L'ultimo cavaliere della Pietra

di lady igraine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** RICORDI parte prima ***
Capitolo 8: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 9: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 10: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 11: *** RICORDI parte seconda ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

 

PROLOGO

 

Nevicava.
Nevicava sempre.
Ci era cresciuta in quella città ammantata di ghiaccio che non conosceva altro che coltri bianche e gelo perenne. Aveva mosso i suoi primi passi nelle neve, aveva colto la prima rosa, orlata di cristallo e tanto bella che quasi aveva pianto, negli immensi giardini del palazzo. Aveva tenuto la mano alla sua bellissima sorellina dalla chioma argentata mentre a sua volta imparava a camminare, con loro padre che le studiava da lontano, le braccia conserte e un sorriso lieve. L’aveva sostenuta, l’aveva abbracciata nelle notti gelide, perché al contrario di lei la piccola il freddo lo sentiva e tremava come una foglia.
Le era sempre stata accanto, aveva impedito che conoscesse la solitudine che il gelo del loro mondo aveva gettato su di lei.
Ricordava come qualcosa le si era sciolto dentro quando aveva stretto la mano della piccola, quando sua sorella le aveva sorriso per la prima volta. Era stato il giorno in cui aveva capito che non sarebbe stata più sola. Il giorno in cui aveva smesso di sentirsi sola.
Paragonato alla durata della loro vita tutto questo era accaduto solo ieri, ma per lei quei pochi attimi si erano verificati un’eternità prima.
Ora la neve si stava trasformando in una tormenta mentre ripercorreva gli stessi scalini che aveva salito correndo nella sua infanzia.
Il tempio sorgeva sulla cima di un’altura tagliata da un’infinita ripida scalinata scolpita nel ghiaccio e consumata dai secoli. A volte gettava uno sguardo sulla città sottostante, schiacciata dall’imponente presenza di quel luogo sacro e da ciò che esso rappresentava.
Una follia a cui avrebbe messo fine.
O forse era lei, a star commettendo una follia?
La folla, le urla, il fumo.
Sentiva gli assordanti rumori della morte provenire da lontano, ma le fiamme crepitanti che già si levavano, fomentante dal vento gelido che spargeva scintille, e il fumo acre che rendeva l’aria pestilenziale nascondevano ai suoi occhi la danza macabra che si stava compiendo grazie a lei.
I suoi Alfar si erano introdotti attraverso le ciclopiche mura di Neanna durante la notte, col favore delle tenebre, e avevano iniziato a razziare e uccidere senza pietà gli abitanti molto prima che l’allarme venisse dato. Le campane della Cattedrale dei Peccatori suonavano incessanti come monito alla strenua difesa, ma era troppo tardi, il nemico era dentro le mura, lei stessa ve lo aveva condotto. Era la prima volta nella Storia che il suolo sacro di Neanna veniva profanato, la prima volta che le infallibili mura di ghiaccio venivano varcate da entità prive del sangue dell’Eletta Stirpe.
Tornò a guardare davanti a sé, allontanando i rimpianti.
Un portico circolare privo di archi si apriva davanti a lei, sostenuto da colonne larghe dieci piedi, scolpite nel più limpido cristallo con capitelli decorati di amaranto e agrifoglio.
Amaranto e agrifoglio ovunque.
Eternità, immortalità, spirito combattivo, fedeltà alla propria causa, speranza.
Quanti significati per dei piccoli, insignificanti fiori.
«Nostra signora?»
La voce secca del Dokkalfar la risvegliò. Aveva portato con sé quaranta Alfar e ora rimpiangeva di non aver preso delle maggiori contromisure. Non aveva idea di quanti membri della setta la aspettassero al di là del portone e non era certa che i suoi soldati sarebbero bastati.
Stava esitando, loro lo sentivano.
«Andiamo, ormai sapranno di noi»
Attraversare il piazzale era come camminare su un lago ghiacciato, molto più sicuro certo, ma sotto lo strato solido della superficie sembrava davvero che vi fosse dell’acqua.
Percorse la strettoia costeggiata da colonne fino alla facciata del tempio: dietro al peristilio l’immenso portone era spalancato verso l’interno e lasciava uscire l’aroma dell’incenso.
«Mostyn», chiamò piano, in un sussurro appena accennato.
L’Alfar le fu subito accanto, dritto come un fuso e pallido come la morte. Aveva occhi verdi, di un verde tanto tiepido da risultare quasi trasparente, e la bocca bluastra era contratta quanto le sue sopracciglia bianche. Un fantasma, ecco cos’era il suo generale, uno spirito sottratto al sottosuolo.
«Dieci di voi entrino per primi e controllino la situazione»
«Come desiderate, Signora»
Attese in silenzio, la mano contratta intorno al bastone a doppia lama legato alla schiena, pronta a sganciarlo al minimo segnale di pericolo e si rilassò solamente quando un Dokkalfar le fece cenno di entrare.
L’immensa sala era vuota e silenziosa, le tre navate prive di qualunque ornamento erano opache senza il sole che baluginava sulle pareti creando giochi di luce. Sembrava quasi abbandonato, non fosse stato per l’incenso, un odore che lei odiava e di cui il tempio era sempre stato impregnato.
Prendeva alla gola, così dolciastro da dare la nausea.
Lasciò vagare i suoi occhi cerulei sulle superfici delle arcate e dei colonnati intarsiati d’oro e d’avorio, si soffermò sulle fredde spoglie pareti fino all’altare: vuoto.
Non si aspettava veramente di trovare l’Artefatto al suo posto, eppure non le riuscì di non provare delusione. Sarebbe stato tutto più facile, se non avesse dovuto incontrare lei.
Non era cambiato nulla, ogni cosa era esattamente come i suoi ricordi le avevano raccontato, quel luogo era sospeso eternamente fra le pieghe di un tempo immortale che le causava disgusto. Non c’era spazio per il cambiamento, ma lei lo avrebbe portato con il ferro e con il fuoco, fosse stato necessario.
I Dokkalfar stavano perlustrando ogni anfratto senza successo.
Dove era il Capus Caelum? Perché non la stava aspettando proprio lì, davanti a quell’altare che aveva giurato di difendere, con una spada sguainata?
Era probabilmente l’ultima occasione che avevano di rivedersi… il Capus Caelum non poteva tradirla anche nell’ultimo momento.
Cercò di rimanere presente a se stessa, di non farsi prendere dai ricordi e soprattutto non dalla tenerezza, quella che aveva sempre provato per lei. Non c’era spazio per gli errori ora che il tempo era giunto e non aveva intenzione di rinunciare.
Sospirò e, in mezzo alla navata centrale, aspettò studiando cauta l’ambiente, in attesa di un suono che non avrebbe tardato ad arrivare, perché almeno questa volta era certa che il Capus Caelum non l’avrebbe delusa.
Non si scompose quando il rumore di numerosi passi sul ghiaccio riecheggiò nelle arcate, ma non riuscì a impedire ai suoi muscoli d’irrigidirsi e alla sua mano di correre agile al bastone sulla sua schiena, con un movimento preciso e spontaneo.
Serrò la mascella e trattenne il fiato. Dentro di sé combattevano il desiderio dello scontro e una reminescenza di quella che poteva chiamare coscienza. Era stato l’odio a portarla a quel preciso istante, ed il rancore che non era riuscita a soffocare. Ed ora, ad essi, si affiancava la paura dell’inevitabile. Tutto franava sotto i suoi piedi e non c’era alcun modo di tornare indietro, perciò s’impose d’ignorare con fermezza la voce che da dentro le ricordava tutto l’affetto e l’amore che un tempo l’avevano legata alla bimba argentata.
Stimò una ventina di Fulakas, i Custodi del tempio, che andavano loro incontro. Molti più di quanto si aspettasse.
Gli Alfar si radunarono trepidanti alle sue spalle, in attesa di un suo segnale per agire, le armi già sguainate.
«State pronti, stanno arrivando», mormorò sempre a fil di voce.
Alcuni fra i Dokkalfar annuirono impercettibilmente, ma la loro inquietudine appestava l’aria più dell’incenso, e per un essere dotato di una forte empatia come lei tutto quel nervosismo rendeva più difficile la concentrazione. Avevano paura di scontrarsi con i Custodi della Pietra ed erano consci del fatto che ben pochi di loro sarebbero arrivati alla fine della giornata.
Solo da Mostyn, il viso affilato imperlato di sudore, i capelli bianchi spettinati celati malamente da un elmo che poco concedeva alla protezione, non trasudava alcun turbamento. Restava fiero e immobile accanto a lei, con la pacata calma di un essere millenario che di vite ne aveva viste e vissute migliaia e che con il suo vuoto sguardo reclamava la stessa vendetta che l’aveva spinta lì a sua volta.
Da un’entrata secondaria ad arco, non distante dall’altare, comparvero i primi Fulakas, le spade alla mano, i mantelli ondeggianti alle loro spalle. Dalle grandi finestre trifore lungo le pareti entrò una debole luce morente che lasciò strani riverberi luminosi sulle armature smaltate d’argento.
Al centro, sul petto, ogni guardiano recava incisa la Pietra, raffigurata su una croce dai bracci uguali, conici, rivolti all’esterno con i bordi svasati: il simbolo di Neanna, della Casata Reale, di tutto ciò che il suo popolo rappresentava.
Il simbolo dei Guardiani della Pietra Elementare.
Il corpetto proteggeva i custodi fino alla vita, da cui scendeva una gonna di anelli metallici che sfiorava la metà coscia. Da sotto di essa spuntavano alti stivali in cuoio e ginocchiere d’acciaio che fasciavano poi la gamba.
Era facile riconosce i novizi della setta dagli anziani: indossavano tutti la stessa tenuta, ma una gonna di seta azzurra aperta sul davanti faceva capolino da sotto gli anelli metallici e dalla lunghezza di questa dipendeva il grado all’interno dell’Ordine.
La prima fila, che si fermò a una decina di passi da lei e dai suoi Alfar, era composta da novizie con i capelli raccolti in due alte code. Bambine che si erano convinte di essere guerriere, che le facevano montare solo la nausea ed un profondo disprezzo.
Erano attesi, non si era sbagliata. Era convinta che questa volta sua sorella non l’avrebbe delusa.
Il cuore accelerò il suo battito quando gli angeli davanti a lei si aprirono metodicamente, come fossero ad una parata, a ventaglio, per permettere al Capus Caelum di passare fra loro, protetta.
La voce chiara, vagamente malinconica nelle sfumature, del Fulakas si levò contro di lei:
«Speravo, sorella, che questo giorno non si presentasse mai, ma alla fine ha vinto la tua ambizione»
La dama che si era fatta avanti era ben diversa dalle altre che la difendevano. La sua bellezza ricordava il delicato candore argentato della luna, così come la sua apparente fragilità, che la faceva sembrare più debole e più adulta degli angeli che la circondavano sebbene in realtà fosse infinitamente più giovane.  
Quella dama era sua sorella e si presentava a lei senza protezione alcuna. Nessuna armatura, nessuna arma, solo la sua disarmante bellezza, il suo volto delicato nascosto dalla maschera nera sacerdotale, che lasciava intravvedere unicamente gli occhi dal taglio sicuro, del suo stesso limpido azzurro cielo. Indossava gli abiti della Somma Vestale, impalpabili veli candidi che la rendevano diafana e leggera, un mantello bianco l’avvolgeva e nell’insieme pareva veramente un simulacro che avrebbe potuto facilmente dissolversi con un soffio di vento. I suoi capelli, puro argento liquido, erano sostenuti in due alte code da un diadema di pietre dure, e arrivavano fin quasi a sfiorare il suolo, scivolando sulle morbide ali bianche che le bucavano la schiena.
Era sempre stata bellissima, la sua sorellina, e troppo fragile per quel loro mondo di violenza. Eppure ora non esitava a sfidarla, con i suoi occhi duri, a giudicarla, per quella sua scelta così difficile e sofferta.
«Capus Caelum» sibilò «Dammi la Pietra, non voglio altro. Vi lascerò andare. Voglio solo la Pietra… e voglio Lei»
Lo disse con la consapevolezza di non essere creduta. Sua sorella lo sapeva, che voleva vendetta, che avrebbe preteso del sangue. Il suo sangue e quello della bambina.
Ed infatti il Capus Caelum la fissò fermamente prima di rilasciare un sorriso scettico.
«Non ti basterebbero. Vuoi di più… Vuoi punirmi. Noi siamo Custodi della Pietra da tempo immemore, solo se saremo morti potrai privarci di essa. Solo se saremo morti potrai fare del male anche a Lei» una supplica balenò nel suo sguardo «Sei ancora in tempo per fermare tutto questo, stai per fare un grande errore. Riflettici, ti prego!»
Se aveva nutrito dubbi le parole della Fulakas li uccisero definitivamente. Era esattamente quello lo sguardo che aveva odiato con tutta se stessa, e ancora di più detestava la supplica, tutte le sue menzogne a cui aveva creduto con cieca fedeltà.
Sputò ai piedi del Capus Caelum di fronte a lei e borbottò a denti stretti:
«Da quanto tempo sapevi che sarebbe finita così? Hai sempre mentito. Mi fai schifo… hai avuto la tua possibilità per uccidermi e non l’hai fatto, ora pagherai le conseguenze»
Sua sorella tenne gli occhi bassi, esitante, a fissare il pavimento combattuta. Una parte di lei desiderò davvero di perdonarla, di rivedere nel volto nascosto dalla maschera quello della bambina a cui aveva stretto la mano per anni quando aveva gli incubi, ma poi il Capus Caelum alzò il capo con orgoglio e la osservò con malcelato disgusto.
«Lo sapevo da tempo, ma speravo che tu avresti combattuto e ti saresti affidata alla parte migliore di te. Mi sbagliavo, in te c’è solo marcio. Rinuncia, non avrai quello che cerchi»
Erano due estranee ora, restava solo il sangue da reclamare per porre fine a tutto. La sfida diretta ruppe gli argini della sua collera.
 «Hai commesso un errore»
Un solo cenno e i Dokkalfar si scagliarono contro i Fulakas che, in allerta, si richiusero subito sul Capus Caelum per proteggerla e ingaggiarono battaglia.
Fu un attimo, e gli uni furono addosso agli altri.
Si ritrovò in mezzo al conflitto, persa in un momento di confusione, circondata dal rumore delle spade che cozzavano fra loro. L’odore del sangue subentrò intenso, sbloccando la sua immobilità, e subito cercò il Capus Caelum in quel mare di figure che si massacravano. I suoni si allontanarono da lei, divenendo ovattati, la sua mente si concentrò solo sulla ricerca di un varco per raggiungere sua sorella.
Sganciò il bastone, lo fece roteare in aria e lo calò con forza contro un Fulakas che le stava correndo incontro con la spada sollevata e un urlo di rabbia a sfigurarle il volto. La lama sbatté violentemente contro il legno e quasi la sbilanciò, ma continuando a far ruotare il bastone s’inginocchiò e con il filo della sua arma trapassò il cuoio e recise nettamente i tendini della gamba destra del Fulakas che con un gemito ruzzolò a terra, incapace di reggersi. Senza guardarla in viso con un ultimo gesto secco le troncò la testa.
Il corpo del Fulakas cadde definitivamente coprendo il sangue che a fiotti sgorgava dalla ferita spargendosi sul pavimento e sporcava le ali candide della Guardiana di denso argento. La testa rotolò poco lontano impedendogli di vedere l’ultima, attonita espressione della sua prima vittima.
Mai aveva ucciso un angelo. Non era stata lei ad aprirsi la strada fino al tempio con il suo bastone, ma gli Alfar ad aver combattuto per lei.
La prese una strana sensazione, la comprensione dell’inevitabilità. Non poteva non accadere, ed ora che era successo per una volta riuscì ad avere anche da sola un’idea, seppur vaga, di cosa l’attendesse in un futuro prossimo.
Si gettò una rapida occhiata attorno e si rese conto che, come aveva immaginato, nonostante i suoi Dokkalfar possedessero un evidente vantaggio numerico rischiavano di essere sopraffatti.
C’era anche la remota possibilità che le sue truppe fossero sconfitte da un simile nemico.
Doveva trovare sua sorella prima che ciò accadesse.
Spintonando si fece largo nella guerriglia senza fermarsi direttamente in un corpo a corpo, attenta solo a difendersi e a schivare i colpi, volontari o meno, mentre i Dokkalfar le coprivano le spalle perché passasse indenne. La riuscita di tutto dipendeva solo dal Capus Caelum.
Una lama la ferì di striscio all’ala e una fitta di dolore la colpi prepotentemente. Dovette stringere i denti per non lasciarsi sfuggire nemmeno un lamento. Si volse invece a fronteggiare il Fulakas che aveva osato colpirla. La gonna di seta azzurra era lunga fino al suolo, era un guardiano di livello superiore.
Provocò la custode con un sorrise di scherno:
«Se desideri la morte non hai che da chiedere, ti sarà data» sibilò derisoria.
«Non sei tu la Morte!» urlò il Fulakas tentando una stoccata. Fu più rapida della guardiana, schivò il colpo e con un fluido movimento del bastone la colpì con tanta forza all’articolazione del gomito che all’avversario la spada sfuggì di mano. Con slancio colpì il Fulakas in volto con una gomitata che la fece cadere a terra per il contraccolpo.
Solo in quel momento, torreggiante sul nemico, si rese conto che anche la sua stessa ala stava sanguinando.
La sua ala, il simbolo dello splendore della sua divinità che la rendeva superiore ad ogni altro angelo.
Il suo sangue reale, più puro di quello di qualunque angelo, anche con la traccia di rosso che ne sporcava il luminoso argento.
Il suo sangue versato da un’inetta, da un angelo inferiore.
La collera le scivolò nelle vene come fuoco liquido. Senza pietà affondò la lama del bastone all’altezza della spalla dell’ala del Fulakas, nel punto più sensibile, per quelli della sua stirpe, dove i nervi si concentravano. Le atroci urla di dolore furono la conferma che aveva colpito bene.
Un sorriso di scherno le solcò il bel volto mentre guardava la Guardiana contorcersi in modo grottesco gridando la sua sofferenza. Si chinò appena su di lei, per incrociare gli occhi spiritati del Fulakas:
«Come hai detto, io non sono la Morte. Non sarò io a liberarti dalla sofferenza»
Si volse abbandonandola ai suoi tormenti per cercare nuovamente il Capus Caelum. I Dokkalfar l’avevano circondata per proteggerla e si frapponevano fra lei e gli altri Guardiani, permettendole di scrutare ogni singolo volto.
Alla fine la vide.
Vicino all’ingresso dalla quale aveva fatto la sua comparsa, sua sorella a sua volta frugava ogni volto nella mischia di spade e sudore alla ricerca di lei. Quando finalmente riuscì a trovarla, il Capus Caelum le sorrise, poi imboccò l’arco sparendo alla sua vista.
Stava fuggendo.
Dopo il primo smarrimento iniziale per quel comportamento anomalo partì all’inseguimento, aprendosi un varco con una spallata. Nessuno tentò di fermarla e riuscì a scivolare indenne fuori dalla massa di corpi.
Affrancò il bastone al gancio sulla sua schiena, fra l’attaccatura delle ali, e abbandonò i Dokkalfar al loro destino: c’era Mostyn con loro, dovevano farselo bastare.
Oltrepassò a sua volta la porta ad arco che conduceva all’ala del tempio riservata ai Custodi e si ritrovò in un vasto corridoio. I suoni striduli del metallo contro il metallo lì giungevano distanti, attenuati dalle immense pareti di ghiaccio. Da un lato si apriva una scalinata ripida, dall’altro due file di stalagmiti e stalattiti, che partendo dal soffitto e dall’umido terreno s’incontravano formando colonne di ghiaccio, creavano una strada che conduceva ad una porta discreta.
Si guardò attorno e individuò il Capus Caelum sulla sommità della scala da dove la studiava con serietà.
Appena l’ebbe ritrovata quella riprese a correre scomparendo nuovamente dalla sua visuale. Provava la sensazione di essere beffata dalla sorellina e questo incrementava solo la sua rabbia. Senza il minimo sforzo percorse correndo i gradini scivolosi di ghiaccio per ritrovarsi su un pianerottolo che dava su tre corridoi. Un labirinto nel quale si sarebbe senz’altro smarrita non fosse stato che il Capus Caelum sembrava voler essere trovata e aspettava solo di essere vista prima di riprendere la sua fuga.
Forse stava andando incontro ad una trappola e visto con chi aveva a che fare era un’ipotesi da non escludere. Sua sorella non era una sciocca e aveva avuto molto tempo, più di chiunque altro, per prepararsi alla sua rivolta. Quando il Capus Caelum s’infilò in una stanza, chiudendosi alle spalle l’immensa porta di ferro battuto con un tonfo sordo, sentì finalmente di averla in pugno e un sorriso soddisfatto scivolò sulle sue labbra corallo.
Era in trappola.
Appoggiò la mano aperta sulla superficie in apparenza liscia, saggiandone la consistenza. Non poteva sentire il freddo o il caldo, non provava sensazioni di alcuna sorta nell’avere, sotto i suoi polpastrelli, una superficie ruvida o levigata. I suoi sensi non erano sviluppati alla maniera umana, solo sua sorella riusciva ad avere sensazioni tattili di quel genere. Eppure si soffermò lo stesso concentrandosi sul materiale irregolare, antico e mangiato dal gelo, scavato da tante piccole rientranze invisibili da lontano.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro: non era certa di cosa avrebbe trovato dall’altro lato, era evidente che il Capus Caelum l’aveva condotta lì con un preciso scopo; ma ormai era giunta fin su quella soglia, non poteva più tirarsi indietro.
L’aria immota intorno a lei, pesante come ogni cosa in quell’ambiente solenne e antico, iniziò a vibrare, increspandosi come la superficie di un lago. Spalancò gli occhi azzurri e diede maggior pressione sul ferro con la mano aperta. In risposta, come un’onda che si abbatte sugli scogli, l’aria si trasformò in un rapido, impetuoso vento che si accumulò e s’infranse sulla pesante porta con tale impeto da sfondarla. Le ante si aprirono all’interno con tale violenza da andare a cozzare contro le pareti di ghiaccio causando un fortissimo frastuono e una scossa che riverberò sul pavimento.
Finalmente la vide.
Il Capus Caelum era immobile in mezzo alla stanza, le braccia inerti lungo il corpo e l’espressione dura e vuota. Aveva il gelo dell’inverno in quel suo sguardo, occhi difficili da sostenere.
Si era rifugiata nelle sue stanze spoglie: alle sue spalle, accanto alle ampie  finestre da cui entrava il gelo della tormenta e fiocchi di neve che avevano già rivestito il davanzale e parte del pavimento, c’era un letto basso con il baldacchino di organza leggera che danzava al minimo soffio di vento. Era una camera semplice, con una parete rivestita da un lungo armadio le cui ante erano composte da una lastra di cristallo sovrapposta allo stagno, in modo tale da poter riflettere l’ambiente circostante; dall’altro lato un ironico quanto inutile camino scolpito nel ghiaccio, dove una fiamma dalle sfumature azzurre danzava flemmatica, e un catino ricolmo d’acqua calda da cui esalava vapore.
Un ambiente troppo freddo per sua sorella di cui l’unico tocco si coglieva dai gigli bianchi e dalle rose rosse intrecciate alle colonnine del letto.
L’immagine stoica del Capus Caelum in attesa del suo destino le strappò un altro sorriso, non privo di amarezza. Nessuno conosceva il proprio destino come sua sorella ma comunque le restava inspiegata la di lei sicurezza. Nonostante tutto, anche in quel frangente continuava ad ammirarla, quella bimba dai capelli d’argento.
Si avvicinò cautamente ma l’altra non batté ciglio e non mutò espressione.
«Sono stanca di giocare a nascondino, non siamo più bambine. Voglio Sjalens, non voglio farti del male», disse piano, quasi con dolcezza.
«Non puoi odiarla davvero così tanto… è solo una bambina»
La rabbia la pervase di nuovo, dettata stavolta dall’impotenza.
«E tu non puoi amarla tanto da voler morire per lei! Non vedi come ti ha ridotto?»
Fragile, ecco come la vedeva.
Malata.
Eppure loro non avrebbero dovuto potersi ammalare.
Magra, pallida, delicata.
Era sempre stata un uccellino, fin da piccola, troppo diversa. Così diversa che a volte dubitava potessero avere davvero lo stesso sangue argentato.
Il Capus Caelum sorrise: «Non fingere, ti prego. Non cercare d’ingannarmi, non ora che siamo solo noi. Tu vuoi la Pietra, non dare a Sjalens le responsabilità dei miei sbagli. Odia me»
Rapida sganciò di nuovo il bastone e puntò la lama alla gola della sorella.
«Non ho mai detto di non odiarti» sibilò a denti stretti, a meno di una spanna dal suo volto. «Sei una bugiarda ammaliatrice che sa vendere solo inganni. Hai ragione, voglio la Pietra, e voglio sventrare quella bambina con le mie mani. Dove sono?»
Il Capus Caelum non aveva battuto ciglio e sosteneva il suo sguardo senza alcuna esitazione nonostante la lama le stesse già incidendo la candida pelle del collo.
Fu solo un attimo.
Un brivido le percorse la schiena e si allontanò dalla Custode, turbata. Era stata una sensazione, come se qualcuno le avesse strappato qualcosa all’improvviso, qualcosa d’impercettibile eppure di dannatamente importante. Uno strato di lieve sudore le imperlò la fronte.
«Cosa è stato?» mormorò.
Il battito del cuore di sua sorella era aumentato come il suo, anche il Capus Caelum sembrava in quello stesso stato di strana sofferenza che provava lei stessa. Eppure la Custode le sorrise soddisfatta da dietro la maschera nera.
«Lo sai, cos’è stato. È troppo tardi ora, ti avevo avvertita: non troverai nulla di ciò che cerchi. Hai fallito»
L’atteggiamento trionfante e colmo di disprezzo di lei la ferì nell’orgoglio.
La Pietra… ecco cos’era stato quel brivido.
Era come se la Pietra non fosse esistita più, come se fosse stata strappata dal loro mondo, portandosi via un frammento della loro anima.
Non poteva essere vero.
Le mani le tremarono per la rabbia e lei si affrancò al bastone con tutta la sua forza.
«Mi hai ingannata di nuovo», constatò a mezza voce. Faticava a parlare tant’era furiosa.
«Dimmi che cosa hai fatto»
Il Capus Caelum continuò imperterrito a sorriderle: «Non sono io ad ingannarti, ti inganni da sola»
Ferita, ignorò quelle parole e fece per uscire dalla camera lasciando sua sorella lì, ancora immobile come la aveva accolta. Poi però, colta da un impeto di furore, si volse di nuovo e trapassò il ventre del Capus Caelum da parte a parte. Il corpo di sua sorella si ripiegò sull’asta di legno e la fronte di lei si posò piano sulla sua spalla. Il sangue colò lento lungo il legno e le impiastricciò le mani con la sua densa consistenza.
Si sporse vicino all’orecchio di lei: «Non so cosa tu abbia fatto, ma non potrà essere nascosta da me in eterno. Io avrò quella Pietra, e quando l’avrò trovata non ci sarai più tu a proteggerla»
Con lentezza tolse la lama, mentre il Capus Caelum agonizzante, emetteva deboli gemiti sofferenti.
Incrociò i suoi occhi ancora una volta, l’ultima volta, e ne restò ancora turbata. Un velo di dispiacere offuscava gli occhi azzurri di quella che una volta era stata sua sorella, dispiacere per lei.
Lasciò la presa e il corpo della guardiana si accasciò con un ultimo gemito. Raggomitolata sul pavimento sopra una densa pozza di sangue sembrava una patetica bambola, con l’abito sporco di rosso e d’argento e le ali macchiate.
Se la lasciò alle spalle e tornò dai suoi Dokkalfar. Nella navata la battaglia si era conclusa ed il pavimento era ricoperto di cadaveri, l’azzurro delicato delle pareti imbrattato di sangue. I Fulakas erano stati sconfitti, ai pochi che ancora soffrivano veniva dato il colpo di grazia, e dopo tanto rumore ogni cosa venne permeata da un silenzio innaturale.
Solo dodici dei suoi erano sopravvissuti e non si stupì di riconoscere Mostyn fra questi. Silenziosa e felina lo raggiunse, persa nelle sue considerazioni. Anche se la Pietra era stata portata via non poteva averla condotta troppo lontano.
Fuori dalle finestre ad arco che fendevano le pareti laterali s’intravidero alcuni fiocchi di neve che mulinavano nell’aria, danzando pigramente. La tempesta di neve si era ormai consumata.
«Setacciate il tempio» disse infine, rivolgendosi a Mostyn «Se c’è ancora qualcuno di vivo uccidetelo. Cercate la Pietra»
Il Dokkalfar rimase immobile. «Dov’è la bambina?» chiese con voce insolitamente innocua, distante.
La frustrazione la fece fremere. «Deve essere qui… da qualche parte»
Le sue stesse parole le suonarono incerte.
L’aveva sentito. Poteva negarlo agli Alfar, anche a se stessa, ma aveva sentito lo strappo. Non c’erano più, né Sjalens né il Cuore del Mondo. Aveva vinto lei, eppure, ancora una volta, aveva vinto il Capus Caelum.
La neve della città si tinse d’argento, quella notte, ma inutilmente, poiché la Pietra non venne più ritrovata.


 

 

ANGOLO AUTRICE

Aaye Atan, caro lettore/lettrice! (Scusate, morivo dalla voglia di fare delle prove in elfico, giusto per vedere se tutto questo studio Tolkeniano online sta portando i suoi frutti!)
Non c'è  granchè da dire, a parte che mi piacerebbe davvero davvero tanto avere una vostra opinione, mi arrischio a pubblicare questa storia solo per questo quindi ,non dovesse avere recensioni, la ritirerò! Spero che vi piaccia! =)

A presto!

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Capitolo 2
*** capitolo primo ***


 

L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO PRIMO

 

2000 anni dopo

 

Le terre d’Ombra erano umide e fredde e non conoscevano molto delle stagioni.


Che fosse Samhradh o Geamhradh le fitte foreste che coprivano le montagne del centro e le dolci colline del nord restavano sempre verdi, il sole slavato, un vessillo spettrale nel cielo inghiottito di nuvole. Una leggenda raccontava che un tempo, millenni prima, queste erano state le terre degli Alfar oscuri quando ancora vivevano in superficie, e perciò il sole sorgeva tardi e tramontava presto e gli abitanti dovevano imparare a muoversi nelle tenebre fin da bambini.
Sianna di Dokkalfar non ne aveva mai visti, eppure in quei  boschi ci era cresciuta e si sentiva a proprio agio nell’oscurità come un gufo o una civetta. Non le sarebbe dispiaciuto essere una civetta, il loro bubbolare riempiva il buio di suoni, erano bianche e morbide e vedevano nella notte perfettamente.
Suo fratello però non le aveva mai permesso di avvicinarsi ad un rapace durante le sue perlustrazioni nei boschi vicino a casa, era fermamente convinto che come minimo ci avrebbe rimesso un occhio se si fosse accostata ad un cacciatore notturno, e anche se Ynyr era di un anno più piccolo sapeva essere davvero testardo.
Sianna strisciò lentamente sul ramo basso di un albero che dava su un sentiero appena accennato nella terra e quasi seppellito dal sottobosco. Tese il collo per poter vedere più lontano: era  pomeriggio presto e anche se debole la luce era ancora sufficiente, abbastanza da permetterle di avere il permesso di giocare appena fuori dal paese. Si era nascosta ormai da un buon quarto d’ora, eppure di suo fratello non  c’era la minima traccia. Per una volta forse, era stata più furba di lui, anche se era insolito. Ynyr aveva un vero e proprio fiuto per i suoi nascondigli, non le dava mai la soddisfazione di poter credere di batterlo in astuzia.
Ad attenderlo ora, quasi si annoiava.
Incrociò le braccia sotto il  mento e rimase sdraiata sul ramo. Da lì poteva vederlo arrivare non vista e in caso di necessità nascondersi nel fogliame. Era tanto piccola che non avrebbe potuto cadere neanche volendo: aveva sette anni e la costituzione di un uccellino, tanto secca che sua madre sosteneva le sue ossa dovessero essere cave e che l’unico motivo per cui un soffio di vento non l’aveva ancora fatta volare via era che i suoi capelli erano troppo pesanti e l’ancoravano al suolo.
Sianna si rigirò distrattamente una ciocca bionda fra le dita.
Se c’era un motivo per cui suo fratello riusciva sempre a trovarla erano proprio i suoi stupidi capelli, troppo lunghi e troppo biondi  perché passassero inosservati. Al minimo raggio di sole splendevano d’oro e urlavano un “sono qui” che a Ynyr non sfuggiva mai.
Persa nelle sue considerazioni  quasi si addormentò.
«Che cosa ci fai qui? Ti sei perso?»
Sussultò e per poco non perse la presa sul legno umido di muschio, rischiando una rovinosa caduta.
Non c’era nessuno, non era stata scoperta.
«Piccolino, se mi mordi non posso aiutarti»
La voce però non se l’era sognata. Perplessa iniziò la discesa affrancandosi con tutta la sua forza al tronco viscido dell’albero, più verde che marrone. Quando ormai era quasi del tutto ridiscesa mise il piede in fallo e ruzzolo a terra sbattendo il fondoschiena.
«Maledizione!»
Imprecò dimenandosi sull’erba con le mani strette sul punto offeso, come potesse far scomparire il dolore.
«Che stai facendo?» stavolta la domanda era rivolta a lei.
Una strana bambina le si era inginocchiata accanto e la studiava perplessa.
«Niente!»
Balzò a sedere divenendo completamente rossa e la bambina le sorrise. A Sianna parve di conoscerla. Aveva lisci capelli, neri più delle notti senza luna, che le arrivavano alle spalle, la pelle pallida, sopracciglia perfettamente disegnate e uno sguardo stranamente pungente. Gli occhi, profondamente bui, ricordarono a Sianna quando si era sporta per la prima volta sul bordo del pozzo in piazza e aveva avuto la sensazione che non esistesse fondo.
L’aveva vista in paese molte volte, ma non le aveva mai parlato. In verità  non parlava con nessun bambino della sua età, sua madre non glielo aveva mai permesso. Il suo unico compagno di giochi era sempre stato solo Ynyr.
«Ti sei sporcata» le fece notare la bambina, accennando al suo vestito.
La sopraveste di velluto verde era piena di fango a causa del terreno melmoso dopo le piogge, la pelliccia di vaio che rivestiva i bordi delle maniche e della gonna era impiastricciata e, in alcuni punti, si era spelacchiata. Quasi come a rimarcarle in che stato pietoso si era ridotta l’intrecciatoio di corda dorata che le teneva i capelli in ordine si allentò del tutto facendo sfuggire le ciocche bionde che le ricaddero sul volto.
«Mia madre potrebbe arrabbiarsi» considerò a voce alta con un ghigno imbarazzato, contemplandosi. Le signorine per bene non si mostrano in condizioni simili, era una cosa che si era sentita dire spesso ma che purtroppo non si conciliava molto con la sua natura. E poi le signorine per bene non vivevano in paesini sperduti nei boschi!
«La mia invece mi uccide, se rovino un abito tanto bello!» scoppiò a ridere l’altra.
Solo allora Sianna notò che il vestito dell’altra bambina era di  semplice cotone e che questa indossava tutti gli strati necessari a proteggersi dal freddo di Foghara.
Si alzò sbattendosi la veste e si accorse che, oltre al vestito e ai capelli, aveva bucato anche una delle graziose scarpette di seta e cuoio che sua madre le aveva fatto confezionare da poco.
«La mamma non vuole che lo uso, ma è verde! Sembra fatto apposta per giocare a nascondino nel bosco!» se voleva battere suo fratello doveva inventarsi ogni  stratagemma possibile!
«Con chi parlavi prima?»
La bambina le diede la  schiena e le fece cenno di seguirla. Ai piedi di un albero non troppo distante da dove era caduta Sianna c’era un uccellino così piccolo da starle nel palmo di una mano, rivestito di  soffici, piccole piume morbide che lo facevano sembrare un batuffolo di cotone.
«Con lui» chiarì «Non vuole farsi prendere, ma se resta qui morirà»
Sianna si mise a carponi per guardare l’uccellino più da vicino e quello fece schioccare il becco acuminato verso di lei, per tenerla a distanza. Faticava a tenere gli occhi grinzosi del tutto aperti, ma si poteva vedere il colore grigio e rosato. Doveva essere albino.
«Non è meglio allontanarsi e aspettare che la mamma torni a prenderlo?» chiese.
«Credo che l’hanno abbandonato, il nido è vuoto» le spiegò ancora la bambina, spostando una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio.
«Ah» guardò quel piccolo uccello bianco e spelacchiato «Bèh, allora lo porterò a casa con me!»
«Guarda che  mord…» la sua nuova amica non fece in tempo a concludere che Sianna era già stata beccata e le dita gocciolavano denso sangue argentato.
«Nessun problema» Disse sorridendo a trentadue denti. Si ripulì le mani nella veste e,  mettendole a coppa, sollevò il piccolo che si dimenava continuando a ferirla per liberarsi.
«Non ti fa male?»
«Non tanto. Vieni con me, lo portiamo dalla nonna. Lei saprà cosa fare!»
L’altra bambina, ora sorpresa, annuì.
«Io mi chiamo Kea» mormorò timidamente.
«Io Sianna Eilan, ma nessuno mi chiama così. Chiamami Sianna e basta»
Si avviarono ripercorrendo il serpeggiante sentierino che si delineava appena, pieno di buche, sassi e fango.
«Non ti avevo mai vista qui» considerò poi Sianna. «Come mai eri da sola?»
Kea era chiusa.
Camminava a testa china, con i capelli sul volto che le nascondevano il mondo, sembrava avesse paura di tutto, anche di parlare con lei. Quando sollevava il viso e la guardava in tralice però, mostrava uno sguardo vivace e intelligente.
«Non piaccio agli altri bambini» borbottò spiccia, socchiudendo gli occhi, come a sfidarla a commentare.
«Neanche io» rispose scrollando le spalle. L’uccello continuava a pigolare e punzecchiarla con quel suo becco aguzzo. «Almeno penso. Quando esco nessuno gioca mai con me. Però ho mio fratello! Te lo faccio conoscere! E anche due ragazzi che vengono a trovarmi ogni tanto. Loro sono più grandi ma giocano sempre con me!»
Kea non rispose.
Camminandole accanto Sianna si accorse di quanto Kea fosse piccola, le arrivava solo alla spalla e sembrava perfino più secca di lei, aveva solo la pelle sulle ossa.
Si ricongiunsero alla strada principale, un pantano abbastanza grande da permettere tranquillamente il passaggio  di due carri, completamente deserta. Kea si tenne sul bordo della strada, sollevando la veste per non sporcarla, Sianna invece ne approfittò per saltare nelle pozze fangose schizzando acqua sporca a raggiera intorno a sé.
«Non vieni? È molto divertente!»
La gonna navigava nell’acqua melmosa, la pelliccia era fradicia, appiccicosa e indecente.
«No grazie, non ho voglia di essere sgridata»
Sianna si accigliò e continuò a giocare proteggendo con le mani a coppa il suo piccolo ospite, innervosito dalla sua poca delicatezza. Anche lei sarebbe stata sgridata certo, ma era una consuetudine a cui ormai non badava neanche più. Sperava che, prima o poi, sua madre si sarebbe stancata di  ripetere le solite cose e le avrebbe dato una tregua.
Alla porta di Gleann Dubhar c’era una semplice guardiola e un banchetto, dove due omini su di età controllavano le entrate, le uscite e facevano pagare il pedaggio ai mercanti di passaggio. Non era un paese tanto grande, non c’erano mura di protezione  e si e no vi erano quattrocento abitanti.
Però c’erano sempre molti mercanti provenienti dal lontano nord, dall’Esperia, da Emer e dalla Regione dei Laghi, che facevano tappa a Gleann Dubhar per poter raggiungere le ricche città d’Ombra che sorgevano più a Sud, e per questo il piccolo borgo cresceva nel tempo.
I dravidi erano molto ospitali se in cambio ricevevano denaro.
«Rientri già, piccola peste?» le domandò Ailbhe richiamandola. Era un uomo quasi del tutto calvo, per questo indossava sempre una cuffia, aveva folti baffoni grigi e il volto grosso pieno di rughe. Quando sorrideva mostrava una bocca quasi del tutto priva di denti, ma era gentile e Sianna non ne provava orrore.
«Sì! Guarda cosa abbiamo trovato!» scostò appena la mano e la testa dell’uccellino spuntò immediatamente, vispa e attenta. «Non è bellissimo?»
Ailbhe aggrottò  le sopracciglia rade «Che roba è?»
«è un uccello!»
«Lascialo perdere Sianna, questo vecchio rimbambito non ci vede più ormai!» intervenne Brian, sporgendosi per poter vedere la creatura.
«Non dire sciocchezze, ci vedo benissimo!» bofonchiò il vecchio.
Brian, più giovane del compagno di almeno dieci anni, anche se altrettanto ingrigito, le fece cenno di appoggiare l’uccellino sulla superficie di legno.
Appena lo fece il piccolo ricominciò a urlare i suoi lamenti. Cercava di muoversi senza riuscirci e alla fine si sbilanciò in avanti battendo la testolina troppo grande per il resto del corpo.
«Guarda Ailbhe»
«Come posso guardare se dici che non vedo?» si lamentò ancora il vecchio a braccia incrociate facendo l’occhiolino a Sianna che rise.
«Smettila di fare il vecchio brontolone» lo apostrofò «E guarda qui»
Sianna era appesa con lo mani al bordo del banco di legno e osservava incuriosita il suo piccolo, nuovo animale. Sperava davvero tanto che sua madre le permettesse di tenerlo.
Kea si era messa in disparte, intimidita forse dai due anziani, e non aveva più detto una parola, però la stava aspettando e questo la fece sorridere.
«Piccola Sianna sei stata molto fortunata!» le disse Brian sorridendole benevolo. «Questo non è un uccellino,  è un falco.»
«Un falco?» guardò subito Kea che annuì abbassando gli occhi. Lei doveva averlo capito appena l’aveva visto. Sianna invece un falco non sapeva nemmeno come fosse.
«Certo. A tuo fratello piacerà tantissimo, mostraglielo subito quando arrivi a casa. È così piccolo che non credo sopravvivrà»
Sianna si arrabbiò e riprese il falco fra le sue manine, facendo una linguaccia al vecchio Ailbhe
«Certo che vivrà! È  il mio falco, non può morire!» gli urlò contro allontanandosi.
Kea chinò  il capo per salutare, rossa in viso, e le corse dietro mentre Brian urlava a Sianna
«Bambina testarda!»
Gleann Dubhar sorgeva sul costone della montagna e occupava tutta la vallata. Solo il centro del paese, attorno alla piazza, era costruito in pietra, mentre la case più distanti e più povere erano di legno e paglia. La strada restava fangosa per un breve tratto della discesa per poi venire sostituita da lastre di  pietra consumate dai carri.
«Non è vero che non vivrai, non ascoltare quei bruti!» ripeteva al falchetto di tanto in tanto. Aveva smesso di morderla e il suo sangue sulle mani si era seccato marcando con il suo rosso argenteo i segni della pelle morbida.
«Però è vero che è piccolo» insinuò Kea.
«Se dai ragione a quei vecchiacci non ti parlo più!» ribatté mettendo un broncio irragionevole. Sianna di credere ad una realtà che non le piacesse proprio non ci riusciva. Attraversarono la piazza a passo spedito senza più dire neanche una parola. C’erano dei bambini che giocavano a inseguire una palla di stracci, alcuni si diedero di gomito quando passarono  ma le li ignorò come era sempre stata abituata a fare.
Le botteghe non erano molto frequentate in generale, per questo poche persone erano nei paraggi quel giorno, a parte alcuni anziani che stavano seduti su seggiole scomode fuori dalla porta di casa parlando fitto fra loro. Solo nel giorno del mercato settimanale la piazza si riempiva e la gente fluiva anche dai paesi e dai villaggi vicini per comprare tutto il necessario. Quando era annoiata e non poteva uscire perché il cielo già  imbruniva, Sianna spesso andava nella bottega del vasaio, per guardare Fèilim lavorare la creta e sua moglie Beirnís, una donna grande almeno il doppio del marito ma con mani estremamente delicate, decorare le creazioni dell’uomo.
Inizialmente aveva dato non poco fastidio e sua madre più volte si era dovuta presentare nella bottega per trascinarla a casa per un orecchio. Alla fine però la coppia si era abituata alla sua presenza discreta. Ora che Beirnìs era incinta poi si era tremendamente addolcita e a volte le permetteva di pasticciare con i colori che usava per dipingere la creta, causando il disappunto del marito.
Oppure andava dal fornaio, Matha, e continuava a girargli attorno finchè lui, esasperato, pur di levarsela di torno, non le cedeva una di quelle frittelle che faceva solo nei giorni precedenti al grande mercato e per cui lei andava matta. Allora correva dal fratello e la divideva con lui.
«Sei arrabbiata con me?»
Scosse la testolina bionda e spettinata «Certo che no. Stavo solo pensando che ho fame!»
Kea sospirò sollevata e le sorrise.
Costeggiarono un muro di pietra fino ad un arco aperto in cui Sianna s’infilò. Kea si bloccò all’ingresso.
«Cosa aspetti?» Le chiese Sianna confusa. La sua nuova amica era sbiancata
«Vivi qui?»
Sempre confusa Sianna annuì «Non va bene?»
«No è che… quella è casa mia» indicò la casa accanto alla sua, molto più piccola e modesta, e Sianna scoppiò a ridere «è fantastico! Allora possiamo vederci tutti i giorni! Devo dirlo a Ynyr!»
Sianna attraversò il piccolo cortile pieno di cespugli raggrinziti dal freddo e spalancò la porta di casa, entrando come un piccolo uragano nel salotto.
«Sianna Eilan!»
S’irrigidì immediatamente e Kea le sussurrò all’orecchio «Avevi detto che nessuno ti chiamava così» 
«Solo  mia mamma quando è…»
«Sono furiosa!»
Marilien spuntò dalla cucina con le mani sporche di pastella sui fianchi e il volto pieno di riprovazione.
«Si può sapere che fine avevi fatto? Tuo fratello è rientrato da più di un’ora ormai e di te non c’era la minima traccia!»
Le guardò l’abito e divenne di cera «Come devo dirtelo che con quei vestiti non puoi giocare nel fango? Guarda come l’hai conciato, è rovinato! Non puoi essere un po’ più responsabile? Io proprio non…»
Marilien s’interruppe, e guardò la sua amica nascosta dietro di lei.
«E lei chi è?»
«Lei è Kea, è la nostra vicina» spiegò Sianna raggiante, per nulla turbata dalla sfuriata appena ricevuta, al contrario di Kea che si era letteralmente affrancata alla sua manica e più di tutto avrebbe desiderato scappare in quel momento.
«Che ha combinato la bambina stavolta?» Korakas, l’anziana che Sianna chiamava nonna, scese le scale scricchiolanti aggrappandosi al corrimano. Non  era davvero sua nonna, solo la sacerdotessa di un villaggio dravida del nord che peregrinava per tutte le terre d’Ombra e ogni due o tre mesi si presentava alla loro porta, accompagnata sempre da Hanry e Daniel, i due ragazzi che erano i più cari amici di Sianna.
«Niente che non faccia tutti i giorni» sospirò sua madre, sollevando gli occhi al cielo. «Fa’ almeno accomodare la tua amica»
«Certo! Nonna vieni, devo farti vedere una cosa!»
Il salotto era composto da due poltrone e un divanetto attorno a un tavolino di legno, davanti al camino acceso. Sopra il camino, appeso alla parete di pietra, stava un quadro. Sianna era stata in molte case, ma nessuno aveva un quadro e questo la rendeva molto orgogliosa. Si sedette a terra, sul tappeto, e liberò il falco, mettendolo sul tavolo. Anche Kea prese posto accanto a lei, ma non guardava l’uccellino, piuttosto continuava a studiare l’ambiente, travolta dalla meraviglia.
Korakas si avvicinò
«Per tutti i Serafini! Dove l’hai trovato?»
Per la prima volta Sianna parve a disagio.
«ehm, ecco…»
Marilien, le braccia conserte sotto il seno, fissò subito gli occhi su Kea, l’anello debole del duo.
«Nel bosco» disse la bambina nascondendosi dietro alla tenda di  capelli neri.
Sianna le tirò una piccola gomitata di protesta, ma ormai era troppo tardi.
«Nel bosco, eh?» sua madre alzò un sopracciglio e si limitò a dirle, con voce gelida «Ne parliamo dopo con calma»
«Non dovevi dirglielo» si lamentò con l’amica a bassa voce, arrabbiata.
«E cosa dovevo dirle?»
«è molto piccolo Sianna. Non so se sopravvivrà» considerò Korakas, che intanto aveva studiato il falco attentamente. «è un falco pellegrino, deve avere almeno tre settimane, ma è debole»
«Tanto di meglio. Non lo voglio quest’uccellaccio in casa mia» borbottò Marilien
«Ma io voglio tenerlo!» protestò Sianna, rimettendo le mani a coppa attorno al falco come se potesse proteggerlo dalla collera di sua madre.
«Anch’io voglio tenerlo»
Alzò di scatto la testa per cercare il bambino che aveva parlato. Ynyr era uscito dalla cucina con un biscotto di frolla in bocca e la sua perenne aria annoiata. Un sorriso le uscì spontaneo e anche Korakas annuì per tranquillizzarla, perché Marilien a Ynyr proprio non sapeva dire di no.
«Tesoro guardalo. Non può sopravvivere»
Sua madre tentò subito la strada conciliante per non indisporre suo fratello, ma Ynyr scosse la testa.
«Korakas lo sa di sicuro, come nutrirlo. Sianna non lo farà morire»
«è vero! Mi prenderò io cura di lui!»
L’anziana signora dai lunghi capelli argentati si lasciò andare ad una roca risata
«Direi che sei sconfitta, Marilien»
Sua madre fece scorrere gli occhi verdi da suo fratello a lei, poi sospirò e si batté il grembiule bianco esasperata, sollevando una nuvoletta di farina.
«Fate come volete, ma se muore non venite a piangere da me» si scostò la treccia rossa dalla spalla e rientrò in cucina borbottando.
«Sianna cambiati e non osare sederti da nessuna parte finchè non sarai pulita!» urlò dall’altra stanza proprio mentre lei si era alzata per mettersi più comoda sulla poltrona. Con un sospiro rassegnato si lasciò nuovamente cadere sul tappeto.
«Pensavo si sarebbe arrabbiata di più» mormorò poi, guardando Kea con un sorriso «Però se ci sei tu non si arrabbia così tanto!»
«Stupida sorella» le disse Ynyr.
Il fratello si accomodò su una poltrona e si gettò in bocca un altro biscotto. «Aspetta che lei vada via e poi la mamma ricomincerà»
Sianna gli fece una linguaccia «Antipatico. Sei davvero insopportabile! Si può sapere dov’eri finito? Dovevi essere nel bosco a cercarmi e invece  sei qui! Magari ti stavo ancora aspettando!»
La nonna guardava Ynyr come lei, vagamente divertita.
«Ti lamenti  sempre che ti trovo subito. Mi annoi. Così ho deciso di venire a casa a mangiare perché avevo fame e dopo di venire a cercarti» disse semplicemente prima di inghiottire l’ultimo biscotto.
Sianna diventò rossa per la rabbia.
Questa volta si era davvero illusa di averlo giocato, e invece era rimasta beffata ancora.
Kea invece, inaspettatamente,  si mise a ridere di gusto, umiliandola di più.
«Sei davvero cattivo! Tu il mio falco non lo tocchi!»
Ynyr alzò le spalle, incurante «Come vuoi tu»
Balzò giù dalla poltrona e uscì di casa senza darle alcuna soddisfazione.
«Saccente nanerottolo» sibilò lei a denti  stretti.
«E tu come fai a sapere cosa significa “saccente”?» la interpellò Korakas.
Arrossì di nuovo «Non lo so» balbettò in imbarazzo «Però me lo dice sempre Ailbhe»
Korakas rise «In effetti quel vecchio brontolone ha proprio ragione, sei una piccola saccente Sianna!»
«Anche lui lo è» fece notare Kea aprendo bocca per la prima volta. Con quelle semplici quattro parole si conquistò irrimediabilmente la simpatia di Sianna che le saltò al collo e la strinse a sé come fosse un animale di pezza.
«Lo sapevo, lo sapevo! Tu sarai la mia migliore amica!»
Il piccolo falco, sul tavolo, pigolò la sua approvazione, almeno questo era ciò di cui Sianna fu convinta.
Era il suo falco d’altronde, era naturalmente portato a darle ragione.
«Come lo chiami?» domandò Kea, sgusciando dalla sua stretta, rossa in viso  per la vergogna e con  lo sguardo basso sul tappeto.
«Non dargli un nome, non sappiamo se vivrà. Se ti affezioni troppo ci rimarrai male» la redarguì nuovamente Korakas.
Sianna gonfiò una guancia, infastidita, e si chinò sul piccolo uccellino spiumato e buffo con gli occhietti tutti raggrinziti «è bianco» valutò semplicemente «lo chiamerò Gael»
La nonna ridacchiò sommessamente «Non è proprio così Sianna»
«Perché?»
Sollevò gli occhi sull’anziana, perplessa, come alla ricerca di approvazione, ma il suo sguardo si posò solo sulla sala, completamente vuota.
«Korakas? Kea?»
Una fitta di panico, nell’esatto istante in cui realizzò che era da sola, non c’era nessuno. Anche Gael era sparito, e un leggero strato d’impalpabile fumo grigio si stava lentamente diffondendo nella stanza.
«Gael! Kea! Ynyr! Dove  siete?»
Le mani, le sue mani, non erano più coperte di sangue, ma erano d’improvviso grandi, mani da adulta.
«Sianna!»
Si alzò di scattò e corse alla finestra, spalancando l’imposta accostata. La luce improvvisa l’accecò, insieme ad una vampata di calore che quasi le bruciò  il volto e le fece lacrimare gli occhi.
Il rosso dominava l’oscurità e le urla di puro terrore riempivano il silenzio della casa.
«Sianna!»
Non riusciva a  muoversi, era bloccata, affrancata allo stipite di legno. Il panico l’aveva inchiodata al pavimento e ogni istinto l’aveva abbandonata. Quello era un bel ricordo, il suo primo ricordo con la sua migliore amica, e nel suo ricordo non c’erano  fiamme, non c’era paura.
«Sianna maledizione!»
La voce d’Ynyr, la sua mano che le afferrava bruscamente il braccio all’altezza del gomito e la costringeva a voltarsi e la tirava a sé «perché non  rispondevi? Stupida ero preoccupato da morire! Stai bene vero?» le prese il viso fra le mani e Sianna ritrovò negli  occhi del fratello, lo specchio dei suoi stessi  occhi, un briciolo di razionalità.
Le mani le tremavano mentre a sua volta si aggrappava alle dita magre e nervose del fratello, serrate intorno al suo viso, e annuiva, gli occhi grandi spalancati dal terrore e dalla confusione.
Ynyr era più lucido di lei, le afferrò saldamente il polso e la trascinò con sé.
Spalancò la porta e corse fuori casa con Sianna al seguito. Il calore che le aveva infiammato le guancie si moltiplicò, le parve quasi di essere entrata in una fornace, il sudore le entrava negli occhi e le annebbiava la vista. Le urla la intontivano, le persone la urtavano, suo fratello correva, la presa ferrea sul suo polso le bloccava la circolazione.
«Resta presente Sianna! Sianna! Non svenire, non lasciare la mia mano!»
Un urlo
«Sianna!»
 



