Elizabeth Lane

di EleEmerald
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ballo in maschera ***
Capitolo 2: *** Incubi e ricordi ***
Capitolo 3: *** Capodanno ***
Capitolo 4: *** Il pugnale nella neve ***
Capitolo 5: *** La donna incappucciata ***
Capitolo 6: *** La leggenda ***
Capitolo 7: *** Riunioni di famiglia ***
Capitolo 8: *** Il cane infernale ***
Capitolo 9: *** Hotel Caelum ***
Capitolo 10: *** Il Grand Canyon ***
Capitolo 11: *** Il luna park ***
Capitolo 12: *** Rotture e riappacificazioni ***
Capitolo 13: *** Febbre ***
Capitolo 14: *** Bugie e verità ***
Capitolo 15: *** Il litigio ***
Capitolo 16: *** La casa nel bosco ***
Capitolo 17: *** Seconda stella a destra... ***
Capitolo 18: *** ...e poi dritto fino al mattino ***
Capitolo 19: *** Emma ***
Capitolo 20: *** Ritagli di giornale ***
Capitolo 21: *** La gara ***
Capitolo 22: *** San Valentino ***



Capitolo 1
*** Il ballo in maschera ***


CAPITOLO 1: Il ballo in maschera

La prima volta che incontrai Elizabeth pensai fosse la ragazza del mio migliore amico Thomas. Era un ballo scolastico, di quel genere stupido in cui le ragazze devono indossare una maschera, senza un motivo certo, perché, questo lo sapevano benissimo tutti, era solo per fare scena. Era il ballo di natale e un sottile strato di cotone era applicato ovunque a scuola per riprodurre la neve, quella neve che non c'era mai nel nostro stato. Nei giorni precedenti io e Thomas ci eravamo impegnati molto a trovare qualcuno da portare al ballo e io qualche ragazza l'avevo anche trovata, quando poi lui mi aveva detto che era solo avevo deciso di andarci anch'io senza nessuna ragazza, un po' per non farlo sentire l'unico sfigato, un po' perché non avevo intenzione di andare con ragazze, che, detto fra parentesi, a mio parere erano stupide e superficiali, e sarebbero venute con me solo per avere un ragazzo e avere più probabilità di trovarsene uno vero. La sera prima Thomas mi chiamò e iniziò a raccontare di come ora aveva una ragazza. "Perfetto" mi dissi "ora farò il terzo incomodo tutta la serata" tanto valeva non andare. E invece andai. Potrei descrivere ancora quella sera come se la stessi vivendo ora perché è da quel ballo che iniziò il periodo più bello e brutto della mia vita.

 

Quando la sera del ballo arrivai davanti alla palestra della scuola, mi sembrò di vedere Thomas entrare e iniziai ad innervosirmi. Misi un piede dopo l'altro e, con un sospiro, aprii la porta. Il rumore della musica iniziò a rimbombarmi nelle orecchie, le luci colorate a entrarmi negli occhi, davanti a me una moltitudine di gente si dimenava al buoio. Strabuzzai gli occhi per abituarmi alla nuova luce e iniziai a dirigermi al posto di incontro. Non appena mi vide, Thomas mi salutò con la mano. Di fianco a lui c'era una ragazza girata di spalle, era molto minuta e portava un ampio vestito che, per colpa delle luci, inizialmente parve di mille colori, in realtà era un vestito bianco con delle righe oro sui bordi. Portava i capelli, probabilmente biondi, legati sulla testa, lasciando cadere dei boccoli sul collo. Quando si girò e mi sorrise rimasi senza fiato, portava una maschera bianca e oro, intonata perfettamente al vestito: sembrava una donna uscita da un romanzo sull'ottocento.
Come aveva fatto Thomas a trovare una ragazza bella come quella?
- Ciao! - urlò Thomas per sovrastare la musica.
- Sono Matthew, ma mi chiamano tutti Matt - mi presentai alla ragazza, che continuava a sorridermi.
- Lo sa! - Thomas sembrava doversi sgolare per riuscire a farsi sentire - Lei è Elizabeth! - si voltò verso la ragazza - Balliamo?!
Elizabeth fece segno di si e Thomas mi lanciò uno sguardo che significava "scusa amico".

 

Li guardai ballare per un po', o meglio, guardai lei ballare per un po'. Era così bella, appena l'avevo vista mi era sembrata irraggiungibile e ora io volevo raggiungerla più di ogni altra ragazza al mondo, ma non potevo, se le avessi chiesto di ballare Thomas ce l'avrebbe avuta a morte con me per sempre. Dopo qualche minuto mi accorsi che il mio amico continuava a guardare la porta della palestra, nel disperato desiderio di vedere qualcuno entrare. Mi appoggiai al tavolo che avevano messo per la festa e presi un po' di punck, un'altra stupida cosa tipica da ballo scolastico. Passò qualche minuto e poi una nuova voce mi chiamò da dietro: - Ehi! Me ne passeresti un po'? -
Era lei. Rimasi a fissarla con il bicchiere di punch a mezz'aria.
- Il punch intendo - mi sorrise e indicò la ciotola che ne era piena, altra cosa che in 17 anni della mia vita non avevo mai capito: perché non usavano una bottiglia?
- Si certo - le passai un bicchiere pieno.
- Grazie! - lo bevve tutto in un sorso e quando alzò la testa Thomas era dietro di lei, che si lamentava.
- Lil! Non ce la posso fare, lo sai! Non sono capace di ballare! Te l'ho chiesto perché speravo di smettere in fretta - ricominciò ad urlare.
- Eddai Thomas! Sei troppo noioso - disse Elizabeth in risposta. Si voltò e fece uno strano sorriso - Matthew, ti va di ballare?
- Io? Ma - lanciai un'occhiata a Thomas - non ti offendi se ballo con la tua ragazza?
- Solo per questo ballo! - Elizabeth fece una risata - Non mi metterei mai con questo idiota.
Non stavo più capendo niente ma lei, senza lasciarmi chiedere niente, mi trascinò sulla pista da ballo.
Iniziò a ballarmi davanti e io rimasi imbambolato a guardarla, poi mi accorsi che stava parlando ma la musica la sovrastava.
- Credevo fossi la sua ragazza.
- No! Che idiota é Thomas. Avrà fatto apposta a non dirtelo, in realtà per stasera devo fingere di esserlo - si lasciò sfuggire una risata, che bel sorriso aveva - Sono sua cugina!
Sua cugina. Non stavano insieme. Non avrebbero potuto, erano cugini. Thomas non si sarebbe arrabbiato.
Sospirai, felice e lei se ne accorse, mi lanciò uno sguardo che riassumeva perfettamente le sue parole: - Voi maschi siete tutti uguali. - Mi sembrò che pronunciasse quelle parole come se le avesse sentite troppe volte, come se i ragazzi fossero da evitare, come se tutti noi le avessimo fatto del male. Appena si accorse di quello che aveva detto accennò un sorriso e pensai di essermi sbagliato, che avevo frainteso quello sguardo e quelle parole.
Vidi una ragazza dai capelli rossi farsi strada tra mille adolescenti che ballavano e, nonostante la maschera che le copriva gli occhi, la riconobbi subito.
- Iris - mormorai.
- Cosa? - mi chiese Elizabeth che non aveva capito a causa del rumore.
- Iris - urlai cercando di farmi trovare dalla mia amica.
Appena si accorse che la chiamavo me la trovai davanti. Aveva un enorme sorriso sul volto. Indossava un vestito blu, dello stesso colore della maschera, da cui risaltavano i suoi magnifici occhi azzurri.
- Stai benissimo Iris! - esclamai.
- Oh non fare il lecchino che lo so che lo fai perché vuoi che ti passo le risposte della verifica di latino che c'è quando si torna dalle vacanze. - Mi guardò di sottecchi e poi face di nuovo il suo grande sorriso, che la caratterizzava - Comunque grazie. - Guardò Elizabeth - Hai una ragazza! Credevo non ce l'avessi!
- Simpatica...comunque no è la ragazza di Thomas.- Appena ebbi finito di dire quella frase Thomas, come invocato, mi comparve dietro.
Iris cominciò a ridere e Thomas la guardò male.
- Sei sicura che vuoi questo qui? - chiese a Elizabeth indicando Thomas.
- Non lo voglio infatti - rise Elisabeth - È mio cugino.
Iris riscoppiò a ridere: - Se eri così disperato da rivolgerti a tua cugina non oso pensare a Matthew.
- Che vuoi? Sono solo per scelta io.
- Ah, già. Ragazze superficiali.
- Sempre meglio di venire con Charles - Thomas pronunciò quel nome con ribrezzo, in effetti non lo biasimavo.
- Mi sono accontentata. Se voi me lo aveste detto prima sarei venuta con uno di voi! - Ma rideva. Thomas in effetti avrebbe voluto chiederglielo, sempre meglio con un'amica che da soli, ma quando entrambi ci eravamo ricordati di questo ballo per lei era già tardi.
Io e Thomas eravamo diventati amici di Iris quando la sua migliore amica si era trasferita a Washington. Era sola e senza amiche, si trovava in uno dei corsi che frequentavamo entrambi, nel banco dietro al nostro e ad una battuta di Thomas aveva riso da matti, attirando su di se l'attenzione di tutti. La settimana dopo si era seduta vicino a noi per sentire altre battute e da quel giorno eravamo diventati amici. Non era una di quelle storie di amicizia dopo aver condiviso avventure straordinarie e non sapevo nemmeno perché ci avevo pensato in quel momento ma ero felice di averla conosciuta. Era sempre così simpatica e solare.
- Thomas, perché non ho mai conosciuto tua cugina? Che, fra parentesi, non ti assomiglia per niente - disse Iris.
- Si! Abbiamo gli stessi capelli biondi! - si toccò i capelli.
- Credevo fossi tinto - dicemmo io e Iris all'unisono.
- No era così anche da piccolo, ha l'attaccatura castana ma non è tinto - spiegò Elizabeth.
- Credevate davvero che mi tingessi?
Io e Iris ci scambiammo uno sguardo complice.
Amavo i miei amici e fino a quella sera le uniche persone a cui pensavo con un sorriso sulle labbra erano loro. Fino a quella sera. Tante cose cambiarono da lì, tante verità. Forse la mia vita si stava via via rovinando. Avrei perso tanto.

 

Angolino dell'autrice: Buona sera a tutti! O buongiorno...dipende dal momento in cui leggete. Spero che questo primo capitolo vi abbia incuriosito perchè vorrei che vi piacesse, mi sono affezionata a questa storia nonostante io abbia scritto solo qualche capitolo che non tarderò a pubblicare se mi farete sapere cosa ne pensate quindi recensite, mi raccomando. Avevo pubblicato questo capitolo su Wattpad con il titolo Quattro Famiglie con lo stesso nome account quindi se avete già trovato questa storia era per questo motivo, l'ho cancellata però perchè preferisco questo sito. Bene, a presto!

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Capitolo 2
*** Incubi e ricordi ***


Capitolo 2: Incubi e ricordi

Pensavo che non avrei rivisto Elizabeth per tutte le vacanze nataliazie e invece mi sbagliavo. Il mattino dopo il ballo dormii fino a mezzogiorno, non ero mai stato un ragazzo che si svegliava presto durante le vacanze e dopo una festa dormivo sempre molto di più. Quando finalmente mi svegliai capii che se non avessi mangiato subito non avrei fatto in tempo ad andare fuori con Iris, le avevo promesso che l'avrei accompagnata a prendere i regali che le mancavano, era sempre in ritardo su queste faccende.
Mia mamma mi accolse in cucina con un sorriso. - Com'è andata la festa? - disse mentre girava il sugo.
- Bene. Alla fine non mi sono neanche annoiato così tanto - risposi.
- Chi era la ragazza di Thomas? E Iris era con Charles? - Mia mamma era davvero informata sulle mie faccende.
- Thomas ha portato la cugina - dissi tranquillamente ma mia madre capì subito il mio interesse per quella ragazza e mi lanciò un'occhiata. Feci finta di niente e risposi affermativo alla seconda domanda.
- Quando la smetterà quel ragazzo di tormentare la povera Iris? Non si accorge che non le importa? - disse senza aspettarsi risposte.
- Non ne ho idea mamma. Quando si mangia? - chiesi.
- Hai dormito e hai saltato la colazione, ora aspetti tutto il tempo necessario.
Sbuffai. Se il cibo ci metteva molto a cuocere non avrei davvero fatto in tempo.
Io e mia mamma vivevamo soli, i miei genitori avevo divorziato quando io avevo 10 anni e mio padre aveva un'altra donna con cui conviveva ora. Odiavo mio padre, aveva tradito mia mamma per un periodo lunghissimo e non glielo avrebbe detto se non me ne fossi accorto io; mio padre credeva fossi stupido ma io lo avevo visto, non potevo mentire a mia mamma. Lei era incinta quando glielo dissi ma non lo sapevo, non sapevo che avrei avuto un altro fratello, per la scoperta le venne un malore e perse il bambino. Avevo passato le settimane, che il tribunale mi aveva obbligato a stare da mio padre, chiuso in camera e appena compiuti 16 anni avevo smesso di andarci, non sopportavo la sua vista, non sopportavo lui e non sopportavo quella donna con cui aveva tradito mia madre. Mia mamma non mi obbligava a sentirlo, era da egoisti, lo sapevamo entrambi, ma lei non voleva che mio padre sapesse nulla di me.


 

Appena fu pronta la carne mangiai in fretta e corsi a vestirmi. Iris voleva sempre trovarsi così presto. Salutai mia mamma e le spiegai che uscivo con la mia amica.

La strada fino al centro commericiale era monotona e piena di gente come al solito. Iris mi aspettava davanti alla seconda entrata. Portava un cappellino grigio e una sciarpa che si intonava, e strofinava le mani cercando di scaldarle, i lunghi capelli rossi erano raccolti in una treccia. Appena mi vide alzò la mano in segno di saluto.
- Eccoti finalmente! Sei in ritardo - disse - Credevo non saresti più arrivato, ma quanto ci hai messo?
- Non sono in ritardo, sono i tuoi orari che sono impossibili!
- Non è affatto vero. Vieni. - E iniziammo ad entrare al centro commerciale.
Mi guardai intorno tra i negozi per trovarne uno che potesse nascondere un regalo per Thomas e Iris, come al solito, riprese a parlare. Mi raccontò di quello che era sucesso ieri quando me n'ero andato e di come Thomas aveva insistito per essere lui a riaccompagnarla a casa e non Charles. Aveva iniziato a farneticare sul fatto che, se fosse rimasta sola in macchina con lui, le avrebbe sicuramente messo le mani addosso.
- E alla fine con chi sei andata? - chiesi interrompendola mentre si fermava a respirare.
- Thomas mi ha dato talmente sui nervi che me ne sono andata con Charles.
- Ti ha fatto qualcosa?
Lei sbuffò. - Ha provato ha baciarmi quando siamo arrivati davanti a casa ma io ho aperto la portiera e me ne sono andata.
- Meno male.
Charles era il genere di ragazzo popolare, bello, ricco e tutto il resto. Quando puntava una ragazza lei doveva essere per forza sua e lui otteneva sempre ciò che voleva. Non avevo conosciuto una ragazza che lui aveva scelto come preda che non era caduta tra le sue braccia. E ora che aveva puntato Iris avevo paura per lei, avevo paura che si lasciasse fregare e poi venisse usata. Non ero ancora riuscito a capire perché Charles avesse scelto Iris, insomma era bella, e questa era una cosa oggettiva, ma aveva avuto ragazze che lo erano molto di più. Thomas diceva che era per via degli occhi, Iris aveva due enormi occhi blu; i capelli rossi come il frutto omonimo e gli occhi blu come il fiore erano una combinazione molto bella.
- Ma cosa vuole da me? Lo odio – esclamò interrompendo i miei pensieri.
- Sei la sua prossima conquista - spiegai.
- Be' io non voglio essere la sua prossima conquista. Non capisco come abbia fatto ad accorgersi di me!
In effetti era strano, Iris non stava di certo con i due più popolari della scuola, eravamo di quel gruppo di mezzo che in pochi sapevano esistesse. La gente non ci evitava come la peste ma nemmeno avrebbe fatto di tutto per stare con noi, e a me non dava fastidio fosse così. Certo, c'era chi aspirava ad entrare nei popolari ma il resto delle persone erano le migliori.
- Non ne ho idea - risposi.
Rise. Era formidabile il modo in cui tornava felice così in fretta. - Se tu fossi stato una ragazza ora mi avresti detto che era perché sono molto bella.
Le diedi uno spintone e indicai un negozio - Forza, entriamo.
Ci mettemmo molto a scegliere un regalo per Thomas, che non era affatto facile in regali, e alla fine prendemmo un cd della sua band preferita. Era costato molto perché era un'edizione speciale ma a Iris non era importato; appena lo aveva visto le si era illuminato lo sguardo e aveva annuito: Thomas avrebbe amato quel regalo.


