportammo Max fin sul suo letto. Restammo zitti per un po’.  
Poi voce del figlio di Lilith ruppe il silenzio che si era appena creato: -Non lo dirò a nessuno- disse.
-Cosa?- domandai. -Lo sanno già che ci siamo ubriacati. La moto non si è rotta, e poi è stato Max a prenderla.-
-No- rispose, sorprendendomi. -Della moto che Jace ritiene un gioiello ne parlerete direttamente domani mattina… - Lo stregone si prese una ciocca di capelli neri tra le mani e cominciò a giocarci, tirandola nervosamente. -Mi riferivo al fatto che vi siete quasi baciati.-
Sgranai gli occhi per lo stupore.
-E non fare quella faccia- mi disse, prima che potessi ribattere. -Direi che è un bene per la vostra squadra: le donne sono molto più collaborative, in queste situazioni... E tuo fratello non ce la fa più a lavorare con voi che litigate sempre.-
Guardai Max, che aveva le labbra semiaperte e ronfava come un ghiro. Per un secondo, fui tentata di dare ragione a Magnus, tanto era stato convincente, ma mi ripresi subito e replicai: -Cosa sono questi discorsi? Non sapevo facessi anche il consulente per gli affari di cuore.-
-È solo una delle mie innumerevoli doti, crostatina.- Sfoderò un sorriso abbagliante, e i suoi occhi da gatto brillarono.
-E sei anche modesto!- scherzai.
-Vedo che finalmente cominci a comprendere la favolosità- si indicò -di tutto questo… Dovevi aspettare di essere ubriaca per notarlo?- Si grattò la testa, pensieroso. -Per tua sfortuna, sono anche molto perspicace. Stavi riuscendo a sviare il discorso anche da brilla, complimenti! È tutta colpa del fatto che amo essere elogiato, anche se il sarcasmo che hai usato non era per niente sottile…-
Scoppiai a ridere, sentendomi anche messa all’angolo. -Ma smettila!- Poi notai che era serio. -Okay…- sospirai -non sono il tipo che si confida su queste cose, lo sai perfettamente. E comunque, se proprio ti interessa, mi sto vedendo con qualcun’altro.-
Magnus mi rivolse uno sguardo scettico, aggrottando le sopracciglia. -Spiegati- fece. 
Ci pensai qualche istante… Mi sarei sentita a disagio nel parlare di Owen a qualcuno che non fosse Chloe, ma non correvo questo rischio con lo stregone: credo che sia stato il suo tono di voce unito alla mia ubriachezza non del tutto smaltita dal vomito a spingermi a parlare… E poi, anche se era un adulto con centinaia di anni sulle spalle, Magnus sembrava un ragazzino. Forse era per quello che appariva un buon confidente.
Infilai due dita nei passanti della cintura e mi mordicchiai il labbro, nervosa. -Be’- cominciai -c’è questo ragazzo mondano che è arrivato a scuola da qualche settimana… È carino e sempre gentile, e sto provando a uscirci.- Esitai un attimo. -Insomma, non è che io abbia tutta questa esperienza in campo di romanticismo e appuntamenti… Però mi sembra che stia andando bene, per ora.-
-Questo ragazzo…- mi interruppe Magnus -ti piace?-
-È importante che tu lo sappia?- domandai, sollevando un sopracciglio.
Magnus alzò le spalle. -Be’, ti deve piacere davvero, se sei disposta a fare i salti mortali per non fargli scoprire che non sei una mondana.-
-Sono amica di Chloe e Lucas da anni- replicai -e loro non sospettano niente. Perché dovrebbe cambiare qualcosa?-
Magnus sembrò riflettere qualche istante. -Quindi ti piace davvero?-
-Ma a te cosa importa?- chiesi, esasperata.
Magnus aggrottò la fronte. -Amo il gossip e mi piace farmi i fatti degli altri, e sai che a te ci tengo, biscottino.- Poi giunse le mani e sbatté le ciglia. -Inoltre, gli amori adolescenziali sono così avvincenti!-
Risi. -Certo…- Poi mi accorsi che lo stregone era serio e che mi stava fulminando. -D’accordo- sospirai -io non so… Non so se mi piace veramente… Voglio dire, è adorabile, però non riesco a capire come fare per sapere se mi piace davvero…- Tanto valeva che sfruttassi l’occasione e usassi Magnus come consigliere, ormai non avevo niente da perdere.
-Be’- fece, con un’alzata di spalle -credo che dovresti accorgetene da sola. Insomma, dovresti sentire qualcosa di particolare appena ti si avvicina, tipo brividi, o una sensazione strana allo stomaco….-
Avevo mai provato quelle sensazioni con Owen? Ripensai a tutte le volte che eravamo stati un po’ più vicini, ad esempio in occasione dei nostri due quasi-baci.
All’improvviso, dal letto di Max alle mie spalle, arrivò un mugolio.
Mi voltai verso IPC. -Che cos’ha?- domandai a Magnus.
-È solo che non si è ancora liberato della maggior parte dell’alcol, dato che non ha vomitato come hai fatto tu.- Guardò Max. -Conviene che vada a prendere qualcosa per aiutarlo. Devo avere una pozione che fa proprio al caso suo…- Mi fissò. -Ti dispiacerebbe aspettare qui, nel frattempo? Devi solo bagnare un asciugamano con dell’acqua fresca e poi metterglielo sulla fronte. Giusto per dargli un po’ di sollievo finché non arrivo con l’intruglio.- Fece una smorfia. -Non gli piacerà, ma almeno lo aiuterà a liberarsi prima.-
Abbassai lo sguardo, rassegnata. -D’accordo- mormorai.
Magnus aprì la porta. Due secondi prima di richiuderla dopo essere uscito, borbottò: -Ha detto che gli dà fastidio quando ti ronza intorno…-
-Magnus!- sbottai.
Ma lo stregone mi bloccò: -In vino veritas. Cerca di ricordartelo, Samantha.- Mi fece l’occhiolino, ma il suo tono era stato spaventosamente serio e mi aveva fatto morire l’ennesima protesta in gola.
Razza di stregone ormonato. Sospirai. Mi voltai verso Max. Aveva il petto che si alzava e si abbassava lentamente, il respiro profondo.
Mi concessi qualche secondo per osservare la stanza. Un grande letto a due piazze troneggiava nel centro della sala, accanto ad un semplice comò. La luce della luna piena gettava una luce opaca nella stanza, creando ombre scure che si muovevano sinuose. Nella penombra riuscii ad intravedere la sagoma di una scrivania. Spinta da un irrefrenabile curiosità mi mossi piano in quella direzione. Le mie scarpe crearono un leggero ma irritante scricchiolio. Guardai la figura dormiente di Max, ma lui parve non aver udito nulla. Raggiunsi la scrivania. Era di mogano, scura e dall’aspetto resistente. Su di essa erano appoggiati vari oggetti. Penne, matite ed acquerelli erano riposti in un astuccio, disposti per colore. Li sfiorai con dita tremanti. Non potei non correre con la mente alla mia di scrivania. Subito l’immagine di fogli accartocciati, libri aperti, penne e matite gettate alla rinfusa nel portapenne mi riempii la mente. Eravamo così diversi. Continuai la mia ispezione. Accanto alla scrivania c’era una piccola libreria. Subito l’odore  inconfondibile di inchiostro e carta mi investii. Sospirai, mentre accarezzavo, quasi con timore riverenziale, le copertine dei libri di Max. Erano tutti grandi tomi, che sapevano di antico. Ne scelsi uno a caso e l’aprii. Notai immediatamente che era scritto in un'altra lingua, forse italiano. Sussurrai alcune parole. Non ne capii il significato, ma mi giunse la loro musicalità. Quelle lettere strascicate ma al contempo decise mi provocarono dei brividi lungo la schiena. Riposi il libro sulla sua mensola e mi guardai intorno. Improvvisamente una macchina sfrecciò sulla strada e la luce dei suoi fari illuminò il comodino di Max. Solo allora notai una cornice appoggiata su di esso. Cercando di fare il meno rumore possibile, mi avvicinai. I leggeri strascichii che le mie scarpe producevano mi sembravano rumori assordanti, in quel momento. Sfiorai con i polpastrelli la semplice cornice di legno e strinsi gli occhi, cercando di riuscire a scorgere qualcosa. La luce argentata della luna illuminò il volto di Max sorridente, mentre abbracciava un altrettanto entusiasta Chris. Erano decisamente più piccoli, avranno avuto più o meno dodici anni. Inizialmente non capii. Poi, come un fulmine a ciel sereno, l’immagine di quel giorno mi invase la mente. Intenso, triste, gioioso. Era il giorno in cui Chris e Max erano diventati parabatai. Erano così emozionati. Mio fratello fremeva tutto, ma non aveva mai perso il sorriso. Persino IPC aveva una luce diversa negli occhi, un misto tra orgoglio, onore ed immensa allegria. Ancora oggi ogni volta che vede Chris i suoi occhi si accendono. E come poter dimenticare l’abbraccio commosso tra mamma e zia Isabelle? Perfino papà e zio Simon si erano sorretti a vicenda, dandosi pacche orgogliose sulle spalle. Io ero l’unica triste, quel giorno. Ancora adesso non so perché, ma ero terribilmente a disagio. Forse avevo paura di perdere per sempre mio fratello, o cose così. Invece allora il nostro rapporto si era consolidato. Tornai ad osservare la fotografia. Una piccola mano attirò la mia attenzione. Era una manina paffuta che cercava disperatamente di attirare l’attenzione. Senza riuscire a controllarmi, scoppiai in una sonora risata. Immediatamente mi tappai la bocca, ma non smisi di sorridere Quella mano ero io. Non riuscivo ad essere inquadrata e così mi ero disperatamente arrampicata su uno sgabello pur di essere ripresa. Ecco il risultato del mio fallimentare tentativo.
All’improvviso Max si rigirò nel letto. Lo osservai circospetta e posai la cornice sul comodino. Non volevo certo essere colta in flagrante. Ma le sue palpebre non si alzarono e lui continuò a dormire. Lo vidi aggrottare le sopracciglia nel sonno, mentre le sue labbra carnose si increspavano. Le sue dita affusolate si strinsero attorno al candido lenzuolo. Doveva soffrire parecchio.
Quindi andai in bagno per cercare una bacinella. Quando la trovai, la misi nel lavandino e aprii il rubinetto, facendo scorrere l’acqua fresca per riempirla.
Mi resi conto del fastidio che la camicia sporca di bevanda e vomito mi dava sulla pelle.
Tornai in camera di Max e aprii il primo cassetto del comò, dove c’erano dei pigiami piegati con cura. Presi la prima maglia che trovai e tornai nel bagno.
Mi tolsi la camicia e la appallottolai, buttandola sul pavimento. Il reggiseno si era salvato, constatai sollevata, quindi non fui costretta a spogliarmi anche di quello. Mi sciacquai il viso e il punto dove la bevanda mi aveva reso appiccicosa la pelle, che tornò subito pulita. Infilai la maglia del pigiama di Max. Sentii il suo profumo, mentre mi facevo passare l’indumento per la testa. La maglia mi stava decisamente grande, addirittura sembrava quasi un vestito su di me, però mi tenne al caldo. Risvoltai le maniche almeno per far uscire le mani. Mi misi un asciugamano sulla spalla. Chiusi il rubinetto ed entrai nella camera da letto portando la bacinella. La posai sul comodino e mi sedetti accanto a Max, che stava ancora dormendo. Bagnai l’asciugamano come aveva raccomandato Magnus e, delicatamente, cominciai a tamponare la fronte di Max per rinfrescargli il viso. Seguii l’attaccatura dei capelli per inumidirgli le guance, poi posai la salvietta sulle sue labbra. Indugiai qualche istante, poi feci il percorso a ritroso per tornare sulla fronte.
Era strana, quella situazione. Era strano sapere che stavo trattando IPC con delicatezza per una volta, e che ci stavo mettendo tutta la cura e l’attenzione possibile.
Gli occhi di Max si schiusero. Sussurrò qualcosa di incomprensibile.
-Non ho capito- mormorai. -Sta’ tranquillo, devi riposare prima che Magnus arrivi con una pozione. Non sarà buona, ha detto, però dopo starai bene. Hai bevuto decisamente troppo.- Gli tolsi l’asciugamano dalla fronte e lo strizzai nella bacinella, per poi imbeverla nuovamente. Feci per rimetterla sul viso di Max, ma lui mi bloccò il braccio.
Anche se a bassa voce, ripeté quello che aveva detto poco prima, ma stavolta lo capii. -Grazie.-
-Per cosa?- domandai.
Lui indicò la pezza con lo sguardo.
Alzai le spalle. -Non ti devi preoccupare per questo. Ne hai bisogno, e a me non dà alcun fastidio.- Arrossii, accorgendomi di avere usato un tono particolarmente gentile.
Max allentò la presa sul mio braccio in modo che potessi rimettere l’asciugamano sulla sua fronte. Chiuse gli occhi e sorrise, ingoiando a vuoto. Vidi il suo pomo d’Adamo salire e scendere.
Si addormentò continuando a tenere la mano intorno al mio braccio.
Non mi mossi per non farlo svegliare, ma rimasi vari minuti ad aspettare Magnus, sbadigliando e sentendo gli occhi pungere per il sonno.
Alla fine non ce la feci più e crollai accanto a Max.
*****
 
Nel sogno, un’ombra scura mi spingeva giù dalla Statua della Libertà. Cominciai a cadere. Andavo sempre più giù, giù, giù. La voce limpida dell’Angelo parlava nella mia testa. Stai in guardia. Lui si avvicina. Puoi farcela. Prova a volare. Usa le ali e non cadrai.
Provai a richiamare alla mente le ali bianchissime che nei sogni mi spuntavano dalla schiena. Mi sforzai per immaginarle in quel momento, mentre mi salvavano dall’impatto con il mare.
Niente.
L’acqua brillò sotto di me.
 
Un istante prima che la colpissi, mi svegliai saltando a sedere e urlando, le lacrime che mi bagnavano il viso.
-Che succede?- La voce di Max mi riportò alla realtà. Era seduto accanto al letto, un’espressione pensierosa dipinta sul volto.
-Era solo un incubo- dissi, cercando di controllare i singhiozzi.
-Non pensi di doverne parlare con qualcuno? Tipo Magnus, o i tuoi…-
-Voglio aspettare- ribattei decisa.
Max si accigliò. -Samantha, non so se è una cosa buona. Te ne ha parlato anche la Regina della Corte Seelie. E ti ho detto che anche io e Chris stiamo avendo questi problemi. È per questo che mi sono svegliato prima che Magnus arrivasse con quello schifosissimo intruglio.- Fece una smorfia di disgusto per sottolineare quanto cattivo fosse il sapore della pozione. -Ti abbiamo lasciata dormire qui perché si vedeva che eri stanchissima.-
Annuii. -Voglio aspettare un altro po’- dissi, la voce tremante.
-Ma…-
-Potete dire tutto quello che volete per quanto riguarda voi. Io non parlerò adesso dei miei incubi.- Spinsi la testa contro le ginocchia, soffocando i singhiozzi e lasciando sgorgare le lacrime. Mi sentii tremare.
-Ehi, va bene- disse Max gentilmente. -Lo diremo quando te la sentirai.-
Sentii il materasso piegarsi quando si sedette accanto a me.
-Mi dispiace dirlo- fece, il tono a un tratto scherzoso -ma questa maglia sta meglio a me.-
Sollevai il capo e mi asciugai le lacrime, sentendo i singhiozzi calmarsi. Sorrisi. -Mi sembrava strano che tu non avessi ancora fatto un commento del genere.-
Fulmineamente, allungò una mano e mi scompigliò i capelli.
-Sai che non mi piace quando mi toccano capelli!- protestai.
-Lo so.- Sorrise beffardo. -È per questo che l’ho fatto.-
Alzai gli occhi al cielo e Max scoppiò a ridere.
*****
 
 
 
Quando fu schiaffato nel mio piatto, il pappone della mensa fece un rumore sinistro. Tipo un misto tra uno spiaccicamento e quel curioso tonfo che provoca la cacca quando cade nell'acqua del gabinetto.
Guardai l'inserviente dietro il bancone e le feci un sorriso falso. -Di preciso, in cosa consiste questo pasto dall'aspetto tanto invitante, Ethel?-
La cameriera della mensa contorse la faccia paffuta in una smorfia e alzò le spalle. -Bah, non saprei con certezza...- disse, agitando il mestolo in aria con il braccio grassoccio. -Verdure, carne... Un po' di tutto, insomma. È nutriente. Sei bassina, ragazza, hai bisogno di crescere. Quindi mangia e non fare storie. Vedrai che è buonissimo.-
La osservai, scettica. Non concentrai l'attenzione sul grembiule sporco o sull'enorme neo peloso che aveva sul mento. Mi preoccupai piuttosto dei capelli raccolti in una retina, chiedendomi se tra gli ingredienti della sbobba fossero inclusi anche quelli. Era impossibile non guardarli: le uscivano fuori dalla testa come i peli dalle carote; erano pochi ma unti. E, comunque, credo che la testa fosse il punto meno peloso del suo corpo. Ethel era simpatica, quando non ti costringeva a ingerire quella roba, per carità... Il suo problema era proprio che passava tutto il tempo del pranzo a girare per i tavoli per assicurarsi che stessimo mandando giù tutto ciò che ti schiaffava nel piatto.
Brandì nuovamente il mestolo. -Aria, su, su! Ho da fare. Ci sono gli altri che aspettano di essere sfamati.-
Trattenendomi dal mettere in discussione quella sua ultima affermazione, mi diressi verso il tavolo dove erano seduti Chloe e Lucas.
-'Giorno- mugugnai, buttandomi sulla sedia affianco a Lucas per la stanchezza, data dal fatto che praticamente non avevo dormito la notte e che, come primo pezzo della punizione, non ci avevano concesso di saltare la scuola, ma avevano imposto di andarci anche a costo di metterci gli stecchini agli occhi per non farci prendere dal sonno.
Mi salutarono di rimando. Chloe stava per dire qualcosa, ma fu interrotta da Owen che si sedette rumorosamente di fronte a me, fulminandomi.
-Ciao- dissi, sorridendo.
-Che fine hai fatto ieri sera?- domandò, la voce che mi parve stranamente rabbiosa. Effettivamente, me ne ero andata dalla festa senza neanche salutarlo.
-Hai ragione, perdonami.- Arrossii. -Io non mi sono sentita bene e sono dovuta correre a casa, avrei voluto salutarti ma…-
-Anche tuo cugino è sparito all’improvviso… Sempre se si può chiamare così. Ho incontrato la sua ragazza, poco fa, e mi ha detto che lui non ha nessuna parentela con te, e che vi conoscete perché i vostri genitori sono amici intimi.-
Mi sentii le guance andare a fuoco per l’imbarazzo. -Deve… deve essermi sfuggito di dirtelo. Quando ci siamo visti la prima volta ero frastornata perché ero appena inciampata, e quando hai chiesto chi fosse ti ho detto la prima cosa che mi è passata per la mente, anche perché ero convinta che non ti avrei rivisto mai più.- Mi accorsi che Lucas e Chloe stavano seguendo la conversazione con un’espressione dubbiosa sul volto. -Andiamo a parlare fuori di qui- proposi. –Ti prego.-
Owen mi lanciò un’occhiataccia che mi fece contorcere lo stomaco. -Va bene.-
Ci alzammo e ci dirigemmo verso la porta della mensa, velocemente.
Mi resi conto che Max ci osservava da un tavolo lontano, mentre Kara, accanto a lui, cercava in tutti i modi di convincerlo ad ascoltare qualche futile discorso.
Quando fummo usciti, Owen mi si parò davanti. - Sei sicura che non ci sia qualcosa sotto?-
-Cosa intendi?- domandai, non aspettandomi quella domanda.
Owen fissò i suoi occhi color cioccolato nei miei. -Sai benissimo di cosa parlo. O vuoi forse dirmi che ieri non ci ha interrotti apposta?-
Per la prima volta, il suo sguardo mi sembrò freddo. Anche se le sue iridi avevano un colore caldo, mi sembrò che mi perforassero come schegge di ghiaccio. Per un secondo, mi rimandarono a un altro paio di occhi, che erano completamente diversi ma che mi avevano fatto provare la stessa sensazione. Prima che ricordassi a chi appartenevano, quella sensazione svanì.
Adesso mi sentivo solo angosciata per la paura di aver fatto un casino tremendo.
-Non dubitare di me, Owen- dissi, piano. Lottando contro l’imbarazzo, allungai una mano per prendere la sua. Poi cercai di raccogliere le forze. -Sei… sei tu quello che mi piace.- Sentii il rossore espandersi fino alla punta dei capelli. -Nessun altro. Solo tu.-
Owen mi guardò, e il suo viso si contorse in un sorriso. -Solo io?- domandò, la voce tornata al solito tono gentile.
Abbassai lo sguardo. -Sì…-
*****
 
 
Alzai lo sguardo sul cielo grigio sopra di me. Ero appena uscita da scuola. Era una giornata di fine febbraio e grandi nuvoloni carichi di pioggia si rincorrevano nel cielo. Nel giro di poco tempo sarebbe scoppiato a piovere. Aumentai il passo, sperando di vedere presto le guglie maestose dell’Istituto. Non mi piaceva quel periodo dell’anno: troppa pioggia, troppo freddo, troppo vento. Mi strinsi nel cappotto pesante mentre il mio fiato condensava nell’aria gelida di New York. Improvvisamente una strana sensazione mi investì. Mi voltai, ma non vidi nulla di strano: solo tante persone che si affrettavano nel tornare a casa o in ufficio, per non beccare la pioggia. Poi una figura attirò la mia attenzione: passo cadenzato, mani in tasca, zaino sulle spalle, giubbotto aperto sulla camicia candida.
IPC stava scrutando il cielo, palesemente a suo agio. Lo vidi inspirare a pieni polmoni l’aria gelida, che prometteva l’arrivo di un temporale. All’improvviso un fulmine squarciò il cielo, dividendolo in due.
Sobbalzai spaventata quando il suono di un tuono fragoroso mi investì. Mi guardai intorno. La gente osservava preoccupata e intimorita il cielo, fermandosi per strada.
Invece IPC continuava imperterrito a camminare. Con il suo sguardo impenetrabile, il suo andamento armonico e il perenne ghigno sul suo volto era come circondato da un aura elettromagnetica. Allacciò il suo sguardo con il mio.
Arrossii ed abbassai gli occhi, imprecando contro me stessa per essermi fatta beccare.
IPC mi raggiunse con quattro falcate e mi si affiancò. Mi fissò e mi disse:- Sai che giorno è oggi, vero Herondale?-
Lo guardai dubbiosa, facendo mente locale. C’era forse qualche ricorrenza particolare? Oppure IPC era semplicemente andato fuori di testa? Non risposi, ma alzai il mento e lo sfidai. Decisi di bluffare. -Certo che lo so, Lewis. Piuttosto, tu sei certo di sapere ciò che io so perfettamente?- Lo fissai ed esibii un sorriso a trentadue denti, continuando a pensare a cosa si stesse riferendo. Lui mi guardò strafottente e mi disse: -Visto che sai perfettamente ciò che io già so, cosa pensi dobbiamo fare per quello che entrambi sappiamo? Perché anche tu credi che dovremmo fare qualcosa, giusto?-
Giocherellai con il braccialetto che avevo al polso, sforzandomi di ricordare. Ma proprio non mi veniva in mente niente. Era la prima volta, quella mattina, che Max mi rivolgeva la parola, perciò doveva essere una cosa importante. Mi ritornarono in mente le vicende della notte prima, ma feci finta di niente. E Max fece altrettanto. Però non riuscivo a ricordare. Ma solo l’idea di ammettere la cosa davanti a lui mi irritava profondamente. Strinsi i denti e sostenni il suo sguardo, decisa a continuare a mentire. -Certo che voglio organizzare qualcosa, Lewis. Ma non voglio di certo condividere le mie idee con te.-
Lui ghignò, divertito. -Quando la smetterai di bluffare, Herondale? Di’ chiaramente che non hai la più pallida idea di che cosa sto parlando.-
Lo guardai imbarazzata.
-Allora, sai che giorno è oggi?-
Questa volta risposi subito: -E’ il 28 febbraio.-
Lui iniziò a camminare lungo la via ed io lo seguii immediatamente. Dopo un paio di secondi disse: -Oggi, Herondale, è il compleanno di Chris. Compie diciassette anni. È un giorno importante, ma non vuole festeggiare. Non sono d’accordo con lui. Perciò noi- e mi fissò negli occhi con uno sguardo sicuro, che non ammetteva repliche -gli faremo cambiare idea.-
La prima sensazione che provai fu la vergogna. Cavolo, era il compleanno di mio fratello e me ne ero completamente dimenticata. Ma dove cazzo avevo la testa? Possibile che non riuscivo a ricordare una semplice data? Non gli avevo fatto neanche gli auguri… E pensare che il giorno del mio compleanno lui era sempre il primo ad abbracciarmi e urlarmi “Tanti auguri, sorellina”...Guardai IPC. -Cosa vuoi fare, Lewis?-
Lui fissò un punto imprecisato davanti a noi e rispose: -Niente di eccessivo, Chris non va matto per le feste. Pensavo a qualcosa di semplice e tranquillo. La mia idea è quella di andare a festeggiare solo noi tre da Taki, verso le sei. È bello e intimo.-
Rimuginai un po’ sull’idea, ma dovevo ammettere che era davvero buona. E a Chris sarebbe piaciuta moltissimo. In effetti, l’unica nota stonata, la causa della mia irritazione, era che non ero stata io ad organizzarla. Anzi, mi ero completamente dimenticata del compleanno di mio fratello. Invece Max non solo se n’era ricordato, ma aveva pensato anche a come organizzare una festa per Chris. L’amarezza che provai in quel momento fu davvero tanta. A distogliermi dai miei tristi pensieri fu una goccia di pioggia che cadde sul palmo della mia mano. Alzai gli occhi al cielo, prima di sentirne un’altra sulla nuca. Ebbi solo il tempo di infilarmi il cappuccio del giubbino che un forte temporale ci investii. Corsi a ripararmi sotto il tetto di una casa, mentre New York veniva sommersa da un forte acquazzone. Con un suono ritmato ed ipnotico le gocce cadevano dal tetto, creando pozzanghere sul marciapiede. A parte qualche signore con un ombrello, la strada era semivuota. Una folata di vento gelido mi riscosse e brividi mi scesero lungo la schiena, facendomi tremare. Sentii una presenza accanto a me.
Era Max, che guardava infastidito l’orologio e le guglie dell’Istituto, che si intravedevano all’angolo della strada. -Sono le tre e mezza, Herondale. Se vogliamo organizzare questa cena, dobbiamo sbrigarci. Non possiamo rimanere bloccati qui. Dobbiamo andare.-
Solo allora mi fissò e notò che stavo tremando, e neanche tanto impercettibilmente. Soffermò il suo sguardo su di me e, pochi secondi dopo, estrasse dalla tasca del giubbino una sciarpa blu scuro. La strinse nella mano e poi me la porse.
Guardai quel pezzo di stoffa come se fosse un demone pronto ad aggredirmi. Scrutai per un attimo IPC, ma la sua faccia era tranquilla tanto quanto non lo ero io. Una nuova ventata gelida mi raggiunse e iniziai a battere i denti.
IPC sbuffò irritato. Lentamente si avvicinò a me, e con una mossa decisa ma gentile, mi avvolse la sua sciarpa intorno al collo. Aveva le mani calde, che contrastavano decisamente con il freddo della mia pelle.
Non lo guardai. Mi limitai a fissare la sciarpa blu notte e le sue mani affusolate. All’improvviso un fulmine squarciò il cielo ed il rumore di un tuono investii New York. Sentivo il suo sguardo magnetico su di me e, non riuscendo a resistere, lo guardai. I suoi occhi erano scuri ed imperturbabili mentre si staccava da me e mi faceva segno di andare. Non mi ero accorta del calore che la sua vicinanza mi aveva dato. Lo vidi sfrecciare in direzione dell’Istituto, una figura indistinta nel temporale, un’ombra nera nel grigio della pioggia. Mi strinsi la sua sciarpa addosso e lo raggiunsi.
 