SPAZIO AUTRICE

Buongiorno!
Niente, finalmente ho introdotto la protagonista della storia, e.. nulla, spero vi piaccia! Tengo a questa storia infinitamente, quindi dateci un occhio anche se è lunga e ditemi seriamente cosa ne pensate! è il mio lavoro di una vita (sembra esagerato e invece non lo è. Sono sette anni che lavoro a questo maledetto intreccio, a volte credo di averlo intrecciato troppo) e mi piacerebbe capire se potrebbe mai essere qualcosa di più di una storiella abbandonata in un computer quindi... sparate a zero, senza pietà! Ma non siate indifferenti, per favore! =)

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


 

L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO SECONDO

 

 

«Ynyr!»
Sianna spalancò gli occhi per ritrovarsi con la mano tesa al vuoto e l’altra affrancata al lenzuolo, il cuore che batteva veloce per l’ansia dell’incubo. Ancora tramortita sbatté le palpebre un paio di volte, per cercare di adattare gli occhi chiari alla luce tiepida del sole, e si lasciò cadere nuovamente fra le coperte, sul comodo materasso di lana.
Il letto era caldo e morbido e lei aveva ancora terribilmente sonno. Si rannicchiò e nascose il volto nel cuscino, per prolungare quel momento, le ginocchia strette al petto e le mani congiunte sotto la testa. Quando aveva un incubo e urlava in quel modo, di solito suo fratello irrompeva nella stanza spalancando la porta e poi la sgridava perché aveva svegliato tutta la casa, e alla fine dormiva con lei, perché dopo un brutto sogno di dormire da sola non era capace.
Fu questa strana mancanza a metterla in allarme.
Il silenzio e il profumo delle lenzuola: lavanda. Sua madre odiava la lavanda, non l’aveva mai usata.
Si mise a sedere bruscamente, gli occhi le bruciarono di nuovo per la luce e dovette ripararsi il viso con la mano, mentre una cloaca di pensieri confusi si affacciava alla sua mente e la paura del  sogno l’assaliva ancora.
Suo fratello non era arrivato. Non era la fine del mondo.
La stanza non era camera sua. Non era la fine del  mondo.
Anche se il panico la stava assalendo, non era la fine del mondo.
Si trovava in un ampio ambiente di pietra nuda. La parete di fronte a lei era intervallata da piccoli lettini vuoti e la luce entrava da finestre che le parvero ferite irregolari nella pietra.
«Stai bene ragazza?»
Sianna si  accorse, quasi con sgomento, che il letto accanto al suo era occupato da un uomo il cui  volto era celato da un pesante bendaggio che copriva l’occhio destro. I capelli sporchi e sfatti e la barba lunga, sembrava incapace di muoversi, restava immobile con il viso reclinato verso di lei,  l’espressione vagamente incuriosita di qualcuno palesemente annoiato.
Annuì per riflesso «Credo»
Un verso stridulo le fece sussultare e alzare gli occhi per individuare, appollaiato sulla finestra, un falco bianco dagli occhi grigi.
«Gael!» esclamò e si sentì sollevata nel riconoscere l’animale.
Gettò le gambe oltre il bordo del letto e fece leva con le braccia per alzarsi, ma una fitta di dolore le impedì di muoversi e l’arto sinistro le cedette, facendola ricadere malamente sul materasso.
«Attenta ragazzina… guarda che hai fatto, stai sanguinando» la redarguì ancora lo sconosciuto, strizzando l’unico occhio sano per accennare al suo braccio.
Lo sgomento per lei fu ancora più grande nel rendersi conto che la manica della vestaglia che stava indossando era zuppa di sangue. dovette trattenersi dall’urlare.
Con mano tremante fece scivolare la stoffa oltre la spalla, non curandosi molto del pudore e dell’uomo che non smetteva di fissarla un solo istante, e scoprì che l’omero era steccato e completamente coperto da bende sporche di rosso e d’argento. Nel panico del risveglio non se ne era resa conto, ma ora riusciva a percepire il pulsare della ferita e gli occhi  le si inumidirono per il dolore. E al dolore si aggiunse ancora, terribile e implacabile, la paura, perché non ricordava in alcun modo di essersi ferita.
Con più attenzione si alzò, tenendo il braccio sinistro teso e rigido per non fomentare le fitte che le la attraversavano come una scossa, e raggiunse la cassa ai piedi del suo letto. Gli occhi dello sconosciuto non la lasciarono per un solo instante mentre, a fatica, trafficava con il chiavistello il più silenziosamente possibile per non svegliare gli altri due dormienti, le labbra torturate dai denti per trattenere i lamenti. Come aveva sperato all’interno della cassa ritrovò il suo vestito, profumato come appena lavato. Sapeva di lavanda, ma le bastò spiegarlo per notare gli aloni di fango e erba che non erano venute via e macchiavano il celeste acceso della gonna. La manica sinistra era praticamente carbonizzata, e qua e là vi erano bruciature piuttosto evidenti.
Sua madre si sarebbe infuriata.
Il braccio non la smetteva di pulsare, tormentandola, tanto che non riusciva a credere di non essersene accorta.
L’uomo la fissava ancora.
«Sei la figlia della fattucchiera, vero?» le domandò ad un tratto.
Sianna si accigliò «È una guaritrice»
L’uomo accennò un sorriso di scherno «Ho sentito parlare di voi. La strega dai capelli rossi con due gemelli biondi come il sole e troppo belli. I figli del demonio»
Sianna storse la bocca «È una scemenza. Sembra una cosa stupida solo a pensarla, a dirla diventa veramente ridicola»  ribatté pacatamente, concentrata sul vestito. Non riusciva a piegare il braccio senza soffrire, non sapeva se sarebbe riuscita a cambiarsi da sola. Di certo però non era intenzionata a restare in quella stanza a lungo.
«E comunque non siamo gemelli»
«Le voci dicevano il vero però. Sei così bella da fare quasi paura»
Sianna inarcò un sopracciglio e finalmente alzò il volto per incrociare lo sguardo di quell’uomo sfacciato «La paura rende muti, evidentemente non te  ne faccio abbastanza»
Nonostante il disgusto, sapere che quell’uomo la conosceva era tranquillizzante: non sapeva dove si trovasse, ma perlomeno doveva essere vicino a casa.
«Se la strega fosse qui forse saremmo già  guariti» continuò lo sconosciuto, quasi fra sé e sé.
Ma la strega non c’era.
Perché sua madre non c’era?
Si rialzò sospirando e afferrò con fatica i lembi della camicia da notte di lana grezza che stava indossando. Esitò, nel notare il ferito ancora rivolto verso di lei, come avido di ogni suo gesto, e le venne un moto di nausea. Odiava quelle attenzioni, quel tipo di sguardo, uno sguardo che gli uomini le avevano spesso dedicato, anche quando era una bambina, anche quando era decisamente troppo piccola per capire e le veniva solo una gran paura. Si sfilò la vestaglia e la gettò sul viso di lui, nascondendosi alla sua vista.
«Che diavolo stai facendo?» come aveva immaginato l’uomo non poteva muoversi, né poté liberarsi dalla stoffa. Più tranquilla si dedicò a rivestirsi «È da maleducati, guardare una ragazza che si cambia» ribatté piccata.
Le veniva da piangere per il dolore allucinante che la colpì a tradimento quando s’infilò goffamente la sottana turchina di cotone, morbida e leggera sul braccio dolorante.
In corrispondenza della ferita la manica era aperta, come squartata, e bruciata e sporca di macchie che le ricordarono il sangue.
Il suo sangue, quel suo strano sangue fatto a metà. Più facile fu indossare la guarnacca blu notte senza maniche, aperta sul davanti e sui fianchi e ornata di ricami dorati sui bordi, che strinse semplicemente sotto il seno con una cintura di corda dorata.
Ripiegato con cura, sul fondo  della cassa ritrovò anche il suo mantello, blu notte che sfiorava il nero, con un ampio cappuccio ornato di vaio, e per una ragione a lei inspiegata lo indossò e si coprì il capo.
Si sentiva più al sicuro, quando era nascosta.
Così bardata e protetta Sianna si accostò all’uomo e lo liberò dalla vestaglia che gli copriva il viso.
«Volevi soffocarmi ragazzina?»  la accusò questo, seccato.
Lo ignorò.
«Sai dove sia mia madre?»
«Nessuno sa dove sia nessuno, ragazzina. Sono bloccato qui dentro da settimane, non posso muovermi e nessuno si decide ad ammazzarmi per farla finita, e di messi come me o peggio di me ne arrivano tutti i giorni e tutti i giorni ne escono altrettanti con un telo sugli occhi. I dispersi sono anche troppi. Tu hai dormito per tanto di quel tempo che sembrava saresti stata la prossima e invece guardati… un miracolo. O una stregoneria. Sei veramente la figlia del demonio»
Sianna boccheggiò alla ricerca di qualcosa con cui ribattere, ma non le riuscì. Rimase confusa a contemplare il volto dello sconosciuto, ricolmo di disprezzo e di quella punta di paura reverenziale insita che conosceva molto bene, perché sotto simili sguardi Sianna ci era cresciuta. L’ansia crebbe anche in lei, sebbene l’uomo non si fosse spiegato con chiarezza qualcosa doveva essere accaduto, e semplicemente Sianna non lo ricordava.
Emise un fischio sottile ed il falco bianco si levò dalla finestra per posarsi metodicamente sul suo avambraccio, privo di protezioni. Se sua madre l’avesse vista si sarebbe arrabbiata e non poco, voleva che indossasse il guanto di pelle sempre, soprattutto quando non era in casa ma tra altre persone, tuttavia a Sianna la ragione di una simile precauzione era sempre sfuggita, le unghie di Gael non l’avevano mai ferita. Solo quando era bambina il falco era riuscito a causarle dolore, ma con il tempo era come divenuta immune ai suoi artigli.
«Non è una strega» ripeté di nuovo, una battaglia persa che non poteva smettere di combattere nonostante tutto. Senza più ascoltarlo gli diede la schiena e puntò dritta all’uscita. La presenza rassicurante e familiare di Gael la spinse a non dare troppo peso a quelle parole cattive. Si limitò a muoversi con  cautela, per cercare almeno di risparmiare un poco l’arto martoriato.
Sianna si richiuse la porta alle spalle con uno schiocco secco e si bloccò di nuovo, per la sorpresa mista a confusione.
Si trovava in un corridoio coperto che si affacciava su un cortile interno illuminato da una luce pallida e smorta. Si avvicinò al muretto basso da cui partivano colonnine decorate e si sporse per guardare il cielo: grigio come fumo, come prima di una tormenta di neve, senza nuvole, solamente compatto e cupo tanto da dare i brividi. Il sole in quel grigio morte ci moriva, i suoi flebili raggi riuscivano  appena ad arrivare a sfiorare il prato verde scuro e gli alberi bassi. Sembrava quasi che dovesse già tramontare, nonostante fosse alto nel cielo, e proprio questo piccolo dettaglio le permise di tirare un sospiro di sollievo.
«Siamo nel Regno d’Ombra» constatò tra sé e sé, per confortarsi.
Le era parso di essere distante da casa, di essersi smarrita, davvero non riconosceva nulla di familiare che potesse tranquillizzarla, mai il sole morto delle sue terre natie le era parso così desiderabile.
Sapeva di casa.
Gael schioccò il becco e Sianna si riscosse e tornò a guardarsi intorno, alla ricerca di una via d’uscita o di qualunque essere umano in grado di dirle cosa diamine stesse succedendo senza cercare di spaventarla a morte o di darle del demonio incarnato. Notò un portone di legno incastonato nella pietra, più grande delle altre porticine che costellavano e ferivano le pareti e percorse la galleria per raggiungerla, desiderando solo di potersi appoggiare al muro per avere un sostegno. Non si era resa conto di quanto stesse male, di quanto si sentisse stanca. Ora, dalla stanchezza si sentiva pesantemente travolta e si scoprì dannatamente debole in quel momento, così debole che si meravigliava di riuscire a trascinarsi. Dovette lasciare andare Gael, perché non aveva più la forza di sostenere anche il suo peso oltre che il proprio.
Tu hai dormito tanto di quel tempo che sembravi la prossima”.
Forse per questo si sentiva sfinita dopo aver mosso solo alcuni passi. Era solo la testardaggine, probabilmente, a permetterle di avanzare con tanta tenacia. O, più probabile, la paura, la stessa che le aveva stretto il petto  in una morsa appena si era svegliata.
A fatica, con il braccio che urlava il suo dolore, Sianna si appoggiò di peso alla porta di pesante legno massiccio appena dischiuso e la aprì quel tanto che le bastò per potersi infilare dentro la stanza.
Era come entrare nella sala d’aspetto di un qualche nobile, essere lì dentro.  Una saletta piccola, con le  pareti rivestite da  alti mobili di legno ricolmi di libri. Il suo stupore nel vederne tanti, assiepati tutti insieme, sostituì per un breve istante la sua ansia e la sua curiosità per quel posto sconosciuto, per il suo risveglio, per quell’uomo, per l’assenza di sua madre e di suo fratello.
Ynyr glielo diceva sempre, che lei era come una farfalla. La sua attenzione si spostava continuamente senza riuscire mai a soffermarsi del tutto su qualcosa, leggera come una farfalla e altrettanto labile. Come prima si era incantata ad osservare il cielo, ora le punte delle sue dita stavano già scorrendo, il più delicatamente possibile, sulle copertine di pelle consumate. Si gettò rapide occhiate furtive intorno e quando fu certa che nessuno sarebbe spuntato da un attimo all’altro, ne prelevò uno con dolcezza, come stringesse un vero e proprio tesoro. Aveva imparato a leggere, anche se non benissimo, da sua madre, che da bambina aveva avuto un maestro che le aveva insegnato, ma in tutta la sua vita aveva visto due libri, entrambi troppo difficili di contenuti perché potesse comprenderli.
Accarezzò la pelle raschiata di pecora sulla quale era vergata una grafia elegante, contornata da miniature colorate incise sul foglio con un’incredibile precisione. Era veramente meraviglioso.
Una rapida serie di versi rauchi e nasali la fece sussultare, di nuovo, e istintivamente Sianna ripose subito il volume che stringeva tra le dita candide. Gael era la sua spalla fin dall’infanzia, e quello era il segnale che emetteva sempre per avvisarla quando sua madre stava per arrivare, così che Marilien non la potesse cogliere in flagrante durante le sue bravate infantili.
Non potè impedirsi di accendersi, almeno per un istante, di speranza immediatamente soffocata. Perché naturalmente sua madre non c’era, e semplicemente il falco era rimasto chiuso fuori e stava stridendo il suo disappunto.
Sospirò e abbandonò definitivamente quella piccola saletta per uscire all’aria aperta. Tre gradini davanti a lei e una stradina di terra battuta che tagliava un prato verde e si srotolava sul lieve pendio fino ad un agglomerato di case contadine di argilla e fango. Faceva freddo, anche se era estate.
O forse era solo lei a sentire freddo e a provare l’impulso di rannicchiarsi il più possibile su se stessa, se solo il braccio non le avesse fatto male da morire. Ogni passo era una fitta, non importava quanto si sforzasse di tenerlo rigido.
L’aria sapeva di erbe essiccate e sterco, di polvere e marcio e povero. Un connubio nauseante che riuscì a chiuderle lo stomaco sebbene questo non avesse cessato di borbottare un solo istante da quando si era alzata. Quando si sforzava di ricordare qualcosa, rivedeva solo giornate terse e serene, eppure ora ad ogni suo passo le scarpette le sprofondavano nel fango e il fondo del suo abito già si era impantanato. Segnali piuttosto evidenti di recenti temporali.
Recenti temporali che Sianna non ricordava.
Hai dormito tanto di quel tempo…” Quanto tempo?
E suo fratello dove era stato, in quel “tanto tempo”?
Si bloccò di nuovo, questa volta per il panico. La gola le si stava chiudendo e il respiro le mancava. L’unica cosa che riusciva a pensare era che Ynyr non c’era, e Ynyr c’era sempre, e lei non ricordava e lo sconosciuto parlava di feriti e di… dispersi.
E Ynyr non c’era.
E lei era in mezzo alla via, immobile e pallida come un fantasma, senza il raziocinio e il coraggio necessario per calmarsi, per ricordarsi che forse avrebbe anche dovuto respirare, se voleva sperare di rivedere suo fratello, e che forse avrebbe potuto chiedere qualcosa, qualunque cosa, al gruppo di uomini incappucciati, vestiti di bianco che proprio in quel momento le stavano passando accanto, con la testa china, le mani congiunte e i pensieri volti ad una preghiera per un qualche dio in cui lei non credeva.
Non sapeva credere, Sianna, non l’aveva mai imparato. O forse sua madre non aveva voluto insegnarle, non aveva voluto regalarle un illusione a cui aggrapparsi la sera, prima di andare a dormire, che la facesse sentire al sicuro, che la calmasse nei momenti di panico.
Nei momenti come quello.
Sianna aveva dovuto imparare ad aggrapparsi a se stessa, per ritrovarsi, per essere ragionevole, e lo fece anche stavolta, s’inventò la ragione che non aveva per costringere la sua gola a riaprirsi e i polmoni a pompare nuova aria.
I sacerdoti non la considerarono, come se non esistesse, se fosse solo un’ombra. Lì seguì con lo sguardo mentre si allontanavano e tornavano all’edificio da cui lei stessa era appena uscita, che doveva essere un monastero.
Un villaggio di sacerdoti, almeno ora aveva una vaga idea di dove fosse finita, e in un villaggio di sacerdoti la strada principale portava sempre alla capanna dove il Sommo Sacerdote incontrava i postulanti, sua madre gliel’aveva spiegato quando da bambina, all’età di cinque anni, l’aveva portata a Lochlainn per far visita alla Signora.
L’aria era piena delle risate impenitenti di alcuni bambini che giocavano a rincorrersi, di donne che chiacchieravano sulle soglie delle misere casette, che stendevano il bucato su corde logore tese tra i muri. La piccola piazzola delimitata dalle capanne fatiscenti era gremita di persone, di animali in gabbia, di polli che giravano liberi per le stradine di fango, di  uomini che contrattavano.
Non aveva mai visto niente di simile, niente di tanto povero, di così misero.
Era tutto troppo lontano dalla sua vita, per sembrarle vero.
Stando immobile aveva attirato lo sguardo incuriosito di alcuni bambini che stavano giocando con un cane ferito e lo punzecchiavano con dei bastoni con una crudeltà troppo ingenua, che la infastidì, la ferì quasi, perché l’aveva vissuta tempo indietro.
Prima di Hanry, prima di Daniel.
Prima che Ynyr s’infuriasse davvero, e la difendesse senza più pietà, crudele quanto gli altri ma infinitamente più forte degli altri.
Sianna scosse il capo e affrettò il passo, scivolando fra quei volti estranei.
Alla fine della strada vide una capanna circolare spiccare sulle misere abitazioni, di solido legno curato con il tetto di paglia rifatto di fresco, e le parve assurdamente familiare, come se in quel posto vi fosse già stata.
Bussò piano, intimorita, ma le fece eco solo il silenzio.
Attese un istante, poi, vedendo che nessuno le apriva, ribussò un po’ più forte.
Stavolta la porta si schiuse mostrando una donna di mezza età che la squadrò da capo a piedi prima di sorridere di circostanza.
«Posso esserti d’aiuto?»
Sianna non seppe che rispondere, cercava nel volto della sacerdotessa la stessa scintilla di familiarità che l’aveva scaldata poco prima, qualcosa a cui aggrapparsi, ma non c’era nulla per lei lì, solo una sconosciuta.
La signora dovette però notare lo smarrimento sul suo viso perché divenne più cordiale e le aprì la porta.
«Accomodati»
 Sianna la fissò senza muovere ciglio, immobile come una statua, mentre i suoi occhi attenti e curiosi studiavano la sacerdotessa e s’imprimevano nella memoria i suoi tratti.
Anche la donna indossava un abito bianco, con i bordi della veste ricoperti di rune dorate, i capelli raccolti in una lunga treccia color mogano a incorniciare un volto non troppo rugoso, ma con profonde zampe di gallina attorno agli occhi nocciola.
Realizzò ad un tratto di essere stata troppo sfacciata e di averla guardata con un insistenza al limite dell’irriverenza e per questo le sfuggì  un sorriso congestionato.
«Io…»
Non era mai stata brava a formulare pensieri coerenti.
Non era mai stata brava ad essere coerente, e in quel frangente più che mai, con lo sguardo smarrito e i pensieri ingarbugliati più di una matassa di lana, persino formulare una frase risultava un’impresa degna di una ballata.
«Noi… Dove è noi?»
La donna si accigliò e Sianna divenne paonazza in un battito di ciglia «Cioè intendo, dove siamo noi! Cioè, dove è  qui! Dove è… casa mia…»
Doveva essere sembrata pazza, e probabilmente lo era davvero, non c’era altra spiegazione. Svegliarsi e non avere Ynyr accanto non poteva certamente essere reale, era troppo assurdo per essere reale.
«Tu da dove vieni?»
Sianna rilassò le spalle, dominando il nervosismo e ignorando il solito, pungente dolore al braccio sinistro. «Vengo da Gleann Dubhar. In effetti non so quanto possa essere lontano da qui. Non so nemmeno dove sia il “qui” e questo complica un po’ le cose» ammise con un sorriso imbarazzato. Il suo imbarazzo  crebbe ulteriormente, di fronte all’aria perplessa della donna.
«È che… non ricordo molto bene» aggiunse come per giustificarsi «Anzi, credo di non ricordare per niente»
Come un fulmine a ciel sereno balenò sul viso della sacerdotessa il disagio, un rammarico disarmante che intensificò le sue paure.
«Tu hai lasciato l’ospitale senza consenso, non è vero?» la rimproverò la donna.
Sianna dondolò sui piedi, incerta, e gli occhi percorsero subito la strada dalla quale era venuta. L’imponente edificio di pietra doveva essere l’ospitale.
«Non c’era nessuno» chiarì sulla difensiva «Non c’era la mia famiglia, e un perfetto sciocco vaneggiava scemenze e mi dava del demonio. Diciamo che questo non mi ha proprio spinto a starmene seduta buona e tranquilla»
Sei la solita irriverente. Tu i guai te li cerchi.
Avrebbe voluto mordersi la lingua, ma ormai le parole le erano uscite tutte senza che prendesse mai fiato tra l’una e l’altra. Saccente e irriverente, ecco cosa le avrebbe detto suo madre, magari con un bello scappellotto alla testa e un cipiglio furioso ad animare gli occhi verdi.
La sacerdotessa esitò, oscillando fra la sorpresa e l’indignazione, per poi concederle un sorriso indulgente o almeno vagamente cordiale, di facciata.
«C’erano altri, insieme a te, quando sei arrivata. Ritengo più opportuno che siano loro a spiegarti la tua situazione, perciò ritorna all’ospitale. In queste condizioni non saresti mai dovuta uscire»
Accennò al suo braccio e Sianna vide che la stoffa di quella che una volta era stata una manica, tempo prima, era zuppa di sangue, il colore scuro della tintura ne nascondeva la sfumatura rosso argentea.
«Ha ragione, mi scusi per il disturbo»
La Signora annuì e la congedò chiudendo la porta, lasciandola esitante su quella soglia, senza sapere cosa fare. Alzò il viso al cielo solo per vedere Gael che l’aveva seguita, a distanza, discretamente. Da quando gli aveva salvato  la vita, quel falco era il suo compagno più fedele, una guida che le aveva  permesso infinite volte di non perdersi.
Il dolore al braccio e lo stomaco contratto. «Gael» sussurrò, e quasi colse una sfumatura accorata nella sua stessa voce «Vorrei tanto che portassi Ynyr da me, questa volta»
Suo fratello non aveva mai avuto bisogno di guide, per raggiungerla, la trovava con una facilità frustrante, mentre lei per ritrovarlo doveva sempre imbrogliare, lui era troppo sfuggente.
Ritornò sui suoi passi rimproverandosi di non aver aspettato che qualcuno andasse da lei, ma alla fine restare immobile in attesa non era nella sua natura.
Il monastero era l’unico edificio di pietra e si ergeva alto al di sopra di tutti i tetti di paglia umida e marcia. La facciata era decorata ad  archi rotondi e colonnine sottili e il portone di legno a distanza sembrava ancora più imponente, intagliato con immagini sfocate di divinità e miti. Il secondo piano anche era ornato di archi e l’ombra di qualche sacerdote attraversava il corridoio come uno spirito evanescente, rapida ed elegante.
Si muoveva con la circospezione di una ladra, in parte temendo di essere cacciata se qualche sacerdote  l’avesse vista e non l’avesse riconosciuta come ospitata, in parte perché non aveva voglia di essere nuovamente rimproverata per essere uscita senza chiedere il permesso. In fondo però dubitava seriamente che a qualcuno lì importasse di lei.
Solo suo fratello si era davvero curato di lei, non l’avrebbe mai lasciata. La sola idea che potesse  averlo fatto le faceva salire il pianto, la faceva sentire sola per davvero, e sola non lo voleva essere.
Si sfregò le palpebre con forza, per evitare di cedere alle lacrime senza una ragione. Era ridicolo piangere in quel modo, senza dignità, a causa di  un pensiero partorito esclusivamente dalla sua testa.
Quando  ormai fu giunta sulla soglia dell’edificio un urlo la fece trasalire e alzò di scatto il volto arrossato.
«Sianna!»
Non fece in tempo a voltarsi che venne letteralmente travolta da  una ragazza che l’atterrò strappandole l’ennesimo lamento di dolore.
Subito la figura si distaccò ma non ebbe bisogno di vederla in  viso per riconoscerla.
«Maledizione Kea mi hai fatto malissimo! Che cavolo ti è preso?»
Kea le sorrise raggiante «Che cavolo prende a te semmai! Mi sei mancata serpe, avevo paura che non ti saresti più svegliata»
 La sua migliore amica si scostò il lunghi capelli neri, liscissimi e setosi che le arrivavano appena oltre la spalla, rivelando due altrettanto oscuri occhi arrossati e lucidi di pianto trattenuto e due pesanti borse violacee per il sonno perso.
Kea era una dura in superficie, era l’amica che la trattava male, sbuffata, sollevava le spalle e le sopracciglia e le chiedeva, con esasperazione “Ma io cos’ho sbagliato con te?”. In realtà però era fragile come fine porcellana, delicata proprio come il suo aspetto lasciava intendere, e sempre lei che la malediva un giorno sì e l’altro pure era la stessa capace di piangere come una sciocca quando Sianna partiva con sua madre  e suo fratello, anche solo per qualche giorno, e che l’accusa sempre con un “Non mi vuoi abbastanza bene. Sei un idiota”, anche se sapeva che sarebbe ritornata di lì a breve. Sianna si gettò al collo dell’amica, ignorando le fitte di protesta del suo braccio, ed una tragica sensazione che qualcosa d’irreparabile fosse  accaduto le colpì lo stomaco con la violenza di un pugno, un sentimento estraneo a lei  che con prepotenza si stava insinuando dentro di lei.
Un sentimento che proveniva da Kea, Sianna li percepiva sempre i sentimenti di Kea, erano come un ariete a volte, le sfondavano la cassa toracica e le toglievano il fiato, sempre troppo intensi, troppo dolorosi, e Kea che era incredibilmente minuta, alta un soldo di cacio e sottile come un giunco, riusciva a nasconderli agli occhi del mondo, agli occhi di chiunque tranne Sianna.
C’era odore di fuoco, nella paura della sua migliore amica, lo stesso fuoco che Sianna aveva sognato, e urla frastornanti che la intontirono e la fecero sentire nuovamente smarrita.
«Non possiamo sbagliare a non controllarti per qualche ora che tu subito scappi» l’apostrofò Lisanda, sopraggiunta insieme alla gemella Iris e alla piccola Marion che subito si lanciò su di lei per creare un abbraccio di gruppo che quasi la soffocò.
«Va bene, ho capito, c’è tanto amore nell’aria! Ma ti prego… Mari non respiro! Ahi!»
Marion assottigliò i grandi occhi verdi «Come se respirare fosse la cosa più importante, egoista»
«Se bastava lasciarti sola per far sì che ti svegliassi avremmo dovuto piantarti in asso fin dal primo giorno»
«Siamo le solite ingenue, ci preoccupiamo per lei e ci dimentichiamo che ha più vite di un gatto» concluse Iris sollevando gli occhi al cielo.
Sianna si scostò da Mari e Kea per guardare le sue amiche una ad una: il pallore di Kea, denso come ceramica bianca, contrastava incredibilmente con la sua chioma nera come ali di corvo e ancora di più con i suoi occhi, anch’essi neri, che ingoiavano la pupilla. Sembravano due profondi buchi in grado di risucchiare qualunque cosa; le gemelle Iris e Lisanda, la stessa immagine riflessa allo specchio, i visi tondi dai tratti dolci, gli occhi grandi leggermente a mandorla, di un singolare nocciola che virava al grigio, i capelli biondo cenere e la pelle dorata, un’abbronzatura naturale che avevano sempre avuto; infine Marion, la piccola zingara del gruppo, gitana nel sangue e nei vestiti sempre troppo osceni, di stracci e sete colorate, con la sua pelle bronzea, gli occhi orientali di giada che ricordavano le gemme in Earrach, la sua fronte sporgente e spaziosa, ed i capelli castano dorati, che contrastavano con le sue origini zingaresche. Le sue amiche erano nane per vocazione, non poteva essere altrimenti, erano tutte incredibilmente basse, sembravano bambine, anche se Mari bambina lo era davvero con i suoi dodici anni.
Sianna tirò un sospiro di sollievo, se tutte loro erano presenti la situazione non doveva essere troppo fuori controllo.
«Perché siamo qui?»
La tensione con cui le ragazze si guardarono tra loro, come alla ricerca delle giuste parole, le fece rimangiare il suo ultimo pensiero. Lisy tossicchiò, abbassando lo sguardo, e cinse le spalle di Iris con un braccio in un gesto protettivo, Marion si sfregò gli occhi stanchi, ma fu Kea a parlare per tutte, fissandola seria negli occhi.
«Sianna, devo dirti una cosa. So che dovrebbe tuo fratello, ma lui…»
Sianna sentì il sangue defluirle completamente dalla vene e gli occhi le si inumidirono all’idea che la brutta sensazione che aveva accompagnato il suo risveglio riguardasse proprio il fratello.
«Ynyr sta bene vero?» l’aggredì afferrandole il braccio e stringendolo con più forza del dovuto, la voce le tremava per il panico «Perché non è qui? Dov’è? Lo sapevo che gli era successo qualcosa, prima l’ho chiamato e lui non c’era… non è venuto! Lui viene sempre!»
Kea l’afferrò per le spalle e la scosse «Calmati, per Nehalennia, fammi almeno parlare! Ynyr sta benissimo Sianna, non è per lui che ti devi preoccupare»
Senza accorgersene una lacrima le era scivolata tra le ciglia. Kea le stava sorridendo debolmente e si sentì tremendamente stupida, ad essersi spaventata in questo modo. D’altro canto la situazione anomala di certo non stava aiutando i suoi nervi.
«È qui con noi, è stato Ynyr a portarti qui» chiarì Lisy.
L’adrenalina l’abbandonò rapida come era andata a formarsi e Sianna si lasciò andare completamente sdraiandosi supina sul lastricato della galleria. Stava diventando catastrofica a dare retta al suo istinto, a quel nodo nello stomaco che la tormentava e le dava l’impressione che il mondo fosse finito mentre lei dormiva.
Le ragazze le sedevano attorno e la studiavano, stranamente caute, ma si convinse che era lei a volerle vedere inquiete ad ogni costo.
«Mi hai spaventata a morte» rimproverò la sua migliore amica con l’espressione più truce che le riuscì di fare. Sospirò e si risollevò da terra, le sue amiche angosciate lo sembravano davvero, e di nuovo la colpì quella sensazione che sapeva di avvertimento, alla bocca dello stomaco. Si accigliò e fisso confusa i bellissimi volti che la osservavano come se avessero ancora molto da dire.
«Sianna» kea esitò «Tua madre è morta»
 



ANGOLO AUTRICE



Ed ecco il terzo, spero s'inizi a capire qualcosa! E visto che due giorni fa era il mio compleanno, che so, regalatemi una recensione! Io ci spero sempre! La storia è molto lunga e complicata, ma spero non desistiate! 
Eh... beh a presto spero, più recensioni ricevo più sono  invogliata a postare velocemente!
PS: lo so, il disegno è pessimo, ma è stato il primo disegno che ho fatto di Sianna, ormai qualcosa come sette anni fa e... anche se non sapevo fare i nasi ci tengo un sacco ecco! e visto che mi piace quando gli altri autori mi fanno vedere come s'immaginano i personaggi, ho  pensato che potesse far piacere anche a voi! =)

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Capitolo 4
*** capitolo terzo ***


 

L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO TERZO

 

 

Non aveva più detto nulla, le aveva guardate con smarrimento e semplicemente loro l’avevano capito, che lei non era più presente, non per davvero.
L’avevano fatta rialzare e l’avevano portata di nuovo nell’ospitale. Poi Lisanda si era allontanata ed era ricomparsa dopo più di mezz’ora con  una donna di piccola statura, con i capelli neri raccolti in una treccia ordinata e l’abito azzurro da sacerdotessa.
Eireen, aveva detto di chiamarsi. Le aveva tolto il bendaggio, aveva spalmato un cataplasma dall’odore acre sulla sua ustione e poi le aveva steccato il braccio «Perché ti muovi troppo». Forse le aveva anche sorriso.
Sianna non lo ricordava.
D’improvviso si sentiva veramente stanca e voleva solo dormire, ma gli occhi non si chiudevano e allora restava in silenzio, mentre le sue amiche, raccolte attorno al letto, aspettavano solamente che si decidesse a sciogliere quella tensione, che provasse almeno a dire ciò che le passava per la mente.
Sianna però non pensava nulla e se provava a pensare sbatteva contro un muro di totale indifferenza.
«Esattamente dove è qui?» domandò ad un tratto.
La sua voce atona fece venire i brividi a Kea
«Siamo a Lochlainn» mormorò cauta Lisy, sembrava quasi che stesse trattando con un animale potenzialmente pericoloso e dovesse ammansirlo «È il villaggio di Korakas. Hanry, Daniel e Will ci hanno portate qui quando…» non riuscì a proseguire perché  la voce le si  incrinò.
In un attimo comprese perché la capanna della Somma Sacerdotessa le fosse familiare: era la stessa nella quale aveva giocato da bambina con Hanry.
«Quando?» incalzò l’amica.
Aveva sognato case in fiamme, aveva visto il terrore d’Ynyr, aveva sentito l’odore sferzante del fumo. Non aveva bisogno che le venisse spiegato nulla, aveva già capito, ma voleva comunque sentirselo dire. Volevo renderlo vero.
«Non ricordi l’incendio? Ci hanno attaccati, hanno distrutto tutto. Sembravi  morta» spiegò Iris.
«Pensavamo che saresti morta» asserì Mari, triste. Anche la zingarella aveva gli occhi rossi di chi aveva pianto a lungo.
«Sarebbe dovuta essere morta» la voce roca dell’uomo ricoverato accanto a lei spezzo le voci armoniose delle sue amiche e la disturbò. Non si volse a guardarlo, continuò a tenere gli occhi  puntati sul vuoto davanti a sé.
«Oh Irwin per la miseria, taci!» proruppe Lisanda «Ci hai stancate»
«Avete salvato il demonio, sarete la causa della nostra rovina» Insistè quello e in un moto di lucidità Sianna provò seriamente l’impulso di soffocarlo, di mostrargli il demonio per davvero, se ci teneva tanto ad incontrarlo.
«Se insisterai chiamerò suo fratello» lo rimbeccò semplicemente Iris e per qualche motivo inspiegato Irwin borbottò parole sconnesse e smise di parlare.
La mano nervosa di Ynyr stretta al suo polso, la voce di lui che urlava il suo nome.
I grappoli di luce che avevano circondato la valle e illuminato la notte.
In fondo ricordava anche troppo.
Abbozzò un sorriso compassato «Ehi lo sapete, sono la figlia della strega, no? Non c’è motivo di preoccuparsi  per me»
Marion annuì, sorrise, si morse le labbra e trattenne un singhiozzo, le iridi verdi già lucide. Era così piccola da fare tenerezza, così indifesa che Lisanda non potè fare a meno di attirarla a sé e stringerla, come faceva sempre con la  gemella.
«Andrà tutto bene» le bisbigliò invece Iris, scompigliandole i capelli.
Lo disse con la calma chirurgica di chi è abituato a ripetere la stessa frase all’infinito e probabilmente era stato così, con la sua innaturale compostezza doveva aver tentato di consolare la piccola del gruppo infinite volte.
Kea rimaneva in attesa accanto a Sianna, a disagio perché non sapeva come aiutarla. Era sempre stato così fra loro, era Sianna la sorella maggiore tra le due, era Kea che in realtà necessitava disperatamente di conforto e il conforto lo aspettava solo da lei.
Sianna però si sentiva terribilmente vulnerabile e inadeguata in quel momento, come una barca alla deriva dopo un naufragio, e non le importava di essere egoista, di essere crudele a lasciare sola la sua migliore amica, riusciva a pensare solo a se stessa e a suo fratello, non era in grado di aiutare nessun altro.
Non stavolta.
«Voglio Ynyr»
Era una delle poche frasi che aveva pronunciato nel pomeriggio. L’unica cosa a cui riusciva a  pensare era suo fratello, solido, freddo e sarcastico e meschino. Finché non l’avesse avuto davanti senza un graffio e in perfetta salute non sarebbe riuscita a darsi pace.
Kea sbuffò esasperata «È nell’ala maschile, con i sacerdoti. Non possiamo andare a chiamarlo» le ripetè di nuovo.
Sianna sollevò il viso alla ricerca di quello dell’amica, e dietro all’apatia Kea riuscì a leggere la sua ferita.
«Lo vedrai stasera» aggiunse, come a mitigare l’assenza che la stava tormentando.
Sianna annuì ancora, per abitudine.
Doveva distrarre Kea, per tranquillizzarla, doveva distrarre Mari dal suo dolore, Iris e Lisy… doveva distrarre anche se stessa, ma era difficile farlo bloccata in un letto con un corpo debole che gli si rivoltava contro e rifiutava di reggerla.
Lei non era un’anima tranquilla, era l’inquietudine fatta a persona, era ingestibile, era questo che sua madre le ripeteva sempre, che era fuoco, aria, terra e acqua, che era selvatica più di ogni elemento, che li racchiudeva tutti in sé e per questo era così difficile educarla o anche solo trattenerla.
Eppure tutta quell’energia adesso dov’era finita?
Se non le riusciva di alzarsi, di correre fuori da quella stanza di pietra fredda e umida e urlare e prendere a calci qualcosa, qualunque cosa, se non poteva stringere Ynyr e piangere allora ciò che era accaduto non era reale.
«Sianna» la voce di Kea era un sussurro. Aveva sempre pensato che l’amica avesse una voce bellissima, flautata, fatta apposta per cantare, non per essere oppressa dal dolore e dall’impotenza.
La guardò appena, senza vederla veramente, non riusciva a focalizzarsi davvero su nulla, ma quello sguardo le bastò per comprendere che era lei stessa a  frustrare la sua migliore amica. Lei che non parlava, che taceva e continuava a guardare il vuoto.
«Credo di avere sonno» disse pacata, deviando di nuovo gli occhi lontano dalle iridi nere della sua migliore amica, lontano dall’accusa che vi leggeva e di cui non le importava nulla.
Niente era importante, neanche essere forte. Non c’era motivo di essere forte, non c’era motivo di consolare nessuno. Non era accaduto niente, anche Ynyr l’avrebbe confermato, ne era sicura. Non aveva ragione di parlare con loro, non finché il fratello non avesse chiarito tutte quelle assurdità.
Mari, singhiozzando, inspirò rumorosamente con il naso.
«Hai solo questo da dirci?» sbottò Lisanda, richiamandola con una pacca sulla gamba.
Sianna le dedicò uno sguardo pigro e indolente.
Lisy sbiancò e Iris le mise una mano sulla spalla e scosse la testa, prima di rivolgersi a lei e sorriderle.
«Ti lasciamo dormire allora. Se hai bisogno siamo qui fuori»
«Io resto» disse subito Kea.
«Non è necessario»  disse Sianna istintivamente. Una parte di lei si pentì di averlo detto nello stesso istante in cui il suono aveva preso forma. Con quelle tre semplici parole aveva ferito Kea più che con  ogni silenzio.
Gli occhi neri più delle notti senza stelle e senza luna divennero lucidi istantaneamente e la ragazza fece un sorriso compassato «come preferisci»
Avrebbe voluto richiamarla, richiamarle tutte e dire loro quanto le dispiaceva. Non voleva restare sola, ma farle restare per poi trattarle con indifferenza sarebbe stato un atto ancora più egoista.
Così fissò le loro schiene mentre una dietro l’altra scomparivano, lasciandola nel gelido silenzio che aveva cercato e che ora le penetrava fin nelle ossa facendola tremare.
Non seppe dire se di freddo o di paura.
Si cinse con l’unico braccio sano, tentando di contenere i tremori, e rimase immobile, senza riuscire a dormire e senza  riuscire a pensare.
Una statua.
Forse Irwin aveva cercato di parlarle, qualche volta, ma Sianna non l’aveva sentito.
Anche il sangue aveva smesso di scorrere… doveva essere così, perché si sentiva fredda e pesante, morta. Rimase rigida nella stessa, scomoda posizione per quelli che le parvero attimi ma che si rivelarono ore, perché quando la porta dell’ospitale venne riaperta ormai era buio.
Una sacerdotessa giovane, dal volto severo quanto l’abito austero e la treccia ebano che le ricadeva sulla spalla, si fece avanti, seguita dalle sue amiche.
Era sempre la stessa donna che  l’aveva curata e di cui aveva già scordato il nome.
«Posso vedere Ynyr?»
Dovette schiarirsi la voce, troppo roca per il troppo tacere.
Kea la guardò e sorrise, scuotendo la testa, come a dirle “sei sempre la solita”. Non era vero che non aveva pensato, si era concentrata completamente solo sul suo volto in verità. Era l’unica cosa che riuscisse a calmarla, il viso del fratello, anche con quei suoi occhi gelidi di ghiaccio e neve, anche con la sua espressione ostile e distante, il suo atteggiamento dispettoso e il sorriso sornione.
La sacerdotessa controllò la benda e annuì «Per stasera hai il permesso, le tue amiche mi hanno già supplicato per te. Ma poi dovrai startene qui dentro buona e tranquilla, o questa ferita non guarirà»
«Va bene» si affrettò ad accettare gettando le gambe oltre il bordo del letto. A piedi scalzi sentì la pietra gelida e irregolare grattarle la pelle.
Uscì quasi scortata, con Lisy e Iris da un lato e Mari e Kea dall’altro che la conducevano al refettorio. Il sole era tramontato lasciandosi alle spalle solo uno sfumato color vinaccia, e il buio si stava stendendo come un telo sul chiostro, in maniera impercettibile, sinuoso come un rivolo d’acqua fra le rocce.
Il refettorio era costituito da tre grandi campate, illuminate da fiaccole intervallate lungo il muro e completamente prive di decorazioni. Un solo camino, acceso per fare luce più che per scaldare, dato che erano all’inizio di Samhradh, era posto sul fondo della sala.
Il resto dell’arredamento era limitato a tavolate di legno grezzo accompagnate da semplici e spartane panche: due tavoli adiacenti ai muri portanti e lunghi altrettanto e un terzo più piccolo perpendicolare agli altri, situato vicino al camino. Vi fluivano all’interno sia i sacerdoti che le sacerdotesse, che condividevano l’ambiente ma sedevano in tavolate distinte. Sianna storse il naso  quando sentì il nauseante odore delle  candele di sego disposte a intervalli regolari sui tavoli. Sì sistemò nell’angolo più vicino all’entrata insieme alle amiche, con i nervi a fior di pelle per l’attesa. Inseguiva ogni nuovo volto che faceva capolino dal vano della porta e bofonchiava ogni volta che non riconosceva quello tanto sospirato.
 Nonostante la regola di divisione non si stupì di vedere un gruppo di ragazzi andare dritti verso il tavolo delle sacerdotesse per accomodarsi di fronte a loro. Le nacque spontaneo un sorriso davanti a tutti loro e, finalmente, si sentì sollevata. Hanry, Will, Daniel, i suoi amici d’infanzia, e tra tutti loro suo fratello.
Ynyr aveva solo quattordici anni ma non riusciva a dimostrarli, sembrava sempre troppo grande per la sua età, alto quanto i druidi che lo scortavano, i capelli d’oro rosso mossi e spettinati, il sorriso sbilenco sul suo viso sottile e il naso dritto vagamente imperfetto perché da bambino era caduto dalle scale e l’aveva rotto.
Il sollievo si spense in un battito di ciglia quando realizzò che il perfetto viso di suo fratello era deturpato da un brutto ematoma viola sfumato nell’argento che circondava un taglio sanguigno sullo zigomo, da un abrasione sul mento ricoperto da una crosta molliccia e dal sopracciglio spaccato che non gli permetteva di aprire bene l’occhio destro.
Un’ondata di panico la travolse, si sentì tremare e subito fece per scattare in piedi, ma un capogiro la colse a tradimento e si accasciò di nuovo sulla panca con un imprecazione soffiata tra i denti.
Anche il labbro inferiore era squarciato, ora che era abbastanza vicino perché potesse notare ogni dettaglio della sua figura.
Ynyr accennò un sorriso stanco e una grossa goccia argentata si profilò dalla ferita.
Con calma apparente si accomodò accanto a lei, le prese la mano che non smetteva di tremare e sospirò «Sei sveglia» con un tale sollievo che le parole le morirono in gola e non riuscì a guardarlo negli occhi.
Si mordicchiò il labbro e constatò  «Ti sei fatto male»
Riuscì a strappargli un sorriso beffardo e freddo, una piega familiare che per una volta non la ferì.
«Illuminante. Tu pensi di essere uno splendore?»
La guardava dall’alto della mezza spanna in più, con  una sorta d’irriverenza irritante.
«Sai, sembra che stessero per farmi a giro arrosto. Se ci pensi dovrei essere messa molto peggio»
Le labbra d’Ynyr scoprirono i denti in un sorriso quasi ferino, sornione, di quando diceva qualcosa e allo stesso tempo la teneva per sé.
«Fai dell’ironia, bene. Non che mi meravigli, non mi aspettavo certo che sfiorare la morte ti avrebbe resa più sveglia e meno fastidiosa»
Sianna osservò le loro mani, le dita intrecciate, e sospirò di sollievo e delusione insieme.
Suo fratello stava bene, nonostante tutte le ferite che lo deturpavano, e anche il suo caratteraccio era rimasto immutato, forse perfino peggiorato. Alzò le loro mani costringendolo a guardarle
«Suppongo che non avrò più di questo» lo accusò.
Ynyr scrollò le spalle con noncuranza e la ignorò, ma la sua postura era rigida, e il tono di voce forzatamente neutro.
«Non mi sembra tu abbia bisogno di altro» le dita di lui si contrassero attorno alla sua mano sana e Sianna, anche volendo, dovette farselo bastare.
Quella freddezza era la vendetta personale di suo fratello per averlo fatto preoccupare, nulla che non fosse prevedibile, anche se faceva male ogni volta.
Ai suoi occhi Ynyr era incredibilmente forte, intoccabile e irraggiungibile. Ferirlo era quasi impossibile e non gli importava di nulla, ma le voleva bene, troppo, e per questo non la perdonava mai, perché Sianna sapeva di essere una delle sue poche fragilità e se faceva qualcosa che glielo ricordava lui la puniva.
Lei era responsabile del suo dolore, sempre.
«Non mi dirai come stai e cosa ti è successo, vero?»
Avrebbe voluto sfiorargli e curargli ogni abrasione, ma l’unica mano con cui avrebbe potuto farlo era imprigionata in quella di lui.
«Domanda stupida. Risposta scontata»
Sianna inghiottì il desiderio di prenderlo a sberle.
«E non mi spiegherai nemmeno cosa è successo a noi» constatò con frustrazione.
«Sei viva. Respiri, io respiro, loro anche. Dimentica il resto, sapere non ti servirebbe a nulla.»
Delle ancelle passarono di tavolo in tavolo riempiendo le ciotole davanti ai convitati di minestra e Sianna lasciò cadere la polemica. Avrebbe chiesto alle sue amiche quando il fratello fosse stato lontano, ma avrebbe preferito poterne parlare con lui. Il suo modo di proteggerla era snervante come poche cose.
Le diedero del pane d’orzo raffermo e troppo duro, che fu Ynyr a spezzare per aiutarla.
Hanry era seduto davanti a lei e ancora non le aveva detto una parola, la osservava solamente mentre Sianna lottava per spezzare in bocconcini più piccoli i pezzetti di pane preparati dal fratello per poi immergerli nella brodaglia, nella quale alcuni già galleggiavano affondando  sempre di più oltre il profilo del piatto.
«Sei un disastro» le fece notare alla fine l’amico.
«Sei un’incapace» l’apostrofò Ynyr notando la quantità spropositata di briciole che stava disseminando tutte attorno. Le sfilò malamente il cibo di mano prima che Hanry potesse sporgersi verso di lei per aiutarla.
«Guarda che mi sento impedita se fai così!» lo rimbeccò cercando, con la mano sana, di raggiungere il panino che il fratello teneva  in alto, a debita distanza.
«Tu sei impedita. Smettila» la bloccò mettendole una mano sulla testa per allontanarla «Tanto non te lo rendo»
Sianna sbuffò come una bambina infastidita e gli fece una linguaccia «Sei odioso. Non ti sopporto» bofonchiò.
Ynyr le sorrise strafottente «E tu sei un’incapace e mangi come una bambina di cinque anni»
«Ehi!» s’indignò mostrando il braccio fasciato con costernazione «Fa male! Sono giustificata!»
Si pentì di averlo detto quando vide gli occhi d’Ynyr adombrarsi, davanti a quella ferita.
In quel momento il suo senso di colpa fu interrotto da Kea che stava chiedendo a Daniel «Non hanno ancora notizie di Korakas?»
Smise di fare i capricci per prestare ascolto al discorso degli altri amici e cercare di fare almeno il punto della situazione. Si volse verso Daniel, incuriosita e preoccupata al contempo.
Korakas era in pellegrinaggio a Gleann Dubhar in quei giorni, gli ultimi ricordi che aveva di quella sera la riguardavano. Probabilmente era morta.
Erano morti tutti.
Era morta anche sua madre.
E suo fratello le aveva detto che non doveva sapere nulla, come se non fosse successo niente.
Si portò una mano allo stomaco e si sforzò di trattenere il conato di vomito che la colpì a tradimento. Stando lì seduta con tutte le persone che avevano fatto parte fin dall’infanzia della sua vita, sembrava ancora più improbabile che veramente sua madre non sarebbe ricomparsa.
Ynyr la studiò ancora un istante, poi le cinse le spalle e la attirò a sé, poggiando la guancia fra i suoi capelli.
«Non ci pensare» le sussurrò piano «Non devi preoccuparti»
Suo fratello era stranamente rigido e innaturale in quella posizione.
Daniel si era chinato in avanti, in modo tale che solo il loro gruppetto potesse ascoltare «Qui nessuno sa dove lei fosse. La sua assenza prolungata sta sollevando molte domande però, soprattutto perché siamo ricomparsi senza di lei. È questione di tempo prima che la verità venga a galla»
«Perdere la nostra Somma Sacerdotessa sarà un duro colpo» aggiunse William con una certa rassegnazione.
Hanry la guardo laconico «Non ci vedremo per un po’»
Sianna si accigliò ed  anche Kea rimase confusa da quel commento.
«Voi cosa  c’entrate?»
Hanry e Daniel si lanciarono il loro consueto sguardo d’intesa, un tacito accordo che invitava Daniel a parlare per  entrambi.
«Noi siamo i suoi guardiani. Avere cura di lei è il nostro dovere, siamo responsabili della sua sicurezza. È già accaduto in passato che ci permettesse di rientrare senza di lei, per questo ancora non siamo stati puniti. Quando si renderanno conto che Korakas non tornerà le cose per noi non saranno semplici» spiegò il ragazzo, per poi stropicciarsi gli occhi in un gesto nervoso e preoccupato.
In fondo era ovvio che se fosse accaduto qualcosa alla Somma Sacerdotessa i due ragazzi sarebbero stati ritenuti responsabili, ma proprio non poteva pensarci, a loro sotto processo.
Erano molte, quel giorno, le cose a cui non voleva assolutamente pensare. Non aveva la forza di gestire tutto.
D’un tratto, i sacerdoti cominciarono ad abbandonare i loro posti e Sianna, imitando i compagni. si rialzò, aiutata dal fratello a scavalcare la panca senza inciampare.
«Noi ci vediamo domani» la salutò Kea, seguita da Iris e Lisanda. Marion sventolò la mano e le sorrise incoraggiante «Non farti di nuovo male!»
Allibita le vide allontanarsi e urlò loro «Dove state andando?»
Hanry l’acchiappò prima che potesse seguirle. «Loro sono ospiti nella foresteria, tu sei ferita. Devi tornare all’ospitale»
«Ma io…»
«Eireen non ti lascerà uscire nuovamente. Questa sera era una concessione speciale, solo per vedere lui» chiarì Daniel indicando suo fratello, in piedi accanto a lei come un’ombra annoiata.
Sianna gonfiò la guancia in un moto d’irritazione «Sto benissimo, non ho intenzione di…»
William la interruppe, anche lui con il tono condiscendente colmo d’indulgenza che si usa solo con un bambino testardo «Sianna hai perso molto sangue, sei ferita e potresti ancora correre grandi rischi. Non è  una cosa che puoi evitare»
Ynyr, che non aveva detto una sola parola e nemmeno aveva mutato espressione, sollevò gli occhi al soffitto, agguantò la sua mano e le fece capire di seguirlo.
«Buonanotte Sianna» le augurò Daniel, prima di andarsene, seguito da Hanry che si limitò ad un cenno del capo e da Will, che le sorrise raggiante.
Vedere il gruppo disfarsi pezzo per pezzo le fece montare dentro l’angoscia di rimanere da sola.
Ripercorse in silenzio la galleria seguendo suo fratello e attraversò il chiostro fino a ritrovarsi davanti alla porta dalla quale era scappata quella stessa mattina.
Ynyr si  fermò «Qui non posso entrare» le disse semplicemente.
Non era molto più alto di lei, ma più freddo e forte, quello sì. Perché Sianna di restare sola aveva paura, che lui si allontanasse poi le scatenava un puro terrore, per tutta la giornata non aveva desiderato altro che stare con lui, perché con suo fratello tutto diventava sopportabile.
Quando Ynyr fece per allontanasi lo trattenne affrancandosi con inaspettata forza a quella mano che stava scivolando via dalla sua.
Stava tremando di nuovo, e non aveva freddo.
Ynyr la guardò da sopra la spalla, lo vide esitare di fronte allo sconforto che doveva averle letto in volto, ma alla fine si volse e la abbracciò. Sianna si affrancò al suo corpo flessuoso e sottile con tutta la sua forza e lo sentì contrarsi di nuovo e irrigidirsi al suo tocco.
Ynyr però non l’allontanò.
«Ti vedrò domani, vero?»
Un momento di silenzio di troppo, poi suo fratello la scostò.
«Non ne sono certo»
Sianna era abituata ad addormentarsi con lui, a svegliarsi la mattina e, come prima cosa, vederlo. Già la sola idea di separarsi su quella soglia le era insopportabile, non vederlo il giorno seguente sarebbe stato una tortura. Ynyr si chinò e la baciò delicatamente sulla fronte.
«Tra due giorni ci sarà una commemorazione. Mi vedrai allora. Buonanotte sorellina»
Sianna poté sospirare solo la sua resa davanti all’implacabilità di suo fratello.
«Buonanotte»
Nell’istante in cui la porta si chiuse alle sue spalle si sentì mancare.
Aveva mentito dicendo che non era stanca solo perché rivedere Ynyr era più importante di tutto il resto, ma si sentiva debolissima. Si lasciò cadere di schiena a peso morto sul letto, illuminato fiocamente dalla pallida luce delle stelle che faceva capolino dalla finestra. Quella notte il cielo era carico di stelle, si scorgevano benissimo anche dalla posizione in cui si trovava, come infinite schegge di vetro sospese nel vuoto.
Quella tiepida luce fu oscurata dalla sagoma di un uccello rapace di media dimensione che si posò piano sul davanzale. Gael era tornato dalla caccia notturna.
Vedendo il falco si sentì meno sola. Si sfilò le calzature e, senza alcuna voglia di  spogliarsi, s’infilò sotto le lenzuola leggere, supina per continuare a godere del tiepido cielo di Samhradh prima di addormentarsi.
Si portò le mani sotto la guancia e la scoprì umida di pianto.
Stava piangendo, non aveva avuto voglia di altro per tutto il tempo e non l’aveva capito.
Non c’era più nulla, non c’era più sua madre… non aveva potuto nemmeno dire addio. Semplicemente, si era svegliata e tutto era diverso. Rimpiangeva di essersi svegliata più di qualunque cosa, rimpiangeva il non poter sentire nulla, rimpiangeva i suoi ricordi a cui aveva sempre prestato così poca attenzione, perché erano semplicemente la  sua vita, e ora che voleva solo riviverli uno per uno le sfuggivano come fumo fra le dita.
Non avrebbe dormito quella notte, aveva una vita da piangere e dimenticare.