 

Finite le compere accompagnai Iris da Thomas per portargli il regalo e la aspettai in macchina. La vidi correre verso la porta di ingresso e suonare. Poi il padrone di casa aprì la porta. Sembrava sorpreso di vederla lì, così abbassai il finestrino per ascoltare quello che si dicevano.
- Iris non ti aspettavo - disse.
- Disturbo? Sono venuta a portarti il regalo. - Gli passò il pacchetto che aveva fatto la cassiera con un grande sorriso.
- Grazie. Me lo potevi dare anche dopo Natale, non dovevi preoccuparti.
- No, volevo lo aprissi il giorno giusto. - Aveva un sorriso così contagioso che anche Thomas si ritrovò a sorridere. - Devo scappare - disse infine allontanandosi.
- Aspetta, com'è andata con Charles? Ti ha fatto qualcosa? - Sembrava preoccupato.
- Oh devi sempre rovinare tutto! Ero così felice. - Iniziò a gesticolare con le mani, come faceva sempre. - No non mi ha fatto niente! Perché devi sempre comportarti come se fossi mio fratello?

- Lo sai! - urlò lui di rimando.

Ma Iris non si aspettava una risposta quindi corse verso la macchina ed entrò, in un attimo era seduta di fianco a me, rossa di rabbia.
- Non mi sembra abbia detto niente di male, lo sai che è sempre preoccupato - le dissi cercando di calmarla.
- Stai zitto e portami a casa.


 

Quando, dopo aver lasciato Iris, mi diressi verso casa, non mi sarei mai aspettato di incontrare Elizabeth, sinceramente quel giorno non avevo neanche pensato a lei eppure svoltanto con la macchina nella strada che costeggiava il bosco, vidi una chioma bionda correre tra le piante. Strabuzzai gli occhi e fermai la macchina per guardare nel bosco, non c'era nessuno. Ripresi ad andare pensando che mi ero immaginato tutto ma poi sentì un urlo, era la voce di una ragazza. Inchiodai la macchina in mezzo alla strada, uscì e corsi in mezzo al bosco. La ragazza non urlava più e io correvo alla cieca chiedendo se c'era qualcuno. Arrivai in un punto dove non c'erano alberi, solo alcuni cespugli, una roccia e una ragazza dai capelli biondi accovacciatavi contro, le mani sulla testa, fissando un punto per terra.
- Hai urlato? Hai bisogno di aiuto? - chiesi avvicinandomi.
La ragazza si voltò, aveva uno sguardo folle negli occhi e le mani e i vestiti imbrattati di sangue. Indietreggiai, che cosa aveva fatto? Ma i suoi occhi chiedevano anche aiuto. Mi avvicinai e la riconobbi, era lei. Elizabeth.
- Elizabeth! Elizabeth, che ti è successo? - Mi accovacciai davanti a lei - Stai bene? Sei ferita? - Ma lei non rispondeva. - Dobbiamo andare in ospedale!
Mi guardava con lo stesso terrore negli occhi. Cercai di farla alzare per portarla in ospedale ma non voleva. Le gridai più volte di andare ma lei era immobile. Mi alzai e stavo per prenderla in braccio, trascinandola a forza, quando parlò: - Non è sangue mio.
- Non è tuo? Elizabeth cos'è successo?
- Mio padre. - Si alzò in piedi - È colpa sua, è stata lei.
- Lei chi? Dov'è tuo padre? - Le presi un braccio ma lei lo allontanò dalla mia presa.
Mi lanciò uno sguardo di supplica: - Ti prego, dimentica tutto. – E corse via.
Mi alzai barcollando e andai verso casa, con la testa che mi faceva male, e il suo viso sporco di sangue impresso nella mente. Non sapevo cosa fare, avrei dovuto dire qualcosa a Thonas? Era sua cugina e io l'avevo trovata insanguinata in un bosco. E poi aveva detto qualcosa su suo padre, forse avrei dovuto chiedergli di lui, se stava bene, ma come avrei fatto senza dirgli il perché? Non mi importava cosa avrebbe pensato. Dovevo sapere.
Gli mandai un messaggio: "Ciao Thomas. Mi dispiace per oggi. Iris sembrava un po' agitata. Senti, vorrei chiederti una cosa...mi potresti dire di tua cugina. Quanti anni ha? I suoi genitori?" Decisi che tralasciando il come avrei dovuto dirgli qualcosa. “L'ho incontrata pochi minuti fa, farneticava qualcosa sul padre e sembrava molto scossa.”
La risposta arrivò un minuto esatto dopo: " Ha 15 anni, ne fa 16 il 14 febbraio, ha solo la madre, che è la sorella di mio padre, non so chi sia suo padre e secondo mia zia non lo sa nemmeno Elizabeth, mia zia è rimasta incinta e si è presa cura di lei da sola senza dirci chi era il padre, è ancora sola. Sei sicuro di aver capito bene? Lo dirò alla zia.” E così si chiuse la nostra conversazione.


 

Cercai in tutti i modi di togliermi tutto quel sangue dalla mente. Ero sveglio da più di quattro ore, era ormai quasi mattina. Mi agitavo nel letto senza riuscire a prendere sonno e quando finalmente ci riuscì fui tormentato da incubi misti a ricordi.
Nei sogni mi trovavo in camera mia e piangevo, non mi serviva sapere altro, sapevo esattamente cosa sarebbe successo. Quella fu l'ultima volta in cui piansi: la litigata tra i miei genitori. Piangevo per mia madre.
Anche tappandomi le orecchie sentivo le urla provenire dell'altra stanza.
- È stata una volta sola - cercava mio padre di giustificarsi ma io sapevo che fosse una bugia.
- Non mi importa! Non mi interessa se è stata una, due, tre volte o di più! Mi importa che mi hai mentito, che mi hai tradita, che hai finto non fosse successo nulla! - Mia madre aveva il volto rigato di lacrime.
- Lisa, io...
- Zitto. Non parlare. Vai fuori da questa casa!
- Voglio rimediare a tutto quello che ho fatto.
- Non puoi rimediare. - Si asciugò una lacrima. - E ora vai a prendere la tua roba.
- Fammi almeno salutare mio figlio.
Sembrò pensarci un po' su ma poi gli fece segno con la testa di andare.
A quelle parole mi asciugai le lacrime, richiusi la porta da cui stavo spiando e mi misi a sedere sul letto aspettando l'arrivo di mio padre. Poco dopo sentii la porta aprirsi e una voce chiamarmi.
- Matthew?
- Sono qui - dissi. Non avrei fatto finta di essere triste per lui, non mi importava.
- Matt, ho fatto uno sbaglio, andrò via – disse sospirando. Aveva il volto sciupato.
- L'ho detto io alla mamma. - Non avrei mentito.
- Cosa? - chiese passandosi una mano sui capelli.
- Che hai un'altra.
Perse un battito: - Tu? Matt? - Ni guardò come se lo avessi tradito, ma non ero io il traditore in quella stanza. Sospirò: - Non sapevi cosa facevi. Non preoccuparti. Ti voglio ancora bene. - Mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò. Non lo vidi più per un mese.
Uscii per andare da mia madre. Era seduta su una sedia, il volto tra le mani tramanti e piangeva.
- Mamma? - non si voltò - È colpa mia.
- No. Non è colpa tua, è colpa di papà - si passò una mano sulla pancia, contratta da fitte di dolore.
Rimasi a fissarla, poi lei, senza dire niente, mi prese e mi strinse tra le sue braccia. Scoprii del bambino, ormai perso, solo il mattino dopo quando mia nonna mi venne a svegliare e mi disse che mia mamma era in ospedale.
I ricordi finirono e iniziarono gli incubi. C'era ancora una donna che piangeva, non capivo la sua età perché aveva il volto coperto dalle mani, forse era una ragazza, invocava aiuto ma io non potevo darglielo, ero bloccato dal terreno. Poi ai suoi piedi comparve un uomo, aveva un'orribile smorfia di dolore dipinta in volto. La ragazza fece cadere il coltello insanguinato che le era appena comparso tra le mani e urlò.
Mi svegliai tirando calci al materasso. Lasciai scivolare il mio corpo fuori dalla coperte e mi diresse in bagno dove mi bagnai la faccia prendendo grossi respiri. Di fronte a me lo specchio mostrava i miei capelli castani, che erano ricci e corti, completamente bagnati di sudore. I miei occhi castani erano gonfi e le mie guancie erano bianche pallido. Mi tirai un pizzicotto per far arrossare le guancie, come faceva sempre mia madre quando il trucco non riusciva a coprire la sua pelle chiara e dopo essermi scompigliato i capelli, tornai a letto.
Non riuscii a dormire.


Angolino dell'autrice: Eccomi! Scusate il ritardo, avevo intenzione di pubblicare due giorni fa ma ho avuto problemi con il computer, mi sono fatta perdonare aggiungendo un capitolo un po' più lungo. Grazie a Ciciolla26, Shadow writer e FrostyDark per aver recensito e grazie a America35 e LysL_97 per aver inserito la storia tra le seguite. Sono davvero felice. Fatemi sapere com'è qesto capitolo con tante belle recensioni, mi raccomando.

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Capitolo 3
*** Capodanno ***


Capitolo 3: Capodanno

A Natale riuscii a dimenticarmi di quello che era successo per un po', ma la mia spensieratezza non durò per molto. Due giorni dopo Natale vidi Elizabeth attraversare la strada dove si trovava casa casa mia. Corsi giù dalle scale prendendo un giubbotto a caso e appena superai il mio giardino mi misi a urlare il suo nome finché lei non si girò.
- Cosa vuoi? - disse scontrosa.
Era così diversa dal ballo in maschera e dal giorno in cui l'avevo trovata nel bosco. Ora i suoi occhi non erano felici e non chiedevano aiuto, volevano che me ne andassi e la lasciassi in pace, covavano rabbia e terrore.
- Ti ho trovata in un bosco ricoperta di sangue! Cosa credi che voglia? - la guardai dritta negli occhi che, per la prima volta, mi accorsi fossero verdi.
- Ti ho detto di dimenticare tutto!
- E come faccio a dimenticare?
Si voltò e inizio a camminare nella direzione opposta. Ma io non intendevo lasciarla andare. La segui finché non passò di fianco ad una via deserta, quindi la presi per un braccio e la trascinai dentro.
- Lasciami! - Cercò di divincolarsi - Lasciami! - urlò.
Un uomo che passava di lì si fermò a vedere quello che stava succedendo e, dopo uno sguardo fugace per assicurarsi che non mi stessi approfittando di lei, se ne andò.
Era la prima volta che riuscivo a vederla per bene, senza luci colorate a confondermi e senza le sue mani sul viso. I suoi occhi verdi erano enormi, così grandi e belli che sembravano mostrarle l'anima. Aveva delle piccole labbra sottili e molto rosse, che, avrebbero corrisposto alla descrizione delle labbra Biancaneve. I capelli, raccolti in una treccia bionda, erano dello stesso colore del cugino, più scuri sul capo e più chiari in basso, ma ero sicuro fossero naturali questa volta.
- Che cosa credi di fare? - domandò Elizabeth.
- Voglio sapere cos'è successo! - le dissi tendola ancora per un braccio.
- E pensi che te lo dirò? Non ti conosco neanche! E tu non conosci me, non conosci i miei problemi.
- Oddio - mormorai.
- Cosa?
- Sei quel genere di ragazza? Odio quando la gente passa la vita a lamentarsi dei propri problemi. I problemi non si risolvono lamentandosi - dissi sicuro.
- Se mi sono lamentata è stato perché tu non ti fai gli affari tuoi.
- Hai ucciso tuo padre? - dissi non curante di quello che mi aveva appena detto.
- Io non ho un padre.
- E allora perché parlavi di lui l'altro giorno?
- Smettila! Non te ne deve importare niente di me, continua a vivere in pace la tua vita e scordati di me. Era meglio che non venivo a quello stupido ballo - si lamentò. Lasciami andare. - Mi guardò dritto negli occhi e andò via, lasciandomi solo con l'aria invernale che circolava libera in quella via deserta.
Aveva ragione, avrei dovuto farmi gli affari miei, eppure c'era qualcosa che mi diceva di non lasciarla andare.


 

I guanti! -
Non appena chusi la porta, mia mamma mi comparve davanti con il regalo di Natale Iris, che sapeva del freddo che provavo sempre alle mani, e si mise a sventolarlo.
- Scusa mamma, ero di fretta.
- Chi era quella ragazza? - chiese.
- Chi? - Feci il finto tonto.
- Sei corso fuori di casa come una furia, credi che non me ne sia accorta? - Non aveva tutti i torti.
- Era la cugina di Thomas - spiegai.
Mi lanciò uno sguardo di chi crede di saperla lunga e tornò in cucina.
- Perché fai quella faccia? - chiesi.
- Perché nessuno corre in strada così, di punto in bianco, solo perché ha visto la cugina dell'amico.
- Avevamo una faccenda in sospeso.
- Una faccenda da risolvere in un vicolo? - Alzò un sopracciglio. Odiavo quando lo faceva.
- Be' si - Alzai le spalle proprio mentre il mio cellulare cominciava a squillare, così lo presi in mano e mi allontanai dalla cucina per rispondere.
All'altro capo del telefono c'era Chuck. Io e Chuck ci conoscevamo da anni, quasi cinque, da quando eravamo diventati compagni di squadra, certo, forse non si poteva definire propriamente una squadra, ma per noi era così. Facevamo nuoto entrambi da quando avevamo sei anni. Amavo l'acqua e il nuoto era il mio mondo, sott'acqua mi dimenticavo tutte le mie preoccupazioni ed ero libero. Io e Chuck avevamo un rapporto strano, più che un amico lo consideravo un fratello, un fratello molto rompiscatole.
- Matt che cosa pensi di fare? - disse l'altro senza assicurarsi nemmeno che ascoltassi.
- Riguardo a cosa? - domandai.
- A 'sta sera!
- Ah, e perché? - Ero confuso.
- È l'ultimo dell'anno! - rispose agitato, immaginavo che dall'altro capo del telefono avesse già un petardo in mano - Andiamo a fare casino.
- Io passo.
- Sei davvero noioso.
- Vado al pub con i miei amici, se vuoi venire.
- Poi andiamo a fare casino? - Sapevo che ad una risposta negativa non lo avrei visto fino al riprendere dei corsi.
- Se insisti - mormorai.
- Perfetto! Sono da te alle nove! - E chiuse la conversazione senza neanche farmi replicare.