Arrivammo all’Istituto. Eravamo bagnati dalla testa ai piedi ed i vestiti ci si erano appiccicati addosso. Il vento infuriava, perciò IPC spinse con forza il possente portone dell’Istituto ed entrò.
Lo seguii a ruota e pigiai con forza il bottone dell’ascensore. L’unico rumore che si sentiva nell’ingresso era il tamburellare delle gocce provenienti dai nostri vestiti sul pavimento di marmo. Crearono una melodia ipnotica e mi fermai qualche secondo ad ascoltarla, ammaliata, persa nei miei pensieri.
Il grande aggeggio arrivò cigolando e ci salii, seguita da IPC. Lo vidi fissare irritato l’orologio al polso. -Siamo in ritardo, Herondale. Dobbiamo prendere Chris  e portarlo da Taki, ma questo temporale ci rallenterà.-
Stavo annuendo attenta, quando un’idea disastrosa mi attraversò. Non ho comprato il regalo per Chris! Oh, Raziel…Che cosa ho fatto di male? Tolsi velocemente lo zaino dalle spalle ed aprii il taschino interno alla ricerca del portamonete. Sentivo sul collo lo sguardo sbigottito di Max, ma non me ne curai. Contai i dollari accartocciati e feci un rapido calcolo. Appena le porte dell’ascensore si aprirono, schiacciai il bottone del piano terra in modo febbrile e spinsi via IPC, che aveva iniziato a ridere di gusto mentre mi guardava prendere a pugni i pulsanti. Finalmente l’ascensore iniziò a cigolare, ma prima che le porte si chiudessero sibilai un “vaffanculo” davvero inquietante.
L’ultima cosa che sentii fu la risata di Max risuonare cristallina tra le pareti dell’Istituto.
*****
 
Stavo camminando velocemente nell’Upper East side, alla disperata ricerca di un regalo per Chris. Ma non mi veniva in mente davvero nulla. Intendiamoci, mio fratello era un tipo piuttosto semplice, in fatto di regali. Bastava regalargli qualsiasi cosa, pure il primo paio di calzini spaiati che trovavi, e lui sorrideva felice, come me davanti ad un barretta di cioccolata. Ma, quest’anno, non potevo limitarmi ad un regalo brutto ed inutile. Chris meritava qualcosa di speciale.
Osservai le vetrine: vestiti, giocattoli, dolci, libri. Ma niente che potesse davvero farlo felice. Gettai un’occhiata all’orologio: erano le cinque. Oh, per tutti gli Angeli… Avevo solo un’ora per trovare il miglior regalo di tutti i tempi, tornare all’Istituto, prelevare mio fratello e portarlo da Taki. Praticamente impossibile. Mi presi la testa fra le mani e azionai i miei pochi neuroni superstiti .Pensai alle cose che Chris amava: fumetti, violino, acquerelli, mazze chiodate, delfini, foglie rosse, l’arco d’argento, coperta verde, me, pasticcini con il ripieno alla crema, pugnali, acquerelli, asce biforcute, cuccioli di labrador, acquerelli, hamburger, me, pizza italiana, poesie di Victor Hugo, stelle cadenti, acquerelli, me… All’improvviso un’idea mi balenò nella mente: Chris adorava dipingere! Ed i suoi ritratti acquerellati erano bellissimi. Solo lui riusciva, con poche pennellate, a rendere il volto di una persona così vero e realistico. Era un artista nato… Be’, d’altronde l’arte era una virtù di famiglia: i miei omini senza capelli né orecchie e i miei alberi con un solo ramo erano una rara espressione dell’arte moderna. Peccato che nessuno avesse mai compreso il mio lato artistico. Ah, già mi vedevo, Samantha Herondale, la nuova Picasso, ad aprire la mia galleria d’arte e a vendere le mie inestimabili opere… Sarei diventata famosa.
La vibrazione proveniente dalla tasca del mio giubbino mi risvegliò dai miei sogni di gloria. Presi il cellulare e lessi velocemente il messaggio di Max:
Non oso immaginare cosa tu stia combinando, Herondale, ma Chris ha appena finito gli allenamenti e il tempo stringe. Ti do dieci minuti per arrivare, altrimenti inizierò a portare Chris da Taki e ti aspetterò lì. Sono estremamente curioso di vedere il tuo regalo…
Strinsi forte il cellulare nella mia mano. Odiavo prendere ordini da qualcuno, men che meno se quel qualcuno era un borioso, arrogante, sicuro di sé pallone gonfiato. Ma ormai sapevo cosa fare e mi diressi con fare deciso verso il negozio all’angolo della strada.
*****
 
-Eccomi! Sono qui!- urlai, spalancando le porte di Taki’s. Subito un odore familiare mi travolse, facendomi sorridere. Entrai nel locale, ignorando le occhiate infastidite di due lupi mannari all’angolo della sala. Cercai con lo sguardo mio fratello e IPC. Li individuai quasi subito.
Erano seduti ad un tavolo al centro della stanza e si stavano sbellicando dalle risate. Probabilmente Max ha raccontato una delle sue solite storielle, pensai.
Solo dopo mi accorsi che mi stavano fissando intensamente, continuando a sogghignare. Abbassai lo sguardo su di me e solo allora mi resi conto che avevo i vestiti inzuppati dalla pioggia e le scarpe slacciate. Mi tolsi il cappuccio del giubbino, liberando una cascata informe di capelli biondi, resi crespi dall’umidità. Cercando di apparire disinvolta, mi diressi verso di loro mentre cercavo di districare i miei capelli con le dita, nel pallido tentativo di rendermi presentabile.
Chris si alzò e mi venne incontro con un grande sorriso stampato in faccia.
Non fece in tempo a salutarmi che gli buttai le braccia al collo e con le gambe gli circondai i fianchi, urlandogli nelle orecchie: -BUON COMPLEANNO, FRATELLONE!- Lo strinsi con tutte le mie forze.
Lui riuscii solo a biascicare con voce strozzata un “grazie” per poi posarmi le mani sulla vita ed allontanarmi gentilmente. La luce calda dei suoi occhi verde chiaro ed il suo sorriso radioso mi ricompensarono di tutto: della disperata ricerca del suo regalo e della folle corsa sotto l’acquazzone per arrivare fin lì.
Chris mi posò a terra e mi condusse al tavolo, dove IPC stava leggendo superficialmente il menù. Lo squadrai, i suoi capelli ribelli che ricadevano morbidi sulla fronte candida.
Sorrise sotto i baffi, ma nemmeno il suo ghigno strafottente mi avrebbe messa di malumore. L’aria del Taki’s, l’atmosfera così calda ed intima non potevano che donarmi serenità e spensieratezza.
-Mi devi cento dollari, Herondale…-
Guardai Max stupita, colta di sorpresa. Ma cosa aveva al posto del cervello IPC? Una confezione di gel per capelli? 
Max alzò lo sguardo, divertito. -Sai, Herondale, devi pagare il posteggio. Non puoi rimirare la mia bellezza irresistibile senza un prezzo.- Mi guardò, trattenendo a stento una risata.
Non mi offesi, anche perché IPC aveva un’aria innocente, in quel momento.
Chris guardò Max con una faccia allibita palesemente finta, aprì la bocca e urlò: -Non me lo aspettavo da te, Maxime Lewis. Tu, che mi promettevi amore eterno. Tu, che dicevi che mi saresti rimasto sempre accanto. Tu, che mi sussurravi che ero l’unico. Io ti ho amato, Maxime Lewis. Io ti amerò sempre e comunque, tenero orsacchiottone!-
Tutte le persone presenti nel locale si girarono verso di noi, chi scandalizzato, chi divertito.
Dalla mia gola proruppe una risata allegra e cristallina che si diffuse per la stanza, immediatamente seguita da quella di Max. Lui non rideva spesso ,perciò il suono della sua risata fu una sorpresa per me. Era calda, spensierata, senza freni.
Nel frattempo, Chris si era alzato in piedi e diceva: -Cosa avete da ridere voi, amanti segreti? Avete per sempre perso la mia stima di cacciatore di demoni!- Mentre diceva così aprì le braccia, urtando la bottiglia di Coca Cola sul margine del tavolo. Il liquido cadde sui pantaloni scuri di Chris e si creò una grande macchia all’altezza dell’inguine.
All’altro lato del tavolo Max si piegò in due dalle risate, reggendosi la pancia con le mani.
Io mi appoggiai sullo schienale della sedia e misi le mani di fronte alla bocca, cercando di calmare i singhiozzi mentre delle lacrime mi scivolavano lungo le guance. Non avevo mai pianto dal troppo ridere. Ma vedere la faccia di Chris, con la bocca aperta e gli occhi sgranati non migliorava per niente la situazione.
Max sussurrò suadente: -So benissimo, oh mio adorato pesciolino, che l’idea del mio tradimento ti sconvolge. Ma cerca di contenerti, perché tu sei l’unico per me!-
Sussurrai un “basta” strozzato. Ora tutti e tre ridevamo come matti. Appena uno cercava di smettere, gli bastava guardare gli altri due per riprendere a sbellicarsi dalle risate. Rimanemmo così per circa dieci minuti.
Fummo interrotti dall’arrivo della cameriera che, con fare irritato, ci chiese le ordinazioni.
Riuscii a malapena a scorgere i vari piatti sul menù perché avevo gli occhi offuscati dalle lacrime.
 
La serata proseguì tranquilla. Era da tanto, troppo tempo che per un motivo o per l’altro non passavamo un po’ di tempo tutti insieme. Stavo dimenticando quell’intesa incredibile che si creava fra noi. Era qualcosa di reale, di tangibile. Una sensazione calda, piacevole, che mi faceva sentire a casa. E poi guardare mio fratello ridere spensierato era stata la cosa più bella di quella sera. Perché Chris meritava questo ed altro.
All’improvviso Max fece cenno alla cameriera. Lei capì al volo e si diresse sul retro del locale. Il loro gioco di sguardi non mi sfuggii, ma IPC mi squadrò. Il messaggio era chiaro: dovevo rimanere in silenzio.
Cinque minuti dopo la cameriera tornò con un grande involucro bianco fra le mani.
Chris osservò incuriosito la confezione, ma non fece domande. Max si protese in avanti e tolse gentilmente dalle mani della cameriera il pacco. Lo posizionò al centro del tavolo e con gesti decisi lo aprì. All’interno c’era una piccola torta. Era piuttosto semplice, bianca con delicati dettagli realizzati tramite della glassa verde chiaro. Sulla torta troneggiavano tante candeline colorate. Non le contai, ma ero sicura che fossero diciassette.
Mio fratello osservò la torta con uno sguardo contento, come quello di un bambino davanti alle caramelle. Sussurrò un “grazie” emozionato, quasi come se stentasse a credere a ciò che avevamo fatto per lui. A ciò che Max aveva fatto per lui… Risentii quell’orribile senso di colpa attanagliarmi lo stomaco. Quel “grazie” era riferito a tutti e due, ma in realtà io non avevo fatto assolutamente nulla.
Piegai la testa per nascondere le emozioni che stavo provando in quel momento. Mi vergognavo, non c’erano dubbi.
-Il gusto l’ho scelto io, ma la glassa e le candeline sono tutto merito di Samantha.-
Alzai la testa con uno scatto deciso. Non riuscivo a crederci. Max non mi aveva appena coperta con Chris. L’aveva fatto per me. Lo guardai, cercando di metabolizzare quello che stava accadendo. Probabilmente era solo un sogno.
I suoi occhi erano indifferenti, impenetrabili.
Cercai di capire cosa stesse pensando in quel momento, ma non riuscii a carpire i suoi pensieri.
Intanto mio fratello ci rivolse un sorriso radioso ed iniziò a tagliare la torta in fette perfettamente uguali.
Non potei fare a meno di trattenere un sorriso. Il solito preciso…
Mi porse il piattino con il dolce e cominciai a mangiarlo con gusto. Il sapore era inconfondibile: crema alla vaniglia e ripieno alla menta. Era esattamente il gusto preferito di Chris. Ancora una volta IPC riuscii a fare bella figura: conosceva mio fratello alla perfezione. Forse lo conosceva addirittura meglio di me. Cercai di non prestare attenzione a quella considerazione, di non badare a quella fitta dolorosa vicino al mio petto. Non volevo rovinarmi la serata e soprattutto non volevo rovinarla a Chris, al mio fratellone che ora stava lodando il sapore della torta, complimentandosi con Max.
-Davvero, ragazzi, non dovevate fare tutto questo. Non potete immaginare quanto i vostri gesti mi abbiano colpito. Non dimenticherò mai questo giorno. Vi voglio bene.-
Lo guardai, quasi commossa. Era incredibile come Chris sapesse sempre cosa dire, che con poche parole riuscisse a trasmettere così tanto. Non resistetti. Gli strinsi la mano calda con forza, come per dargli tutto il mio affetto.
-E le sorprese non sono ancora finite!- sghignazzò IPC, mostrando orgoglioso un pacco regalo perfettamente incartato, con tanto di nastro rosso.
Gettai un’occhiata fugace al mio regalo, appoggiato al lato sinistro della sedia. La signora del negozio aveva finito la carta da regalo, perciò avevo dovuto arrangiarmi. Arrossii mentre appoggiavo sul tavolo il mio pacco avvolto dalla sciarpa blu di Max. Lui ghignò, ma non riuscii ad incrociare il suo sguardo.
Chris, intanto, fissava i nostri due regali, commosso.
Io e IPC ci guardammo per pochi secondi. Per una volta eravamo d’accordo su qualcosa: vedere mio fratello così felice non aveva prezzo.
-Al tre- sussurrai. -Uno, due, tre!-
A quel punto, sia io sia IPC scartammo i nostri regali. Non potei non osservare orgogliosa il mio set di acquerelli, completo di pennelli, tavolozza realizzata in legno, e tutti i colori acquerellabili possibili ed immaginabili. Osservai il regalo di Max. Notai con orrore che anche lui aveva comprato qualcosa di estremamente colorato. Con lunghi stili color ocra. E non potei non accorgermi del suo sguardo orripilato ed incredulo, che era lo specchio del mio. Come presa da una strana forza mi alzai in piedi, senza smettere di guardarlo negli occhi.
Lui fece lo stesso, faticando a tenere sotto controllo l’irritazione. Oh, ma io non ero irritata. Ero incazzata nera.
-E’ uno scherzo, Lewis?-
-Dimmelo tu, Herondale. Da quando sei diventata una copiona?
-Io copiare da te? Nei tuoi sogni, magari!
-Mi spiace deluderti, ma i miei sogni non sono invasi da un’irritante gallina urlante!
-Gallina a chi, caprone cornuto! Di certo un paio di grosse e lunghe corna sono l’unica cosa che non ti manca!-
-E sentiamo, perché sarei un fottuto cornuto?-
-Oh, per l’Angelo, Lewis, pensavo avessi più buon senso. E’ chiaro che la tua ragazza si fa tutti gli individui di sesso maschile nel raggio di chilometri!-
-È gelosia quello che vedo nei tuoi occhi, Herondale?-
-Ma che cazzo ti sei fumato Lewis! Io gelosa di quella troia con due tette di silicone e un culo talmente grande che ci si può costruire un universo parallelo?! Preferirei essere un bradipo puzzolente!-
-Penso che il tuo desiderio sia stato esaudito!-
-Dici che se desidero che tu scompaia la mia richiesta si avvera?-
-Fidati, è da una vita che ci provo con te. Eppure sei ancora qui più pesante ed irritante di prima!-
-Ma come ti permetti, brutto scorfano!-
-Murena malefica!-
-Cazzone!-
-Su questo hai completamente ragione!-
-Microcefalo!-
-Scusa, un informazione: ma per mettersi in contatto con il tuo cervello ci sono fasce orarie o devo chiamare un numero verde?-
-Dovrai chiamare il 911 quando avrò finito con te!-
-Per essere insopportabile come te non basta il talento naturale, confessa: tu ti alleni!-
-Oh, io invece ti adoro…pensa che volevo portarti in un luogo che parla di te, dove l’aria ha il tuo profumo, e dove la tua bellezza pura possa riflettersi nell’acqua… Peccato che il cesso è occupato!-
-Vaffanculo!-
-Vaffanculo!-
-Ma la volete smettere, voi due?! Vi state comportando come due bambini! I vostri regali sono stupendi, quindi se volete chiudere quella bocca possiamo anche continuare la serata!-
Non distolsi gli occhi da quelli di IPC, fremente d’ira. Potevo leggere la rabbia nelle sue iridi, in quel momento di un intenso color cioccolato, ma anche la consapevolezza di aver in parte rovinato la festa di compleanno di Chris. Provai la stessa sensazione e mi risedetti, tenendo lo sguardo basso.
Max fece altrettanto.
La voce di Chris interruppe il silenzio di tomba che si era venuto a creare. -Va bene, ragazzi- disse pacato. -Dimentichiamoci di questa discussione. Continuiamo la serata senza musi lunghi: è il mio compleanno e me lo voglio godere, senza che le persone a cui tengo di più si facciano la guerra.-
Ci pensai un attimo. Potevo farlo. Per Chris, potevo fare qualunque cosa, persino sopportare Max per qualche ora. Io e IPC sorridemmo a mio fratello, all’unisono. –
D’accordo- asserii, tranquillamente. -Hai ragione, fratellone.-
*****
 
 Uno scintillio argentato baluginò al limite del vicolo. Tre figure apparvero all’improvviso in un vortice di ombre. La figura più alta, avvolta da un lungo mantello nero, si distingueva per il biancore dei suoi denti, che brillavano nel buio della stradina. -Procede tutto secondo i piani- disse con la sua voce melodiosa e profonda. -A che punto siamo con il ragazzo, mia cara?-
Il bel viso della giovane si distorse in un ghigno, e lei si volse verso la vecchia donna. Quest’ultima annuì. Allora la ragazza parlò: - L’abbiamo quasi in pugno, mio signore.-







COMMENTO SCRITTRICI:
Ciao ciao... vi ricordate di noi? Sì, siamo quelle che non aggiornano quasi da due mesi. Ci siete mancati un sacco, perché vi amiamo come sempre. Purtroppo varie cose ci hanno ritardato: in buona parte ha influito il blocco dello scrittore che ci ha afflitto per un po', nonostante sapessimo le vicende da raccontare... La scuola, però, è la principale colpevole: abbiamo avuto un mese bello pieno, e durante le vacanze pasquali una di noi è partita e non poteva scrivere... Tutto un casino, insomma. 
Però vi pensavamo un sacco! Rebecca forever, ad esempio, che ci recensisce con tanto entusiasmo, ci ha inviato un messaggio per chiederci dove eravamo finite... Ci siamo sentite lusingate, ma anche in colpa, perché abbiamo capito che c'è qualcuno davvero determinato a seguirci e che noi lo stavamo quasi deludendo con il nostro temporeggiamento...
Ma ora abbiamo finalmente pubblicato il capitolo 9, e anche noi , C&S, possiamo tirare un sospiro di sollievo, promettendovi di cercare di non tardare più in questo modo.
Avviso per i lettori che ci seguono da più tempo: abbiamo messo il prologo all'inizio del primo capitolo.

Che altro dire... Ringraziamo ancora tutti coloro che ci recensiscono, ci mettono tra i preferiti, i seguiti o i ricordati, perché senza di voi non saremmo niente.
Bacioni,
C&S

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 10 ***


Tic, tac. Tic, tac. Continuavo a fissare il quadrante bianco dell'orologio appeso al muro della classe. La lancetta piccola si trovava quasi sulle 12. La lancetta grande batté il cinquantesimo minuto di un'interminabile lezione di storia.
Tic, tac. Non riuscivo a stare concentrata, quel giorno. Non sapevo perché. Forse ero ancora agitata per Owen, dopo la discussione fuori dalla mensa di due giorni prima. Nonostante lui sembrasse essersi scordato rapidamente dell'accaduto, tant'è che aveva ripreso ad essere dolcissimo come sempre, con i suoi messaggini della buonanotte che mi facevano sorridere come un'imbecille.
Chloe, seduta affianco a me, mi diede una gomitata sul braccio.
Le rivolsi un'espressione interrogativa, e lei indicò con gli occhi il mio porta-penne posato sul banco. Fortunatamente mi ero ricordata di impostare il silenziatore, perché dentro lo schermo del cellulare si era appena illuminato per l'arrivo di un sms. Attenta a non farmi notare dalla Martin, aprii il messaggio e lo lessi.
Owen mi aveva scritto "Penso a te" con una miriade di cuoricini.
Sentii un pezzo di cervello sciogliersi come burro, e sorrisi.
-Cosa diamine stai facendo con quel cellulare?!- La voce irata della Martin mi fece sobbalzare.
Alzai la testa di scatto, con la bocca aperta pronta a buttare fuori qualche scusa. Ma la professoressa non stava guardando me. I suoi occhi severi erano puntati su Owen, due banchi più avanti nella fila a destra della mia.
Il poveretto arrossì violentemente, abbassando lo sguardo, rispettoso. -Mi scusi, professoressa…-
-Io stavo ancora spiegando, Sherman! Ti sembra che la campanella sia suonata? Ti sembra che la lezione sia finita? Io non tollero questo tipo di comportamento così irrispettoso… Ti interrogherei, se solo non mancassero dieci minuti alla fine dell’ora. Sei fortunato.-
Per un attimo, mi sentii sollevata nel sapere che non ero stata beccata io, ma poi avvertii il cuore sprofondarmi nello stomaco per il senso di colpa: dopotutto, era per inviare un messaggio a me che Owen aveva usato il cellulare. Quindi era in buona parte per causa mia che ora la Marin lo stava rimproverando così aspramente.
-E di grazia, Sherman, vorresti dirmi davvero cosa stavi facendo con quel telefono?-
Ora becca anche me, pensai, Owen dirà la verità e anche io sarò costretta a sorbirmi una predica coi fiocchi.
-Io… Stavo solo giocando con il telefono, professoressa- disse Owen, sorprendendomi. -Sa, è tutta colpa di questa applicazione fighissima per gli iPhone, dà proprio dipendenza…-
Sentii delle risatine provenire da vari compagni di classe.
La Martin dilatò talmente tanto le narici che ebbi timore che il naso le sarebbe scoppiato da un momento all’altro, e mi venne in mente una pittoresca immagine di pezzi di naso e muco sparsi per la classe, magari proprio in  faccia a Max, che era seduto al primo banco e di cui non potevo vedere il viso, da dove ero io. Ma ero certa che stesse ghignando in modo malevolo per la sventura di Owen… Mi ritrovai proprio a sperare che il naso della professoressa gli scoppiasse in faccia.
Però sentii una strana sensazione di leggerezza nella testa, come se si fosse trasformata in una bolla. Owen mi aveva coperta. Poteva benissimo confessare che stava scrivendo a me, cosicché ci saremmo divisi la colpa. E invece non lo aveva fatto, non mi aveva tradita. Si era preso la piena responsabilità della faccenda. Sorrisi, nel bel mezzo di quella situazione per me così nuova, dolce e assurda.
-Non so se crederti o no, Sherman.- La Martin riprese a parlare con quel suo tono duro, scoprendo i denti gialli, e la classe ripiombò nel silenzio. -In ogni caso, hai sbagliato, sia che tu ti stia distraendo con quegli stupidi giochini, sia che tu mi stia prendendo in giro.- Si bloccò un attimo, puntellandosi una penna sotto al mento, forse tentando di decidere la punizione più adeguata o subdola da infliggere a quel dolcissimo ragazzo. -Per questa volta niente nota, visto che fino ad ora hai mantenuto una condotta impeccabile… ma non puoi rimanere impunito- rifletté. -Alzati, Sherman.-
Nella mia testa, paragonai Owen ad un condannato a morte. Lo vidi spingere indietro la sedia, mettersi in piedi lentamente, in silenzio, con gli occhi bassi, come se la spada di Damocle pendesse sulla sua testa, pronta a dargli il colpo finale ad un minimo cenno da parte della professoressa. Dopo che la Martin glielo aveva ordinato, il ragazzo dai capelli color mogano prese pesantemente tra le braccia i libri e lo zaino, trascinando i piedi sul pavimento fino alla cattedra, dove la vecchiaccia lo fece fermare.
Poi, in meno di un minuto, la situazione raggiunse i limiti dell’assurdo. La Martin ordinò al ragazzo che si trovava al primo banco, accanto a Max, di alzarsi e andarsi a sedere al posto di Owen. All’ex posto di Owen. Sì. Ex. Ex. Perché ora la professoressa stava indicando a Owen la sedia ormai vuota accanto a Max. -Forse, sedendoti al primo banco insieme ad uno studente esemplare, ti lascerai prendere meno dalla distrazione.-
Max si alzò in piedi, andando accanto alla cattedra, dal lato opposto rispetto a quello dove Owen era rimasto impalato per lo stupore. Varie ragazze si lasciarono sfuggire dei sospiri, alcune gli guardavano le spalle sotto la maglietta aderente e altre gli lanciavano occhiate nervose al fondoschiena, il quale sembrava essere l’attrattiva principale, a dispetto del faccino decisamente non trascurabile di Owen.
-Per quanto il suo complimento mi abbia lusingato, professoressa- disse IPC con un tono rispettoso e pacato -credo che non ci sia bisogno che Sherman si sieda vicino a me… Insomma, io non c’entro niente in questa storia, e mi sembra ingiusto che a subire le conseguenze delle sue… deplorevoli azioni- guardò Owen con una punta di qualcosa molto simile al disgusto che mi fece ribollire il sangue nelle vene -debba essere anch’io.-
Per quanto la scena fosse strana, mi trovai a rivalutare la Martin quando liquidò Max con un gesto della mano. Semplicemente perché, per una volta, qualcuno non stava pendendo dalle labbra di IPC, dandogli ragione.
-Suvvia, Lewis- lo riprese. -Non morirai mica, e non mi sembra che per te questa possa essere una punizione, o che possa toccarti personalmente in qualche modo.-
Max non replicò, ma ogni cosa si bloccò per qualche secondo.
Lui e Owen si guardarono dai lati opposti della cattedra, studiandosi a vicenda.
IPC irrigidì impercettibilmente la mascella.
Owen inarcò le sopracciglia.
Io mi sorpresi a chiedermi se davvero, come aveva detto la Martin, non ci fosse nulla in quella storia che toccava personalmente Max. O Owen. O, pensai, anche me. E mi ritrovai a riavvolgere la memoria, come la pellicola di un film, e vidi il quasi-bacio al parco, quando Max si era trovato lì e aveva involontariamente spezzato i rami dell’albero, facendo sobbalzare me e Owen e interrompendoci. Vidi il secondo quasi-bacio alla festa a casa di Owen. Era stato IPC, di nuovo, a bloccarci, quando quella ragazza dal vestito viola super aderente aveva cominciato a spalmarglisi addosso, vicino a noi. Vicino a me. In vino veritas, aveva detto Magnus, dopo le cose che Max aveva borbottato quando era ubriaco.
E arrivai ad una conclusione. Giunsi a quella che non poteva essere altro che la più pura, semplice, cristallina verità:
Max cercava di rendermi la vita impossibile. Solo questo. Lo aveva sempre fatto, del resto. Ogni volta aveva interrotto i miei baci con Owen per farmi un dispetto. Aveva deciso di farmi incazzare come una belva, aspettando che esplodessi. Poi mi avrebbe presa in giro fino alla morte. Sì, doveva essere decisamente così. Non c’era altra spiegazione, se non la sua demenziale, infantile e subdola voglia di mettermi i bastoni fra le ruote in ogni situazione. Il Perfetto del Cazzo.
Sentii la rabbia montarmi dentro, ma cercai di trattenermi, di mettere un coprire la mia ira bollente, solo per caricarmi, per urlare contro IPC che avevo capito il suo stupido piano di divertimento, una volta usciti da scuola. Cristo, l’avrei voluto strozzare con le mie mani, lì, davanti a tutti, davanti a quelle ragazzine deficienti e odiose che non facevano altro che sbavargli dietro.
Mi risvegliai dai miei pensieri quando Max e Owen tirarono indietro le sedie per mettersi ai loro posti, provocando un dannato stridore che mi fece sobbalzare.
Owen si girò verso di me, facendomi l’occhiolino, forse per tranquillizzarmi, per dirmi che avrebbe resistito a ogni provocazione di quel bastardo.
Gli rivolsi un flebile sorriso d’incoraggiamento, e lui si voltò nuovamente.
Poi, anche IPC rivolse lo sguardo verso di me, forse progettando qualche altra mossa per rendermi la vita un inferno. Nessun altro, tranne me, sembrava aver notato che mi stava ostentatamente fissando, sul viso un’espressione indecifrabile.
Pensai di distogliere l’attenzione da lui, ma la rabbia era troppa, mi montava dentro come un fiume in piena.
Così, girandosi, fu lui a interrompere quella muta conversazione.
 