 

ANGOLO AUTRICE



Buongiorno!
Ok, questo è un capitolo di passaggio, il proseguo di quello precedente, e qui possiamo conoscere gli altri personaggi, in particolare Ynyr. Lui è... difficile.Non so nemmeno come spiegarlo, ma di certo non è un personaggio facile, anzi. A tratti è meschino, questo sì, ed ha una visione contorta di molte cose, è forse il più impegnativo di tutti, scrivere di lui mi manda in paranoia. Di certo di primo impatto vi starà antipatico, ma dategli tempo, non  è così tanto pessimo!
Per il resto niente, ditemi sempre cosa ne  pensate!
A presto!

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


 

L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO QUARTO

 

 

Quella mattina si era rivelata particolarmente fredda, un’uggiosa giornata in perfetto accordo con il suo stato d’animo. Sianna era seduta sul bordo del suo letto da qualche minuto, in attesa. Stringeva fra le mani una conca di legno con  un lumino spento posato al suo interno, e lo fissava come se fosse l’inizio e la fine del mondo. Irwin, accanto a lei, era taciturno.
In quei due giorni i volti in quella stanza erano cambiati, i letti si erano riempiti, alcuni erano guariti, la maggior  parte dei degenti era morta. Ogni giorno nuovi profughi giungevano e portavano con loro notizie di attacchi Peith nelle terre a ovest del regno. Per questo, ogni  settimana, si compiva come di rituale una nuova commemorazione, per i nuovi caduti ed i vecchi che ancora non erano stati pianti.
«Non c’è modo di portarti con noi?» domandò leggera all’uomo.
Gli avevano tolto le bende dal viso ed ora Sianna poteva vedere i tratti irregolari, la barba sfatta e il suo occhio destro, o almeno ciò che ne restava, l’incavo vuoto e bruciato al posto del bulbo, la pelle incartapecorita e sanguigna attorno alla ferita. Era una visione raccapricciante.
«Non c’è modo di muovermi» borbottò Irwin, l’occhio sano puntato al soffitto e una smorfia d’insofferenza a segnargli le labbra. Non aveva nemmeno la forza di girarsi su un fianco spontaneamente, era totalmente paralizzato, vivo per miracolo. Essere vivi, nel suo caso, non era di certo una fortuna. Non aveva più la sensibilità dal collo in giù, questo però gli permetteva  di non sentire dolore per le piaghe da decubito che gli deturpavano il corpo e che Sianna era stata costretta a vedere quando Eireen, insieme ad un altro sacerdote anziano, lo curava.
Sospirò pesantemente «Posso portare io un lumino per te, se lo desideri. Ci sarà qualcuno che vuoi salutare»
Irwin inclinò il capo verso di lei e le sorrise stanco.
«Un lumino non basterebbe a dire addio alla mia famiglia»
Sianna annuì e continuò a giocare con la liscia conca di legno, sfregandovi contro le dita. Anche lei lo riteneva sciocco, ma non avrebbe mai potuto dare a sua madre un funerale degno, non aveva il suo corpo, quel rito era tutto ciò che le restava.
«Avevi dei figli?»
«Due. La mia Ishbel aveva solo due anni. Ruairi invece ne aveva sette. Vorrei essere morto con loro»
Sianna pensò a Kea, che era la quarta di sei fratelli e li aveva persi tutti, pensò a Marion che era solo una bambina ed ora era totalmente sola, pensò a Lisy e Iris e a quanto amassero loro padre.
«Forse sopravvivere a chi si ama è una condanna peggiore della morte» valutò fra sé e sé.
Irwin rise senza allegria «Se ci fosse realmente un’anima caritatevole qui dentro, sarei già morto anche io» il suo occhio sano si accese di speranza «Tu lo faresti?»
Ogni muscolo le si irrigidì e un brivido le percorse la schiena «Io non sono il demonio» sputò, indignata, quasi arrabbiata per quella richiesta.  «L’ho capito, per questo ti sto chiedendo della pietà»
Per poco non le cadde di mano il lumino a cui si era affrancata e su cui stava sfogando il suo nervosismo. La porta si aprì in quel momento salvandola dalla posizione scomoda in cui ad un tratto si era sentita messa. Era ovvio, razionalmente, rispondergli che no, non avrebbe mai potuto commettere un atto così terribile come togliergli la vita, eppure aveva provato una sensazione familiare, come se fosse normale, come se una grazia simile le fosse già stata chiesta più volte e fosse naturale per lei dispensarla.
Non le era parso sbagliato, liberarlo. Ma quell’impressione era morta sul nascere, lasciando dietro di sé solo un senso di orrore.
«Non permetterti di chiederle certe cose»
Irwin sollevò l’occhio al soffitto «Ci mancava il fratello problematico.»
Ynyr lo incenerì per un lungo, pesante istante, poi s’inginocchiò piano davanti a Sianna. Ogni movimento era flemmatico e misurato, le parve quasi che suo fratello prestasse attenzione perfino alla pesantezza del proprio respiro. Il ragazzo posò il suo lumino a terra e le strinse il polso sano tra le sue lunghe dita ossute «Sei pronta sorellina?»
Sianna si concesse un altro grande respiro «Non conta molto»
Suo fratello esitò un momento, indeciso, poi sollevò la manica della sua tunica da lutto per mostrarle un nastro rosso. Le mancò un battito quando lo vide. Ynyr sciolse il nodo e si chinò su di lei, le prese una ciocca di capelli che le incorniciava il viso e vi legò il nastrino.
«Lo riconosci?»
«È sempre lo stesso?» alla sorpresa iniziale si stava aggiungendo  il dolore della nostalgia. A pensare a quel nastro le veniva nuovamente da piangere.
Ynyr scosse la testa. I suoi capelli, la frangia spettinata, gli coprirono gli occhi, ma non poterono celare il lieve sorriso «Non lo stesso, ma funzionerà comunque.» le porse la mano e Sianna accolse l’aiuto per alzarsi.
«è  meglio muoversi. Il corteo sta per iniziare» la esortò.
L’ospitale si era già svuotato da parecchio, solo chi era troppo ferito per muoversi era rimasto bloccato tra quelle fredde pareti umide.
«Mi dispiace Irwin» mormorò all’uomo che grugnì in riposta, prima di seguire Ynyr che la guidò con decisione, la mano sulla sua schiena, senza darle il tempo di accomiatarsi.
Fuori, l’aria pesante di umidità condensò il suo respiro in una nuvola bianca. Il cielo era plumbeo e grossi nuvoloni  che minacciavano pioggia erano trascinati pigramente da un vento leggero eppure gelido. Ad ogni soffio le penetrava  fin nelle ossa facendola tremare. Nella piazzetta circolare fra le abitazioni di argilla e viticci era racchiusa quasi tutta la popolazione di Lochlainn: un lungo corteo di sacerdoti vestiti a lutto, in nero, le mani congiunte e le teste chine, seguiti dai druidi armati di cornamuse. Dietro a questi venivano umili contadini, vestiti di stracci e coperti da bende che mascheravano ferite ancora fresche, la maggior parte di loro di nero aveva solo una fascia stretta ad un braccio, constatò Sianna guardandosi intorno, smarrita.
Lei e Ynyr raggiunsero Kea, Marion, Lisanda e Iris, ma nessuno di loro parlò. Lisanda accostò solamente il suo lumino a quello di Sianna per accenderlo.
Quando la prima nota fragile e profonda lasciò gli strumenti, dando inizio ad una malinconica melodia, i sacerdoti cominciarono ad incedere con lentezza cadenzata, e Sianna si mosse in quel mare di profughi unito dallo stesso ritmo sofferente e doloroso attraverso le casette e poi nei prati umidi di rugiada.
File di volti estranei, attorno a lei, mostravano un espressione solenne che le sembrava finta, di chi cerca di creare una sorta di dolore di circostanza così prosaico che dovette distogliere da loro la sua attenzione per posarla sulla tremula fiammella stretta fra le dita, perché la nausea le stava ritornando. La cera colava piano, lasciando strani ed elaborati ricami dietro di sé.
Sentiva la presenza rassicurante di Ynyr al suo fianco, il rumore dei suoi passi leggeri che frusciavano fra l’erba e il fango, pensava al fiocco rosso intrecciato ai suoi capelli e si sentiva protetta. Quando era bambina Hanry le aveva donato il suo primo nastrino rosso, in segno di amicizia, e le aveva spiegato che l’avrebbe protetta dagli spiriti dei boschi se mai l’avessero avvicinata. Con il tempo era diventato uno dei suoi più preziosi cimeli, aveva l’impressione che non potesse accaderle mai nulla di male, se con sé aveva quel nastro.
Un singhiozzo proruppe alle sue spalle. Non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere il pianto scomposto della piccola Marion e quello più discreto e orgoglio di Lisanda, la sua Lisy che sapeva solo fingersi forte ed era fragile più del cristallo. Si volse appena e intravide Iris, la testa incappucciata e il volto impassibile, con il suo modo di soffrire in solitudine, distrutta quanto Lisanda ma più fredda all’apparenza, perché era sempre così fra loro, con  il suo mostrare la propria sofferenza Lisy privava Iris della possibilità di piangere a sua volta. Solo gli occhi lucidi testimoniavano il suo dolore.
Kea invece piangeva in silenzio, in disparte, lontano da tutte loro. Era sempre discreta, come se avesse il timore di invadere gli spazi altrui se avesse urlato di stare male. Per questo soffriva anche di più, perché si sentiva sola, perché si convinceva che a nessuno importasse.
E a Sianna questa consapevolezza spezzava il cuore.
Sarebbe andata a consolarla, dopo, al momento ancora non le riusciva di allontanarsi da Ynyr.
L’alba metallica e spenta, oscurata dalle nubi, ben presto virò ad un pesante grigio e iniziò lentamente a piovere. Sussultò quando la prima goccia le colpì gelida la guancia, seguita in rapida successione da altre sempre più numerose e insistenti, ma nessuno in quella processione batté ciglio e semplicemente il suono ovattato della pioggia andò ad unirsi spontaneamente al frusciare dei mantelli e dell’erba, al passo cadenzato e alla solennità delle malinconiche cornamuse. All’orizzonte apparve la linea netta della pineta offuscata dalla nebbia impalpabile di quella giornata tetra. Sembrava un’indistinta macchia fosca che spezzava il grigiore del cielo. Persino il paesaggio, con le sue porose gradazioni di verde e caligine le trasmetteva una profonda tristezza, come se fosse specchio della sua esistenza e la sua esistenza prima di quel momento si stesse già facendo lontana e indistinta. E forse era davvero così, forse a quell’assenza improvvisa si stava già, pur contro il suo volere, adeguando.
Prima di poter raggiungere il riparo degli alberi la pioggerellina si trasformò in un violento scrosciare, il cappuccio di sottile stoffa non bastò a proteggerla e i capelli pregni d’acqua si afflosciarono sull’abito fradicio. La frangia scomposta di suo fratello era appiccicata alla fronte e, per un assurdo, surreale istante, Sianna non  pensò a dove stesse andando, né alla musica e neanche a sua madre. Pensò solo che così duro e risoluto, non più espressivo di quanto una gelida statua avrebbe potuto essere, Ynyr era veramente bellissimo. Distolse lo sguardo dal fratello, che mai l’aveva degnata di attenzione e sosteneva il suo lumino, gli occhi puntati con fermezza sulla schiena davanti a sé.
Il corteo dall’alto doveva sembrare una scia di lucciole non dissimile dalla Via d’Argento in cielo che la sera Marilien mostrava loro quando erano bambini. Il fiume del cielo che separava il mondo dei vivi da quello dei morti, così aveva sentito narrare dai trovatori, sua madre però raccontava sempre una versione diversa di quella storia: diceva che era un fiume creato per separare due amanti, una dea e un mortale che si erano innamorati nonostante appartenessero a due mondi differenti. La via d’Argento era la strada che conduceva al mondo degli dei, all’Eden.
Era la via che seguivano le anime che dovevano abbandonare il mondo dei vivi. Forse, sua madre stava già seguendo quel sentiero, forse non aveva bisogno che la luce del suo lumino rischiarasse le tenebre dell’aldilà per lei. S’inoltrarono nella boscaglia e i rami e le foglie attenuarono la pioggia e ne aumentarono il rumore, producendo un’eco diffusa e quasi assordante. L’umidità amplificava gli odori penetranti di terra bagnata e muschio. Un sentiero serpeggiava fra il sottobosco, ma l’acqua l’aveva reso insidioso e più volte Sianna sentì le suole degli stivali bassi scivolare nella fanghiglia. Suo fratello l’agguantò piuttosto malamente senza guardarla, mosso dall’abitudine di doverle sempre prestare attenzione con la coda dell’occhio, e la sostenne tenendole il gomito del braccio sano. L’orlo dell’abito nero sacerdotale era ormai logoro ai limiti dell’indecenza, che se Marilien l’avesse vista, le avrebbe urlato contro fino a non avere più voce, eppure lì non importava a nessuno, nessuno poteva farci caso. Solo lei lo aveva notato, forse anche lei per abitudine, perché di sua madre aveva sempre avuto timore, a volte anche paura.
Il corteo era guidato da Leoise e da un uomo anziano e claudicante, Sianna aveva sentito che il vecchio era il Sommo Sacerdote di un altro piccolo villaggio Dravida non molto distante che giungeva nel giorno della commemorazione per poter officiare il rito al posto della Signora di Lochlainn.
La vegetazione digradò dolcemente mano a mano che la processione si avvicinava agli argini del fiume. Il rumore assordante delle acque violente contro le rocce e gonfie per il maltempo sovrastò ogni suono e quasi coprì la melodia delle cornamuse. Sianna non poteva vederlo per via del folto gruppo di persone che la precedeva, ma in quella strana giornata, in cui restava sospesa in uno strano stato d’indefinitezza, percepiva con qualunque senso prima della vista, come se la sua mente si rifiutasse di rielaborare rapidamente ciò che la circondava. Era intontita e molto stanca.
Il sottobosco scomparve del tutto, sulla riva, e rimasero solo i rami degli alberi intrecciati sopra il letto  del fiume a formare una galleria che nascondeva il cielo opaco. La popolazione si dispose come un gregge di fronte a Leoise e al Sommo Sacerdote, i druidi e i cantori si sistemarono in ordinate file e un coro di voci si levò ad accompagnare l’armonia degli strumenti a fiato.
Tante volte Sianna aveva udito le profonde voci sacerdotali nei loro canti maestosi e le aveva a lungo amate, le smuovevano qualcosa dentro, un turbinio d’immagini che quasi sapevano di ricordi ancestrali sopiti. Quella mattina gelida però si ritrovò ad odiarle e a convincersi che mai più le avrebbe tollerate, perché suonavano meste, sofferenti, e quel dispiacere le pareva ipocrita e falso. Nessuno di quegli uomini e di quelle  donne conosceva il loro dolore, nessuno di  loro aveva perduto qualcuno.
Si rese conto di essere bagnata dalla testa ai piedi e scoprì con sorpresa di non provare freddo, nonostante i brividi che le percorrevano la schiena e le dita intorpidite e rigide. Era estranea a se stessa. Si guardò attorno con sgomento: donne, bambini, pochi anziani e qualche uomo. Erano tutti stretti al proprio lumino, i volti  rivolti alla terra umida o ai sacerdoti, alla ricerca di una speranza. Madri affrancate disperatamente ai figli, Iris e Lisanda strette  a soffocare il pianto l’una sulle spalle dell’altra.
Il panico l’assalì. Un panico strano che forse non era panico, era solo dolore e lei non voleva ascoltarlo, non voleva essere distrutta. Accusava gli altri d’ipocrisia, pensava di aver già conosciuto la sofferenza, di averla affrontata da bambina, quando era chiamata la regina dei pezzenti, quando era rifiutata e non voleva mostrare che le importasse, quando sua madre la biasimava con una cattiveria così violenta che Sianna si era davvero convinta Marilien la odiasse.
Ma aveva mentito a se stessa: niente, nella sua vita, l’aveva mai ferita come quel momento.
«Guardati attorno»
Le parole d’Ynyr la fecero trasalire. Cercò d’incrociare il suo sguardo ma suo fratello sciolse la presa sul suo braccio e la lasciò libera.
«Per vedere solo altro dolore?» sibilò con rancore.
Ynyr abbozzò un sorriso «La mia disfattista. Noi siamo ancora vivi Sianna»
Era questo che suo fratello vedeva? Persone che continuavano a vivere?
Anche lei desiderava lasciarsi tutto alle spalle, vivere o, almeno, tentare di raggiungere ancora una parvenza di vita. La musica si stemperò con dolcezza e le voci l’accompagnarono morendo in un’ultima, tremula nota. Tutti si sfilarono i cappucci e diedero la loro attenzione al Sommo Sacerdote. Sianna decise di continuare a restare coperta, quell’inutile pezzo di stoffa la nascondeva, la faceva sentire meno vulnerabile e lei vulnerabile proprio non voleva esserlo.
Si sfiorò il nastro rosso che si era allentato e prese un profondo respiro.
L’anziano sacerdote si schiarì la voce graffiata e gutturale.
«Siamo oggi qui riuniti per commemorare e rimpiangere la scomparsa di amici, parenti o, semplicemente di uomini che nessuno potrà rammentare, i cui volti cadranno nell’oblio del tempo, affinché le loro anime possano trovare la via per giungere nell’Aldilà in pace, affinché sappiano che qualcuno è testimone della loro ingiusta fine e, soprattutto, del passaggio delle loro vite sua questa terra» fece una pausa, aveva il respiro affannato e sembrava sfinito. Sianna non poteva vederlo, ma lo percepiva da come ogni parola era pronunciata a stento. Era troppo vecchio, quel tempo inclemente e il lungo percorso sotto la pioggia sferzante non avevamo certamente aiutato la sua salute già cagionevole.
«Erano anime semplici, vittime della violenza, che mai avrebbero meritato la sorte che invece è loro toccata. La ruota delle reincarnazioni segna il nostro cammino, e coloro che hanno subito ingiustizie pur essendo giusti, troveranno riscatto un giorno…» tossì di nuovo, con violenza, e Leoise dovette chinarsi su di lui per aiutarlo a mantenersi in piedi. Poi, dopo essersi resa conto che l’anziano non sarebbe stato in grado di  proseguire oltre, la sacerdotessa gli prese dalle mani il lumino posto sopra la conca di legno e la mostrò a tutti, sollevandola all’altezza del suo  viso.
«Che le vostre anime trovino la luce da seguire e che Nehalennia vi accompagni nella nuova vita che vi attende» concluse il rituale, si chinò sulla sponda e posò il suo lumino sulla superficie nervosa dell’acqua. La corrente lo catturò e lo sospinse lontano, facendolo ben presto sparire dalla loro vista. Mettendosi in fila tutti imitarono il suo gesto recitando in coro una preghiera alla dea, mormorata appena ma che per via della folla assiepata risuonò distinta.
Sianna non la conosceva, tuttavia anche lei lasciò che il suo lumino venisse trasportato dalla corrente e le lacrime solcarono anche le sue guance candide. Con la mano destra, quella sana, cercò la mano del fratello e vi si aggrappò con tutta la disperazione che la stava travolgendo mozzandole il respiro. Ancora una volta il suo gelido Ynyr rimase impassibile anche mentre intrecciava le dita con le sue.
A volte Sianna si domandava se davvero fosse in grado di provare dolore. Vederlo incrollabile e forte la disturbava, c’era una linea a dividerli e Ynyr era sempre dall’altro lato, era così poco umano talvolta, da indurla a pensare che non lo fosse semplicemente.
Eppure, a modo suo soffriva, coi suoi tempi distanti da quelli di chiunque altro.
Ynyr si proteggeva come poteva. Da solo, sempre. Sebbene fosse poco più di un bambino.
Leoise intonò un canto ed uno a ad uno tutti i presenti si unirono a lei in un coro armonioso. Persino Marion e Lisanda cominciarono a intrecciare le loro voci con le altre. Poteva distinguerle fra tutte, le sue amiche avevano il dono del canto, producevano un suono flautato e incredibilmente seducente.
«Concedi la pace a chi in vita ne è stato privato. Conduci le anime affinché non si smarriscano nei meandri del peccato e del dolore. Possa la tua luce sconfiggere l’incertezza e guidarle dove non c’è altro che gioia»
Marilien urlava spesso, era imbronciata quando la guardava, scuoteva il capo, scrollava le spalle e la rimbrottava con esasperazione. La sera però le accarezzava i capelli, le baciava la fronte e le sussurrava di non cambiare, e la stringeva come se avesse il terrore di perderla da un momento all’altro. Korakas le raccontava  storie e rideva di lei, come se fosse la cosa più buffa che le fosse capitato di vedere, la proteggeva dalla collera di Marilien, la consolava quando lo sconforto la colpiva a tradimento e aveva voglia solo di picchiare suo fratello.
Loro non c’erano più, e con loro ogni persona che aveva costellato la sua esistenza, i ricordi già le sfuggivano come fumo fra le dita. Sianna non conosceva quella dea, anche se era cresciuta in un paese che la venerava e ad ogni crocevia s’imbatteva in una sua effigie. Sua madre le aveva insegnato che negli dei non doveva credere perché non avevano nessun interesse per il mondo mortale e da millenni lo avevano abbandonato. Non aveva la fede come consolazione.
Ricordava però che una volta una bambina era morta a causa delle febbri proprio a casa sua. Lei era ancora piccola per essere consapevole della morte e Marilien le aveva spiegato che una guardiana era custode delle anime umane e le raccoglieva attorno a sé per condurle poi verso un grande albero, l’Albero delle Anime, dove queste potevano riposare fra le immense radici aspettando il giorno in cui, purificate, avessero potuto risvegliarsi di nuovo sulla terra. Era lì che andavano le persone quando si addormentavano e non si risvegliavano più. Aveva imparato che non doveva preoccuparsi per i morti, che il tormento dei vivi diveniva l’incubo delle anime dormienti. Non doveva tormentarsi o sua madre non avrebbe avuto pace.
Tenendo la mano del fratello s’inginocchiò e bisbigliò
«Guardiana delle Anime che dalla vita hai patito molto e ancora dovrai soffrire, accogli nel tuo gregge i miei compagni, amici e vicini cosicché non vaghino fra le lande della solitudine e anch’essi si crogiolino nel dolore di ciò che hanno perduto.» s’interruppe perché un singhiozzo minacciò di soffocarla.
«Custodisci mia madre fino a quando non saremo di nuovo insieme. Rimembrale ogni giorno quanto le ho voluto bene in vita cosicché sia serena nella morte»
Il rito si concluse con poche altre parole e una benedizione al fiume che simbolicamente avrebbe  condotto i defunti nell’Aldilà. Mentre i presenti si ricomponevano e abbandonavano disordinatamente la riva, Sianna si chiese se, di fronte al corpo di Marilien, quella realtà sarebbe parsa più vera.
Si mise in disparte e osservò le persone che si allontanavano, ognuna con il proprio fardello. Ad un tratto, semplicemente, anche Ynyr si liberò della sua stretta, la fissò per un istante, compreso nel suo snervante silenzio, e se ne andò. In passato si era convinta che sarebbe arrivato il giorno in cui sarebbe stata all’altezza di sostenere la croce per entrambi, per liberare suo fratello dalla solitudine, ma era evidente che non sarebbe stato questo, il giorno. Era stata abbandonata anche da lui e le sfuggì un sorriso amaro.
Ynyr le aveva detto che si sarebbero visti, il giorno della commemorazione, non che avrebbero parlato. Tantomeno che sarebbe  rimasto con lei. Era tipico, quasi scontato. Era stata lei la sciocca a non leggere la verità già quella sera: lui non voleva vederla, non voleva affrontare la situazione con lei. Probabilmente lo stesso trascorrere del tempo con lei gli causava malessere.
Notò allora che anche Kea si era tenuta in disparte e aveva aspettato che l’ultimo sacerdote se ne fosse andato prima di sedersi sulla sponda del fiume. L’acqua vorticava nervosa avvicinandosi pericolosamente ai suoi piedi. Sianna esitò, poi si accomodò cautamente accanto a lei, facendo bene attenzione a non scivolare. Saggiò con la punta delle dita il terreno argilloso sotto di lei rimanendo in una silenziosa attesa.
Kea piangeva.
Aveva la rarissima capacità di piangere in silenzio, lasciava che le lacrime scorressero e le corrodessero l’anima. Tratteneva il suo dolore perché era incapace di esprimerlo e allo stesso tempo voleva solo trovare il modo per poterlo urlare a tutto il mondo. Sianna era sempre stata tutto il suo mondo, Kea aspettava solo di averla davanti per potersi finalmente sfogare.
«Pensi di parlarmi ora?» l’accusò quando riuscì a stabilizzare abbastanza il proprio respiro per non far tremare la voce. Sianna si morse il labbro inferiore già martoriato.
«Guarda che ci siamo dentro tutte insieme» disse ancora, guardandola di sottecchi.
Era un rimprovero sentito così di frequente che sorrise. Le era stato detto fino alla nausea che il suo estraniarsi di fronte al dolore era fonte di tormento e, talvolta, sofferenza per chi le stava attorno. Soprattutto per Kea, che aveva costante bisogno di parole per essere rassicurata.
Sapeva di divenire una bambola priva di sentimenti, eppure non le riusciva di condividere il suo malessere. Ammettere che poteva provarlo, che stava male, la faceva sentire debole, le faceva provare vergogna per se stessa, perché da sola non riusciva a nulla.
Si concentrò ostinatamente sul fiume che scorreva davanti a lei. Provava solo rabbia per il suo stesso egoismo ma se Ynyr, l’unico con la quale avrebbe potuto sfogare quella angoscia, l’aveva in qualche modo  rifiutata, prima di sobbarcarsi le ansie dell’amica come avrebbe potuto liberarsi delle sue?
Kea era piccola e fragile, aveva bisogno di una spalla sulla quale appoggiarsi, non di essere la spalla  per qualcuno. Quello era il compromesso per essere sua amica: essere forti per entrambe. E lei forte in questo momento non lo era.
«Maledizione, non fare così!» sbottò Kea. Anche lei stava giocando con l’argilla che le aveva impiastricciato le mani. «Io non ho niente. Ho solo voi, tu sei l’unica famiglia che mi è rimasta. Sei la mia migliore amica»
Sianna accennò un sorriso più sereno «Tu sei mia sorella» la corresse. «Come sta il tuo bernoccolo?»
Kea s’illuminò, consapevole di aver appena vinto la sua battaglia «Finalmente è quasi sparito. Guarda, non si vede quasi più» scostò la fitta tenda di capelli corvini per mostrarle la fronte. Un ponfo di una sfumatura tra il marrone e il verde spuntava come una piccola collina.
«Kea… è grande almeno quanto un feudo!»
L’amica tentò di colpirla con un buffetto vendicativo alla testa che Sianna riuscì a schivare abilmente spostandosi all’indietro quel tanto che le bastò per sbilanciarsi e cadere con la schiena nel fango.
«Che schifo!» strillò  scrollandosi i capelli melmosi.
«Ti sta bene accidenti, sei una strega. Cioè non per ricordartelo, ma il “feudo” non è che si sia fatto da solo! Prenditi le tue responsabilità signorinella, non mi hai mai chiesto scusa!» si lamentò Kea incrociando le braccia al petto in un atteggiamento offeso e sostenuto.
«Eh no, non mi freghi. Ricordo di avertelo chiesto almeno un centinaio di volte e non ho la minima intenzione di rifarlo!»
 


 

 ANGOLO AUTRICE



Ciao a tutti e ben ritrovati!


Se vi ritrovo ovviamente...! Chiedo scusa per l'imperdonabile sparizione, ma davvero questo capitolo mi ha sempre convinto troppo poco. E' pesante e riflessivo, avrei voluto sistemarlo e non ne sono mai venuta a capo, quindi mi rimetto a voi e ai vostri consigli. Vi lascio a Sianna, spero che un poco vi sia mancata, a me è mancato molto raccontare di lei!
A presto!
Igraine

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO QUINTO

 

 

 

Nell’ospitale ogni giornata era uguale alla precedente. Sianna le passava distesa sul letto a contare i nodi del legno nelle travi del soffitto o a infastidire Gael tirandogli le piume, se il falco restava nei dintorni. Non si parlava molto, tra gli ospitati, c’era come una sorta di rispettoso, tacito accordo secondo il quale non si doveva invadere il dolore altrui. C’era silenzio da quando Irwin, il viso più familiare che avesse in quella stanza, se ne era andato.

Era morto la mattina stessa della commemorazione, quando Sianna era rientrata nella camerata semplicemente l’uomo già non respirava più. Nessuno tra i malati aveva detto nulla o fatto qualcosa e Irwin era soffocato nel sonno. C’erano state altre commemorazioni dopo quella, ma lei aveva preso parte solo alla successiva, per poter dare a quell’uomo il suo lumino, la sua guida nell’Aldilà. La confortava sapere che almeno ora non era più lontano dai suoi figli.

Una mattina era arrivato un ragazzino ferito gravemente, insieme ad un bambino che sì e no aveva avuto quattro anni, erano rimasti lì poco nulla, perché infine il ragazzo era morto dopo ore di agonia per Sianna insopportabili. Quel giorno finalmente era riuscita a scambiare qualche parola con una donna in età avanzata, dal volto sfregiato e priva della mano destra, e il perché di tutto quell’orrore a cui ogni giorno assisteva aveva iniziato ad avere un senso.

«Sono i Peith» aveva semplicemente chiarito la sconosciuta, il cui nome apprese in seguito essere Rhona, «Sono sempre i Peith. Si stanno rivoltando, ci stanno massacrando»

Ci aveva rimuginato sopra a lungo, nelle ore tediose del suo tempo libero. I clan Peith non si erano mai ribellati, mai da quando lei era venuta al mondo almeno, e non aveva mai pensato che potesse verificarsi una simile realtà. Una guerra civile le era inconcepibile, nonostante tutto il sangue e il dolore che le scorreva costantemente davanti senza bisogno che lasciasse il suo letto sicuro.

Quando iniziò a stare meglio le fu concesso di abbandonare, per qualche ora, quella stanza claustrofobica sempre costantemente piena di persone sofferenti. Puzzava di mandorla, l’odore che aveva imparato ad associare alla cancrena, e sentiva sempre in bocca il nauseante sapore della ruggine. Allora sedeva nel prato del cortile interno, a respirare le erbe aromatiche che venivano coltivate e a guardare il cielo grigio fumo della calda stagione. Le sue amiche la raggiungevano, quando finivano le lezioni pomeridiane che seguivano insieme ai novizi sacerdoti che ancora non avevano preso i voti, e le raccontavano le storie delle divinità, le cantavano le canzoni che avevano imparato o, semplicemente, restavano distese con lei nell’erba, in silenzio.

«Non me lo avete mai detto, che è stato un Clan Peith ad attaccarci. Cosa sta succedendo?» borbottò una volta.

Aveva gli occhi chiusi e si godeva il vento leggero che le scompigliava i capelli e le accarezzava le guance. Stranamente il sole era visibile e stava bene coperta solo dalla sottoveste bianca a maniche corte. Il braccio le faceva sempre un male tremendo, ma i morsi dispettosi della ferita si erano fatti meno spietati, nel tempo.

«Non lo sappiamo. Glenn Dubhar è stato solo l’inizio, ma da quel giorno molti altri villaggi Dravidi sono stati attaccati. Ynyr non voleva che lo sapessi.»

Sianna si morse le labbra, poi sbuffò esasperata «è una cosa stupida»

«Lui è stupido, non è una novità. Ma dirtelo non cambiava le cose» le fece presente Kea, pratica come sempre. Tra lei e suo fratello c’era sempre stato un rapporto strano e delicato per cui Kea restava l’unica persona al di fuori della famiglia che potesse esprimersi in tutta franchezza negativamente su di lui senza rischiare di essere trucidata.

«E voi siete ancora più stupide perché lo ascoltate ancora»

La sua migliore amica scrollò la testa «Lo sai come la penso. Nel vostro rapporto contorto non ci voglio entrare»

«Nessuno ci vorrebbe entrare» aggiunse Lisy con un sorriso leggero «Siete impossibili»

«Sono due idioti, è diverso» fu la conclusione lapidaria di Iris. Sianna si passò la mano sana sul volto a stropicciarsi le palpebre. Aveva delle occhiaie profonde e una grande stanchezza addosso, dovuta al fatto che più dormiva più era stanca e voleva dormire. Forse, semplicemente, non vedeva l’ora di abbandonare l’ospitale e la nenia di lamenti che le faceva da corredo notturno ogni giorno. C’era da impazzirci.

«Grazie mille, davvero. Ogni volta mi ricordate di non dimenticarmi di chiedermi perché diavolo butto il mio tempo con voi!»

Mari si lanciò letteralmente sul suo stomaco, strappandole un informe suono strozzato «Perché hai bisogno di qualcuno che ti legga la mano!» le disse raggiante trattenendo le risa. Sianna guardò stralunata Marion, ancora una bambina, con i capelli scarmigliati e quella sua aria da ragazzina di strada sempre scalza e con le braccia tintinnanti di bracciali, e le fece una pernacchia «Sei una pessima chiaroveggente. Questo – e si indicò il braccio con la punta del naso – non l’avevi proprio visto»

Marion socchiuse gli occhi verdi e si fece stranamente seria «Te l’ho già detto. Le tue linee non sono complete. Non so come spiegarlo… ma il tuo è un futuro che non posso vedere. È come se l’altra metà del tuo destino non fosse incisa sulla tua mano ma da qualche altra parte, come se appartenesse a qualcun altro»

Sianna si mise a ridere e con lei anche Lisanda «Sei sempre tragica» la canzonò Lisy.

Mari prendeva con incredibile serietà il suo lavoro. Era così che l’avevano conosciuta. La gitana era seduta sul bordo della strada nel giorno di mercato, con un quadrato di stoffa davanti a lei su cui andavano accumulandosi le monetine delle persone che potevano permettersi il diletto di farsi leggere il futuro. Quando Marion aveva visto Sianna e Kea, semplicemente aveva abbandonato tutto per andare da loro a offrire gratuitamente i suoi servigi. E la verità era che la ragazzina sapeva davvero quello che diceva, era stata lei a dire loro che un giorno avrebbero conosciuto due gemelle, e pochi mesi dopo Lisanda e Iris erano entrate nelle loro vite.

Sianna le scompigliò i capelli e le sorrise «Non darle retta. Cosa vedi adesso?»

Marion si mise fra i denti il cordoncino del pendaglio che portava sempre al collo, come faceva quando si doveva concentrare, le strinse la mano destra e la studiò come se davvero in quelle linee potesse leggerci la storia della sua vita. In quei momenti Sianna si sentiva veramente in soggezione. Lo capiva, anzi lo percepiva, che stava assistendo a qualcosa di reale, non ad una frottola per tenere buoni gli sciocchi ricconi presi dalle compere di stoffe e merletti. Con le dita Mari seguiva linee visibili e ne tracciava di invisibili.

«Vedo che qualcuno ti cerca» corrugò le sopracciglia scavando un solco leggero tra di loro e arricciò il naso con fare pensieroso «Qualcuno ti aspetta, e qualcuno che conosci molto bene ti vuole male e vuole vendicarsi. Ma nessuno di loro ti avrà, perché incontrerai un vecchio amico e lo seguirai» concluse distendendo poi la fronte. Le richiedeva sempre un grande sforzo. «Però devi guardarti dal rosso… e dal serpente»

«Un serpente?» s’incuriosì Lisanda rotolando sulla pancia e racchiudendo il volto rotondo nelle mani a coppa, per poter guardare Mari negli occhi. La ragazzina sollevò le spalle con noncuranza «Che vuoi che ne sappia? Io dico solo quello che vedo»

Sianna finse di battere ripetutamente la nuca per terra «Te lo giuro Mari, ogni volta che mi faccio guardare le mani da te poi desidero il suicidio. Se cercherò d’impiccarmi un giorno di questi, non ci vorrà un tuo oracolo per capirne la ragione!»

Kea sollevò un sopracciglio con scetticismo «Il problema è che credi a queste sciocchezze» disse con il suo solito, laconico cinismo. «Non sono sciocchezze!» scattò Marion.

«Infatti siete voi le sciocche» interferì Iris sollevandosi agilmente. Si pulì l’abito bianco da novizia e le squadrò dall’alto in basso «Mai un po’ di silenzio con voi. Sianna non dovresti andare?»

Sianna gonfiò una guancia con indignazione e rassegnazione, perché effettivamente il tempo libero che le era concesso era limitato e Eireen presto sarebbe andata a recuperarla, se non fosse rientrata di sua spontanea iniziativa. «Non hai pietà» bofonchiò spingendo via Mari dal suo stomaco per alzarsi a sua volta «Non vedi l’ora di liberarti di me».

 Studiò Iris, espressiva come una bambola di pezza, e le saltò addosso all’improvviso in modo tale che la ragazza non potesse difendersi, per riempirle le guance di baci.

«Mollami, Sianna! Dai! Sei fastidiosa!» prese a lagnarsi e le amiche scoppiarono a ridere per quei suoi deboli tentativi di scrollarsela di dosso.

«Te la sei cercata sorellina, lo sai che non devi provocarla» ridacchiò Lisanda. Sianna mollò la gemella per concentrarsi sull’altra «E tu lo sai che ce n’è anche per te»

Lisanda sbiancò all’istante e, ancora sdraiata nel prato, prese a indietreggiare goffamente trascinandosi con i gomiti «No, stavolta non ho fatto niente!» la supplicò, e con un rapido scatto si alzò per mettersi a correre prima che Sianna potesse acchiapparla. «Siete voi che dovete superare questa cosa che non vi piace essere abbracciate!» rise di gusto, e finalmente si sentì leggera come lo era sempre stata, nonostante le cose brutte, le ansie di quella stanza piena di volti tristi, nonostante l’assenza d’Ynyr che, dal giorno della commemorazione, non si era più mostrato.

 

 

 

«Sianna? Svegliati. Forza, non ho tutto il giorno»

Sianna si stropicciò stancamente gli occhi: odiava l’ospitale perché dava ad oriente e la luce irrompeva sempre filtrando dalla finestra di fronte al suo letto, irritandola, mentre la sua vecchia camera era in un’adorabile e quanto mai rimpianta penombra. Riconobbe subito Eireen prima ancora di vederla, per via del profumo di erbe essiccate che l’accompagnava sempre. Era giovane e graziosa e i suoi tratti dolci illuminati da un leggero e comprensivo sorriso.

«Devo cambiarti le fasciature» le fece notare la donna mentre Sianna si metteva a sedere, usando il muro come appoggio, e si lasciava sfuggire un molto poco dignitoso sbadiglio senza coprirsi la bocca. Guardò la sacerdotessa che stava facendo dondolare davanti a lei le bende e ci mise qualche secondo a realizzare la richiesta, perché era troppo assonnata. Con un sospiro rassegnato si costrinse ad alzarsi. «Arrivo» mormorò affranta. Tutti i giorni iniziavano nello stesso, identico modo. Era solo Eireen ad occuparsi di lei e non le medicava mai le ferite davanti agli altri pazienti, come erano soliti fare invece gli altri guaritori con tutti i degenti, ma ogni mattina la costringeva ad andare in un'altra stanza.

Sianna non ne sapeva la ragione, l’assecondava e basta.

L’ospitale era grande ed oltre a comprendere due camerate in grado di raccogliere oltre sessanta infermi, c’era il locale dove veniva condotta di solito, la stanza dei salassi. Appesi alla parete vi erano armamentari seghettati che le mettevano i brividi e su cui aveva deciso con se stessa fin dal primo momento di non indagare, e una mobilia conteneva bacinelle e lancette di legno e acciaio affilate e dall’aria intimidatoria. Aveva sentito spesso urla provenire da lì, le amputazioni venivano effettuate lontano da occhi indiscreti, e una volta una donna aveva pure partorito sull’unico letto presente nel cubicolo, letto che da allora Sianna si premurava di evitare. Non voleva immaginare quante cose dolorose e disgustose fossero avvenute fra quelle lenzuola, poteva sentire il miasma della sofferenza già soltanto tra le pietre dei muri e tanto bastava a turbarla.

Quando la sacerdotessa ebbe chiuso la porticina alle sue spalle Sianna si lasciò cadere su una sedia e automaticamente alzò il braccio e si morse le labbra, già pronta a sopportare il dolore. La stoffa si appiccicava sempre alla carne viva e l’ustione, che prendeva buona parte dell’omero, produceva un liquido giallastro e purulento che le faceva impressione. Eireen le tolse la steccatura con delicatezza e Sianna si analizzò la ferita.

Nell’ultimo periodo c’erano stati enormi miglioramenti, era meno raccapricciante della prima volta che l’aveva vista, lo squarcio si era quasi del tutto rimarginato e anche l’ustione era meno problematica. Gli unguenti di Eireen stavano facendo un vero miracolo. La sacerdotessa estrasse dalla bisaccia il solito barattolo contenente una pastella verde e viscida, gliela spalmò con cura sulla ferita e Sianna si costrinse a non mugolare, anche se bruciava da morire.

«Si sta rimarginando bene. Direi quasi incredibilmente» le disse dopo averle rimesso le bende senza steccare il braccio «questa non ti serve più, l’osso ormai è guarito. Sei quasi in perfetta salute»

«È da giorni che lo ripeto, ma voi mi ignorate» puntualizzò subito, con un mezzo broncio che in realtà celava una speranza: che la dimettessero, finalmente.

«Sì lo so, ti sei fatta sentire anche fin troppo!» la pungolò Eireen, esasperata.

«Quindi sono libera ora? Posso andare anche io con le mie amiche? Posso fare quello che fanno loro? Qui dentro è una noia mortale. Per essere onesti direi che tutto qui è mortale»

Sdrammatizzare in modo discutibile e indelicato era una sua brutta abitudine, ma davvero il suo umore ne stava risentendo troppo. Stava troppo male, ad assistere a tutto quel dolore, le toglieva il respiro ed anche il sonno. Eireen stava fissando il suo braccio insistentemente, gli occhi di lei ripercorsero piano le bende e si posarono sulla sua mano. Alla fine la sacerdotessa la prese fra le sue e la studiò guardinga, come stesse soppesando cosa fare.

«La tua è una situazione delicata. È da molto che volevo chiedertelo, cos’è questa?»

Sianna a sua volta osservò la propria mano sinistra come non faceva da un’infinità di tempo. Sul palmo, luminosa e al qual tempo nera, svettava in rilievo una falce di luna calante. Era sempre stata candida e splendente come la vera luna nel cielo, quel suo simbolo che si portava dietro fin dall’infanzia, ma da quella notte non aveva perso ancora la sfumatura oscura che l’aveva contaminata.

«È… una benedizione» esitò, incerta. «Mia madre mi ha raccontato che me la fece impartire mio padre quando sono nata»

Era una delle poche informazioni che Marilien aveva condiviso su suo padre, il resto era un mistero indistinto e Sianna sapeva solo una cosa di lui, che assomigliava incredibilmente a suo fratello.

La sacerdotessa intanto aveva aggrottato le sopracciglia e stava annuendo perplessa «Si avverte che non è un simbolo qualunque, quando lo tocco un brivido mi trapassa la schiena. Pensavo fosse legato al fatto che sei una Nephilim, ma non avevo mai visto nulla di simile prima»

Sianna si accigliò e ricambiò la sacerdotessa con un’espressione confusa. Eireen le sorrise come a tranquillizzarla «Ti giuro che non lo dirò a nessuno, lo so quanto sia pericoloso, per questo non ti ho mai medicato davanti agli altri. Ne ho già conosciuto uno prima di te, non ti tradirò»

Sianna corrucciò ulteriormente le sopracciglia e storse la bocca «Non riesco a seguirti. Perché dovresti tradirmi? Non so nemmeno cosa sia un Nephilim»

Era una parola che non aveva mai sentito prima, eppure le parve in qualche maniera familiare.

Eireen assottigliò gli occhi scuri da dravida, nocciola intenso: «Non lo sei?».

Era incredula e questo confuse Sianna ulteriormente. Non riusciva a trovare un senso in quel discorso. Scosse la testa facendo dondolare l’arruffata chioma bionda sulle spalle: «Direi di no, mi spiace»

«Io credevo… per il tuo sangue sai» bisbigliò la sacerdotessa per poi guardarsi attorno, come ad essere sicura che la stanza fosse realmente vuota e la porta chiusa, prima di continuare «Hai il sangue a metà»

L’espressione cauta e cospiratrice della donna le strappò una breve risata «L’ho sempre avuto, ma non capisco davvero di cosa tu stia parlando. Non so nemmeno cosa sia, un Nephilim»

Eireen valutò le sue parole in silenzio, sembrava turbata e sinceramente dubbiosa «È un mezzosangue, diciamo. Il figlio di un’umana e di un angelo inferiore. Non so quanto sia vero, questo è ciò che mi è stato insegnato»

Sianna le sorrise indulgente, come se avesse davanti una bambina, e in parte le parve quasi che fosse così. Eireen infondeva sicurezza, era una donna autorevole e sicura di sé, eppure in quel frangente sembrava una fanciulla alle prese con un mito bizzarro che difficilmente poteva risultare reale. Nel suo volto Sianna rivedeva la se stessa riflessa negli occhi di Ynyr quando, nell’infanzia, si stringevano l’uno all’altro mentre ascoltavano i racconti di Marilien con l’estasi puerile della certezza solo nella fantasia.

«Mia madre mi parlava spesso degli angeli quando ero bambina. Li chiamava il Popolo della Neve… erano le sue fiabe preferite» rivelò in un moto di confidenza che la meravigliò. Difficilmente condivideva i suoi ricordi, ne era molto gelosa. «Comunque sono passati troppi secoli, dubito seriamente che possano ancora esistere dei discendenti» puntualizzò cercando di riprendere un certo distacco.