 

Senza neanche un minuto di ritardo, Chuck si presentò sotto casa mia alla nove, dimostrando di esserci suonando ininterrottamente il campanello. Uscii di casa e me lo ritrovai davanti con un sacchetto pieno di petardi. Indossava un giubbotto rosso e dei comuni jeans, aveva negli occhi lo sguardo di chi è intenzionato a fare casino e sul mento un principio di barba, castana, come i capelli. Di fianco a lui si trovava Margareth, con indosso un vesito nero e un giubbotto, che mi salutò con un cenno della mano prima che Chuck le tirasse una manata in faccia, facendole cadere gli occhiali.
- Idiota, perché l'hai fatto? - gli urlò.
- Matt non guardava i petardi, era troppo concentrato su di te che lo salutavi - si giustificò lui alzando le possenti spalle.
- Che idioti - dissi ridendo.
Lei arrossì. Margareth. Occhi azzurri, capelli castani sempre raccolti in una coda, occhiali neri, secondo me bellissima, ma non per Chuck, che la considerava solo la sorellina rompiscatole del gruppo di nuoto. Lei, la mia cotta per anni, avevo smesso di essere innamorato di lei solo quando si era fidanzata e io avevo capito di non avere speranze. Era davvero felice con il suo ragazzo, poi, senza spiegare a nessuno il motivo, ci aveva fatto sapere che lui l'aveva lasciata. Un pomeriggio, durante il corso, ricordo di essermi accorto che le gocce che aveva sul viso non erano gocce d'acqua della piscina.
- Smettetela di farvi gli occhioni dolci, voi due! - sbottò Chuck.
Noi due sospirammo per questa sciocca storia, inventata per lei, e fastidiosa per me. Da quando aveva iniziato a fare questi commenti allusivi avevo capito che non avrei mai più rivelato cose del genere a Chuck.
- Allora? - domandò - La macchina?
- Credevo andassimo con la tua.
Si mise a ridere per l'immensa cavolata che avevo appena detto. Era impensabile che Chuck desse passaggi.
Li guidai verso il garage e tirai fuori il mio vecchio minivan grigio. Loro saltarono in macchina e si misero a fare commenti su quanto fosse grande e su come avrei potuto portare una classe in gita, cosa che in realtà non era affatto possibile.

Il bosco in cui avevo incontrato Elizabeth pochi giorni prima mi sfilò di fianco e riuscii a guardarlo velocemente mentre guidavo. Mi sembrò di vedere una luce ma non mi fermai, forse stavo solo sognando, mi ero immaginato tutto per colpa di quello che vi avevo visto all'interno, o forse no. Cosa nascondeva quel bosco?
Un kilometro dopo l'insegna del Winter pub brillava di luce, il piccolo fiocco di neve nell'insegna si stava staccando. Iris comparve all'improvviso davanti alla porta del pub e, prima che riuscissimo a scendere dalla macchina, si affacciò al suo interno, tirò fuori Thomas e, dopo essere corsi da noi, aprì la portiera della macchina.
Non si accorse che il sedile era occupato da Chuck e quasi vi si sedette sopra.
- Fai pure - disse lui con un sorriso ammiccante e guardandole il vestito un po' troppo corto.
- Chuck! - lo rimproverò lei, poi si rivolse a me - Non mi avevi detto che ci sarebbero stati anche loro! - E rivolse un cenno a Margareth mentre vi si sedeva vicino.
Thomas aprì la portiera e si sedette vicino al posto del guidatore.
- Scusate, perché siete saliti in macchina?
- Segui la BMW - si limitò a dire Thomas.
Una BMW nera partì verso la strada.
- È la macchina di Charles, vero? - domandai nonostante lo sapessi già.
- A volte quel coglione serve a qualcosa - Thomas sorrise.
- Dove andiamo?
- Ci fa imbucare nella discoteca dei ricchi.
- Sono le nove! - esclamai.
- Aspetteremo – spiegò Iris.
- Ma siamo stati ad una festa otto giorni fa - mi lamentai. In realtà non era la festa a disturbarbi quanto le persone che ero sicuro ci sarebbero state.
Thomas capì subito cosa indendevo e sussurrò qualcosa a voce così bassa che non riescì a sentirlo. Chuck invece mi ordinò di stare zitto e seguire la macchina nera davanti a me.
Sospirai e aumentai la velocità. Passammo per il centro e lo superammo, le luci natalizie dei negozi mi fecero quasi sbandare ma riuscì a superarle. Entrammo nel quartiere ricco della città e Charles svoltò a destra, entrando in una via con due ville per poi accostare alla seconda. Feci lo stesso e lui scese dalla macchina accivinandosi a noi.
Iris abbassò il finestrino per ascoltare quello che aveva da dirci e lui rivolse a tutti uno sguardo disgustato, a Iris invece sorrise.
- Dolcezza, aspettiamo qui che la discoteca apra.
- Dove siamo? - chiese lei.
- Casa mia. Sali? - domandò. La sua domanda non contemplava il resto del gruppo.
- Preferisco aspettare con loro - disse Iris con nervosismo.
- Dai, Walker, non puoi stare due ore in macchina.
- Accetto. Ma vengono anche loro.
- Va bene - sbuffò.
Appena chiusa la macchina, la villa mi mise quasi in soggezzione. Era enorme, di quelle che si vedono nei film: enorme giardino, enormi balconi, enormi terrazzi, un sacco di piani, un sacco di decorazioni natalizie sofisticate e perfettamente in tinta tra loro. Il tetto era di un verde acqua molto elegante e i mattoni di un bianco candido come la neve. Sembrava fare a gara a quale fosse la più grande con quella a fianco, che era identica tranne per i colori, che erano di una casa comune.
Senza dire nulla Charles ci guidò dentro e non appena aperta la porta mi trovai davanti il fratello maggiore di Charles, Ian, che stava baciando una ragazza troppi anni più giovane.
- Ian! - urlò Charles - Ti avevo detto di lasciarmi la casa libera!
- Tardi - disse lui ridendo - Strano che tu non abbia sentito la musica.
Dal giardino sul retro iniziò a provenire una musica senza parole ad altissimo volume.
- Oh, non l'avevamo ancora accesa.
Un fortissimo odore di fumo giunse dal giardino sul retro. Vidi Iris storcere il naso.
- Voglio un po' vedere casa tua, Brown - Thomas si avviò su per le scale.
- Posso far scoppiare i petardi? - chiese Chuck e ad uno sguardo indignato dell'altro li rimise dentro il sacchetto.
Quando quell'idiota di Charles disse di fare come se fossimo a casa nostra e se ne andò, feci un sorriso a Chuck che valeva più di un "facciamoli scoppiare".


 

Un enorme scoppio scosse tutta la villa e io mi ritrovai a ridere come quando ero un bambino. Iris e Margareth ci guardavano come se fossimo pazzi ma noi maschi, anche Thomas che era tornato soddisfatto dopo aver consumato tutti gli shampoo e le lacche di Charles, ci stavamo divertendo un mondo a far scoppiare i petardi nel giardino.
- Che cosa cavolo state facendo? - chiese Chales arrivando trafelato.
- Petardi.- Alzai il pacchetto.
- Vi avevo detto di non farli!
- Ormai - Thomas alzò le spalle.
- Ormai? Sei un coglione Lane! - Lo prese per la giacca e lo sollevò davanti a se.
- Che cosa fai? - urlò Iris - Mettilo giù! Non è stato solo lui a far scoppiare i petardi!
- Ma lui mi da sui nervi. - Poi gli venne un'idea - Dimenticherò tutto se tu mi darai un bacio.
- Allora ricorderai questo momento per sempre. - Thomas alzò un braccio e gli tirò un pugno dritto nell'occhio che gli fece perdere la presa, e si trovò a rotolare per terra. Charles gli fu subito addosso, lo prese a pugni finché non gli ruppe il naso, poi si alzò e andò via con le mani in tasca.
- Coglione. - La voce di Thomas era quasi un sussurro soffocato.
Si mise a sedere con una mano sul naso, sporco di sangue. Il suo volto prese un gigno arrabbiato e, alzatosi, si mise a correre dietro a Charles. Arrivatogli dietro, aspettò che si girò e gli tirò un altro pugno nell'addome. Charles cadde a terra.
- Smettetela - urlò Margareth.
Chuck stava ridendo.
- Thomas smettila! Ti prego - disse Iris con la lacrime agli occhi.
Lui si girò e abbassò le mani. Un altro pugno volò anche nel suo di addome e lui cadde, svenuto.
Iris soffocò un urlo.
- Piccola, ora me lo dai un bacio? - chiese Charles convinto che glielo avrebbe dato.
Lei non lo degnò di uno sguardo e si accovacciò vicino al ferito.
- La prossima volta che fai una cavolata simile sono io che ti spacco il naso - la sentii dire con il sorriso sulle labbra.


 

Lo portammo in macchina dove poté rinvenire tranquillo, sdraito sulla prima fila di sedili del minivan. Iris voleva tenergli la testa, secondo me solo perché si sentiva in colpa, ma io avevo optato per farlo stare più tranquillo. Margareth e Chuck si erano seduti dietro e io e Iris davanti e guardavamo e aspettavamo.
- Dobbiamo portarlo all'ospedale - disse Margareth - Gli ha rotto il naso.
- Chissà quanta gente ci sarà - disse Chuck.
- Però Margareth ha ragione. - Annuii.
- Non voglio rovinarvi il capodanno - disse il protagonista del dialogo svegliandosi con un sorriso.
- Amico, stai bene? - chiese Chuck.
Thomas annuì in risposta e si toccò il naso per constatare che gli avevamo ripulito tutto il sangue.
- Grazie. Andrò domattina.
- Non puoi andare domani! Hai il setto nasale fratturato! Probabilmente è anche di secondo grado! - Guardammo tutti Margareth.
- Marghe vuole fare il medico – spiegai per far capire a tutti il motivo del suo linguaggio.
- Marghe? - Chuck alzò un sopracciglio, mi dava sui nervi quando qualcuno lo faceva perchè io non ne ero in grado.
- Chuck non è il momento - dissi.
- Ragazzi andiamo al pub. - Thomas sforzò un altro sorriso.
Mi voltai e ingranai la marcia.


 

I ragazzi ridevano bevendo la coca cola, al pub non ci avrebbero mai venduto alcolici, e sinceramente non volevo ubriacarmi né quel giorno né mai. Iris guardava apprensiva il naso rotto di Thomas, quei due sembravano davvero fratello e sorella. Mancavano dieci minuti a mezzanotte. Cinque. Tre.
Mi squillò il cellulare e uscì dal bar per rispondere.
- Pronto?
- Ciao Matthew - disse una voce conosciuta.
- Elizabeth?
- Si sono io.
- Come hai fatto ad avere il mio numero?
- Volevo chiederti scusa. - Ignorò la mia domanda.
- Di cosa?
- Di averti trattato in quel modo.
- In realtà sono io che dovrei darti delle scuse, sono stato molto brusco e avevi ragione tu, non avevo il diritto di impicciarmi nella tue faccende. - Sospirai guardando la strada.
- Chiunque lo avrebbe fatto vedendo una scena simile, ma non tutti sarebbero corsi da me, io per prima sarei scappata. Non posso dirti cosa mi sia successo quel giorno, forse prima o poi te lo dirò, ma ti chiedo di aspettare. E grazie di esserti preoccupato per me. Nessuno lo aveva mai fatto davvero, ma non sono la ragazza che credi.- Rimasi in silenzio ad ascoltare la sua voce spegnersi e quando cercai di rispondere il caos esplose nel pub.
- Felice anno nuovo, Matthew - disse prima di attaccare.
Un fiocco di neve mi cadde sul viso. Erano anni che non nevicava.



Angolino dell'autrice: Eccomi! Grazie per le recensioni del secondo capitolo anche perchè per ora sembra che la storia vi piaccia e questo mi fa la persona più felice del mondo. In questo capitolo ho presentato due nuovi personaggi quindi vorrei assolutamente che mi diceste cose ne pensate, va bene? Be' non so cos'altro dire quindi...alla prossima!

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Capitolo 4
*** Il pugnale nella neve ***


Capitolo 4: Il pugnale nella neve

Quando il mattino seguente mi svegliai la neve si era depositata sulla mia finestra. Guardai il mio giardino ricoperto da quel candore bianco e, quasi tornando un bambino, mi precipitai a vestirmi e corsi fuori. Mi lasciai cadere e creai un angelo di neve con il sorriso sulle labbra perché l'ultima volta che avevo potuto farne uno avevo cinque anni. Una figura piccola e vagamente famigliare si catapultò su di me. Mi mancò quasi il fiato ma riuscii a togliermi quel mini esserino di dosso. La figura mi sorrise. Era coperta da un enorme piumino verde, cappello dello stesso colore, guanti e scarponcini da neve, aveva si e no quattro anni. Riuscivo a malapena a vederne la faccia.
- Fratellone! - urlò.
- Heidi? - domandai alla bambina.
- Si! - disse lei tirandomi una palla di neve.
Heidi non era affatto mia sorella, solo credeva di esserlo, il perché era un mistero. Era la vicina di casa che mi davano da curare per pochi spiccoli qualche volta al mese.
Non le tirai una palla di neve ma lei non si diede per vinta e iniziò a tirarne altre a raffica finché decise di venire verso di me, che nel frattempo mi ero messo seduto, e di cercare di smuovermi.
- Matt perché non vuoi giocare? - chiese spalancando i suoi occhi neri.
Ci pensai un po' su e alla fine decisi di farla contenta.
Mi alzai in piedi. La sovrastavo, era così piccola che mi venne voglia di prenderla in braccio. Le misi le mani intorno alla vita e la tirai su, lei si mise a ridere mentre la facevo girare.
- Ci sai fare con i bambini - disse qualcuno.
Heidi mi si aggrappò mentre mi voltavo. Thomas rideva.
- Declassato a baby-sitter.
- Mi pagano - dissi con leggerezza quindi guardai la bambina - Non oggi, ma non potevo deluderla. Che ci fai qui?
- Ho bisogno di parlarti.
- D'accordo. Andiamo dentro - dissi avviandomi verso l'uscio di casa.
- Vengo anche io! - si impose Heidi.
Sbuffai e le proposi di chiedere a sua mamma se poteva andare bene. Qualche minuto dopo la bambina tornò correndo, mi prese la mano ed entrò in casa con noi.
Thomas si tolse le mani dalle tasche e si sfilò via la sciarpa, infine tolse il cappotto e si sedette sul mio divano.
Mi accorsi solo in quel momento di un semplice bigliettino sgangherato appoggiato sul tavolo. Era di mia madre e diceva che era uscita a fare la spesa.
La bambina lasciò andare la mia mano e aspettò che mi sedessi di fianco a Thomas poi si mise alla mia destra, cercando di togliersi tutto quello che la copriva dal freddo della neve.
- Elizabeth mi ha detto che ti ha chiamato - iniziò lui.
- Si, mi ha chiamato ieri sera.
- A che ora? - chiese Heidi.
- Mezzanotte - le risposi sorridendo.
- Porta bene - disse la bambina - Mia nonna dice che la prima persona che vedi o senti nel nuovo anno sarà con te fino alla fine, fino al gennaio dopo.
- Speriamo allora. - Le misi a posto un ciuffo di capelli neri.
- Era di questo che volevo parlarti. - Tornai a guardare Thomas. - So che probabilmente la trovi carina e un bersaglio facile ma lei non è come credi, Matt.
- Non la credo un bersaglio facile.
- Non so come spiegartelo ma ti prego non assillarla, non provarci subito con lei, le faresti solo credere ancora di più quello che le hanno messo in testa da quando aveva tre anni.
- Io ne ho quattro - disse Heidi alzando la mano.
- Io non ci sto provando con lei, davvero - risposi a Thomas.
- Lei ti odierebbe se lo facessi.
- Cos'ha contro i ragazzi? - Mi ricordai quello che aveva detto alla festa: Voi maschi siete tutti uguali.
- Le donne della famiglia di mio padre non sono mai state molto fortunate in amore, penso sia colpa di tutto questo se non si fida di noi.
- Le delusioni d'amore capitano spesso - commentai - Non si fida neanche di te?
- Solo un po', perche sono di famiglia. - Alzò le spalle. - Non so che tipo di delusioni abbiano avuto ma mia nonna e mia zia hanno cresciuto i loro figli da sole. So anche che mio padre è l'unico uomo da generazioni.
Sospirai.
- Io mi fido di voi - disse la bambina, facendo nascere sul mio viso un timido sorriso - Voi non siete cattivi.
- No – concordai, - Non lo siamo.
- Matt, non far continuare a credere a Lil tutto questo. Sii cauto - mormorò Thomas.
- Posso farti una domanda? Perché la chiami Lil?
- È un soprannome.
- Perché non Beth?
- Odia il soprannome Beth, non chiedermi perché, non ne ho idea - si alzò in piedi - Ci vediamo domani a scuola.