-E non dimenticate, ragazzi,- disse la Martin mentre ci precipitavamo fuori dall’aula appena dopo il suono della campanella -che se volete i biglietti per la giornata dell’arte dovete prenderli dal tavolino che troverete all’uscita.-
Spintonandoci, arrivammo tutti finalmente alla porta d’ingresso della scuola.
L’aria dei primi di marzo mi accarezzò  il viso, anche se il traffico newyorkese e i suoi rumori erano una nota sempre presente.
Mi misi in fila per prendere i biglietti insieme a Chloe e Lucas.
-Allora… a che ora ci incontriamo, oggi pomeriggio, per andare insieme alla giornata dell’arte? Facciamo alle 5 all’entrata di Bryant Park? È lì che si tiene, quest’anno.-
I miei amici si lanciarono un’occhiata e poi mi guardarono imbarazzati.
Alzai un sopracciglio. -Allora?-
-Be’, ecco…- fece Lucas, mentre Chloe arrossiva -noi due vorremmo andare per conto nostro.-
-E perché mai…- cominciai, ma poi mi ricordai della festa di Natale a casa mia, di come Lucas si era mostrato geloso quando un altro ragazzo aveva invitato Chloe a ballare e di come i miei due amici erano spariti tra la folla per stare soli e indisturbati. Come avevo potuto essere così imbecille da non pensarci prima? Stavo per esprimere il mio disappunto per il fatto di non aver detto alla loro migliore amica che si stavano frequentando… Ma poi decisi di rinunciare, perché mi resi conto che io stessa nascondevo loro una quantità di informazioni in confronto alla quale il loro “segreto” era una cosa insignificante.
Alzai le mani. -Capito,- dissi -meglio lasciarvi da soli.- Poi simulai una voce da vecchina, sfregandomi le mani: -Oh cielo, i miei ragazzi crescono così in fretta!-
Chloe e Lucas scoppiarono a ridere.
Continuai: -Mi lascerete a ricordare i bei tempi andati mentre passeggio sola come un cane per gli stand della giornata dell’arte.-
-Allora ci vieni con me- disse una voce alle mie spalle. -Così non ti sentirai “sola come un cane”.-
Mi voltai.
Owen era lì a sorridermi.
Arrossii. -Non parlo sempre come una vecchietta- fu la prima cosa che mi passò per la testa, e che dissi.
Owen rise. -Era proprio quel che speravo.- Poi si fece più serio. -Allora, vieni con me all’art day, vero?-
Mi bloccai finché Chloe non tossicchiò per svegliarmi. -Certo.- Sorrisi.
 
Entrai nell’ascensore dell’Istituto. Prima che potessi schiacciare il pulsante per salire, Max s’infilò.
Non parlammo.
Io mi limitai a guardare di sottecchi il nostro riflesso nello specchio: io ero piccola, con i capelli biondi spettinati e lo zaino più grande di me che mi piegava la schiena; IPC, anche se era poggiato con la schiena alla parete opposta, la borsa con i libri a tracolla, gli occhi fissi sul soffitto, sembrava troneggiare su di me per via della sua imponente statura.
Uscimmo dall’ascensore, sempre in silenzio. Buttai lo zaino su una panca lì vicino e mi incamminai per il corridoio, con Max dietro di me.
Entrammo nella sala da pranzo. Zia Isabelle stava apparecchiando. Sul piano cottura della cucina c’era un incarto con delle lettere cinesi rosse stampate.
-Pranzo takeaway?-
Izzy sorrise. -Ovvio. Lo sai che non sono capace di cucinare. Oggi mangiamo cinese: anatra all’arancia.-
Alzai un sopracciglio. -Suppongo che mio padre la farà a pezzi.-
-Be’, è arrivato il momento che Jace superi questa stupida paura delle anatre. Ha 45 anni, per l’amor del cielo!-
-Mamma, sei sicura che questa non sia una scusa per evitare di cucinare?- domandò Max, alle mie spalle.
Isabelle alzò gli occhi al cielo e raddrizzò la schiena, incrociando le braccia davanti al petto. -Si può sapere che avete? Non vi siete mai lamentati del takeaway… adorate il cibo cinese!-
Lanciai un’occhiata a IPC, che alzò le mani. -Rilassati, mamma, stavamo solo scherzando...-
Izzy sorrise. -Sarà meglio per voi. Ora andate a lavarvi le mani.-
-Isabelle, non abbiamo cinque anni.-
Lei mi fulminò.
-Come non detto...- sospirai. -Max, andiamo a lavarci le mani.-
 
Fu così che io e IPC ci stringemmo di fronte al lavandino del bagno.
-Potresti anche permettermi di lavarmi le mani per prima, visto che sono una ragazza.-
Max mi guardò in modo eloquente. -Sul serio? Faresti una questione anche su chi deve lavarsi le mani per primo?-
Stavo giusto aprendo bocca per replicare, quando lui occupò tutto lo spazio, spingendomi via con il corpo. Aprì il rubinetto e si sciacquò le mani, il tutto con snervante lentezza.
-Ti dai una mossa, almeno?- ringhiai.
Max mi ignorò.
Tentai allora di spingerlo a mia volta, ma si spostava dovunque tentassi di infilarmi per raggiungere il lavandino.
Mi aggrappai a una sua spalla per allungare il braccio e raggiungere il flacone di sapone.
Max chiuse il rubinetto e si voltò. -Dammi il sapone.-
-No.-
L’acqua gli sgocciolava dalle mani, così prese una salvietta e se le asciugò. -Samantha.-
-No.-
Ghignò. Poi mi lanciò l’asciugamano sulla testa.
-Max!- sbottai.
Il flacone cadde a terra e si ruppe.
Mi tolsi l’asciugamano dalla testa. Vidi Max che raccoglieva il contenitore rotto e che si versava sulle mani tutto il sapone rimasto, dandomi le spalle per avvicinarsi al lavandino.
Infastidita, raccolsi il sapone che era finito sul pavimento e lo spalmai sulla schiena di Max, imbrattandogli la maglietta.
Prima che potessi fare qualsiasi cosa, lui si girò verso di me e mi spalmò quello che si era versato nelle mani sulle spalle, sporcandomi a sua volta.
-Come hai osato!- esclamai, togliendomi del sapone dalle spalle e buttandoglielo sul petto e sul collo.
Poi mi ritrovai la fronte insaponata. Max rise.
-Demente!-
Mi infilai tra lui e il lavandino, feci scorrere l’acqua e misi le mani a coppa per prenderne un po’. Mentre IPC si voltava verso di me, gliela lanciai in faccia.
Max strabuzzò gli occhi e si allungò per raggiungere il rubinetto. Mi schizzò la testa.
-E va bene,- feci -è chiaro che vuoi la guerra.-
-Sei stata tu a cominciare- si giustificò, alzando le spalle.
Fulmineamente, ci togliemmo le scarpe e le buttammo fuori dal bagno: non era il caso che le coinvolgessimo e lasciassimo poi impronte che avrebbero fatto imbestialire gli altri abitanti dell’Istituto.
Dopo cinque minuti di schiamazzi miei e risate da deficiente di Max, eravamo bagnati dalla testa ai piedi.
-Basta- dichiarai -è ora di smetterla. Comincio ad avere fame.-
-Tu hai sempre fame.-
-Sta’ zitto- sbuffai.
Stranamente, Max fece come gli avevo detto. Lo osservai: aveva i capelli bagnati che ricadevano sulla fronte, delle goccioline scendevano lungo il viso fino a raggiungere il collo della maglietta. La quale era diventata aderente e trasparente. Arrossii accorgendomi che gli si era appiccicata alla pelle, e che i contorni dei muscoli erano ben visibili.
Prima di scoprire se tutti i vestiti avevano fatto la stessa fine, distolsi lo sguardo e mi voltai per uscire.
Poi un pensiero mi fece arrossire ancora di più: chissà in che stato erano i miei vestiti. I jeans, almeno, erano scuri, ma la maglietta era bianca con una semplice stampa. Mi girai di scatto. Allungai un braccio. -Passami l’asciugamano- intimai a Max.  
Sembrò perplesso per un istante. Poi un lampo gli attraversò gli occhi. -Certo- fece. -Scusa.-
Per uno strano momento, mi sembrò di vederlo arrossire leggermente. Cercò con gli occhi l’asciugamano, evitando attentamente di posare lo sguardo su di me, cosa di cui gli fui grata. In un certo senso era comico vedere Max comportarsi in quel modo. Era così… non da lui.
Dopo averlo trovato, me lo porse tenendo gli occhi fissi sulla sua mano. -Tieni.-
Uscimmo dal bagno in un silenzio imbarazzato.
A qualche metro di distanza, la porta dell’ascensore si aprì e ne uscì Chris, fischiettando.
Poi si accorse si noi e si bloccò, fissandoci, in volto un’espressione per niente sorpresa. Incrociò le braccia muscolose davanti al petto e scosse la testa, sorridendo.
-Ho paura a chiedere cosa sia successo, stavolta… Più che altro, ho paura a chiedere il motivo totalmente inutile per cui vi siete conciati in questo modo.- Sì, stava decisamente vestendo i panni di fratello maggiore.
-Non mi ha fatto lavare le mani per prima- gracchiai, e in quel momento mi resi conto di quanto patetica fosse quella motivazione.
Chris scoppiò a ridere.
-Ehi!- sbottai. -Vorrei vederti ad avere Max intorno per tanto tempo. Significa tutta la mattina, capisci? Tutta la mattina.-
-Come se tu fossi la personificazione della simpatia!- mi sbeffeggiò Max. -Sono serio- disse a mio fratello, che si stava scompisciando. -Tu non puoi saperlo, passi un sacco di tempo alla succursale newyorkese dell’Accademia di Idris. Là sì che starei in santa pace…-
-Già, fratello,- feci -studiare lì deve essere un pacchia.-
Chris si fece più serio. -Samantha, sai benissimo che vai alla scuola mondana per una questione di sicurezza.-
Sbuffai.
-Ma chi lo sa… secondo me, se lo chiedi con gentilezza e insisti, l’anno prossimo papà ti permetterà di fare domanda per entrare lì. Sai che non resiste a te. E anche Max potrà presentare la domanda di ammissione. Non sarete obbligati a fare li stessi corsi: potete sceglierli.-
Ci pensai su. Anche se significava non andare più a scuola con Chloe e Lucas, per me quell’Accademia sarebbe stata una grande opportunità…
-Allora perché non accompagni tua sorella alla giornata dell’arte? Così avrai una vaga idea di quanto possa essere fastidiosa se sei costretto ad averla intorno per diverse ore di fila - propose Max a Chris.
Entrai nel panico: non che non volessi Chris; semplicemente, volevo stare sola con Owen.
Per fortuna, mio fratello declinò l’invito: -Purtroppo oggi ho delle lezioni pomeridiane, e non posso assolutamente saltarle.-
-Oh- tentai di sembrare il più delusa possibile. -Allora sarà per la prossima volta.-
In quel momento, un urlo ci fece voltare. -Maximilian! Samantha!-
Ci voltammo: Izzy era lì, l’indice puntato verso di noi. -In camera a cambiarvi. Subito!-
Non ce lo facemmo ripetere due volte, mentre Isabelle ci intimava di pulire tutto il disastro che avevamo combinato una volta finito di mangiare.
 
Posai la spazzola e mi guardai allo specchio: i vestiti erano puliti e asciutti e i capelli erano pettinati. Ero pronta per andare a tavola senza che Isabelle mi mandasse indietro a cambiarmi.
Qualcuno bussò alla porta.
-Avanti!- gridai.
Sentii solo che la porta si apriva. Nello specchio, alle mie spalle, vidi Max che si appoggiava con un gomito allo stipite, portandosi la mano all’altezza della fronte. Indossava abiti asciutti: un paio di pantaloni di tuta e una camicia sbottonata su una t-shirt.
-Perché ho avuto l’impressione che tu non fossi veramente dispiaciuta quando Chris ha detto che non poteva accompagnarti alla giornata dell’arte?-
Mi voltai verso di lui, dando le spalle allo specchio. -Ci vado con Chloe e Lucas. Sarebbe stato strano se Chris fosse venuto con noi, non credi? Insomma, non si conoscono molto bene- mentii.
-Strano,- disse, grattandosi il mento con il pollice e l’indice -perché i tuoi amici devono andarci insieme come coppia. Credo che non uscirebbero con un terzo incomodo.-
-Come…-
-Lo sanno tutti, Herondale. Si vede che i tuoi amici sono molto affiatati tra di loro. Tu sei stata l’ultima a capirlo… non farò commenti su che tipo di amica tu debba essere, date le circostanze.-
Mi venne da tirargli una sberla, ma mi trattenni e puntai gli occhi sulle mie scarpe: se l’avessi ignorato, probabilmente se ne sarebbe andato. Ma così non fu.
-Ci vai con Sherman, vero?- domandò con un tono indecifrabile.
Alzai lo sguardo. -E a te che importa?-
La sua voce era pregna d’indifferenza. -Voglio conoscere meglio il mio compagno di banco.-
Sollevai un sopracciglio. -E per giudicarlo ti serve sapere chi invita alla giornata dell’arte?-
Max distese le braccia lungo i fianchi e alzò le spalle. -Ho i miei criteri.-
-E tanto per sapere,- domandai, stringendo i pugni per la sua insolenza -quale sarebbe il tuo giudizio su qualcuno che esce con me?- 
-Ragazzi.- La testa di zio Simon spuntò da dietro la porta. -È pronto in tavola.- Sorrise. -Sam, tuo padre sta giusto cominciando a folleggiare sull’anatra.-
-Papà, noi stavamo parlando- fece Max. -Vi dispiacerebbe aspettare cinque minuti? Tanto è takeaway: non puoi dire che l’anatra si fredda.-
Simon spostò gli occhi da suo figlio a me e viceversa.
Sapevo che IPC sarebbe riuscito ad aggirare la mia ultima domanda per continuare a farmi il terzo grado. E non avevo intenzione di parlare con lui riguardo Owen.
-Be’,- dissi -io invece ho una fame tremenda: se aspetto solo cinque minuti credo che sverrò.- Attraversai la stanza e raggiunsi Simon. Con la mano, diedi un colpo leggero sul petto di Max e lo guardai. -Non so tu, ma io non ho nient’altro da dire.- Sorrisi beffarda per il mio trionfo. -Si va a mangiare!-
E m’incamminai verso la sala da pranzo.
Max mi superò, la camicia che gli svolazzava dietro i fianchi.
Capii dal passo rapido e pesante che ero riuscita a farlo innervosire.
Entrai in cucina sfregandomi le mani, mentre lui spostava rumorosamente una sedia e ci si buttava sopra.
 
Gli occhi di Chloe erano pieni di dubbio. -Sicura che non vuoi che aspettiamo con te?-
-Certo, ragazzi. Owen sta arrivando.-
-Samantha, noi possiamo…-
-No, Luckie. Andate a godervi la vostra uscita.-
Lucas sospirò. -E va bene. Ma, se Owen non dovesse presentarsi, sai che puoi raggiungerci in qualsiasi momento. Per noi non c’è problema: ci farebbe piacere stare con te.-
Chloe annuì, spalleggiando il suo ragazzo.
Sorrisi sorniona. -No, amico, non vi farebbe piacere stare con me. Non oggi, intendo… Immagina che vogliate sbaciucchiarvi, ma che con voi ci sia anche io. Non sarebbe piacevole neanche per me.-
Chloe arrossì fino alla punta dei capelli.
Lucas tossicchiò e raddrizzò la schiena come se avesse avuto un palo in corpo. -Grazie, Sam- disse, a denti stretti, più imbarazzato che altro.
-Oh- feci, guardandomi le unghie con aria non curante -è a questo che servono gli amici, giusto?-
Tutti e due rimasero fermi per qualche secondo.
Alzai lo sguardo. -Allora?-
Lucas sollevò le mani. -D’accordo. Ora ce ne andiamo.-
 