«Ti sbagli. Ne ho conosciuto uno, molto tempo fa, prima di venire qui. Era l’essere più bizzarro che mi sia capitato di conoscere, biondo quanto te, sembrava un ragazzino, ma parlava come se avesse avuto cent’anni. Si dice che siano figli degli angeli perché hanno un potere straordinario ma un’anima mortale a limitarli. Forse hai ragione, è solo un mito, ma loro esistono sul serio. Il Conclave indisse una purga che durò due secoli e gli diede la caccia.» raccontò Eireen seria.

Non stava scherzando.

«Come lo sai?» domandò curiosa, senza sentirsi troppo coinvolta. Era abituata alle storie e anche se la sacerdotessa sembrava incredibilmente certa di quello che diceva, Sianna tendeva a distinguere nettamente le fiabe dalla realtà.

Eireen appoggiò la guancia alla mano chinandosi in avanti, il gomito sostenuto dal ginocchio, e tamburellò con le dita. «Me lo raccontò lui, il Nephilim. Non ricordo nemmeno il suo nome. Van… Vajnk… qualcosa del genere. Non ci ho mai ripensato spesso, ma la sua storia la ricordo, era orfano anche lui, la sua famiglia era stata messa al rogo dal Conclave»

Un brivido percorse la schiena di Sianna. Non tanto per la storia in sé, al rogo lei ci aveva visto tutte le persone che aveva conosciuto. Era il pensiero della Congrega dei Maghi ad impensierirla. Le storie sul Conclave erano colme di magia e mistero non dissimile dalle fiabe sul Popolo della Neve. Si narrava che fosse l’organo che in realtà reggeva il precario equilibrio della penisola, che gestiva da dietro le quinte i rapporti tra i Regni indipendenti di Emer, dell’Esperia, di Sideris, di Dubahr, di Þoka. C’era sempre l’ombra della Congrega quando un Sovrano doveva succedere ad un altro, c’era sempre l’Enclave dietro la promulgazione di nuove leggi. Era una presenza mitica e ingombrante che spaventava la gente, sembrava quasi che con i suoi artigli invisibili come ombre potesse ghermire qualunque anima.

Si rosicchiò il labbro inferiore, con indecisione. Da quando era nata non aveva mai udito nulla che non fosse diceria sulla sedicente congrega dei maghi, ma comunque la sola idea di ciò che rappresentava non le piaceva.

«A volte penso che se mai davvero è esisto, il Conclave si sia sciolto. Guardaci, ne siamo la prova alla fine» diede voce ai suoi pensieri mangiandosi un’unghia, senza porsi un freno «I nostri Clan si stanno massacrando, sta per scoppiare una guerra civile, arriveranno anche qui prima o poi. Se il Conclave esiste, perché diavolo non fa nulla?» sbottò frustrata.

Guerra civile.

Ci pensava sempre più spesso, e per questo neanche fra i sacerdoti riusciva a sentirsi sicura. Difficilmente i villaggi delle antiche religioni venivano attaccati, tutti temevano gli dei, ma Nehalennia che tanto Eireen e gli altri veneravano era una divinità dravidica. I Peith erano barbari senza pietà che non conoscevano il pudore o il rispetto, tantomeno la ragione. Il numero di feriti che si era rifugiato a Lochlainn era una prova più che lampante della ferocia che i Peith peroravano.

«Quando il Conclave s’intromette tira una brutta aria. In fondo io spero che restino fuori da tutto questo, ma lo so che non accadrà. Non rimarranno in disparte ancora a lungo temo» Eireen si alzò e le scompigliò affettuosamente i capelli, facendola sentire una bambina.

«La magia non è fatta per essere in mano agli uomini» mormorò Sianna fra sé ricordando quelle parole non sue ma che parevano fin troppo veritiere.

La sacerdotessa scrollò le spalle «Probabilmente è così, dovremmo lasciare tutto in mano agli spiriti e starne fuori. Ma da troppo tempo sono i maghi a decidere, questa è una cosa che difficilmente cambierà»

Sianna sussultò: quelle parole le ricordarono Kii. Sorrise alla sacerdotessa

«Conoscevo una Volpe che diceva esattamente la stessa cosa»

«una Volpe?» disse meravigliata Eireen e Sianna si morse il labbro.

Kii l’aveva messa in guardia la prima volta che si erano incontrati, le aveva raccomandato di non parlare di lei con gli uomini o non l’avrebbe più rivista, e gli Dei solo sapevano quanto quello spettro sciocco fosse testardo.

«Nessuno» ritrattò sorridendo a trentadue denti alla ragazza.

Eireen fece per ribattere, poi ci ripensò e scosse semplicemente il capo «Sarà meglio che vada, ho il mio giro di visite da concludere»

Mise la mano sulla maniglia ma Sianna la bloccò nuovamente «Non mi hai risposto, posso uscire anche io?»

La sacerdotessa la studiò da sopra la spalla, combattuta, e Sianna intravide la crepa del cedimento «Ti prego! Non creerò problemi, ti prego!»

Eireen tentennò «Io posso anche farti uscire da qui, ma la tua situazione è delicata e sono seria a riguardo. Forse è vero che non sei una Nephilim, ma se qualcuno vedesse il tuo sangue Sianna è questo che vedrebbe in te. Devi essere molto cauta, lo capisci?»

In verità non capiva del tutto ma si affrettò ad annuire.

«E soprattutto quella Luna. Non devi mostrarla mai, dobbiamo nasconderla»

Nessuno aveva mai avuto da ridire sulla sua cicatrice e questo la turbò, tuttavia era disposta a qualunque compromesso. Quindi Eireen sbuffò e le sorrise «Facciamo in questo modo. Mi sentirò più tranquilla se non seguirai le lezioni con tutti gli altri novizi, ma capisco che tu voglia uscire dall’ospitale. Raggiungi l’erboristeria, si accede nell’ala ovest dall’esterno. C’è un ragazzo, è un mio allievo. Digli che ti mando io»

Eccitata Sianna corse fuori dalla stanza senza dare nemmeno il tempo alla sacerdotessa di varcare la soglia, si sfilò rapidamente la camicia da notte per indossare la veste bianca dei novizi, l’unico abito pulito che avevano potuto fornirle, si legò alla vita una corda d’oro troppo lunga che quasi sfiorava il pavimento e dopo essersi sciacquata il viso nel catino corse fuori salutando Eireen come una bambina impenitente, svegliando metà delle persone con tutto il baccano che aveva fatto.

Era mattina presto ma il tempo era comunque tiepido e gradevole e l’aria sapeva di frutta matura e polvere. Superò la stanza colma di libri e lasciò che la brezza leggera le scompigliasse la chioma ribelle. Il villaggio si srotolava sotto di lei, disorganizzato e caotico, colmo di voci e rumori vivaci che la misero di buon umore. In quel mese era cresciuto e nuove catapecchie si erano unite a quelle vecchie, mentre le dimore precedenti erano state sistemate e rese più solide con il legno e la paglia.

Si sentiva tanto di buon umore che si ritrovò a ridacchiare da sola e a giocare con un sasso che le era capitato accidentalmente tra i piedi. Lo scalciò con troppa foga e il sassolino rotolò poco lontano urtando qualcuno.

«Sempre distratta, eh?» l’apostrofò una voce nota.

Sianna alzò gli occhi su Will, che aveva fermato la pietra con il piede e la guardava sinceramente divertito,. Gli sorrise raggiante.

«Sempre» ribatté con ovvietà.

«Esattamente cosa ti ha fatto?» chiese raccogliendo il sasso per farlo poi rimbalzare sul palmo della mano.

Sollevò le spalle in un gesto di noncuranza «Mai sentito “posto sbagliato momento sbagliato”?» 

William annuì «Giusto, noi ne sappiamo qualcosa» sussurrò «Se sei qui suppongo che la tua convalescenza sia finita»

Soddisfatta Sianna continuava a sorridere entusiasta «Supponi bene»

Si ritrovò ad arrossire pesantemente quando si rese conto che il ragazzo la stava squadrando da capo a piede senza troppo pudore «C’è qualcosa che non va?» lo interrogò a disagio e Will rispose storcendo il naso e le labbra sottili in una smorfia «Non mi piace vederti vestita come una sacerdotessa. Preferirei che voi, intendo Marion e le altre, non vi faceste prendere troppo. Sai, i primi rudimenti sono condivisibili ma quando arriverà il momento per continuare dovrete prendere i voti.»

Sianna fece un gesto vago con la mano «Nessuna di noi desidera passare l’eternità a venerare una divinità, se è questo che ti preoccupa»

«Non ho dubbi. Non era di certo la vita che avrei voluto fare. Nemmeno Henry, si vocifera volesse prendere i voti, da quello che si sa sul suo conto. Eppure, se ti costruisci un mondo qui, Sianna, andartene sarà difficile, ti sembrerà di non avere più nulla»

La leggera allegria di pochi secondi prima sfumò di fronte a quella realtà che effettivamente non aveva ancora valutato: cosa avrebbe fatto da quel momento in poi? Lei non sapeva andare al di là di un’ora, pensare al futuro non le riusciva troppo bene e non aveva più visto suo fratello, la mente pratica tra i due.

«Scusami, non volevo turbarti. Dove stavi andando?»

Sianna smise di mangiarsi l’unghia del pollice quando sentì in bocca il familiare quanto nauseante sapore del sangue, e si costrinse ad abbassare le mani, legandole una all’altra, e a distogliere la propria attenzione dal terribile panorama che la sua mente stava già delineando e che la vedeva indigente, ricoperta di cenci, ad elemosinare sul bordo di una strada un tozzo di pane raffermo.

Fremiti di panico le percorrevano ogni singola vertebra alla sola idea.

«All’erboristeria»

Will sussultò, un’ombra di sorpresa negli occhi grigi appena visibili sotto il cappellaccio di canapa marrone tremendamente ruvido, e poi le sorrise come tranquillizzato, mostrandole tutti i denti «Eireen ti ha preso in simpatia» dedusse, non suonava come una domanda.

Si rosicchiò il labbro inferiore, già fin troppo martoriato, e annuì «Non proprio. È una cosa così sorprendente? Di solito sono gradevole di presenza»

Will rise e si avvicinò a lei per prenderla a braccetto, con l’evidente intenzione di accompagnarla.

«Non è insolito per te, è insolito per Eireen. È una donna piuttosto… eccentrica. In effetti non è insolito per niente che abbia scelto te, se ci penso bene. È molto da lei»

L’erboristeria si trovava in un locale dall’accesso esterno che dava sul pendio ovest della leggera collina su cui sorgeva il monastero. La raggiunse riflettendo su quelle parole, senza che vi trovasse un pieno senso.

«Perché mai?»

Will le sorrise elusivo e scivolò via dalla sua presa «Siamo arrivati, principessa»

Davanti a lei una porta di legno massiccio era spalancata, ma l’ambiente interno era celato da un velo che fungeva da separé e si agitava con la lieve brezza che spirava dal nord.

Sianna gonfiò una guancia e ricambiò con disappunto «Non mi sono mai piaciute le principesse. Non fanno altro che farsi salvare»

Il ragazzo ridacchiò divertito «Adesso capisco perché non sei per nulla elegante»

Gli dedicò una linguaccia e urlò «Ci vediamo» agitando distrattamente la mano, prima di infilarsi in quel buco. Il locale era in una penombra giallognola, dovuta ai teli di iuta che rivestivano le due finestrelle, protette da una croce di ferro. I dettagli si delinearono rapidamente, mostrando un ambiente piccolo e caotico, con mazzolini di erbe che pendevano dalle travi del soffitto fin quasi all’altezza del volto e una moltitudine di piante sconosciute accatastate alle pareti come una piccola foresta dai colori scuri. In fondo alla stanza un bancone di legno e alle sue spalle file di mensole cariche di barattoli che contenevano strane sostanze o erbe triturate, identificate da piccoli cartelli in legno dalle incisioni eleganti e sbilenche. Il semplice lumiere illuminava più della luce che non riusciva a filtrare oltre i teli di iuta, ma rendeva il tutto claustrofobico e ingigantiva le ombre delle foglie dando all’insieme un aspetto quasi sinistro.

Sianna si avvicinò ad una di quelle piante sconosciute con un singolare fogliame a stella, e accarezzò incuriosita il profilo frastagliato della foglia, sentendo sotto le dita poi la consistenza porosa della polvere che la rivestiva. Sua madre con quello sporco si sarebbe strappata la chioma rossa.

Sussultò quando un rumore di passi leggeri su una superficie di scricchiolante legno riecheggiò nella stanza. Nell’angolo sulla destra, da una scalinata a chiocciola che non aveva notato, emerse il volto concentrato di un ragazzo che aveva gli occhi puntati sull’armamentario che stringeva fra le braccia.

Non appena la notò, le sorrise.

«P’nawn da» il tono allegro e giovale le ispirò perplessità e simpatia insieme «Posso fare qualcosa per te?» chiese gentilmente.

Ricambiò il sorriso e annuì, stranamente a corto di parole, troppo presa ad inseguire le proprie impressioni. Lo vide attendere con sempre maggiore indecisione e alla fine chiedere accigliato «Cosa ti serve? Non posso combattere il mutismo, saresti la seconda questa settimana e davvero, mi dispiace, vorrei, ma proprio no»

Sianna sollevò un sopracciglio e trattenne a stento la risata.

«Mi servi tu!» riuscì a dire senza suonare troppo divertita, non voleva che quel bizzarro sconosciuto potesse pensare che lo stesse deridendo.

Il sacerdote passò dalla confusione alla lusinga, gli sfuggì un breve sorrisino di modestia che sostituì però rapidamente con buon senso, in una notevole varietà di espressioni facciali.

«Come prego?» ribatté, cercando di darsi un contegno.

Le venne ancora da ridere, ma scosse la testa agitando l’arruffata chioma bionda e sollevò gli occhi al soffitto.

«Mi ha mandata Eireen» chiarì semplicemente «Mi ha detto che sarai tu il mio maestro. O almeno» lo squadrò da capo a piede sollevando l’angolo della bocca in una piega ironica «Almeno credo sia tu»

Il ragazzo storse le labbra e si lasciò sfuggire un sonoro sbuffo «Scarica sempre tutto su di me»

Appoggiò i mortai e i pestelli che stava portando sul bancone e le si avvicinò con atteggiamento frustrato.

«Ahimè, temo di essere io. Sono Tanet» si portò la mano al petto e accennò un leggero inchino «Tu saresti?»

Nessuno le si era mai presentato con un simile gesto, pertanto reagì con qualche secondo di ritardo, ancora stupita. Imitò la gestualità di Tanet per non mancare di rispetto e inclinò il capo

«Sianna Eilan»

«È un vero onore Sianna Eilan. Sai per caso dove sia finita quella fattucchiera odiosa?»

Sianna aggrottò le sopracciglia e socchiuse gli occhi, soppesandolo.

«Parlo di Eireen»

«Ovviamente» mormorò, senza smettere di squadrarlo.

Tanet era bizzarro. In lui tutto era particolare ed anche se la luce non era delle migliori per poterlo studiare con minuzia, era quasi totalmente certa di non essersi mai imbattuta in tutte quelle singolarità raccolte in un’unica persona. Non aveva mai viaggiato e difficilmente le era stato concesso di lasciare Gleann Dhubar, e tuttavia il suo paese natale era stato un crocevia di mercanti e pellegrini, e questo le aveva concesso di incontrare gitani dai capelli di pece e la pelle di latte, uomini nerboruti di miele e porcellana, piccoli selvaggi scuri delle terre del nord.

La sua migliore amica, con i lunghi capelli corvini e gli occhi imperscrutabili, rappresentava già di per sé una particolarità quasi unica nel suo genere, ma Tanet, lui era veramente diverso. Aveva occhi a mandorla, lunghi e sottili, palpebre pesanti e iridi nocciola vivaci che la stavano studiando con altrettanta attenzione. Gli zigomi alti e il naso sottile accentuavano la sua aria nobile e vagamente sofisticata, aria stemperata dal sorriso sottile di labbra stirate. Alto e magro come un chiodo, ciò che lo rendeva veramente unico agli occhi di Sianna non era tanto la fisionomia esotica, quanto il colore della sua pelle. Si era convinta che la pelle naturalmente dorata di Mari, Lisy e Iris fosse già troppo scura, ma la pelle di Tanet era bronzea, quasi bruna, e gli donava una bellezza insolita se non unica.

«Doveva finire il giro di visite» si costrinse a rispondere, dominando il nervosismo e la curiosità, che le faceva desiderare di porgli infinite domande, nessuna delle quali comprendeva Eireen, le erbe e tutto il resto.

Tanet, al contrario, era completamente rilassato e per nulla toccato da lei, non le capitava spesso di sentirsi mediocre, ma accanto al sacerdote chiunque sarebbe parso scialbo e tragicamente banale.

«Non è vero» si stava lamentando lui nel frattempo «Cioè, ovviamente è vero, ma non ci mette mai più di metà mattinata. La verità è che è pigra in maniera esasperante e lascia sempre a me tutti i compiti ingrati, pulire questa stamberga per esempio!»

Nel suo borbottare le aveva dato le spalle e aveva iniziato a sciogliere la cordicella che legava alla trave centrale i mazzolini appesi a testa in giù a seccare. Sianna accarezzò ancora l’ambiente con un’unica occhiata e arricciò le labbra «Non so perché ma sono quasi totalmente sicura che le pulizie non siano state il tuo primo cruccio negli ultimi tre o quattro anni» commentò pacatamente, senza riflettere.

Le braccia di Tanet s’irrigidirono e il ragazzo smise di lavorare, come fulminato. Inclinò il viso verso di lei lentamente e la osservò da sopra la spalla «Tu sei una mia sottoposta» valutò tranquillamente, per poi accennare un sorriso.

Sianna sentì i peli della nuca rizzarsi e un brivido di sospetto attraversarle la colonna vertebrale. Allacciò le braccia al petto e fece un passo indietro, con diffidenza.

«E quindi?»

Tanet stava ghignando, una palese vena di sadismo nei sottili occhi a mandorla. Abbandonò senza remore il fascio di erbe accanto ai pestelli e le ciotole e sparì sotto il bancone per qualche secondo, per ricomparire con un secchio di latta, uno straccio logoro ed una scopa dall’aria più arruffata di lei. Sianna ne rimase talmente attonita da non reagire con prontezza di riflessi quanto Tanet glieli lanciò. Si riscosse appena in tempo per afferrare la scopa, ma non poté difendersi dal secchio che, con precisione millimetrica, compì una perfetta parabola e le cadde in testa.

«Maledizione! Ma dico, sei impazzito?» urlò subito, gli occhi lacrimanti di dolore e le mani già fra i capelli, nel disperato tentativo di diluire il male con un massaggio.

Naturalmente Tanet si mise a ridere di gusto «Beh, dovrò ricordarmi che non hai presa», disse camuffando il sorriso con qualche colpo di tosse «Se vuoi puoi cominciare, c’è un bel po’ di lavoro da fare»

«Perché dovrei pulire io questo disastro?» sbuffò imbronciata. La vista le si era appannata per il leggero velo di lacrime e un nuovo ponfo si era già formato sulla testa e pulsava prepotentemente.

Tanet scrollò le spalle e si concentrò nuovamente sui suoi mazzolini di erbe «Avrai le tue lezioni solo quando avrai terminato. Considerala una preparazione interiore!»

Sianna raccolse la scopa stizzita «Penso che la considererò più come un “Sono troppo pigro per lavorare”»

Il sacerdote sollevò le spalle «Da adesso dovrai chiamarmi maestro, ragazzina. Rivolgiti a me con un sentito rispetto. Tutto chiaro?»

Rassegnata Sianna annuì e raccolse nuovamente scopa e secchio.

«L’acqua dove la trovo?»

«Al pozzo ovvio. È in piazza, divertiti!» e con un sorriso fugace e l’aria malandrina da persecutore, Tanet scomparve nuovamente, inghiottito dalle scale che conducevano al piano inferiore, lasciandola sola senza alcun tipo d’indicazione.

 

 

La casa in cui era cresciuta era molto grande, circondata da cespugli odorosi di fiori e erbe aromatiche e di piante da frutto, con una mansarda da dove, talvolta, lei e Ynyr guardavano le stelle e dove era stata costretta, all’inizio, a tenere Gael. Eppure Sianna ricordava come sua madre riuscisse a gestirla e governarla senza aiuti. Era capitato che Marilien la rimproverasse per la sua inerzia, ed ora che si ritrovava china su un pavimento di legno consumato a sfregare con tutte le sue forze per scrostare il fango, si rammaricò un poco che sua madre non avesse mai insistito davvero per farle fare qualcosa.

Al lavoro non era per nulla abituata.

Con gesto stanco si scostò i capelli dalla fronte imperlata di sudore, accarezzò per abitudine il nastrino rosso che il fratello le aveva intrecciato ad una ciocca particolarmente dorata e si lasciò sfuggire l’ennesimo sospiro.

Tanet naturalmente non era più tornato e lei aveva trascorso la mattinata a pulire. Nell’insieme aveva fatto un buon lavoro, un cumulo di foglie secche e polvere e lerciume era raccolto vicino alla porta e aspettava soltanto di essere disperso nei prati oltre la soglia, la luce era tenue ma sufficiente ora che si era sbarazzata di quei teli ombrosi, e l’ambiente risultava più arioso e sano. Per poter pulire a fondo, aveva pazientemente smontato pezzo a pezzo la piccola foresta che i due erboristi avevano ammonticchiato contro la parete, lasciando le piante all’aperto a godersi la brezza estiva e il tiepido sole di cui anche lei sentiva la mancanza dopo ore tappata nella stanza.

Si sollevò da terra e spazzolò e lisciò il vestito, per abitudine più che per speranza di renderlo pulito, aveva il raro dono di devastare qualunque cosa toccasse e la prova erano le macchie di terra sull’abito all’altezza delle ginocchia. Recuperò lo straccio per lucidare i contenitori quando un urlo la fece sobbalzare.

S’irrigidì in un breve ma fulminante momento di panico, che scivolò via rapidamente quando si rese conto che, più che di terrore, quel grido sembrava un misto fra collera e disperazione.

Si affacciò cauta all’uscio, stringendo le dita arrossate per il lavoro allo stipite, e scorse con sorpresa Eireen che si spostava da una pianta all’altra come se stesse soccorrendo dei feriti e non sapesse darsi una priorità sul quale salvare prima.

Senza emettere suono, Sianna seguitò a guardala, sinceramente divertita.

Quando Eireen si bloccò per voltarsi con lentezza studiata verso di lei, gli occhi che sembravano volerla incenerire, Sianna inghiottì il sorriso fra gli incisivi e si diede un contegno.

«Chi!» sbraitò la sacerdotessa avvicinandosi a passo di carica «Chi ha commesso questo scempio!?»

«Ehm, stai diventando porpora. È un buon segno?»

Una vena del collo di Eireen si gonfiò, come un grosso, pulsante bruco.

«Non è mai un buon segno, Sianna Eilan!»

Il colore della sua pelle assunse un singolare e non classificabile color vinaccia.

 L’istinto di sopravvivenza suggerì a Sianna di tacere, perciò annuì rapida e non liberò il labbro inferiore per paura di lasciarsi andare ad una catastrofica risata a causa di quella reazione surreale. 

«Cosa sta succedendo?» Tanet comparve all’improvviso, trafelato per lo scatto con cui doveva essersi precipitato al piano superiore.

Avvertendo con ogni senso vitale che una parola sbagliata avrebbe causato il suo linciaggio, Sianna continuò a tacere cercando di assumere l’espressione rammaricata che vedeva sempre sulla faccia tosta di suo fratello.

Eireen la abbandonò subito per accanirsi contro di lui, lo trucidò con occhi sottili come lame e sventolò il dito indice sotto il mento del ragazzo con fare intimidatorio.

«Che diavolo è questo! Vedi di essere convincente!»

Vide Tanet guardarsi attorno spaesato per comprendere la situazione, per poi arrivare a studiare direttamente lei, una serie di domande inespresse sul suo volto incredulo e sconvolto. Se la sua pelle fosse stata normale, forse sarebbe impallidito.

Sianna gli sorrise con tutti i denti in bella mostra e un’alzata di spalle, visto che Eireen le dava la schiena.

«Io le avevo chiesto solo di pulire!»

L’indice di Eireen si piantò dritto nel petto del ragazzo e iniziò a pungolarlo, costringendolo a indietreggiare.

«Tu hai fatto maneggiare le mie preziosissime piante ad un’allieva alla sua prima lezione?» sibilò digrignando i denti.

«Senza lasciarmi alcuna indicazione» rincarò Sianna arricciando le labbra e annuendo, un commento involontario a cui non era riuscita a sottrarsi. Tanet spalancò gli occhi, incredulo, mentre la postura della donna si faceva inflessibile e piena di tensione, come la sua voce

«Sparite. Tutti e due, immediatamente, o giuro che ci finite voi appesi a testa in giù»

 

 

Si erano allontanati dalla bottega in silenzio, l’espressione errabonda del maestro aveva spinto Sianna a non aggiungere altro e, semplicemente, si era limitata a seguirlo mentre Tanet, troppo assorto, camminava placidamente fra i campi. Le distese erbose davanti a lei brillavano di un verde smeraldino grazie alle perle di rugiada e se spingeva lo sguardo più in là, verso est, riusciva a mettere a fuoco un complesso circolare, forse di pietre ma da quella distanza non era troppo sicura.

Tanet cambiò direzione, imboccò un piccolo sentiero, una striscia di terra quasi invisibile nell’erba alta, che raggirava la collina e conduceva ai boschi sempreverdi che abbracciavano il fiume d’Ishitar.

«Mi spiace, maestro» mormorò ad un tratto, per rompere quell’inquietante atmosfera. Non lo conosceva abbastanza per poter sopportare il silenzio, fosse esso amichevole o ostile, iniziava a montarle dentro un senso di disagio e di vaga colpa.

Le era sfuggito il motivo della collera di Eireen, ma provava mortificazione per il suo ultimo intervento, decisamente non necessario.

Tanet parve scuotersi, rallentò il passo e la guardò quasi sorpreso da sopra la spalla, come se si fosse ricordato solo in quell’istante della sua presenza. Poi accennò un sorriso tranquillo e agitò la mano per togliere importanza alla questione.

«È colpa mia, accade. Non ho pensato di dirti che metà di quelle piante non sopravvive alla luce del sole»

Sianna sentì le guance bruciare per la vergogna «Poteva andare peggio come primo giorno» bofonchiò in propria difesa «Avrei potuto dare fuoco a qualcosa»

Il sacerdote ridacchiò «Non oso immaginare come… e non lo chiederò! Ho la sensazione che potresti sorprendermi, non sono ancora pronto»

Sianna rimboccò pazientemente i capelli dietro le orecchie e saltò sopra ad un sasso, dove rimase per qualche istante in precario equilibrio, sorridendo fra sé e sé «Suppongo che dovrei sentirmi in colpa» disse aprendo le braccia per trovare il baricentro e non cadere malamente. Il maestro la squadrò alzando perplesso un sopracciglio «Più che sentirti in colpa dovresti ringraziarmi, se non fossi arrivato io, Eireen ti avrebbe fatto la pelle»

Sianna si diede una leggera spinta e atterrò davanti al maestro, per sfoderare poi un sorriso tutto denti «Se permette, mi giocherò il “grazie” in una situazione più consona ad un “grazie”. Per questa volta si dovrà accontentare del mio dispiacere»

Tanet la soppesò incredulo ed infine, dopo lunghi istanti di basita perplessità, sollevò gli occhi al cielo e scosse appena la testa «Non so quale sesto senso mi stia mettendo in guardia, ma tra l’accettarti come allieva e stringere un patto con Lucifero, ho la sensazione che sia ancora preferibile la seconda» le sorrise sornione «Comunque vedremo quando sconterai la tua punizione con una nottata in bianco».

Il tono vendicativo le fece perdere la camminata baldanzosa.

«Come?»

«Rettifico, la prima di una lunga serie di punizioni»

«Di notte?» si accigliò, studiandolo con sospetto. Il maestro ne sorrise «Precisamente. Dovrai poi rimediare al disastro che hai combinato oggi, di certo non me ne assumerò la responsabilità, già che sulla colpa non ho avuto modo di esprimermi»

S’inoltrarono nel sottobosco rado, i grandi alberi sempreverdi li sovrastavano nascondendo la luce tenue di una tersa quanto rara giornata estiva. Il sole era sempre raro, nelle terre d’Ombra, come una maledizione che privava gli abitanti di calore. Sianna poi era cresciuta in un’ampia valle, fra le montagne, e muoversi nella penombra le era familiare quanto facile, per questo un poco si rammaricava di aver abbandonato i campi assolati delle dolci colline di Lochlainn per nascondersi tra il verde.

Tanet nel frattempo aveva iniziato a darle le prime direttive, spiegandole che il momento più opportuno per raccogliere le erbe era, appunto, la notte, la sera o, tutt’al più la tarda mattinata, quando la rugiada si era ormai dissolta, per evitare che le piante marcissero.

«Le streghe sostengono che le giornate devono essere terse e la luna deve essere in fase nascente, l’influsso dell’astro è più forte in quel periodo» raccontò, mentre puliva con buffa dovizia un tronco rovesciato prima di accomodarcisi sopra.

«Ascoltate le streghe? Mia madre diceva che sono troppo superstiziose» ribatté lasciandosi cadere con malagrazia sulla terra umida. Tanet fece una smorfia di disappunto, ma non la rimproverò «Dipende» chiarì invece «Talvolta è vero, si fanno prendere un poco la mano. Soprattutto i clan più rurali ad occidente, in genere però è bene fidarsi di chi sente gli influssi delle stelle più di noi»

Sianna arricciò le labbra e inclinò il capo all’indietro, perdendo lo sguardo fra le foglie pigre appena smosse dalla brezza. Da qualche parte, un picchio batteva con snervante ritmicità un tronco, il canto dei passerotti rendeva il bosco vivo, fin troppo pieno di vita. Anche tacendo entrambi, l’aria era satura di suoni, fruscii, lucertole che comparivano vicino ai suoi piedi per poi scivolare rapide sotto una roccia.

«Non ne ho mai viste per davvero, almeno non credo. Ce n’era una, nella mia valle, ma ho sempre pensato fosse una cialtrona. Non l’ho mai vista fare niente che non sembrasse un banale trucco»

«È raro che si spostino, non si spingono praticamente mai oltre i monti Fengari»

«Sapete il perché?»

La fronte del maestro si corrucciò «Per gli Accordi. Faccende noiose che riguardano il Conclave e non noi. Concentrati sulle cose importanti, hai veramente l’attenzione di una farfalla in un campo di fiori, Sianna. Una delle questioni più delicate per un erborista è sapere in quale stagione sia più opportuno raccogliere questa o quella parte di un arbusto. In linea generale tieni a mente che i fusti si raccolgono in Foghara, e le gemme all’inizio di Earrach. i fiori invece appena sbocciano. Ti farò vedere, ma inizia a ricordare la base»

Sianna annuì e si sforzò di restare concentrata per non rischiare di dimenticare nulla. Il suo insegnante, per quanto sostenuto e, all’apparenza, seccato dall’incombenza di doversi fare carico della sua istruzione, in verità non riusciva a nascondere l’entusiasmo nel poter condividere le proprie conoscenze.

Le parlò dell’usanza che le streghe avevano tramandato e che gli erboristi avevano adottato di bruciare le erbe dell’anno passato la notte dell’Alban Heruin, le spiegò la differenza tra un decotto e un infuso, i vantaggi dei macerati e l’efficacia di cataplasmi e unguenti.

«Dividiamo, per convenzione, le piante in famiglie. Ce ne sono cento, oggi inizieremo a vederne alcune»

Cento era un numero grande, Sianna non era certa di saper quantificare un cento e un poco perse convinzione. Tuttavia l’affascinava il guardarsi intorno e realizzare, con sempre maggior meraviglia, che ciò che la circondava era più complesso di quanto avesse mai potuto immaginare.

Tanet aveva preso a girovagare, gli era tornato il buon umore e le mostrava con entusiasmo le gemme appena nate, le differenze fra le nervature delle lamine fogliari, le numerose forme dettate dalla famiglia di appartenenza. Mangiarono due panini di farina bianca che avevano portato con loro e il maestro ne approfittò per mostrarle le bacche commestibili.

La sommerse di un’infinità di nozioni finché non si fece pomeriggio.

Il sole iniziò la sua prematura discesa e con lui le temperature calarono dolcemente.

«Facciamo una prova pratica prima di rientrare» borbottò lui cacciando uno sbadiglio. Sianna si sentiva assonnata e sarebbe volentieri rientrata subito, così annuì svogliatamente mentre Tanet si guardava attorno.

«Ecco, trovato» individuò un cespuglietto verde e, prendendo il falcetto d’argento che portava legato al fianco, recise un rametto che poi le porse con un sorriso.

«Come ti ho già spiegato, presta attenzione alla forma delle foglie, al pistillo, al profumo. Cerca di identificare le caratteristiche di cui abbiamo parlato prima. Questo è un ramo di Alchemilla. Qui è piuttosto comune, cresce solo in zone ombrose e fresche, quindi è facilmente reperibile in montagna e spesso la trovi anche nelle radure»

Sianna le dedicò un’occhiata priva di criticità e piena di scetticismo. Aveva veramente troppo sonno per essere seria, si stropicciò gli occhi con il polso e borbottò «Vedo un ramo»

Tanet scosse la testa con riprovazione «Non l’hai nemmeno guardata. Non rientreremo finché non riuscirai a darmi almeno l’impressione di aver imparato qualcosa. Osservala e ascoltala»

La ragazza arricciò il naso, ma decise di essere accondiscendente, se non altro per interesse personale. Aveva camminato a lungo e non era più abituata a giornate così intense e piene, le facevano male le articolazioni e i muscoli, desiderava sdraiarsi e dormire per i cento anni a venire, altro che cento famiglie!

Osservò il fusto sottile, verde chiaro sfumato di rosso, analizzò i piccoli fiori, anch’essi di un delicato verde, le foglie dai bordi dentellati, ripiegate all’interno.

«Allora» s’inumidì le labbra mentre rifletteva «I fiori sono in boccio e la corolla è perfetta, quindi questo dovrebbe essere il suo periodo di fioritura» valutò, e si riempì di orgoglio nel notare il sorriso incoraggiante di Tanet «Infatti» aggiunse lui «Dal Tempo della Luce al Tempo della Semina, più o meno»

Sianna prese l’ennesimo respiro e chiuse gli occhi.

Conosceva l’Alchemilla, cresceva ovunque, anche fuori casa sua e sua madre la coglieva di frequente, era un’incredibile guaritrice, anche se lei non aveva mai saputo come la impiegasse.

«Potrebbe far parte…» esitò, ancora guardò con cura i fiorellini, privi di corolla, e notò la forma a calice con quattro sepali a simulare i petali «Beh potrebbe trattarsi di una Rosacea»

Cercò l’approvazione del maestro e lo trovò soddisfatto e sorridente per la sua deduzione.

Le dita sottili, strette all’arbusto, s’intorpidirono lentamente, e il sorriso le si congelò sulle labbra per mutare in una smorfia confusa. Odiava quella sensazione di estraniazione da se stessa che provava talvolta, un distacco lento e indipendente dal suo volere che si scatenava senza una ragione, come una reminescenza sopita che le scivolava tra le vene e i tendini.

Per qualche istante, nel suo stesso corpo non percepiva più soltanto “Sianna”, ma altre consapevolezze che facevano sempre parte di lei eppure le erano estranee.

«La rugiada» mormorò, sollevando la mano libera per accarezzare le foglie dell’Alchemilla.

Tanet la scosse piano per una spalla «Tutto bene? Cosa ti è preso?»

Con un senso spaventoso di vertigine, Sianna sussultò, spalancò i grandi occhi azzurri, fin troppo confusi e sentì le familiari presenze scivolare via, fluire fuori dal suo corpo, ripercorrere le braccia, sfiorarle le dita, per ricongiungersi alla pianta fra le sue mani.

Doveva avere un’espressione poco rassicurante, perché il maestro sembrava preoccupato.

«È un antinfiammatorio, e un cicatrizzante.» buttò fuori tutto d’un fiato «ed un sedativo, se serve. E la sua rugiada, la rugiada che si raccoglie sulle sue foglie è l’acqua celeste… è fondamentale per la Pietra Filosofale»

Lo aveva detto senza respirare, sentiva che dovevano uscire, erano parole che avevano preso senso solo nel momento in cui le aveva pronunciate, prima non le conosceva. Le cadde l’Alchemilla di mano e in un picco di smarrimento si guardò attorno per riprendere consapevolezza.

Quando aveva certi attacchi, era Ynyr a riportarla nel mondo reale, ma Ynyr non c’era e Tanet pareva fin troppo sorpreso per dirle qualcosa di sensato, le labbra sottili erano schiuse in un atteggiamento infantile buffo e insolito per quel viso esotico.

«Come le sai queste cose?»  domandò guardingo.

Sianna corrugò le sopracciglia e si portò la mano alla bocca per mangiarsi le unghie «Non le so»

«Non sembrava»

La ragazza prese un profondo respiro «Non le so davvero. Le avrò sentite da mia madre, era una guaritrice, magari me ne ha parlato e non mi ricordo quando»

Tanet non era convinto, era evidente, aveva gli occhi socchiusi e attenti, alla fine però scosse le spalle, come rassegnato a prendere per vere le sue parole, e sbuffò «In ogni caso, quello che combinano gli Alchimisti non è affar nostro, in particolare per ciò che concerne quella Pietra infernale. Non so come tu sia a conoscenza degli ingredienti che usano quei fanatici, ma non mi piace. Ricorda che le nostre sono pratiche completamente differenti»

Sianna si affrettò ad annuire, dondolando da un piede all’altro per l’imbarazzo. Non le era capitato spesso, che estranei potessero assistere ad uno dei suoi “momenti” di smarrimento, per un attimo aveva temuto che Tanet l’avrebbe respinta, non se ne sarebbe meravigliata. In molti avevano avuto paura di lei, non si era guadagnata il titolo di “figlia del Demonio” per nulla. Fortunatamente il maestro sembrava deciso a glissare su quella stranezza e a non porle domande di alcun tipo.

«Cosa sono gli Alchimisti?» trovò il coraggio di chiedere. Tanet alzò un sopracciglio «Sei a conoscenza dell’Acqua Celeste, com’è possibile che tu non sappia chi la impiega?»

Arrossì sentendosi una sciocca.

«Sono studiosi» borbottò il sacerdote dandole la schiena per avviarsi verso il villaggio «Maghi molto particolari. Se ne stanno rintanati in quel loro imprendibile castello e vaneggiano cose sacrileghe. Per quel che mi riguarda, sono troppo sovversivi alla natura. Non sono brave persone, chiaro?» le scoccò un’occhiata eloquente e severa, ad intimarle di ricordarlo bene, e Sianna si ritrovò ancora ad annuire senza il coraggio di esprimersi.

Gli alberi si diradarono, mostrando il cielo macchiato di oro e rosa, in lontananza una linea scura d’inchiostro aveva iniziato ad espandersi e a contaminare l’azzurro. Non c’erano nuvole.

«Ci vorranno mesi prima che si possa dire che realmente tu ne sappia qualcosa» commentò Tanet quando raggiunsero le prime capanne, era serio e attento «Ma forse… forse sei portata» accennò un sorriso furbo, che sottendeva altro, una frecciata silenziosa che Sianna scacciò con un sorriso tronfio e noncurante.

«Non mi meraviglio. A domani maestro!»

«Ah, te lo puoi scordare! Hai fino a quando la Luna non sarà alta, se posso consigliarti, dormi. Mi servi sveglia, e attenta possibilmente!»

Sianna non l’aveva preso sul serio, gli aveva fatto una linguaccia e si era defilata rapidamente. Nemmeno cinque ore dopo Tanet, come promesso, l’aveva buttata giù dal letto.

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Sporadicamente lo so, però continuerò a pubblicare questa storia perchè, beh ci sono affezionata e amo Sianna in realtà…!

Questa storia si articola su tre grandi blocchi che influenzano tutti gli eventi, e questa prima parte è la più tranquilla. È un mondo grande che vorrei chiarire e ci sono molti personaggi, questo potrebbe rallentare forse un poco il ritmo, almeno all’inizio. Se questo dovesse succedere e avrete voglia di dirmelo, o avete qualche domanda perché sono stata poco chiara, accetterei volentieri consigli per migliorare la narrativa.

Grazie di tutto, e a presto!

 

 

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Capitolo 7
*** RICORDI parte prima ***


 

L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

RICORDI PARTE PRIMA

 

 

«Kii ti prego, mi squarti la schiena se continui così!» 

 

È colpa di quel tuo “coso”, guarda come mi guarda. Vuole mangiarmi.

 

Sianna sospirò la sua esasperazione, poi gettò un’occhiata fugace al “coso”, ovvero Gael, che se ne stava docilmente appollaiato come una sentinella diligente sopra ad un ramo sottile, poco più in alto.

Si limitò a constatare un «Sei paranoico», consapevole che non bastasse a definire il momentaneo stato d’animo della kitsune. L’aria attorno a Kii era irrespirabile quel giorno, stranamente elettrica di attesa e nervosismo, e ad attestare quella condizione di allerta costante ci stavano pensando gli artigli della volpe che non accennavano a diminuire la presa ferrea sulla sua schiena, inchiodando Sianna prona nella terra umida.

«Spostati, vorrei davvero potermi alzare»

In risposta, avvertì il nasino umido della volpe odorarle il collo, facendola subito ridere per il solletico.

«Kii scendi! Per tutti i Serafini, sei insopportabile. Non potresti essere umano?»

 

Lo sai che non mi piace

 

I pensieri della volpe rimbombarono come un’eco nella sua testa, anche senza l’inclinazione del suono era percepibile la modulazione lamentosa e infantile di quell’affermazione e per questo Sianna sbuffò ancora, sollevando così un ciuffo di capelli che le ricadeva disordinato sul volto.

«Sarebbe tutto più semplice. Gael ti lascerebbe in pace, tanto per cominciare»

Questa volta non ottenne risposta e sospettò che lo yokai avesse deciso unicamente d’ignorarla. Non sarebbe stato insolito, quando gli dava noia Kii, come un gatto più che come una volpe, si ritirava. Forse perché era il cucciolo del suo branco, o forse semplicemente a causa della sua natura indisponente: la kitsune era viziata, dispotica e dispettosa, e tutto questo si traduceva per Sianna in graffi, vestiti stracciati, o abbandoni improvvisi in mezzo al nulla.

Negli anni queste sue peculiarità avevano finito con il peggiorare e per questa ragione Sianna si mordicchiò il labbro ed esitò a esprimersi ancora. Non aveva la pazienza di sopportare che ancora una volta Kii se ne andasse con quel suo atteggiamento da sovrano del mondo.

Ascoltò il rumore di quel nasino nero che si arricciava e poi inclinò il capo di lato, per poter ammirare il musino tenero e all’apparenza mansueto e i suoi occhioni dorati che osservavano il mondo attorno a loro con circospezione.

«Oggi sei più inquieto del solito. C’è qualcosa che non va?»

Kii soffermò lo sguardo sul suo volto, si sporse lentamente e le leccò una guancia, guadagnandosi una smorfia.

 

È il profumo di fiori marci. Non dovrebbe esserci qui, non più, ma è da giorni che impregna i boschi. Bisogna stare in guardia dall’odore della morte

 

Davanti alle sue considerazioni sibilline, Sianna aggrottò la fronte e storse il naso. Ci provava davvero, a scavare per trovare un senso nei suoi discorsi deliranti da spirito superiore in contatto con gli enti naturali, ma non ci riusciva e sentiva solo un’immensa frustrazione. La volpe piegò dolcemente la sua testolina

 

Non riesci a sentirlo? Mi domando come sia possibile. Non è una cosa buona, tu non sai proteggerti

 

Sianna afferrò il piccolo yokai per la collottola e lo sollevò, portando il muso all’altezza del suo viso. Poteva anche essere una misteriosa creatura, uno spettro di oltre cinquant’anni, ma il suo aspetto le procurava una certa tenerezza, con le zampette raccolte e il corpicino morbido e ancora un po’ goffo. Tenerezza che ingoiò per cercare di trasmettere con tutta la serietà possibile il proprio disappunto.

Scosse piano la testa «Io vorrei davvero che ti entrasse, in quella bella testolina che ti ritrovi, che quando ti comporti in questo modo e dici certe cose io non riesco a seguirti. Di che diamine stiamo parlando?»

La kitsune cercò di morderla, ma Sianna lo aveva già messo in conto. Prima che i suoi dentini aguzzi riuscissero a raggiungerle il naso, la posò a terra bruscamente, non senza sbuffare nuovamente. Allora Kii si stiracchiò, sollevò la coda con fare altezzoso e scrutò ancora la vegetazione senza prendere in considerazione la sua presenza.

Sianna si mise finalmente a sedere e si grattò la radice del naso cercando di inghiottire il desiderio di ricavare da quella bestiola un’ottima e pregiata pelliccia.

«A mia madre piacerebbe», pensò ad alta voce «Chissà che magari è la volta buona che me la ingrazio»

Lo disse per provocarla, che tanto Kii era in grado di percepire anche i pensieri inespressi, ma evidentemente era stata di nuovo dimenticata. Notò che la kitsune era mossa da uno strano sospetto, forse avvertiva qualcosa che a lei stava sfuggendo, non se ne sarebbe per nulla sorpresa. D’altronde Kii aveva un legame diverso con la natura, un rapporto profondo che le permetteva di percepire ogni cosa. I suoi sensi erano sviluppati in maniera differente da qualunque uomo o animale, era uno spettro, Sianna tendeva a dimenticarselo e solo quando le sue stranezze emergevano lo realizzava.

La volpe aveva provato a spiegarsi, le aveva detto che le kitsune erano yokai e messaggeri di entità superiori, tuttavia non era semplice comprendere realmente cosa significasse.

Quando, molti anni prima, la volpe si era definita in quel modo, “spirito messaggero fedele alla sua signora”, Sianna quella signora aveva voluto vederla. Era così che aveva incontrato la sua prima Dama del Lago.

E dopo quell’incontro ne era seguito solo un secondo, ma le era bastato per restare ammaliata da tanta bellezza. Aveva pensato spesso che la misteriosa padrona di Kii avrebbe potuto essere una Gwragedd Annwn, perché era di una purezza astratta e incorporea, leggera come di rugiada all’alba, un incanto creato per irretire i mortali, o almeno lei si era sentita stregata.

Kii la riscosse soffiando un verso strano e ostile.

Il pelo si era drizzato e i muscoli contratti in posizione di difesa trasudavano nervosismo.

 

Devo fare ritorno

 

«Ma Kii! Avevi promesso che mi avresti tenuto compagnia. Lo sai che mi annoio ad aspettare da sola, potrebbero anche non arrivare oggi e io avrò buttato una giornata intera. Non puoi lasciarmi qui!»

Provò a gonfiare le guance in una smorfia capricciosa nella speranza d’intenerire lo yokai, ma l’espressione infantile morì subito sostituita da perplessità quando si accorse, con sgomento, che Kii non stava assecondando la propria natura lunatica, era davvero nervoso per un motivo.

Motivo che Sianna non riusciva a comprendere.

 

Prendi la sfera

 

«Cosa?» spalancò i grandi occhi azzurri, e allo sbigottimento per quel comportamento assurdo si aggiunse una sottile vena d’ansia. Pensò che doveva aver capito male, Kii non avrebbe mai potuto dirle seriamente di toccare la sua sfera stellata, aveva assistito a reazioni bestiali le poche volte in cui aveva avuto l’ardire di provare a sfiorarla. Eppure ora la Kitsune, tesa e stranamente nobile nel portamento, stava sciogliendo la sua coda, sempre arrotolata, per liberare la sua hoshi no tama. La sfera di luce si librò pacatamente nell’aria, mostrando la meraviglia di quella sua luminosità porosa all’apparenza inconsistente.

 

Prendila e portala con te, e non liberartene. Per nessun motivo

 

 

Sianna era empatica, lo era sempre stata. Forse il suo era solo un innato istinto, ma quell’istinto, con un nodo allo stomaco che non le apparteneva, le gridava l’inquietudine dello yokai, e per questo, non senza turbamento, si ritrovò ad annuire alla richiesta dello spettro con insolita mansuetudine.

«Non capisco che ti prende» sussurrò, per rimarcare la propria confusione, ma non voleva protestare.

La volpe sollevò il muso e annusò l’aria

 

Stanno arrivando

 

«Sei sicura? È per questo che te ne vuoi andare? Se anche ti vedessero non sarebbe di certo un problema!» lo disse con un sorriso, aveva intuito però che la causa di quella tensione non erano i suoi amici. Certo, Kii odiava gli umani e non si mostrava a nessuno che non fosse lei o Ynyr. Solo in un’occasione aveva accettato d’incontrare le sue amiche, ma era stata la Dama ad ordinarglielo e quindi in realtà non contava.

Davanti alla reticenza della volpe aggiunse con un sospiro «Se fosse solo per loro non mi lasceresti la tua sfera stellata»

Kii taceva come assente, ed infine soffiò uno strano e ferino ringhio fra le zanne.

 

Prendila.

Portala con te.

E torna con loro, non da sola.

 

Lo proferì con un tono adulto terribilmente in contrasto con quel suo aspetto da cucciolo dispettoso. Non le diede il tempo di ribattere, rapido ed elegante, con uno scatto lo yokai si lanciò in una corsa che lo fece sparire subito nel sottobosco.

Sianna si ritrovò sola e immobile, l’unico rumore oltre al cinguettare rumoroso degli uccelli era il leggero sfrigolare della sfera luminosa sospesa davanti a lei. Pur se confusa, decise di obbedire e, con incertezza, strinse le dita attorno a quella luce dalla consistenza morbida. La osservò ridursi di dimensioni e diventare lentamente più piccola e fioca, fino ad essere completamente contenuta nel palmo della sua mano. Quando Sianna schiuse le dita ritrovò solo una perla grande come un chicco d’uva, agganciata ad una catenina. Se la legò attorno al collo, poi si alzò e riassettò i vestiti malconci di fango e macchie d’erba.

Normalmente, quasi per ripicca, ignorava sfacciatamente le richieste che non comprendeva, l’urgenza con cui l’amico si era espresso però l’aveva presa alla sprovvista e perciò decise di rispettare il suo volere. Abbandonò il suo avamposto, da dove ormai da ore controllava la strada principale che dava accesso e Glenn Dubhar, si aprì un varco tra le sterpaglie e alcune radici e raggiunse la strada di terra battuta. Come a confermare che la volpe non aveva mentito, giunse da lontano un vociare fin troppo rumoroso, un dibattito forse.

Dove la strada svoltava all’orizzonte venendo inghiottita dagli alberi, Sianna vide comparire le familiari figure di Henry, Daniel e Korakas. Si precipitò loro incontro con entusiasmo e prima che i tre potessero anche solo metterla a fuoco, aveva già travolto di peso un Henry inconsapevole trascinandolo a terra con sé.

«Finalmente! Dovevate arrivare due giorni fa, mi stavo annoiando a morte ad aspettarvi!» li sommerse subito di parole, dimenticandosi di salutarli, ma poco importava, la conoscevano abbastanza da non aspettarsi convenevoli, non da lei. Ed infatti, i tre si limitarono a esclamare con basita meraviglia il suo nome in coro, ampliando il sorriso soddisfatto che capeggiava già sulle sue labbra. Henry, sotto di lei, le prese una guancia tra le dita e tirò con forza «Maledizione Sianna, ci hai fatto venire un attacco di cuore!»

«Sianna ma ti sembra il modo di comparire?»

«Bambina mia, che diavolo ci fai in giro adesso? Tua madre ha almeno una vaga idea di dove tu sia?»

I due ragazzi e l’anziana parlarono in contemporanea, li trovava divertenti come sempre, ma non riuscì a riderne perché Henry la sua guancia non l’aveva ancora lasciata e stringeva tanto forte da renderle gli occhi lucidi. Per liberarsi, ricambiò infilando a tradimento due dita nel costato del ragazzo, che sussultò subito liberandola con una smorfia di disappunto e dolore.

«Sei un demonio incarnato» borbottò, e lei sorrise di rimando.

Poi balzò in piedi per abbracciare di slancio Korakas e la sua aria severa da anziana «Ciao nonnina!»

La signora ricambiò scompigliandole affettuosamente i capelli «Sei la solita peste. Diventerai mai una signorina come si deve?» la riprese bonariamente. A Sianna piaceva quell’atteggiamento dolce familiare, come se davvero fossero parenti, perché le permetteva di esprimersi liberamente senza rischiare di sentirsi sgridare per la sua sfacciataggine e il carattere troppo aperto. Rispose con la sua espressione furbetta da bambina impenitente «E toglierti la soddisfazione di ripetermelo ogni volta che mi vedi? Mai!»

Un colpo di tosse li fece voltare quasi contemporaneamente.

Sianna sobbalzò e arrossì quando si accorse che a quel familiare siparietto aveva assistito una quarta persona, un ragazzo che già in passato le era capitato di incontrare ma con cui non aveva mai avuto molta confidenza. Da sotto il suo grande cappellaccio marrone, William la studiava con un sopracciglio leggermente inarcato e un sorriso divertito per cui Sianna avrebbe voluto solo poter essere inghiottita dalla nuda terra. Aveva imparato, nella sua infanzia, a non mostrarsi mai eccessivamente espansiva o spontanea davanti a sconosciuti, per istinto di autoconservazione, perciò quasi involontariamente si acquietò in maniera innaturale e abbozzò un cenno di saluto con la mano.