 

La sveglia suonava incessantemente da quasi mezz'ora quando decisi di spegnerla e alzarmi. Dopo qualche giorno di vacanze mi dimenticavo come si faceva ad uscire dal letto la mattina presto. Purtroppo la neve caduta non era abbastanza da permettere la chiusura delle scuole e dovetti scivolare in macchina e far partire il motore. Ogni mattina passavo a prendere Iris per poi dirigermi nella terribile via che conduceva alla scuola.
Il vialetto della casa di Iris era ricoperto di soffice neve, una pala era appoggiata ad un'aiula dove in primavera spuntavano i primi fiori e davanti alla casa c'era la mia amica che mi aspettava. Si infilò in macchina e, dopo i soliti saluti convenevoli e qualche commento sul ricominciare della scuola, ci zittimmo entrambi, aspettando di rientrare in quel luogo del terrore.
Parcheggiai la macchina nel posteggio davanti all'entrata e con un grande sospiro entrammo. Il suono della prima campanella - quella che sembra urlare agli studenti: Muovetevi! Prendete i vostri cavolo di libri e portate le vostre gambe in classe entro cinque minuti o rimpiangerete di non averlo fatto! - ci risvegliò dal torpore mattutino. Andammo fino agli armadietti e iniziammo a tirare fuori i libri. Alla prima ora avevo lettere, ne cercai il libro che, come chiamato all'appello, decise di cadere per terra.
Sentì una presenza afferrarmi da dietro e mi voltai di scatto.
- Dì al tuo amico che se non vuole che gli rompo ancora il naso di aggirarsi lontano da me - disse Charles Brown con i capelli arruffati e senza la sua laccatura per tenerli a posto quotidiana. Mi lasciai sfuggire un sorriso. Allora era vero, il povero Charles era peggio di una ragazza con la cura del suo aspetto e senza i suoi shampoo era sperduto.
- Non aveva nessuna intenzione di starti intorno. Bei capelli.
- Se lo vedo in giro lo ammazzo. - Si allontanò.
Presi i libri e me ne andai in classe. Io e Thomas avevamo molte materie in comune e una di queste era proprio lettere. Lui era seduto tranquillo in un banco in quarta fila, lasciai cadere i libri su quello a fianco e mi ci sedetti.
- Brown ti vuole morto.
- È reciproco - ribatté lui. - Anche io lo voglio morto.
- Lo odi solo perché è presuntuoso e ricco? - domandai.
- E ti pare poco? No, comunque no. - Si mise le mani dietro la testa.
Il professore di lettere comparve sulla porta della classe trafelato e con la camicia fuori dai pantaloni. Quell'uomo era senza ombra di dubbio il mio professore preferito. Non era mai capitato di che mi distraessi, era impossibile non perdersi nelle sue parole. Sorrise, come ogni giorno, perché lui era quella persona che ogni mattina arriva al lavoro con un sorriso perché fa quello che ama. Appoggiò la cartelletta che si portava sempre appresso sulla cattedra e vi si sedette sopra.
- Bene! - esclamò. - Avete finito il libro che vi ho dato da leggere per le vacanze?
Gli rispose un coretto di si.
- E come vi è sembrato? - chiese di nuovo.
Un altro coro questa volta diceva che gli era piaciuto.
Lui si voltò verso Thomas. - Cos'hai fatto al naso, Lane?
Mi voltai a guardare il naso di Thomas che però non sembrava aver riportato troppi danni.
- Me l'ha spaccato Brown - rispose con calma lui.
- E perché hai evocato la sua ira tanto da farti spaccare il naso? Se posso chiedertelo, certo.
- Ho fatto esplodere i petardi nel suo giardino, lui mi ha detto di smetterla e io l'ho preso a pugni e poi stava troppo vicino ad una mia amica - rispose senza farsi troppi problemi. - Ha contribuito anche la sua faccia da...
- Okay d'accordo, hai reso il concetto. Ha vinto lui, vero?
- Si.- Gli occhi di Thomas si puntarono sulle mattonelle del pavimento. - Ma l'importante è che non l'abbia toccata.
- Dovresti dirglielo - mormorò il professore e prima che io capissi a cosa si riferisse domandò a Thomas se gli era piaciuto il libro.
Lui ci pensò un po' su per poi rispondere affermativo. - Lo ammetto prof, non avrei mai pensato che mi sarebbe piaciuto ma invece è così.
- Vi è piaciuto per il semplice fatto che l'autore scrive davvero come se fosse un ragazzo, vi siete sentiti il protagonista durante il libro, lo comprendavate, eravate nella sua mente. Sono soddisfatto. Bravi. - Scese dalla cattedra e andò a cercare nella borsa un foglio stracciato - Prossimo libro da leggere...


 

Uscito dalla classe percorsi il corridoio tranquillamente, avevo già i libri della prossima ora e mi bastava solo raggiungere l'aula. Quel giorno dovevo avere un cartello con su scritto: Atterratemi da dietro, perché un altro corpo decise si afferrarmi. Fermai l'urlo nella mia gola, questa volta mi ero davvero spaventato.
- Ciao - disse la ragazza mettendosi davanti a me. Aveva i capelli raccolti in una treccia.
- Ciao! - esclamai - Bella la treccia. - Additai i capelli.
- Grazie – disse Elizabeth.
- Ma cosa ci fai tu qui?
- Ci vengo a scuola! - Alzò i libri che teneva al petto e che non avevo notato. Erano parecchio alti.
- Non ti avevo mai vista. - Presi un libro dal mucchio e con uno sguardo le chiesi se potevo sfogliarlo.
- Fai pure. Sono al secondo anno. Io ti avevo visto. - Mi rivolse un sorriso - È strano il modo in cui ci si accorge delle persone, senza quel ballo non sapevi neanche che il tuo migliore amico aveva una cugina.
- Non gliel'ho mai chiesto.
Sul libro c'erano un sacco di disegni, davvero molto belli in effetti, e scritte, ma quello che ricorreva di più era un simbolo. Sembrava un germoglio con solo due rami e due foglie, una per ciascuno e poi il fusto del germoglio si allungava e circondava il tutto formando una foglia, più grande. Appena si accorse che fissavo quel simbolo mi prese il libro dalle mani e lo chiuse.
- Cercavi Thomas? - domandai.
- Si. Volevo chiedergli a che ora va alla mensa, la mia amica non c'è e io non volevo restare sola.
- Oggi ce l'abbiamo tutti a mezzogiorno. - Sorrisi - Ti aspettiamo al quarto tavolo, andiamo sempre a quello. - La campanella suonò e io scappai via senza neanche aspettare una risposta.


 

Dopo due ore di matematica avevo il cervello ancora pieno di problemi che non riuscivo a risolvere. Era una cosa che non sopportavo, la maggior parte delle volte se non risolvevo un problema lo rifacevo, oscurando quello che avevo già fatto, e finché non usciva lo stesso risultato del libro non ero soddisfatto. Era questa mia perseveranza che mi aveva portato al corso avanzato. Mia mamma diceva che avevo un cervello molto logico, ma il mio problema erano le cose semplici, potevo risolvere test difficilissimi e invece mi ritrovavo a mettermi le mani tra i capelli per esercizi del primo anno, la stessa cosa mi succedeva per cose reali.
Imboccai il corridoio che conduceva alla mensa, Thomas mi aspettava al quarto tavolo, con il vassoio pieno. Gli rivolsi un cenno di saluto e, lasciato lo zaino, mi misi in coda per prendere il cibo della mensa. Quando riuscii a sedermi di nuovo al tavolo Iris era già lì, la forchetta già tra i denti.
- Come va il naso? - chiese dopo aver masticato la sua carne.
- Cosa ti è successo al naso? - Elizabeth comparve dietro di me.
- Che ci fai tu qui? - domandò Thomas.
- Le ho detto che poteva venire, è da sola - dissi.
- Okay – disse syo cugino facendole spazio al tavolo. - Me lo sono rotto Lil. Si sta bene Iris. Non avrei mai pensato che il mio naso sarebbe diventato oggetto di conversazione! - esclamò Thomas con finta felicità.
- Scemo - disse ridendo Iris.
Thomas chiese alla cugina perché fosse sola e lei rispose dicendo che l'amica aveva la febbre.
- Avete sentito che hanno trovato un uomo morto nel bosco? - domandò Iris.
- Cosa? - sbottò Thomas - Com'è morto?
- Accoltellato.
- Che cosa? Lo hanno assassinato? - Ma non si aspettava una risposta.
Di fianco a me Elizabeth si era pietrificata. - Vado a prendere da mangiare. - Si alzò di scatto e si mise in fila per la torta al cioccolato.
Avevo trovato Elizabeth sporca di sangue in un bosco, lo stesso bosco in cui avevano trovato quell'uomo morto. Non potevo credere a quello che avevo appena pensato.
- Si sa chi era? - domandai a Iris.
- Non era di questa città, hanno chiesto ma nessuno sembra conoscerlo, stanno controllando se è già stato qui.
- Come si chiama?
- Non ne ho idea. - Sbuffò.
- Quando lo hanno trovato?
- Il giorno dopo Natale ma dovrebbe essere morto quattro giorni prima.
Mi si fermò il cuore. Il giorno coincideva.
Elizabeth era un'assassina? Avevo abbandonato quella tesi dopo che lei mi aveva detto di non aver ucciso nessuno ma ora, con un corpo, il mio cervello cominciava a farsi troppe domande.
Mi alzai con il vassoio dicendo che mi sarei messo in fila per la torta al cioccolato e, senza che gli altri ragazzi in attesa si accorgessero, mi infilai davanti ad Elizabeth.
- Perché sei scappata? - sussurrai.
- Volevo prendere del cibo.
- Cos'hai a che fare con quell'uomo?
- Niente! - disse ad alta voce. - Amici. Ricordi? Te l'ho detto: io non ho ammazzato nessuno.
Feci per parlare mentre Bess, la cuoca, mi dava la torta, ma lei mi precedette. - Ti ho detto che forse un giorno te lo dirò, sei parecchio insistente, non è vero?
- Già. - E la tirai al tavolo.


 

Accostai la macchina sulla strada, presi lo zaino di scuola e mi addentrai nel bosco. Avevo promesso ad Elizabeth che non le avrei più chiesto nulla ma non che non avrei indagato per conto mio. Lei non aveva ucciso quell'uomo ma aveva qualcosa a che fare con lui, ne ero certo.
Arrivato alla piccola radura dove avevo visto Elizabeth quel ventuno dicembre, puntai il mio sguardo sul masso a cui si era appoggiata e qualcosa di luccicante attirò la mia curiosità. Mi lasciai scivolare per terra e fissai quel luccichio argentato, proveniva da qualcosa che era stato sotterrato dalla neve. Mi misi a scavare con le mani attraverso quel gelo per poi accorgermi che quel qualcosa era stato infilzato nel terreno. Tirai forte, movimento che non servì affatto perché caddi sbalzato all'indietro con l'oggetto in mano e per poco non mi tagliai. Era un pugnale.
Era bellissimo. Un'arma così efficace e così bella. L'impugnatura era nera e decorata da semplici scanalature, la lama era argento e molto tagliente, tanto che solo sfiorarla fece esplodere sul mio dito il dolore e la lama, leggermente sporca di terra, si macchiò anche del mio sangue.
Mi lasciai sfuggire un gemito e immersi la mano nella neve.
Quando il dolore si attenuò rigirai l'impugnatura e la pulii dalla neve. Parte di questa, invece di cadere dal pugnale, si inserì nelle scanalature e io vidi il disegno che fornavano: un germiglio che girava su se stesso formando quasi una foglia. Avevo già visto quel disegno.
Senza un attimo di esitazione presi il pugnale e lo infilai nello zaino per poi addentrarmi ancora più in profondità.
Camminai per qualche centinaio di metri finché non trovai due degli uomini della polizia a sbarrarmi la strada. Il primo era molto alto, sguardo minaccioso, capelli neri. Il secondo aveva i capelli biondi, la barba di chi non si rade da diversi giorni e un velo di preoccupazione negli occhi.
- C'è stato un omicidio, non possiamo lasciarti passare - disse il secondo.
- Perché sei qui? - domandò invece il primo, sospettoso.
- Ho saputo dell'omicidio. Forse conosco quell'uomo - inventai come scusa.
- Per testimoniare devi andare in commissariato - disse l'uomo biondo.
- Non testimoniano i bambini. - Il primo uomo doveva fare la parte del polizziotto cattivo perché era bravissimo.
- Ho diciassette anni. Posso sapere il nome dell'uomo?
- Queste sono informazioni che non ti riguardano - disse il cattivo.
- È vero ma come faccio a sapere se lo conosco se non ne so il nome?
- Non siamo autorizzati a dirlo, una volta in commissariato ti mostreremo la foto dell'uomo - rispose educatamente il poliziotto buono.
- Avrà già visto la foto se dice di conoscerlo - disse il cattivo. - O forse è solo un curioso.
Cercai di ribattere ma il cattivo mi zittì con un'occhiataccia. Mi sistemai il giubbotto e uscii dal bosco per poi infilarmi in macchina. Non andai in commissariato. Non andai da nessuna parte. Rimasi a guardare la strada per un po'.