Circa cinque minuti dopo, di Owen non c’era neanche l’ombra. Passai davanti a vari stand. Mi infilai dietro una bancarella che esponeva CD di band studentesche, tutte con nomi improbabili scritti con un pennarello nero sulle custodie. Lì c’era abbastanza silenzio per chiamare Owen.
Aprii la borsa per tirare fuori il cellulare.
Una ciocca di capelli mi cadde di fronte agli occhi.
Alzai lo sguardo per ravviarla dietro l’orecchio.
Fu allora che li vidi. Max. Kara. E le loro labbra, unite.
Sembrava non dovessero staccarsi mai più, tanto era il trasporto che stavano mettendo in quel bacio.
 Max strinse i fianchi di Kara, attirandola a sé.
Lei sospirò, allacciandogli le braccia intorno al collo, solleticandogli la nuca con dita leggere, tirandogli delicatamente i capelli.
E questo gesto, questo piccolo gesto fece scatenare Max.
La avvolse nelle sue braccia e se la premette sul petto, intensificando il bacio.
Ma certo. Cosa pensavo? Solo perché non li avevo mai visti, non significava che non si fossero mai baciati. Chissà quante volte si erano stretti in quella maniera, le labbra incollate.
Avvertii distintamente lo stomaco stringersi in un nodo, contraendosi man mano che loro andavano avanti.
Mi sentivo di troppo. Non avrei dovuto essere lì. Non sopportavo Kara e men che meno Max, ma mi sentivo a disagio nello stare impalata, ferma a guardarli. Quello era il loro momento. Non potevo rovinarlo, per quanto non riuscissi a scollare gli occhi dalla scena. Più li fissavo, più un sapore amaro mi saliva verso la bocca, stordendomi. Dovevo andarmene il prima possibile, prima che si accorgessero di me, della mia presenza.
Ma i piedi sembravano pesare come macigni, non potevo spostarli di un solo millimetro.
Max e Kara si staccarono lentamente, tenendo gli occhi chiusi, respirando affannosamente. Le loro fronti erano una contro l'altra.
Kara poggiò dolcemente le mani sul petto di Max, ponendo una lieve barriera tra il balcone esagerato che si trovava e il corpo del suo ragazzo. Sorrise.
Poi Max aprì lievemente la bocca. Fu un sussurro rivolto a Kara, fievolissimo, dolce, che però mi arrivò in faccia amaro come il groppo che mi aveva raggiunto la gola: -Sei bellissima.-
Kara sembrò crogiolarsi in quelle due parole, sorridendo ancora di più.
Poi si abbracciarono.
E io mi decisi a muovermi, riuscendo miracolosamente a staccare i piedi da terra, sullo stomaco il peso del senso di colpa per aver assistito a quel momento così intimo, così privato.
Scollegai il cervello dal mondo circostante, andando dove mi portavano i piedi. Camminai velocemente senza guardare dove stavo andando, la borsa che sbatteva da una parte all'altra. Attraversai lo spiazzo dove si trovavano la maggior parte degli stand per la giornata dell'arte, captando solo qualche colore sgargiante e musica alta.
Quando tornai lucida, mi accorsi di star quasi correndo, e di trovarmi dall'altra parte del parco. Mi bloccai con il fiatone, sedendomi pesantemente su una panchina. Mi passai una mano sulla fronte, respirando profondamente. Sentii un rivolo di sudore corrermi giù per la schiena.
Non mi resi conto del demone finché non avvertii il suo alito caldo e pesante solleticarmi il collo. Mi abbassai appena in tempo, prima che una spina gigantesca perforasse l'aria, esattamente nel punto in cui fino a pochi secondi prima si era trovata la mia testa.
Mi buttai in avanti, spostandomi dalla panchina e rimanendo in ginocchio, la faccia a pochi centimetri dall'erba.
Un Drevak. Era un demone pericoloso, ricordai, ma non particolarmente sveglio. Sfruttai questa cosa per prendere tempo, prima che il mostro si accorgesse che mi ero solo accovacciata e non scappata. Aprii febbrilmente la borsa, cercando lo stilo. Ma non c'era. Presa dalla disperazione, cominciai a svuotarla. Una penna, un pacchetto di chewing-gum, il telefono e qualche banconota accartocciata fu tutto quello che ne uscì.
Ma perché cavolo mi trovavo sempre sprovvista di armi?
Mi guardai intorno, ma non scorsi nessun oggetto da usare come arma. Vedevo solo erba e alberi; sradicare qualche panchina andava decisamente oltre le mie possibilità. Cominciai ad avanzare carponi, cercando di allontanarmi dal Drevak.
 Ma il demone, mettendo in pratica il suo odorato fino, sembrò cogliere la mia posizione, seguendo la scia del mio odore. Strisciò sotto la panchina con il suo grosso corpo bianco di larva, le spine della bocca protese verso l'esterno, verso di me.
Cercai di pensare velocemente, guardandomi intorno alla ricerca di ispirazione per ideare un piano disperato dell'ultimo secondo. Ma, dannazione, i piani ben ideati non erano compito mio, durante le battute di caccia.
Quello era il lavoro di Max, che riusciva a tenere i nervi saldi in qualsiasi momento di pericolo, che non si faceva prendere dal panico, riuscendo ad analizzare la situazione in modo distaccato e preciso, strutturando nella sua mente brillanti piani d'attacco, che se andavano all'aria era solo perché io non mi attenevo alle sue istruzioni.
Sì, pensai a Max. E a Kara. E alle loro labbra unite, poco prima. Una strana sensazione mi attanagliò lo stomaco, facendomi scordare per qualche secondo del Drevak sempre più vicino. Ma mi ripresi subito.
Di solito, a questo punto, mi facevo prendere dal panico e delle idee avventate mi folgoravano, facendomi agire in un modo completamente diverso rispetto a quello progettato da IPC. E, anche questa volta, un'idea arrivò. Un'idea folle, molto probabilmente suicida e difficile da attuare. Ma dovevo metterla subito in pratica, se volevo avere qualche speranza di successo.
Proprio mentre una spina stava per colpirmi, scavalcai con un salto il demone, atterrando sulla panchina alle sue spalle.
Quello si fermò per un attimo, sollevando la testa da bruco e annusando l'aria, disorientato.
Approfittai della sua confusione momentanea per togliermi la giacca e attorcigliarla a mo' di corda.
Studiai per qualche istante i rami più vicini della quercia attaccata alla panchina, e ne scelsi uno che mi sembrava abbastanza stabile. Ci avvolsi la giacca e lo usai come leva par salire sull'albero, aiutandomi con i piedi.
Mi dissi di non guardare verso il basso, ma fu più forte di me. E feci un errore, perché per poco non andai in confusione, quando mi accorsi che il demone mi aveva localizzata. Tra me e me, esultai nel guardare il Drevak che non riusciva ad arrampicarsi a causa del suo grosso e viscido corpo larvale... Ma durò poco, dato che mi resi conto che, se fossi scesa, il Drevak mi avrebbe fatta a pezzi: ero bloccata sull'albero, senza via d'uscita.
E di nuovo mi guardai intorno, per cercare di capire cosa usare per batterlo. Ma, da lassù, era impossibile fare qualsiasi cosa.
Una spina avvelenata si conficcò nel tronco, un paio di centimetri sotto il mio piede.
Decisi che, per il momento, era meglio salire un po' più in alto. Non fu semplice, anche se la quercia non era molto grande. Sentivo le mani bruciare, sul punto di scorticarsi contro il legno ruvido. Le scarpe scivolavano in continuazione, provocandomi brividi di panico ogni volta che rischiavo di perdere la presa con i piedi e che mi sentivo il tronco mancare da sotto le suole.
Un'altra spina arrivò, puntandosi tra il mio pollice e il mio indice, vicino alla testa.
Guardai verso il basso, e mi accorsi di non aver fatto poi tanta strada. Il demone teneva la bocca aperta, pronto a scagliare un altro colpo.
In un atto disperato, staccai un ramo e lo gettai giù, sperando di colpire il bersaglio. Miracolosamente, il ceppo finì tra le fauci del mostro, che cominciò a contorcersi tentando di sputarlo. Almeno potevo guadagnare un po' di tempo.
 Di scendere, però, non se ne parlava: avevo troppo timore che il Drevak riuscisse a riprendersi da un momento all'altro.
Improvvisamente, qualcosa al margine del mio campo visivo attirò la mia attenzione. Capelli neri e occhi luccicanti fin troppo familiari. Dall'altra parte dello spiazzo, nella penombra, c'era Max. E in mano aveva qualcosa di luccicante, anch'esso a me conosciuto... Il mio stilo. Ma certo, dovevo averlo perso mentre guardavo la scenetta di Max e Kara che si scambiavano effusioni. La strana sensazione allo stomaco fu subito sostituita dal sollievo.
Sì, per una volta ero sollevata nel sapere che qualcuno, anche IPC, avrebbe potuto darmi una mano. Ma non gli avrei permesso di ucciderlo da solo... Potevo farlo fuori io, mi serviva solo lo stilo. A questo punto -ironia della sorte-, Max si rivelava essere la mia unica speranza. Lo guardai, cercando i suoi occhi.
Ma qualcosa non andava. Mi sfuggivano, e Max con loro. Aggrottò la fronte, puntando finalmente il suo sguardo su di me.
Da lontano, notai le sue nocche sbiancare, nel mentre che stringeva il mio stilo sempre più forte.
Ma era rimbambito? Non si accorgeva della situazione disastrosa in cui mi trovavo? Un moto di rabbia e impazienza mi fece stringere i denti. Mi resi conto che IPC era sparito. Aprii la bocca per richiamare la sua attenzione.
Ma mi uscì solo un verso strozzato, quando sentii una spina conficcarsi nella coscia, poco sopra al ginocchio.
La vista mi si appannò, e tutto divenne verde. Ai margini del mio campo visivo comparvero dei puntini rossi, che cominciarono a balzare da una parte all'altra, confondendomi, aumentando man mano che il dolore mi lacerava la gamba, salendo su per la spina dorsale, dandomi una scarica elettrica. Quasi non mi accorsi di aver perso la presa sull'albero, di star cadendo verso il terreno.
Finché non lo colpì violentemente, e il contraccolpo mi rimbombò in tutto il corpo, rischiando di rompermi il collo. Fu un sollievo rimanere viva.
Poi un pensiero macabro mi attraversò la mente: se non fossi morta per il colpo alla schiena, probabilmente sarei morta per il veleno del Drevak. Mi venne un conato di vomito nel ricordarmi che il demone era ancora in circolazione. Ero quasi certa che Max non l'avesse ucciso, da come non aveva mosso un dito per aiutarmi. E poi, era evidente che se ne era andato prima che la spina mi colpisse. Per una volta, ora che stavo per morire, mi trovai a desiderare l'aiuto di Max. Ma non arrivò.
Provai a muovermi, ma ero totalmente paralizzata sull'erba, e quel tentativo mi causò una scarica di dolore lancinante alla gamba. Riuscii solo a spostare le dita per toccare il punto che mi bruciava terribilmente. Mi sentii il mondo crollare addosso quando avvertii la spina sotto i polpastrelli. Lunga diversi centimetri, mi spuntava in modo disgustoso dalla coscia.
Il sangue mi bagnò la mano: usciva caldo, a fiotti. E un'altra sostanza mi mandò in fiamme la pelle: il veleno del Drevak. Mi sforzai di ricordare ciò che era scritto nel Codice a proposito di quella razza di demone. No, il veleno non era sempre fatale: si moriva solo se non si interveniva tempestivamente. Ma, di fatto, non avevo idea di chi potesse aiutarmi e curarmi, in quel momento.
Poi sentii lo scroscio d'acqua, e mi sembrò un po' più possibile stare attaccata alla vita. La fontanella, a qualche metro di distanza, era stata messa in funzione.
Strinsi i denti gorgogliando per il dolore, e, ansimando, mi misi in ginocchio. I puntini ricominciarono a danzarmi davanti agli occhi, ma si calmarono subito.
 Poco distante, il demone giaceva vivo, ma tramortito. La punta del ramo che gli avevo lanciato spuntava dalla bocca.
Gattonai fino alla fontana, soffocando i conati di vomito e le urla di dolore. Una volta arrivata, mi sedetti sulla terra, la schiena appoggiata al ferro freddo che mi risvegliò leggermente. Presi coraggio ed esaminai la ferita: era bruttissima, forse la peggiore che avessi mai avuto. Intorno ad essa, sul jeans, una macchia di sangue si allargava sempre di più. Decisi che era meglio togliere la spina: forse l'emorragia sarebbe aumentata, ma il veleno rischiava di uccidermi più in fretta.
 Afferrai saldamente la spina con la manica della giacca. Con mano ferma, la estrassi tutta d'un colpo. Non riuscii a bloccare l'urlo che mi uscì dalla gola. La spina era nera, più lunga di quanto pensassi, e del veleno verde stillava dalla punta. La usai per strappare il jeans intorno alla ferita. Decisi di non scagliarla lontano, ma di tenermela accanto, posandola sull'erba.
Immersi un lembo della giacca nell'acqua della fontana. Lasciai che il sangue si scrostasse dalle mani, per rinfrescarle dal bruciore dovuto ai tagli che mi ero procurata arrampicandomi sull'albero.
Con la giacca bagnata, pulii la ferita, premendo per far uscire il sangue avvelenato e poi tamponando delicatamente. L'acqua fredda mi aiutò notevolmente, mentre scoprivo la pelle scorticata e bruciata ai margini della ferita. Ripresi in mano la spina per tagliare una manica della giacca. La usai come un laccio emostatico, avvolgendola intorno alla coscia e bendando la ferita, facendo un nodo bello stretto per bloccare il sangue alla meno peggio.
Mettermi in piedi fu una fatica, ma senza dubbio mi sentivo meglio rispetto a prima. Zoppicando, la spina in mano, camminai fino al demone tramortito.
Non fece una piega quando gli conficcai la spina nella gola e gli squarciai la pelle fino all'addome. Si disintegrò in un mucchietto di cenere, a cui diedi un calcio con il piede della gamba sana.
Decisi di andarmene a casa: era meglio chiedere una pozione per togliere del tutto il veleno... E poi, dovevo piazzare una poltrona davanti all'ingresso dell'Istituto, di modo che, appena arrivato, a Max sarebbe venuto un infarto nel vedere il mio sguardo che lo fulminava. Sì, mi sfregai le mani immaginandomi la scenetta. Mi sarei anche presa una coppa di pop corn per godermi la sua agonia, proprio come aveva fatto lui poco prima. Ma perché non mi aveva aiutata?
"Brutto bastardo" fu l'unico pensiero che rivolsi a IPC in quel momento.
-Samantha!- Sospirai rendendomi conto di aver trascurato un dettaglio: Owen, al quale avevo promesso di passare un bel pomeriggio insieme. -Ti ho cercata dappertutto- disse, il fiatone dovuto alla corsa -e non hai risposto al telefono...- Poi si bloccò, e assunse un'espressione preoccupatissima, lanciandosi verso di me.
-Merda... Stai zoppicando. Cosa ti è successo, tesoro?-
Un mare di emozioni mi esplose nel petto: sorpresa, per aver sentito Owen dire una parolaccia in modo così aperto; gratitudine, perché adesso i suoi occhioni castani erano spalancati e pieni di apprensione verso di me; e poi, più forte di tutte, un calore che si sciolse come burro nella testa, per poi scendere fino allo stomaco, quando metabolizzai la parola "tesoro".
Avevo sentito varie volte mia madre chiamare così mio padre... Ma solo i miei genitori e Izzy - qualche volta anche Simon - avevano usato con me quell'appellativo. Normalmente, l'avrei trovato estremamente mieloso... ma detto da Owen, aveva tutto un altro suono.
Mi ripresi abbastanza per rassicurarlo: -Non è niente, Owen, sta' tranquillo. Sono solo inciampata e caduta. Mi sono sbucciata un po' i palmi, ma sto bene.-
Owen non sembrò convinto. Mi prese per il polso, delicatamente. -Vieni.-
Mi lasciai trascinare.
Owen mi portò fino alla fontanella e mi fece sedere sulla panchina accanto ad essa. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto pulito di stoffa candida, e lo immerse nell'acqua. Si sedette accanto a me e mi guardò.
-Permetti?- chiese, indicando con gli occhi le mie mani.
-Davvero, Owen- provai a dire -sto benissimo. Non c'è bisogno che tu...-
Owen alzò le spalle e arricciò le labbra in modo adorabile. -Ormai ho bagnato il fazzoletto.- E mi prese le mani fra le sue, in modo deciso ma cortese, girandole in modo che i palmi fossero rivolti verso l'alto. Smisi di ribellarmi, permettendogli di aiutarmi. Anche perché mi sentivo la testa leggera, ogni volta che mi stringeva le mani un po' più forte. Fece un'espressione contrariata non appena vide i tagli che mi costellavano le mani. -E questi me li chiami un niente?- Scosse la testa. -Bisogna pulirli un po', così si rimargineranno prima.- Lentamente, posò il fazzoletto sulla mia mano destra. Cominciò a tamponare, pulire e strofinare i graffi.
Lo guardai attentamente: aveva la fronte aggrottata per la concentrazione, i capelli castani erano resi più scuri dall'ombra degli alberi che ci sovrastavano. I suoi occhi color cioccolato brillavano, fissi sulle nostre mani.
Mi incantai a guardare la cura con cui si occupava del lavoro che stava facendo, passando alla sinistra.
Dopo un po', richiamò la mia attenzione: -Sam?-
Lo guardai con aria interrogativa.
-Ho finito- disse, poggiando il fazzoletto affianco a lui.
Ed era vero: guardai i miei palmi, ormai tutti puliti dal sangue, i graffi molto meno visibili. Annuii, sentendo una punta di delusione: avrei voluto che continuasse, ma davvero non ce n'era bisogno. Owen aveva fatto un lavoro eccellente, semplicemente con un po' d'acqua.
-Vuoi che prenda io il fazzoletto? Lo lavo e poi te lo porto... È tutto sporco di sangue.-
Lui sorrise. -No, no. Non preoccuparti assolutamente. Sono stato io a voler usare il fazzoletto per pulirti il sangue dalle mani, quindi la responsabilità è mia. Non credo che mia madre si arrabbierà, quando glielo porterò a casa.- Fece una smorfia. -Al massimo obbligherà me ad occuparmene.-
Ridemmo, insieme. Poi mi venne un brivido e tremai per un istante.
-Che hai?- domandò Owen.
-Solo un po' di freddo...- dissi, perché era quello ciò che avevo sentito. Probabilmente era solo il fatto di non avere la giacca sulle spalle.
 -Oh,- fece Owen -aspetta.- Si tolse la giacca e me la avvolse intorno alle spalle. -Va meglio?- chiese, tenendo le mani sul colletto, vicinissime al mio viso.
Arrossii. -Certo, grazie. Ma a te non serve?-
-Me la darai quando ti sentirai meglio- rispose, alzando le spalle. -Il freddo non è un problema, per me.- Sorrise, scherzoso. -Sono super resistente.-
Decisi di non precisare il fatto che avevo anch'io una giacca allacciata in vita e che potevo benissimo mettere quella. Prima di tutto perché mi serviva per nascondere la ferita della spina, poi perché... Be', perché indossare la giacca di Owen era una prospettiva molto più interessante, soprattutto se significava che mi sarebbe stato così vicino. -Sì- confermai, ridendo. -Sei proprio resistente.-
-Mi prendi in giro?- chiese, giocando.
-Assolutamente sì- dichiarai, in falso tono solenne. -Bene. Mi piacciono le ragazze burlone.-
-Suppongo che prenderti in giro per aver usato la parola "burlone" mi farebbe guadagnare punti...-
Rise leggermente.
-Quindi...- cominciai, arrossendo e ridendo nello stesso tempo -vuoi dire che potrei piacerti?-
Owen sollevò un angolo della bocca. -Tu mi piaci comunque- disse, abbassando la voce e stringendo la presa sul colletto.
Non risi più. Rimasi bloccata, non sapendo cosa fare. Dovevo rispondere "Anche tu mi piaci"? Dovevo limitarmi a guardarlo negli occhi?
Fu Owen a risolvere il problema. Mi tirò leggermente per il colletto, avvicinando il mio viso al suo. Ci fu solo silenzio, anche nella mia testa. Poi poggiò le sue labbra sulle mie, piano, delicatamente, quasi avesse paura di farmi male.
E lo lasciai fare. Lasciai che il mio primo bacio si prolungasse, chiudendo gli occhi. Sentivo solo le labbra di Owen, sottili ma morbide.
Fu un bacio a fior di labbra, casto, ma mi resi conto che Owen non era niente male. Non che potessi fare paragoni... Ma, tra me e me, mi piacque pensarla così.
Portò le mani sulle mie guance, scostandosi leggermente. -Niente male,- disse -davvero niente male.-
Arrossii violentemente, avvertendo il fiato fresco di Owen che si infrangeva sulla mia faccia. Ringraziai Raziel di essermi lavata i denti per bene, prima di uscire. Sorrisi. -Dici?-
-Assolutamente sì- rispose, imitando le parole che poco prima gli avevo rivolto io.
Risi piano.
-Sarà il caso che andiamo- disse Owen. -Si sta facendo tardi, e purtroppo mia madre è molto rigida sugli orari.-
-Oh- feci, delusa. -Ehm... okay. Hai ragione.- Già, parlai come una deficiente.
Owen si alzò, e io con lui. Mi aspettavo che mi prendesse per mano, ma non lo fece. Forse non voleva farmi male per via dei graffi, ma lì per lì non potei fare a meno di chiedermi se avessi sbagliato qualcosa.
Camminammo in silenzio per un po', quasi fino all'ingresso del parco, che non era lontano.
-Mi spiace che sia oggi sia durato così poco.-
Non seppi se si riferiva alla giornata in generale o al bacio. Ad ogni modo, ero d'accordo per entrambe le cose. Quindi concordai: -Anche a me.-
-Sai una cosa?- fece.
-Cosa?-
-Se non tieni conto del fatto che il parco è diverso, è quasi come quando ho provato a baciarti la prima volta. Prima che fossimo interrotti da quel rumore.-
Sorrisi, accorgendomi che aveva ragione... Cacciai indietro il ricordo di quando avevo scoperto che a fare rumore e interromperci era stato quel coglione di Max che cadeva da un albero. Sperai che si fosse fatto proprio male, in quell'occasione.
Non riuscivo a capire perché, ma baciare Owen dopo aver visto Max baciare Kara era stato soddisfacente... Quasi come se un conto fosse stato pareggiato.
Ad ogni modo, tornai con la mente fissa su Owen. -Già- asserii al suo commento precedente -è tutto come allora.-
-Solo che stavolta ci siamo baciati davvero- precisò Owen.
Sorrisi di nuovo. -Lo so.-
-Credi che potrei riprovarci?- domandò, arrossendo leggermente. -A baciarti, intendo.-
Una vocina nella mia testa stridette di gioia. -Direi di sì.- Mi sentivo le guance in fiamme. -Quando ne avrai voglia.-
Owen annuì, sorridendo leggermente. Restò un po' a guardarmi, poi chiese: -Tu devi prendere l'altra uscita, giusto?-
-Sì.-
Lui sospirò e alzò la mano in segno di saluto. -Allora vado.-
Gli guardai la schiena man mano che si avvicinava al cancello.
Sospirai anch'io e mi girai, prendendo a camminare. Dopo un po', sentii un rumore di passi svelti e una mano che mi afferrava il polso, facendomi voltare.
Riuscii a vedere solo due occhi castani, prima che mi cingesse la vita con le mani e mi attirasse a sé per baciarmi. Fu un bacio più deciso, più profondo del precedente. Gli misi le braccia sul petto, poggiando le mani sulle sue spalle. La distanza rimpicciolì man mano che lui mi abbracciava.
Poi il bacio finì. Aprii gli occhi, e così anche lui.
-Avevo voglia adesso di baciarti.-
Sorrisi a Owen. -Direi che hai fatto bene a tornare indietro, allora.-
-Sì, be', purtroppo adesso mi tocca davvero andare a casa. Ci vediamo domani a scuola. Altrimenti mia madre mi farà fuori.-
Risi. -E va bene.-
Owen si staccò e si allontanò, ogni tanto girandosi e sorridendomi. Poi sparì oltre il cancello.
Mi voltai e me ne andai anch'io, continuando a pensare al fatto di aver dato il mio primo bacio.
Uscii dal parco e mi avviai verso casa. Non passò molto tempo che mi sentii di nuovo prendere per il polso.
Stavolta, la mano che mi afferrò era molto più calda.
Una scarica elettrica mi attraversò. La sensazione fu che appartenesse ad un'altra persona, ma Owen sembrava l'unica scelta plausibile.
Sorrisi pensando che era nuovamente tornato indietro, e mi preparai a ricevere un altro bacio, avvicinandomi - mentre mi voltavo - al corpo caldo del proprietario della mano.
Il mio voleva essere un gesto dolce, invece sbattei contro il suo petto.
Al di là della figuraccia, constatai con piacere che Owen aveva molti più pettorali di quanto pensavo.
-Scusami, Owen- dissi, la voce dolce. Ridacchiai, arrossendo. -Lo sai che hai molti più muscoli di…-
Sbiancai non appena vidi la faccia del proprietario dei pettorali che stavo per lodare, un sopracciglio talmente inarcato che sembrava stesse per finirgli in mezzo ai capelli. Col senno di poi, mi dissi, avrei dovuto accorgermi del profumo di sapone familiare e dell'altezza (quella delle costole) alla quale avevo colpito con la testa Max.
Non sapevo se schifarmi o provare vergogna.
Ma quando nello sguardo di Max scorsi un indecifrabile guizzo di luce, con la sua mano serrata delicatamente intorno al mio braccio, mi sentii minuscola mentre un’ondata di rossore mi invadeva fino alla punta dei capelli.
Fissai lo sguardo davanti a me, sul petto di Max, evitando di incontrare i suoi occhi.
-Sì?- domandò con uno strano tono. -Cosa stavi dicendo a proposito dei muscoli?-
-Io… ecco, io penso di essermi confusa dopo aver sbattuto contro di te e…-
-Ci credo che ti sei confusa… Insomma, mi stavi scambiando per quello lì. Come si fa a non accorgersi subito della differenza, dico io?- mi sbeffeggiò in modo così sfacciato che sentii la faccia cambiare colorazione, dal rosso al viola.
Non risposi alla provocazione, perché avevo troppa paura di dire qualche cavolata e sembrare ancora più scema. Ma non resistetti dall’alzare gli occhi sul suo viso.
Il ghigno che avevo già avvertito nella sua voce era lì, come sempre, stavolta particolarmente accentuato.
Vedendo che non ribattevo, IPC alzò gli occhi al cielo e mi lasciò andare.
A questo punto, sarei potuta scappare…  Ma non lo feci. Rimasi inchiodata davanti a Max, incapace di fare un solo passo.
-Lasciamo perdere- borbottò Max, spostando lo sguardo da me e posandolo sulla tasca interna del giubbino in cui aveva cominciato a frugare. -Stavi cercando- e tirò fuori il mio stilo -questo?-
Mi tornò in mente di come mi aveva lasciato in balia del Drevak, e mi venne voglia di prenderlo a pugni.
Con un tono accondiscendente che mi fece saltare i nervi, mi chiese: -Sai dove ho trovato il tuo stilo?-
Sfoggiai un sorriso tanto falso quanto smagliante. -Be’, non ne ho idea. Ma per fortuna l’hai trovato. Quindi grazie tante.-
Allungai una mano per strappargli lo stilo, ma lui sollevò il braccio, ponendolo al di fuori della mia portata.
-L’ho trovato- soffiò -dove poco prima stavo facendo i fatti miei.-
Non potei fare a meno di notare come aveva detto “fatti miei” al posto di “sbaciucchiavo Kara”. Continuai comunque a fare buon viso a cattivo gioco. -Potresti essere più preciso? “Fatti miei” è decisamente troppo vago: non riesco a capirti.-
-È qualcosa che non ti riguarda assolutamente… e poi, se è come penso io, sai benissimo di cosa sto parlando.- Si grattò il mento con finta aria dubbiosa. -E credo proprio di avere ragione, dal momento che prima che cominciassi a fare i fatti miei il tuo stilo non c’era.-
Quel giochetto cominciò a scocciarmi. -Senti,- dissi -prima di tutto, accetta l’idea di dire “baciare la mia ragazza”, perché sennò mi attacchi i nervi.-
Max aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo bloccai prima che emettesse un fiato.
-E poi sì, vi ho visti.- Dovetti sforzarmi per non far salire il sangue alle guance, stringendo i pugni a tal punto che le unghie si conficcarono nei palmi. -Ma ti giuro che non avrei voluto. Non vi ho neanche interrotti, non mi sono messa in mezzo per rovinare i tuoi piani con lei, non vi ho dato alcun fastidio. Non vi siete neanche accorti della mia presenza, visto com’eravate impegnati, tanto che sono arrivata e avevate già cominciato, me ne sono andata e non avevate ancora finito. Non ti ho preso in giro dopo che hai detto a Kara che è bellissima… Quindi proprio non capisco cosa tu abbia contro di me, stavolta!- Ripresi fiato e avvertii un dolore sordo alla coscia, dove sentivo la ferita bruciare.
Max restò interdetto per un istante, ma si riprese subito. -Intanto hai guardato.-
Sentii la rabbia esplodermi nella testa. -Mi sono comportata senza dubbio meglio di te, che intervieni solo quando non dovresti!-
I suoi occhi si incupirono, e io infierii: -Ogni maledetta volta che Owen stava per baciarmi hai fatto in modo che non accadesse.-
-Pensi che lo abbia fatto di proposito?-
-Certo che sì! Tu non fai mai nulla per sbaglio. Ho capito benissimo che stai solo cercando di mettermi i bastoni fra le ruote, perché hai un bisogno vitale di far sì che io non ottenga quello che voglio… Anche se la cosa in questione è un bacio!-
-Sei solo capace di fare tutte queste macchinazioni mentali?- m’interruppe, ma continuai senza pietà, i miei occhi ormai fissi nei suoi, quasi ad annullare la differenza d’altezza. La distanza tra di noi era ridotta a due centimetri, in modo che ci fosse un dialogo anche tra i nostri sguardi, uno d’oro e l’altro d’ambra.
-Ti ho visto, prima. Il Drevak mi ha attaccata- sentii un'altra fitta alla coscia, ed ebbi un capogiro -e tu non hai fatto niente. Non mi sto incavolando perché volevo che arrivasse il Principe azzurro per salvarmi... Ma, per Raziel, stavo per soccombere! Potevo morire; sono viva per miracolo. Posso capire che non ti importa niente di me, ma almeno potevi lanciarmi lo stilo!-
-Credevo che te la saresti cavata da sola!- sbottò Max, interrompendomi. -All'inizio ho pensato di aiutarti, ma poi mi sono ricordato che dici sempre di poter fare tutto da sola e che ti sottovaluto... Ora mi sono comportato come hai sempre richiesto, ma ti lamenti ugualmente. Non sei mai contenta, sembra che tu ti diverta a venirmi contro a tutti i costi, non importa quanto quello che vuoi sia incoerente da un giorno all'altro! Ma forse stavolta hai ragione...- Il suo tono si fece sibilante, e la sua voce soffiò sulla mia faccia questa frase: -Probabilmente ho avuto troppa fiducia in te, e ho erroneamente creduto che non ti saresti aspettata un salvatore che ti togliesse dai guai.-
E non seppi cosa ribattere. Parte del mio cervello era ancora sicura di avere ragione, ma Max aveva un'abilità con le parole che era spiazzante: la mia mente non riuscì ad elaborare un pensiero da trasformare in parole contro IPC. Max mi stava facendo sentire una debole.
-E poi, Owen ti ha baciata comunque!- aggiunse in tono aspro.
Non mi curai del fatto che Max era molto più alto, forte e muscoloso di me; semplicemente, gli afferrai la maglia all’altezza del petto e lo avvicinai.
Max non oppose resistenza.
Non c’era più distanza, neanche uno spiffero tra di noi.
Solo le nostre facce non erano incollate: la sua sovrastava la mia, per via degli oltre trenta centimetri buoni di differenza d’altezza.
I respiri si mescolarono.
Sentii le gambe tremare e un dolore lancinante alla ferita, ma non rinunciai a infondere nel mio tono tutta la rabbia che provavo, il mio pugno stretto intorno alla stoffa della sua maglietta.
-Tu- ringhiai a bassa voce -ci hai spiati. Chi ti ha dato il diritto di farlo?-
-È quello che hai fatto tu, mi sembra- sibilò, mantenendo il contatto visivo. -E lasciamelo dire…- mi tirò leggermente la manica della giacca -ti sei fatta catturare da qualche stupidaggine mielosa. Ti ha dato la sua giacca, ma potevi benissimo usare la tua. Perché non l’hai fatto?-
In quel momento mi resi conto che
  1. avevo ancora indosso la giacca di Owen e
  2. Max non sapeva che il demone mi aveva colpita, era tornato indietro quando già con me c’era Owen.
A Owen avrei ridato la giacca l’indomani mattina.
Avrei sfruttato la seconda scoperta, tacendo a IPC il fatto di avere una terribile ferita alla coscia per non sembrare ancora più debole.
Proprio in quel momento un dolore tremendo partì dalla gamba e mi attraversò il corpo. Mollai la presa sulla maglia di IPC e mi allontanai, sentendo la testa girare.
Decisi di andare a casa il più velocemente possibile, facendo in modo che Max non si accorgesse di niente. Mettere i passi in sequenza per riuscire a camminare mi costò una fatica immane e fece aumentare il dolore. Cominciai a zoppicare.
Max mi affiancò, parandosi di fronte a me.
Mi puntò gli occhi sul viso, ma io lo abbassai per sfuggirgli.
-Max- tentai -ti prego. Lasciami stare.- Strinsi i denti per il dolore.
-Tu dimmi perché non hai usato la tua giacca.-
-Max, te lo chiedo per favore, smettila di prenderla sul personale.-
Chiusi gli occhi per resistere ad una fitta particolarmente forte.
Capii che Max si era accorto che qualcosa davvero non andava quando avvertii un tono dubbioso nella sua voce.
-Posso sapere che cosa hai?-
Non risposi.
-Samantha, si vede che non stai bene.-
Avrei quasi voluto ridere per il suo tono, visto tutto il discorso sulla fiducia che mi aveva fatto poco prima. Invece mi misi a fissare un punto indistinto del suo giubbino. Il filo di voce che mi uscì dalle labbra mi fece dubitare che Max riuscisse a sentirmi mentre dicevo: -Non ho niente. Voglio solo tornare a casa.-
Ma lui capì lo stesso. -Mi dici cosa ti è successo?-
Le sue parole mi sembrarono urlate.
Non risposi.
Non ebbi neanche la forza di bloccare Max quando allungò un braccio e mi strappò la giacca dalla vita, scoprendo il jeans insanguinato e la fasciatura ormai scesa al ginocchio.
L’aria di inizio marzo mi ghiacciò quando la ferita vi fu esposta.
Max guardava il punto in cui la spina del Drevak si era conficcata, e io riuscii a vedere il suo cervello che lavorava per collegare tutti i pezzi e capire cosa era accaduto.
Tutto quanto, ai miei occhi, fu coperto da puntini che saltavano da una parte all’altra del mio campo visivo.
Max si gettò verso di me, un’espressione forse attonita dipinta sul volto.
Sentii il calore delle sue braccia che mi avvolgevano e mi sostenevano.
Poi fu buio.
 