«Signora» intervenne Daniel dopo aver aiutato Henry a rialzarsi e avergli reso il suo bastone, interrompendo il gelò di imbarazzo che l’aveva colpita. Sianna aggrottò le sopracciglia, perplessa, perché aveva colto una sfumatura grave di preoccupazione.

«Giusto» rispose immediatamente Korakas, leggendo un sottinteso in quel richiamo che Sianna non riuscì a cogliere. L’esclusione palese la irritò più di prima.

 

Come se già non ci fosse quella dannata volpe a fare la sibillina

 

«Sianna che ci fai qui? Non è sicuro eppure ti ostini a girovagare per questi boschi come se niente fosse» la riprese l’anziana, questa volta con una punta di severità che le fece mettere il broncio.

Scrollò le spalle e domando il fastidio disse «Vi aspettavo. Mi sembra ovvio. Il falco è arrivato con la vostra lettera molti notti fa, me lo ha detto la mamma. Sapevo che era questione di poco. E poi non corro alcun pericolo, io qui ci sono cresciuta, che vuoi che mi capiti?»

«è meglio se rientriamo subito» tagliò corto Henry, mettendole una mano sulla schiena per invitarla a procedere.

La confusione crebbe ulteriormente, e Sianna si ritrovò a squadrarli come se non li avesse ma visti, tanto trovava insolito quel loro comportamento. Korakas era sempre stata apprensiva, ma Henry e Daniel l’avevano sempre assecondata nei suoi giochi e nelle sue esplorazioni, e non avevano mai storto la bocca come avesse fatto qualcosa di tremendamente sciocco e irreparabile.

Fu guardandoli con attenzione che notò dettagli che le erano sfuggiti: le vesti inzaccherate in modo indecente, macchiate di fango, stracciate.

«Cosa mai vi è capitato? Persino io fatico a ridurmi in questo stato!» ironizzò, per seppellire lo strano presentimento che Kii le aveva gettato addosso. Henry si appoggiò al quel singolare bastone che si portava sempre appresso, gemello di quello di Daniel: tre spessi rami intrecciati tra loro saldamente che sulla sommità si aprivano per lasciar intravvedere una pietra dai riflessi sanguigni grande come un pugno. La pietra di Daniel era dorata e calda, poteva essere ambra ma non ne era sicura.

Daniel le avvolse le spalle con un braccio e le lasciò un veloce bacio fra i capelli, con la sua familiare e dolce tenerezza da fratello maggiore «Incontri spiacevoli, qualche brigante, nulla di cui preoccuparsi» le spiegò con ostentata tranquillità, ma Sianna le percepiva, le emozioni altrui, come un’increspatura nell’aria, un brivido da pelle d’oca che le risaliva la schiena, e capiva che anche i suoi più cari amici erano inquieti proprio come Kii.

Lo erano abbastanza, di certo, da non aver mostrato entusiasmo nell’incontrarla nonostante non si vedessero ormai da qualche Tempo.

Per poco non le andò la saliva di traverso «Stai scherzando spero! State tutti bene? Vi hanno derubati?»

Henry ridacchiò e ammiccò verso Korakas, elegante persino in quella condizione mentre camminava davanti a loro di pochi passi, dritta come un fuso.

«Sfido chiunque a riuscire a derubare l’incarnazione di un Satana» le bisbigliò complice per non farsi sentire, ma l’anziana lo freddò con una gelida occhiata da sopra la spalla.

«L’incarnazione di un Satana?» ripeté, inarcando un sopracciglio e sfoggiando una piega tagliente che di sorriso aveva gran poco sulla sua bocca rugosa.

Henry impallidì e Sianna ne approfittò per dare di gomito a Daniel, scambiare un’occhiata complice con William e ridere piano di lui.

«Parlo di Daniel, Signora! Lo sa che non oserei mai»

La sacerdotessa fece una smorfia e si limitò a constatare «Saranno le mie guardie del corpo ad assassinarmi nel sonno»

Quel clima così simile alla normalità le permise di accantonare la sensazione inspiegata alla bocca dello stomaco e il bruciore sgradevole che le tormentava la cicatrice della mano sinistra. Era felice, l’arrivo di Korakas e dei suoi adepti era il momento più sereno per lei, e Sianna decise di goderselo senza ombre.

Guardò in alto: Gael, docile, li seguiva.

 

 

 

***

 

Con sua estrema amarezza, non appena raggiunsero casa sua, Marilien e Korakas si lanciarono sguardi carichi di significato e colmi d’apprensione, che non tentarono nemmeno di dissimulare.

«Dobbiamo parlare»

Nemmeno un saluto o la più banale e convenzionale forma di cortesia, la sacerdotessa arrivò dritta al punto e quando sua madre annuì, Sianna si sentì solo più frustrata. Il ciondolo di Kii, attorno al suo collo, pesava come una maledizione, come i silenzi di chi non voleva condividere i propri crucci.

«Due giorni di ritardo» affermò Marilien, con una pacatezza gelida, un tono che Sianna aveva imparato a conoscere bene, perché sua madre in una manciata di parole era sempre stata in grado di nascondere tanto, in quel momento un’inspiegata consapevolezza, come se avesse saputo la ragione degli imprevisti senza bisogno che Korakas si esprimesse.

«Sianna Eilan, ho bisogno che tu esca» aggiunse rivolgendosi a lei, tanto severa e decisa da non ammettere repliche.

Sianna di quella donna dai capelli rossi aveva sempre avuto un po’ paura. A volte si sentiva osservata da lei in modo diverso che nulla aveva di materno, un sottile odio serpeggiava allora tra di loro, e Sianna in lei riusciva a scorgere la strega che tutti paventavano fosse.

Fece per rivolgersi ad Henry e Daniel e William, ma la sacerdotessa la precedette «Voi resterete qui. Ci sono cose importanti di cui dobbiamo discutere»

Rassegnata ad essere esclusa dagli affari “degli adulti”, guardò le loro schiene mentre si ritiravano in cucina, lasciandola sola sulla soglia. Marilien l’aveva liquidata come fosse un omuncolo e non una persona, e per questo sentiva una grande rabbia.

Decise di raggiungere la sua migliore amica e di metterla a parte di quelle stranezze. Kea era più razionale ed intuitiva, forse avrebbe letto tra le righe qualcosa che le era sfuggito.

Da qualche giorno la ragazza non lasciava casa sua e rifiutava di parlarle, ma Sianna confidava che, con l’arrivo di Daniel, ogni malumore le sarebbe passato. Si precipitò fuori e, correndo, superò l’ingresso ad arco del suo cortile per inchiodare davanti alla casetta di pietra accanto alla sua. Tre gradini precedevano la porta di legno massiccio e Sianna li saltò tutti insieme prima di bussare fin troppo animatamente.

«Kea? Guarda che lo so che ci sei!» urlò, bussò ancora e poi urlò di nuovo «Dai, vieni fuori! Ho una buona notizia. Quella cosa non può essere così brutta da negarti una buona notizia!»

Le rispose il silenzio.

«Kea? Ti giuro che ne sarai felice… ti prego!»

Bussò insistentemente e alla fine la porta si spalancò «Se ti maledirei in ogni lingua esistente non basterebbe!»

La sua vicina di casa sembrava l’incarnazione di uno spirito maligno, minuscola e sottile come un giunco, un fisico efebico acerbo e una cascata di capelli corvini calata sul volto come una tenda arruffata. Sianna non poteva vedere il suo sguardo, ma poteva tranquillamente desumerlo dal suo tono di voce alterato.

Era consapevole di non doverlo fare, ma non riuscì a non ridere di gusto «Dimmi che questo tuo aspetto da spaventapasseri non è per ciò che penso» si coprì la bocca con le dita affusolate per limitare il danno, ma non servì perché Kea spostò i capelli di quel minimo indispensabile a rivelare l’occhio destro e la gelò con la sua espressione più truce.

«Proprio tu, che sei la causa fondante di ogni mio male, sei l’unica che non può fare battute!»

Il suo broncio infantile e testardo ricordò a Sianna di quando era bambina, perché Kea non sembrava cambiata in nulla, le sue ridotte dimensioni fisiche la facevano apparire molto più piccola e indifesa della sua età. Mai apparenza fu più ingannatrice.

«Sono passati giorni, sono sicura che ormai neanche c’è più. Stai facendo un dramma per una sciocchezza»

Era fin troppo abituata ai malumori di Kea più che altro perché ne era la causa costante, ed anche quella situazione non era un’eccezione.

«Certo, tu fai i danni poi io esagero. Mi chiedo perché ancora mi meraviglio» con un gesto secco Kea si rimboccò i capelli dietro le orecchie, facendo mostra di un ponfo enorme sulla fronte e di un livido esteso e scuro attorno ad una lacerazione poco profonda, che però le segnava il sopracciglio sottile. Il suo volto ricordava la pelliccia maculata di un qualche animaletto selvatico irritato e Sianna si morse le labbra per bloccarne l’istintivo incurvarsi «Visto, non è così grave» stirò un sorriso finto e proseguì «Daniel e Henry non lo noteranno neppure»

Kea impallidì all’improvviso e Sianna temette che potesse nuovamente svenire a causa sua.

«Sono tornati?»

«Ehm, sì. Volevo avvisarti, ma sai, non mi parli da giorni»

«E chiediti il perché! Giuro su Nehallenia, questi sono i momenti in cui ti odio ti più! Sono impresentabile, non potevi direttamente ammazzarmi e seppellirmi nel tuo giardino?»

Sianna sollevò gli occhi al cielo, spazientita «Come se a loro importasse dell’aspetto della tua faccia»

Kea ringhiò come se davvero lo fosse, un animale selvatico, e assottigliò gli occhi in due spilli di profondo rancore «Importa a me»

Si sentiva un poco in colpa, perché quella deturpazione sull’altrimenti bellissimo viso di Kea era effettivamente sua responsabilità.

Le finestre delle loro camere da letto erano dirimpettaie e avevano preso l’abitudine, negli anni, di chiacchierare per ore appoggiate al davanzale, venendo spesso sgridate perché “urlate come se fossimo al mercato, tutto il vicinato vi sente”, la frase più frequentemente pronunciata da Marilien. Qualche giorno prima, bloccata in camera per l’ennesimo rimprovero di sua madre, Sianna aveva deciso di chiamarla tirando dei sassi contro gli scuri di legno della finestra dell’amica.

Le ante si erano aperte all’improvviso, e la pietra aveva colpito Kea in pieno viso. Era stata ritrovata semisvenuta qualche ora dopo.

«Non preoccuparti, non li vedremo per un po’, era di questo che volevo parlarti»

Le spiegò lo strano comportamento dei sacerdoti e presa dall’aneddoto, Kea dimenticò le sue problematiche estetiche.

Così, confabulando, erano uscite di casa e avevano attraversato le vie gremite di gente e grida chiassose e bancarelle. Era giornata di mercato e Glenn Dubhar pulsava di vita e di colori, dai venditori di stoffe, ai banchi di gioielli e dolci, fino ai contrattatori di bestie e piccoli raduni di scommesse. Alcune galline tagliarono loro la strada e Sianna seguì distrattamente il loro incedere impettito e goffo con lo sguardo, fino a quando i suoi occhi non si posarono, sul ciglio della strada ai piedi di una casa, sulla figura vivace di una ragazza dal volto celato da uno scialle arancio. Il bordo ricoperto di campanelli tintinnava ogni volta che la fanciulla chinava il capo sulla mano grassoccia della donna che si stava facendo leggere il futuro.

Richiamò Kea e indicò la gitana con un gesto del capo.

«Ci risiamo» brontolò l’amica sollevando al cielo gli oscuri occhi neri.

«Allora, vuoi dirmi qualcosa o no?»

«Io vorrei ma…» la voce della zingara, piena d’incertezza, colpì Sianna, che avvicinatasi non aveva potuto non cogliere uno stralcio della conversazione.

«Ma?»

«È una piccola ciarlatana, mia signora, non le presti ascolto»

«Io non sono una ciarlatana! È la linea, è spezzata, non c’è alcun futuro qui!»

Con un gesto di sdegno, la Dama e la sua servitrice si allontanarono irritate, mai però indisposte quanto la ragazzina, che con un movimento stizzito si sfilò dal capo la stoffa vivace per rivelare una folta e spettinata chioma castana screziata di miele.

«Cliente difficile?»

«Giornata difficile!» sbottò Marion senza la minima sorpresa nella voce nonostante non le avesse notate, come si aspettasse la loro comparsa, e Sianna pensò che probabilmente era vero: Mari aveva un dono, una capacità di percepire gli eventi che era davvero al limite della premonizione.

«Perché?»

La gitana gonfiò le guance, frustrata «Perché non posso fare predizioni oggi, o dovrei annunciare morti e catastrofi. Morti e catastrofi non pagano, non ho ricavato niente»

Raccolse le carte, sistemate in ordine per terra, e gli astragali riuniti in una rozza tazza di legno, richiuse i quattro angoli del panno e con un fiocco ne ricavò un pratico sacchetto.

«È insolito» le fece notare Sianna, basita, perché non aveva mai visto quella bambina sbagliare, ed infatti la fronte di Mari si corrugò «Lo so, e non so che pensare. Sai, non stavo mentendo, la linea della vita era spezzata, ma non è possibile che ogni linea che ho visto oggi si perda nel nulla in quel modo»

«Vuoi controllare la mia?» la canzonò dandole una leggera spintarella con il gomito. Marion arricciò le labbra «Prendi pure in giro, lo sai che con te sarebbe inutile. Kea, forse»

«Te lo scordi» Kea si allontanò di qualche passo, come se solo con il pensiero la piccola zingara avesse potuto strappare i suoi segreti «Sapete benissimo cosa penso di queste sciocchezze»

Marion sbuffò «Se me lo dice una vecchia impomatata lo accetto, ma almeno da un’amica mi piacerebbe non essere definita ciarlatana» si volse verso Sianna e attirò la sua attenzione afferrandole la manica celeste del vestito, in un gesto stranamente infantile e incerto.

«Sianna, come stanno?»

«Chi?»

Sianna avvertì un brivido: ecco il dono di Marion che si manifestava.

«Henry e Daniel. Qualcosa non va, non so perché, ma è come una tensione, come se l’aria stesse vibrando»

Kea stese le labbra «Non ti ci mettere anche tu» soffiò, in realtà cercando di celare il proprio turbamento, Sianna lo sapeva che la sua migliore amica temeva tutto ciò che le era incomprensibile razionalmente.

«Cosa senti?» interrogò la più piccola, che si raccolse nelle spalle e le scrollò piano, togliendo importanza alla questione.

«Non lo so nemmeno io. È una sensazione poco chiara. Anzi, più che una sensazione, sembra un odore, puzza come qualcosa che sta marcendo»

 

Il profumo dei fiori marci, l’odore della morte.

 

Per un momento, invece di Marion le parve di trovarsi di fronte a Kii giusto qualche ora prima. Nel mentre avevano raggiunto la piazza e, sotto la grande quercia che ombreggiava con i suoi rami i sampietrini e le panche di pietra, Sianna riconobbe Lisanda e Iris, accomodate placidamente a godere dell’aria tiepida di quella giornata.

 Quando le due gemelle le notarono, si sbracciarono con un grande sorriso sulle guance dorate, per farsi notare.

Sedute a respirare il profumo di dolci, Sianna decise di condividere il comportamento anomalo della Somma sacerdotessa e dei suoi adepti, non lesinando la propria perplessità circa la loro presunta aggressione da parte di briganti. Non disse nulla di Kii, non parlava mai della volpe e non era certa di averne il diritto, ma la perplessità generale venne rincarata da Marion e dalle sue difficoltà divinatorie, che lasciarono le sorelle confuse.

Sianna studiò le sue amiche, un gruppetto disparato di diseredate, e pensò che era spontaneo e naturale che fossero unite, che fossero proprio loro le sue compagne di ventura e nessun altro.

Nella sua infanzia avvicinarsi ad altri bambini le era stato impossibile: qualcosa in lei inquietava chi le stava attorno, e la fama di sua madre l’aveva resa avversa ai suoi coetanei. La chiamavano “la regina dei pezzenti”, per i suoi abiti splendidi e l’aspetto regale così in contrasto con l’ambiente in cui era nata e cresciuta, e per lungo tempo solo Ynyr era stato il suo scudo contro la cattiveria degli altri ragazzi. Poi, aveva conosciuto Kea, quarta di sette fratelli, tutti all’apparenza normali, completamente diversi da lei che pareva estranea alla propria famiglia. Da quando era venuta alla luce, suo padre l’aveva osservata come un’intrusa e aveva iniziato a maltrattare la madre, che in paese da quel momento non aveva più goduto di buona fama. Per questo, anche la sua migliore amica era sempre stata respinta, e trovarsi per loro era stato semplice come respirare.  

Era stata però Marion, che si era stanziata in paese insieme ad un gruppo di gitani erranti, a creare un legame fra loro e le gemelle, adottate dal panettiere a cui Sianna rubava le focacce e cresciute come figlie sue nonostante tutto. Nessuna di loro rientrava nei canoni di ciò che era socialmente accettabile, per questo forse, era normale che si fossero trovate e che nel tempo il loro legame si fosse rafforzato spontaneamente.

«Come mai non hai provato ad origliare quello che avevano da dirsi?» domandò infine Lisanda, poggiando il viso tondo nelle mani a coppa.

«Non avrei potuto, mia madre mi conosce abbastanza, sa prendere i suoi provvedimenti»

Iris accennò un sorriso malizioso «Sbatti quei begli occhioni che ti ritrovi, e Henry ti dirà ogni cosa»

«Sempre che ci sia qualcosa da sapere» specificò Kea «Vorrei ricordarti Sianna, che hai il brutto vizio di viaggiare molto con la fantasia»

«Ti dico che è successo qualcosa, è stato come una stretta allo stomaco, io lo so che c’è qualcosa che non va»

Ma anche ad esserne certa, era consapevole al contrario delle altre, di come Henry e Daniel sapessero essere ermetici quando non desideravano lasciar trasparire nulla.

«Dici che verranno oggi?» domandò Lisy dopo un istante di ponderato silenzio.

Sarebbe stato scontato, normalmente, vederli comparire all’orizzonte, se fosse stato un giorno qualunque di una visita qualunque i ragazzi l’avrebbero trascorso con loro, ma Sianna sentiva che non si sarebbero mostrati.

«No, non vengono» la precedette Mari, inclinando il capo all’indietro per perdersi a contemplare le fronde tinte di un blu cupo. Il sole stava calando, era già pomeriggio inoltrato e le poche ore di luce a loro concesse si erano consumate. Le bancarelle del mercato iniziarono in ordine sparso ad essere rischiarate con le lanterne colorate, le persone nei dintorni si erano diradate.

Presto, si sarebbero accese le luci dei lampioni e le fiammelle sottili e calde avrebbero illuminato le vie, dando un nuovo volto, più intrigante e magico, al paesino.

«Qualcuno di voi ha visto Ynyr? Oggi è sparito»

«Io» asserì la gitana con un sorriso «Stava bighellonando al mercato, credo abbia combinato qualche disastro. Non ho capito bene, ma stava scappando»

Sianna si lasciò sfuggire una risata «Com’è che non mi meraviglia? Gli tolgo gli occhi di dosso per qualche ora e lui distrugge il mondo!»

«Senza di te ha la noia facile» borbottò Lisanda «è una vera seccatura, quando vuole sa essere un moccioso»

Iris le afferrò un orecchio e lo tirò bruscamente «Ma sentitela, come fa la dura. Poi te lo trovi davanti e le gambe ti si sciolgono. Almeno non dire niente!»

«Ehi ma l’hai guardato? Perché è il fratellino di Sianna, se no un pensierino qui è scappato a tutte, non fate finta di no!»

«Lisy, Lisy, con te mi arrendo. Vado a cercarlo, e se scopro qualcosa domani vi racconto»

Si congedarono con un cenno della mano, e Sianna non imboccò la strada di casa ma una via che serpeggiava in salita sul fianco della montagna. La strada lastricata, inizialmente accompagnata da case eleganti degli abitanti più facoltosi del paese, scivolava in un sentiero sempre più isolato che conduceva alla fine ad uno sperone che sovrastava il piccolo borgo. Da quella posizione privilegiata, era possibile ammirare Glenn Dubhar dall’alto e la sera, nell’oscurità, le infinite fiammelle che prendevano il posto della pallida luce solare sembravano un mare di stelle, come guardare un cielo al contrario.

Di solito, quello era il luogo preferito da Ynyr, era lì che trascorreva il sottile lasso di tempo che divideva il giorno dalla notte e a volte le concedeva di condividere con lui quel silenzio. Cosa pensasse non le era dato saperlo, né aveva mai voluto chiederlo, perché con suo fratello aveva imparato che domandare non premiava. Si accontentava di sdraiarsi accanto a lui e di tenergli la mano.

Quando giunse sul dirupo l’oscurità si era ormai infittita e di Ynyr, con sua sorpresa, non c’era alcuna traccia. Si sedette nell’erba umida per riprendere fiato e guardarsi un po’ attorno. Probabilmente il fratello era rientrato, ma non si spiegava come non lo avesse incontrato mentre ripercorreva la strada al contrario.

La perla di Kii, adagiata sul suo seno, emanava un lucore opalescente e sinistro nel buio, la accarezzò piano con le dita lunghe e sottili e pensò che quella giornata aveva in sé veramente qualcosa che la turbava senza che riuscisse a darsene ragione. La mano sinistra, su cui palmo svettava la cicatrice traslucida di una luna in fase calante, le pizzicava, un bruciore leggero ma costante, che stava diventando un tormento difficile da ignorare.

Henry e Daniel erano stati assenti a lungo, durante la loro ultima permanenza si erano trattenuti solo pochi giorni, e per questo si sentiva stranita, non si aspettava certamente dai due amici tanta compostezza e quell’atteggiamento pieno di segreti, soprattutto non dal suo migliore amico.

Una mano si posò senza preavviso sulla sua spalla e Sianna sentì il cuore salirle in gola insieme ad un urlo di terrore. Scattò con un balzo di fianco e cadde sdraiata a terra, proteggendosi istintivamente con le braccia il viso incrociò gli occhi del suo assalitore che stava sorridendo, e all’urlo seguì un’imprecazione.

«Ma che diamine ti passa per la testa, vuoi farmi venire un attacco di cuore?»

Il ragazzo sollevò con la punta del dito indice il cappellaccio di iuta a rivelare la chioma castana chiara che gli nascondeva parte del volto. William era un bel ragazzo, ma c’era qualcosa in lui che non la rassicurava, forse solo a causa delle parole pregiudiziose di suo fratello nei riguardi del giovane sacerdote.

«Mi hanno mandato a cercarti, devi rientrare subito a casa»

«Cosa saresti, una badante?» si rimise in piedi scocciata e si ripulì il vestito dalla polvere sbattendo la gonna con le mani.

«Ne senti il bisogno?» ammiccò lui, sembrava divertito ma l’oscurità mangiava ogni sua espressione e rendeva la situazione per lei piuttosto imbarazzante.

«Tante grazie, ma non ho certo bisogno del tuo aiuto per tornarmene a casa mia, la strada la conosco benissimo» gli fece una smorfia infantile e pensò di allontanarsi in modo molto teatrale e sentito, giusto per fare la sostenuta, quando al primo passò si bloccò realizzando una banale ovvietà che le era sfuggita.

«Non ti hanno mandato… ti ha mandato» inarcò un sopracciglio e impresse nella piega della bocca tutto il suo disappunto.

William scrollò le spalle «Cosa te lo fa credere?»

«Che sai perfettamente di chi sto parlando Will, e conosci questo posto. Mia madre non lo sa, nemmeno Henry ne è a conoscenza»

Il sacerdote sollevò le braccia in segno di resa «Già, mi ha mandato tuo fratello»

«E perché di grazia non si è fatto vivo personalmente?» ringhiò, ma non era arrabbiata con William: era Ynyr ad averla in qualche modo seccata, condividendo senza uno straccio di motivo un segreto che era appartenuto a loro per tanto tempo.

«Perché vostra madre ha voluto così. E ci ha anche espressamente ordinato di riportarti indietro subito»

Marilien aveva una tendenza al dispotismo, non solo con i suoi stessi figli, con chiunque, era abituata a impartire ordini e ad essere ubbidita. Per questo la gente aveva paura di lei, era una donna forte, indipendente, e qualcosa di lei lasciava un’impressione di spietata crudeltà: una donna senza un uomo, che non necessitava di un uomo, in un paesino così isolato era una realtà inconcepibile. Tuttavia, quella richiesta non aveva senso.

«È davvero successo qualcosa mentre venivate qui»

«Sianna, rientriamo»

«Non voglio che mi dici cosa. Ho solo bisogno che mi confermi che non sto delirando. Che questa strana sensazione è reale»

William chinò il capo e la tesa del capello oscurò definitivamente il suo volto «Se ti dico di sì ti deciderai a seguirmi?»

Sianna contrasse la mascella, in un moto di stizza «Solo se è vero»

«Sì» sospirò il sacerdote, passandosi una mano sul collo «Sì, e ora preferirei non dover restare qui, mi sentirei più tranquillo al riparo»

Si morse il labbro inferiore, poi annuì.

Il ragazzo le diede le spalle e si avviò lentamente, per darle il tempo di metabolizzare la sua confessione e di seguirlo, e Sianna guardò quella mantella marrone rigida e pesante muoversi, il bavero che gli nascondeva il collo, i bordi slabbrati che strisciavano al suolo, guardò la sua schiena per qualche istante: avrebbe voluto chiedere di più.

Gettò un’ultima occhiata oltre il precipizio, ad ammirare con confusa inquietudine i contorni, appena marcati nella notte, delle montagne all’orizzonte, nere più del cielo che era rischiarato da una grande luna, sanguigna di un riflesso aranciato. E mentre i suoi occhi cercavano i flebili raggi lunari, una nube sinistra ne offuscò la luce spettrale: un solo, breve istante che la colpì con una scarica di panico, un’energia dolorosa che le percorse le membra e sembrò concentrarsi come un marchio a fuoco sul palmo della mano sinistra. Si afferrò il polso e strinse forte le dita, in un gesto istintivo che non poté lenire il bruciore.

«Will» gridò, richiamando l’attenzione del ragazzo «Will, hai visto?»

William non si avvicinò, si voltò a guardarla, e la sua voce risultò stranita e estraniante, senza l’accompagnamento di un’espressione «Cosa?»

Per un momento, Sianna pensò di dirgli che aveva visto qualcosa. Poi però, si sentì sciocca.

«Niente, arrivo»

Lo raggiunse con una leggera corsa, ed insieme attraversarono la rada macchia boscosa che circondava il sentiero e imboccarono la strada del rientro. Entrambi non fecero nulla per riempire il vuoto silenzio che li stava accompagnando e Sianna si perse nella contemplazione delle abitazioni tanto familiari cercando di trarne un senso di sicurezza: i tetti bassi e spioventi, i comignoli, le piccole finestrelle e l’edera e il muschio sulle facciate mangiate dall’umidità.

Quando giunsero sulla soglia di casa sua, William non entrò, si limitò a congedarsi, lasciandola se possibile solo più frastornata. Fu sua madre a spalancare la porta con troppa energia, facendola sussultare per lo spavento e la sorpresa.

«Entra, immediatamente» la collera permeava le sue parole e quel tono insolito.

 

Non è solo rabbia, è paura.

Ha paura

 

Lo comprese immediatamente, appena incrociò gli occhi verdi, duri come pietre opache, di Marilien.

Mosse il suo assenso con uno scatto repentino del capo e si affrettò a chiudersi la porta alle spalle. Ynyr era già accomodato su una delle poltrone della sala, sprofondato fra i cuscini con atteggiamento annoiato, e il viso, sostenuto pigramente dalla mano, era rivolto al tavolino che proprio lui aveva ribattezzato “delle ramanzine”.

Sianna lo raggiunse e si sistemò sul bracciolo libero della medesima poltrona, per sentire al suo fianco la presenza rassicurante del corpo di Ynyr.

«Cosa sta succedendo?» gli bisbigliò urtandolo appena con il gomito. Il fratello sollevò gli occhi freddi su di lei: l’aria indifferente celava in realtà una perplessità che Ynyr non voleva mostrare, troppo orgoglioso forse di manifestare della curiosità.

«È da quando sono tornato che fa così» rispose accennando a Marilien, che inquietamente restava vicino alla soglia e osservava l’esterno dal vetro della finestra «Pensavo le fosse arrivata voce della discussione che ho avuto oggi, ma mi sbagliavo»

Sianna corrugò la fronte, esasperata. Era dunque per quello che Mari lo aveva visto allontanarsi con urgenza dal mercato, era probabilmente arrivato di nuovo alle mani con qualcuno, non se ne meravigliava, suo fratello era un’attaccabrighe senza speranza.

Il rumore della serratura, e poi la porta scattò di nuovo, e stavolta fu Korakas a palesarsi, con il fiato pesante.

«Come è la situazione?»

L’anziana le lanciò un ammonimento con lo sguardo «Devi venire, è urgente»

Marilien deglutì a stento e solo allora parve ricordarsi di loro «Dovete ascoltarmi attentamente» esordì fissandoli da lontano, senza avvicinarsi «Non uscite da qui per nessuna ragione, finché non torneremo»

Sianna si aggrappò alla casacca di Ynyr quasi senza accorgersene «Mamma, che ti prende?»

Ynyr coprì la sua domanda bisbigliata alzandosi in piedi di scatto «Non mi piace questa situazione» dichiarò con forza, le labbra strette ridotte ad una fessura collerica.

Marilien sussultò ancora, ma si riprese in fretta e non rimbeccò suo fratello, nonostante difficilmente tollerasse quei modi irrispettosi.

«Ynyr, controlla tua sorella, fidatevi di me e restate qui finché non torneremo a prendervi. È troppo pericoloso, dobbiamo essere certi che sarete al sicuro. Quindi non azzardatevi a fare qualcosa senza di noi»

Se ne andò lasciando il tonfo del legno che sbatteva contro il muro come eco delle sue parole. Allora Sianna, allibita, cercò certezze in Ynyr e si sentì smarrita quando riconobbe in lui la medesima insicurezza, una maschera che non si addiceva al viso di quel ragazzino arrogante.

«Cosa facciamo?»

«L’hai sentita» disse lui sospirando frustrato «Aspettiamo e quando torneranno le costringeremo a dirci cosa diamine le è preso per comportarsi in questo modo»

Sianna annuì ancora e prese un leggero respiro «E tu invece, cos’hai combinato? Un’altra rissa?»

La smorfia d’Ynyr si trasformò istantaneamente in un sorriso ferino provocatore «Lo sai che sono una persona espansiva, mi piace donare il mio affetto al prossimo»

«Già, non oso immaginare il tuo “affetto” che effetto abbia avuto sul quel povero sventurato»

Ynyr ridacchiò, le andò vicino passandole una mano fra i capelli prima di sfregare con energia, arruffando la sua chioma già di per sé scompiglia «Su quei poveri sventurati, intendi? Non preoccuparti, il mio amore rende gli animi docili, sorellina. Non dovresti dubitare mai di me»

«Sì, sei alla stregua di un santo, lo pensano tutti»

Il fratello sfoderò la sua espressione più tenera, per ammorbidirla, e Sianna si ritrovò a sollevare gli occhi al soffitto pensando che con lui poteva solo perdere, era troppo bello e consapevole del suo ascendente sugli altri per sperare di spuntarla con lui.

«Chiamami quando “la strega” torna» le disse calcando quell’appellativo che usava spesso, in maniera ironica, per provocare loro madre.

Confermò con uno sbuffo e lo seguì con lo sguardo mentre saliva le scale e spariva alla sua vista, lasciandola sola. Scivolò nella poltrona finalmente libera e vi si accoccolò come faceva da bambina: avrebbe preferito che Ynyr rimanesse con lei, perché sentiva una morsa gelida allo stomaco che le rendeva difficile persino deglutire, ed un disagio inspiegabile le si stava insinuando sotto il costato, quasi rarefacendo l’aria che le entrava nei polmoni, le sembrava di annaspare.

Cercò di combattere quelle sensazioni negative e, ad occhi serrati, riuscì a scivolare in uno spiacevole dormiveglia. Si svegliò di soprassalto, non seppe neanche lei dopo quanto tempo, a causa di un assordante frastuono proveniente da fuori.

Balzò in piedi, come non si fosse appena svegliata, e corse alla finestra, spalancando l’imposta di legno accostata. Nel buio, il bagliore delle lingue di fuoco protese verso il cielo con i loro colori troppo vividi la accecarono, la vampata di calore le bruciò le guance, una patina umida le impastò gli occhi e si portò una mano al volto per proteggersi.

Erano le grida ad averla svegliata, urla così strazianti da riempire ogni silenzio, e Sianna scoprì di non essere in grado di muoversi per il timore.

«Sianna!»

Si aggrappò allo stipite di legno e lo strinse con tutte le sue forze, fino a farsi male. In quel frastuono le era parve di sentire il suo nome, ma non le importava, il panico l’aveva inchiodata al pavimento, le gambe le stavano cedendo e fu costretta ad accasciarsi con la spalla contro il muro per non crollare.

 «Sianna maledizione!»

Ynyr l’afferrò bruscamente per il braccio e la costrinse a voltarsi. Era così inerme in quel momento, che gli si accoccolò semplicemente contro il petto, alla ricerca di un punto stabile a cui affrancarsi.

La stanza si stava riempiendo di fumo e il suo odore acre le bruciò il respiro.

«Perché non rispondevi? Stupida, ero preoccupato da morire! Stai bene, vero?»

Le prese il viso fra le mani e Sianna si aggrappò alle sue braccia e cercò nelle sue iridi azzurre la razionalità che sentiva sfuggirle. Seguì la forma snella del polso e la mano nervosa del fratello, trovò le sue dita magre, serrate con troppa forza sul suo volto, e le strinse a sua volta, annuendo disperatamente. Ynyr era lucido, i suoi tratti inflessibili ed eterei erano la sua sola, solida certezza, per questo Sianna non esitò a seguirlo quando il ragazzo le agguantò il polso e la trascinò con sé, spalancando la porta.

Si misero a correre, il calore che aveva avvertito non era niente in confronto a ciò che l’attendeva fuori. Il fumo annebbiava le strade invase di persone, la temperatura insostenibile le imperlò la fronte di sudore che già le entrava negli occhi, offuscandole la vista.

In un attimo si ritrovò risucchiata dalla folla, compressa fra più corpi, il braccio di suo fratello si stava tendendo sempre di più e Sianna già non riusciva più a scorgere la sua schiena. Le troppe urla coprivano il suo disperato tentativo di richiamare Ynyr e per quanto non smettesse di provarci, scorticandosi la gola ancora e ancora, suo fratello procedeva stringendola tanto forte da farle male. Temeva che quella tensione le avrebbe dislocato una spalla, cercò di dimenarsi, per farlo voltare, ma era troppo debole, estraniata da se stessa, come se quel disastro non si stesse consumando realmente davanti ai suoi occhi. Le grida di terrore, le abitazioni preda delle fiamme come torce accese, l’eccessivo calore e la confusione, c’erano emozioni così forti intorno a lei, così soverchianti, che realizzò di non poterle gestire, di star perdendo il controllo del proprio corpo.

Alzò in un ultimo, apatico gesto lo sguardo al cielo, e in quella notte di luna rossa, ancora una volta, vide un’ombra oscurare i raggi lunari. Un’altra scossa, come fuoco liquido, le percorse ogni terminazione nervosa e si raccolse nella mano che suo fratello stringeva con tanta prepotenza. Il dolore inaspettato le fece cedere le gambe ed un urlo lacerato le graffiò la gola, per il contraccolpo la presa d’Ynyr venne meno e Sianna si ritrovò a terra, in balia di una folla impazzita che la colpì senza pietà.

Le imprecazioni e le urla si mescolavano al pianto dei bambini, le persone incespicavano urtandola, qualcuno inciampò e cadde malamente disteso, in pochi attimi fu calpestato e i suoi lamenti si spensero in un mormorio indistinto. La macchia di sangue si stese sotto il suo corpo fino a raggiungerla e a inzupparle il vestito, le pietre divennero scivolose, molti slittarono e altri ruzzolarono venendo mangiati da quell’ammasso di carne e terrore compresso.

Una ginocchiata, colpendola con particolarmente forza alla testa, la fece capitolare e si ritrovò a carponi, a lottare per non svenire, per restare presente a se stessa, perché lo sapeva che se le braccia avessero ceduto anche lei sarebbe morta calpestata da quella miriade di persone raccolte in un fiume in piena privo di raziocinio.

«Sianna!»

Tra i gemiti e le voci che si sovrapponevano in pianti e suppliche, le parve di sentire indistintamente il suo nome, urlato da qualcuno che non riuscì a vedere né identificare, e sperava davvero che fosse suo fratello, voleva solo buttarsi tra le braccia di Ynyr ma un’altra ginocchiata al costato la fece accasciare: non le permettevano di rialzarsi e la stavano distruggendo. Il panico le stava portando via il respiro, non poteva chiedere aiuto e comunque quella poca coscienza che ancora le restava le permetteva di comprendere da sé che nessuno l’avrebbe notata.

Poi, un tuono improvviso, un sibilo lontano ed una casa scoppiò in un ventaglio di schegge che colpì indistintamente gli abitanti. Un uomo le cadde riverso addosso, un frammento di legno grande quanto un braccio conficcato in testa, e Sianna urlò, dando sfogo a tutto il suo orrore, ma ormai le braccia avevano ceduto, era bloccata da quel peso morto e dalle ferite, aveva respirato troppo fumo e la mano continuava ad emanare fitte di rovente dolore.

Grida acute e singhiozzi le riempirono le orecchie, si rannicchiò più che poté sotto il cadavere, usandolo come scudo, non voleva pensare che fosse un corpo, non voleva credere che, probabilmente, sotto tutto quel sangue che le colava addosso ci fosse un volto che aveva conosciuto bene.

Il peso delle persone che, calpestando il morto, la comprimevano con brutalità al lastricato, schiacciandole la guancia contro la pietra viscida di sangue, la stava soffocando, si affrancò con le unghie al terreno fino a spezzarsele, qualcuno le calpestò le dita e non riusciva a trattenere i singhiozzi e le lacrime per il male che la stava attanagliando e la paura che le comprimeva l’esofago le ripeteva che sarebbe morta senza poter nemmeno provare a fuggire, e non avrebbe rivisto Ynyr.

«Iris! Tieni Marion, non lasciarla!»

In uno degli ultimi barlumi di presenza, mentre sentiva la coscienza spossata scivolare nel nulla, le parve di riconoscere la voce di Lisanda nel tumulto.

 

Forse sono qui vicino.

Forse, quando il disastro è scoppiato, sono venute a cercarmi

 

Non lo avrebbe mai saputo, non l’avrebbero potuta vedere nemmeno volendo e, per quanto lo desiderasse, non aveva modo di palesare la sua posizione, non ne aveva la forza, era spezzata e l’unico motivo per cui ancora era viva era grazie a quel cadavere che si era frapposto fra lei e la calca. Le parve ancora di udire il suo nome, ma tutte le sue percezioni erano ridotte ad un brusio sommesso e vago e persino il dolore ormai si era ritirato, la sua mente si era distaccata dal suo corpo e l’unica cosa che percepiva ancora con chiarezza era solo costante e sottile bruciore alla mano sinistra.

Chiuse gli occhi e si lasciò scivolare nell’oblio, senza opporsi.

Una voce, un suono vago, distante.

Ed il suo nome, ripetuto in una cantilena che rimbombava in un’eco nella sua testa, ma era come una fioca fiammella sommersa dal buio che lentamente andava spegnendosi. A tratti risorgeva unicamente per essere inghiottita di nuovo dall’oscurità.

Credeva ormai di non poter sentire più nulla, quando il peso enorme che la comprimeva al suolo venne d’improvviso a mancare. Il corpo era stato spostato, eppure nessuno la stava calpestando e d’istinto i polmoni si aprirono in un doloroso respiro, a cercare d’incamerare più aria possibile che le causò un eccesso di tosse.

Si portò la mano martoriata alla bocca, si restrinse come un feto e tossì ancora liquido denso e viscoso. Qualcuno non aveva smesso di vomitare parole, ma tutto si confondeva nel chiasso e nelle grida sbraitate di paura e collera e un sibilo sinistro le riverberava nelle orecchie ovattando ogni cosa.

Finché una mano non si affrancò alla sua e la sollevò di forza.

«Resistete! Dovete resistere!»

E ancora «Sianna! Sianna aiutami! Devi rialzarti! alzati!»

Le palpebre erano incollate, appiccicose di pianto, realizzò mentre le sollevava a fatica insieme al proprio corpo, lottando contro il sonno che l’aveva ghermita per rimettere a fuoco la situazione. Sfocate dalla patina umida, riconobbe i volti delle amiche come in sogno, strette attorno a lei in una catena che cercava di non farsi trascinare via, per concederle almeno quei pochi secondi necessari a farla rialzare. Era la mano di Kea, quella stretta attorno al suo polso, era il suo viso sudato, macchiato da un rivolo di sangue lungo la tempia e colmo di orrore a scrutare i suoi occhi alla ricerca di lucidità.

Furono pochi secondi che le parvero dilatati in interi minuti, ma che in realtà si consumarono nel rumore di un’altra esplosione, un boato che sovrastò ogni parola. La resistenza delle gemelle e di Marion venne a mancare sotto una nuova spinta, e compresse l’una sull’altra si ritrovarono a seguire il flusso, aggrappandosi l’una alle vesti dell’altra per non smarrirsi.

Come l’avessero trovata, che cosa stesse accadendo, con quale forza erano riuscite ad impuntarsi per prestarle aiuto, erano interrogativi che scivolarono via rapidi come si erano formati. Sianna sentiva solo che non doveva perdere conoscenza, doveva distogliere l’attenzione dal dolore perforante che le ustionava la mano come stesse stringendo braci ardenti.

Si guardò attorno disperatamente, il viso che quasi premeva contro la schiena della persona che la precedeva -non riusciva a distinguere nemmeno se fosse uomo o donna- nella speranza di riacciuffare l’immagine di suo fratello, mangiata da numerosi volti indistinti.

Urlò il suo nome fino a scorticarsi la gola riarsa, graffiata da tutto il fumo inalato e dal calore bruciante che le toglieva il respiro, urlò sapendo che Ynyr non avrebbe mai potuto sentirla. Cercò allora di scivolare verso il bordo della strada, per non essere più trascinata e avere almeno una speranza di salvarsi.

La porta di una casa in fiamme venne sfondata dall’interno ed un uomo corroso dal fuoco ne uscì urlando atrocemente, creando uno spostamento istintivo delle persone che aprì un leggero, piccolo varco. Sianna vi si sospinse, seguita dalle ragazze di cui sentiva ancora la presa sulla veste.

Agghiacciata, guardò quella che ormai era solo la sagoma di un essere umano consumarsi lentamente sul ciglio della strada, l’odore di carne cotta la prese alla gola e le causò un conato.

Alzò gli occhi al cielo, deglutendo piano per non rimettere, e in quel momento si accorse, con sgomento, di ciò che stava per accadere.

Sugli speroni delle montagne che circondavano il villaggio, che l’avevano sempre protetto, si accesero come inquietanti lumini sospesi nel vuoto, come centinaia di nuove, piccole stelle, delle luci. Fu questione di un attimo, il tempo che Sianna ci mise per gridare con tutta la sua voce «Abbassatevi!»

Centinaia di frecce infuocate vennero scagliate all’unisono e si abbatterono sulla popolazione ammassata nella via principale facendo sollevare al cielo strazianti lamenti di dolore.

Quella sofferenza travolse Sianna come un’onda alta, sbattendola a terra, boccheggiante e senza fiato. Con uno strattone si liberò dalla presa di Kea. Si portò le mani al viso, conficcò ciò che restava delle proprie unghie nella carne e cadde in ginocchio, senza più fiato per respirare. Le guance erano bagnate di lacrime per un male che non le apparteneva, ma da cui non riusciva a scindersi, un male che la torceva in spasmi che le percuotevano ogni muscolo, facendola tremare visibilmente di angoscia.

In quell’ultimo momento disperato, quando pensava di accasciarsi contro il freddo acciottolato, a ridosso del muro di una casa, sentì ancora una volta qualcuno tendersi verso di lei e liberarla dalla gabbia di dita dietro la quale si stava nascondendo per non dover vedere.

Una mano s’intrecciò alla sua, una mano familiare, nervosa e affusolata, forte di tendini tesi e scattanti, una mano che con un solo tocco dissipò i sentimenti altrui, scacciandoli con la sua calma serena.

«Resta presente Sianna! Sianna, non svenire!»

La voce calda d’Ynyr la risvegliò, riconobbe il suo volto sbattuto e ferito, sfigurato dalle contusioni e dal sangue e, prima di rendersene conto, si era già lanciata verso di lui, si era aggrappata alle sue spalle con la forza della disperazione. Schiacciati contro la parete di pietra non riuscivano a muoversi, ma perlomeno la folla era meno forte e non poteva trascinarli con sé.

«Qualunque cosa succeda, non lasciare la mia mano»

Si guardarono negli occhi per un lungo, surreale istante, e in quell’inferno, con la sua piega ferina e sbilenca, Ynyr le sorrise.

Anche Sianna riuscì a sorridergli.

 

 

 ANGOLO AUTRICE

Rieccomi, dopo una vita!

Essendo io emblema d’insicurezza e problematicità e avendo ricevuto poco riscontro tra i lettori, avevo deciso di lasciar perdere, ma questa storia ce l’ho in testa praticamente tutti i giorni e ci impazzisco. Per questo, grazie anche alla dose di autostima fornita gentilmente da una mia amica, ho deciso di riprovare.

È passato molto tempo, ma spero di ritrovarvi tutti e se ci fosse qualche nuovo venuto, beh, benvenuto! Stavolta, cercherò di essere meno assenteista, non sono mai troppo costante, ma farò uno sforzo.

Recensire è gratis e fa la gioia delle persone (e magari le aiuta anche a migliorare un pochino, che qui la passione è grande ma la capacità un po’ meno!), perciò se vi viene in mente qualunque cosa da dirmi, ditela e ne sarò felicissima!

A presto

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Capitolo 8
*** Capitolo sesto ***


L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO SESTO

 

Quando giungeva Udara, insieme ad un caldo torrido e appiccicoso, si allungavano le ore, ed il tempo sembrava non riuscire più a scorrere con fluidità. Le campane dovevano suonare ancora una volta, prima di mezzogiorno, eppure il sole non aveva ancora raggiunto il suo zenit e la sala del trono restava in una dolce penombra, dovuta soprattutto alle spesse vetrate colorate che lasciavano riverberi arcobaleno.

Le tribune che costeggiavano il grande salone iniziavano lentamente a popolarsi di nobili, e Aodh seguiva placidamente, con lo sguardo, il percorso dei singoli mentre raggiungevano il posto che a loro era stato assegnato. I più disparati colori erano legati l’uno all’altro, in una raccolta di abiti sfarzosi ed eccentrici provenienti dai quattro angoli del Regno, in un eccesso che in alcuni casi riusciva a risultare fuori luogo, quasi imbarazzante.

Duchi, marchesi, Conti, visconti, baroni, signori e semplici aristocratici.

Erano stati richiamati tutti a Sehar, un evento quasi unico a cui Aodh aveva a lungo sperato di non dover mai assistere.

Contrariamente a molti, il Marchese di Arboris non riusciva a rilassarsi. I suoi nervi fragili lo avevano sempre reso una persona ansiosa, quasi nevrotica, e i lunghi giorni di viaggio per raggiungere la capitale, insieme a quella missiva che ancora stringeva stropicciata tra le mani - inviatagli da Golvan, il segretario del sovrano, e firmata da tutti e nove i conti palatini- non avevano contribuito positivamente al suo precario equilibrio interiore.

Da circa un lustro aveva ereditato il titolo dal padre defunto e si era trovato nella scomoda situazione di dover far fronte ad un territorio instabile e alle richieste capricciose e irragionevoli di Re Edward, e per questo temeva, forse più di tutti, un confronto diretto con il sovrano, un uomo tanto ambizioso di fama quanto spietato.

«State sudando» lo riprese bonariamente Tighe, seduto accanto a lui, con un sorriso paziente. Era un uomo di mezza età, ingrigito e segnato, eppure, per contrasto, la sua indole era serena e pacata, guidata da un forte senso di giustizia e fermezza che la vita non aveva sporcato.

Aodh lo squadrò con le sopracciglia contratte e pensò che era quella sua condizione di nobile minore a tutelarlo. La casata dei Torquall era vassalla della casata di Arboris da quasi un secolo, e il titolo di Barone garantiva ricchezze e responsabilità su porzioni di terre limitate. Per quanto Tighe fosse uno dei suoi consiglieri e compagni più fidati, non poteva comprendere le preoccupazioni che lo muovevano. Il conflitto con le terre di Samhradh, che da anni rendeva il confine una trincea, dopo la morte di suo padre si era acuito per colpa delle Driadi, che avevano scatenato una rivolta nei territori che già da decenni erano stati conquistati e integrati da Sideris.

Aodh si era ritrovato impreparato di fronte alla poca autorità che lui e i suoi baroni riuscivano ad esercitare su quel piccolo popolo di selvaggi.

«Non dovresti essere tanto sereno. Non stai considerando i fatti. Tutti i conti palatini hanno ritenuto di dover coinvolgere il Re in una questione giuridica, se noi ci troviamo qui. In uno stato normale, non lo avrebbero mai fatto, sono troppo ubriachi del potere che possono esercitare al di là del Re per limitarsi volontariamente. E questo ci pone di fronte ad un problema di una certa importanza»

Gli angoli della bocca del Barone si ritirarono, per lasciare il posto ad un’espressione contratta, assorta quasi.

«Cosa intendete dire?»

Il marchese scosse il capo piano, insicuro.

«Non lo so nemmeno io. Ma una causa tanto grande da spingere Re Edward a radunare tutti i propri feudatari, non sono sicuro di volerla conoscere.»

«Non pensavo fosse questo ad angustiarvi»

«Dovrebbe angustiare tutti. Guardaci. Sta succedendo qualcosa, qualcosa d’importante. E sarò un vigliacco, ma vorrei non doverne fare parte»

Le voci concitate che avevano riempito il salone di suoni cessarono all’improvviso quando, precedute da un cigolare pesante, le porte principali destinate alla famiglia reale si aprirono lentamente. Con solennità, due araldi si fecero avanti e annunciarono l’arrivo del Re, che fece loro seguito insieme alla sua scorta, la guardia reale.

Edward era un uomo dotato di una calma apparente inquietante e di profondi e sinistri occhi color pece, che Aodh aveva incrociato da vicino soltanto nell’infanzia, quando ad affrontarlo non doveva esserci lui ma suo padre. Il volto squadrato, ben curato, con un pizzetto spolverato di bianco a circondare la bocca sottile e severa, era quello delle sue memorie e di poco era mutato. La corona che gli cingeva la fronte, sormontata da quattro archetti e illuminata al centro da uno smeraldo grande quanto una noce, con l’anello ornato da pelliccia d’ermellino, nascondeva una chioma ora più rada e scolorita, nera come ali di corvo nelle memorie infantili del marchese.

Sembrava di molto invecchiato, ma l’età non lo aveva privato della forza crudele e prevaricatrice che era in grado di manifestare già solo con il suo incedere ponderato e distinto. Lo strisciare morbido del suo pesante mantello sulla pavimentazione accompagnò la sua studiata attraversata del salone, fino al capo opposto, dove sorgeva, su un piano rialzato, il trono.

Aodh si sentì incredibilmente piccolo e incredibilmente meschino, si guardò le mani contratte, strette l’una all’altra come in cerca di un appiglio, e provò solo vergogna. Il gravoso silenzio gli rese difficile deglutire.

Re Edward fece scorrere lo sguardo lento sulla sala e i presenti, prima di rompere il vuoto rispettoso che li aveva avvolti, ma quasi a volerlo far penare ulteriormente, non li informò della ragione di quel richiamo. Iniziò invece a interrogare i suoi vassalli per essere ragguagliato sulla momentanea situazione delle sue terre.

La parola passò al Conte Leheren Eguerdi di Meridiem, e poi ancora a Imanol Lanegun delle Idi.

«Che notizia abbiamo invece, riguardo al fronte di Samhradh?»

Il Re fece scorrere i suoi occhi severi sulle file di volti intimiditi, si soffermò sullo scranno che raccoglieva i Conti Palatini, ma i consiglieri tacquero ed in risposta, una piccola ruga andò a scavarsi tra le sue folte sopracciglia.

«Se il Marchese di Arboris rifiuta di prendere la parola, mi troverò costretto a chiedere al suo generale. Zilar, vuoi rispondere tu per il tuo padrone?»