 


Angolino dell'autrice: Eccomi qui. Be' si inizia ad entrare nel vivo della storia. Chi è secondo voi l'uomo trovato morto? Lo conosciamo già? Spero di avervi incuriositi. Vi ringrazio per le recensioni e continuo a sollecitarvi a continuare, anche gli altri, commentate su che mi fate contenta. Ora scappo via, al prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** La donna incappucciata ***


Capitolo 5: La donna incappucciata

Quando ero bambino e non riuscivo a prendere sonno per incubi o per delle paure, correvo nella camera dei miei genitori e, lentamente, mi infilavo sotto le coperte, dalla parte di mia madre. Lei mi stringeva e mi sussurrava all'orecchio che andava tutto bene, che non dovevo avere paura di nulla, che lei era lì. Lo faceva senza aprire gli occhi, sapeva sempre quello che doveva dirmi per calmarmi farmi e per assopirmi.
Quella notte avevo un'estremo bisogno di tutto questo, volevo che qualcuno mi scaldasse e mi dicesse che non dovevo aver paura di quel pugnale, di Elizabeth, di chiunque avesse ucciso quell'uomo. Perché era così, la mia fobia non erano mai stati i mostri, neanche da piccolo, io avevo paura di ciò che non sapevo, dei volti sconosciuti, degli assassini.
Così quando un sasso colpì la finestra mi ritrovai ad urlare.
Sentì un colpo nella camera di mia madre e poi la sua voce ancora impastata dal sonno. - Matt? Stai bene? Hai fatto un incubo? Devo venire lì? - chiese tranquilla.
Mia mamma era sempre così calma, mi aveva sentito urlare e non aveva pensato minimamente che mi poteva essere successo qualcosa, io, al contrario, ero paranoico.
- Era solo un incubo - dissi passandomi una mano tra i capelli. - Non preoccuparti.
Mi sistemai nel letto sperando che si fosse trattato del vento ma non appena chiusi gli occhi, lo sentii di nuovo. Tac.
Mi voltai verso la finestra, la fiebile luce del lampione rischiarava la parte di stanza vicino alla porta. Decisi di restare in attesa. Tac.
Con un balzo saltai fuori dalle coperte e aprii la finestra per capire cosa producesse quel rumore. Guardai dritto nella luce del lampione e fui costetto a sbattere diverse volte gli occhi per abituarmi alla luce del lampione. Non vidi nulla e mossi la finestra per rientrare nella camera al caldo. Tac. Un sasso volò a due centimetri dalla mia testa e colpì il vetro della finestra.
- Ehi! - urlai.
Una figura incappucciata si mosse.
- Chi è là? - chiesi spaventato.
In tutta risposta la figura si mosse fino ad arrivare alla luce del lampione sotto casa. Era sicuramente una donna. Il cappuccio che la copriva faceva parte di un lungo mantello nero, che sfilava la magra figura, un ciuffo di capelli biondi fuoriusciva leggermente. La donna alzò la testa e mi fissò. Riuscii solo a notare che aveva gli occhi molto chiari perché prima che capissi di chi si trattasse, scappò via.
Rimasi a guardare la strada sperando che tornasse. Mi aveva chiamato e poi era scappata via, perché?
Chiusi la finestra dopo uno sbuffo di vento, che mi gelò il sangue. Il mio orologio segnava le 4.04 del mattino.


 

Soltanto il mattino dopo mi accorsi del biglietto appoggiato alla mia finestra. Quando quella donna mi aveva tirato l'ultimo sasso lo aveva fatto per farlo entrare in casa, non ci era riuscita perché avevo girato il vetro della finestra e il sasso con il foglio era caduto sul mio davanzale.
Con una finta calma aprii il biglietto e le mie mani cominciarono a tremare. Il foglio riportava una semplice, terrorizzante, frase scritta in rosso.
Matthew Williams tu hai quello che è mio.
Caddi a terra con ancora il biglietto in mano e cercai di respirare. Respiri lunghi che ti obbligavano subito a buttare fuori l'aria perché non potevi tenerne così tanta nei polmoni, e che ti facevano sentire il bisogno di prenderne subito un altro, quelli che anche avendo i polmoni pieni ti sentivi senz'aria.
Una volta che mi fui calmato corsi alla cartella e tirai fuori il pugnale. Il sangue si era seccato e la neve si era sciolta. Non potevo portarlo a scuola così lo presi e lo infilai in un cassetto che potevo chiudere a chiave. Lo fissai per un attimo e poi infilai la chiave nei miei pantaloni.


 

Dovevo avere una faccia da funerale quando caricai in macchina Iris perché lei mi chiese più volte se stavo bene.
Parcheggiata la macchina Iris scappò a prendere i suoi libri nell'armadietto e io mi ritrovai solo nel posteggio della scuola.
Mi incamminai verso l'ingresso e trovai Elizabeth ad aspettarmi.
- Ciao! - esclamò.
- Elizabeth - la salutai.
- Che materie hai questa mattina?
- Ho chimica, educazione fisica, un'ora buca e.. - Mi fermò.
- Alla terza ora? Anch'io ho l'ora buca! Manca il professore. Hannah non c'è ancora. Se vuoi possiamo...
- Allora ti aspetto in biblioteca. - Sorrisi.


 

La biblioteca era il luogo più tranquillo della scuola. Era una grande stanza con troppi scaffali pieni di libri, tavoli con gente tranquilla e, cosa migliore, quelli come Charles non ci mettevamo piede. Elizabeth si fece trovare già lì, seduta ad un tavolo vuoto oltre a lei.
- Finalmente - disse.
- Scusa, mi sono fermato a prendere del cibo alle macchinette. - Mi lasciai cadere sulla sedia e le passai un pacchetto di patatine.
- Grazie. - Le prese.
- Cosa stai studiando? - chiesi.
- Nulla. Stavo leggendo. - Infilò il segnalibro e chiuse il libro.
Ne lessi il titolo: Cercando Alaska.
- Ti piace leggere? - chiesi.
Alzò le spalle ma non ne compresi il motivo.
Rimanemmo zitti per un po' finché lei si mise a ridere timidamente mentre cercava di aprire il pacchetto di patatine.
- Cosa c'è? - chiesi ridendo anch'io.
- È solo che non sono abituata a stare da sola con un ragazzo e sono parecchio imbarazzata.
- Non ti farò nulla - dissi facendole l'occhiolino.
- Non credevo neanche che ti avrei chiamato e che oggi avrei avuto il coraggio di chiederti se stavi con me a farmi compagnia. Non sono il tipo di ragazza che fa queste cose. - Finì per arrossire quando mi fermai a guardarla.
- Allora lo diventerai perché ho intenzione di essere tuo amico per molto tempo.
Si spostò una ciocca di capelli dal viso e prese una patatina. - Sei il primo amico maschio che ho.
- Oh sono anche il miglior amico maschio che avrai in assoluto - controbattei ridendo.
- Ne sono sicura, Matthew.
- Ti ho già detto di chiamarmi Matt.
Scosse la testa. - Odio i diminutivi.
- Thomas ti chiama Lil però - dissi.
- Thomas è un idiota.
- Perché non Beth? - domandai.
- Il motivo per cui non mi piace è una storia troppo lunga.


 

Quel pomeriggio ricominciava il corso di nuoto, prima di andarci però, mi assicurai che il pugnale fosse ancora nel cassetto. Quando lo vidi mi tornò l'agitazione che era svanita solo in compagnia di Elizabeth e, quando suonò il campanello, mi affrettai a chiuderlo lì dentro di nuovo.
Al corso fu tutto tranquillo, c'eravamo tutti: io, Chuck, Margareth, Luke, un ragazzo biondo con gli occhi azzurri e un tatuaggio sul braccio che raffigurava i semi delle carte da poker, Jason, il suo gemello, anche lui biondo e con gli stessi occhi ma molto diverso di viso e di carattere, il nuoto era l'unica cosa che li accomunava, e Mary, capelli neri corti e occhi verdi. Mark, il mio istruttore, ci accolse come al solito: - 'Giorno. In acqua, forza, ci vediamo tra venti vasche di riscaldamento.
Mark fu più duro del solito e quando l'allenamento finì mi lasciai trascinare sott'acqua dalla stanchezza.
- Andiamo Matt, ti devo raccontare una cosa - disse Chuck una volta che riemersi in superficie.
Mi prese per mano e mi tirò fuori dalla piscina con tutta la sua forza, poi aspettò di parlare finché non entrò nelle doccie. Luke e Jason facevano sempre tutto in fretta e non appena aprii il getto della mia doccia loro andarono a cambiarsi.
- Che succede? - domandai una volta che l'acqua calda cominciò a bagnare il mio corpo.
- Ieri notte ho fatto un sogno...ho bisogno di raccontarlo a qualcuno - rispose Chuck nella doccia di fianco alla mia. - Sono in una stanza buia. Chiusa. E ad un certo punto sento una voce a cui corro in contro, ritrovandomi in un labrinto. La sento ancora e continuo a rincorrerla finché non riesco ad afferrare qualcuno ma quando si gira e io cerco di vedergli il volto, scompare e mi ritrovo solo.
- È strano - dissi soltanto.
- Già - mormorò lui.
- Sai chi era? - chiesi. - Conosci la voce?
- Si. La conosco. Ed è proprio questo che mi preoccupa perché io non la rincorrerei mai con tanta ansia.
- Chi era? - domandai di nuovo curioso.
Lui non rispose, si limitò ad uscire dalla doccia e ad avviarsi verso gli spogliatoi. Abbassando lo sguardo mi accorsi di un segno nero che sporgeva dal suo costume, era come una punta che si allargava.
- Chuck - dissi fermandolo. - Hai fatto un tatuaggio?
Lui fissò quel segno e annuì con la testa. - Anche se si vede praticamente tutto, non voglio dirti cos'è la figura intera - disse con un ghigno per poi congedarsi.
Chiusi gli occhi e mi lasciai bagnare dal calore della doccia. Mi sentivo così tranquillo, così stanco che avrei potuto addormentarmi all'istante. Pensavo a cosa potesse raffigurare il tatuaggio di Chuck e perché se lo fosse fatto in un punto così nascosto.
Quando aprii gli occhi per poco non urlai. La donna della notte precedente era lì, incappucciata. Cominciai ad indietreggiare ma lei era ferma a fissarmi.
- Come ha fatto ad entrare?
- Matthew Williams hai due giorni per rimettere quello che mi appartiene dove l'hai trovato - disse la donna con una voce quasi disumana.
Impallidì e rimasi muto finché non se ne andò.
- Chuck - urlai.
Al suono del suo nome il mio amico corse alle docce. Non aveva più addosso solo il costume, era vestito.
- Che vuoi? Di là mi hanno fissato tutti! - disse lamentandosi.
- Hai visto una donna qui dentro?
- Eh? Ero a cambiarmi ma comunque se ci fosse stata una donna Luke l'avrebbe cacciata o come minimo avrei sentito che le diceva qualcosa. - Mi guardò come se fossi pazzo. E forse lo ero davvero. Ero pazzo. Era l'unica alternativa.


 

Una volta che mi fui cambiato raggiunsi Chuck all'entrata della piscina dove mi stava aspettando e lo trovai a parlare con Luke. Mi risultò un po' strano perché quei due non andavano molto d'accordo, decisi quindi di avvicinarmi.
Per poco non caddi per la scarpa che mi ero dimenticato di allacciare e inavvertitamente sentì la corversazione tra i due che non si erano accorti della mia presenza, appoggiato com'ero al cespuglio vicino.

- ...Non preoccuparti - disse Chuck.
- Credevo sul serio di essermelo sognato poi oggi ho visto il tatuaggio - lo incalzò Luke, cercando di continuare una conversazione che sembrava chiusa per Chuck.
- Davvero, non preoccuparti, eravamo ubriachi.
- Cosa cavolo ci faceva aperto un tatuatore alle quattro di notte? - chiese Luke a nessuno in particolare.
Ormai la stringa era allacciata ma ero troppo curioso di sapere a cosa si riferissero quei due.
- Chi l'ha pagato, poi? - domandò di nuovo.
- Tu - mormorò Chuck.
- Che coglione - imprecò.
- Se vuoi ti do i soldi.
- Oh non me ne frega niente dei soldi, consideralo un regalo di Natale, compleanno e tutti i tuoi compleanni futuri. Mi dispiace solo che non potrò più andare da quel tatuatore.
Mi irrigidì. Che cavolo avevano combinato quei due?
- A me dispiace che penserà qualcosa che non è vero - disse Chuck probabilmente alzando le spalle.
- Vado, amico - disse Luke, e sentii i suoi passi allontanarsi.
Aspettai ancora un po' per assicurarmi che non pensasse che avevo ascoltato tutto e poi mi feci vedere da Chuck, il quale aveva una strana espressione sul viso.


 

La conversazione tra lui e Luke mi fece capire di quale forma fosse il tatuaggio che aveva inciso sulla pelle, così, poco prima che arrivassimo a casa sua, glielo chiesi.- È una picca, vero?
- Cosa? - chiese preso alla sprovvista. - Il tatuaggio?
- Si - dissi, svoltando l'angolo.
- Come hai fatto a capirlo?
- Se ne vedeva buona parte e ho immaginato il resto. - In realtà non era totalmente vero, una parte si, ma Luke aveva tutti e quattro i semi tatuati sul braccio ed era molto probabile che il tatuaggio a cui si riferiva era qualcosa di simile, quella che poi corrispondeva di più alla forma a punta era la picca.
- Quando lo hai fatto?
- A capodanno.
- Ce lo avevi già quando siamo usciti? - chiesi.
- L'ho fatto dopo.
- Alle quattro di notte? - domandai, arrivando a parare proprio dove volevo.
- No...io. - Si fermò un attimo a pensare. - Il giorno dopo. Mi sono confuso prima.

Sapevo che mentiva, il momento a cui si riferiva era solo il giorno prima ed era quindi impossibile dimenticarsene, decisi comunque di non dire nulla.


 

Appoggiai le chiavi di casa e salutai mia madre sulla soglia. Era assorta a leggere il giornale e mi salutò con un lieve cenno del capo.
Mi diressi in camera mia e presi il pugnale. Non potevo più tenerlo con me, non potevo rischiare ma non potevo neanche rimetterlo dov'era. Quella donna era sicuramente l'assassina dell'uomo trovato morto e se le avessi ridato il pugnale...
Ma se non l'avessi fatto, cosa mi sarebbe successo?
Mi toccai la gola. Forse era meglio portarlo alla polizia.
Non appena mi alzai in piedi la porta della mia stanza si aprì e io mi affrettai a nascondere l'arma.
- Matt, hai sentito del morto? - chiese mia madre.
- Si, me ne ha parlato Iris. Tu lo avevo già visto?
- Si - mormorò mia mamma. - Volevo andare alla polizia a dirlo. Non conoscevo il suo nome ma nel periodo in cui ti aspettavo lo vedevo spesso in giro. Ora che ci penso con una donna.
- Nessuno in città sembra conoscerlo a parte te.
- Oh mentono, era sempre in centro con quella donna. Lo vedevano tutti, io però lo conoscevo solo così. - Sospirò - Pover uomo. Che riposi in pace.
- Non posso credere che ci sia un assassino in città.
- Non me ne parlare Matt, o mi verrà tanta paura da non farti più uscire di casa - disse e si allontanò, per poi bloccarsi alla porta avendo dimenticato di dirmi qualcosa. - Ha chiamato una ragazza al telefono che chiedeva di te.
- Iris? - domandai.
- Ti avrei detto semplicemente Iris. - Alzò un sopracciglio.
Sbuffai. - Ti ha detto chi era?
- Una certa Elizabeth.
- Come fa ad avere il mio numero? - sbottai. Probabilmente quella ragazza era un genio di internet perché in pochi giorni aveva trovato sia il mio numero fisso che mobile.
Presi in mano il mio telefono e trovai una chiamata persa.
- Ha detto che puoi richiamarla questa sera - disse, lasciando un foglio con un semplice numero di cellulare che corrispondeva a quello che mi aveva chiamato la notte di capodanno.
Mi stesi sul letto, deciso a chiamarla più tardi, pensando a quel pugnale, a quella donna e anche a quello che Elizabeth c'entrava con tutto questo.
A poco a poco, nel silenzio della mia stanza, stremato per l'allenamento a cui non ero più abituato a causa delle vacanze, Morfeo mi richiamò tra la sue braccia.