*****
 
 
Non ci sono stelle, questa sera. Soltanto un sottile spicchio di luna è comparso nel nero manto notturno. Ma la sua luce fioca ha illuminato la città di New York, dai quartieri popolari della periferia ai moderni appartamenti luccicanti in vetta agli alti grattacieli. La città non dorme mai: non è cosa insolita osservare le macchine sfrecciare veloci per le strade o qualche ubriaco uscire barcollando da un pub, reggendo in una mano una bottiglia di birra da quattro soldi.
Ma arriva sempre un orario, giusto il breve movimento delle lancette di un orologio, pochi attimi in cui New York cade in un breve sonno profondo, dove i rumori dei clacson sono solo ricordi lontani, dove non c'è una sola foglia in movimento a Central Park, dove perfino le luci brillanti dei lampioni gettano una luce più fioca, morbida.
Ed in quel mentre, solo una figura ha osato rompere quel delicato equilibro, ha osato uscire dal limbo della notte. Un'ombra longilinea. Sicuramente una ragazza, per la forma piena dei fianchi e le morbide curve del petto. Ha iniziato a correre velocemente, diretta sicura verso una semplice villetta a due piani all'angolo della strada.
Al suo passaggio la luce dei lampioni è arrivata a intermittenza, come se non volesse illuminare, o svelare, la figura. Perfino la luna si è nascosta dietro a pesanti nuvoloni neri, che promettono l'arrivo di un temporale.
Il buio. Non si riesce più ad intravedere l'ombra della ragazza.
Ma, se prestate ascolto potere sentire un impercettibile ma continuo ticchettio. Tic, tic, tic. Come di tacchi che sbattono sull'asfalto. Forse potete anche immaginare le minuscole pietruzze di cemento sotto le suole delle sue scarpe che creano attirato fra i piedi ed il suolo.
Ora, seguiamo il loro rumore. Si sta attenuando sempre di più.
Ma adesso captiamo un cigolio sinistro, come di una porta non oliata a dovere che viene socchiusa, quanto basta per farvi passare una persona soltanto.
Poi il silenzio.
La luna non è ancora uscita dal suo letto di nubi oscure e i lampioni illuminano la via ad intermittenza, seguendo un ritmo scoordinato ed innaturale, creando un gioco di luci ed ombre. Anche il vento non soffia più.
Poi all'improvviso una luce. Argentea, pura, bellissima. Proviene da quella anonima casetta all'angolo della strada, quella dove si è recata la figura. La luce svela la presenza di due persone in uno strano salotto, al secondo piano della villetta.
Una vecchia  con un  viso scavato dalle rughe che ghigna soddisfatta.
La ragazza dalle curve morbide si limita a stringere nella mano uno strano oggetto luminoso.
La vecchia le fa segno di sbrigarsi, togliendole dalle mani la fonte della luce.
La ragazza estrae dalla tasca del suo vestito un semplice sacchetto di velluto e ne slaccia i nastri. Al suo interno c'è un anello luminoso, decorato con rilievi intricati.
La ragazza non osa toccare l'oggetto e lo porge con riverenza all'anziana signora, che lo stringe tra le dita nodose e lo annusa emettendo un verso famelico.
All'improvviso urla di dolore, allentando la presa sul gioiello.
- Oro massiccio...- gracchia. Il suo tono è sdegnoso e guarda l'anello con una nuova luce negli occhi. Le sue iridi nere, in cui non si riesce a distinguere la pupilla, fissano con orrore misto a soddisfazione l’anello. Lo osserva da più angolazioni, come per accertarne il valore.
Dopo il suo minuzioso controllo ritorna a sospirare di piacere e mormora: -Ben fatto, figliola- dice. La sua voce è gracchiante, simile al suono delle unghie che graffiano una lavagna. 
- Quest'odore- sussurra, gemendo. - Oh, questo è sangue di angelo-.
Poi scoppia in una fragorosa risata, coinvolgendo anche la ragazza.
Le porge l'anello ed anche la ragazza inizia a toccarlo delicatamente con le unghie laccate, senza mai sfiorarlo con i polpastrelli, per poi cominciare ad ansimare emettendo un suono agghiacciante, mostrando i denti bianchi.  
La vecchia glielo toglie dalle mani e con voce bramosa sussurra: -Manca poco ormai ,figliola. Manca poco...-
All'improvviso, la luce si spegne e le due figure scompaiono.
Ecco che la luna esce dal suo nascondiglio di nere nubi, i lampioni tornano ad illuminare la via regolarmente, con la loro solita luce calda. Anche il vento ricomincia a soffiare, facendo muovere le fronde nodose degli alberi.
Ma, anche se tutto sembra uguale, normale, i più attenti possono avvertire una certa tensione, un’energia magnetica che serpeggia fra le case, tra le foglie degli alberi, perfino nelle proprie cellule. È un ritmo serrato, veloce, che scandisce il tempo proprio come le lancette di un orologio: come se la terra, il cielo, la vita stessa stesse iniziando un conto alla rovescia. Come quello di una bomba pronta ad esplodere, distruggendo ogni cosa. Ogni cosa...

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COMMENTO SCRITTRICI: 
Carissimi, che dire... Questo capitolo è stato un parto: ci abbiamo messo un sacco di tempo perché avevamo difficoltà ad accordarci tra noi due e siamo state sobbarcate di impegni. Grazie per chi ci ha incoraggiate a pubblicare il nuovo capitolo, per chi nello scorso capitolo ci ha regalato recensioni e preferiti... Senza di voi non saremmo niente! Ora che le vacanze sono cominciate, cercheremo di rendere gli aggiornamenti più veloci, anche perché ci piange il cuore a farvi aspettare tanto a lungo.
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto: fatecelo sapere con una recensione. Per noi la vostra opinione conta moltissimo. 


Piccolo avviso: nel prossimo capitolo introdurremo più POV. Ci siamo rese conto che abbiamo troppe idee in testa, e che mantenere solo il punto di vista di Sam ci vincolerebbe. Quindi, oltre a lei, ci saranno altri narratori all'interno della storia... Cosa pensate di questa idea? Fatecelo sapere! ;)

Tantissimi baci e grazie ancora per il vostro sostegno,
C&S 

 

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 11 ***


POV MAGNUS
 
-Potresti andare a prendermi un cocktail, micino? E non dimenticare l’ombrellino. Sai che lo adoro!-
Viola. Un vivace, lezioso, adorabile viola. Il mio mondo quel giorno era di quel colore. Viola l’oceano infinito, viola il cielo, viola quel biondo pezzo di manzo che correva sul bagnasciuga. Sì, avevo fatto decisamente un affare comprando quel paio di occhiali da sole. Peccato che il mio micino non la pensasse così. Mi stava guardando come se fossi completamente ammattito. Cosa che sentivo di non dover escludere.
-Da quando sono diventato il tuo cameriere personale, Magnus? E piantala di chiamarmi micino.-
-Come tu desideri, biscottino. E poi suona così bene cameriere personale… Sarebbe uno scenario incredibilmente interessante, sai…-
Le guance di Alec si tinsero di un adorabile rosso peperone e i suoi occhi, dopo avermi fulminato, stavano caparbiamente studiando la sabbia bianca e fine. Sorrisi, sapendo che lui non l’avrebbe notato. Adoravo farlo arrossire… Lo scrutai, aspettando il momento in cui avrebbe alzato lo sguardo, deciso a farmi una ramanzina. Eh, sì, oramai eravamo diventati una vecchia coppia; ciò non toglieva che, a pensarci bene, la nostra cabina mi era apparsa incredibilmente confortevole, accendendo la mia fantasia perversa. Era una calda giornata di sole, lì sull’isola dal nome impronunciabile dispersa nel Pacifico: il mare era una distesa cristallina, azzurra e brillante come gli occhi del mio micino scontroso; la sabbia bianca e fine mi solleticava la pianta del piede. E, a voler essere onesti, Alec sarebbe stato da dio con un completo bianco da cameriere. Oh, sì, sarebbe stato costretto ad esaudire tutte le mie richieste. In quel momento notai una piccola goccia marina scendere dai capelli neri del mio pesciolino, disegnare la linea squadrata della sua mascella, scivolare lungo il pomo d’Adamo, delineare la linea dei suoi pettorali, muoversi lungo quegli adorabili quadratini chiamati addominali e scomparire lungo la linea del suo inguardabile costume da bagno. Deglutii, sentendo il desiderio crescere in me. Avevo assoluto bisogno di andar in quella cabina…
-Ehm, Magnus?-
-Sì, micino…cosa c’è?-
-Visto che vuoi tanto disperatamente un cocktail perché non lo fai comparire con i tuoi poteri?-
Lo fissai con una espressione allibita, aprendo la bocca per sottolineare la mia incredulità.
-Per chi mi stai prendendo? Per Harry Potter?
Lui sbuffò contrariato per poi alzarsi, con un adorabile cipiglio di rassegnazione. Lo vidi allontanarsi verso il chiosco con una mano corsa a spettinarsi i capelli, tentando di asciugarli. Mi beai della vista del suo culo perfetto e dannatamente invitante, lasciandomi per un secondo andare alla fantasia. Ma, stranamente, quel giorno avevo ben poca voglia di scherzare. Perfino l’idea della cabina non riusciva a risollevare del tutto il mio umore. Ecco uno dei momenti della vita in cui sei confuso, svogliato, in difficoltà. E ti rendi conto che hai bisogno di un’ancora di salvezza, di un porto sicuro dove approdare…sì, ho decisamente bisogno di un’Armani. 
Il mio biscottino tornò dopo pochi minuti con in mano un cocktail decisamente invitante, di un bel colore arancione. Aveva pure l’ombrellino rosa shocking, quindi per me era decisamente il massimo. Iniziai a sorseggiarlo.
-Alec…ti senti bene?
-Perché mi fai questa domanda?
-Ehm, micino, perché mi hai appena portato un cocktail analcolico? Vuoi forse uccidermi?!-
-Magnus! Non puoi davvero volere dell’alcool a quest’ora!-
Era piacevole stare lì con lui a sorseggiare un odioso drink analcolico e ad ascoltare il suono della sua voce allibita, ma sapevo di non poter più rimandare. Mi accorsi in quel momento che avevo cercato in ogni modo di evitare di arrivare a quel momento, di tergiversare, di prendere tempo. Era stato un errore, me ne rendevo conto. E All’improvviso sentii che non potevo più rimandare. Era venuto il momento di dirgli la verità. Anche se avrei disperatamente voluto rimanere in quella spiaggia con lui a bearmi della sua vista, della brezza marina sulla pelle, di quella cabina che, ero certo, avremmo utilizzato in maniera vantaggiosa. Ma non riuscivo più a far finta di non sapere, ad ignorare quel senso di urgenza che sentivo addosso.
-Andiamo via.-
Studiai attentamente il volto del mio micino passare dalla sorpresa allo sconcerto fino all’incredulità. Era  interessante riuscire a leggerlo come un libro aperto, capendo tutto di lui.
-Perché?-
Sospirai, incrociando i suoi occhi indagatori. Era arrivato il momento delle spiegazioni.
-Dobbiamo tornare all’Istituto.-
-Perché?-
-Ho delle novità. So cosa è successo ai due Riccioli d’Oro quella sera.-
La sua espressione divenne incredibilmente seria, la mascella contratta, le sopracciglia aggrottate. Si alzò immediatamente in piedi, svelando il suo lato Shadowhunter, duro, pronto all’attacco. Mi guardò. I suoi occhi color dell’oceano mi scrutarono, domandandomi cose che la bocca aveva troppa paura di chiedere. Il suo sguardo mi mandò mille brividi lungo la schiena. Mi limitai a fare di sì con il capo, sapendo che lui avrebbe capito. Lui abbassò la testa e strinse i pugni. Fu solo un secondo eppure quel piccolo gesto ebbe l’effetto di maturare i timori che sentivo dentro di me. La sua voce dura e determinata mi riportò alla realtà.
-Dobbiamo fare presto.-
Gettai un’ultima occhiata alla distesa infinita dell’oceano, godendomi per un’ultima volta la sensazione piacevole del sole sulla pelle.
-Temo sia già troppo tardi micino…Troppo tardi.-
                                                                                                                                                                                
***
 
Il viaggio fu breve. Un incredibile tramonto rosso accolse il nostro arrivo. Non avevamo parlato molto, ognuno immerso nei propri pensieri. Quando arrivammo davanti all’imponente facciata dell’Istituto notai il lampo di felicità sul viso del mio fiorellino. La cosa più sconcertante per me fu di provare un insensato moto d’affetto per quell’edificio incredibilmente fuori moda. Allo stesso modo con cui anni prima mi ero interessato a Clary, la piccola Pel di carota che con il passare del tempo… Be’ era diventata una Pel di carota più grande.
Alec aprì il pesante portone senza esitare, come se avesse compiuto quei gesti un’infinità di volte.
Ci muovemmo rapidi, vicini, con le mani che si sfioravano, come se volessero incontrarsi.
Mi attendeva un compito arduo, ne ero consapevole.
Ci muovemmo nel dedalo di corridoi fino a fermarci di fronte ad un portone di legno scuro, antico, resistente.
-Ho avvisato Jace del nostro arrivo. Ti sta aspettando.-
Mi voltai a guardarlo. I suoi occhi azzurri brillavano nell’oscurità, risplendendo di luce propria. Una parte di me voleva che il mio micino mi accompagnasse oltre quella porta per darmi sostegno, ma sapevo che la sua presenza avrebbe solo complicato le cose. Era una faccenda mia e di Herondale, e andava risolta quella sera stessa.
Lui fece per bussare ma io lo bloccai mettendo la mia mano sulla sua.
Ci fissammo, incatenati dai nostri reciproci sguardi.  
Sentivo uno strana morsa serrarmi lo stomaco. Era tensione. Ma dovevo farlo, dovevo portare a termine la questione. Non solo per Jace, per Chris e per Samantha, ma soprattutto per me, per lo stregone che ero. Anche se quello che avrei detto non sarebbe stato né rassicurante né tantomeno piacevole. Alzai lo sguardo su Alexander. Lo guardai intensamente e gli rivolsi un mezzo sorriso. Era un sorriso di scuse e di rassegnazione, lui lo sapeva. Dopo pochi secondi annuì e mi toccò il braccio. Il suo tocco voleva essere rassicurante ma la sua mano tremava impercettibilmente, acuendo i miei sensi. Era preoccupato, lo sentivo. Ne avevamo parlato più volte, io e lui, della situazione che si era venuta a creare. Non gli avevo rivelato  però i miei sospetti, che temevo non essere soltanto delle inutili preoccupazioni ma qualcosa di fondato. Peggio ancora, di pericoloso.
-Ci vediamo dopo.-
La sua voce risuonò limpida in quel corridoio angusto. Mi tranquillizzò, in un certo senso. Chiusi gli occhi. Ed entrai senza bussare nel grande studio di Herondale.
Riccioli d’oro Senior era seduto di fronte alla sua scrivania e stava scribacchiando qualcosa su dei fogli, con fare svogliato. Appena entrai alzò di scatto la testa, rivolgendomi un’occhiata curiosa.
-Buonasera, Magnus. Spero che tu abbia fatto buon viaggio.-
-Non male.-
-Allora, se non ti dispiace, lascerei i convenevoli a dopo e arriverei subito al sodo. Che cosa hai scoperto sui miei figli?-
Non potei evitare di notare come aveva calcato con enfasi le parole miei figli. Lo guardai, studiandolo. I capelli biondi gli ricadevano ordinati lungo il viso, dorati come le spighe di grano in estate. Era ancora bello, attraente, affascinante, con soltanto qualche ruga in più. Emanava un’aura potente. Tutto di lui indicava autorevolezza, forza, grinta. Sotto questo aspetto era rimasto lo stesso Jace di vent’anni prima, forte e coraggioso, pronto a combattere per ciò che riteneva giusto. Ma, allo stesso tempo, sentivo di parlare con un’altra persona. Non vi era più traccia dello Shadowhunter spericolato e intrepido, di quel ragazzo che sembrava non tenere per niente alla sua vita. Era cambiato. Per questo decisi di essere schietto, franco.
- Ho fatto le mie ricerche e ho contattato tutte le fonti attendibili che mi venivano in mente. Stregoni, vampiri, perfino demoni. La risposta è che nessuno sa con precisione cosa siano tuoi figli… Di sicuro non sono normali Shadowhunters.-
-I miei figli non sono anormali, Magnus. Non usare mai più quel termine.-
Sbuffai, contrariato.
-Non ho detto questo ma anche tu riconoscerai che non sono degli Shadowhunters comuni, per il semplice fatto che hanno più sangue angelico di chiunque altro in questo mondo.-
-Queste sono cose che sappiamo già.-
-Come siamo scontrosi stasera, Riccioli d’Oro. Sicuro di non voler bere una tazza di camomilla prima di proseguire la nostra conversazione?-
-Non sono in vena di scherzi Magnus.-
-Neanche io, Herondale. Quindi mettiti comodo e ordina qualcosa al take away perché ne avremo per molto, stanne certo.-
Detto questo mi sedetti su una delle sedie intarsiate di fronte a Herondale e schioccai le dita. In un attimo comparve nella mia mano la mia tazza preferita, con su scritto a caratteri cubitali e glitterati MEGLIO DI GANDALF. Iniziai a sorseggiare lentamente il caffè amaro, beandomi del suo sapore.
-Continua.-
-Ho riflettuto a lungo sulla questione. Sia tu sia Clary siete diversi, più potenti, più pericolosi. Questo per il semplice fatto che avete una percentuale più alta di sangue angelico nelle vene. Unendovi e concependo un figlio insieme, seguendo le leggi della genetica e dell’ereditarietà, vostro figlio ha una percentuale altissima, quasi totale, di sangue d’angelo. Fin qui non c’è nulla di nuovo. Ma vorrei ripercorrere tutta la storia. Quando tu venisti da me diciotto anni fa per chiedermi consiglio, io ti diedi il mio parere sincero. Non solo. Utilizzando i miei poteri mi sono indotto una visione del futuro. Sappiamo entrambi quello che ho visto. Ma, allora, ti avvisai: il futuro, ed in particolare la sua conoscenza, è qualcosa di incredibilmente volubile e ingannevole, soggetto a infinite interpretazioni quanto sono infinite le sue possibilità. Leggere o vedere nel futuro è qualcosa di estremamente difficile, quasi di impossibile. Io vidi una versione felice del futuro del tuo ipotetico figlio e soprattutto lo vidi normale: nessuna caratteristica particolare, nessun potere speciale, neanche una leggera predisposizione per questo o quel combattimento. Ma questo non significava che sarebbe stato così, perché avevo visto solo una su infinite possibilità. Ti avvertii. Quando nacque Samantha capii immediatamente che la mia visione del futuro era errata: avevo visto solo un bambino maschio, figlio unico, senza sorelle né fratelli. Ho seguito attentamente sia lei sia Chris e non ho potuto non notare le loro innate e molteplici abilità…-
-Le loro capacità fisiche e intellettuali sono frutto dei loro studi e dei loro sacrifici. Sia io sia Clary ci siamo sempre prodigati per garantire loro il meglio, in tutto.-
-Allora spiegami questo: ti sembra un semplice frutto dello studio o dei sacrifici il fatto che tuo figlio ha iniziato a camminare a cinque mesi?-
-Era un bambino precoce. Lo è sempre stato.-
-Questo non è essere precoci. Chi inizia a camminare a nove mesi è precoce. Chi cammina a cinque è diverso, Jace. Che mi dici allora di Samantha?-
-Cosa c’entra lei?-
-È sempre stata vivace oltre ogni immaginazione, non è così? Ti ricorderai sicuramente quando, a quattro anni, voleva aiutare Clary a cucinare. Quante storie faceva, come strillava, come buttava all’aria tutta contenta la farina, sporcandosi tutti i bei vestiti che Isabelle si ostinava a comprarle. Ricorderai anche come Clary si fece scivolare accidentalmente la padella piena di acqua bollente dalle mani e come questa cadde proprio su Samantha. Tutti corremmo verso la bambina, spaventati a morte. Ma lei rideva felice, completamente bagnata, convinta che fosse un nuovo gioco. Mi spieghi come mai non si scottò mortalmente? Come mai non urlò dal dolore? Come mai la sua pelle non era neanche minimamente arrossata?-
-È sempre stata più forte del normale.-
-È proprio questo il punto, Jace. Sia lei sia Chris sono sempre stati più forti del normale, più veloci del normale, più intelligenti del normale. Ti sembra una conseguenza dello studio il fatto che Chris, invece di leggere delle comuni favole della buonanotte prima di dormire, sfogliava le pagine del Libro Grigio? Io sono un potente stregone e tuttavia non riesco a leggere quel libro dall’inizio alla fine senza rischiare di impazzire o di disintegrarmi per la potenza in esso contenuto. Anche voi Shadowhunters durante i vostri studi leggete e imparate una runa per volta, facendo attenzione.-
-Chris non ha mai fatto niente del genere, Magnus. Non l’ho mai visto fare ciò.-
-Io sì, invece. E anche Clary. È stata lei a raccontarmi tutto per chiedere il mio parere. Ci sono centinaia di episodi che ti posso citare per provarti che i tuoi figli non hanno niente di normale.-
-Continua.-
-Ho tratto le mie conclusioni. Sia lei sia lui hanno dimostrato capacità eccezionali sia nei combattimenti, sia nello studio. Entrambi sembrano essere immuni al fuoco. Entrambi sembrano avere un particolare rapporto con le rune angeliche. Entrambi hanno una velocità di guarigione impressionante. Ti ricordi quando Samantha, litigando con Max per chi dovesse avere l’ultimo pezzo di torta, cadde dal terzo piano? Erano piccoli e molto probabilmente hanno cancellato quell’episodio dalla loro mente, ma… Ricorderai di certo come ci siamo tutti precipitati correndo giù, nel giardino, credendo di trovarla morente.  E mentre noi ci stavamo disperando lei si stava tranquillamente arrampicando su per la grande quercia, come se non fosse appena caduta da almeno trenta metri. Come se non dovesse essere morta o almeno agonizzante. Concorderai con me che tutto questo è stranissimo, anormale, inusuale.-
Lo vidi abbassare finalmente lo sguardo, costretto ad arrendersi all’evidenza. Tutto quello che avevo detto era vero, lui lo sapeva.  Eppure accettarlo era difficile per lui, riuscivo a capirlo. Era stato difficile anche per me riconoscere il mio errore, la mia imprudenza. Ma quello era solo l’inizio: ora veniva la parte peggiore.
-So che non ti piacerà quello che sto per dirti. Fidati, non piace neanche a me. Ma la verità è una ed una sola: tutto il mondo dei Nascosti e perfino il Conclave ha trattenuto il fiato nel giorno della nascita di Christopher. Tutti, nessuno escluso. Siamo in un’era di transizione, Jace. Non credere che con la morte di Valentine e Sebastian le cose si siano risolte. Anzi. Stiamo attraversando la calma prima della tempesta. La convivenza fra Nascosti e Shadowhunters non è mai stata semplice, io ne so qualcosa. Siete sempre stati odiati da tutti noi per la vostra arroganza, il vostro credervi superiori, migliori, prescelti. Avete disprezzato me e quelli come me solo perché non eravamo come voi. Avete sbagliato, forse più di tutti noi messi insieme. Nei secoli ci siamo odiati a vicenda, ci siamo fatti dei torti, voi ci avete perseguitato. Con le ultime due Grandi Guerre la situazione non si è calmata, si è solo fermata. Per non parlare dei demoni. Da mesi a questa parte io e alcuni altri stregoni miei amici abbiamo notato che tutti, perfino le specie di solito più tranquille, sono in fermento, incredibilmente irrequieti, senza un vero motivo apparente. Il mio timore è che anche questa loro crescita di potere sia concatenata a quello che sta succedendo.-
-Che cosa intendi? Non mi risulta che ci siano insurrezioni rilevanti. Le solite scaramucce, tutto qui.-
-È molto più di questo, Herondale. Se prima tutto ciò era una lotta di mentalità, ora è molto più di questo. Se prima erano due mondi opposti ma uguali che dovevano trovare il modo di collaborare per un bene più grande, ora non è più così. La colpa non è solo vostra. Anche noi abbiamo la nostra dose di responsabilità, il nostro fardello di colpe da portare. I nostri errori con cui convivere. Ma nessuno dovrebbe essere accusato per quel che è, nessuno dovrebbe essere giudicato in base al suo sangue e non le sue scelte. L’odio è un sentimento che cresce con calma nel cuore e nella mente; è un veleno talmente potente che corrode piano piano i tuoi pensieri, le tue emozioni, rendendo il disprezzo e l’astio le uniche sensazioni che riconosci, che diventano tue. Dopo ciò arriva il desiderio di vendetta, di veder soffrire i tuoi nemici come hai sofferto tu, di vederli piangere come prezzo delle tue lacrime, di vederli distrutti, annientati, eliminati per mettere a tacere quella vendetta che senti ribollire nel sangue, che senti come unica ragione di vita. Questa è la situazione attuale.-
-Abbiamo iniziato un periodo di convivenza Magnus. Ora tra di noi c’è il dialogo, i Nascosti hanno il loro posto nel Conclave, non vedo ciò che tu hai descritto.-
Sorrisi amaramente, guardandolo dritto nei grandi occhi dorati.
-Neanche io lo vedo. Ma lo sento, lo percepisco. Sappiamo entrambi che il rancore è qualcosa che non si dimentica né si lenisce con il passare del tempo. Violenza chiama odio, repressione chiama vendetta.-
Un lampo di consapevolezza gli illuminò le iridi.
-Il popolo fatato.-
Annuii, appoggiando la tazza ormai vuota sulla scrivania.
-Temo sia solo questione di tempo. Sono il popolo più antico che ha abitato questa Terra: non dimenticheranno mai quello che gli abbiamo fatto. Hanno sbagliato, ma il prezzo per le loro azioni sarà solo un altro motivo per odiarci e tramare alle nostre spalle. I tuoi figli sono stati studiati da tutti, nessuno escluso. L’intero mondo sta trattenendo il respiro in attesa di quello che succederà. Penso che loro possiedano alcune capacità particolari, possiamo definirli anche poteri, diversi da quelli tuoi e di Clary ma più potenti, sfuggenti. Ritengo che non si siano manifestati chiaramente fino ad oggi perché Sam e Chris non erano ancora pronti. Come in molti casi c’è un’età particolare in cui avviene la maturazione: credo che nel loro caso sia verso i quindici anni.-
-Ma Chris ne ha sedici.-
-Interessante deduzione. Credo, ma è solo un ipotesi, che i loro poteri siano in qualche modo legati, indissolubili. Penso che quelli di Chris fossero dormienti, in attesa dello sviluppo delle piene capacità della sorella. Sono tutte teorie che andremo a confermare. Ti ricordi la notte in cui ci siamo ritrovati Max di fronte al portone dell’Istituto con Samantha svenuta fra le sue braccia e Chris agonizzante sulla sua spalla?
-Ovvio. Era il 17 gennaio.-
-Credo che, quella sera, sia successo qualcosa di unico. I loro poteri finalmente sono venuti alla luce, manifestandosi nei loro corpi. Hanno detto di aver provato un bruciore fortissimo e dilaniante, come se stessero andando a fuoco: ritengo che sia la descrizione effettiva del processo che è avvenuto dentro di loro, come se qualcosa li avesse attivati. Come se una parte di loro si fosse improvvisamente svegliata da un lungo sonno, celata nei meandri del loro essere. Questo spiega i dolori insopportabili e come io stesso abbia all’improvviso avvertito una fortissima ondata di energia provenire dall’esatto punto dove loro si trovavano in quel momento. Il problema è che non sono stato l’unico a percepirla: sono convinto che molti l’abbiano sentita, solo che non conoscevano la fonte di tale rilascio.-
-Temi che qualcuno abbia dei sospetti?-
-Ne sono sicuro.-
-Cosa suggerisci di fare, allora?-
-Portarli via da qui. Il prima possibile. Anche stasera stessa. Ho intenzione di andare in fondo alla questione: nel Nord Europa si trova il più antico stregone vivente. Si vocifera che abbia addirittura mille anni. Chi meglio di lui, che tanto tempo ha vissuto su questa Terra, saprà rispondere alle nostre domande?-
-Non vedo perché tu non ci possa andare da solo.-
Sbuffai, sapendo di starmi avvicinando alla parte più complicata.
-Chris e Samantha non sono al sicuro qui. È solo questione di tempo prima che qualcuno capisca cosa è successo quella sera. Fidati, mi sorprende che nessuno lo abbia ancora capito, ma non ci vorrà molto. Non parlo solo dei Nascosti, ed in particolare del Popolo Fatato, ma anche dei demoni e del Conclave. Vuoi davvero che i tuoi figli siano allontanati da te per essere studiati come cavie? Perché è quello che succederà quando il Conclave farà due più due e arriverà a loro. Non puoi separarli, aumentare le misure di sicurezza, chiuderli a chiave nelle loro camere. Arriveranno, Jace. L’unica cosa che non sappiamo è chi sarà il primo ad attaccarvi.-
-Sono stati al sicuro per quasi diciassette anni, Magnus.  Mi sono sempre preoccupato personalmente di tenerli lontani dai pericoli.-
-Non si tratta di questo. Arriveranno e attaccheranno. Per quanto siano veloci, forti, preparati all’attacco, Chris e Samantha verranno sopraffatti. Lasciali venire con me. È nei loro diritti sapere cosa è successo, quali sono le loro vere potenzialità. Non puoi più fare finta di niente. Pensa a te alla loro età e trai le tue conclusioni. Entrambi, specialmente Samantha, vorranno sapere il perché, e se non glielo diremo noi cercheranno di scoprirlo da sé. È tempo di agire e dovremmo essere noi i primi a farlo, sottraendoli a questa città con troppi occhi e troppe orecchie indiscrete. Inoltre nessuno accanto a loro è al sicuro.-
-Cosa intendi-?
-Non conosco ancora con precisione la natura dei loro, chiamiamoli così, poteri. Ma, se si tratta di una forma particolare di magia, siamo nei guai. Non solo perché la magia, specialmente quella naturale e non soggetta a controllo, esercita un richiamo fortissimo per ogni individuo magico nel raggio di chilometri, ma anche perché né Samantha né Chris riuscirebbero a controllarla. Vedila così: nel loro corpo potrebbe esserci una fonte di potere. Puoi anche immaginarla come una scatola grande, elaborata e soprattutto chiusa. Quando una persona con questo talento è soggetta a forti emozioni come rabbia, frustrazione, impulsività questa scatola corre il rischio di aprirsi, liberando ciò che si trova al suo interno. La prima volta sono stati i ragazzi ad avvertire ciò attraverso i dolori lancinanti nel loro corpo; se dovesse succedere ancora, temo che quell’energia si proietterebbe all’esterno, distruggendo ogni cosa, compresi loro e chi gli sta intorno. È un rischio che non possiamo assolutamente correre.-
-E se la natura dei loro poteri non fosse magica?-
-Questo non cambia le cose. Dobbiamo scoprire con esattezza in cosa consistono questi doni, e per farlo loro devono venire con me in Europa.-
Jace si alzò in piedi ed iniziò a camminare aventi e indietro, lanciando spesso occhiate alla grande finestra, come se le stelle appena spuntate potessero mostrargli la via, la soluzione giusta da prendere. Dentro di me sapevo che Herondale conosceva già la risposta, semplicemente si rifiutava di accettarla; così facendo non faceva che bloccare una situazione difficile che minacciava di esplodere da un momento all’altro. Mi rivolse uno sguardo penetrante, soppesando le mie parole.
-Spero che tu capisca che non posso stravolgere in questo modo la loro vita da un giorno all’altro. Entrambi hanno i loro studi, i loro amici, la loro famiglia. Non posso permettere che vengano sradicati in questo modo così improvviso dalla loro realtà quotidiana. Non posso farlo. Assolutamente no.-
A quel punto mi alzai in piedi. Sentivo la rabbia ribollirmi nelle vene, attraversando ogni parte del mio corpo. L’aria attorno a me si fece elettrica e minuscole scintille azzurre si sprigionarono dalle mie mani, illuminando di una luce sinistra il mio volto.
-Vedo che non ci siamo capiti, Herondale. Se non sarai tu a stravolgere il loro piccolo e felice mondo, sarà qualcos’altro. Un terremoto sospetto, un incidente inspiegabile, un rapimento a opera di nessuno. Sei un egoista, Herondale. Non soltanto nei confronti dei tuoi figli ma anche nei confronti degli umani che hai promesso di proteggere. Ci andrebbero di mezzo anche loro, stanne certo. Decine, centinaia, migliaia di vittime innocenti solo per la tua ottusità, per la tua ostinazione insensata. Per il tuo dannato orgoglio. Sì, perché il grande Jace Herondale, eroe delle Due Guerre, il più famoso Shadowhunter che sia mai esistito non accetta di non riuscire a fare qualcosa che ogni padre normale dovrebbe fare, no? Non riesce ad accettare di essere talmente inutile da non riuscire neanche a proteggere i suoi figli? Sei uno stupido, ecco cosa. Uno stupido, ottuso e orgoglioso che non riesce a vedere aldilà del suo regale naso.-
-Non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo, Magnus. Ritira immediatamente quello che hai detto.-
La sua voce era imperiosa, forte. Il suo sguardo era furioso, le mani strette a pugno per la rabbia trattenuta a stento.
Ma io raddrizzai la schiena e affrontai i suoi occhi dorati, squadrandolo con aria di sfida.
-Pensa un po’ l’ironia della sorte, Herondale. Tu non mi permetti di dire la verità. Io non ti permetto di mettere fine alla vita dei tuoi figli e di centinaia di innocenti con loro. Ti do un giorno di tempo per ripensare alle cazzate che hai detto questa sera. Ventiquattro ore. Poi prenderò Chris e Samantha e partirò, con o senza il tuo permesso.-
Mi girai e attraversai con ampie falcate lo spazio che mi divideva dall’ampio portone. Misi la mano sulla maniglia e la abbassai con decisione. Mi voltai un’ultima volta verso Jace e lo guardai. Uno sguardo calcolatore, freddo, intimidatorio.
-Ti consiglio di non ostacolarmi. Sarò pure ultra centenario ma ti assicuro che posso rivelarmi un nemico quasi impossibile da sconfiggere.-
Spalancai la porta e la sbattei con forza alle mie spalle, per sottolineare quello che in quel momento pensavo di lui e del suo atteggiamento del cazzo.
Succederà. Non so quando, non so dove, non so per mano di chi. Ma accadrà.
 