 Aodh sussultò, colpito a tradimento. Guardò fugacemente Tighe in viso, per raccogliere il proprio coraggio, ma l’uomo era impallidito. Allora cercò Zilar, generale supremo delle truppe Sideriane del Sud, mentre in piedi, nella sua tenuta da parata, affiancava gli altri tre grandi generali a tutela dell’ingresso.

Il soldato, dopo un attimo di esitazione, fece un passo avanti.

«Vostra Maestà, le truppe sono infiacchite e il morale è basso. Earrach ha portato soccorso alla regione di Samhradh. Non hanno un vero esercito, ma agiscono in maniera scomposta, imprevista, e la loro conoscenza del territorio ci ha costretto a muoverci con più cautela. Oltretutto, presto dovremo ritirarci in attesa dell’Udaherria»

Re Edward annuì, palesemente contrariato.

Le regioni di Aimsir erano l’ultimo vero baluardo di difesa dei faerie insieme alla Regione dei Laghi. Le uniche terre dove ancora erano gli spiriti naturali a governare e il sangue degli angeli continuava a scorrere nei loro discendenti. Il precedente sovrano aveva intessuto dei rapporti di pace con il Conclave e gli Spiriti, ma Re Edward aveva abbandonato rapidamente questa linea di pensiero e prima che la Congrega potesse intervenire, aveva iniziato la lenta espansione dei propri domini.

«Il nostro marchese avrà una spiegazione plausibile, ovviamente, e saprà dirmi perché il mio esercito non sta avendo il supporto che mi era stato garantito»

Il Sovrano si rivolse a lui personalmente, e Aodh fu costretto ad alzarsi in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi per non mostrare cedimento.

«Le Driadi si sono rivoltate, Vostra Maestà»

«Le Driadi? Non erano ormai state sottomesse molto tempo addietro? Così mi aveva assicurato il Marchese vostro padre»

Aodh si sforzò di riordinare rapidamente i propri pensieri, per spiegare nella maniera più chiara e concisa l’instabilità della propria Marca, ma non ci riuscì.

Le Driadi erano creature dal sangue fatato che da secoli occupavano l’antica foresta di Keyll, ma suo padre aveva strappato quei boschi a Samhradh che lui era solo un bambino e da allora erano sotto la tutela del Marchese di Arboris. A causa della guerra aveva dato ordine di abbattere parte delle grandi sequoie che la caratterizzavano, per costruire gli avamposti e gli accampamenti, non aveva considerato che i selvaggi dei boschi non avrebbero approvato.

Il suo esercito si era spaccato su due fronti, ma la guerriglia interna si era rivelata tanto problematica quanto la sottomissione dei popoli delle steppe. Il legame che le Driadi avevano con l’ambiente naturale aveva sempre reso difficile i rapporti, ed ora rendeva ancor più complicato e insidioso lo scontro.

«Ho cercato di sedare queste sommosse, sto cercando di stanare i loro villaggi. Ma si sono nascoste, e delle truppe inviate in quei boschi quasi nessuna ha fatto ritorno». Il sudore freddo gli imperlava la fronte, chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e si decise a raccontare ogni cosa «I sopravvissuti delirano. Vaneggiano di spiriti evanescenti. Dicono che la foresta è maledetta, che l’hanno stregata, ed ora nessuno desidera più addentrarvisi»

Gli morì la voce e sobbalzò quando il sovrano, furioso, batté con forza il pugno sul bracciolo del trono. Il tonfo si propagò macabro nella sala.

Aveva sentito voci in passato, leggende forse, ma che lo avevano terrorizzato. Si diceva che contrariando il Re si andava incontro ad un cappio, e Aodh tremava al solo pensiero. Sehar non era nota solo per le torri di vetro e i mostri di vapore, ma soprattutto per le forche e i corvi, per le crudeli manifestazioni di giustizia che il popolo apprezzava come un qualunque, innocuo spettacolo.

«Quante sciocchezze! Sanno usare la magia, ma non ci sono superiori. I maghi popolano il nostro Regno fin dai tempi più antichi, eppure ancora veniamo messi in ridicolo da simili trucchi!»

Lo urlò, e Aodh riuscì solo a incassare la testa tra le spalle, con il desiderio di potersi ritrarre il più possibile. Aggiunse flebilmente, più per giustificare se stesso che per coraggio «Non credo si tratti di meri trucchi di magia. Sembrerebbe siano Spiriti, a giudicare dai racconti oserei dire di Secondo Livello»

Edward rilassò le spalle e si appoggiò con atteggiamento annoiato allo schienale del suo trono.

«Spiriti non Tangibili dunque. Da quello che mi hai riferito, è probabile. Ora che la fonte del problema è stata identificata però, mi aspetto un immediato quanto decisivo provvedimento»

Aodh borbottò il suo assenso e tornò ad accomodarsi, la testa china per la mortificazione che lo stava divorando.

Il Re riprese a parlare, con voce tonante, ma il marchese non riuscì a guardarlo.

«Mi duole informarvi, compagni, che il motivo di questo mio appello improvviso non è dettato dall’incompetenza che alcuni tra noi stanno manifestando, quanto piuttosto, l’arrivo di una voce.

Una diceria che qualche uccellino ha portato da oltre i nostri confini. Una voce di tale portata che, se veritiera, potrebbe distruggere tutto ciò che abbiamo faticosamente costruito»

Le parole dell’uomo si depositarono con estrema pesantezza sul suo animo. Aodh le accolse, raccolto nelle proprie spalle, e un presentimento negativo gli accartocciò lo stomaco. Intorno a lui i nobili avevano incominciato a vociare, discorsi indistinti sovrapposti l’uno all’altro.

La mano di Tighe si posò sulla sua spalla, in un gesto di conforto e di sprono. Sentendo il peso familiare del supporto del suo vassallo e amico, Aodh si decise a risollevarsi. Edward si era alzato, si stava dirigendo con calma al centro del salone e lì, come il grande oratore che era, riprese

«Pare che il Conclave di Sirideainn si stia riunendo. I sovrani che ancora aderiscono al trattato postumo la Guerra dei Duecento anni sono stati chiamati a raccolta. E non solo loro. Pare che siano stati richiamati gli Spiriti e le Entità naturali»

Un momento di pausa e il Re iniziò a percorrere a passi lenti e soppesati la stanza, come ad aumentare un nervosismo latente ma già fin troppo pressante.

«La cagione di questa riunione della Congrega pare essere la guerra intestina che dilania Dubhar, oltre i monti Fengari, e tuttavia non dobbiamo sottovalutare la gravità di questo fatto. Certamente noi, che abbiamo infranto il trattato ed espanso i nostri territori, non passeremo impuniti. Il Conclave detiene, idealmente, un potere assoluto»

«Non sta dicendo quello che sta dicendo» mormorò Aodh, più a se stesso che al proprio vassallo. Deglutì rumorosamente e Tighe si chinò su di lui per bisbigliare «Che cosa ha in mente?»

Lo ignorava, ma una parte di sé aveva imparato a conoscere la tracotanza che caratterizzava Re Edward, ed era proprio quella parte a metterlo in guardia.

Il Sovrano placò i borbottii di panico che già si stavano sollevando dalla folla.

«Il Conclave ci confischerà terre e ricchezze. Con molta probabilità, deciderà di deporci per insediare nuovi membri, più disciplinati al loro volere»

Un’ondata di malcontento attraversò i presenti.

«Queste pecore non hanno capito niente!» commentò Tighe con sprezzò, ed il marchese non poté che trovarsi d’accordo con il proprio vassallo.

«Sta facendo leva sulla nostra ambizione. Credo di aver compreso quale sia la sua richiesta. Ma è folle, non può credere che verrà seguito»

«Da tempo siamo in disaccordo con la Regione dei Laghi, Menekse non ha mai approvato la nostra politica aggressiva, e di certo questo non è un mistero. Ma d’altronde, che può saperne una donna dei Faerie di come si governa un regno?»

Quell’ironia critica fu seguita da risate di scherno da parte di una buona fetta della nobiltà, e questo turbò Aodh.

 

Non basterà fare leva su Menekse e le sue manie pacifiste per spingerci ad un massacro.

 

Voleva convincersene, ma lo scetticismo cresceva dentro di lui a pari passo con il timore.

«Tutto questo preambolo ben orchestrato, Maestà, dove vuole condurci?»

Il respiro del Marchese si bloccò in gola e lo fece tossire. Era così assorto da non essersi reso conto che Tighe si stava animando, non aveva fatto in tempo a impedirgli di alzarsi in piedi.

Edward abbozzò un sorriso, una piega perversa delle labbra che non lasciava presagire nulla di buono, e riprese a muoversi, la mano infilata nella cintura e lo sguardo spavaldo rivolto verso l’alto.

«Menekse mi ha intimato di cessare ogni pretesa sulle regioni di Aimsir, se non desidero scatenare un conflitto che, arrogantemente, sostiene non possiamo vincere. È pura presunzione, da parte di quella… “donna”, credere di poterci irretire con poche, banali parole. Il Conclave ha perso prestigio e la Regione dei Laghi è in declino. È questa l’unica, inoppugnabile verità»

Un suicidio.

 Dichiarare guerra al Conclave era un suicidio.

Tighe, contrariamente a lui non riuscì a tacere «Il Conclave basa la sua forza su una rete di alleanze solide da secoli. Una guerra contro Menekse scatenerebbe un conflitto tale da coinvolgere tutte le Terre di Confine. Neppure la collaborazione di ogni nobile presente in questa stanza potrà garantirci la sopravvivenza. E se reagiremo, verremo messi in ginocchio senza pietà. Menekse sarà una donna, ma non conosce perdono. Non è saggio sfidare il Piccolo Popolo così apertamente. Il mio casato non acconsentirà»

«Maledizione idiota, siediti e taci» lo sibilò, anche se ormai era troppo tardi. Lo sguardo scettico e beffardo di Edward era già rivelatore.

«Sei molto ardito per la misera posizione che occupi» scrollò le spalle e si rivolse ai presenti tutti, come a sottolineare quanto poco Tighe contasse in quel frangente.

Una mosca che sfida un gigante, era l’unica impressione che Aodh aveva ricavato.

«Il regno di Dubhar è in miseria, i Clan si massacrano tra loro. L’Esperia si trova ancora a gestire le scorribande dei Clan dell’Est, e i territori che ci confinano a Ovest sono stati ormai occupati solo da gruppi di Nomadi. Mettendo in scacco l’Esperia, isoleremmo la Regione dei Laghi da Emer e dalle isole. Se mai si è presentata davanti a noi l’occasione per sciogliere il giogo che ci lega da troppo tempo al Conclave, è questa. Possiamo finalmente sottomettere i faerie e dominare la penisola»

I consensi furono molti.

Troppi.

L’odio per la congrega sarebbe stato la loro rovina, ed anche Aodh avesse voluto obiettare, non ne avrebbe trovato il coraggio, non finché si fosse trovato tra quelle mura. Sarebbe stato più sensato ritirarsi ad Arboris e, solo successivamente, rifiutare di rispondere al proprio vincolo vassallatico.

Non doveva essere l’unico ad averlo pensato, ma Tighe era impulsivo, e si stava scontrando con qualcosa di troppo grande anche se non voleva realizzarlo.

Infatti, non reo, tentò ancora di controbattere «Non dobbiamo lasciarci influenzare da questa rosea apparenza. Vostra Maestà, state dimenticando il vero nemico»

La sicurezza di Edward parve incrinarsi un poco, ma il sovrano dissimulò rapidamente il proprio sconcerto «Illustrami, ti prego»

«L’angelo»

La voce di Tighe aveva tremato, pervasa da un rispetto reverenziale nel solo pronunciare quella parola.

«L’angelo?»

«Sì. L’angelo che si vocifera da anni sia in possesso della Congrega. Se veramente a difesa del Conclave ci fosse un angelo, andremmo incontro alla nostra disfatta, per nuove terre e nuovi titoli»

Incredibilmente, alcuni annuirono, forse spaventati più dall’idea di quell’essere mitologico che dal sovrano.

Aodh non si unì a loro.

Conosceva la famosa diceria, ma aveva sempre pensato che fosse solo un ulteriore modo per sottomettere con il timore i Regni. Era un ragazzino, quando aveva saputo per la prima volta di questo fantomatico difensore del Conclave, era stato suo padre a raccontargli ogni cosa, lo aveva messo in guardia. Gli aveva sempre raccomandato di non commettere sciocchezze, quando fosse giunto il suo momento.

Lo aveva fatto anche in punto di morte, drenato dai salassi e schiantato dal tifo.

Eppure, ora vedeva in quel semplice uomo con una corona in testa un pericolo ben più pressante che in una leggenda popolare.

«Tra un Tempo esatto a partire da oggi, mi aspetto di ritrovarvi qui, prima del mezzogiorno. Ai presenti, illustrerò il motivo per la quale nulla abbiamo da temere da questo sedicente angelo. Diceria fomentata ai miei occhi solo per incrementare un potere che va spegnendosi»

Si sedette sul trono, la dignità che la sua figura un poco affaticata riusciva ad emanare, portava istintivamente a prendere in seria considerazione tutta la sua spavalda sicurezza.

«A coloro che stanno seriamente valutando di non presentarsi, ricordo il vincolo della promessa che ci lega. E alle conseguenze che, state certi, verranno scontate con gli interessi» un sorriso perfido e rilassato si dipinse sul suo volto di pietra.

Ancora una volta, Aodh chinò lo sguardo sulle proprie mani, torturate istintivamente per tutto il tempo di quella riunione.

«Mi giuraste fedeltà. Rispettate quel giuramento, e non incapperete nel disonore. Sono certo che fra trenta giorni avrò la risposta che mi aspetto di sentire»

L’assemblea venne sciolta e i dignitari cominciarono a confluire nel cortile esterno. Ancora carico di apprensione, Aodh si affiancò a Tighe in quella piccola folla, mentre scendevano la scalinata. All’aperto, lo colpì il profumo delle spezie, l’odore dei pasti caldi di mezzogiorno nelle vie cittadine che giungeva fino a lì. Il corrimano della scalinata, dalla forma sinuosa, era decorato a mosaico con frammenti di pietre colorate che creavano effetti geometrici, e decorate con ceramiche colorate a motivi floreali erano le grandi abitazioni nella zona più ricca della città.

Le cupole a bulbo di vetro delle torri del palazzo reale, con la strombatura ampia e le nervature esterne che ricordavano una spuma di crema, sotto il sole brillavano proiettando riflessi di luce sulle mura colorate dell’edificio e le tegole vivaci.

C’era qualcosa di incredibile, in quella città, un calore di stoffe allegre smosse dal vento, un’originalità architettonica, o forse proprio l’uso smodato di cupole di vetro che illuminavano Sehar di un manto d’incanto.

Il marchese si perse nella propria, personale contemplazione fino a quando non furono fuori portata d’orecchio, nei giardini d’ingresso del palazzo.

«Non avresti dovuto fare quell’intervento. È evidente che ha in mente qualcosa, ma se ti esprimi così apertamente non arriverai lontano»

Tighe stemperò il tutto con un sorriso bonario «Sicuramente ha in mente qualcosa. Per questo la nobiltà deve fare fronte comune. Ha bisogno di noi, gli forniamo uomini e vettovagliamenti. Da solo non potrebbe sostenere i costi di una guerra»

Nonostante l’età, Tighe restava un incredibile idealista senza speranza.

In parte, Aodh temeva per l’amico, sospettava che per piegare al proprio volere i suoi feudatari, il Re avrebbe usato qualunque mezzo.

«Non conterei troppo sul buon senso qui dentro. Li hai visti? Per lo più si facevano ingolosire da promesse visionarie»

«Non vi fidate a sufficienza delle persone. È questo il vostro problema»

Il marchese rispose con una smorfia scettica.

«Vedremo. Nel frattempo stai attento però. Non mi fido di lui. Il fatto che la decisione finale sia stata rimandata mi inquieta»

Il Barone sorrideva gioviale, non gli portava rancore benché non lo avesse appoggiato di fronte al consiglio, e di questo Aodh era grato. Si sentiva facilmente inadeguato, di fronte ai compiti che ci si aspettava sapesse gestire senza difficoltà, e l’unico obiettivo che si era prefissato in politica era di sopravvivere. Era un essere troppo piccolo e informe, di fronte a Edward come agli altri, per poter sperare di meglio.

«Può essere, mi guarderò le spalle. Ma il vostro problema mi pare ben più impellente. Come pensate di liberarvi di quegli spiriti? Le amadriadi sono un ostacolo ben più ostico di quanto la nostra Maestà abbia voluto ammettere, nessuno resiste ai loro incanti»

Aodh si grattò distrattamente la guancia, sovrappensiero «Già. Non riesco nemmeno a immaginare come siano riuscite a radunarne un tale numero»

Il sorriso di Tighe si spense, la fronte segnata di arricciò in rughe profonde «Che pensate di fare?»

Avevano abbandonato i cortili del palazzo che si aprivano sull’immensa piazza di Izarargi. A costeggiare la ringhiera in ferro battuto a ricami naturali che delimitava i confini del Palazzo Reale, attendevano in ordine le carrozze dei nobili. Diversamente dalla carrozza che usava per i lunghi viaggi a distanza, grande quanto un piccolo appartamento, questa era sottile e disadorna, laccata di nero, perfetta per gli spostamenti nelle vie cittadine.

Aodh riconobbe la propria grazie ai colori d’abito del cocchiere in piedi, accanto ai cavalli bianchi ornati della gualdrappa con lo stemma della sua casata. Si avvicinò, lentamente, mentre la sua mente inseguiva una soluzione che non sembrava volersi mostrare.

Il cocchiere aprì lo sportello ed una scaletta si srotolò ai suoi piedi con un rumore metallico.

Prima di salire, si voltò a guardare l’amico che pareva intenzionato a ricevere necessariamente una risposta.

«Non lo so, non ho molte scelte. Penso che chiamerò a Corte degli Ammazza Spettri»

 

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

 

Buongiorno, sono circa tornata!

Fondamentalmente, le note sono uno dei motivi per cui pubblico tanto sporadicamente. Sento che dovrei dire qualcosa di sensato e magari chiarificatore, ma alla fine non ne sono mai capace!

Comunque, visto che le cose iniziano a diventare tante, ho pensato di fare un piccolo schema. Lo aggiornerò mano a mano che si aggiungeranno nomi e persone.

Potrei dover giungere a farlo anche per i personaggi, ma spero non sia così necessario perché mi annoio a morte a mettere le cose in fila!

Ogni Regno o regione ha la propria lingua, ma siccome sono contraria alle classiche frasi inventate dove i personaggi sembra abbiano un raschietto in gola che non vuole saperne di sparire, ho optato per qualcosa di più semplice.

Per cui, sono alcuni dettagli legati alla tradizione a distinguere un Regno dall’altro, dettagli come le formule di saluto, i nomi delle stagioni, dei mesi, e altre piccole fissazioni da psicopatica quale sono.

 

REGNI PRINCIPALI

 

Regione dei Laghi:

Ø  capitale Sirideainn, sede del Conclave.

 

Regno di Dubhar (o delle Ombre):

Ø  capitale Nesia

 

Regioni di Aimsir:

Ø  Samhradh

Ø   Earrach

Ø   Foghara

Ø  Geamharadh

 

Regno di Sideris:

Ø  capitale Sehar

Ø  Contea di Meridiem

Ø  Contea delle Idi

Ø  Marca di Arboris

 

Regno di Emer

Regno di Esperia

Steppe dell’ovest

Isole di Þoka

 

LUOGHI

Lochlainn, villaggio di sacerdoti Dravidi a Nord, sul fiume Ishtar

Glenn Dubhar, paesino tra le montagne del Centro

Foresta di Keyll = Regione boscosa di Samharadh assimilata alla Marca di Arboris

Monti Fengari = Catena montuosa che divide Sideris dalla Regione dei Laghi

 

STAGIONI

Nel Regno di Dubhar: 

Ø  Samhradh = Estate

Ø  Earrach = Primavera

Ø  Foghara = Autunno

Ø  Geamharadh = Inverno

 

 

Nel Regno di Sideris:

Ø  Udara = Estate

Ø  Udaherria = Primavera

 

 

A presto!

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Capitolo 9
*** Capitolo settimo ***


L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO SETTIMO







La camerata della foresteria era spaziosa e semplice, l’arredamento essenziale comprendeva solo i loro letti, un paio di cassettoni, uno scrittoio e una finestra con delle imposte di legno da cui Sianna studiava il flusso di persone e gli animali, i bambini che giocavano.

Se si sporgeva, riusciva a intravvedere anche il frutteto che colorava un fianco della collina. Le piaceva il profumo che le erbe aromatiche spandevano dal Giardino dei Semplici e l’invitante fumata dei pesci arrostiti che sentiva quando si avvicinava l’ora di cena, dato che la foresteria era posizionata vicino alle cucine.

Anche se l’accesso a molte zone del monastero era loro proibito, a Sianna interessava poco vedere i dormitori delle sacerdotesse e dei sacerdoti, o le celle, le bastava trascorrere il tempo all’aperto con Tanet e il suo pessimo umorismo, o stare con Lisy e Kea ad accarezzare i musi dei cavalli nelle stalle e ad imboccarli con del fieno.

Prese un’ultima boccata d’aria fresca prima di ritrarsi per lasciarsi cadere pesantemente sul letto. Gael ne approfittò subito e balzò sulla sua pancia piatta, zampettando buffamente verso il suo viso. A Poco meno di una spanna, emise versi striduli e indisposti, e Sianna lesse in quegli occhi rosati, nell’iride marcata da una sanguigna linea rossa perfettamente sferica, il rimprovero dell’animale.

Gli accarezzò gentilmente il piumaggio con la mano guantata, ed il falco inclinò la sua testolina e si gonfiò di palese soddisfazione.

Era sempre stato insolito, Gael. Ricordava come era da cucciolo, quando lo aveva appena raccolto ed era ostile con tutti, quanto tempo era trascorso prima che diventasse meno aggressivo, come poi si fosse affezionato a lei in maniera così morbosa e naturale da renderlo un compagno fedele e affettuoso, tanto da permetterle di lasciarlo costantemente libero.

Il falco non la abbandonava mai, la seguiva con cieca fiducia, ovunque, e quando gli parlava sembrava essere in grado di comprenderla, la ascoltava e le ubbidiva.

Mentre la mano affondava nelle piume candide, la sua attenzione venne raccolta dai guanti che nascondevano la pelle diafana lasciando scoperte, come rami sbiancati dalle intemperie, le dita magre e sottili, affilate. Eireen alla fine aveva vinto, l’aveva convinta a nascondere la benedizione che l’aveva segnata fin dall’infanzia. Un poco ne era rimasta ferita, era il ricordo più vivido di suo padre, l’unico in verità, ma la sacerdotessa era parsa abbastanza preoccupata da convincerla senza che facesse polemiche.

«Maledizione!» riconobbe dall’imprecazione Lisanda un attimo prima che questa spalancasse la porta, in una scia di borbottii irati e sconnessi. Sianna alzò svogliatamente la testa per piegarla verso l’amica «Che ti prende?»

Lisy sollevò furibondamente una mano al soffitto «È evidente che le divinità hanno deciso che devo perderci un arto, non c’è altra spiegazione! Qualcuno deve avermi fatto il malocchio»

«O più semplicemente sei goffa» la punzecchiò Iris, comparendo alle spalle della gemella con le braccia incrociate sotto il seno e un sorriso di scherno a macchiarle le labbra. Anche così, erano simili in maniera disarmante, due immagini riflesse allo specchio e due caratteri radicalmente diversi, opposti.

Sianna si lasciò andare ad una risata «Io opto per la seconda! Che ti sei fatta stavolta, ti sei tagliata ancora?»

«Che siate dannate» sbuffò Lisy, gonfiando una guancia in un moto d’insofferenza «Sì mi sono tagliata, e fa un male cane. Tu, inutile erborista, invece di commentare non potresti, che so, fare qualcosa?»

Di malavoglia Sianna si mise a sedere, spodestando un Gael indisposto che, per punizione, cercò di beccarle le dita «Ti dovrei mandare da Tanet suppongo. O da Arfon sarebbe più giusto? Non è quel vecchiaccio il “guaritore”?»

Sibilò l’ultima parola con sfacciato scherno, ma le amiche non se ne meravigliarono né ci badarono particolarmente, solo Iris manifestò la sua insofferenza roteando gli occhi. La sua antipatia per l’anziano, sviluppata già dopo un paio d’incontri e cresciuta nell’imbarazzo delle occhiate sospette e diffidenti che Arfon le dedicava, era nota ormai ai più.

Arfon la faceva sentire bambina, piccola e impotente davanti al disprezzo. Crescendo, aveva sperato di non doversi mai più sentire così meschina e fragile, ma gli occhi del vecchio erano il riflesso di anni di ostracismo che non era mai davvero riuscita a scordare.

«È un modo alternativo per dichiarare la tua inutilità» constatò Lisanda, ignorando il suo cinico commento, incrociando le braccia al petto a celare le mani dalle dita già parzialmente bendate. Lisanda non era tagliata per il lavoro manuale, aveva un talento innato nel farsi male e nonostante suo padre preparasse i dolci più buoni che Sianna avesse mai mangiato, non aveva ereditato alcuna inclinazione per l’arte culinaria. Era una viziata più brava a mangiare che a fare, e il fatto che Leoise avesse assegnato lei e la gemella alle cucine del refettorio l’aveva resa irritante e lamentosa.

Sianna in parte le invidiava: quella era la condizione a cui dovevano sottostare se desideravano rimanere al monastero e seguire le lezioni con i novizi sacerdoti. Loro non erano discendenti di buone famiglie, né erano state mandate al monastero ad apprendere le tradizioni come molti ragazzi che occupavano le camerate anche se poi non avrebbero preso i voti. Lei e le sue amiche erano semplicemente capitate, un incidente imprevisto. Succedeva, che i monasteri adottassero qualche bambino abbandonato per riempire le proprie fila di sacerdoti, ma per loro la questione era più delicata, erano adulte, senza preparazione.

Senza inclinazioni alla vita sacerdotale e al basico concetto di rinuncia.

E comunque, Sianna da tutto questo era stata esclusa, restava solo sotto la tutela di Eireen e la donna non le permetteva di interagire troppo con gli altri, lasciandole addosso un amaro senso d’insoddisfazione.

Prima che potesse rispondere a Lisanda, la porta venne spalancata di nuovo, con più irruenza, e questa volta a fare la sua entrata fu Marion, più vivace che mai nelle sue stoffe colorate e nel tintinnare dei campanelli della gonna. Teneva stretta una scatola di legno ed il sorriso raggiante faceva risaltare i denti bianchissimi in contrasto con la pelle abbronzata d’oro brunito.

«Non ci crederete mai, guardate cosa mi ha regalato William!» esclamò entusiasta, sventolando la suddetta scatola.

«Un contenitore per gli oggetti che non hai?» la istigò Sianna con un ghigno, solo per indisporla. E infatti Marion, sempre pronta a raccogliere le provocazioni, le fece subito una smorfia «Ovvio che no. Mi ha fatto dipingere delle carte nuove!»

Si avvicinò allo scrittoio e con impazienza fece scivolare disordinatamente tutto il contenuto sulla superficie di legno. Sianna scattò in piedi e si avvicinò imitata dalle gemelle.

«Ci sono tutte?»

La zingara era estasiata, le accarezzò piano, con la medesima dolcezza che una madre avrebbe dedicato nel vezzeggiare il proprio bambino, e quel sorriso sereno di bambina si schiuse lentamente e divenne così pieno e grande da sembrare quasi doloroso, i suoi denti erano perle incastonate tra le labbra papavero.

Sianna non poteva non guardarli sempre, scintillavano, le conferivano una bellezza misteriosa, esotica, arcaica come una di quelle antiche statue di bronzo dedicate agli dei e decorate di pietre preziose.

«Sembrerebbe di sì»

Anche lei si ritrovò ad allungare la mano per sfiorarle con la punta dei polpastrelli, a sentire la tempera in rilievo sporgere appena nel delineare figure anche per lei troppo note: il Bagatto, il Sole, la Temperanza.

Si soffermò qualche istante di più sulla carta dell’Angelo, seguì la forma del viso, i boccoli d’oro, la prese tra le mani per poterne ammirare l’eterea e delicata figura, l’espressione inflessibile e la tromba del giudizio tra le mani.

Se ne pentì all’istante, Marion già aveva trattenuto il respiro e socchiuso gli occhi vispi.

«Il Giudizio. Scelta interessante» commentò pacatamente. Poi, con l’atteggiamento inquisitorio di un cerusico esperto, si prese il mento tra le dita e la osservò con la fronte corrucciata in linee parallele «È dritta o al rovescio?»

«Per tutti i Serafini, no eh? Ti prego, non ricominciamo con questa storia. Non ho voglia di essere vivisezionata, devo andare a dormire, tra qualche ora Tanet verrà a chiamarmi e non chiuderò occhio nemmeno stanotte!»

«Di nuovo?» si lamentò Lisanda, e Sianna pensò che era comico come riuscisse a identificarsi con le vittime di quelli che lei riteneva soprusi, a ricordare che i mantra della sua vita erano pochi, ma precisi e fondamentali.

Ed il sonno rientrava tra questi dettami ferrei.

«Dritta o rovescia?» ribadì invece Mari.

Sianna si concesse un sospiro sconfitto e voltò la carta, in modo tale che fosse visibile a tutti «Sì, di nuovo. E sì, è dritta» borbottò.

Marion era così spontanea che ogni emozione le si dipingeva con estrema chiarezza in viso, e l’espressione gongolante, che accennava due fossette agli angoli della bocca, rivelò tutta la sua soddisfazione.

 

Ovviamente lo aveva previsto

 

«Ovviamente dritta» sottolineò infatti con un sorriso più grande «Prevedibile. E molto interessante»

Iris l’agguantò saldamente per un orecchio e lo tirò fino a strapparle un lamento non solo di sorpresa «Non fare la sibillina, piccola peste, dille quello che muori dalla voglia di dire, così possiamo ricominciare a fare quello che stavamo facendo»

«Non stavamo facendo niente» osservò distrattamente Lisy, ancora concentrata sul taglio che le segnava l’indice. In cambio ricevette un buffetto sulla testa.

«Non me ne lamentavo di certo!»

«Va bene Iris dico tutto, ma lasciami!»

Come due bambine domate da una madre intransigente, Marion e Lisanda misero il broncio.

Sianna intrecciò le braccia sotto il seno e abbozzò un ghigno provocatorio «Ti ascolto» esortò la più piccola. Marion sbuffò, si sistemò le pieghe della gonna e i campanelli tintinnarono ancora. “La musica delle fate”, così Kii chiamava quello scampanellio.

«È interessante perché significa “litigi e fraintendimenti”» chiarì la bambina, arrossendo appena.

 «E?»

Mari si morse le labbra «E io ho incrociato Ynyr, poco fa» lo disse con riluttanza, e subito si nascose dietro al corpo di Iris, ad usarla come scudo per proteggersi dalla sua espressione truce.

Lisanda le scompigliò i capelli affettuosamente «Il tuo intuito colpisce sempre nel punto giusto» la lodò, ma Sianna questa volta ne provò solo un affilato fastidio, una soddisfazione che non voleva concedere loro. Strinse i pugni, prese un grande respiro e decise di ignorarle. Diede loro la schiena e tornò a stendersi sul suo letto, premurandosi di tirarsi la coperta fin sotto il naso.

Le amiche l’avevano seguita con gli occhi in silenzio, in attesa di uno scoppio che, aveva deciso, non ci sarebbe stato.

«Non dici nulla?» la interpellò Lisanda. La sua voce non era limpida, c’era una nota velenosa, di fastidio compresso che sfociava nella rabbia. Anche quando percepiva in loro sentimenti molto forti, così prepotenti da strizzarle lo stomaco e le viscere, difficilmente riusciva comunque a sentirsi toccata. Era più che altro la nausea, la brutta sensazione che doveva combattere, un rigetto verso le emozioni altrui, sempre fin troppo invadenti.

Non aveva molto da dire sulla questione Ynyr.

Suo fratello era un tasto dolente che odiava sfiorare, perché semplicemente Ynyr stesso lasciava poco spazio alle parole. Non si erano più parlati dal giorno della commemorazione, a malapena si erano incrociati. Vivevano nello stesso monastero, eppure evitarsi era stato incredibilmente facile e spontaneo. L’indifferenza di suo fratello bruciava troppo perché le riuscisse di soffermarcisi sopra senza infuriarsi con il mondo intero, ed allora aveva deciso di fingere che non ci fosse mai stato.

Era un braccio di ferro, una sfida costante per ristabilire i precari equilibri della loro relazione, e per quanto Sianna sentisse la sua mancanza e avesse desiderio di andare da lui, per orgoglio e necessità non era intenzionata a cedere. Si teneva occupata per non darsi eccessivo pensiero, ma puntualmente qualcosa pungolava la sua coscienza per impedirle di accantonarlo.

 

Spetta a lui, solo a lui fare un passo indietro. Io ho fatto la mia parte, ci ho provato a sostenerlo, ad esserci nel momento del bisogno, ma è impossibile farlo se neanche mi parla.

 

«Insomma, fammi capire, siete di nuovo immersi in una delle vostre impossibili liti da cui è meglio tenersi lontane?» Lisanda si lasciò cadere sul suo letto, strappandole parte della coperta.

«Ho sonno»

«”ho sonno”» le fece il verso la ragazzina, e la gemella maggiore le diede man forte «Non puoi sempre fare così, è come avere a che fare con una bambina»

«Mai detto di essere adulta»

«Sei peggio di Mari»

«Ehi!» protestò con evidente indignazione la zingarella «Io non li faccio i capricci!»

Sianna sospirò pesantemente «Sentite, è semplice: non mi va di parlarne e non mi va di vederlo. Esattamente come non va a lui, tra l’altro»

«Che significa che sono immersi fino al collo in una delle loro discussioni impossibili»

Kea, rientrata proprio in quel momento, non si era lasciata sfuggire l’occasione di punzecchiarla, con il suo tono basso e divertito.

«Chiamatela come volete, non m’importa. Ora vorrei dormire davvero»

Cacciò la testa sotto la coperta e serrò le palpebre, nella speranza che le amiche cogliessero l’antifona. Sentì il peso di Kea aggiungersi sul materasso, accanto a Lisy. La mano della sua migliore amica le accarezzò confortante la spalla.

«Se può interessarti, nemmeno lui segue le lezioni dei novizi. Non esce praticamente mai, non so nemmeno cosa faccia, né dove lo tengano. Dovrebbe stare qui con noi, ma non occupa nessuna stanza per gli ospiti»

Sianna iniziò a rosicchiarsi con meticolosità le unghie «Lo sai come è fatto. Avrà trovato un modo per ingraziarseli tutti. Ynyr si rigira le persone come burattini, non mi meraviglia per nulla»

Realizzò che doveva realmente essere andata così e si rimproverò da sola, pensando che per tutto il tempo si era preoccupata per lui inutilmente. Era arrivata persino a credere che, forse, suo fratello non fosse stato bene, ma la realtà doveva essere ben diversa.

«Già, può essere. Alla fine si parla di Ynyr, per quanto odioso nessuno può dirgli di no» chiuse il discorso Kea. Si alzò e Lisanda, dopo un secondo di esitazione, la seguì.

Era una verità assoluta, nessuno poteva realmente negargli qualcosa.

E questo la faceva arrabbiare solo di più.

 

 

***

 

 

“Come puoi chiedermi di fingere di non starti tradendo?”

 

Degli occhi così caldi Sianna non li aveva mai visti. Erano iridi di sole, morbide di una tenerezza struggente, una carezza di velluto sul volto. La dolcezza di una mano candida che sapeva di protezione, di amore.

Seguiva con lo sguardo i movimenti delle dita lunghe ed eleganti, come se la sua esistenza dipendesse da quei gesti familiari che sembravano ricordi strappati ad una vita che non le apparteneva.

 

“… mi prenderò cura di te finché non sarai pronta. E anche allora, tesoro, non mi avrai perso…”

 

Si strinse le ginocchia al petto, affondò il viso tra le braccia.

I capelli di seta le ricaddero sulle spalle, un mantello morbido in cui trovare un rifugio che la proteggesse dal dolore di quelle parole.

Un dolore che non comprendeva per una tenerezza che non aveva mai conosciuto.

Sapeva poche cose, Sianna.

Sapeva che quelle erano le sue braccia, sue erano le gambe magre, sua la guancia che aveva ricevuto quella sfuggente carezza.

Sapeva che suoi erano quei capelli di fine argento.

 

***

 

Un passo stentato, un altro ancora, e per poco Sianna non cadde rovinosamente a terra. La trattenne per il mantello di lana qualcosa che realizzò con sgomento essere semplicemente una radice impigliata. Si raccolse con le braccia al petto, incastrando il cesto di vimini tra il polso e il seno per poter sfregare le mani sopra la veste, nel vano tentativo di produrre del calore.

Nonostante fosse Samhradh inoltrato e il Tempo della Mietitura fosse il più caldo dell’anno, la temperatura quella notte era calata bruscamente. Il vento frustava con le sue folate gelide e penetrava i vestiti leggeri per arrivarle fino alle ossa. Le tremavano le labbra, a tratti le battevano i denti.

Non riusciva ad auspicarsi situazione peggiore, gli occhi gonfi e rossi bruciavano dal sonno al punto che la vista le si appannava. Avrebbe potuto evitare quella caccia notturna solo se avesse piovuto, ovviamente si era augurata un temporale improvviso con ogni fibra del suo essere e, altrettanto ovviamente, come a farle dispetto, non era caduta neanche una goccia, neppure un sussurro di mal tempo. Non c’erano nuvole e le stelle erano particolarmente nitide.

Tanet camminava qualche passo più avanti. Era abituato ad orari improponibili e per questo era perfettamente sveglio e Sianna lo detestava e invidiava al contempo. Perlomeno aveva afferrato fin da subito che in quei momenti non doveva parlarle, doveva usare parole semplici solo se necessario ed entro una certa misura, o non sarebbe stata in grado di seguirlo, e su queste regole di basilare convivenza si basavano le loro escursioni notturne.

«Mettiti dritta! Se qualcuno ti vedesse, ti scambierebbe per un’amadriade. Ci mancherebbe solo questo» aveva sbottato Tanet ad un tratto, esasperato. Si sentiva spiritata e il suo corpo si muoveva più per istinto che per ragione, le palpebre si abbassavano come pesanti macigni impossibili da sostenere e a volte nemmeno se ne accorgeva. Capiva il fastidio del sacerdote, ma davvero non riusciva a costringersi.

Più dolcemente, il maestro aveva soggiunto «Non ti avevo raccomandato di dormire?»

Si stropicciò il viso debolmente «Io ci ho provato»

Sembrava una giustificazione fiacca, eppure era la verità.

«E cosa te lo avrebbe impedito?»

Cacciò uno sbadiglio che si mangiò metà della risposta, riuscì a biascicare «Incubi», poi inciampò in una radice e Tanet le afferrò il braccio prima che distruggesse il cesto e con esso tutto il contenuto, lavoro già di qualche ora.

Con uno sbuffo esasperato, il maestro l’aiutò a rimettersi dritta, la guardò negli occhi e accennò un sorriso «Sei il solito disastro»

La sua mano bronzea tra i capelli, in un goffo gesto d’affetto, era ormai familiare.

«Vuoi parlarmene?»

Sianna fece spallucce e si allontanò di qualche passo.

La distanza fisica l’aiutava a mantenere, banalmente, una distanza emotiva. Sollevò il bavero del mantello fin sotto il naso, cercando con un improbabile arricciamento delle labbra di farlo restare in quella posizione innaturale, per proteggersi almeno un poco la gola dall’aria fredda.

Non ci riuscì, e Tanet ancora la guardava, in attesa di una risposta.

«Anche volendo non ricordo granché» liquidò la questione.

Il maestro non insisté oltre e in quel silenzio sporcato d’imbarazzo ricominciarono la loro marcia notturna.

«Maestro, dove stiamo andando ancora?»

Tra uno sbadiglio e l’altro aveva avuto la lucidità di accorgersi che Tanet aveva imboccato un abbozzo di sentiero tra le sterpaglie che invece di rientrare si inoltrava ulteriormente nella boscaglia.

«Sulle sponde del fiume. Dobbiamo muoverci, l’aria si sta inumidendo troppo e vorrei raccogliere qualche radice»

Con un sospiro di disperazione Sianna si raccolse nelle proprie spalle, rattrappendosi come se potesse perdere dimensione e avere meno superficie a contatto con l’aria fredda. Lo scrosciare del fiume accompagnava i suoni inquietanti degli animali notturni, il bubbolare di un gufo, il frusciare del fogliame e delle frasche a causa del vento, il crepitio del terreno sotto i piedi esperti di Tanet. Il rumore di un ramoscello spezzato la fece sussultare, si voltò e si guardò attorno, ma non c’era nessuno e il maestro non aveva fatto una piega.

Con l’inquietante sensazione di avere mille occhi puntati addosso, si affrettò a raggiungere il giovane sacerdote.

L’acqua nervosa del fiume schiumava contro le rocce, il vento la trasportava in ventagli di gocce che le bagnarono il volto. La luce aranciata della luna piena filtrava appena dalla galleria di rami intrecciati che ricopriva il corso d’acqua, le ombre si distendevano in un effetto di contrasti, assumendo forme grottesche.

Quell’impressione di avere occhi che la seguissero non smise di infastidirla, come dita gelide che sfioravano la base del collo facendole venire la pelle d’oca. Tanet le passò la lanterna che li aveva guidati nell’oscurità affinché lo illuminasse mentre lavorava. Lo osservò sganciare il falcetto d’argento che portava sempre legato alla cintura per sezionare dei fiori. L’arbusto era affusolato e longilineo, le arrivava all’anca ma non ne afferrava il colore.

«Questa è un’Altea, ha ottime capacità emollienti ed è più facile trovarla lungo i corsi d’acqua. Ricordi la famiglia?»

Sianna si fece più vicina, per studiare meglio i boccioli che il maestro stava selezionando con cura: erano fiori bianchi, con la corolla a cinque petali a forma di cuore. Tanet li raggruppava in mazzolini che poi fermava con dello spago.

«Credo sia un malvaceo, giusto?»

«Giusto» le sorrise lui, poi trotterellò pieno di energia verso un’altra piccola piantina cresciuta a ridosso di un albero.

«Osserva questo. Il Tremolo è incredibile, vedi le radici come sono contorte? Arrivano molto in profondità e quando non possono più scendere, tornano in superficie e formano questo reticolo» illustrò estasiato, quasi sognante avrebbe detto Sianna, non fosse stato ridicolo per lei pensare che qualcuno potesse essere sognante per un’erbaccia infestante pure difficile da estirpare. Era privo di fiori, ma Tanet tagliò dei rami e raccolse gruppi di foglie.

Sianna non era molto utile, si limitava a seguirlo come un’ombra porgendogli ora la paletta, ora le corde. Lo osservava con attenzione mentre scavava attorno alle radici per estrarre dal terreno intere pianticelle. Il maestro la costringeva ad accompagnarlo per ragioni puramente didattiche: doveva solo guardare ed imparare, il sacerdote spendeva poche parole, si limitava a mostrarle il metodo, e per questo Sianna si costringeva a scacciare il sonno e a dare ad ogni gesto il giusto peso, anche se ad ogni sbadiglio gli occhi le si appannavano e non aveva fatto altro che sbadigliare da quando si era svegliata.

Talvolta, china su di lui, veniva distratta da un filo di pensiero sconnesso, un senso di straniamento che non poteva esimersi dal provare. Tanet era diverso, di una diversità visiva impossibile da ignorare. Non era un’impressione negativa, né fastidiosa, ma c’era, era difficile fare i conti con una differenza tanto palese. Quando gli camminava accanto, realizzava ogni volta come fosse la prima quanto fossero antitetici, e i primi tempi toccarlo era causa d’inquietudine, le sembrava quasi che avrebbe avuto al tatto una consistenza differente dalla sua.

Forse, era più vecchio di quanto apparisse, non era semplice inquadrarlo per via dei capelli scuri e la pelle bronzea come avesse bevuto il tramonto, una tonalità più intensa di quella di Marion, Lisanda e Iris. Tutto dei suoi lineamenti pigri camuffava un’età che doveva essere maggiore di quella di Eireen di almeno tre o quattro anni.

 

Deve venire da un luogo lontano, un posto dove c’è sempre il sole e deve fare caldo

 

«Non ci credo, del Tragoselino! Avvicinati Sianna» il tono puerile catturò di nuovo la sua concentrazione. Si accovacciò accanto a Tanet e lo osservò scavare ancora.

«Quello che sto facendo è un sacrilegio, le radici del Tragoselino andrebbero raccolte solo in Earrach, ma ne siamo privi al momento» parlottò più con se stesso che con lei. Lo faceva, quando voleva convincersi di non star facendo assolutamente nulla di male.

Una volta estratto dal terreno, fece pendere quell’intrico di filamenti e zolle di terra davanti ai suoi occhi «Questo è l’esempio perfetto di radice a fittone. Il fittone è il prolungamento del fusto e le radici secondarie si ramificano attorno, vedi?»

Il maestro aveva occhi scuri, che il riflesso guizzante della fiamma della lanterna faceva apparire neri e profondi, come quelli di Kea. Erano vividi di una luce che non era solo il fuoco, ma anche una passione costante che metteva in ogni cosa in cui si applicava. C’era qualcosa di commovente, quasi innocente, nel suo sorriso grande.

Quando ebbe concluso, si spartirono le ceste.

La notte si era quasi del tutto consumata, ma il sole sarebbe sorto di lì a molte ore e, fino a quel momento, le terre d’Ombra sarebbero rimaste in uno stato di sospensione tra l’oscurità e la luce, una fase onirica del mondo, in cui il tempo non scorreva ma si dilatava soltanto in un vuoto cangiante. I rumori angoscianti non erano cessati, Tanet non ci prestava attenzione probabilmente per abitudine, ma Sianna non poteva esimersi dal provare la sensazione di essere guardata.

La fiducia istintiva che sentiva per il maestro era l’unico motivo per cui non si era ancora precipitata urlante fuori dalla boscaglia.

«Maestro, posso farle una domanda?»

«Di solito non ti fai molti problemi a parlare» gli occhi si sbozzarono in mezze lune allegre e Tanet mosse il capo per rafforzare l’invito a proseguire.

«Ha imparato l’uso delle erbe da Eireen?»

Il sorriso non si spense, si fece se possibile ancora più grande, ma meno limpido. Forse erano solo le fiamme danzanti della lucerna a donare più ombre al suo volto, ma Sianna non ne era sicura.

«No, mi ha insegnato mia madre. Ero piccolo, era molto tempo prima che arrivassi nelle terre d’Ombra» scrollò rapidamente le spalle «Ma accanto a Eireen ho imparato molto, non conoscevo nulla di questa vegetazione»

Sianna annuì di riflesso, in realtà stava già valutando altro, stava realizzando quanto piccolo e limitato fosse il suo mondo e lei stessa, così minuscola da non riuscire nemmeno a concepire quanto potesse essere quel “lontano” dalla terra che le aveva dato i natali. Pareva impossibile che il mondo continuasse oltre Dubhar. Eppure, Tanet a volte parlava di cose irreali, quasi impossibili, e ne parlava con la nostalgia distratta di un ricordo che non voleva essere ripescato, ma semplicemente trovava da sé il modo di farsi strada nel presente.

«Se lei non è nato qui, come ci è arrivato?»

L’angolo della bocca del maestro s’inclinò in una piega più cupa, la voce però dissimulò quella lieve ondata di malinconia.

«Mi ha portato qui un’anziana signora, sedici, diciassette anni fa. È passato così tanto che nemmeno mi ricordo più quanto. Era una donna strana già allora, era forte e nodosa come una quercia, e sottile come uno stecco. Non ricordo tante cose, ma lei sì, nitidamente» sospirò, con una sfumatura di tenerezza quasi «Era incredibilmente rude, eppure mi accolse lo stesso. Per uno come me, che non aveva più nulla, persino quella vecchiaccia era l’immagine della salvezza! Con lei c’era Eireen quel giorno. Eireen è insopportabile lo so, ma era la cosa più familiare, per questo è stato facile seguirle e incominciare l’apprendistato qui, per non essere divisi»

Inclinò la testa per poterla guardare.

Sianna sentì il familiare nodo allo stomaco, la presa ferrea di una mano che le strizzava le viscere. Era la sensazione di una rassegnazione triste, quella che l’aveva assalita, una rassegnazione che era di Tanet e che pure anche lei avvertiva sulla sua pelle.

Sopraffatta da tutto quell’affetto, quel legame profondo che avvertiva come un filo tra i due sacerdoti, deviò lo sguardo e finse di prestare attenzione al terreno.

«Ho risposto a tutto, piccola curiosa?»

«Devi volerle molto bene»

Tanet sorrise e non rispose.

 

 

Il Tempo della Mietitura si era consumato in fretta e aveva ceduto il passo al Tempo della Battitura. Dai dolci pendii della collina su cui torreggiava il monastero, non si ammiravano più campi dorati, abbaglianti di grano maturo, ma solo stoppie lasciate a mezza altezza che davano l’impressione di un piccolo esercito perfettamente allineato.

Sarebbero servite per i pascoli, dopo: questo almeno le aveva spiegato il maestro. Dopo la Quarta festa dei Fuochi, era questo che intendeva, la causa della concitazione costante che fermentava nel borgo e rendeva gli abitanti entusiasti e pieni di vita. Nel suo precedente villaggio, forse per la collocazione in montagna tra i boschi, si festeggiava in maniera differente, ma a Lochlainn l’evento manteneva la sua precisa valenza di festa del Raccolto, la prima delle tre feste che avrebbero preceduto la Stagione delle Piogge.

In quel clima di gioia e scampanellanti campane che scandivano ogni ora della giornata, il suo malumore non aveva fatto altro che crescere. Tanet l’aveva esclusa da tutto quel tumulto entusiasta, ammirava i preparativi delle bancarelle del mercato, di spalti, di giochi e intrattenimenti, come una spettatrice annoiata. Addobbi vivaci si stendevano da un tetto all’altro, merletti vezzosi che decoravano le vie, e numerose lanterne di pergamena ritagliavano figure che la luce dei lumini proiettava nel buio della sera, emanando figure astratte antropomorfe o animalesche, in elaborati teatrini d’ombra che intrattenevano i bambini estasiati.

Le capitava di soffermarsi ad ammirare gli artigiani intenti in quel lavoro così artistico, ma il maestro le permetteva sempre scarse interazioni con chiunque non fosse Eireen, Arfon o le sue amiche.

«Servi a me» l’aveva rimproverata una volta, tagliando corto qualunque suo tentativo di protesta. I suoi servizi erano stati in realtà estremamente limitati e banali. Qualche giorno prima, Tanet l’aveva costretta ad un’estenuante raccolta di mirtilli. Avevano riempito così tante ceste che Sianna aveva facilmente perso il conto.

«È una credenza importante, se i mirtilli sono abbondanti, allora anche il raccolto lo sarà. Ogni dolce sarà a base di mirtilli»

A lei nemmeno erano mai piaciuti «Esistono seriamente persone che ci credono?»

Il maestro l’aveva soppesata con incredibile serietà, gli occhi seri e indagatori si erano ristretti sotto le sopracciglia ad ala «Non è strano che i contadini ci credano. È strano che tu non riesca nemmeno lontanamente a considerare che sia vero»

Non si era spiegato oltre, e Sianna si era dovuta limitare ad ingoiare tutto il proprio scetticismo sotto l’ennesima coltre di frustrazione.

Seguendo sempre le orme di tradizioni per lei prive di logica, si ritrovava quel giorno alla ricerca di vischio di quercia. Quando lo avesse trovato, insieme a Tanet ed Eireen avrebbe intrecciato le corone sacre che le sacerdotesse avrebbero indossato la sera della festa, per i sacri riti degli Oracoli e i Giudizi dell’Assemblea. Aveva trascorso la mattinata in quella ricerca esasperata, ma né lei né Tanet erano venuti a capo del problema, quel vischio era particolarmente raro e iniziava ad annoiarsi.

«Ho l’impressione che mi stiate tenendo buona» diede un calcio ad un sassolino che intralciava il suo cammino e questo rotolò pigramente poco più avanti, finendo inghiottito da un cespuglio.

«Soffri di egocentrismo, Sianna Eilan»

Sentire il suo nome completo le causava una smorfia istintiva, aveva il retrogusto dei rimproveri di sua madre. Guardò Tanet di sottecchi, per un momento valutò di essere onesta e di dirgli che non gli credeva nemmeno per errore, che lo percepiva quando le mentiva ed era inutile tentare d’ingannarla se poi palesava le sue emozioni in maniera tanto cristallina. Però non lo fece, sospirò con aria sconsolata e si limitò a borbottare «Sarà, ma inizio a pensare che non lo troveremo mai»

Il maestro rimase in un silenzio meditabondo per qualche istante.