Angolino dell'autrice: SCUSATE! Scusate l'enorme ritardo...ho avuto una settimana molto incasinata: una verifica dietro l'altra, mille interrogazioni, il mio compleanno e problemi famigliari. *Lancia del cioccolato per corrompere i lettori* Abbiate pietà. Per farmi perdonare ho scritto un capitolo un po' più lungo...o almeno credo, mi sembrava lungo mentre lo rileggevo. Volevo chiedervi come al solito di lasciare un recensione, anche minuscola, giusto per farmi sapere se vi piace la storia. Ci vediamo al prossimo capitolo (Che non arriverà con lo stesso mostruoso ritardo di questa settimana, o dovrei dire due?).

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Capitolo 6
*** La leggenda ***


Capitolo 6: La leggenda

Una volta, ad Halloween, Thomas mi aveva raccontato una leggenda. Durante il periodo della caccia alle streghe una donna si innamorò di un uomo molto ricco, la donna era la sua serva. L'uomo le fece credere di essere innamorato di lei e la mise incinta, per poi sparire. Quando poco prima del parto lei lo trovò e gli confessò che aspettava un figlio, l'uomo le disse che l'aveva solo usata e la denunciò come strega. La donna riuscì a portorire una bambina prima di essere portata al rogo, dove lanciò una maledizione: le sue discendenti avrebbero perseguitato tutti gli uomini e con l'inganno avrebbero portato via loro tutto, per poi ucciderli. Non sapeva che in questo modo aveva compromesso la felicità delle sue discendenti che erano condannate ad essere lasciate dagli uomini che amavano, che le avrebbero lasciate sole con, misteriosamente, sempre una bambina.


Mi svegliai di soprassalto dopo aver sognato la leggenda e mi chiesi perché mi era ritornata in mente proprio in quel momento.
Mi voltai a guardare l'orologio che segnava la mezzanotte. Avevo dormito così tanto che avevo saltato la cena. Non avevo neanche richiamato Elizabeth.
Presi il cellulare e decisi di lasciarle un messaggio di scuse pensando che l'avrebbe sicuramente visto il giorno dopo. Invece lei rispose subito dicendo di non preoccuparmi.
"Cosa volevi dirmi?" le chiesi.
"Volevo sapere se potevi accompagnarmi fuori domani. Devo fare una commissione" rispose.
"Certo" le scrissi con un sorriso.
"Alle quattro davanti alla scuola" disse.
Spensi il telefono e cercai di dormire.

Il giorno dopo incontrai Thomas al mio armadietto. Aveva uno sguardo cupo e continuava a fissare in direzione del gruppo di Charles.
- Non avevi detto che volevi stargli alla larga? - gli dissi facendolo uscire da quello stato cupo.
- Infatti. Ti stavo aspettando - rispose.
- Se non la smetti di fissarli verranno a prenderti a botte di nuovo.
- Che lo facciano - disse rivolgendogli un sorriso da sbruffone. - Senza Charles sono perduti.
Mi voltai a guardare e notai che Charles non era davvero con loro.
Decisi di prendere Thomas per la maglietta e lo tirai fino in classe dove Iris ci stava aspettando.
La trovammo seduta ad un banco con Charles che le girava intorno e cercava di convincerla a uscire con lui nonostante avesse rotto il naso ad un suo amico. Ogni giorno mi stupivo della stupidità di quel ragazzo.
- Eh, ma che palle! - esplose Thomas.
Ci avvicinammo ad Iris e Charles, quindi Thomas si inserì nella conversazione. - Ma sei proprio testardo. Lei...non...ti...vuole - disse scandendo bene le parole.
- Grazie Thomas ma non ho bisogno del tuo aiuto. - Iris sorrise.
- Ma tu non ti fai mai gli affari tuoi? Non ti è bastato Capodanno? Vuoi altre botte? - disse Charles.
- Credevo avessi imparato la lezione: puoi prendermi a pugni quante volte vuoi ma tanto Iris non sarà mai tua.
Mi ritrovai a ridere, lo aveva zittito, e lo aveva fatto nel modo migliore: con le parole.
Charles lanciò un'imprecazione e uscì dalla classe.
- Grazie - mormorò Iris.
- Thomas il salvatore di donzelle in pericolo! - disse ridendo. - Chiamatemi se avete bisogno di aiuto!
Io e Iris ci guardammo e scoppiammo a ridere all'unisono.


 

- Mi togli un dubbio? - chiesi a Thomas una volta che la campanella suonò e Iris si mischiò alla folla del corridoio.
- Si. Cosa riguarda? - decise di rispondere.
- Perché sei sempre così imperprotettivo con lei? Insomma, a volte penso che tu le dia fastidio. Ha già un fratello.
- Una volta, - cominciò lui a raccontare - quando Iris si sedeva di fianco a noi ma non eravamo ancora buoni amici, la vidi uscire dal bagno delle ragazze con gli occhi gonfi di lacrime e le chiesi subito il motivo di quel pianto. Lei mi disse che non dovevo affatto preoccuparmi ma io insistetti e lei si mise a spiegarmi il motivo. Diceva che non ce la faceva a stare lontana dalla sua amica, Alexandra, e che anche sentendosi per telefono, non era la stessa cosa. Che c'era una ragazza che si ostinava a darle il tormento, appena la vedeva da sola la attaccava e la prendeva in giro mentre quando c'era Alex non lo faceva, ma ora che era sola non poteva difendersi. Diceva che era diventata un peso insopportabile, non capiva perché ce l'aveva con lei. E poi si sentiva sola, non aveva amici. Mi ricordo che era scoppiata a piangere e io l'avevo abbracciata. Le ho promesso due cose: la prima che io ero suo amico e che ci sarei stato per sempre e la seconda che nessuno le avrebbe più dato fastidio. Nessuno.
- Sei stato molto sensibile.- Sorrisi. - Non me l'aspettavo da te.
Lui arrossì violentamente. - Zitto - disse e io mi misi a ridere.
- Però non ho mai visto nessuna ragazza che tormentava Iris - ripresi quando riuscii a smettere.
- Ha smesso di farlo appena l'ha vista girare con me. Quella ragazza era una mia vecchia conoscenza, non voleva di certo ritrovarsi davanti a me di nuovo - disse sogghignando.
- Ma se glielo hai promesso perché Iris a volte si lamenta?- domandai.
- Si lamenta quando insisto, come con Charles dopo il ballo. Dice che non fa parte della promessa.
- Devi difenderla ma non troppo? - chiesi di nuovo confuso.
- Ragazze - disse lui alzando le spalle.


 

Mancava mezz'ora all'incontro con Elizabeth, dovevo sbrigarmi. Mentre tornavo a casa da scuola avevo preso la decisione di rimettere a posto il pugnale e di tirarmi fuori da quella faccenda, non avevo voglia di procurarmi guai peggiori di quelli in cui ero già capitato e per quanto ritenessi che l'assassino dell'uomo trovato morto doveva essere preso, temevo di poter fare la sua stessa fine se non avessi fatto come quella donna mi aveva consigliato. Se invece fossi andato dalla polizia e avessi confessato che una donna mi aveva minacciato loro si sarebbero chiesti perché non avevo consegnato il pugnale alla giustizia e mi avrebbero accusato di occultamento di prove. Oltre al fatto che avrebbero sospettato che avessi preso quel pugnale perché ero io l'assassino e volevo nasconderlo o, sempre in quel caso, che avessi inventato quella storia per poter dire che le mie impronte digitali erano su quel pugnale per averlo trovato e non durante l'omicidio. Mi restava solo da sperare che una volta messo a posto il pugnale fosse la polizia a prenderlo per prima.
In tutta fretta avvolsi il pugnale in un panno e lo sfregai, sperando di cancellare le mie impronte e un'ansia mi pervarse in tutto il corpo. E se mi avessero messo in carcere? Stavo facendo la cosa giusta? La mia vita valeva tanto da lasciare impunito un assassino?
- No - mormorai.
Risentii la voce della donna: Matthew Williams hai due giorni per rimettere quello che è mio dove l'hai trovato.
- Forse si - dissi.
Per poco non mi strappai i capelli, stavo parlando da solo! Ero pazzo!
"Sei solo un codardo" dissi a me stesso, questa volta senza pronunciare davvero quelle parole.
Presi il pugnale e lo nascosi nello zaino, diretto al boschetto dove l'avevo trovato.
Fuori pioveva a dirotto, tanto che mi fu difficile vedere la strada e agitato com'ero per poco non feci un incidente.
- Sta' attento! - urlò qualcuno in una delle macchine che mi sfrecciavano a fianco.
Accostai vicino al bosco ed entrai facendomi strada tra i rami. Non appena raggiunsi la roccia mi abbassai lì a fianco, tra la neve quasi sciolta, e tirai fuori il coltello. Il mio piccolo ombrello mi copriva solo per metà.
"Codardo." Ero vero, ero uno schifoso codardo. Lasciare qualcuno impunito perché avevo paura. Tanto non ci avrei guadagnato nulla comunque perché, se quella donna mi aveva minacciato per riavere il pugnale, aveva per forza a che fare con il morto e non avrebbe esitato ad uccidermi in modo che non andassi a spifferare nulla.
Mi alzai in piedi, pervarso da uno sconosciuto coraggio, e corsi con la macchina verso il commissariato, il quale si trovata sulla stessa strada della scuola, cosa che comportò Elizabeth ferma davanti all'entrata che cercava di farsi vedere da me, che per la pioggia per poco non la lasciai lì.
Accostai guardando l'orologio della macchina: 4.04. Non mi ero accorto di nulla, il tempo era volato.
Nascosi il pugnale mentre lei saliva in macchina, mettendo via il suo ombrello e ricordandomi improvvisamente che anche lei poteva c'entrare con quel crimine.
- Non pensavo venissi in macchina! - disse contenta. - Posso guidare?
- Certo - dissi d'impulso. - Basta che non me la righi.
Lei si lasciò sfuggire un gridolino. - È la prima volta che guido senza l'istruttore.
- Aspetta, cosa? Oh è vero, tu non hai ancora la patente. Mi dispiace Elizabeth, non posso fartelo fare - dissi siccome tenevo alla mia incolumità.
- Maledizione! Perché l'ho detto? - si rimproverò.
- Appena avrai la patente te lo farò fare - dissi rassicurandola.
Le brillarono gli occhi di felicità e annuì vigorosamente ringraziandomi.


 

Quando le porte del negozio di pittura in cui mi aveva condotto Elizabeth si aprirono, il cambiamento tra interno ed esterno fu tra i più violenti, il freddo fu sostutuito dal caldo del riscaldamento, il buio cupo dalla luce calda e abbagliente del negozio, le parete bianche e fredde dell'esterno da mille colori.
Di fianco a me Elizabeth fece nascere un enorme sorriso sul suo viso.
- È il negozio più bello sulla faccia della terra - disse. Non facevo fatica a crederle perché quel posto era fantastico.
Le pareti erano ricoperte di pittura colorata: da un lato c'erano le impronte di moltissime mani di tutti i clienti che avesse mai ospitato quel negozio e dall'altro mille macchie, fatte sicuramente lanciando la vernice sul muro. Anche gli scaffali erano di mille colori.
Elizabeth sparì in un corridoio tra due di essi e quando ne riemerse aveva in mano un album da disegno e due matite.
- Non sapevo ti piacesse disegnare - dissi.
- Sai poco di me - annuì lei.
- Elizabeth! - La proprietaria del negozio, una donna non troppo alta, lontano dall'essere definita magra e con i capelli neri, uscì dal corridoio tra due scaffali lì a fianco.
Elizabeth corse ad abbracciarla.
- Lui è Matthew - mi presentò
- Sono la proprietaria, Melanie - disse la donna stringendomi la mano.
Elizabeth disse che andava a prendere una matita e mi lasciò solo con Melanie..
- Devi essere importante per lei - mormorò.
- Cosa? No, no. Ci conosciamo appena, non so neanche se posso definirmi suo amico - dissi io scuotendo la testa.
- Allora devi aver fatto qualcosa che l'ha colpita.
Io mi limitai a guardarla negli occhi, non capendo perché dovessi aver fatto una cosa simile.
Notando la mia confusione, la proprietaria riprese a parlare: - Conosco Elizabeth da quando aveva otto anni. Prima veniva qui circa due volte al mese, accompagnata da sua madre, ma posso assicurarti che da quando ha l'età per poter uscire senza qualche adulto, viene qui una volta a settimana e non porta nessuno con sé. - Fece un sorriso gentile e continuò - Una volta le ho chiesto perché venisse da sola e lei mi ha risposto che non aveva ancora incontrato qualcuno di così importante da portare nel suo posto speciale.
- Ma non so cosa potrei aver fatto per farmi considerare importante da lei. - Davvero, non lo sapevo.

Quando Elizabeth tornò, convinse Melanie a farmi lasciare l'impronta sul muro dei clienti.
- Di solito lo facciamo fare solo ai clienti che vengono per più di tre volte - spiegò Elizabeth strappandomi un sorriso perchè, con uella frase, aveva dimostrato che non si considerava una di essi. - Ma Zia Mel dice che puoi farlo comunque se per me è importante.
- Non ce n'è bisogno - dissi.
- Si invece! - insistette lei, per poi mostrarmi quattro diversi barattoli di vernice. - Scegli.
Ne indicai uno a destra che scoprii conteneva vernice verde. Dopo un momento di indecisione immersi la mano nel colore. La vernice era liquida e ricoprì la mia mano con una lieve sensazione di freddo.
- Scegli un punto del muro dove può starci la mano - disse Elizabeth continuando a darmi indicazioni.
Feci viaggiare i miei occhi sulla superficie della parete finché non trovai un piccolo vuoto, grande abbastanza per la mia mano e poco più, vicino al centro della parete.
- È un po' in alto.

Una scaletta grigia e un po' traballante non tardò ad arrivare e issandomici arrivai all'altezza giusta per imprimere la mia mano sul muro.
Lasciai aderire le dita alle parete e rimasi così per qualche secondo finché, sicuro di aver lasciato bene il segno, mi allontanai.
Non appena mi voltai verso le due donne che erano sotto la scala mi accorsi che Elizabeth stava facendo di tutto per trattenere un sorriso mentre Melanie lo sfoggiava ridendo.
- Perché ridete? - chiesi.
- Leggi il nome sulla mano di fianco alla tua- disse Melanie.
- Quella al centro esatto - annuì Elizabeth.
Mi voltai di nuovo a guardare. Di fianco alla mia ce n'era una arancione sulla quale, con un pennarello nero indelebile a punta media, c'era la firma della proprietaria della mano: Elizabeth Lane. Non serviva molto ingegno per capire che quell'Elizabeth era la stessa che mi aspettava in fondo alla scala, anche perché aveva lo stesso cognome di Thomas.
- Anch'io voglio scrivere il mio nome - dissi soltanto, avvicinando la mia mano sull'impronta di Elizabeth senza però sporcarla di verde. Era più piccola della mia di una falange. Era comprensibile visto che la ragazza era molto minuta e di altezza mi arrivava al mento.
- Quando sarà asciutto - spiegò Melanie.