 
 
 
 
POV MAX
 
Pesante come la volta celeste, profondo come la terra più fertile ed il mare più blu, indefinito nei contorni per quanto cercassi un orizzonte non vidi altro che nero. Nero, nero, nero. Poteva celare al mio sguardo i confini di quel buio opprimente oppure illudermi che a tutto quello ci fosse una fine, quando in realtà il mondo in cui mi trovavo non aveva via d’uscita. Non riuscivo a sentire né i miei arti inferiori né il resto del corpo. Sembrava che al posto delle gambe avessi due sacchi pieni di cemento. Cercai di muovere qualche passo, ma soltanto provare a sollevare un piede mi mandò una scossa dolorosa alla spina dorsale. Se la mia trasposizione corporea in quello strano universo buio e parallelo avesse avuto un volto, cosa di cui non ero tanto sicuro, probabilmente la mia bocca si sarebbe storta in un’espressione di dolore. Non sentivo nessun pavimento sotto di me. Ciò mi dava come la sensazione di stare fluttuando, anche se non c’era nessun movimento d’aria a confermare la mia teoria.
All’improvviso, una luce apparve in quell’universo fumoso. Prima era solo un puntino meno scuro degli altri, poi si mosse e guizzò, producendo scintille dorate. La guardai  rapito finché non divenne grande e luminosa e gli occhi non iniziarono a bruciarmi. Cercai di tenere le pupille spalancate ma la luce divampò iridescente e, con un gesto involontario, portai la mano davanti al viso e serrai le palpebre.
Attesi in silenzio. Rivoli di sudore mi scesero lungo la schiena facendomi rabbrividire. Lentamente abbassai il braccio e socchiusi gli occhi. Davanti a me...avevo il buio.
No. Non di nuovo. 
Sentii un’acuta disperazione crescere in me, attanagliarmi le viscere in una morsa soffocante. Incurante del male lancinante alle gambe, iniziai a camminare. Sembrava che minuscole schegge gelide come il ghiaccio mi stessero trapassando i muscoli, mentre il dolore era un’onda maestosa che mi trascinava alla deriva, lasciandomi inerme sulla spiaggia di quell’abisso scuro. Era come se mi trovassi in una bolla: orribile, infinita, impenetrabile, che pian piano rimpiccioliva imprigionandomi al suo interno. La tensione si diffuse in me, bloccandomi il respiro e rallentando il battito cardiaco.
Per due secondi il tempo di quel mondo si fermò. Era come se avessi lanciato in aria una monetina: eccola lì, sospesa nel vuoto, in quel momento dove tutte le strade sono aperte, dove tutto può ancora succedere. E non c’è probabilità o equazione che ti possa dare la risposta esatta senza nessun margine di dubbio. E, in quegli istanti, ti ritrovi a trattenere il respiro aspettando che qualcosa accada. Non importa se uscirà testa o croce, ti ritrovi fermo, bloccato da chissà quale gabbia temporale, ipnotizzato dalle infinite possibilità che ti si aprono davanti, dalle infinite pieghe che la storia può prendere, senza che tu possa muovere un dito per fermarle. Sentii quell’esatta sensazione: come se quel posto lugubre stesse trattenendo il respiro, in attesa della mia prossima mossa.
Mi parve di sentire perfino delle risate in lontananza, che si prendevano gioco di me, sapendo che qualunque scelta avrei compiuto non sarei mai riuscito a fuggire.
Una rabbia cieca si impossessò della mia anima, si unì al mio sangue e cominciò a scorrermi nelle vene, arrivando dritta nel mio cuore. Strinsi i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nel palmo della mano. Scattai. Corsi a perdifiato cercando di lasciarmi alle spalle quella presenza che sentivo tutt’intorno a me. Mi si annebbiò la mente per il dolore che sentivo stringere le mie carni, il fuoco che divampava sotto il tessuto epiteliale e che bruciava le mie cellule. Non mi fermai. Urlai. Un urlo di dolore e di sfida.
Chiunque fosse quello strano essere che sentivo dietro di me, doveva sapere che se voleva uccidermi, doveva decisamente fare di meglio. 
Il buio iniziò a diventare più denso e corposo, quasi solido. Sentii delle grandi protuberanze, rami o forse mani, che mi toccavano, cercando di fermare la mia corsa. Mi divincolai con le poche forze che mi erano rimaste, colpendo, graffiando e mordendo.
All’improvviso sentii un suono agghiacciante. Mi bloccai, cercando di capire cosa fosse. Quando ci arrivai, rimasi interdetto. Non me lo ero immaginato. 
Una risata lunga e cristallina si diffuse in quel mondo, facendo vacillare quelle che nella mia immaginazione ne erano le pareti, scuotendo il mio corpo distrutto.
-Chi sei?- urlai con tutta la rabbia che sentivo, fino a sentir dolere le corde vocali. -Affrontami. Combatti. Poi sarò io a ridere.-  La mia voce era sicura e risuonò chiara in quel luogo oscuro.
Ma la risata non si fermò, anzi si intensificò. Ormai ne sentivo l’eco rimbombare nella mia testa, stordendomi. Come era arrivato, all’improvviso, il suono si placò. Sostituito da uno ben peggiore. Glaciale, duro, circospetto.
-Un giorno, cacciatore, un giorno non poi così lontano arriverà il momento. Ed allora ti sentirò ridere, mio impavido figlio di Nemphilim.-
Sentì un improvviso dolore al petto. Mi accasciai, privo di forze. Chiusi gli occhi. Ed il buio entrò in me.
 
***
 
Bam! Il colpo risuonò nitido tra le pareti della palestra.
Indietreggiai, evitando il contraccolpo. Guardai concentrato il sacco da boxe di pelle rossa davanti a me. Era resistente, duro, pesante. Era esattamente ciò che mi serviva per distrarmi.
Sferrai l’ennesimo pugno all’aggeggio, facendolo compiere un semi giro attorno alla catena che lo teneva ancorato al soffitto, fino quasi a sfiorarla. Veloce, lo evitai con un doppio salto mortale. Il sacco oscillò vistosamente per una manciata di secondi, poi tornò immobile, continuando a sfidarmi con il suo sguardo di pelle. Continuai a colpirlo senza pietà, ignorando le fitte dolorose alla mano e ai polsi.
Non avevo indossato i guantoni da boxe. Volevo sentire direttamente il tessuto del mio avversario, volevo sentire i muscoli distendersi e piegarsi sotto i miei movimenti e, soprattutto, volevo sentire il dolore. Volevo portare al limite il mio corpo e superarlo, conoscendo orizzonti a me sconosciuti. Avevo un disperato bisogno di concentrarmi e dimenticare l’incubo della notte appena passata, dell’universo buio e opprimente, della voce glaciale. Sebbene fossi in palestra a petto nudo, sudato ed accaldato, brividi freddi mi attraversarono la spina dorsale al ricordo.  
Colpii il sacco. Una, due, tre volte. Lasciai che la mia rabbia verso quell’essere si riversasse su quell’oggetto inanimato, tempestandolo di colpi, non lasciandogli neanche il tempo di ruotare. Sentii il sangue colarmi lungo le nocche, fino all’avambraccio. Non mi fermai. Ruotai su me stesso e flettei la gamba, tirando un calcio forte e preciso al centro del sacco. Esso cadde a terra con un tonfo secco. Colpito, annientato.
Lo guardai, logorato e distrutto mentre sembrava lanciarmi sguardi di rimprovero con la sua faccia di pelle. Decisi che con la boxe per quella notte poteva bastare. Osservai con distacco le mie nocche sfregiate e martoriate, di un rosso acceso e con le vene in rilievo, chiazzate di sangue. Per un momento mi sfiorò il pensiero di prendere lo stilo e disegnarmi una runa guaritrice, ma scossi la testa e mi diressi sicuro verso il pesante portone della palestra. Lo spinsi, cercando di non fare rumore.
Era ancora notte fonda e nell’Istituto si sentiva solo il soffiare degli spifferi notturni, che sicuramente entravano da qualche finestra lasciata aperta.
Silenzioso come un gatto, mi addentrai nel dedalo di corridoi. La mia meta non era lontana. Avevo in mente di salire sin sul tetto e fare un giro sulla mia moto, giusto per schiarirmi le idee.
Stavo per aumentare la falcata quando un urlo squarciò la quiete della notte. Mi fermai, indeciso. Passarono alcuni secondi. Poi sospirai e continuai ad avanzare, questa volta diretto verso l’ala est. Sapevo a chi apparteneva quel grido. Era ormai diventata una spiacevole abitudine ascoltare i suoi lamenti. Girai a destra, superai la mia camera e, dopo un paio di stanze vuote, trovai ciò che cercavo.
Mi fermai, i piedi ben ancorati al freddo pavimento. Non avevo bisogno di vederla per sapere che era affacciata al davanzale della sua finestra e respirava a pieni polmoni l’aria notturna, per cercare di cancellare dalla mente i ricordi dell’ennesimo incubo. Se mi concentravo potevo perfino sentire il cigolio delle molle del materasso che si piegavano sotto il suo peso mentre tornava a stendersi. La vedevo benissimo nella mia mente, mentre si portava le ginocchia al petto e si arrotolava una ciocca di capelli biondi fra le dita.
Aspettai fermo davanti alla sua porta finché non sentii il suo respiro farsi pesante, poi proseguii lungo il corridoio.
Oramai da tre mesi la storia andava avanti. Verso le due di notte, puntualmente, udivo le sue grida dalla mia stanza. In quella parte dell’Istituto c’erano soltanto la camera di Chris, di Samantha e la mia.
Ma io ero l’unico ad ascoltarla lamentarsi ogni notte, per il semplice fatto che anche io non riuscivo a dormire. Come un’amante puntuale e devota, così ogni sera il mondo oscuro tornava a farmi visita. Tisane, ipnosi, sonniferi. Avevo provato di tutto per evitare di andare ad un appuntamento. Niente. Nessun risultato. Neanche l’ombra di un cambiamento.
L’irritazione cominciò a scorrermi nelle vene mentre imboccavo l’ennesimo corridoio. Sapevo fin troppo bene di non essere l’unico. Samantha e Chris avevano il mio stesso problema, solo che loro si limitavano a rigirarsi nel letto e ad ignorare la cosa. Avevo provato a parlarne con il mio parabatai, ma lui aveva liquidato la faccenda con una scrollata di spalle. Stessa cosa con la sorella. Troppo testarda e ottusa per capire che quei sogni non avevano niente di normale, perfino per noi Shadowhunters. Non mi aveva neanche voluto dire cosa vedeva, sentiva, udiva durante  suoi incubi. Si era limitata ad asciugarsi una lacrima ribelle lungo la linea della sua guancia e a guardarmi sicura del fatto che prima o poi la cosa sarebbe passata.
La sua era chiaramente una speranza. Una mera illusione, secondo me. A volte la sua cocciutaggine mi lasciava interdetto: era incredibile come non volesse accettare il fatto che qualcosa non andasse, che ci fossero dei problemi. E mi stupiva ancora di più il suo rifiuto ad affrontarli. Era la prima volta che si comportava così: solitamente era lei quella sempre pronta a rompere gli indugi, ad affrontare a viso aperto le avversità, di qualunque natura esse fossero. Questo mi impensieriva: per causare questo suo netto rifiuto, gli incubi dovevano essere tremendi. Forse sognava quel suo ComeSiChiama. Avrei urlato anche io se mi fossi trovato davanti i suoi fastidiosissimi ricci incolti e quel suo sorriso tutto miele. Davvero devastante.
Riflettevo su ciò quando sentii un brivido freddo attraversarmi. Mi girai e notai una finestra aperta sulla mia destra. La pallida luce lunare si irradiava lungo il corridoio angusto, andandosi ad unire a quella più calda e tetra emanata dalle lampade a forma di rosa, disposte ordinatamente lungo il muro antico.
Mi affacciai al davanzale: all’orizzonte, il nero della notte andava via via schiarendosi fino a diventare un pallido blu oltremare. Mancavano un paio di ore all’alba, stimai.  Decisamente troppo poco tempo per concedermi il lusso di un giro in moto per i cieli di New York.
Repressi un moto di irritazione e pensai veloce ad un’alternativa. Di tornare in camera non se ne parlava. Non avrei dormito in ogni caso, perciò la prospettiva di stare sul letto a guardare lo spoglio soffitto della mia stanza non mi attirava per niente. Varai varie possibilità e, dopo pochi secondi, trovai la soluzione. Mi voltai, diretto all’armeria.
 
***
 
Correvo a perdifiato lungo una delle tante vie di China Town. Era una strada del centro, piena di gente dai caratteristici occhi a mandorla.
Non mi voltai, ma riuscii benissimo ad immaginare il demone inseguirmi veloce. Sentivo l’eccitazione e la fame della caccia infiammarmi le articolazioni e incendiarmi il sangue.
Aumentai il ritmo delle falcate, lasciando che l’aria fresca della notte mi scompigliasse i capelli sudati, mentre inspiravo a pieni polmoni l’odore del cibo cinese.
Arrivai all’angolo della strada e, prima di svoltare, gettai un’occhiata alle mie spalle. La massa gelatinosa e verdognola non era particolarmente veloce, eppure mi stava alle calcagna. Il demone mostrò le zanne nere e lucide e ringhiò contro di me, sibilando con le sue due bocche triangolari.
Mi diressi deciso verso una stradina meno affollata. Alcune persone mi fissavano curiose, ma in generale nessuno fece caso a me. E, cosa più sorprendente, nessuno notò il demone che mi stava inseguendo. Ghignai; probabilmente vedevano un cane rabbioso o una sorta di macchina impazzita. Mondani. Così intelligenti eppure così ottusi.
Approfittando del vantaggio sulla creatura mi nascosi dietro il cornicione di una casa, cercando di regolarizzare il respiro. Estrassi dalla tasca del mio giubbotto di pelle un pugnale affilato e mi misi in posizione. Sentivo tutti muscoli del mio corpo in tensione, pronti a scattare al minimo segnale di pericolo. Alzai lo sguardo. Osservai le classiche insegne cinesi, rosse e oro, che portavano scritte  a caratteri cubitali il nome di chissà quale attività . Parlavo tante lingue, ma mi rifiutavo categoricamente di imparare il cinese. Troppi simboli, troppe lettere, troppo tempo sprecato. Però, preso dallo sconforto, presi in considerazione l’idea di studiarlo: magari così sarei stato talmente stanco da cadere in un sonno senza sogni. E avrei evitato di vagare senza meta durante la notte, aspettando paziente che qualche demone venisse a stanarmi.
Prima di riuscire a vederlo o sentirlo, avvertii il suo odore sgradevole, come di pesce marcio e uova andate a male. Storsi il naso nell’oscurità. Rinsaldai la presa sul pugnale, pronto ad attaccare. Ora riuscivo perfettamente ad udire il suono dei suoi passi strascicati che si avvicinavano sempre di più al mio nascondiglio. Non aspettavo altro. Con movimenti lenti e circospetti estrassi dal fodero sulla schiena la mia unica spada angelica. La impugnai. Scelsi il nome dell’Angelo e rimasi in attesa.
-Dove sei, Cacciatore? Dove ti nascondi?- sibilò il demone. La sua voce era graffiante e roca, come se avesse avuto delle lamette appuntite lungo la gola che gli incidessero le corde vocali. Sempre che le avesse, le corde vocali.
Osservai il paesaggio urbano attorno a me. Ero in una stradina tipicamente residenziale, ad eccezione del ristorante alle mie spalle. L’unica luce era rappresentata dall’insegna dorata, che illuminava il demone. Potevo finirlo in due semplici mosse: avrei puntato alle bocche, l’unica parte del suo corpo che non era ricoperta da melma verdognola. Con un gesto fulmineo spiccai un lungo balzo, effettuai un salto mortale a mezz’aria ed atterrai di fronte alla schiena dell’essere deforme.
Dovetti sforzarmi di non emettere versi disgustati alla vista della pelle gelatinosa e verdognola, che colava lungo il suo corpo, avvolgendolo completamente.
-Gabriel- invocai. La spada angelica che reggevo nella mano destra prese vita: una luce pura e bellissima si sprigionò dall’adamas illuminandomi il volto e facendo voltare il demone. Ringhiò di disappunto alla vista dell’arma e mostrò le lunghe arcate di denti neri, sibilandomi contro.
Veloce come una saetta puntò al mio viso, con le fauci spalancate pronte a inghiottirmi. Mi scansai lesto e disegnai con la mia spada un arco preciso lungo l’addome del mostro, che ululò di dolore, senza però smettere di fissarmi famelico.
Aumentai la presa sull’arma mentre i muscoli della mia spalla si tendevano, pronti al prossimo attacco. Non diedi tempo al demone di fare niente: presi la rincorsa, mi librai nell’aria e gli sferrai un calcio dritto in pancia, stordendolo per pochi attimi. Lui si piegò leggermente come per incassare il colpo, ma dopo due secondi rialzò il capo, assottigliando i suoi due piccoli occhietti gialli.
Non persi tempo: estrassi il pugnale dalla cintura e lo strinsi nella mano sinistra mentre mi piegavo per evitare le zanne intrise di veleno della creatura. Essa ringhiò infuriata ed io approfittai dell’attimo per infilargli la spada angelica dritta in una delle due grandi bocche, mentre con il pugnale sfregiavo il lato sinistro del suo sterno. Il demone urlò di dolore mentre iniziava ad accartocciarsi su se stesso.
Mi allontanai soddisfatto. Lo guardai dissolversi, tornare da dove era venuto.
Al suo posto, pochi attimi dopo, c’era una lunga zanna nera, il premio della vittoria. La raccolsi, ammirandone la durezza e la resistenza, mentre le prime luci dell’alba iniziavano a tingere di rosso China Town.
 