«Possiamo sempre imbrogliare»

Sianna s’irrigidì ed un’espressione di puro turbamento si disegnò sul suo volto quando Tanet rise sfacciatamente «Guarda che non è mica una cosa tanto grave! Il vischio è vischio, nessuno se ne accorgerebbe. E poi, non ho mai creduto molto in queste pratiche»

«Come sarebbe a dire che non ci crede? Se l’ultima volta, con quegli stupidi mirtilli, mi ha fatto passare per un’eretica! Sembrava una questione di vita o di morte a sentire voi»

Tanet abbozzò un sorrisetto sornione «Beh, non è necessario che noi ci crediamo, basta che loro lo credano per renderlo reale, no? Da’ loro del vischio qualunque e ci vedranno la magia»

Sianna arricciò le labbra in un’abituale smorfia di disappunto «Sarà, ma non ne sono proprio convinta»

Si guardò attorno, più per non prestare attenzione al cinico individuo che le camminava accanto con pacatezza fin troppo ostentata, che per concentrarsi sulla loro ricerca. Non ci credeva a quelle usanze, ma non le piaceva ingannare e avrebbe preferito evitarsi il disagio di doverlo fare. In quell’istante un lampo di luce sinistro balenò in lontananza, tra le foglie. Il tempo di vederlo, e già era scomparso, Sianna s’immobilizzò, folgorata dalla familiarità di quella sensazione.

Tanet nel mentre sbuffava «Possiamo sempre tenerla come ultim…»

«L’ha vista?» lo interruppe senza nemmeno accorgersene.

Il maestro inarcò un sopracciglio «Che cosa?»

Esitò, si guardò ancora intorno. Temeva di essersi immaginata tutto, ma poi, di nuovo, un’improvvisa sfera di luce comparve e venne inghiottita dal verde.

«Eccola!» lo urlò che già aveva iniziato a correre, prima che Tanet potesse capire ed acciuffarla. Corse a perdifiato, saltando le radici e scostando con le mani i rami, la braccia portate avanti per difendersi il volto da quelle dita raggrinzite e acuminate che le frustavano la pelle nuda. Sfondò una barriera di edera che ricadeva poeticamente dagli alberi e creava l’effetto di un velo, incespicò e cadde. Rotolò sgraziatamente e quando finalmente l’attrito arrestò il rovinoso scivolone, Sianna si ritrovò distesa supina a fissare un cielo azzurro, incredibilmente limpido.

La sfera di luce era scomparsa, stordita realizzò che forse non c’era mai stata, che si era fatta ingannare da un suo personale desiderio. Si mise a sedere e si ricompose un poco, sbattendo la tunica lacera sulle ginocchia e già sporca in maniera indecente, poi tornò a guardarsi attorno e le mancò il fiato per la meraviglia e la sorpresa.

Era capitata in una piccola radura delimitata da un anello di querce.

I raggi di sole penetravano a macchie dalle frasche ed avevano la sfumatura delicata di una nebbia verde, il caprifoglio selvatico cresceva rigoglioso, si attorcigliava lungo i tronchi degli alberi con la stessa sacralità ed eleganza di un fregio scolpito nella pietra. Sotto di lei il terreno era morbido di umidità, muschio e pioggia, lo tastò con le punte delle dita e senza pensarci troppo tornò a distendersi. Lo squarcio di cielo fiordaliso feriva la composizione delle cime arruffate degli alberi come un taglio sanguinante estate e calore.

Chiuse gli occhi, serrò le palpebre e restò in silenzio, in attesa, a crogiolarsi in quel sentimento strano di pace e amarezza insieme, nell’essersi illusa di aver riconosciuto e trovato qualcosa che aveva perduto.

Aveva seriamente pensato che quella luce fosse lui, ma se ci rifletteva attentamente, non era possibile, lo capiva. Alla fine Tanet la raggiunse, spuntando da un cespuglio con l’aria arruffata, il volto contratto dallo sforzo e dal sudore e il fiato corto. Si liberò dei rametti impigliati nella propria casacca inveendo tutto il suo fastidio, Sianna lo studiò con la coda dell’occhio e alla fine si lasciò andare ad una profonda risata.

«Piccola disgraziata! Non farlo mai più!»

«Maestro, lei è troppo scettico e non ha pazienza» lo rimbeccò bonariamente con un accenno di sorriso sulle labbra, mentre ascoltava i rumori dei passi affrettati del sacerdote che la raggiungevano.

«E questo che vorrebbe dire?»

Sianna sollevò pigramente la mano, ad indicare con l’indice teso le querce che delimitavano la radura: tra le ramificazioni più alte spuntavano sfere perfette di vischio.

«Ah»

«Eh» rise lei.

«Sono solo pratico. Su, alzati, prima finiamo questa storia, prima posso tornare a fare il mio lavoro»

«Che sarebbe dire a me quello che devo fare?» lo pungolò ampliando il suo sorriso sfacciato. Tanet scrollò le spalle, le mise bruscamente una mano fra i capelli e sfregò con forza, strappandole una lamentela tra le risate. Quando la liberò era arruffata come un gufo irritato, la chioma annodata le ricadeva dovunque, sopra agli occhi, rendendo il suo aspetto, già discutibile, terribilmente tragico.

«Dovresti legarti questa chioma indomita, prima di poterti lamentare»

Si alzò scrollandosi come un animale bagnato «Non c’è alcun legame tra le due cose» ribatté saccente, e Tanet liberò l’ennesimo, esasperato sospiro.

Ignorandola, si concentrò sui cesti intrecciati che portava al braccio e recuperò un falcetto rituale d’oro avvolto in un panno. Glielo porse con un ghigno «Già che sei così onesta e attaccata alle tradizioni, a te va il compito di salire là sopra a recuperarlo. Usa questo senza farti problemi»

Sianna deglutì a fatica un abbondante blocco di saliva, quasi solido nella bocca d’improvviso secca. Accarezzò con gli inquieti occhi azzurri la quercia in tutta la sua imponenza, comprese quelle buffe palle di vischio grandi quanto la sua testa, dai contorni perfettamente definiti che sembravano decorazioni naturali. Anche solo l’altezza dei rami più bassi le faceva provare una nausea discreta.

«Non vorrei mai privarla di un simile onore» la voce tremola, appena venata di panico, la tradì.

«Sianna Eilan, non avrai paura spero!»

Le guance le bruciarono di umiliazione «Certo che no! L’ho fatto centinaia di volte! Forse dimentica dove sono cresciuta, io ci sono nata tra gli alberi» che l’altezza la terrorizzasse, quello lo tenne per sé. Afferrò il falcetto, lo legò alla corda in vita, e si appigliò ad un nodo del legno con cui si aiutò a issarsi.

Da bambina lo faceva spesso, senza alcun timore. Un giorno però, uno strano senso di vertigine l’aveva presa a tradimento, le era sembrato di trovarsi distante mille braccia da terra, si era sentita cadere e schiantare ed il dolore era stato tanto forte e terrorizzante che, nonostante avesse realizzato di essere al sicuro, era rimasto dentro di lei un riverbero, una sensazione di già vissuto. Da quel momento, era sto difficile fare fronte a quella paura ancestrale, radicata con una forza destabilizzante in lei senza ragione alcuna. Negli anni, se possibile, si era acuita, ma il suo smisurato orgoglio abbacchiato non riusciva ad accettare quel limite immotivato e a modo suo, con testarda caparbietà, si era fatta violenza per gestirla.

«Adesso vedrà»

«Non borbottare»

Raggiunse i rami più bassi, si protese, si aggrappò ad una sporgenza e arrivò ad una biforcazione nella quale sostò. Sotto le sue dita, il muschio umido e viscido si mischiava al ruvido della corteccia. Prese fiato e ricominciò la scalata.

 

Non guardare giù

 

Giunta alle fronde più alte, scelse un ramo solido e lo percorse strisciando sulla pancia, abbracciata saldamente al tronco largo.

«Posso sapere che stai facendo?»

Sianna si morse la lingua, per evitare di dare una risposta poco consona che l’avrebbe costretta a guardarlo. Il maestro però, perverso sadico che adorava infierire, ridacchiò con scherno abbastanza forte da farsi sentire. Strizzò le palpebre decisa a non guardare in basso, rossa d’imbarazzo, e proseguì fin quando qualcosa non le pizzicò il naso, causandole un istintivo starnuto. Spalancò gli occhi e con sorpresa si ritrovò con la faccia quasi infilata in una palla di vischio. Balzò all’indietro, quasi perse l’equilibrio e la risata divertita di Tanet la raggiunse ancora.

«Maestro, è arrivato il momento che qualcuno le dica la verità: lei non è divertente, neanche un po’!»

«Io mi trovo abbastanza divertente»

Sianna arricciò il naso «Avessi mai visto qualcuno ridere» ribatté ostica. Il Maestro tacque, Sianna riuscì a percepire tutta la sua indignazione.

«Muoviti piccola serpe o giuro che ti lascio qui»

«Con il rischio di divenire spergiuro? Lo sappiamo entrambi che non mi lascerebbe mai qui da sola» ribatté, fingendo una sicurezza che non era certa di provare. Si mise a cavallo del ramo e iniziò a tagliare i rametti di vischio colmi di bacche bianche, traslucide. Le lasciava cadere nel vuoto ed il maestro si affrettava a recuperarle tra un borbottio e l’altro. Non le ci volle molto per concludere il lavoro, ad un tratto Tanet la invitò a scendere «Ne abbiamo a sufficienza, muoviti»

Un panico traditore le afferrò la nuca in un moto di nausea, le strizzava le viscere in spasmi sgradevoli. Guardò in basso, spontaneamente, e la presa di coscienza improvvisa dell’altezza fece fare al suo stomaco una spiacevole capriola. La vertigine le tolse il fiato, provò ancora quell’immediata sensazione di precipitare nel vuoto, il dolore alla schiena e lo schianto.

Il rumore del tonfo, le sue ossa che si spaccavano contro il suolo.

Sangue, piume insanguinate e lacrime per un male allucinante che la annichiliva.

Si attaccò istintivamente al ramo, lo abbracciò stretto.

«No!»

Tanet ridacchiò «Dai, sciocca, vieni giù!»

Strizzò gli occhi per trattenere il pianto e il magone che le serrava la gola «No!» ribadì risoluta «Non voglio!»

L’ansia che provava era tale che non le riusciva di percepire la presenza del maestro, tantomeno le sue sensazioni o la perplessità che comunque le riusciva di immaginare sul suo volto grazie al peso del suo silenzio.

«Ma stai scherzando?»

«No!»

«Va bene, allora prova a calmarti e respira profondamente. Non puoi mica restare lassù!»

«Vogliamo scommettere?» lo sfidò per orgoglio, ma già non riusciva più a controllare il respiro, il cuore batteva impazzito contro il costato. Era una paura strana, che non era legata solo alla sensazione del cadere, ma all’impressione di qualcosa di catastrofico nella caduta.

«Vuoi davvero rimanere lì?»

«Certo che no!»

«E allora perché diavolo non scendi?»

«Perché non voglio» ringhiò disperata.

La voce di Tanet si aprì ancora un varco nella sua mente annebbiata dall’attacco di panico «Hai davvero paura delle altezze?» l’ilarità che permeava quella sua domanda retorica la irritò e la fece scattare sulla difensiva

«Assolutamente no!»

«Senti, vengo a prenderti»

«No!» alzò la testa di scatto, per riflesso, ed un senso di profonda vertigine le offuscò la vista, un capogiro improvviso a tradimento che non aiutò il suo stomaco provato: prima che potesse trattenersi, stava già rigettando la colazione.

Tanet urlò con disgusto «Ma che schifo! Sianna, è una cosa rivoltante!»

Il sapore amaro della bile aumentò la nausea, le impastò la bocca e si sposò con l’umiliazione più cocente della sua vita. Come fuori dal suo corpo, si vedeva a terra, una bambola spezzata ed inquietante, sanguinante nei suoi arti fuori posto.

Un giocattolo grottesco intriso di sofferenza. Non capiva cosa le succedesse, ma quell’immagine diventava sempre più viva e terrificante nel tempo, ed ora a terra non vedeva Tanet, vedeva quest’altra se stessa in agonia e le mancava il fiato «Se ne vada. Farò da sola, vada via!»

Voleva affrontare quella chimera, quello spirito che la perseguitava come fosse infestata dall’anima di un morto che condivideva con lei, per ragioni sconosciute, il trauma della sua morte. Non si era trovata altra spiegazione a quella fobia che non le apparteneva, ma non avrebbe mai potuto spiegarlo al maestro senza risultare pazza, e quindi le rimaneva solo il disagio della costernazione più totale.

Tanet esitò «Aspettami qui» borbottò infine «Vado a recuperare una scala e torno»

Ascoltò il rumore dei suoi passi che si allontanavano farsi più leggeri fino a sparire. Si ritrovò sola, prese un grande respiro, si pulì la bocca screpolata con la manica logora del proprio abito e tornò a guardare in basso la carcassa visionaria di quell’anima morta. Lentamente, in un movimento che pareva uno sforzo logorante, quel corpo devastato inclinò la testa, la fissò negli occhi.

Le sue iridi eterocrome erano inconfondibili anche da quella distanza, Sianna ne rimase quasi incantata, ricambiò quello sguardo duro e profondo che non sembrava appartenere ad un essere mortale, che stonava con il dolore che le sue membra sfracellate emanavano.

 

Chi sei tu?

Perché sembra tanto che tu non possa provare dolore, se è la paura del tuo dolore a paralizzarmi?

 

Se lo era chiesto ogni volta che aveva affrontato quell’entità invisibile a chiunque, perfino agli spettri. Forse non era uno spirito, non era reale, era solo una sua delirante visione, eppure si faceva più concreta e chiara quando capitava che Sianna la richiamasse. Quegli occhi distanti di una freddezza ultraterrena erano sufficientemente inquietanti da darle almeno il sollievo di sapere che erano troppo lontani e quella donna era troppo distrutta per potersi avvicinare a lei.

Lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ruppe il contatto visivo che aveva instaurato con la propria visione.

Come si era formata, la donna scomparve, ma non l’inquietudine che l’attraversava in scosse nervose. Si guardò inquieta attorno, sollevò la testa arruffata e con sua sorpresa vide accanto a sé una familiare e diafana sfera di luce. Era quasi camuffata dai raggi solari di quella giornata serena, ma Sianna la conosceva troppo bene per potersi confondere.

Con meraviglia si rese conto che non l’aveva immaginata, era stata la sfera stellata a condurla in quella radura, anche se sembrava impossibile.

«Non può essere»

Allungò le dita bianche per sfiorare la superficie del globo. Era morbido come pelliccia, emanava un calore tale da intorpidirle la mano di un tepore dolce e familiare. Era senza dubbio una Hoshi no Tama.

«Kii?» chiamò piano, incerta.

Si guardò ancora attorno, sentiva dei rumori, come se qualcuno si stesse arrampicando sul tronco della quercia. Raccolse il suo coraggio e fece scivolare le gambe a cavallo del ramo. Si voltò, chiamò ancora «Kii, sei davvero tu?»

«Posso sapere cosa ci fai qua sopra?»

I muscoli le si irrigidirono e quasi perse l’equilibrio per lo spavento.

Si era aspettata l’imprevedibile, ma non di ritrovarsi faccia a faccia con suo fratello. Ynyr compì un ultimo balzo e si issò sul ramo davanti a lei, accovacciato come una pantera, le sopracciglia bionde corrucciate e quella sua aria insofferente nella piega della bocca, nelle palpebre socchiuse in una flemma annoiata. I ciuffi ribelli della frangia gli nascondevano la fronte e parzialmente gli occhi.

«Ti rigiro la domanda!» esclamò incredula.

Trasecolò se possibile ancora di più quando vide fare capolino, dalla spalla del fratello, il musino rosso e bianco, adorabile e dolce, di una piccola volpe dagli occhi intelligenti e l’espressione impertinente «E cosa ci fai con Kii!»

Ynyr si sfregò la casacca nera che gli ricadeva larga sul corpo magro, la fissò intensamente per un lungo, pesante istante, e le sue pupille scure, minuscoli puntini in campo azzurro, ripercorsero la sua figura, soffermandosi troppo sulle sue gambe scoperte dall’abito che si era arrotolato quando si era arrampicata. Quell’occhiata la rese consapevole dello stato poco decoroso nel quale versava, Sianna si sentì nuda e cercò goffamente di riabbassare l’orlo della gonna il più possibile.

Fu solo un momento, subito il fratello chinò il capo e deviò la sua attenzione, a disagio.

«La tua palla di pelo» soffiò con fastidio «Mi sta addosso da giorni. Ti ha portata qui per incontrarti, quando ti ha visto da sola qua sopra ha iniziato a tormentarmi»

Afferrò la piccola volpe per la collottola e se la scrollò di dosso, poi gliela porse con lo stesso tatto che si sarebbe potuto dedicare ad un oggetto, più che a un animale «Riprenditela, o ci faccio una pelliccia»

Sospeso nel vuoto, Kii dimenò le zampine all’aria in segno di protesta, soffiando buffi suoni.

«Ynyr, non trattarlo male!»

Sianna recuperò la kitsune e se la strinse al petto, lasciando che Kii le leccasse il volto in un raro gesto di tenerezza. La sua Hoshi no Tama continuava a veleggiare sospesa sopra le loro teste, si muoveva come trasportata dalla brezza, sembrava davvero un sole o una piccola stella, uno spettacolo che aveva il dono di affascinarla sempre.

«Non ci credo che sia davvero qui! Perché non me lo hai detto? Pensavo non lo avrei più rivisto!» doveva essere un rimprovero, eppure le era sfuggita tutta l’esasperazione, la disperazione per quei lunghi silenzi e l’improvviso astio di suo fratello, che proprio non riusciva a spiegarsi.

Il viso d’Ynyr non mutò, né si fece strada almeno un piccolo accenno d’espressione, una ruga.

«Non è un mio problema» la liquidò pacatamente «E comunque, non impari mai la lezione»

Punta sul vivo, Sianna riprese pienamente coscienza di dove si trovasse e il colore defluì dal suo volto. Che il fratello poi le lasciasse intendere, con il suo atteggiamento, che non era disposto a scherzare o a chiacchierare amabilmente, abbassò ulteriormente il suo morale. Si portò la mano alla bocca, per trattenere un conato e nasconderlo.

Le sopracciglia di Ynyr si aggrottarono «L’hai vista ancora?»

Annuì piano e lo vide sussultare. C’era una sorta di inquietudine in lui, ma il fratello era l’unico con cui il suo dono, la sua eccessiva percezione, non funzionava, e per questo i suoi pensieri erano a Sianna sempre oscuri e indefiniti.

«Ti ha avvicinato?»

«No» esitò, prese un bel respiro «Ma mi ha guardata, stavolta. Dritta negli occhi, mi vedeva come io vedevo lei»

Anche Ynyr scolorò e per un momento sembrò smarrito. Le afferrò bruscamente il polso, strinse con troppa forza «Non permetterle mai di avvicinarsi a te. Qualunque cosa succeda, non importa quanto tu sia curiosa. Non permetterle mai di toccarti, chiaro?»

Spaventata, Sianna si affrettò ad annuire ancora.

Non era la prima volta che Ynyr la metteva in guardia su quell’ancestrale creatura, ma non c’era mai stata in lui una tale urgenza, una simile ansia. Lui non la poteva vedere, eppure sembrava spaventato da lei come se sapesse qualcosa che a Sianna sfuggiva, e questo era l’elemento di maggiore disturbo in tutta quella faccenda.

Rassicurato, Ynyr seppellì nuovamente qualunque forma di umanità dietro la sua inscalfibile facciata. Le diede la schiena, e con un semplice gesto del capo le fece capire di avvicinarsi.

Sianna abbracciò stretta la volpe, per farsi forza, poi la liberò perché il piccolo spettro potesse abbarbicarsi sulla sua spalla. La kitsune la circondò con la sua coda vaporosa e quando Sianna la sentì affrancata, in maniera anche abbastanza dolorosa, si accostò al fratello, gli gettò le braccia al collo e si agganciò con le gambe intorno alla sua vita.

Ynyr sospirò di incomprensibile frustrazione quando lo strinse, poi si mosse e Sianna chiuse gli occhi per non vedere il vuoto sotto di sé mentre il fratello la portava giù da quella quercia infernale.

Non appena il ragazzo toccò suolo le appoggiò le mani sulle cosce e fece pressione per invitarla a scendere. I muscoli della sua schiena si contrassero in uno strano spasmo, una postura rigida, come se qualcosa non andasse, come ci fosse un pensiero che non poteva condividere con lei, perché non era in grado di comprenderlo. C’erano molte cose di lui che le erano sempre sfuggite nonostante fossero cresciuti assieme e fossero molto uniti, in quei momenti di straniamento Ynyr sembrava perdere l’uso della parola, era incredibile allora come i suoi occhi riuscissero ad allontanarsi dal mondo e a risultare spietati. Quella sua capacità di provare indifferenza a comando la feriva più di quanto fosse disposta ad ammettere.

Scese a terra e le gambe le cedettero. Si lasciò cadere nell’erba morbida e rivestita di muschio, Kii si innervosì e le conficcò le unghie nella schiena. Ci era abituata, ma faceva male lo stesso.

Ynyr le rivolse uno sguardo laconico.

Non si parlavano dal giorno della commemorazione, Sianna pensò che fosse il giusto momento per porre fine a quell’insensata separazione, ma suo fratello le diede la schiena e si allontanò senza aggiungere una parola.

«Ma… davvero?» gli urlò contro furiosa.

Tornò a guardarla da sopra la spalla, l’incarnazione della sufficienza e della presunzione «Vuoi qualcosa?»

«Sei serio?»

Ynyr abbozzò un sorriso di scherno «Riformulo: ti aspetti qualcosa?»

Ringhiò «Figurati» e si sforzò di regalargli il medesimo ghigno sfrontato «Da te assolutamente nulla»

 

Non ti dico dove puoi metterti il “grazie” che da idiota pensavo pure di doverti!

 

Il fratello scrollò le spalle e quella sua aria laconica e enigmatica la caricò di dubbi e perplessità che proprio non trovavano ragione

«È un sollievo. Kii, fa’ in fretta, non ho tutto il giorno» lo osservò raccogliere una grande sacca appoggiata a terra, ai piedi della quercia, e andarsene senza mai voltarsi.

Kii scese a terra con un elegante guizzo, una fiamma rossa e bianca. La sua Hoshi no Tama li aveva seguiti pigramente illuminando di un bagliore spettrale le ombre degli alberi e i fili d’erba. La Kitsune si sporse, l’annusò, spalancò le fauci e la ingoiò tutta intera. Il suo corpo si sfamò di quella luce, la assorbì e divenne tanto brillante da essere insostenibile. Sianna chiuse gli occhi e si nascose dietro il dorso della mano. Fasci luminosi filtravano tra le dita e le rischiaravano di rosso.

Aspettò che la fonte di luce si consumasse, poi sbatté le palpebre per eliminare i puntini e le macchie arancioni impresse nella cornea: davanti a lei non c’era più un animale, ma un ragazzino rannicchiato, con il volto celato da una grottesca maschera dalle fattezze di una volpe. Bianca, lucida, con la bocca atteggiata ad un ghigno inquietante e gli occhi sottili, due linee chiuse di un muso dormiente. Il corpo rachitico, dalla linea irregolare e la schiena ricurva di un animale pronto a scattare, era celato da un abito che arrivava alle caviglie. Le maniche larghe lo ricoprivano interamente, nascondendo le mani sottili, quelle dita lunghe e affilate che Sianna aveva imparato a conoscere, e un’ampia cintura fermata con un nodo sul davanti gli stringeva la vita, accentuando la sua figura efebica.

I piedi erano nudi e sporchi di terra, aguzzi, ma il ragazzino mascherato non vi prestò alcuna attenzione, rimase indolente, immobile, a fissarla attraverso una maschera che poco gli concedeva di visuale. Sianna lo afferrò bruscamente per la collottola e quasi lo sollevò da terra, portando il proprio viso ad un soffio dalla maschera bianca.

«Mi devi parecchie spiegazioni, Kii, o mi sbaglio? Cosa ci fai con mio fratello?» osservò l’enigmatica espressione pacata della maschera e per qualche ragione si alterò «Anzi, cosa ci fai tu, qui?»

La domanda uscì permeata di fastidio, nonostante in realtà fosse più che felice di ritrovare la kitsune. Era la confusione e il risentimento che suo fratello le aveva lasciato addosso ad alterarla, riuscendo perfino a sormontare e cancellare la curiosità e l’entusiasmo che l’avevano spinta ad inseguire una sfera stellata.

Il ragazzo volpe sghignazzò beffardo, la mano artigliata scostò la maschera e la poggiò sulla testa, a mostrare un volto efebico quanto il suo corpo, affilato, con gli zigomi alti costellati di efelidi, la bocca tagliente e vagamente ferina, le sopracciglia sottili e gli occhi sanguigni ravvicinati. La chioma bianca che sfumava nel fulvo sulle punte era corta e scompigliata, la maschera aveva schiacciato un’orecchia pelosa che spuntava tra le ciocche ribelli, residuo della sua natura di fiera. Tutto di Kii faceva pensare ad un astuto animale inselvatichito, non ad un ragazzino di non più di tredici anni.

La kitsune, a tradimento, azzerò la distanza tra i loro volti e le leccò le labbra. Sianna lo respinse bruscamente, imprecando «Sei il solito maledetto»

Kii atterrò come un animale avrebbe fatto, si piegò sulle ginocchia e inclinò il capo, soppesandola in silenzio.

Allora, Sianna si pulì la bocca con il dorso della mano e sospirò «Come fai ad essere qui?»

«Vi ho persi»

Non era abituata a sentire la sua voce reale e non solo interiore. C’era ancora il rimasuglio di un latrato acuto che la rendeva poco umana, nonostante l’articolazione dei suoni.

«Ho fiutato il vento per settimane, prima di ritrovare la scia del tuo odore»

«Ci hai persi?»

Kii si grattò flemmaticamente la guancia con il polso, socchiuse gli occhi taglienti, così simili alla sua controparte animale che per un attimo le due immagini si sovrapposero e il ragazzo assomigliò in modo inquietante alla sua maschera statica.

«Sì, il giorno dopo quella notte. I tuoi umani ti hanno portata via»

«Con i miei umani intendi Daniel e Henry, suppongo. Non capisco perché mi hai cercata comunque, hai abbandonato la valle. Non pensavo potessi allontanarti dalle altre kitsune»

Erano così poche, le volpi in grado di diventare yokai, dovevano riuscire a sopravvivere oltre i cinquanta, a volte i cento anni, e i clan di kitsune si facevano sempre più ristretti nel tempo, molti erano scomparsi. I cuccioli come Kii erano custoditi gelosamente, erano un lascito, la speranza di una continuità.

Il ragazzino però non sembrava curarsene «Ordini. La mia padrona mi ha detto di trovarti, dovevo assicurarmi della tua incolumità»

Kii e Ynyr avevano, a modo loro, qualcosa in comune: il tono inespressivo con cui erano soliti esprimersi.

Certo, la kitsune aveva perlomeno la scusante di non essere umana, un’attenuante che suo fratello di certo non poteva vantare. Si chinò sul ragazzino e gli scompigliò affettuosamente i capelli selvaggi «La tua misteriosa padrona, sempre lei eh? Tornerai da lei ora?»

Più come un gatto che faceva le fusa, piuttosto che una volpe, Kii sfregò la testa e la guancia contro la sua mano, con un movimento languido del capo e gli occhi socchiusi «No, è presto. Devo stare qui e controllarti»

Continuò ad assecondare i suoi vanitosi bisogni di attenzione, pur se accigliata «Ma perché Ynyr? Tu non lo sopporti. Potevi venire direttamente da me»

Il ragazzino arricciò il musino e si ritrasse bruscamente, con stizza e un uggiolio gutturale in gola «Tu sei sempre circondata da troppi umani»

Era un discorso trito e ritrito, Kii si risentiva quando non poteva avvicinarla, anche in passato, per colpa degli uomini. Ne aveva un terrore atavico, quasi incomprensibile per lei, e questa paura causava un paradosso assurdo: Kii la cercava solo quando sapeva di non poterle parlare, era un suo metodo per farla sentire in colpa e vincolarla a lui, da piccola volpe viziata e capricciosa qual era.

Il suo sbuffare la fece ridere «Sono umana anche io» gli rammentò sorridendo.

La volpe ghignò ancora, mostrando una chiostra acuminata di denti «Un altro tipo di umana, certo»

Lo osservò mentre si stirava, distendeva le braccia a terra a cacciava un grande sbadiglio, come se un animale lo fosse ancora. Nonostante l’apparenza, proprio non riusciva a limare i suoi aspetti più primitivi, né a nascondere la propria coda e le orecchiette pelose e morbide. Ancora non sapeva gestire il suo camuffamento, per questo non gli piacevano gli uomini, non era in grado di celarsi tra loro come facevano invece i membri più anziani della sua specie.

Nei suoi movimenti oziosi, la Hoshi no Tama, dalle sembianze ora di una grossa perla legata con una catenina al suo collo, scivolò fuori dall’abito e penzolò mollemente nel vuoto.

Sianna ebbe come un’illuminazione «Come hai fatto a ritrovarla? L’avevi affidata a me, ed io pensavo di averla smarrita quella notte»

Quando si era risvegliata era a Lochlainn, le ci erano voluti giorni per recuperare quanti più frammenti possibili di memorie, e solo successivamente si era accorta di aver smarrito la sfera stellata dell’amico, troppo tardi per poter fare qualcosa a riguardo.

Kii sbatacchiò le grandi orecchie, i capelli erano candida neve sporcata di rosso, gli occhi sanguigni si socchiusero e la studiarono con una perplessità fin troppo manifesta.

«Non l’hai persa, me la sono ripresa. Io ero lì» inclinò il capo «Ma tu non lo ricordi. Deliravi. Tu non hai riflessi, non hai memorie, devo sentire per te se non senti da sola»

Sianna sbatté le palpebre confusa davanti a quella raccolta di parole senza senso.

 

Io non ti capisco, non ti capirò mai maledetto spettro

 

E non poteva nemmeno sperare che chiedere le avrebbe fruttato almeno qualche risposta e non solo un’altra sfilza di domande.

«Kii?»

«Mhm»

«Un giorno me lo dirai perché la Dama del Lago ti ha mandato da me?»

Non si riferiva semplicemente a quel momento, ma già ai loro primi, destinati incontri. Kii sbadigliò ancora, mostrandole l’antro della bocca, i denti aguzzi come stalattiti e stalagmiti affilate, poi le sorrise scaltro «Ci piacciono certi tipi di umani» rispose sibillino, infrangendo in lei qualunque speranza di sottrargli qualche verità.

Rassegnata si mise a sedere a terra e incrociò le gambe. Studiò il terreno e individuò un bastoncino, con quello tra le dita iniziò distrattamente a disegnare nel terriccio umido, spodestando zollette di muschio. Il ragazzo volpe si acciambellò accanto a lei e poggiò la testa sulle sue cosce, con un gorgoglio soddisfatto simile a delle fusa.

Sianna si bloccò, lo guardò per un lungo istante, ma venne ignorata.

«Voi spettri siete impossibili» mormorò assorta. Aveva già smesso di provare a pensare a Kii e a tutto ciò che la sua comparsa poteva comportare, perché in realtà era consapevole dell’inutilità dei suoi sforzi. La Kitsune era molto più testarda, viziata e impossibile di lei, era una sfida persa sul nascere.

Si concentrò invece sul legnetto, provò a scrivere il suo nome ma la mano tremava e le rune uscivano mosse, scarabocchi informi, fili di pensieri ingarbugliati.

Sussultò e Kii con lei quando avvertirono un rumore in lontananza, di qualcosa di ingombrante che strisciava. La volpe drizzò le orecchie, annusò la brezza «Un essere umano» digrignò i denti, la voce intrisa di disprezzo e di un suono più fondo e gutturale, bestiale «La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi doni»

Sianna si affrettò ad annuire «Sì, non credo li abbiano persi. Devo assicurarmene? È così importante?»

I passi si fecero più distinti, così come il fracasso di un oggetto che veniva trascinato. Kii si risistemò la maschera sul viso efebico, afferrò rapidamente la perla che portava al collo, grande quanto un chicco d’uva, e ruppe la catenina con un movimento secco.

Il gioiello pulsò di un caldo bagliore. Crebbe di luminosità, e più cresceva più il corpo del ragazzino si prosciugava di quella luce che veniva riassorbita dalla sfera. Le unghie affilate mutarono davanti al suo sguardo attento in artigli, la peluria sottile delle braccia crebbe, s’infoltì e si trasformò in morbido pelo; la maschera volpina si fuse alla pelle, si allungò modificandosi in un muso furbetto, gli occhi si assottigliarono, la calotta cranica si estese e le gambe divennero zampe.

Nella perla si condensò tutta la luce, la sfera si sollevò nell’aria come sospinta da una carezza e riprese il suo naturale aspetto di Hoshi no Tama. Il ragazzino era tornato ad essere una piccola, indisponente volpe.

Il globo galleggiava familiare davanti a lei, splendente come una stella cadente. Sianna poteva ancora ricordare la nostalgia del giorno in cui, per la prima volta, aveva scorto una sfera stellata. Un corteo infinito di globi infuocati, simili a lanterne di carta che avevano creato un sentiero nell’oscurità e avevano attirato la bambina che era stata come una falena verso le fiamme.

Kii arrotolò la coda morbida attorno al globo di luce e le lanciò un’ultima, penetrante occhiata

Guardati le spalle, Sianna.

Guardati dagli uomini.

 

«Sianna? Sei viva?» la voce del maestro giunse inaspettata e la fece sussultare per la sorpresa. Kii non le diede la possibilità di replicare, iniziò a correre e in un lampo venne inghiottito dal sottobosco. Sianna si appoggiò al tronco della quercia e attese che Tanet comparisse anche fisicamente, già che aveva spaventato la kitsune prima che questa le desse uno straccio di informazione.

Era ancora troppo meravigliata per mettere davvero a fuoco di aver incontrato di nuovo Kii, si era convinta che non avrebbe più rivisto lo spettro, soprattutto perché aveva avuto la certezza di aver smarrito la sua sfera stellata.

Una volpe non poteva sopravvivere a lungo senza la sua Hoshi no Tama, questo le era stato spiegato molto bene. Eppure Kii era vivo e vegeto, e in un modo che le sfuggiva aveva recuperato quella sua strana anima di luce.

 

Perché ti sei avvicinato tanto ad un centro abitato? Proprio tu che diffidi più di chiunque degli esseri umani?

Cosa non mi racconti stupida volpe?

 

 

Tanet riemerse finalmente nella radura, masticando un’imprecazione e poi un’altra. La sua figura venne rischiarata da una pioggia di pepite di sole, che fecero risaltare a chiazze le gocce di sudore sulla fronte. Aveva con sé una scala a pioli che lasciò cadere con un tonfo quando la vide stesa nel prato, perfettamente rilassata e incolume.

«Ti sei presa gioco di me?»

Sianna valutò di mentirgli, solo per non dargli la soddisfazione di sapere che realmente aveva avuto paura. Era tanto scioccato però, che accantonò immediatamente l’idea di una bugia per non farlo arrabbiare sul serio. Inoltre, aveva sempre confessato i suoi misfatti e le sue bugie in tempi brevi, in passato, non aveva mai avuto il nervo necessario a sopportare il senso di colpa di una menzogna e aveva solo collezionato insuccessi.

Scosse piano la testa «No»

Tanet si grattò la nuca, poi sospirò e si sedette accanto a lei «E come cavolo sei scesa?»

«Mi ha tirato giù mio fratello. Era nei dintorni, deve averci sentito»

Omise, per abitudine, la presenza della volpe e quello strano dialogo che le aveva lasciato addosso un profondo senso d’inquietudine.

Si stava ripetendo ancora le parole della volpe, perciò non realizzò subito l’aria sconvolta del maestro.

«Hai un fratello?» le chiese con la fronte aggrottata in un cipiglio pensieroso, basito.

 

Non ho mai parlato di Ynyr, nemmeno una volta.

Nemmeno per errore

 

Aveva protetto inconsciamente l’esistenza di suo fratello, l’aveva custodita come un segreto e non se ne era resa conto. Ynyr era sempre stato, per lei, una ferita aperta e costantemente infetta, eppure non aveva mai scelto di condividerlo con nessuno, nemmeno in passato, e fu strano accorgersi che certi vizi erano destinati a durare nel tempo.

Se Tanet non conosceva quel ragazzo, allora Ynyr non si trovava nemmeno nei dormitori dei sacerdoti, ed allora capire cosa stesse facendo quel teppista con cui condivideva il sangue diventava ancora più difficile.

«Sì, ho un fratello. Ma non parliamo molto ultimamente»

 

Da quando nostra madre è morta

 

Avrebbe voluto aggiungere. Avrebbe dato qualunque cosa per capire quale meccanismo mentale quella perdita avesse fatto scattare in lui, per spingerlo a comportamenti tanto incomprensibili. Si trattenne dal lamentarsi solo perché odiava le uscite infelici ed odiava risultare patetica.

Tanet storse la bocca, si rialzò, spolverò un poco i vestiti inzaccherati e le porse la mano per aiutarla a issarsi.

Le sorrise. Uno di quei suoi sorrisi tranquilli e pacati, che trasmettevano serenità e sicurezza «Fossi in te non mi preoccuperei troppo. Tra fratelli è normale discutere, no?»

Sianna arrangiò un sorriso, solo perché voleva che quella conversazione si consumasse presto. Tra lei e Ynyr c’era sempre stato un precario equilibrio, un legame morboso, a tratti difficile. Quell’equilibrio, il filo sottile che li aveva collegati fino a quel momento, si era spezzato, e non aveva idea di dove questa rivoluzione li avrebbe condotti, né era certa di volerlo scoprire. Quel distacco era un tormento tanto costante da aver permeato la sua esistenza, un piccolo dolore sordo a cui si stava, suo malgrado, abituando.

Era tante cose, ma non normale.

Suo fratello era un’anima imperscrutabile e lontana, se nascondeva qualcosa non lo avrebbe mai capito finché lui stesso non ne avesse parlato.

«Probabilmente ha ragione lei»

Spostò i capelli lunghi che le si adagiarono sulle spalle come una coperta. Recuperò le ceste, mentre il maestro raccoglieva la scala a pioli e se la caricava in spalla.

Si avviarono fianco a fianco, in silenzio.

La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi doni”, quella domanda tra le tante che avrebbe potuto ricevere, aveva risvegliato un certo nervosismo. Non era così che aveva immaginato di riabbracciare la piccola volpe, amica fidata e compagna di giochi in un’infanzia di solitudine.

 

Gli spettri hanno troppi segreti.

 

Pur sapendolo, non si era mai allontana dallo Yokai, né aveva temuto la sua ambigua padrona che da lontano l’aveva sempre osservata attraverso la kitsune. Ora, anche i suoi doni si tramutavano in un arcano inquietante.

 

Andrò da Lisy, dopo, e mi assicurerò che non li abbiano persi o quella sciocca kitsune diventerà ingestibile.

 

Riguardo suo fratello invece, decise di inghiottire il nervoso e di aspettare che si riassestasse da solo, probabilmente più per viltà personale che non per una qualche forma di concessione nei suoi riguardi.

«Puoi passare da Arfon per portargliene una?» Tanet indicò una delle due ceste, interrompendo il filo corrente dei suoi pensieri inconcludenti.

Storse la bocca «Preferirei non fare più consegne. Non a lui, quel vecchio non mi piace»

Preferì non specificare che il suo rifiuto nei confronti dell’anziano era più che altro paura, ma ne provava molta. Tanet acuì lo sguardo in un dubbioso taglio a mezzaluna, un implicito invito a spiegarsi, così sospirò rassegnata «L’ho sentito di nuovo. Mi ha chiamata ancora così»

«Demonio?»

Si morse le labbra «Anche. Diciamo che non parla di me in modo troppo amichevole» minimizzò con un’alzata di spalle. Il maestro annuì assorto «Stai indossando i guanti?»

Sollevò la mano all’altezza del viso, per mostrargli la pelle coperta da un leggero strato di stoffa nera.

«E allora cosa temi?»

Sianna arricciò il naso.

Non sapeva come spiegare che qualcosa in lei, nel suo aspetto e nel suo essere, era fonte di repulsione per le persone che la circondavano. Non sapeva e non voleva spiegarlo ad uno dei pochi che sembrava immune a quella distanza naturale che si poneva tra lei e il prossimo. Sarebbe stato inaccettabile, se il maestro avesse preso coscienza di quel “qualcosa”, e l’avesse allontanata. Il suo broncio ammorbidì Tanet, che allungò una mano ad accarezzarle la testa «Ho capito. Me ne occuperò io»

«Grazie»

Un pungente odore di bile le soffiò sul volto e al sorriso seguì spontaneamente una smorfia di disgusto. Non le fu difficile individuare la macchia sulle brache del ragazzo.

«Maestro?»

«Sì?»

«Prima però si cambi!»

 

 
ANGOLO AUTRICE

 

Ben ritrovati!

Ho tempi veramente titanici, ma potete perdonarmelo, alla fine c’è sempre la speranza che torno, non sparisco mai del tutto!

Ringrazio già subito tutti i nobili animi che riescono a tenere ancora la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite nonostante le ere geologiche che intercorrono tra un capitolo e l’altro. Ci sto lavorando, tenterò di velocizzare i tempi.

Per il resto… adoro Kii, è uno dei personaggi che preferisco, ma si vedrà palesemente la predilezione che ho per lui!

Non compaiono posti nuovi o personaggi nuovi, quindi mi risparmio la didascalia… e niente, spero vi piaccia e spero mi facciate sapere qualcosa.

Le recensioni sono sempre mooolto gradite oltre che stimolanti per il mio scrivere!

 

A presto!

 

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Capitolo 10
*** Capitolo ottavo ***


L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO OTTAVO



Gli odori di cipolle e aglio che si mischiavano al pizzicore pungente e dolce provocato dall’erba tagliata e dal grano mietuto, le invasero i polmoni in una grande boccata d’aria fresca che Sianna accolse con un sorriso soddisfatto rivolto al sole. I risolini e il vociare allegro le davano il buon umore, o forse era solo tutta quella luce e la brezza fresca a risollevarle l’animo e renderlo leggero. Addobbi vivaci di stoffe e lanterne vivificavano le strade e i banchi dei commercianti, e la musica non era mai cessata da quando si erano levate la mattina presto. Da una composizione naturale di rami e muschio Sianna recuperò una spiga, la rigirò tra le dita lunghe e l’oro dei chicchi pieni baluginò di caldi riflessi. Avevano trascorso gli ultimi giorni a intessere un fantoccio di spighe che quella notte sarebbe stato dato alle fiamme, e ad intrecciare le corone di vischio che le sacerdotesse e i sacerdoti stavano indossando duranti i canti rituali.

Al Cerchio di Pietre i sacerdoti ricevevano gli abitanti per risolvere questioni di ordine giuridico, una tradizione di Lughnasadh, ma non la più interessante. Era nella piazza del mercato che si respirava la vera festa, erano giunte molte persone dai villaggi vicini per rendere grazie alla divinità e celebrare matrimoni e vendere merci, e le vie sembravano incapaci di contenere una tanto trasbordante vita.  

«Questo profumo di dolci mi sta facendo impazzire!» si lagnò prontamente Lisanda, il rumore del suo stomaco borbottante risultava imbarazzante.

«Resisti, stasera ci sarà il banchetto e mangeremo come non facciamo da una vita!» cercò di risollevarla, ottenendo però altre smozzicate lamentele «Non dirmelo, io non lo so come sopravvivono questi sacerdoti, a pesce insipido e brodini. Non è vita, è un incubo»

Iris strabuzzò gli occhi per l’indignazione e la rimbeccò all’istante, così mentre le due battibeccavano su quanto fosse eticamente inappropriato il commento di Lisy, Kea sollevò lo sguardo sulla folla assiepata nella piazza del mercato.

«Qui non ci facciamo molto, andiamo ad assistere alle gare?»

Marion si aggrappò alla manica della sua veste con eccessivo entusiasmo «Sì, vi prego! Tra poco dovrebbe esserci il tiro con l’arco, me lo ha detto Will!»

Le venne da ridere, le sorrise strizzando gli occhi per la troppa luce, un evento più unico che raro nel Regno d’Ombra, e annuì «Non sia mai che ci perdiamo la prova del nostro prode William. Voi due la finite di litigare?»

Iris assottigliò le labbra in una linea ostile «È inadeguata, rifiuto qualunque forma di legame con questa barbara»

Lisanda la seguì a ruota con una smorfia «Non mi risulta che tu sia nata nobile, sai?»

 

Da qualche parte una divinità deve esistere, e deve odiarmi anche molto

 

Le aree destinate alle manifestazioni sportive erano state circoscritte fuori dal centro abitato da uno steccato che già era stato preso d’assalto da numerosi spettatori. Le grida d’incitamento erano assordanti, Sianna e Marion, seguite da Kea, decisero di abbandonare le gemelle alle loro discussioni e si infiltrarono tra le persone. Complice la scarsa massa dei loro corpi sottili, riuscirono a raggiungere la recinzione e ad affacciarsi sul terreno di prova.

Ci sarebbero stati combattimenti di spada e anche scontri corpo a corpo a cui chiunque poteva prendere parte, indipendentemente dall’esperienza ma, come aveva detto Mari, in quel momento erano stati allestiti i primi bersagli. Si ritrovarono compresse nella calca che odorava di birra e sudore, tra le urla d’incoraggiamento lanciate ai parenti o ai conoscenti. La maggior parte dei presenti era già ubriaca, alcuni bambini si erano seduti sulla recinzione, altre testoline spuntavano tra le assi di legno, in basso.

Sianna guardò i primi partecipanti dare prova della propria abilità, o inabilità a seconda dei scarsi risultati. Al pubblico importava poco delle capacità dei concorrenti, quell’estasi collettiva trascinava tutti in un entusiasmo appassionato che si scatenava in applausi e fischi.

«Voi vedete Will?» gridò nell’orecchio di Mari per sovrastare i rumori. Kea si trovava in difficoltà, la sua piccola statura la faceva mangiare dalla folla che le toglieva il respiro.

«Guardalo là, il terzo da destra!»

Sianna osservò i concorrenti, una trentina di uomini di dubbia lucidità nonostante l’orario, e quasi soffocò nella propria saliva quando identificò, nella persona accanto a William, la figura slanciata e imprevista di suo fratello.

«C’è anche Ynyr!» batté le mani Marion, come le avesse letto nel pensiero. Non nutriva il medesimo entusiasmo nel vederlo partecipare a quella prova. Non che ci fosse qualcosa di male, ma ignorava quel talento e interesse del fratello.

 La maggior parte dei concorrenti venne eliminata fin dalle prime fasi, erano tutti contadini dalle braccia forti e muscolose, ma inadeguate, accanto a loro Ynyr sembrava eccessivamente magro, quasi mingherlino. Eppure, contro le scommesse che gli uomini si gridavano da un lato all’altro sopra le loro teste, le file si sfoltirono rapidamente, mano a mano che i bersagli venivano allontanati e il livello di difficoltà si alzava, e in quel gruppetto di finalisti figurò proprio il fratello, per il suo sbigottimento. Più di chiunque Sianna pensava di conoscerlo, ma ignorava questo suo talento. Insieme ad un improvviso senso di straniamento, s’insinuò in lei una calda sensazione di rimembranza. Mentre lo osservava, guardava i muscoli della schiena che si tendevano, il profilo corrucciato dalla concentrazione, le sembrò di averlo visto compiere quei gesti mille volte e niente era più elegante ed appropriato per lui.

William venne eliminato poco dopo, ma Sianna non riuscì a prestargli attenzione, invero non sentiva più nulla, seguiva solo Ynyr con un’avidità inedita anche per lei, cercando di ricordare perché tutto questo le fosse così familiare e come mai suo fratello le apparisse se possibile più nobile e bello, ammantato di una luce quasi accecante.

Vennero chiamati altri concorrenti, in un gioco all’esclusione che infine lasciò sul campo proprio Ynyr ed un uomo che non era più giovane ma doveva essere stato un soldato a giudicare dal portamento e dal fisico: le deformità delle dita e il gonfiore dei muscoli delle braccia tradivano una vita spesa da arciere per l’esercito d’Ombra. Il bersaglio era stato spostato e distava dalle postazioni di tiro circa centotrenta piedi, ogni concorrente aveva tre frecce a disposizione. Quando lo vide incoccare l’ultimo e decisivo dardo, d’istinto si sporse e gridò il suo nome sopra tutti, con tutta la voce che aveva. Quell’”Ynyr!” tra i tanti suoni sguaiati lo tradì: il fratello sussultò e la freccia andò a conficcarsi nel secondo anello dipinto sulla paglia, decretando l’altro concorrente come decisivo vincitore. Scoppiò un boato di gioia e applausi a cui Sianna non prese parte. Fissava il fratello incredula che davvero l’avesse udita, ed Ynyr a sua volta, impermeabile alla situazione e indifferente alle persone presenti, ricambiò il suo sguardo per un lungo, pesante istante.

Alla fine le diede la schiena e si allontanò, uccidendo in lei qualunque iniziativa di raggiungerlo per congratularsi e magari parlare, dato che non si erano più visti dopo il casuale incontro nel bosco con Kii.

Marion la riscosse aggrappandosi ancora alla manica della sua tunica «È stato incredibile! Lo hai visto? Poteva vincere!»

«Non sapevo che Ynyr sapesse tirare con l’arco» considerò Kea, con l’espressione serena ed orgogliosa di una sorella maggiore, una sensazione che paradossalmente Sianna non riusciva a condividere. Svicolarono dalla folla per raggiungere William.

Lo trovarono seduto su una roccia a parlare con Henry e Daniel, aveva il volto imperlato di sudore ed i capelli biondo cenere appiccicati alla fronte.

«E bravo il nostro Will» lo canzonò Mari, con un ampio sorriso che metteva in risalto i denti bianchissimi. Il ragazzo finse abbattimento, chinò il capo sconsolato e borbottò «Come sei crudele. Almeno tu, Sianna, sei venuta a consolarmi, vero?»

Presa in contropiede, non le riuscì di camuffare il volto che si arrossava «Non ci penso proprio!»

«A proposito» le si rivolse Daniel con un sorriso indulgente che sapeva di salvezza «Non sapevo che Ynyr fosse tanto bravo!»

 

Come non detto, argomento sbagliato

 

Si morse il labbro inferiore per non mostrare troppo il proprio disappunto «In verità nemmeno io» borbottò.

«È un peccato che non sia riuscito a vincere, se la stava cavando davvero bene» ponderò Kea, rivolgendosi a Daniel, gli occhi neri accesi di entusiasmo. Era tanto impacciata con il sacerdote che quando l’occasione di parlargli le si presentava in maniera naturale diventava felice come una bambina.

«Già, ma non poteva mica sperare in due premi» intervenne William, ancora risentito dalla pesante sconfitta «Onestamente, pensavo di batterlo facilmente, il ragazzino» e sotto il tono scherzoso, Sianna lesse una nota di amarezza che non la stupì. Da che ricordava, i ragazzi si erano sempre posti in modo competitivo verso suo fratello, per motivi differenti Ynyr aveva capacità di un altro livello e per questo aveva finito con il restare più isolato e in disparte. Era infastidita nel rintracciare quella sfumatura in Will, l’avvertiva come una minaccia latente verso il suo fratellino.

La sua aria sconsolata però fece ridere Mari, che gli concesse pacche poco leggere sulla spalla in segno di conforto «Sarà per il prossimo anno!»

«Due premi?» apostrofò invece Iris, a fronte aggrottata, non lasciando cadere l’unica cosa che aveva attirato anche la sua, di attenzione, guardandola poi di sottecchi a tastare la sua reazione. Sianna si sforzò di non emettere un suono e nemmeno di muovere un muscolo facciale, anche solo uno spasmo, per non tradire il nervoso.

Henry confermò «Sì, parteciperà alla sfida tra Bardi, stasera» Daniel gli gettò un braccio al collo, in un abituale gesto di confidenza che li caratterizzava: da che li conosceva, erano inseparabili in tutto e ritrovavano l’uno nella presenza dell’altro una certezza e un conforto, per questo anche mentre parlavano tendevano sempre a cercarsi «Da quello che ho sentito, è proprio dotato» specificò con un grande sorriso.

Sianna si ritrovò ad aggredire l’unghia già provata del pollice in un moto d’innegabile collera ormai non proprio latente.

«Lo sentiremo stasera» rincarò Will e Lisanda rispose con un gridolino eccitato «Non vedo l’ora!»

«Io invece proprio per nulla» mugugnò, a voce sufficientemente bassa perché l’acidità passasse inosservata. I ragazzi si lanciarono in un dibattito sulle prossime prove, sul brutto vizio di Henry di piazzare scommesse perdenti in partenza e Sianna ne approfittò per defilarsi dal gruppetto con una scusa personale sulla quale nessuno sollevò quesiti.