 

Fu quando il pomeriggio finì e ci mettemmo sulla strada del ritorno che accadde. Pioveva a dirotto e non riuscivo a vedere a un palmo dal mio naso quando, improvvisamente, vidi una donna a una decina di metri da me in mezzo alla strada. Suonai più volte il clacson ma la donna non si mosse, era immobile. Cercai di fermare la macchina, di frenare, ma non ci riuscì, c'era qualcosa che bloccava me, la macchina e i freni. Ero a pochi centimetri dalla donna quando Elizabeth urlò e la mia auto inchiodò senza che io avessi mosso un solo dito.
Ci fermammo entrambi a respirare, troppo spaventati per fare qualsiasi movimento.
- Cos'è successo? - chiesi.
- Non lo so - disse lei mentre il suo viso cominciava a bagnarsi di lacrime.
La donna era ancora lì, completamente impassibile a tutto quello che era successo, immobile, riparata dalla pioggia con una semplice mantella nera impermeabile. Girò soltanto il volto verso di me e aprì le labbra, sussurrando qualcosa sotto la pioggia.
Era lei. Era la donna che mi aveva minacciato due notti prima.
Aveva dei lunghi capelli biondi, occhi verdi e un volto bianchissimo.
- Cosa vuoi? - le urlai una volta uscito dalla mia vettura, riparandomi con un semplice ombrello.
- Lo sai. - La sua voce era molto dura.
- Mi hai quasi ammazzato!
Non sembrava interessata.
- Non ti riporterò quel dannato pugnale! Non lo farò! - dissi con enfasi.
- Ti do un solo consiglio: non metterti contro di noi - disse per poi guardare nella mia macchina.
"Noi" pensai, non era sola.
- Stai lontano da lei. - Vidi che stava indicando Elizabeth.
- Cos'hai a che fare con lei? Chi sei? - chiesi.
Ma la donna non rispose, decise invece di andarsene.
Elizabeth era ancora in macchina e si stava asciungando le lacrime.
- Stai bene? - domandai.
- Si...è solo che mi sono spaventata, è comparsa all'improvviso e io ho pensato che...
- ...L'avremmo uccisa - finì per lei. - Anch'io. Per fortuna non è successo. Non abbiamo ucciso nessuno.
- Io...- cercò di dire, per poi scoppiare di nuovo in lacrime e portarsi le mani al viso.
- Elizabeth? - Avrei voluto chiederle cosa aveva a che fare con la donna ma mi trattenni, lei si fidava di me e io non potevo rovinare tutto.
- Portami a casa - disse lei dopo qualche minuto di silenzio.
La macchina riprese ad andare senza problemi, come se il freno non avesse mai smesso di funzionare.
Dopo qualche metro mi accorsi di non sapere dove abitava così glielo chiesi.
- Puoi lasciarmi davanti a scuola - disse lei.
- Non c'è problema, ti porto a casa - dissi svoltando l'angolo.
- No, no. - Scosse il capo - Preferisco che mi lasci a scuola. Se mia madre mi vedesse scendere da una macchina...
- Ti lascio all'inizio della tua via.
Lei annuì e mi diede l'indirizzo.
Quando però arrivai all'inizio della strada lei sembrò accorgersi di non voler scendere.
- Scusa, scusa, scusa - continuava a ripetere. - Non posso andare a casa. Io non ho le chiavi e...e non posso...
- Vuoi venire da me? - chiesi non potendo fare a meno di pensare che quella ragazza fosse molto, molto strana.

Quando arrivammo a casa incontrammo Heidi sul vialetto di ingresso. Parcheggiai l'auto nel mio garage e tornai dalla bambina, la quale sembrava attendere che qualcuno le aprisse la porta d'ingresso.
- Piccola - le dissi. - Cosa fai qui? Piove a dirotto, dovresti tornare a casa.
Lei si voltò, con gli occhi grondanti di lacrime. - La mamma è al lavoro e ha chiesto a Lisa... - disse riferendosi a mia madre, - ...se potevo restare, ma sta lavorando e...mi sono chiusa fuori e lei non mi sente! - Poi si voltò verso Elizabeth e dimenticandosi della lacrime le chiese chi era.
- Un'amica di Matthew - rispose lei guardandola con amore.
- Mi prendi in braccio?
Per poco non scoppiai a ridere. Era così tenera quella bimba e Elizabeth non se lo fece ripetere due volte. Aprii la porta di casa e la condussi dentro per poi avvisare mia madre di quello che aveva fatto. Lei iniziò a scusarsi con la bambina che credeva in camera mia a giocare, e solo dopo averla presa dalle braccia di Elizabeth e averla messa giù, decise di presentarsi.
- Sono la mamma di Matt - disse agitata di vedere per casa una ragazza con non fosse Iris.
- Mi chiamo Elizabeth. Sono la cugina di Thomas - si presentò lei.
Mentre mia mamma iniziava a parlare io dissi che andavo un attimo in bagno e corsi in camera mia a nascondere il pugnale nel solito cassetto per poi chiuderlo con diversi giri di chiave in modo che né Elizabeth, né mia madre, né la bambina avessero potuto trovarlo, nascondendo la chiave tra i miei libri scolastici, sicuro che nessuno li avrebbe toccati.
Heidi non tardò ad arrivare e a gettarsi sul mio letto, per poi saltarci sopra più volte.
- Vieni - le dissi, - andiamo a togliere Elizabeth dalle grinfie di mia madre.
Lei si fermò a guardarmi per poi gettarsi su di me, abbracciandomi.
In cucina mia madre stava riempendo Elizabeth di domande e lei sembrava piuttosta imbarazzanta così, dopo che lei mi ebbe spiegato che Heidi sarebbe rimasta con noi per cena perché suo padre era via e sua madre sostituiva fino a tardi una collega, portai Elizabeth in camera mia.
- Che carina - disse osservando la scrivania e la carta da pareti blu.

Passammo il pomeriggio a parlare come due buoni amici, lei seduta sulla sedia girevole azzurra della mia scrivania e io sul mio letto. Ogni tanto Heidi correva da noi e si fermava sulle ginocchia di Elizabeth, si faceva abbracciare e prendere in braccio, ormai aveva deciso che era sua sorella.
Capivo quanto volesse quella bambina che io ed Elizabeth fossimo davvero suoi fratelli perché anch'io desideravo ogni giorno di non essere figlio unico. Ero consapevole che avere un fratello era "una gran rottuta" diceva Iris, che aveva una sorella e un fratello più grandi, eppure mi sentivo così solo, avrei preferito litigare mille volte con mio fratello invece di stare da solo.
Elizabeth andò via prima di cena lasciandomi con mille domande da parte di mia madre. Fu difficile superarle ma grazie all'aiuto tempestino di Heidi, che decise di far cadere l'acqua per terra, riuscì a sfuggirle.
Non pensai alla donna incappucciata e al pugnale per tutta la giornata.



Angolino dell'autrice: Eccomi con un nuovo capitolo! Finalmente ho messo la leggenda di cui parlavo nella presentazione...chissà cosa c'entra con l'uomo morto. Rencensite e ditemi se ho fatto errori. Vorrei ringraziare Ciciolla26 per l'enorme sostegno e per riempirmi sempre di domande a scuola! Forse non riuscirò a pubblicare settimana prossima, scusatemi tanto. Ci proverò, promesso! Alla prossima

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Capitolo 7
*** Riunioni di famiglia ***


Capitolo 7: Riunioni di famiglia

Viola. Era questo il colore sulla guancia di Elizabeth quando il mattino dopo io e Thomas la incontrammo nel corridoio. Non era pittura, era il segno lasciato da un livido. Lei faceva di tutto per nasconderlo, lasciando sciolti i capelli biondi, ma si riusciva a vedere benissimo.
- Elizabeth! - esclamò Thomas preoccupato - Cosa ti sei fatta?
Lei cercò di evitare la domanda dicendo che non era niente di importante ma poi, dopo la nostra insistenza per sapere come si era procurata quel livido, sorrise e decise di rispondere: - Sono corsa troppo in fretta sulle scale, sono caduta e ho picchiato la guancia. Davvero vi ho detto che sto bene. Ho cercato di nasconderlo per evitare queste domande.
Ma sia io che Thomas sapevamo che mentiva e quando andò a lezione, io cominciai a fare supposizioni.
- Chi credi sia stato? - domandai.
- Di certo non è caduta dalle scale, ma non lo so - rispose lui.
- Quand'era con me non aveva niente. Deve esserselo fatto verso le sette di sera.
- Aspetta...Quando era con te? - chiese Thomas confuso. - Sei uscito con lei?
- È stata lei a chiedermelo! - esclamai.
- Sul serio? - Mi guardò di sottecchi.
- In qualche modo ho fatto qualcosa per cui ora si fida di me.
- Ritieniti fortunato. Sei l'unico al mondo.


 

Ero sicuro che la donna incappucciata non sarebbe venuta ad infastidirmi quel giorno. Nonostante tutto il termine non era ancora scaduto e lei mi aveva minacciato in un modo che avrebbe spaventato a morte e spinto chiunque a mettere quel pugnale al suo posto.
E invece comparve.
Mia madre era andata a lavorare, di solito disegnava i progetti da architetto a casa ma quel giorno era importante che fosse in ufficio. A causa della pioggia del giorno prima la neve si era quasi sciolta ma nel cielo il sole splendeva cercando, come meglio poteva, di ricaldare la terra dall'inverno.
Erano le 4.04 del pomeriggio quando suonarono alla mia porta. Ero in camera mia a studiare perché il giorno prima, nonostante me lo fossi ripromesso per non doverlo fare una volta tornato dal corso di nuoto, non lo avevo fatto ed ero quindi in alto mare per l'interrogazione del giorno dopo. La causa: Elizabeth.
Corsi giù per le scale lasciandomi scappare un'imprecazione.
- Chi è? - chiesi con una certa irritazione nella voce aprendo la porta.
La donna era lì, con il solito cappuccio ingombrante in testa.
Indietreggiai e lei entrò in casa.
- Matthew Williams dammi il mio pugnale - disse urlando.
Aveva un'aura strana, spaventosa e potente.
Il cielo dietro di lei si oscurò. Le nuvole si chiusero formando un ponte nell'aria che oscurava il sole e io caddi a terra.
Mi guardava dall'alto e ripeteva continuamente due parole che ero sicuro non fossero in americano.
Poi tutto intorno a me, come le nuvole, si oscurò e divenne nero.


 

Quando aprii gli occhi la donna non c'era più. La porta era chiusa e tutto sembrava tranquillo.
Setacciai ogni parte della casa, cucina, camera, salotto, bagno, senza trovare niente e nessuno. La donna se n'era andata.
Non capivo come avevo fatto a svenire. Non capivo com'era successo. Non capivo dov'era andata la donna. Non capivo.
E poi mi ricordai.
Corsi su per le scale, entrai in camera mia, buttai a terra tutti i libri e presi la chiave. Ma quando girai la chiave nel cassetto capii che non serviva perché era già aperto. Al suo interno c'era soltanto aria. Era vuoto. Aveva preso il pugnale.
Corsi fuori di casa colto da un'idea improvvisa. La neve.
Purtroppo però la neve aveva appunto iniziato a sciogliersi e riuscire a trovare impronte era impensabile. Eppure, guardardola attentamente nel punto del mio vialetto in cui era ancora alta, riuscii a notare una piccola conca della grandezza di una scarpa. Seguii la direzione che indicava e ne trovai un'altra identica pochi metri più avanti. Due. Tre. Fino ad arrivare alla strada. Facendomi guidare dall'istinto attraversai per trovare atre tre impronte. Dentro di me avevo capito dove sarebbero andate, così, lasciandomi dietro un "al diavolo l'interrogazione", presi le chiavi della macchina e mi diressi al boschetto.
La donna era lì, nella piccola radura che ormai avevo soprannominato come "radura degli avvenimenti sospetti", ma, a differenza di come mi aspettavo, non era sola.
La persona di fronte a lei era bassa, sul metro e cinquanta, a causa dell'età, aveva corti capelli bianchi, occhi verdi e un viso che, dal poco che ero riuscito a vedere, era il ritratto dell'altra, solo invecchiato.
La donna anziana si stava rigirando il pugnale tra le mani, doveva averlo appena ricevuto.
Mi nascosi dietro un albero e ascolatai la loro conversazione.
- Sei riuscita a riprenderlo tu, quindi. La ragazza era troppo impaurita per farlo? - disse l'anziana.
- Non è pronta. La morte di Malcom l'ha molto turbata - rispose la mia perseguitatrice con voce più dolce di quanto avrei immaginato fosse capace.
- Se la turba vedere una morte, come farà ad uccidere? - Cominciai a tremare. Era ormai scontato che mi trovavo ad una riunione tra due assassine e se mi avessero visto avrei fatto la fine dell'uomo trovato morto qualche giorno prima nello stesso bosco.
- È una ragazza forte, ce la farà, vedrai. Ha solo bisogno di un po' di tempo.
- Doveva farlo ora. Avrebbe dovuto essere lei ad uccidere Malcom, non tu! - Perfetto, aveva praticamente confessato. - Hai detto che si sta affezionando al ragazzo.
- Si. È per questo motivo che non ha avuto il coraggio di prendere lei stessa il pugnale.
- Devi farle capire subito in che guaio si sta cacciando, o finirà per commettere l'Errore troppo presto.
- Non preoccuparti, mamma, ieri le ho fatto capire bene quello che deve fare - disse la donna più giovane rivolgendole uno sguardo allusorio.
Mamma. Quelle due erano parenti.
L'anziana mosse il pugnale nell'aria e poco dopo tornò a guardare la figlia. - Ha combinato un grosso errore a far trovare il pugnale a quel ragazzo.
- Lo so, era spaventata, lo ha fatto cadere e lui lo ha preso. Non so come abbia fatto lui a finire qui ma non preoccuparti non ci denuncierà. Nonostante quello che voleva farmi credere, non ne ha il coraggio. - Ed era vero.
- Non era a questo che mi riferivo. Ma non è una cosa che posso dire qui...questo bosco conosce troppe cose. Ne parleremo a casa - concluse.
Quindi entrambe si voltarono verso di me e cominciarono a camminare.
Passarono di fianco all'albero senza accorgersi della mia presenza e quando arrivarono a voltarmi le spalle pregai che non si girassero mentre mi nascondevo da un'altra parte.


 

L'orario della piscina arrivò prima che io potessi rendermi conto di ciò che era successo. Filò tutto tranquillo e tra una vasca e l'altra potei rimuginarci su, finché non sentì Chuck alzare la voce.
- Ma ti togli! - esclamò spingendo Luke.
- Calmo, fratello. Cosa ti ho fatto? - disse il ragazzo alzando le mani come se Chuck fosse stato un poliziotto.
In tutto risposta lui mprecò pesantemente.
- Ooh! - si mise a urlare l'allenatore - Siete una squadra, chiaro? Non voglio liti!
Nuotai in fretta fino a loro per chiedergli cos'era successo.
- Il tuo amico è pazzo - disse Luke - Ho chiuso un attimo gli occhi in acqua e gli sono finito addosso. L'ho fatto altre volte! Non ne capisco il motivo.
- Zitto - disse Chuck. Gli rivolsi un'occhiataccia perché Luke aveva detto, per la prima volta, una cosa vera, se l'era presa troppo.
- Dai, amico, io ti voglio bene. - Luke creò un cuoricino con le mani scherzando.
Vidi l'espressione di Chuck mutare. Dall'odio divenne più dolce, quasi l'avesse perdonato poi, in fretta com'era mutata, ritornò all'odio. Senza dire una parola riprese con le sue vasche.
- Gli ho fatto qualcosa? - mi domandò Luke.
- E perché lo chiedi a me?
- Perché sei il suo migliore amico - rispose lui.
Era così? Io lo avevo sempre considerato mio fratello, il fratello fastidioso che non avevo mai avuto. Il mio migliore amico era Thomas.
- Ho scoperto che siete usciti insieme a capodanno - iniziai.
- Si, - mi interruppe - per poco. Scusa, ero ubriaco, non ricordo nulla. Ma lunedì era tranquillo quindi non penso di avergli fatto nulla.
Mark decise di mettersi ad urlare anche contro di me finché non ci rimettemmo a nuotare.