*****
 
 
- Max, Max aspetta!- urlò Isabelle Lewis vicino all’ascensore. Per quanto cercai di evitarlo, non riuscii a nascondere un sorriso. Con un piede fermai le grate dell’ascensore, che si stavano chiudendo davanti a me. Guardai mia madre venirmi incontro. I suoi occhi neri come l’inchiostro mi scrutarono sospettosi, mentre incrociava le braccia sul petto. Sospirai, pronto al solito interrogatorio. La luce del mattino rendeva i suoi lunghi capelli neri lucenti e il colore rosso del maglione metteva in risalto la sua carnagione chiara. Così simile alla mia.
-Perché  non hai fatto colazione, Max?- mi chiese guardinga. Il tono della sua voce era inquisitorio e seppi che non mi avrebbe lasciato andare se prima non avessi risposto a tutte le sue domande. Evitando di mentire, possibilmente. Sorrisi nell’ombra: nulla sfuggiva ai suoi occhi indagatori. Che si trattasse di uno sguardo cupo, di un gemito di dolore o di una colazione saltata, lei lo sapeva. Sempre.
-Ha cucinato Clary. Giusto perché tu lo sappia.-
La guardai. Aveva la solita aria esasperata che assumeva ogni qualvolta qualcuno saltava i pasti per evitare di assaggiare i suoi deliziosi manicaretti. Che, per inciso, di delizioso avevano ben poco. Ma il modo in cui arricciò le labbra carnose mi riempì il petto di calore, un calore dannatamente piacevole. Per questo le rivolsi uno dei miei rari sorrisi e le dissi: -Ho già mangiato a China Town. Ora, se non ti dispiace, devo andare. Ho una questione da risolvere.-
Feci per defilarmi quando la sua voce inquisitoria mi raggiunse: -E cosa ci facevi a China Town?-
Ghignai e la guardai complice. Sperai davvero che lei potesse comprendere la fame della caccia che mi aveva assalito la scorsa notte, la voglia irresistibile di correre a perdifiato inseguito da un demone, di sentire l’aria gelida della notte scuotermi i capelli, di provare l’ebbrezza del rischio.
Lei alzò gli occhi al cielo ed allargò le braccia. Per un attimo pensai che mi avrebbe chiesto di più, che si sarebbe arrabbiata per le mie solite omissioni. Ma lei mi rivolse uno dei suoi splendidi sorrisi. Guardai i suoi occhi neri come l’inchiostro accendersi di una luce particolare, che sapevo riservare solo a me, e osservai la piccola fossetta che gli usciva sulla guancia sinistra ogni volta che sorrideva. La adoravo, quella fossetta.
-E sia. Ma se non ti vedo a pranzo, giuro che ti troverò, Maxime Lewis. E ti costringerò a mangiare la mia zuppa di pesce. Fino all’ultimo cucchiaio...-
A quel punto tirai indietro il piede, lasciando che le grate dell’ascensore si frapponessero fra me e lei e la sua famigerata zuppa. Il marchingegno cigolò e cominciò a scendere lentamente. L’ultima cosa che vidi fu la figura alta e longilinea di mia madre che tornava verso la cucina.
 
***
 
Appoggiai distrattamente la spalla sul muro del corridoio. Non la raggiunsi né mi avvicinai. Mi limitai ad osservarla ridere con i suoi due amici mondani, mentre stringeva distrattamente la spallina dello zaino. Non potei non notare le borse scure sotto i suoi occhi, prontamente nascoste con il correttore, ed il suo sguardo spento, tirato. Anche il modo in cui distribuiva il peso sulla gamba destra per me aveva un significato. La ferita del demone non era ancora guarita. Sebbene non fosse mortale, il veleno creava prurito, bruciore e, a volte, anche spasmi dolorosi. La vidi  piegare le labbra carnose in una strana angolatura e stringere le palpebre. Riuscii perfino a immaginare il muscolo della sua coscia contrarsi spasmodicamente per poi rilassarsi. Durò pochi secondi, poi tornò a chiacchierare con i suoi compagni.
Mi stavo chiedendo che runa si fosse disegnata sulla gamba per non emettere neanche un gemito di dolore, quando vidi avvicinarsi ComeSiChiama e il suo irritante sorrisetto. Diabetico. Eppure lo sguardo di lei si illuminò come se avesse visto Raziel in persona. Potevo non ricordarmi il suo insignificante nome né quale fossero i suoi hobby, ma ero sicuro di una cosa: quel tipo non era ciò che sembrava. Come facevo a saperlo? Dal primo momento in cui l’avevo visto una strana sensazione si era impossessata di me, una sorta di formicolio dietro la nuca che non accennava ad andarsene. Tutto di lui mi insospettiva, mi faceva scattare in allerta. Lo scrutai, attento a non farmi sorprendere: lasciai che il mio sguardo si posasse su di lui, fasciandolo per intero, per poi posarsi altrove.
In quei giorni lo avevo guardato, soppesato, cercato informazioni su di lui. Nulla. Non avevo trovato niente sulle sue origini, sulla sua provenienza, in pratica sulla sua storia. Sembrava letteralmente piovuto a New York insieme alla pioggia dei tanti temporali invernali. Era quello il motivo che mi aveva spinto ad andare alla sua ridicola festa, qualche settimana orsono. E la casa che diceva essere sua non aveva fatto altro che rafforzare i miei dubbi: una normale villetta, certo. L’avevo perlustrata in lungo e in largo. Pulita, ordinata, fredda. Non c’erano foto della sua famiglia appese alle pareti, calamite significative attaccate al frigo, e, per di più, le stanze al piano di sopra non erano mai state usate: un sottile ma visibile velo di polvere aleggiava sulla trapunta neutra dei letti, sui comodini che, me ne ero accertato, non contenevano nulla. E, cosa più importante, in tutta la casa vi era un persistente odore di chiuso, che impregnava le pareti, i cuscini del divano, in pratica ogni cosa. Come se la casa non fosse stata mai davvero utilizzata. Non avevo potuto approfondire le mie ricerche per colpa della festa, della miriade di ragazzi ubriachi e sudati e per colpa di quel ComeSiChiama. E anche di Herondale, per dirla tutta. E quella era anche la ragione per la quale avevo torchiato Samantha in quei giorni: volevo scoprire se, almeno lei, sapesse qualche cosa su di lui, sulla sua famiglia, su dove abitasse prima di trasferirsi a New York. Ma, come al solito, da lei non avevo ottenuto niente. Anzi, aveva addirittura pensato che io fossi geloso. Ridicolo. Ma avrei volentieri continuato a recitare quella parte se avessi ottenuto da lei qualche informazione  in più.
Stavo per andarmene, quando sentii una mano gelida posarsi sul mio braccio. Non mi girai neanche. Sapevo fin troppo bene a chi apparteneva; dovetti mordermi l’interno della guancia per non scacciarla via. Le gettai uno sguardo obliquo; i suoi piccoli occhi castani mi guardarono languidi. Mi concentrai sulle sue iridi, come a voler trovare una qualche traccia che mi dicesse che mi ero sbagliato, che il mio era stato solamente un errore di valutazione. Ma sapevo bene che non era così. Perciò tornai a fissare il punto dove, pochi attimi prima, stanziavano Sam e i suoi amici. Non reggevo assolutamente più quella situazione. Quel fingere gratuito, quelle sue attenzioni non richieste, quel suo cercarmi sempre e dovunque. Eppure non avevo il coraggio di porre fine alla questione. Ed il motivo mi era chiaro: era colpa mia. Solo e soltanto colpa mia se i suoi piccoli occhi castani erano così vuoti, se le sue mani erano così fredde, se scappava alla sola vista dell’oro. E, mentre lei si strusciava sul mio fianco, cercai di relegare quel senso di oppressione che avevo imparato a conoscere troppo bene in fondo alla mente, lo imprigionai per evitare che tornasse a tormentarmi. Non ora che Kara mi stava conducendo nel solito sgabuzzino, non ora che sentivo la pressione delle sue labbra sul mio collo, non ora che dovevo continuare a giocare, non ora che dovevo farle credere che ero ancora lo stesso ragazzo che aveva adocchiato il primo giorno di scuola. Perciò non opposi alcuna resistenza e la seguii, ma non prima di gettare una fugace occhiata alla figura bassa e bionda in fondo al corridoio.
La vidi guardarmi fisso cercando di reprimere un espressione di disgusto. Dovevo dirglielo.
D’altronde era lei che mi aveva messo in quella situazione; il minimo che poteva fare era collaborare alla sua soluzione... Dovevo dirglielo. Lo sapevo, eppure mi tornarono in mente le sue urla notturne, le sue occhiaie, i suoi occhi spenti. E, in quel momento, presi la mia decisione.
***
 
-Esprimi un desiderio.-
C’erano candele posate sulla tavola e una luce di un oro intenso e morbido che accendeva di riflessi i calici e i piatti, e gettava ombre preziose su una natura morta di frutta e pane. Il rosso sensuale delle mele, il verde traslucido dell’uva, profumo d’arance; ombre fragranti sui panini dorati al chiarore di un candeliere di bronzo, dove tre candele andavano liquefacendosi in lunghe colate di cera; briciole brune di biscotti da raccogliere con la punta delle dita per portarle alle labbra, di nascosto. E poi, al centro della lunga tavolata dorata, faceva il suo trionfo una grande torta scura, ricoperta di finissime scaglie di cioccolato bianco. L’aroma della noce moscata avvolgeva il dolce, con il sentore di una squisita promessa.  La semi oscurità si allungava carezzevole oscurando il caldo marrone rossiccio del tavolo, la pietra del muro su uno sfondo, gusci di noci su mari di ombre e l’odore inimitabile delle castagne, ammucchiate in un angolo. C’erano cori di auguri, un’allegria fuori dal mondo che sembrava dimenticata per sempre, talmente rara che ognuno, a modo suo, cercava di acchiapparla con le mani, impedendole di sfuggire via e di portare con sé le risate e i sorrisi luminosi che si stagliavano sul volto di tutti. E poi, in piedi su una sedia, c’ero io. Un bimbo vispo, con degli adorabili ricci scuri ad incorniciare un paio di guanciotte rosse come le più mature delle mele; occhi grandi e scuri, specchi che riflettevano la luce dorata e vellutata delle candeline che, inesorabilmente, si stavano liquefacendo con il calore delle fiammelle. Piccole manine paffute tenute davanti al viso come a proteggere il loro piccolo segreto, il loro desiderio.
Sembrava un quadro, un dipinto di Monet, quelli che tanto bene sapeva dipingere Chris, piccole e oscure pennellate su una tela antica e sontuosa: i capelli rossi di zia Clary che catturavano i riflessi delle candele, incendiandosi; i volti accesi degli zii che cantavano a squarciagola, ignari di star stonando. Il volto concentrato di un bambino di tre anni che affida il suo desiderio al fumo delle candeline oramai quasi spente, che lentamente sale a spirale verso l’imponente soffitto a volta. Lo stesso soffitto a volta che aveva visto lo svolgersi del mio terzo compleanno, accogliendo il mio desiderio tra le sue imponenti braccia di pietra, rendendosi mio complice.
Se mi concentravo, potevo rievocare nella mente perfino il sapore della mia torta di compleanno: un’esplosione avvolgente di cioccolato fondente, con una piacevole punta amarognola, addolcita dalla freschezza sensuale delle ciliegie e dalla aromatica dolcezza della noce moscata. Le pagliuzze dorate delle fiammelle delle candele negli occhi d’ebano di mia madre. I ricci inondati da un’aura dorata di mio padre. Il sorriso smagliante di un Chris bambino in braccio ad un più giovane Jace. Piccoli ricordi dispersi nei meandri della mia mente, dimenticati. Ma che, come per magia, riaffioravano in questo universo buio e pesante, opprimente e pressante.
Ricordi di una felicità ormai del tutto passata, quasi impossibile da ricordare in un luogo che assorbiva nella sua oscurità tutto ciò di buono che la mia mente celava con cura, che cercava di proteggere.
Ma la sua risata gelida mi suggerii che era riuscito a guardare dentro il mio subconscio, estraendo un ricordo a me particolarmente caro. Ero sfinito, come se impadronendosi di un mio ricordo quell’essere mi strappasse tutte le energie, distruggendomi.
-Che bel bambino eri, Cacciatore. Tieniti stretto questo ricordo: non ti rimangono molti compleanni da vivere.-
Il buio.
 
***
 
-Max! Max, svegliati!
Sentii una mano scrollarmi bruscamente per la spalla. Socchiusi piano gli occhi, cercando di abituarmi alla penombra della cucina; vidi un paio di occhi dorati che mi fissavano carichi di preoccupazione. Herondale. La riconobbi subito, con quei suoi boccoli dorati che mi solleticavano il collo e la sua voce che sussurrava come una litania il mio nome.
Cercai di alzarmi, ma una fitta dolorosa mi attraversò il petto, facendomi tossire.
Lei si allontanò da me e guardò alle sue spalle, come se temesse che qualcuno potesse giungere all’improvviso.
Quando mi fui ripreso dal mio attacco di tosse, le chiesi: -Ma che ore sono?-
-Le due passate. Tutti stanno dormendo. Tutti tranne noi.-
Ora che lei aveva acceso una piccola luce all’angolo della poltrona, potei osservarla meglio: aveva i capelli tutti scompigliati, una disordinata criniera a fare da cornice al suo volto terreo. La spalla destra le tremava leggermente, facendo oscillare la leggera vestaglia che aveva indossato sopra il pigiama. Il suo colore violaceo si intonava perfettamente alla tonalità scura delle sue occhiaie, segno che non dormiva da un po’. Mi alzai, barcollando. Lei mi guardava, osservando tutte le mie azioni.
-Cosa hai sognato?-
-Scusa?-
-Quando sono entrata in cucina ti stavi agitando sulla poltrona e ti tenevi la gola, come se stessi per soffocare.-
I suoi occhi tradivano la fermezza della sua voce: era preoccupata e intimorita da quello che aveva visto, riuscivo a percepirlo. La luce della lampada gettava un’aura calda attorno a lei, illuminandola, rendendo il suo profilo più indefinito, come se fosse stata una illusione. Sembrava una creatura così fragile, così minuta, che rischiava di volare via al primo colpo di vento; eppure io sapevo che era soltanto un’impressione, nulla di più. Lei era più forte di quanto sembrasse.
Decisi di scherzare, alleggerendo la strana tensione che si era creata tra di noi.
-Stavo sognando il polpettone della mensa. O forse era il pasticcio, non ricordo.-
Vidi un sorriso incresparle le labbra mentre mi si avvicinava silenziosa. Le rune risaltavano sulla sua carnagione chiara, rendendola quasi pallida. Quando fu a pochi passi da me, con voce scherzosa ribatté: -E sei venuto qua per uno spuntino di mezzanotte?-
Ghignai, avvicinandomi di più a lei.
-Non penso di essere un grande cuoco. Il massimo che posso fare è scaldare il latte.-
-Non sarà necessario altro. Io cerco i biscotti.-
Un leggero sorriso mi increspò le labbra mentre prendevo il latte dal frigorifero e lo versavo nel pentolino. Accesi il fornello, beandomi del leggero calore delle fiammelle sulle mie dita gelide.
Sentii alle mie spalle Samantha che armeggiava tra i vari ripiani della credenza, alla ricerca dello spuntino. Mi voltai e la vidi in punta di piedi mentre cercava disperatamente di afferrare la scatola dei biscotti al cioccolato, dal suo considerevole metro e cinquanta di altezza. Mi diressi verso di lei a passi felpati, sorridendo nel buio. Quando le fui dietro, per poter prendere i dolcetti, feci aderire la sua schiena al mio petto. Un’improvvisa scarica elettrica scivolò lungo la mia spina dorsale, facendomi venire la pelle d’oca.  Lei era calda, quasi bollente, ed i suoi capelli emanavano un leggero profumo fruttato. Forse albicocca.
Senza alcuno sforzo allungai il braccio ed afferrai i tanto famigerati biscotti, facendo poi un passo indietro.
Lei, al contrario, rimase immobile come pietrificata, con il volto rivolto verso la credenza.
Una strana sensazione mi pervase le membra, diffondendosi in ogni parte del mio corpo: non riuscivo a spiegarmi il perché della mia reazione, così palesemente esagerata. Sebbene ci separassero trenta centimetri buoni, le nostre dita si sfioravano, delicate come il tocco delle ali di una farfalla. Piano, quasi trattenendo il respiro, accarezzai lievemente con i polpastrelli il suo palmo, seguendo la leggera linea delle sue mani, soffermandomi su una piccola cicatrice vicino all’indice. La sentivo tremare, quasi vibrare sotto il mio tocco. Lentamente, continuai a disegnare cerchi concentrici lungo il suo polso, seguendo il ritmo dei battiti del suo cuore.
Sembrava di essere in uno dei miei sogni, quando il mondo spariva ed i suoni diventavano tutt’a un tratto ovattati, quando perfino i colori mi sembravano meno sgargianti, irrilevanti. In quel momento riuscivo soltanto a sentire la pelle di Herondale, segnata da mille tagli e cicatrici, ma piacevolmente calda al tatto.
All’improvviso realizzai che la sua pelle era davvero troppo calda. E che quel rossore sulle guance non era poi così tanto normale. Preso da una sorta di intuizione, le misi una mano sulla fronte, ritraendola solo un attimo dopo.
-Tu hai la febbre. Scotti.-
La mia voce era stranamente roca e un po’ incerta. Le mie parole avevano interrotto quella strana tensione elettrica che fino a pochi secondi prima ci aveva uniti e teletrasportati come in un altro mondo, disperso nella più lontana delle galassie.
Lei si girò verso di me. Non mi guardò, ma tenne gli occhi ostinatamente bassi, impegnata ad osservare il pavimento bianco e nero.
Preso come da una sorta di frenesia poggiai il pacco di biscotti sul bancone perfettamente lucidato e mi diressi verso una delle tante cassettiere di metallo disposte a destra dei fornelli. Presi una ciotola da uno dei cassetti della cucina e la posizionai nel lavabo, aprendo il getto d’acqua gelida. Successivamente agguantai da un ripiano a destra un tovagliolo di stoffa, ricamato con dei motivi floreali; infine aprii il freezer e presi qualche cubetto di ghiaccio.
Samantha aveva seguito le mie mosse con studiata indifferenza, ma la vedevo insicura, pronta a indietreggiare.
Dopo aver finito la raggiunsi e la invitai a sedersi su uno degli sgabelli della cucina; le scostai sbrigativo delle ciocche bionde dalla fronte e la sfiorai con i polpastrelli delle dita: non ero di certo un medico, ma intuivo che la febbre stava salendo. E in fretta.
Bagnai il tovagliolo nella bacinella del ghiaccio e lo posizionai sulla sua fronte bollente. La guardai. I suoi occhi dorati non avevano smesso neanche per un istante di fissare i miei, scrutandomi perplessi.
Finsi di ignorare la strana scossa elettrica che aveva attraversato la mia colonna vertebrale e mi concentrai sulla piacevole freschezza del tovagliolo bagnato che, con il passare dei minuti, stava pian piano riscaldandosi. Tornai a immergerlo nell’acqua gelata gettando di tanto in tanto qualche occhiata al pentolino che avevo lasciato sul fuoco: l’ultima cosa che volevo era bruciare il latte, dando il via al peggiore spuntino di mezzanotte della storia dell’Istituto.
Dopo qualche minuto decisi che ne avevo abbastanza di aspettare e mi alzai, porgendo il fazzoletto bagnato a Herondale; spensi il fornello e versai il latte bollente in due tazze. Cercai di non far cadere neanche una goccia di quel liquido mentre le posizionavo sul bancone, con due cucchiai e un grande pacco di biscotti ancora quasi del tutto integro.
Infine andai ad aprire un piccolo scompartimento nascosto tra due cassetti più grandi, cercando la pillola per abbassare la febbre. Dopo svariati tentativi, finalmente la trovai in fondo alla credenza, sommersa da un’infinita quantità di bende, garze e creme per lo stiramento muscolare.
Mi sedetti su uno sgabello della cucina, di fronte a Herondale. Le porsi con gentilezza la pillola, invitandola con lo sguardo a prenderla. Lei esitò soltanto pochi istanti e poi la tolse dalle mie mani per buttarla nella tazza del latte bollente. Questo gesto diede inizio al nostro spuntino di mezzanotte.
Presi un biscotto al cioccolato, ed ignorando la sua odiosa forma di cuore,  lo inzuppai nel mio tazzone. Guardai il dolcetto galleggiare nell’oceano di latte bollente e lottare contro le onde immaginarie che lo trascinavano giù, per poi imbarcare “acqua” e scomparire tra i flutti. Con un gesto fulmineo agguantai il cucchiaio e salvai il mio biscotto, integro e perfettamente inzuppato; lo portai alle labbra e lo addentai, assaporando lentamente il suo gusto piacevole, di cacao e mandorle tostate.
Alzai lo sguardo e notai che Herondale aveva già mangiato quattro di quei deliziosi manicaretti e stava masticando con gusto il quinto biscotto, con un’espressione celestiale dipinta sul viso, come se si stesse trovando in un paradiso che, ero pronto a scommetterci, era fatto interamente di cioccolato e mandorle.
Continuammo a mangiare di gusto fino a quando ci accorgemmo che soltanto in due eravamo riusciti a dimezzare drasticamente il contenuto del pacco di biscotti. A quel punto entrambi bevemmo ciò che rimaneva del nostro latte e posammo le tazze nel lavabo, lavandole con cura, cancellando le tracce della nostra merenda.
Non avevamo parlato molto durante il biscotti-time, così, quando ci ritrovammo da soli nella cucina, uno accanto all’altra, con le labbra sporche di cioccolato, la situazione era piuttosto comica. L’idea di dover tornare nella mia stanza mi irritava profondamente perché sapevo che, se mi fossi riaddormentato, sarei dovuto tornare nel mondo buio, ed ero certo che non ce l’avrei fatta ad affrontare di nuovo quel mostro.
Così mi tornai a sedere sulla poltrona, sperando di non cadere addormentato per la seconda volta.
Samantha mi fissò con un’occhiata interrogativa al che scossi la testa, indicando la comoda poltrona rossa.
-Neanche io voglio tornare nella mia camera, stanotte- disse lei.
Così, con piccoli passi timidi, mi si affiancò e si sedette sull’angolino che le avevo lasciato libero sulla poltrona, lanciandomi uno strano sguardo, come se avesse paura che io la scacciassi.
Invece le rivolsi un ghigno e le sussurrai con voce profonda: -Di’ la verità Herondale: tu hai sempre sognato di sederti sopra di me. Questa è la realizzazione di tutti i tuoi sogni erotici…-
-Qualcuno ti ha mai detto che sei un po’ troppo sicuro di te, mio sogno erotico con le briciole di biscotti sulla bocca?-
-Vuoi togliere tu le briciole dalla mia bocca, Herondale?-
 Lei rise sulla mia spalla, acciambellandosi su di me. Era calda e la febbre non era ancora scesa, eppure la sensazione della sua pelle sulla mia era piacevole, come il sorso di una cioccolata calda in pieno inverno, con una tempesta di neve che infuria dietro i vetri di una finestra.
Mi sistemai meglio sulla grande poltrona, per permettere a Herondale di mettersi comoda. Lei intrecciò le sue gambe con le mie, appoggiando la sua testa sul mio petto, stringendosi a me per non cadere. Per stabilizzare entrambi le avvolsi le braccia intorno alla vita, attirandola di più a me. Reclinai il capo, poggiandolo sullo schienale della poltrona rossa.
Era una cosa davvero strana ritrovarmi lì, in cucina, con Herondale mezza addormentata sulle ginocchia: di solito passavamo il tempo a scannarci a vicenda, litigando un minuto sì e l’altro pure. Ma il suo profumo fruttato era piacevole, dopotutto. E il calore della sua pelle febbricitante colmava il gelo che sentivo nelle ossa. Così mi abbandonai su di lei, inspirando a pieni polmoni il suo odore.
Pregai Raziel di concedermi un sonno senza sogni.
Stremato dalla fatica, socchiusi gli occhi. Il ricordo che l’essere aveva estratto dalla mia mente mi inquietava: ormai mancava poco al mio compleanno. Poche settimane e avrei compiuto sedici anni. Da quel che diceva il demone, sarebbe stato il mio ultimo compleanno.
L’ultima cosa che vidi prima di addormentarmi furono una massa indistinta di boccoli dorati. Poi caddi nelle braccia di Morfeo. 
 