Mentre si allontanava a falcate iraconde, sentiva lo stomaco rimestarsi e pensò che si stesse mangiando da solo e si sarebbe ritrovata con una nocciolina minuscola al posto dell’organo. In quel frangente, l’unica cosa che gli veniva in mente era recuperare la piccola kitsune che con il fratello doveva aver trascorso gli ultimi giorni, e farle un terzo grado sufficientemente aggressivo da spingerla a parlare senza rimostranze.

A fermare il non troppo brillante piano che la faceva avanzare tra i campi come uno spirito posseduto dal demonio ci pensò Henry, che doveva aver deciso di seguirla.

«Sianna? Ti fermi?»

«Quale parte di “devo fare una cosa privata” ti sfugge?»

Henry tossicchiò, forse per una volta nella vita le era riuscito di metterlo a disagio.

«Non sembrava volessi davvero fare qualcosa di privato» borbottò indisponendola ancora di più. Furente e inacidita, sfoderò il peggior repertorio da contadina iraconda e rozza che le riuscì «Benissimo, solleverò la gonna e piscerò gioiosamente davanti a te per toglierti ogni dubbio»

Sperò di umiliarlo e umiliarsi abbastanza da spingerlo ad andare via, perché con lui nei dintorni Kii sarebbe rimasto ben nascosto, ma sortì l’effetto opposto, il suo migliore amico, altrettanto irritato, l’afferrò improvvisamente per il polso costringendola ad una brutta battuta d’arresto che la fece incespicare.

 

Come ha fatto a sembrarmi una buona giornata?

Maledizione a te Ynyr

 

«Si può sapere che cos’hai? È tutto a posto?»

«No!»

Agitò goffamente il braccio per liberarsi, senza successo, di lui. Alzò gli occhi ed incontrò lo sguardo confuso e colpevole di Henry. Si pentì di aver alzato la voce, ma la frustrazione inspiegata che la rimestava non accennava ad affievolirsi.

«Se ci penso mi viene una rabbia! Se lo avessi davanti io… gli farei sicuramente qualcosa!»

Le sopracciglia del ragazzo s’inarcarono sotto la montatura degli occhiali «Non sono un indovino, ma suppongo tu stia parlando di tuo fratello»

Sianna sbuffò, scacciando la ciocca di capelli che a causa di una rosa sulla fronte tendeva a ricadergli sul volto «E di chi altri?»

Henry si lasciò sfuggire una leggera risata, un misto di esasperazione e disagio «Cosa esattamente ha messo a dura prova i tuoi nervi?»

Sianna riuscì finalmente a liberarsi e si sedette a terra, imbronciata e capricciosa in maniera terribilmente infantile, ne era conscia, eppure al di là dell’imbarazzo non poteva impedirselo.

«Che vuoi che ne sappia? Non lo so nemmeno io, so solo che è colpa sua. Come può sparire così? A malapena mi guarda se ci incrociamo, l’unica volta che mi ha parlato quasi mi inceneriva… e adesso questo!»

Il sacerdote esitò, ma alla fine si sedette accanto a lei, tra le stoppie, e si grattò il collo a disagio «Questo significa quello che sta facendo?»

Annuì, assorta, e dopo qualche minuto di ponderato silenzio gli chiese «Non ti sembra naturale?»

«Non ti seguo»

Sianna scacciò i capelli con astio «Nemmeno sapevo che sapesse tirare con l’arco, non lo aveva mai fatto. Mi sembra di trovarmi di fronte uno sconosciuto all’improvviso. Ma non è questo che mi fa arrabbiare» si morse il labbro inferiore, cercò le parole per esprimere quell’insensata sensazione «Non l’ho trovato strano, solo irritante. Come se fosse naturale che sia in grado di farlo, ma farlo fosse una provocazione rivolta a me»

Henry si accigliò, si sistemò meglio gli occhiali sulla punta del naso, la fronte si arricciò ulteriormente in rughe di confusione.

«Non ha molto senso» optò infine, abbozzando un sorriso di scusa, come se non poterla assecondare fosse una colpa. A volte Sianna non riusciva a capire quel ragazzo, anche se si conoscevano fin da bambini.

«Lo so, però non so spiegarlo diversamente. È un’impressione di già visto. Io l’ho già visto fare questa cosa, ma in realtà non l’ho mai visto farla. Mi sembra quasi di dover ricordare qualcosa, ma è solo una sensazione neanche troppo distinta e mi dà rabbia perché è come se Ynyr mi stesse pungolando, mi stesse dicendo che c’è qualcosa di lui che non ricordo e devo ricordare»

L’amico sbuffò e si mise a ridere, stemperando un po’ il suo umore tetro e dando un leggero colpo di spugna a quei pensieri contorti e pesanti «Voi due siete sempre troppo strani, lo sapete? Volete sempre leggere nei gesti dell’altro più di quanto non ci sia»

Sianna sorrise debolmente, non lo corresse. Non gli disse che, in realtà, di solito i loro gesti sottintendevano l’uno verso l’altro realtà e verità comprensibili solo a loro che escludevano veramente tutti gli altri. Non lo fece, perché sapeva bene quanto fosse malsano il rapporto esclusivo che li legava. Il sacerdote si alzò, le porse una mano senza cancellare quell’accenno all’insù delle labbra, non un vero e proprio sorriso; Henry era un malinconico e anche quando si sentiva di buon umore restava comunque sospeso su di lui un alone di rassegnazione e sconforto.

«Vieni con me, testa dura»

Sianna gonfiò una guancia d’indignazione, accettò il suo aiuto e tenne stretta la mano dell’amico mentre questo la guidava.  Non troppo lontano si era alzata una melodia, un misto di strumenti a fiato e percussioni, e nei prati uomini e donne si raccoglievano in cerchi festanti e iniziavano a danzare. Si perse con lo sguardo a contemplare quelle figure non del tutto nitide e le parve di riconoscere Kea insieme a Daniel.

«Dove mi stai portando?» chiese quando si accorse che anche Henry puntava al bosco, la linea degli alberi sempre più nitida e vicina. Erano nei pressi del Cromlech ora, la folla assiepata di fronte ai Brithen nascondeva parte di quell’affascinante struttura in pietra. Tanet le aveva spiegato la valenza magica del cerchio come simbolo, le aveva detto che il Cromlech era costituito da due cerchi di pietra concentrici e che l’ingresso era rivolto ad est, incorniciato da due alti menhir che fungevano da sentinelle protettrici. C’era un piccolo fossato che seguiva il contorno della circonferenza e gli altri punti cardinali erano segnati da altrettanti menhir solitari.

Sapeva tutto questo, ma il Maestro non le aveva concesso di avvicinarsi per poter toccare con mano quelle pietre antiche, le aveva detto che i loro luoghi sacri non erano un suo gioco e doveva portare rispetto per le antiche credenze. Così, lo contemplò da lontano finché non sparì dalla sua vista.

Henry imboccò uno dei numerosi sentieri che s’inoltravano nel bosco d’Ishitar, una stradina di terra battuta come un’altra, eppure l’amico sembrava avere un’idea molto precisa di dove la stesse portando. Il mistero si svelò prima che potesse tornare alla carica con qualche domanda: gli alberi si dipanarono per mostrare una piccola radura. Al centro sorgeva una casetta di pietra di forma circolare con il tetto in paglia, sopraelevata dal terreno, sostenuta da grossi piloni di legno. Una scaletta conduceva alla porta d’ingresso, accanto era stato costruito un pozzo con un secchio di legno dimenticato sul bordo dell’anello di pietra. Una musica leggera copriva i rumori di uccelli ed animali, il suono di un’arpa tra le mani di un ragazzo seduto sui gradini d’ingresso.

Ynyr era concentrato, tanto concentrato che forse davvero non l’aveva sentita arrivare, per quanto assurdo le potesse sembrare. Ynyr l’aveva sempre percepita con largo anticipo, in modo del tutto inspiegato. D’istinto, Sianna acchiappò Henry e lo costrinse a nascondersi dietro un albero. Lei stessa vi si appiattì, facendo aderire la schiena alla superficie ruvida.

«Quindi è qui che è sempre stato. Che posto è questo?»

Henry si sporse come lei per spiare il ragazzo «È un nemeton, un luogo di ritiro dei sacerdoti, per isolarsi. Negli ultimi anni ci vive il nostro più anziano File. È un Cruitire, un arpista»

Sianna inarcò scettica un sopracciglio e lo fissò con la sua più minacciosa espressione, per invitarlo neanche troppo gentilmente a chiarire perché Ynyr si trovasse lì. Henry alzò le mani in segno di resa «Non prendertela con me. È tuo fratello che quando è stato meglio ha chiesto di essere condotto qui. È stato affidato ad Armogen, e lui è un asceta, non rientra praticamente mai al monastero, anche se è qui vicino. Per questo non lo vedi mai»

Riflettendo su quella scelta, quell’esilio praticamente, Sianna si oscurò. Fu istintivo pensare a se stessa e a come in qualche modo, quella comunità di sacerdoti Drui l’avesse confinata nelle mani di Tanet perché non entrasse in contatto con gli altri. Ora, la situazione di Ynyr pareva specchio della sua.

«Henry, c’è un qualche collegamento?»

Ancora una volta, il ragazzo non la capì, né poté biasimarlo «C’è un collegamento nel fatto che sia io che mio fratello siamo stati separati completamente ed esclusi dal resto di voi?»

L’amico si affrettò a negare, con troppa veemenza per quello che la riguardava. Era sbiancato all’improvviso, come se tutto il sangue fosse fluito via dal suo volto, e trasmetteva una profonda inquietudine, un disagio indefinito. Non era semplice interpretarlo, Henry e Daniel erano diversi dalle persone normali, erano più schermati dalle sue sensazioni rispetto a chiunque altro, per questo non riusciva a leggere le sfumature del suo imbarazzo. Perciò si sporse nuovamente, per guardare suo fratello.

Era seduto in maniera scomposta, l’arpa tra le sue gambe sembrava un veliero pronto a salpare, con la vela gonfia di vento ed elegante come il collo di un cigno. Le dita lunghe e sbiancate, delicate come rami morti esposti all’acqua e al sole, sfioravano appena le corde, le pizzicavano indolenti, eppure il suono che nasceva da quei movimenti delicati era dolce e pieno, commovente.

«Il sussurro del dolce albero delle mele» ricordò, ma non sapeva che ricordo fosse. Da quando aveva incrociato gli occhi di Ynyr durante la gara, non aveva smesso un solo istante di provare quella sensazione di già visto. Henry non era nuovo a quei suoi sprazzi di straniamento e non le fece domande. Piuttosto, disse «Credo che vi dovreste parlare»

«Forse dovremmo» confermò Sianna, sfiorando con le dita la corteccia dell’albero, a seguire linee di incisioni a cui non aveva prestato troppa attenzione. L’occhio le cadde sopra quei solchi e si accorse che erano rune. Sospirò per scacciare il panico.

«Ma tu non vuoi» constatò l’amico, ripetendo ancora quel suo abituale gesto di risistemarsi gli occhiali. Scrollò le spalle, si concentrò sui capelli bruniti d’Ynyr, un biondo rosso che portava in sé il fulvo materno, sul modo in cui gli coprivano parte del viso, gli occhi socchiusi.

«Penso che potrebbe farvi bene. Penso che dovreste restare insieme in un momento come questo»

«Momento come questo?» lo apostrofò accusatoria, ed Henry fu attraversato da un moto di vergogna che travolse anche lei.

«Intendo solo che questo silenzio fa male a entrambi» svicolò.

Sianna accolse la stoccata in silenzio, colpita in pieno.

Fin da bambina, sua madre le aveva ripetuto sempre un’unica, lapidaria raccomandazione: prenditi cura di tuo fratello. Non era mai stato un rapporto a senso unico, troppe erano state le volte in cui era stato Ynyr il pilastro di entrambi, il porto sicuro. Eppure quel mantra riecheggiava nella sua memoria e la faceva sentire in colpa. Davanti alla sua indecisione, Henry fece un passo indietro e le diede la schiena.

«Mi lasci sola?» lo richiamò con il tono da bambina lamentosa più efficace del suo repertorio. Non funzionò, il sacerdote abbozzò un gesto di commiato con la mano e imboccò il sentiero del ritorno. Si alzò una brezza leggera che cambiò la disposizione dei cirri nell’unico sprazzo di celeste visibile dal cerchio di alberi, le fronde frusciarono tra loro e questi suoni si unirono in maniera armoniosa alla melodia solo accennata che suonava Ynyr.

Il fratello alzò il capo, si voltò nella sua direzione e sorrise «Pensi di uscire di lì ora che Henry se ne è andato?»

Sussultò, ma non fu troppo sorpresa di essere stata scoperta. Ynyr la percepiva, aveva probabilmente finto di non accorgersi di loro per darle la possibilità di andarsene non vista, però doveva averla tenuta d’occhio da quando si era avvicinata alla radura. A passi strascicati uscì dal nascondiglio e s’incamminò pigramente verso di lui.

«Ciao, Ynyr»

«Ciao, Sianna»

 

 

 

Sianna imbronciata era sempre spassosa, sarebbe valsa la pena farla arrabbiare fino allo sfinimento, se quell’espressione era ciò che ne guadagnava. La squadrò discretamente mentre la sorella si trascinava verso di lui con la stessa gioia di vivere di un sasso, cercando di mettere a fuoco i dettagli che gli erano sfuggiti nel loro ultimo incontro. Aveva sempre cercato di non prestarle troppa attenzione, per ovvie ragioni, ma da quando Marilien era morta si era reso conto di come qualcosa si fosse rotto senza speranze di poter essere riparato, e così ora non c’era più il freno, la ragione umana che lo bloccava, e porsi un limite spontaneamente diventava più difficile.

Ovviamente, quella tonta di sua sorella non se ne era resa conto, per lei che non ricordava nulla era tutto più semplice, le invidiava l’innocenza ritrovata, allo stesso tempo la odiava, perché in qualche modo riusciva a renderla più adorabile e lo costringeva all’indulgenza. Non era trascorso troppo tempo senza che parlassero, eppure era stato sufficiente ed ora la ritrovava diversa, più bella, più eterea. E ancora altrettanto ignara.

Tornò alla sua musica, ben sapendo che questo l’avrebbe solo fatta arrabbiare.

E infatti, precisa e capricciosa, la sentì sbuffare e pestare un piede

«Hai un attimo?»

Sorrise ferino e le fece cenno di parlare, senza però guardarla. Se fosse stato più intelligente, più razionale, le avrebbe detto di no, non le avrebbe concesso nemmeno un istante. Ma era semplice ammorbidirsi, quando riscopriva nei suoi gesti la bambina con cui era cresciuto, movimenti come il piede che grattava il terreno in imbarazzo, i versi e i rumori delle sue guance che si sgonfiavano e gonfiavano per prendere tempo e contenere la stizza.

 

Se tu avessi imparato qualcosa in tutto questo tempo, ti alzeresti e te ne andresti, non commetteresti ancora e ancora lo stesso errore.

Ma è evidente che né tu né lei siete particolarmente intelligenti.

Tu però hai meno attenuanti, ricordatelo!

 

Poteva fare il duro con se stesso quanto voleva, ma alla fine non sarebbe cambiato nulla. Non erano mai stati tanto uniti, era difficile anche solo contemplare di rinunciare a quel legame. Paradossalmente, ora a legarlo a lei c’era un sentimento ibrido, di desiderio e repulsione, che lo bloccava e lo lasciava a ristagnare nelle proprie reminiscenze.

«Da quando tiri con l’arco?» lo accusò subito, la voce aspra e ruvida come un limone. Accennò l’ennesimo, provocatorio sorriso, alzò il volto ad incrociare gli occhi di sua sorella, così azzurri da dargli le vertigini.

«Non lo ricordi?»

Sianna si fece seria «Non è divertente»

Cancellò ogni espressione dal proprio viso «Non volevo esserlo» rispose lapidario. Troppo freddo, forse, perché la vide vacillare, presa in contropiede. Non si spazientiva mai con lei, non davvero, ma negli ultimi tempi stava sfiorando un proprio limite personale, si era imbattuto in debolezze che ignorava di avere e gestirsi ora era più complesso.

«Perché mi sembra così spontaneo, eppure mi sento tradita? Non capisco Ynyr» gli occhi grandi si colmarono di una confusione spaventata. Si costrinse a non farsi imbrogliare da quella sua bellezza angelica, ma era difficile per lui, una delle cose più difficili.

«Non sono tenuto a dirti tutto»

La fissò dritta negli occhi, in quelle iridi che ricordavano petali di fiordaliso ricoperti dalla brina dell’inverno, e si pentì di quel suo gesto di sfida: le pupille nere, minuscoli puntini in quel cielo terso, erano abissi che stordivano, uno stralcio d’infinito e perfezione in cui smarrirsi era facile, quasi impossibile da reggere per qualunque essere umano. Lui però non era come gli altri, perciò si costrinse a non cedere e le sorrise.

Sianna si morse le labbra e alla fine desistette, chinando la testa, sconfitta.

«Non ti capisco. Ho l’impressione che tu stia cercando di provocarmi e non so il perché o che senso possa avere. Sento che mi rimproveri qualcosa, però poi non mi parli. Ynyr, lo sai che se non mi parli io non posso capirti. Quindi perché stai complicando tutto? Se hai qualcosa da dirmi, dimmelo»

 

Non posso.

Ho aspettato fino ad ora e adesso capisco di aver aspettato troppo. So che non posso farti questo, eppure il peso di non poterlo fare mi opprime.

 

Scrollò il capo e non rispose, sarebbe stato troppo complesso e ingiusto, ma soprattutto Sianna non lo avrebbe accettato in quel momento, non se prima non avesse risvegliato in lei delle reminiscenze. Doveva esserle costato molto, riuscire a dimenticare, e ancora non si sentiva tanto egoista da rigettarla in quel baratro di malessere per una propria soddisfazione personale.

Sua sorella si arrese e si sedette accanto a lui, su un gradino più basso, con le braccia e la testa appoggiate alle ginocchia raccolte al petto.

«Come stai?»

Le sorrise storto «Bene»

«Mi ha detto Henry che gareggerai con i bardi, stasera»

«Infatti»

Gli sfuggì un sospiro nel vederla non solo arrabbiata, ma anche terribilmente sconfortata. Il piacere di vederla sofferente, come una ripicca, era sempre mitigato da un terribile senso di colpa.

«Non lo sapevo» mentì, per darle un sollievo che avrebbe cancellato ogni suo tentativo di risvegliare qualcosa che forse, a quel punto, nemmeno esisteva più.

«Cosa?» Sianna si raddrizzò all’istante e lo studiò con una serietà stonata sul suo viso da ragazzina.

«Non sapevo di saper tirare con l’arco. Ti giuro che era la prima volta. Volevo solo provare»

Il sollievo che le si dipinse in volto sarebbe potuto apparire insensato, non fosse che Ynyr ne conosceva la ragione più profonda.

 

Perfetto, ora sono io lo sconfortato!

 

«Non ne so il motivo, ma davvero mi è sembrato naturale che tu lo sapessi fare» osservò lei, poi scrollò le spalle per togliere importanza ad una questione che per lui invece risultava fin troppo fondamentale.

«Già, ho provato una sensazione simile» mentì ancora, e sentì la schiena cedere ed accartocciarsi sotto l’ennesima sconfitta. In realtà, si sentiva patetico, per quei vani tentativi troppo deboli per poter davvero funzionare. Lui stesso non sapeva tutto, aveva consapevolezze a sprazzi, ricordi che erano fulmini a ciel sereno nella sua memoria. Il quadro della situazione gli sfuggiva e Sianna era l’unica certezza, forse proprio per questo tentava senza tentare sul serio: quello stato d’incertezza e confusione era troppo frustrante, non voleva coinvolgerla, non ancora.

«Hai ancora il nastro»

Sianna passò le dita tra i capelli, a sfiorare il fiocco rosso, insensatamente legato ad una ciocca, per abitudine.

«Lo sai che ci credo a queste cose. Korakas non mi avrebbe mai detto di indossarlo se non avesse senso»

Ynyr accarezzò le corde in un’unica, angelica scala di note «Già, ma non basta a tenerti lontano inutili spiriti pelosi»

«Parli di Kii?» si accigliò, scavando un solco tra le sopracciglia.

«Chi altri?»

Sua sorella sbuffò esasperata «Non hai motivo di avercela con lui, non ti ha mai fatto nulla»

 

Cerca di riportarti indietro e nemmeno te ne accorgi, non è un motivo sufficiente odiarla perché vuole allontanarti da me?

 

La Kitsune, con ogni probabilità, ci sarebbe anche riuscita, non trovava alcun modo per fermare la ruota che aveva ricominciato a girare, quel destino era un ingranaggio di una realtà molto più grande e incomprensibile di quella loro banale esistenza. Distrattamente, aveva ricominciato a suonare.

«Ti ha insegnato Armogen?»

Fece spallucce «Qualcosa, quando ne ha voglia. Non parla molto, sta nel suo»

Sianna si mise a ridere.

Per un attimo, Ynyr si ritrovò a trattenere il respiro. Certe verità non potevano cambiare, né una piccola distanza moderare l’affetto che nutriva per lei, o l’effetto che riusciva ad esercitare su di lui con la semplicità della sua ilarità.

«Ti piace. Non sono abituata a vedere persone che ti piacciono!»

«Infatti le persone non mi piacciono. Le piante, le piante mi piacciono» la guardò di sottecchi mentre ridacchiava scuotendo la testa, con quella sua indomita chioma che la rivestiva come una criniera scompigliata «E i sassi, Ynyr. Non dimenticare il tuo amore per i sassi»

Le sorrise «Personalmente, mi basta che la cosa non respiri»

«Se cercherai di soffocarmi nel sonno, saprò il motivo» considerò sua sorella, mordendosi le labbra. Spirò una lieve brezza, gradevole, in controluce le ciglia di Sianna sembravano lunghissime, socchiuse gettavano ombra sulle guance. Si riscosse, riprese lo strumento e vi dedicò tutta la sua attenzione, per non osare troppo. Pizzicò le corde, sorrise

«Come accade al caprifoglio

Che al nocciolo s’attacca

Quando vi si è intrecciato e avvolto

E tutt’attorno al tronco s’è messo,

assieme possono vivere a lungo;

ma poi, quando si tenti di separarli,

subito muore il nocciolo

e insieme il caprifoglio.

“Amica, così ne è di noi:

non te senza me, non io senza te”»

La osservò ancora, dal basso in alto, con il sorriso più candido e scavezzacollo che avesse, per deridere il rossore innocente che già si era diffuso sulle guance di Sianna, una candida fanciulla sorpresa da troppo ardore. Non era quella, l’immagine dei suoi ricordi, come sua sorella riuscisse a differire da se stessa senza mai allontanarsi dalla propria essenza, era il più grande mistero della sua vita. Sianna si passò le dita tra i capelli, pettinando la rosa che le sollevava il ciuffo in uno sbuffo irriverente.

«Sei bravo. È questa che hai scelto?»

Il sorriso provocatore morì un poco «Oh, no. Questa non è mia. È molto più antica, parla di un amore indissolubile che può portare solo alla morte. La mia ballata sarà una sorpresa» gli sfuggì un sospiro pesante «Promettimi di ascoltare»

Sianna si addolcì, gli occhioni azzurri scivolarono in un languore nostalgico «Io ti ascolto sempre» disse.

Lo disse con una convinzione diversa, una certezza assoluta che non si riferiva alle sciocchezze di tutti i giorni, ma aveva radici più profonde. Ecco, quando la vedeva così, profonda e lontana, gli sembrava assurdo pensare che davvero Sianna non si rendesse conto di star ricordando qualcosa. Era terribile e implacabile la verità poi, quando si abbatteva su di lui e lo costringeva a realizzare che per lei erano solo minuscoli, impercettibili frammenti, pulviscoli di memorie senza valore o senso.

«Lo sai che mi sei mancato, vero?» sorrise laconica e Ynyr si ritrovò a ricambiare mestamente quell’aria remissiva da condannato.

«È mai successo che non ci mancassimo?»

Sianna sbuffò, indicò con le dita affusolate la sua casacca, all’altezza del cuore «È diverso, tu mi senti. Hai quest’assurda fortuna che ti tiene tranquillo. Io sono sempre in ansia, se si tratta di te»  

Avrebbe voluto abbracciarla, ma si sentiva a disagio nel farlo. Avrebbe voluto dirle che quel sigillo sul suo cuore non era la sua fortuna, era la sua più grande condanna. Se solo avesse voluto ascoltarsi, Sianna avrebbe potuto avvertire le medesime sensazioni, in fondo anche lei era marchiata, sul suo braccio. Appoggiò l’arpa e le porse la mano, con l’aria malandrina che la faceva tanto ridere «Vieni con me!»

Quasi prevedibile, Sianna si lasciò andare all’allegria e ricambiò la stretta. Ynyr la condusse dentro la capanna, raggiunse il giaciglio di Armogen e trafficò con un tappeto ruvido e consunto. Sotto, un asse mobile rivelò una fiasca di liquido dorato.

«Che roba sarebbe?»

«Uisce beatha» mormorò lui, facendo oscillare la bevanda all’interno del vetro «Armogen la chiama “acqua della vita”» sghignazzò «Puoi immaginarne il motivo! Prendi due tazze»

La sorella annuì e recuperò da una piccola credenza, fin troppo sporca e usurata, due tazze di legno. Il suo impaccio la rendeva tragicamente comica, Ynyr le riempì e gliene restituì una.

«Intreccia il braccio al mio, così» le mostrò, portandosi il bordo di legno levigato alle labbra. Sianna lo imitò, senza abbandonare l’aria confusa di un cucciolo innocente.

«Questo che sarebbe?»

«Un brindisi, scema. Voglio vederti ubriaca prima di sera»

Sianna si accigliò, annusò cauta il contenuto del bicchiere e storse la bocca «Per quale motivo?»

«Beh, diciamo che gli uomini risolvono tutto con una sana bevuta»

«Io non sono un uomo» puntualizzò lei, indignata come ogni volta che metteva in dubbio la sua femminilità. Se solo avesse avuto percezione di se stessa, pensò Ynyr, non avrebbe dubitato nemmeno un istante della propria avvenenza, avrebbe scorto senza difficoltà la scintilla di divino che la rendeva radiosa per esistenza. Un ego luminoso e splendente, era quell’essenza pura nascosta sotto una spoglia mortale a renderla irraggiungibile per chiunque.

Sorrise ancora, sbilenco e provocatore «Non è che io possa festeggiare con te come farei con una ragazza qualunque, ti pare?»

Il pudore virginale che le imporporò le guance valse più di qualunque protesta.

ANGOLO AUTRICE

NOTE: il  brano citato da Ynyr fa parte di un passo tratto da un'opera di Maria di Champagne su Tristano e Isotta... non ho resistito!

Per il resto, in realtà questo capitolo è una parte di un capitolo più lungo, inframmezzato da "Ricordi: parte due". Per lo stile di EFP ho preferito dividerlo, perciò potrebbe sembrarvi inconcludente, proprio perchè mancante della seconda parte. Diciamo che qui almeno posso porre l'accento sul primo punto di vista di Ynyr, il protagonista secondario, personaggio chiave anche in futuro per leggere le situazioni che dal punto di vista di Sianna sembreranno... insensate!

Alla prossima!

 


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Capitolo 11
*** RICORDI parte seconda ***


L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

RICORDI parte seconda

La disperazione con cui Sianna si era aggrappata alla sua mano fu più eloquente di qualunque supplica. Era sopraffatta, non dai propri sentimenti ma dal delirio collettivo che si abbatteva su di lei come un’onda schiumosa e furente sugli scogli. Faticava a respirare, non riusciva a schermarsi. Ynyr prese fiato, si concentrò, le sfiorò la guancia e le tempie, cercando di trasmetterle la propria calma.

 Con un sospiro tremante, la sentì sciogliersi sotto le sue dita, rasserenarsi e tornare a respirare. I suoi occhi si svuotarono di paura e rimasero colmi solo di assoluta adorazione. Si chinò su di lei, ripeté a voce alta «Senti me, solo me, Sianna. Non guardare nessun altro»

Ricambiò il sorriso leggero che si era dipinto sulle sue labbra ma poi, con uno strattone, la riportò dolorosamente alla realtà: erano schiacciati contro una parete, la folla impazzita non concedeva tregua eppure, se desideravano salvarsi, dovevano raggiungere il riparo del bosco, era quella la sua unica certezza.

«Stringetevi l’una all’altra, tenetevi strette qualunque cosa accada! Se vi lasciate è la fine!» cercò di urlare sopra le urla delle persone, scorticandosi la gola per lo sforzo. Gli faceva male tutto, per raggiungere sua sorella aveva lottato contro corrente, persino respirare era un dolore che si traduceva in fitte a tradimento tra le costole.

 

Deve essersi incrinato qualcosa, pensò contraendo la mandibola e tastando approssimativamente il costato. A quell’ordine, le ragazze obbedirono all’istante, si aggrapparono con tutta la loro volontà alle sue parole come alla luce di un faro in un banco di nebbia.

Sianna tornò presente a se stessa, Ynyr la vide finalmente realizzare che il terrore che la circondava era concreto, non solo un’emozione assorbita. Percepì, quasi fosse sua, la paura di Sianna nel capire all’improvviso che racchiudersi dentro quel grumo d’istinti primordiali le sarebbe costato la vita. Ynyr si portò ancora la mano al fianco, si lasciò scappare l’ennesima imprecazione tra i denti, avvolse Sianna nella sua stretta e insieme scivolarono in quel fiume di grida e carcasse umane oppresse. Le fiamme sempre più alte lambivano il cielo, il colore violento del fuoco e del calore annebbiavano la vista come ogni altro senso, Ynyr era smarrito, non sapeva dove andare, procedeva alla cieca, seguendo il tumulto. La pelle bruciava, i pianti isterici e disperati che riempivano le sue orecchie gli impedivano di essere lucido, quei corpi che premevano contro il suo, contro il braccio teso verso Sianna come unico legame che non li faceva perdere, gli toglievano la possibilità di cercare un riparo. Alcuni edifici, brillanti come tizzoni ardenti, crollarono tragicamente su loro stessi, investendo la folla, i calcinacci scoppiarono a raggiera, una pietra arrivò a colpirlo in testa.

Nuovi grappoli di luce, quasi fossero centinaia di nuove stelle a illuminare il cielo, si accesero all’unisono e all’unisono scattarono, lasciando dietro di loro una scia di fuoco, code di comete. La mano di Sianna strinse la sua con forza, in un moto di orrore. Ynyr, stordito dal colpo, cercò di abbassarsi, la spinse a fare altrettanto e sperò che le altre lo imitassero, che cercassero di rendersi bersagli meno scontati. Le frecce falciarono la fiumana di persone, molti corpi caddero a terra solo per essere inghiottiti e sopraffatti, calpestati. Ynyr stesso sentì la cedevolezza della carne maciullata sotto i piedi.

 

Sono sentimenti così agghiaccianti che non riuscirò nemmeno io a schermarmi a lungo.

Se io inizio a cedere, Sianna deve essere al suo limite

 

La trascinava con sé, ma gli sembrava di tirarsi dietro una bambola disanimata, se fosse svenuta sarebbe stata la loro fine, quella fuga dalla morte si sarebbe interrotta prima di poter arrivare anche solo a sperare in una salvezza. In quel trambusto, miracolosamente riuscì a intravvedere quattro figure incappucciate ben note. Riconoscere Kea gli tolse un peso immenso dallo stomaco: non era stata abbandonata a se stessa, era stata salvata da Henry, William e Daniel. I ragazzi lo riconobbero, gridarono i loro nomi, sbracciandosi in un mare di carne e braccia e teste per poterli raggiungere.

Riuscirono a riunirsi aprendosi un varco tra la gente, Ynyr vide il bosco in lontananza, in cima alla salita, oltre quello che era stato l’ingresso al paese e che ora era solo un ininterrotto serpente di anime accalcate. Una nuova ondata di frecce si abbatté su di loro.

Ynyr sfruttò l’energumeno che lo precedeva come scudo, mosso solo dal pensiero di doversela cavare, ma sentì dietro di sé un “croc” netto, il rumore di qualcosa che si spezzava. A quel suono grottesco, la presa di sua sorella venne meno, quel braccio teso si accartocciò mollemente. Una fitta di dolore trapassò l’arto di Ynyr e lo percorse in un brivido fino al cervello, incespicò nei propri piedi, rischiò di rotolare a terra. Per un attimo, tutti i suoni si attutirono e le immagini divennero sfocate, scosse la testa per snebbiarsi quel tanto sufficiente a riprendere il controllo del proprio corpo. Lui non era ferito, si voltò a cercare Sianna, la vide accasciata e capì.

 

È stata colpita

 

Senza riflettere, liberò la mano di Marion, ancora allacciata alla sua, e si precipitò sulla sorella inerme, per proteggere il suo corpo dagli urti della folla che la stava travolgendo. Marion gridò qualcosa, riuscirono a guardarsi negli occhi per un momento fuggevole, poi la ragazza, trascinata dalle amiche e dai sacerdoti, sparì dalla sua vista e loro due rimasero soli, indietro.

Spinse Sianna a rialzarsi, la freccia era conficcata nel braccio, l’aveva passato da parte a parte spaccandole l’osso, la manica carbonizzata mostrava la terribile ustione, la carne rosso vivo, viscida, a cui la stoffa si era appiccicata. Sua sorella era svenuta per il dolore, così, nella disperazione assoluta, Ynyr se la caricò tra le braccia, a stento, consapevole che lì nessuno badava a loro, che nel delirio le avrebbero fatto del male, li avrebbero uccisi. Tuttavia, il suo stesso fisico non reggeva più tutti quei colpi e non era in grado di difenderla. Più volte sul punto di perdere l’equilibrio, individuò un vicolo tra due abitazioni in fiamme. Nonostante l’eccessivo fumo che invadeva la via, Ynyr riuscì ad imboccarla, a trovare un breve momento di sollievo in quella fornace ardente. Tossì e barcollò con il peso della sorella addosso.

 

Se stiamo qui, siamo morti, se cerchiamo di raggiungere il portone per uscire da qui, verremo fagocitati dalla folla e saremo morti.

Che cosa devo fare?

 

Stanco e affannato, inciampò in una massa molle e nera e cadde a terra. Sianna rotolò sul terreno, inerme, come fosse già morta. A vederla immobile, scomposta con gli occhi chiusi, Ynyr sentì l’angoscia più pura attanagliargli lo stomaco. Strisciò verso di lei, allungò la mano ad accarezzarle il viso, fece scivolare le dita fino alla gola e lì si fermò, ad ascoltare il lento pulsare del sangue e del cuore. Solo allora, tranquillizzato, si mise a carponi e cercò l’energia per rialzarsi.

Il fumo gli toglieva il respiro, la cappa grigia era tanto spessa da formare una coltre sopra la sua testa, non vedeva più nulla, e faceva caldo, troppo caldo. Le fiamme erano soverchianti, grondava di sudore che gli entrava negli occhi, bruciava. Si accorse di essere inciampato in un cadavere mangiato dal fuoco, erano circondati da corpi neri e grotteschi, resi irriconoscibili, così rattrappiti da apparire deformi. Esitò, provò a riconoscere qualcuno, ma si concesse solo un breve istante di quel cedimento, prima di scuotere la testa e archiviare tutto.

 

Sono morti, non posso fare nulla per loro. Ma Sianna no, lei non può morire

 

Raccolse sua sorella e scavalcò quelle carcasse svuotate di vita che intralciavano il suo passaggio, sforzandosi di restare lucido e presente a se stesso. Non poté comunque avanzare troppo, il vento sollevava scintille che lo ustionavano e la tosse convulsiva fece il resto, pochi passi e fu costretto ad appoggiare nuovamente la sorella a terra e ad accasciarsi su di lei.

La guardò, non dava cenno di volersi risvegliare, si era addormentata nel momento peggiore. Eppure, osservando il suo volto tanto amato, pensò che morire così, insieme, non fosse poi una morte tanto orribile, forse una delle più dolci che era stata loro concessa. Certamente a lui, a cui bastava vedere la linea morbida di quegli occhi, di quel profilo, per pensare che non potesse esserci nulla al mondo che potesse avere più senso. Le strappò la manica dell’abito, là dove la freccia le aveva trapassato l’omero spezzandole di netto il braccio, perché la stoffa bagnata di sangue si era appiccicata alla carne ustionata e con quella si stava fondendo.

Sianna strizzò le palpebre in un lamento inconscio, il primo accenno di ripresa. Così, forte di questo, Ynyr spezzò la freccia, ma non ebbe il coraggio di estrarla. Poi, smarrito, si guardò attorno.

 

Dobbiamo ritornare nella via principale, o non ci sarà salvezza.

Ma come faccio?

 

Lentamente, un’ombra si allungò nella via, tra il fuoco e il fumo. Ynyr si accorse che qualcuno stava avanzando piano, flemmaticamente, verso di loro, qualcuno che sembrava avere tutto il tempo del mondo in un momento in cui il tempo sembrava essersi esaurito. I suoi occhi misero a fuoco un bambino, un ragazzino con indosso un abito ad ampie maniche fermato in vita da una fascia di tessuto. Il volto era nascosto da un’inquietante maschera bianca: il muso di una volpe con gli occhi strizzati. Oltre lo sbigottimento, Ynyr provò sollievo davanti a quella creatura sovrannaturale, che a piedi nudi e artigli in vista sembrava completamente slegata, immune a quel contesto di disperazione.

«Kitsune» lo chiamò.

Kii si fermò. Guardò Sianna dall’alto e, qualunque sentimento lo stesse animando, fu impossibile capirlo perché il viso rimase nascosto. Non gli disse nulla e allora Ynyr lo osservò chinarsi sulla ragazza, afferrare la perla che Sianna portava al collo e staccarla con un gesto secco. La perla si espanse in una corona di luce, vibrò e si sollevò in aria.

«Seguitemi. Vi porterò io fuori di qui, dai vostri amici»

«Si sono salvati?»

Kii chinò il capo, lo squadrò da dietro la sua maschera inquietante «Li ho salvati. Kamra Eysil lo avrebbe voluto»

Con il capo accennò alla ragazza e lo invitò a andargli dietro. I capelli bianchi, screziati di rame, sembravano lingue infuocate, riflettevano i bagliori dorati. Non lo attese, si avviò con lo stesso strascicato passo con cui si era presentato. Ynyr, pur affaticato e senza fiato, si caricò Sianna tra le braccia e si trascinò dietro alla kitsune. Vide le frecce dei loro nemici cadere e abbattersi sui tetti delle case, rimbalzare sulle pareti di pietra e conficcarsi nel terreno, ma niente pareva sfiorarli. Sbigottito capì che era lo Yokai a proteggerli. Lo Spirito era circondato da una calma irreale che lo fece sentire estraniato da quel momento, era come non essere lì, non star assistendo a tutta quella violenza.

Le urla delle persone si fecero ancora forti e persistenti, Kii raggiunse la via principale e si inserì nella marea di gente che fluiva verso il bosco. Ynyr venne travolto, all’inizio, eppure non si fece male, né sentì la pressione dei corpi che lo spingevano e strattonavano. Lo Yokai si muoveva luminoso e sovrannaturale in una massa di esseri umani così rapiti dal proprio terrore da non percepirlo. Non scorgevano la luce calda della Sfera Stellata che galleggiava sopra di loro e li proteggeva, in qualche modo. Con l’aiuto di Kii, riuscì a raggiungere la porta principale, spalancata, da cui la folla si disperdeva urlante nei boschi. Ynyr corse, inseguendo lo Spirito che con un salto ingoiò la Sfera Stellata e prima di toccare terra tornò volpe e sparì nella vegetazione. Sempre più provato, gli tenne dietro, si fermò solo quando intravvide, tra le radici nodose di una vecchia quercia, i volti familiari delle ragazze e dei sacerdoti. Il villaggio doveva essersi ormai svuotato, chi si era salvato riuscendo ad abbandonare quella fornace doveva, come loro, aver cercato riparo tra gli alberi, non restavano a valle altro che abitazioni bruciate e cadaveri.

Ynyr li raggiunse, quando posò Sianna nuovamente a terra le gambe gli cedettero per la spossatezza. Si sentiva tanto stanco e dolorante che, per un attimo, il panico della condizione di sua sorella divenne quasi marginale. Ci pensò Henry a chinarsi su di lei, carico di costernazione. Con suo disappunto, lo vide prenderle la mano tra le sue, scostarle i capelli sporchi incollati al viso incrostato di fuliggine e sangue.

«Daniel, fa’ qualcosa»

I tre Drui si affaccendarono intorno a lei, ma Ynyr non prestò loro troppa attenzione. La kitsune era sparita, eppure era certo fosse nei paraggi e li stesse studiando, limitata ad intervenire dalla presenza dei tre sacerdoti. Lisanda e Iris erano appallottolate l’una nelle braccia dell’altra, Marion aveva la testa mollemente appoggiata alla spalla di Kea, che rannicchiata si cingeva le ginocchia con le braccia, gli occhi lucidi di terrore, quasi folli nella loro vacuità.

Tornò con lo sguardo sulla sorella quando la sentì borbottare in uno stato d’incoscienza. Invocava un nome nel delirio, un nome che Ynyr ignorava. Mise la mano sulla spalla di Daniel e lo invitò a farsi da parte, poi le prese la mano marcata dalla benedizione, la accarezzò piano e chiuse gli occhi. In un primo momento, tutto fu sfocato, ma dalla nebbia della sua mente si concretizzarono delle immagini ed una figura, l’immagine indefinita di una donna, vista come fosse molto lontano.

«Shiva» la voce supplichevole di Sianna lo spinse a riaprire gli occhi. La donna che sua sorella stava sognando e invocando, chiunque fosse, le assomigliava tragicamente. Forse, sognava se stessa.

«Dobbiamo spostarci» fece notare William, con una certa sicurezza «Dobbiamo inoltrarci più a fondo, gli assalitori potrebbero essere ancora qui»

Ynyr si fece aiutare e si caricò Sianna in spalla. Il costato doleva incredibilmente, aveva trovato sotto la casacca una serie di lividi viola dall’aspetto poco rassicurante, eppure seguì i tre sacerdoti nella boscaglia e si fermarono solo quando, sfiniti, trovarono un riparo tra le radici intricate di un albero mezzo sradicato, che creavano una sorta di nascondiglio. Si accoccolarono all’interno di quell’incavo, stretti e schiacciati l’uno contro l’altro, avvolti da un silenzio ovattato e vuoto in assoluto contrasto con i boati e le urla che avevano riempito loro le orecchie.

La quiete ora era quasi troppa, nemmeno il fruscio di un animale notturno disturbava il bosco. Ynyr teneva Sianna stretta a sé, tra le proprie gambe, il petto contro quella schiena delicata, il capo della sorella reclinato all’indietro, posato contro la sua clavicola. Sembrava morta, ora che si era placata, e l’unico conforto nel tenerla tanto stretta era ascoltare il battito regolare del suo cuore. I Drui non le avevano tolto la freccia, si erano limitati a stringere con una benda improvvisata e un po’ logora la parte superiore del braccio, per ridurre la fuoriuscita di sangue. Nell’oscurità assoluta in cui si erano nascosti, non era più nemmeno possibile vedere i bagliori dei focolai a valle, che per un lungo tratto li avevano accompagnati. Alla fine, sopraffatti dalla stanchezza, presero sonno.

Fu il rumore lieve di passi nella boscaglia a svegliarlo. Si accorse che anche Sianna aveva aperto gli occhi, immensi e sgranati nell’orrore. Le ragazze invece continuavano a dormire, sfinite, e i sacerdoti anche riposavano e non avevano udito nulla.

«Sono loro» sussurrò piano all’orecchio della sorella, che strinse brutalmente la sua coscia con la mano del braccio sano. Quel “Loro” restava un nemico indefinito, sconosciuto, eppure terribile. Gli aggressori, chiunque fossero, avevano in loro una brutalità che non avevano mai conosciuto in quella loro vita. Ynyr strinse Sianna più stretta.

 

Non siamo visibili, ma se dovessero avvicinarsi ci troverebbero facilmente.

Ci stanno cercando, stanno setacciando la zona e catturando i fuggiaschi

 

«Maledetti»

Un fruscio accanto a loro lo fece sussultare, riuscì a tappare la bocca di sua sorella prima che potesse lanciare un grido di allarme. Su una sporgenza, la kitsune nella sua forma animale li studiava altezzosa.

 

Non fate rumore e andrà tutto bene

 

Era questo il pensiero dello Yokai che rimbalzò nelle loro menti. Ynyr annuì subito, accarezzò i capelli di Sianna, per calmarla, perché anche se aveva capito sentiva il cuore di lei battere all’impazzata. Quegli esseri sembravano fiutare la paura, si avvicinarono pericolosamente ma d’un tratto, quasi inspiegabilmente, cambiarono direzione e si allontanarono, come avessero perso all’improvviso le loro tracce. La Hoshi no Tama continuava a restare sospesa sopra di loro come una benedizione.

A volte, in quella notte terribile, sentirono riecheggiare in lontananza urla e pianti straziati, oppure brandelli di parole di quelle creature, una lingua sibilata che non conoscevano e un accento che non avevano mai sentito. Alla fine si svegliarono anche i loro compagni, non videro Kii, che si era nascosto, ma Ynyr percepì la presenza della volpe non abbandonarli mai, nemmeno un istante.

Anche quando gli assassini parvero scomparsi, restarono comunque in veglia, con un’ansia talmente pesante addosso che pensare di poter riposare sarebbe stato impossibile pur volendo. Non scambiarono tra di loro parola alcuna fino ai primi raggi di tiepido sole. La ferita di Sianna si era infettata e le sue condizioni preoccupavano Ynyr più di quanto fosse disposto ad ammettere. L’arrivo dell’alba si presentò come una salvezza dalle più svariate gradazioni di rosa, un calore fiacco ma che li strappava dal peggior incubo che avessero mai vissuto.

Il primo ad azzardarsi ad uscire allo scoperto fu Daniel, che dopo una breve perlustrazione tornò indietro.

«Non credo ci siano più»

I Drui si lanciarono in congetture sulle origini di quei mostri che portavano con loro una scia, uno strano odore di fiori marci.

«Non credo siano umani»

«Non credo nemmeno che siano creature d’ombra di questa terra»

Ynyr prestava loro poca attenzione, quasi nulla. Ora che sua sorella si era svegliata, anche il dolore era diventato troppo chiaro e nitido.

«Ditemi che uno di voi ha una minima esperienza come guaritore. Perché qualcuno deve togliere questa freccia dal braccio di mia sorella» gli occhi dei presenti si posarono senza troppa clemenza su Daniel che, suo malgrado fu costretto ad annuire. Le ragazze li condussero ad un piccolo ruscello lì vicino, dove spesso avevano giocato da bambine proprio con Sianna, e fu lì che, dopo aver pulito la ferita alla bell’e meglio, estrassero la freccia scheggiata dal braccio. Cercarono di pulire la ferita con degli stracci di stoffa recuperati dai vestiti e immersi nell’acqua limpida e la fasciarono.

Mentre Sianna, nuovamente svenuta, si riprendeva, riposarono e attesero, decidendo cosa fosse meglio fare da quel momento in poi. Ynyr però partecipava a tratti, con scarso interesse, più concentrato a vegliare il sonno della sorella che a tutto il resto.

Dopo un dibattito lungo e contrastato, decisero di tornare a valle, per scoprire che fine avessero fatto gli altri superstiti e se fosse sopravvissuto qualcosa. Ripercorsero il sentiero più tranquilli, William sembrava convinto che chiunque se la fosse cavata, sarebbe tornato indietro, anche solo per cercare amici e parenti o per recuperare i propri averi.

Ynyr faticava a sorreggere Sianna, vacillava e il dolore lo trapassava ogni volta, togliendogli il respiro ad ogni stilettata, ma il pensiero di Henry pronto accanto a lei come un cavalier servente lo nauseava troppo perché gli riuscisse di tirarsi indietro.

Quando raggiunsero il villaggio, rimasero paralizzati. Le fronde si diradarono solo per mostrare devastazione. Oltre ai detriti e alla cenere non era rimasto nulla, nessun edificio era ancora in piedi, i muri diroccati e l’odore di legno bruciato, di carne cotta, tolsero loro le forze. A Ynyr mancò il fiato, sua sorella trattenne il respiro e il primo, tremulo, soffio di pianto.

Scesero silenziosamente quella strada che per tutta la loro vita era stata la cosa più nota e familiare ed ora era solo un campo di cadaveri abbandonati, massacrati in maniera grottesca. Per quanto macabro, non riusciva a smettere di guardare, di cibarsi di quelle immagini irreali, e così anche le ragazze e i Drui si nutrivano di quell’orrore senza trovare le parole per raccontarsi.

«Non c’è nessuno qui. Non verrà nessuno» lo disse per spezzare l’incantesimo e riportarli alla realtà. Kea cercò i suoi occhi, era tanto vuota in quel momento, tanto sconvolta, da sembrare finta. Marion si lasciò andare ad un pianto disperato.

 

Ci speravano davvero, credevano sul serio che qualcuno della loro famiglia ce l’avesse fatta

 

«Ci siamo solo noi»

Il vento leggero sollevò mulinelli di cenere dal terreno, camminavano su uno strato di cenere tanto spesso da sembrare sabbia grigia. Scavalcarono carcasse di legno crollate in mezzo alle vie, sfiorarono le pietre annerite.

Infine, quel sospiro trattenuto tra le labbra di Sianna si tramutò in un tremore diffuso. L’abbracciò stretta, per calmarla quanto desiderava placare se stesso.

 

Sapevo che non avrei trovato nulla, ma non pensavo fino a questo punto

 

Fu il pianto disperato di Mari, fragile come quello di una bambina, a ridestarlo. Avanzava sfregando le palpebre arrossate con i polsi, come la più soffice delle creature, pareva ancora più piccola dei suoi anni. Sentire quel dolore tanto spontaneo ruppe il freno alle gemelle e Iris, che non esprimeva mai se stessa, rivelò quanto fosse affranta e prostrata. Iris non sapeva piegarsi, solo spezzarsi, sembrava impossibile che potesse ricomporsi dopo quelle perdite. Passarono accanto all’ennesimo cadavere carbonizzato, quello di un bambino, e fu Kea questa volta ad esitare. Era la quarta di sette fratelli, tre dei quali così piccoli che quel corpo avrebbe potuto tranquillamente essere di uno di loro.

Kea non lo disse, ma era evidente ciò che pensava, il tormento per la sua famiglia le scuriva il volto e quegli occhi neri oscuri come un pozzo. Per Sianna invece, l’orrore era troppo forte e il suo corpo troppo provato. Svenne, e Ynyr riuscì ad acchiapparla prima che cadesse a peso morto a terra.

«Andiamocene»

«Forse dovremmo aspettare» protestò appena Daniel. Ynyr venne invaso da tutta la rabbia trattenuta che si sforzava di domare «Non c’è nessuno» sibilò «Sono morti tutti, non tornerà nessuno»

Alla durezza delle sue parole seguirono i singhiozzi costernati delle ragazze, Marion piangeva tanto forte che quasi le mancava il fiato, non riusciva a respirare.

«Non le sottoporrò a questa sofferenza» fece presente indicandole.

Si allontanarono, soffocati dall’amarezza.

Camminarono per un giorno intero, cercando di frapporre tra loro e Gleann Dubhar quanta più distanza possibile, perché si portavano ancora addosso il terrore che gli assalitori potessero ricomparire con il buio. Non sapendo dove andare, decisero di seguire i sacerdoti verso Lochlainn, il loro villaggio Drui, nella speranza di ritrovare anche Korakas. Ynyr sperava che insieme alla vecchia potesse esserci anche Marilien, mentre Henry, Daniel e William cercavano di trovare una spiegazione da dare alla reggente sul perché la Somma Sacerdotessa non fosse con loro.

Frapposero molte leghe tra loro e il villaggio, ad una stanchezza spossante si unì la fame. Al terzo giorno, Sianna non era più in grado di camminare, la ferita aveva fatto infezione e nei pochi momenti di veglia vaneggiava e non era presente a se stessa. Ynyr proseguì portandosela addosso, nonostante fosse ormai al suo limite.

Dopo giorni di cammino, giunsero nei pressi di Lochlainn moribondi, laceri e sfiniti.

Allo stremo, si accasciarono in agonia. Vennero raccolti da dei Drui non lontano dal Cerchio di Pietre.

 


ANGOLO AUTRICE

Eccomi! Ho risolto in maniera pratica l'orribile questione delle didascalie con i nomi di posti, cose, animali , città...!
Per semplificare il tutto, ho fatto questa cartina. Non è completa, copre solo una parte dei territori, ma è quella che vi serve in questa parte di storia quindi per ora mi limito a questo e più avanti aggiungerò il resto :)
Grazie a chi ancora leggere questo delirio che vi assicuro, non ho abbandonato,  semplicemente è in una revisione costante, costanti cambiamenti (per esempio dovrei togliere i primi capitoli e sostituirli con le nuove versioni, ma va beh, resisto e mi faccio andare bene  questa!) e costanti dubbi sui risultati. Resta, tra tutti i mondi che ho inventato, il mio preferito e il più complesso.
A presto spero, o a tra qualche mese nel dubbio! :)




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