 
POV JACE
 
Osservai di sottecchi la figura di Magnus che mi voltava le spalle e si dirigeva verso la porta, l’andatura da cui traspariva tutto il suo disappunto nei miei confronti. Si era appena conclusa l’ennesima discussione da quando, due giorni prima, era tornato in fretta e furia dalla sua vacanza con Alec. Aveva aperto un Portale e si era precipitato a New York, con un’urgenza che mi era parsa esagerata…
Non ero più un bambino, eppure lo stregone continuava a trattarmi come tale. Stentava saggezza solo perché aveva più di ottocento anni, mentre io ne avevo quarantacinque.
Chiuse la porta dietro di sé.
Tirai un pugno sul piano della scrivania e mi sedetti, tentando di calmarmi. Si trattava dei miei figli, di mia figlia. Nessuno doveva permettersi di dirmi cosa fosse meglio per lei. E poi, se avessi acconsentito a fare come diceva Magnus, con quella cocciutaggine che si ritrovava, Samantha mi avrebbe come minimo lanciato un’occhiataccia che mi avrebbe fatto ritorcere le budella, perché quello sguardo sarebbe stato indice del fatto che lei non era felice… E questa era l’ultima cosa che volevo. Era già abbastanza stare per ore, certe notti, a fissare il soffitto, nel buio della mia stanza, con il respiro profondo di Clary che scandiva il passare del tempo, a sentirmi sporco, bugiardo, traditore verso mia figlia, la cosa che amo di più al mondo. Lei e Chris.
Da bambino mi era stato portato via tutto l’amore di cui avevo bisogno, da un finto padre che mi aveva cresciuto insegnandomi che amare significa distruggere. E potevo vederlo ancora, in certi momenti in cui ero particolarmente stanco o arrabbiato. Potevo ancora scorgere gli occhi di Valentine Morgenstern, neri come il carbone, e il collo del falchetto che veniva spezzato dalle sue mani grandi e bianche. E gli avevo voluto bene, dannazione, ma poi lui era morto e io l’avevo odiato per questo. Così avevo smesso di amare, ma poi avevo conosciuto l’amicizia: Isabelle e Alec erano stati come fratelli, per me. E un giorno, all’improvviso, era arrivata lei. Clary. Capelli di fuoco e occhi di foresta, estremamente piccola ma coraggiosa. E avevo capito che l’amore esisteva davvero, che il suo potere poteva battere tutto, superare il buio della morte e degli inferi, sopravvivendo anche al ritorno di quel padre e alla sua morte, vera questa volta. Avevo creduto che la mia vita fosse dunque completa, che nulla potesse rendermi più felice della mia Clarissa. Ma, in seguito, avevo dovuto ricredermi: al comparire di quel punto dentro Clary, la luce sotto cui guardavo il mondo era totalmente cambiata. E più il puntino cresceva e si trasformava in qualcosa di reale –non solo un rigonfiamento nella pancia di mia moglie– più sentivo di essere adulto e completo. Quando finalmente avevo stretto Chris tra le braccia, la paura di sbagliare era svanita: importava solo che lui fosse lì, così piccolo, così delicato, con gli occhi chiusi e la faccia tutta rossa, una manina stretta intorno al mio dito. E man mano che era cresciuto, mostrando sin da subito un carattere mite e solare, io mi ero sentito sempre più orgoglioso e innamorato di mio figlio. A illuminarmi la vita c’erano sempre i suoi riccioli biondi, gli occhioni verdi e il sorriso tutto gengive. E, dopo poco più di un anno, era arrivata anche Samantha: l’amore incondizionato provato alla sua nascita era stato uguale a quello provato per Chris. Solo che lei era una femmina, e con le femmine è sempre tutto più complicato: Chris ormai lo conoscevo, sapevo il suo modo di fare a memoria, il suo carattere aperto era ormai una solida roccia che non cambiava mai… Samantha era tutt’ora impossibile da comprendere, ogni tanto era frustrata e arrabbiata e cocciuta; cinque minuti dopo poteva essere adorabile e dolcissima. Ma li amavo tutti e due, indifferentemente, come solo un padre può fare. E, più di ogni altra cosa, volevo vederli felici.
Ed ecco perché non sopportavo di dover nascondere loro quella probabile, sconvolgente verità che avrebbe potuto metterli in serio pericolo. Magnus continuava a dirmi che dovevo parlarne con i ragazzi. Ora aveva addirittura sottolineato l’urgenza del problema, sostenendo che andassero prese immediatamente delle precauzioni, affrontando il problema faccia a faccia.
Ma era troppo pericoloso. Sapevo che lo era. Avevo fiducia nei miei figli; ero certo che, se avessero saputo tutto, non si sarebbero tirati indietro… Ma era proprio questo che mi faceva paura. Con Samantha, inoltre, sarebbe stato un grosso problema: le avevamo spiegato sin da piccola la faccenda del sangue, ma se le avessimo rivelato le novità che erano saltate fuori, avrebbe agito in modo troppo impulsivo; al contrario, se le avessimo taciuto tutto, semplicemente mandandola a fare ciò che Magnus aveva proposto, ci avrebbe odiati… Mi avrebbe odiato. No, decisamente, la soluzione migliore era ignorare le parole dello stregone, affidandosi alla possibilità che la sua urgenza e la sua preoccupazione fossero esagerate.
Il fluire dei miei pensieri fu interrotto quando la pesante porta della biblioteca si socchiuse, e ne entrò Clary. Un calore accogliente mi pervase il petto: niente da fare, gli anni passavano ma l’effetto che mi faceva ogni volta che la vedevo era sempre lo stesso. La trovavo perfino più bella, adesso, con qualche ruga intorno agli occhi e delle striature argentate tra i capelli rossi, gli occhi verdi carichi di una maturità e di un’esperienza che la rendevano più accattivante di quando eravamo giovani, di quando i suoi occhi erano ancora pieni di insicurezza e innocenza.
Si avvicinò in silenzio alla scrivania, aggirandola e restando in piedi accanto a me. Le avvolsi un braccio intorno alla vita e la attirai, affondando il viso nel suo ventre e inspirando il suo odore, che sapeva di buono, di casa, di sicurezza e famiglia. Così piccola, eppure la mia roccia. Sentii le sue mani affondarmi tra i capelli e tirarmeli all’indietro.
-Ho visto Magnus che usciva da qui… Non mi sembrava tanto contento, però.-
Mi staccai immediatamente e alzai lo sguardo sul suo viso. Quasi involontariamente, contrassi la mascella. -No- risposi. -Infatti.-
Lei mi fissò, le sopracciglia inarcate. -Hai intenzione di spiegarmi che è successo?-
-Nulla di importante- la liquidai. Poi mi voltai e feci finta di controllare delle carte sulla scrivania. Sapevo che, se mi avesse guardato in faccia, si sarebbe accorta che mentivo: mi conosceva troppo bene, ormai.
-Jace.-
Le bastò questo per richiamare i miei occhi: aveva dipinta sul viso un’espressione seria, che non ammetteva repliche. Ed io ero come un bambino indifeso, di fronte a lei. -Si tratta di ciò di cui abbiamo parlato durante l’ultima riunione del Consiglio di New York. Magnus...- esitai un istante. -Lui ritiene che sia necessario prendere provvedimenti drastici. Immediatamente.-
-Con “provvedimenti drastici” vuoi dire la terapia d’urto proposta da Silverhawk?-
Sospirai nel sentire il riferimento alla seduta del consiglio di New York che si era tenuta il giorno prima, dietro richiesta di Magnus. -Esattamente. Non ti sembra un’assurdità?- dissi in tono sprezzante, aspettandomi la sua conferma.
Che non arrivò.
-Clary?- la richiamai.
-Be’- cominciò lei, a fatica. -Condivido le tue preoccupazioni, amore mio, ma… ecco… e se avessero ragione? Se fosse necessario? Potrebbe essere l’unico modo che abbiamo per risolvere la questione in modo positivo.- Si attorcigliò un lembo del maglione intorno ad un dito, mordicchiandosi il labbro inferiore. -So bene quanto sarebbe pericoloso, ma pensa a cosa potrebbe accadere se…-
-Si tratta dei nostri figli, Clary- la interruppi, esasperato. -I nostri bambini… Tu non credi che la mia preoccupazione sia reale? Metti che qualcosa vada storto: io non…- Mi tirai indietro i capelli, nervosamente. -Non me lo perdonerei mai, ecco…-
 Fui improvvisamente interrotto dallo spalancarsi della porta. Isabelle fece il suo ingresso, gli occhi luccicanti di preoccupazione, qualche capello fuori posto e il fiatone tipico di chi ha appena corso. Piantò su di me il suo sguardo. -Jace.- Riuscii a percepire l’agitazione nella sua voce. -Io… Non so come dirlo… È arrivato un messaggio dai rilevatori alla succursale dell’Accademia…-
Scattai in piedi, la mano di Clary salda sul mio braccio.
-Li hanno trovati, Jace… La scuola mondana… trabocca di presenza demoniaca.-
 
 
 
 
 
POV CHRIS
 
-Ti arrendi?- La mia voce echeggiò per tutta la palestra, rimbalzando sugli alti soffitti a volta e sulle armi di adamas che tappezzavano i massicci muri di pietra.
Il petto del mio avversario si alzava e si abbassava velocemente contro le protezioni di cuoio per la scherma, riuscivo a sentire il suo respiro affannoso infrangersi sulla maglia metallica della sua visiera abbassata. sollevò un pollice della mano guantata per dichiarare la resa, lasciando cadere il fioretto sul pavimento con un tonfo metallico.
Mi raddrizzai sentendo il sudore colare lungo la schiena. Abbassai lentamente il mio fioretto, dalla gola dell’avversario fino a portarlo parallelo alla mia gamba. Mi sfilai la visiera e sorrisi, alcuni riccioli incollati alla fronte.
-Allora- feci in tono canzonatorio -cosa dicevi a proposito dello schiacciarmi come una pulce?-
L’altro sbuffò irritato. Con un gesto fluido, degno di un ballerino, si tolse il casco con la visiera. Una cascata di ricci castani sfolgorò sotto i raggi solari che entravano dalle ampie finestre.
Anche la sua pelle bruna era luminosa.
Eliza storse in modo adorabile il naso. Raddrizzò la schiena e si impettì, così che il suo fisico, fasciato dalla divisa, potesse essere ben intuibile. Eliza era alta per essere una ragazza, anche per una ragazza un anno più grande di me (mi arrivava oltre il mento), ma il suo corpo slanciato era comunque decisamente femminile: asciutto al punto giusto, aggraziato e dalle forme sinuose e piene. All’improvviso mi resi conto di stare indugiando troppo con lo sguardo sulla sua figura, e spostai rapidamente gli occhi sul suo viso, arrossendo.
Eliza aveva ancora un’espressione contrita. -Avrai anche vinto quest’ultimo combattimento- disse, in tono tagliente. -Ma la prossima volta ti farò piangere.- Poi il suo viso si addolcì e le sue labbra scure e carnose si piegarono in un sorriso. -Sappi comunque che me la lego al dito, questa sconfitta.- Per sottolineare il concetto, mi agitò un indice sotto al naso.
Scoppiai a ridere. -Ti prendo in parola- ribattei, divertito.
Si avvicinò piano, scuotendo la testa. -Sei il solito… Io cerco di parlare seriamente e tu mi fai deconcentrare.-
Ormai era pericolosamente vicina, e riuscivo a percepire il calore del suo corpo. I nostri occhi si incatenarono. Riuscii a scorgere appena in tempo un lampo nelle sue pupille, poi i miei riflessi scattarono. Spinsi indietro il braccio del fioretto proprio mentre Eliza si allungava per sottrarmelo; con la mano libera, le afferrai il polso. -Non oggi- soffiai sul suo viso, facendo ondeggiare con fiato una ciocca ribelle che le ricadeva sulla fronte. -Oggi vinco io.-
Mi lanciò un’occhiataccia. -Va bene,- si arrese -oggi ti lascio vincere.-
E mentre lo diceva, sentivo quanto quella sconfitta le pesasse: non mancavano i combattimenti, durante gli allenamenti, in cui vinceva lei. Soprattutto nella scherma, poi, che era il tipo di lotta in cui eccelleva: era capace muoversi silenziosa come un’ombra, veloce come la luce, leggera e aggraziata come una brezza; si muoveva seguendo i passi di una danza fatale, costringendo l’avversario in uno spazio sempre più piccolo, lasciandolo sempre più confuso e annientando le sue difese; tenere alte le difese, con lei, era impossibile, perché riusciva a trovare sempre un punto debole, penetrandolo e finendoti. -C’è sempre una falla nel sistema: si può essere cauti quanto si vuole, veloci a difendersi come una gazzella, ma qualcuno troverà comunque la strada per colpire. L’importante è conoscere questo punto debole, e saperlo sfruttare a proprio vantaggio.- Queste erano le prime parole che Eliza mi aveva rivolto, dopo avermi battuto lo stesso giorno in cui avevo cominciato a frequentare quel distaccamento dell’Accademia di Idris, quando ero un novellino e lei mi aveva preso sotto la sua ala protettiva, aiutandomi ad integrarmi nella scuola.
E adesso era lì, in piedi di fronte a me, l’amicizia costruita tra di noi che ci legava come un nastro invisibile.
Abbassò gli occhi e sorrise, indietreggiando. -Puzzi come una scimmia- disse. -È meglio che tu ti dia una ripulita, prima di scendere a mangiare in sala comune. Altrimenti Silverhawk ti farà fare il bagno nella baia, dopo averti negato il pranzo.-
Le avvolsi un braccio intorno alle spalle, tanto per infastidirla e vederla portarsi una mano a tappare il naso, una smorfia disgustata sul suo viso. -Intendi il bonario Preside di questo posto?- Ridacchiai. -Certo, come no. È più probabile che mi dia una doppia razione di maccheroni al formaggio, vedendomi conciato così… Vedrai che ammirerà il fatto che abbia sudato lavorando duro.- Le punzecchiai l’incavo del collo con un dito. -Tu, piuttosto, non sudi mai?-
Mise il naso all’insù con aria di superiorità, abbassando le palpebre. Emise un verso sdegnato: -Feh! Le ragazze non sudano.- E con questo si diresse verso l’uscita della palestra, il petto gonfio di orgoglio femminile, ancheggiando. Non potei fare a meno di pensare a quanto fosse piacevole guardarla camminare, e lo sapevo, io lo sapevo che camminava a quel modo proprio per farmi sentire in imbarazzo. Era stata praticamente la prima ragazza con cui avevo avuto a che fare da vicino, non contando mia sorella. Si muoveva sinuosa, e il mio sguardo viaggiò piano, partendo dal collo lungo e scivolando lungo la schiena, sempre più giù…
Eliza si girò di scatto e io mi ripresi. -Allora?- fece. La guardai spaesato, strabuzzando gli occhi. -Vieni o no? Penso che potrai sederti a tavola anche in quelle condizioni pietose, basta che non ti siedi vicino a me.-
Scossi la testa per dissipare la confusione che mi aveva assalito. -Certo, certo- borbottai. -Arrivo subito.-
Raggiunsi Eliza in qualche ampia falcata, e insieme ci incamminammo lungo lo spoglio corridoio di pietra, i nostri passi che riecheggiavano sul pavimento liscio.
-La prossima volta che ti viene la tentazione di sbirciarmi il fondoschiena,- disse Eliza all’improvviso -assicurati che io non me ne accorga. Mi mette soggezione.-
Fu come ricevere una bastonata in testa, sentii un fulmineo calore avvamparmi le guance, e immaginai di essere arrossito come un deficiente fino alla punta dei capelli. L’imbarazzo che provavo stava più che altro nella schiettezza, nella semplicità del tono con cui aveva pronunciato quelle parole, come se fossero state un banale appunto. Masticai un’imprecazione. -Ma come fai a…-
Lei alzò le spalle e mi interruppe: -Ho i miei metodi. O forse sei tu a essere un libro aperto… Anzi, sicuramente sei tu: ogni cosa che provi o pensi ti si legge in faccia. Prendi ora, per esempio: con quel sopracciglio sottile alzato e la bocca semiaperta si capisce benissimo che sei in modalità “maschio-stupito-e-diffidente”… È matematico, capisci?-
Rimasi interdetto, e in silenzio.
Quindi Eliza mi tirò un pizzicotto sulla guancia. -Vedi che non riesci neanche a negare di avermi quasi guardato il didietro? Molte persone, al posto tuo, si sarebbero messe sulla difensiva. Ma tu no, sei limpido, sei sincero.- Smise di camminare tutto ad un tratto, abbassando lentamente la mano dal mio viso. Il suo sorriso si smorzò, e anche il suo tono: -È questo che mi piace di te.-
Alzò gli occhi, che si incatenarono con i miei: una strana luce si era impossessata delle sue iridi, rendendole scure come gli oceani più misteriosi e impenetrabili, proprio come le sue emozioni in quel momento. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa stesse pensando, ma i suoi sentimenti sembravano schermati da una barriera indistruttibile. Ciò che Eliza esternava erano solo parole. Quello che aveva appena detto, poi, era innegabilmente compromettente. È questo che mi piace di te… come dovevo interpretare quella frase? Era una pura constatazione? Una dichiarazione? Quel mi piace significava unicamente che con me si trovava bene o sottintendeva qualcosa di più profondo e personale? E se così fosse stato, come avrei dovuto reagire? Avrei dovuto rispondere “anche tu mi piaci”? E se fosse saltato fuori che avevo frainteso? Inoltre, cosa più importante, ero sicuro che lei mi piacesse? Senza dubbio non mi era indifferente, ma lei era quasi una sorella per me, e avevo il serio timore di rovinare tutto il nostro rapporto, la nostra amicizia, se le cose fra di noi non fossero andate bene… Sempre che cambiasse realmente qualcosa, la possibilità che io rispondessi che mi piaceva.
Eliza chiuse gli occhi e si riscosse, ponendo fine al silenzio imbarazzato che si era venuto a creare fra di noi. Riprese a camminare, cominciando a scendere una rampa di scale. -Sbrigati, Chris. Sto morendo di fame.-
Fui colpito dal tono del tutto normale con cui aveva ripreso a parlare, come se nulla di singolare fosse appena successo. Stupido, stupido, stupido pensai. Mi ero arrovellato con un sacco di domande inutili, tirando in ballo possibilità che Eliza probabilmente non aveva neanche preso in considerazione, o che comunque avrebbe difficilmente esternato.
-Ti muovi? Oggi non fai altro che rimanere indietro!-
-Certo. Arrivo.- Mi ripresi e la raggiunsi.
Ricominciammo a chiacchierare nel modo più naturale possibile, la tensione tra di noi ormai completamente sciolta come neve al sole.
 
 *****
 
La luce di mezzogiorno inoltrato inondava l’ampia stanza. Eravamo tutti seduti intorno al lungo tavolo della sala da pranzo. Sulla tovaglia candida, apparecchiata con un servizio di stoviglie semplice e austero, facevano bella mostra le pietanze del giorno: tacchini arrosto succulenti dal profumo invitante, il grasso che colava nei piatti da portata, ammorbidendo le patate al forno dorate; grandi zuppiere colme di brodo fumante, pezzi di cipolla che galleggiavano sulla superficie; coppe colme di verdure e frutta fresca, per un’esplosione di colori tra l’arancio acceso delle carote e il rosso lucido delle mele; golosi budini al cioccolato coperti di zucchero a velo. Le voci dei ragazzi si confondevano, rimbombando sui muri e sulle alte volte di pietra, da cui pendevano giganteschi lampadari. Il chiasso era infernale, ma l’atmosfera dell’Accademia mi piaceva, mi faceva sempre sentire di casa. Ed era naturale: insieme all’Istituto, la succursale era il posto dove passavo la maggior parte delle mie giornate, tra lezioni di scherma, lotta libera, arti marziali, pugilato e in generale tutte le discipline di combattimento utili ad uno Shadowhunter. Non tutte le materie erano di questo tipo, però: rune, demonologia e Storia dei Nephilim sono solo alcune delle materie teoriche che comunque dovevo studiare, accompagnate da qualche disciplina mondana essenziale, cioè inglese, matematica e latino, utile più che altro per permetterci di comprendere le formule e i codici di legge diffusi nella cultura dei Cacciatori di ombre. Era tutt’altro che una passeggiata, insomma, nonostante Samantha non mancasse mai di sottolineare come la prospettiva dell’Accademia fosse per lei molto più allettante della scuola mondana… Cavolate, secondo me: era troppo legata ai suoi amici mondani, che io avevo visto solo poche volte.
Cercai lo stesso di immaginarmela seduta a quel tavolo con noialtri: forse in quel momento sarebbe stata a ripassare con quel gruppetto, posizionato sulle panche in fondo, che aveva il compito di rune all’ora successiva; forse sarebbe stata accanto a me, a rubarmi il budino al cioccolato dal piatto. Questo non avrei saputo dirlo con certezza, ma ero sicuro che la sua presenza non mi sarebbe dispiaciuta: magari l’avrei guidata, le avrei insegnato ciò che avevo imparato prima di lei, le sarei stato più vicino, da bravo fratello maggiore.
Ma, almeno per il momento, ciò non era possibile. Per motivi di sicurezza, come ci avevano spiegato sin da piccoli, Samantha era costretta a frequentare una scuola diversa dalla mia, una scuola mondana. Saremmo rimasti a studiare in luoghi separati, punto. Sapevo che era per il bene di mia sorella, e questo era ciò che contava.
Solo che l’ingresso in Accademia era stato precluso anche a Max. Avrebbe dovuto cominciare a frequentare i corsi quell’anno, passando dall’istruzione dell’Istituto a quella della succursale. Poi gli “adulti”, poco prima dell’inizio dell’anno scolastico, avevano convocato me e Max nella biblioteca e ci avevano comunicato che non se ne sarebbe fatto più niente: avrebbero spedito Max a scuola con Samantha, fine del discorso. A lei avevano deciso di non dire niente per impedire che cominciasse a protestare, rendendo le cose più complicate. Sam l’aveva scoperto direttamente a scuola: non era stata troppo contenta, come si era immaginato, e l’unica spiegazione che papà aveva addotto era che Max serviva per tenerla a freno dal fare cose stupide. Certo, era innegabile che mia sorella, sotto pressione, potesse agire in modo imprudente, l’impulsività era sempre stato un tratto distintivo del suo carattere… Ma io sapevo che sotto ci doveva essere qualcosa di più, qualcosa che ci tenevano nascosto. Me lo sentivo. Ma non potevo fare più di tanto. Inoltre, ero convinto che, se gli adulti avevano deciso di affiancare Max a Sam, ci doveva essere un motivo ben valido. Dopotutto ci amavano, e sapevo che qualsiasi cosa facessero era per il nostro bene.
Eliza si sedette sulla panca accanto a me, distogliendomi dai miei pensieri.
La guardai mentre si metteva un grossa fetta di tacchino nel piatto.
-Non dovevi sederti lontano da me per via della mia puzza?-
Lei fece un’alzata di spalle e cominciò a tagliare la carne, non guardandomi. -Diciamo che ho deciso di sopportarlo… E poi scelgo io dove sedermi.-
Alzai gli occhi al cielo, divertito, mentre tagliavo una fetta da una forma dorata di pane, il coltello che affondava nella crosta croccante con un bel suono e le briciole che saltavano in aria.
-Perché sorridi in quel modo?- mi chiese Eliza.
Ghignai nella maniera tipica di chi è a conoscenza di un segreto succulento, tanto perché era questo il nostro modo di scherzare, era questo il nostro codice dell’amicizia.
-Chris?- mi richiamò.
Stavo per risponderle con una battuta, quando Silverhawk fece il suo ingresso nella sala da pranzo.
Il Preside della succursale era sulla quarantina – un’età notevole per uno Shadowhunter attivo come lui – ma i suoi capelli e la sua barba erano già tutti sale e pepe. Aveva gli occhi scuri e infossati, e una cicatrice procurata durante un combattimento contro un demone particolarmente feroce gli sfregiava la parte sinistra del volto, da appena sotto l’occhio fino al labbro superiore. Amava raccontare storie riguardanti lui e le sue battute di caccia ai mostri, e cominciava sempre con la frase -Ho quasi per un occhio, per quel bastardo di demone- indicandosi la faccia.
In quel momento indossava la tenuta di combattimento tipica degli Shadowhunters, il duro cuoio nero che aderiva sul suo corpo tozzo e palestrato, le braccia muscolose simili a grossi tronchi scoperte, costellate di cicatrici argentate, ricordo di antiche rune.
Mi fece un cenno, esortandomi ad uscire in corridoio.
Ubbidii al suo ordine, varcando la soglia dopo di lui.
Silverhawk aveva una faccia seria, la cicatrice sul viso contratta. Fu molto breve nelle spiegazioni, la sua voce roca mi impartì una serie di secchi ordini e non mi lasciò il tempo di proferir parola: -Vai in armeria e rifornisciti, Herondale. Una squadra di Nephilim adulti, incluso me, è già pronta a partire, ma è meglio se vieni anche tu: la cosa ti riguarda in prima persona; all’Istituto sono già stati avvisati… È per tua sorella e il tuo amico, avranno bisogno di rinforzi in tempi brevi: i nostri rilevatori stanno comunicando una forte attività demoniaca nella loro scuola.- 






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Siamo tornate dalla tomba. In super-straritardo, dopo un silenzio di mesi. Non possiamo dire altro se non che ci dispiace per avervi fatti attendere tanto, e che ringraziamo comunque tutti coloro che ci hanno tenute fra i preferiti e che ci hanno recensite... Grazie mille perché, senza di voi, non saremmo rimaste in classifica pur non avendo aggiornato. Perché bisogna essere regolari nell'aggiornare, per avere più visibilità. Noi non lo siamo state, ma voi siete talmente fantastici che avete continuato a volerci bene. Non ci sono parole per esprimervi il nostro affetto. Vi amiamo con tutto il cuore, meravigliosi lettori. Anche chi ci ha dato una recensione neutra per il fatto che abbiamo tardato: ci ha aiutate a capire che dovevamo aggiornare. Grazie. Speriamo che questo capitolo ti abbia soddisfatta. <3
E speriamo che questo capitolo abbia soddisfatto tutti voi. E' stato un capitolo fondamentale e difficile da scrivere, perché abbiamo dovuto legare i punti di vista dei personaggi che continueranno a narrarci la vicenda dal prossimo capitolo in poi. E, se il POV di Sam vi è mancato, non temete, perché dal prossimo capitolo la sua sarcastica voce tornerà a bomba, in una situazione esplosiva. Non potremmo mai abbandonare Sam, lei è stata la nostra prima creatura in tutta la storia. E' stata quella che ha vincolato le vostre C ed S, compagne di scuola dalla prima elementare e amiche da qualche anno, che le ha spinte a scrivere una storia sui figli della grande Cassandra Clare. 

Aspettando le vostre recensioni e sperando di pubblicare a breve il capitolo 12, baci
C&S

 

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