 

Quella sera volevo solo dormire e capire tutto quello che avevo scoperto. Naturalmente tutto ciò non mi fu possibile.
Il telefono squillò un'ora dopo cena segnando il nome del mio migliore amico.
- Pronto? - disse la voce all'altro capo del telefono. Appena capii che si trattava di una voce femminile mi stupii parecchio.
- Thomas? - chiesi, sapendo che la risposta sarebbe stata negativa.
- Crede che sia tu - disse la voce, rivolgendosi sicuramente al mio amico e scoppiando a ridere. - Sono Iris! Vieni da noi tra dieci minuti. - Probabilmente Thomas cercò di prenderle il telefono di mano perché la sentì gridare.
- Da noi? Iris, adesso? - chiesi.
- A casa di Thomas. Tra dieci minuti ti voglio qui - disse riagganciando.
Mi vestii in fretta e uscii dicendo a mia madre che andavo da Thomas. Lei non la prese bene perché era sicura che sarei tornato tardi ma mi fece andare da lui.

Una volta davanti a casa di Thomas suonai il campanello due volte. I miei amici non tardarono ad aprirmi la porta. Dalla sala provenì un rumore di passi che correvano e alla fine ad aprirmi la porta fu Iris. Rideva e cercava di spingere indietro Thomas, il quale faceva di tutto per essere il primo.
- Vieni! - Iris mi prese per un braccio e mi spinse dentro casa.
- Matt, scusami, è fuori di testa! Se vuoi restare, fallo pure, ma non ascoltare quello che ti dice lei - esclamò Thomas.
- Tommy! - chiamò una donna dalla sala.
La donna venne a vedere dov'erano corsi i due ragazzi con la fronte aggrottata. Doveva essere circa cinque anni più grande della madre di Thomas e fu per questo e la grandissima somiglianza che c'era tra loro che capii che dovevano essere sorelle.
- Oh! - esclamò la zia - È un altro cugino da parte di tuo padre?
- No, è un mio amico - rispose lui. - Andiamo in camera.
La zia tornò in sala, dove c'erano molti altri parenti.
- Tommy? - chiesi ridendo mentre Iris si univa a me, nonostante avesse già sentito quel nomignolo.
Tommy spiegò che quel giorno era il compleanno di suo zio e avevano deciso di riunirsi a casa sua, questo comportava un sacco di cuginetti per casa. Così aveva chiesto a Iris, che era a casa da sola con i suoi fratelli, a causa del lavoro dei genitori, di venire e lei aveva accettato. Poco dopo aveva scoperto che suo padre aveva invitato Elizabeth.
Arrivati a quel punto del racconto Iris si mise a gesticolare e a ridere. - Thomas mi ha detto che lei ti interessava, così ho pensato di invitarti.
- Cosa? No lei non mi interessa, davvero. - Lei mi interessava invece, ma avevo anche paura a starle vicino, soprattutto dopo che la donna incappucciata mi aveva detto di non frequentarla.
Ci recammo nella camera di Thomas, che si trovava due stanze dopo il salone. Era una camera grande, con un bellissimo tappeto rosso sul pavimento, sul quale erano seduti Elizabeth e un cugino di Thomas. Tenevano entrambi in mano un bicchiere di plastica pieno fino all'orlo di coca-cola e due sacchetti di patatine erano ai loro piedi, al loro interno il cibo era quasi dimezzato, una piccola bottiglia d'acqua vuota era per terra. Quando entrai in camera Elizabeth si voltò verso di me e mi sorrise. Il cugino di Thomas invece si mise in piedi e mi chiese se fossi l'amico che avevano chiamato. Aveva capelli castani, un dilatatore e uno stile molto eccentrico, portava una camicia a quadri colorati e una cravatta, e dal modo in cui si trovava a suo agio capii che la ndossava spesso.
A una risposta affermativa si presentò: - Mi chiamo Robert, ho 13 anni.
Il ragazzino però sembrava molto più grande, essendo alto quanto me.
- Cosa stavate facendo? - chiesi quando tutti ci fummo sistemati sul tappeto.
- Mangiavamo - disse Iris infilandosi in bocca dieci patatine e beccandosi più di un'occhiataccia da Thomas.
- In realtà avevamo iniziato a giocare a obbligo o verità - disse Robert sbuffando e indicando la bottiglia vuota in mezzo al tappeto. - Idea delle femmine.
- Va bene, giochiamo. - Feci girare la bottiglia.
Il tappeto non le permetteva di girare come doveva eppure riuscì a fare due giri e a farmarsi davanti a Robert.
- Verità - disse lui senza neanche farmi porre la domanda.
- Hai la ragazza? - chiesi curioso.
- Si - disse Robert tranquillo.
Per poco Thomas non si strozzò con la coca-cola. - Cosa?
Robert non ascoltò la domanda, al contrario, fece girare la bottiglia, che si fermò davanti ad Iris. Obbligo.
- Fai il sollettico a chi vuoi.
- Non so a chi - disse lei.
Si girò a guardarmi e poi fece lo stesso con Thomas. Stava scegliendo. Quando meno me l'aspettavo, Iris si buttò su Thomas, facendolo cadere tra le risate.
- Basta! Basta! - urlava. Lo sapevano tutti che Thomas non reggeva il solletico.
- Va bene, puoi smetterla, se no muore - disse Robert.
Iris si fermò di colpo e rimase per qualche secondo a fissarlo, poi, come risvegliata, si rimise a sedere. Thomas la guardò di rimando.
- Andiamo avanti! - Iris girò la bottiglia. Elizabeth.
- Obbligo - disse rispondendo alla domanda.
- Registra una suoneria sul telefono di Matt - disse.
Alla fine della serata avevo come suoneria dei messaggi la voce di Elizabeth, rideva e diceva “blu”. Il motivo per il quale aveva scelto quella parola era che "messaggio" le sembrava troppo lungo, così, dopo che uno dei cuginetti più piccoli di Thomas era entrato in camera vestito di quel colore, aveva deciso che era molto bello avero come suoneria. Mi piaceva, ed ero convinto a tenerla.


 

Del modo in cui andai via non ricordo più niente, solo il terrore che mi pervarse quando trovai la porta di casa aperta. In salotto mia madre era stesa a terra, la gonna che indossava formava un semicerchio sul pavimento, le braccia erano piegate lungo il corpo e i capelli castani le circondavano il viso.
- Mamma! - mi misi ad urlare prendendo il suo corpo tra le braccia.
Mi affrettai ad ascoltarle il cuore e mi tranquillizzai quando lo sentii battere, tranquillo ma forte.
Sospirai e la strinsi tra le mie braccia mentre lei apriva gli occhi.
- Matt? Cos'è successo? - chiese con una voce fiebile.
- Quando sono arrivato eri per terra. Perché me ne sono andato!? - dissi a me stesso. - Avrei dovuto rimamere con te!
- Non è colpa tua. - Mi accarezzò la guancia.
- Si è colpa mia, è colpa mia.
- Non mi ricordo nulla, Matt - disse lei alzandosi in piedi.
- Perché la porta era aperta? Te lo ricordi?
Lei scosse la testa. - E se fosse stato l'assassino che gira in città?
Il mio cuore perse un battito. La donna incappucciata, era stata lei. Non metterti contro di noi.
- No, mamma, no. Non preoccuparti.
- Io stavo bevendo un the e poi non mi ricordo più nulla.
Mille frammenti della tazza preferita di mia madre erano sparpagliati per terra. Poteva sembrare un semplice malore se la porta di casa non fosse stata aperta.
- Forse ho lasciato aperta io la porta. Ti sarai sentita poco bene. - L'accompagnai nella sua camera.
Pulii il the per terra. Soltanto quando iniziai a raccogliere i frammenti di tazza mi accorsi che essi formavano una frase: Mi dispiace tanto Matthew Williams, il pugnale ti ha scelto.



Angolino dell'autrice: Eccomi! Sana e salva. Ho creato suspence? Ci ho provato quindi vi prego ditemi se ci sono riuscita perchè ho questo dubbio! Mi raccomando recensite e continuate a seguire la storia, è grazie a voi se mi vengono idee per continuarla. Vi aspetto nelle recensioni ;)

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Capitolo 8
*** Il cane infernale ***


Capitolo 8: Il cane infernale

Mi piaceva la calda sensazione che si prova quando si stringe qualcuno tra le braccia. Mi sembrava sempre che le energie che usavo per abbracciare qualcuno si moltiplicavano nel momento stesso in cui lo facevo e, una volta lontano dalle braccia dell'altro, mi facevano stare meglio e più felice.
Erano passati due giorni da quando avevo trovato mia madre stesa a terra e dopo vari controlli medici, essi avevano concordato con il dire che era stato colpa dello stess. In cambio avrei dovuto occuparmi di più della casa e lasciarle più tranquillità.
Il giorno precedente avevo incontrato Elizabeth in mensa e avevamo mangiato insieme, essendo entrambi da soli.
La persona che però stavo abbracciando non era Elizabeth e nemmeno mia madre. Era Iris e stava piangendo.
- Iris, ora calmati. Cos'è successo? - chiesi allontanandola dal mio abbraccio per farla parlare.
- Mi trasferisco.
Fu come se mi avessero tirato un pugno. - Cosa?
- Hanno offerto una promozione a mio padre, sono molti soldi, però dobbiamo trasferirci a Washington.
- A Washington non viveva la tua migliore amica? - chiesi per prendere tempo prima di rispondere.
- Si e lei mi manca così tanto. Ci sentiamo ogni giorno, ma una chiamata non è come vedersi per davvero, Matt. Io le voglio bene e stare sempre con lei sarebbe un sogno che si avvera. Ma io non voglio andarmene. Sono nata in questa città e non voglio lasciarla, nonostante non sia il massimo. E non voglio lasciare voi due, tu e Thomas.
- Sei davvero certa che te ne andrai?
- I miei genitori ci hanno pensato, sapevamo di questa promozione da un po', nonostante non fosse ufficiale. Mio padre è sempre fuori casa e se ci trasferissimo a Washington lui non sarebbe più costretto a muoversi. I soldi ci servono, soprattutto ora che anche mia sorella ha deciso di continuare l'università. Per mia mamma non è un problema trasferirsi, lei è un medico, chiede il traferimento in un altro ospedale ed è a posto.
- Non voglio che tu te ne vada - mormorai. - Sei la mia migliore amica. - Fu la prima volta in cui lo pensai. Iris era sempre stata più di quello che credevo. Avevo passato diciassette anni della mia vita a fare distinzioni, sempre e comunque, in ogni occasione. Avevo imparato che era opportuno farlo, ogni cosa poteva essere raggruppato in un insieme, diviso dagli altri, messo nella categoria giusta. Non avevo capito che spesso non si può farlo. È orribile classificare le proprie amicizie, rende il tutto così freddo, senza rapporti umani. Avevo sempre messo Iris ad un livello inferiore rispetto a Thomas e ora capivo che entrambi valevano allo stesso modo. Era proprio vero: troppe volte capisci il valore di qualcosa quando devi perderla, ed è troppo tardi.
Lei si coprì gli occhi con le mani.
- Ho paura di dirlo a Thomas. Ho paura della sua reazione. So che sarà negativa e si arrabbierà con me.
- Non dire così, non è colpa tua, se Thomas dovesse arrabbiarsi non si comporterebbe da amico - dissi.
- Conosci il carattere orribile che ha. È lunatico - affermò lei.
Mi ritrovai ad annuire. Il carattere di Thomas era molto "particolare". Sapeva essere allegro, simpatico e capace di fare battute così squallide che facevano ridere soltanto lui. Ma aveva la risata più contagiosa che avessi mai sentito. Tutti dovrebbero avere una risata contagiosa, ridere rende il mondo migliore. Ma sapeva anche essere nervoso e geloso e cambiava umore facilmente, come Iris. Lei però lo faceva in modo positivo, lui no.
- Vedrai che capirà. Quando te ne andrai?

- A giugno.


 

Stavo passaggiando nel corridoio quando Thomas si avvicinò a me e mi sussurrò ciò che era successo.
Corsi nell'aula di fisica e trovai quello che Thomas mi aveva anticipato: Elizabeth era seduta all'ultimo banco, guardava nel vuoto e una lacrima solitaria correva sulla sua guancia.
- Elizabeth - la chiamai.
- Matthew. - Alzò la testa verso di me e si asciugò le lacrime. - Ho litigato con Hannah - disse riferendosi alla sua migliore amica.
- Perché? - chiesi.
- Non mi vuole più vedere.
Un'ora dopo mi ritrovai a litigare con una ragazza che neanche conoscevo, per un motivo sconosciuto, fuori da una classe che non era la mia, davanti all'intero club di fotografia. Hannah aveva i capelli castani chiari con le punte viola. Indossava un'ampia gonna dello stesso colore e una maglietta nera. Difficile ammetterlo ma era molto bella.
- Si? - chiese quando entrai nella classe dove si tenevano le lezioni del club di fotografia. - Nuovo iscritto?
- Sei Hannah? Vorrei parlarti in privato.
Lei uscì dall'aula con me e mi chiese il motivo di quel colloquio.
- Elizabeth.
Lei divenne rossa di rabbia. - Ha mandato qui te? È così codarda da usare un "gufo messaggero"? - Disegnò le virgolette nell'aria. Mi sembrò una strana espressione.
- In realtà non mi ha mandato qui lei. Vorrei sapere perché non la vuoi più vedere.
- Questi sono affari miei! - disse incrociando le braccia al petto. - Tu sei un maschio - osservò poi.
- No! Sono una ballerina travestita!
Lei mi ignorò. - Perché cavolo ti interessa di Elizabeth, se sei un maschio? - Mi guardò di sottecchi.
- Sono un suo amico - risposi.
- Elizabeth non ha amici maschi.
- Se ripeti ancora una volta la parola maschi credo che diventerò davvero una ballerina travestita.
Sbuffò. - Ho litigato con lei per i maschi... - cominciò.
- Ballerina.
- Ragazzi. - Mi lanciò un'occhiata. - Per i ragazzi. È troppo ossessionata dal fatto che qualcuno la possa ferire e passa la sua vita allontanando chiunque possa farlo. Sono tutti così per lei. Io non avrei mai voluto litigare con lei oggi, ma ho fatto un solo errore e lei ha ripreso con quella storia! Non posso più sentirla! Non ce la faccio più!
- E così hai deciso di fare in modo che continui a crederlo - dissi stringendo i denti.
- Io non ho fatto così! - Alzò la voce.
- No? Tu l'hai lasciata sola! Sei la sua unica amica e le dici che non vuoi più vederla! Elizabeth ha paura di essere lasciata sola e il mondo si coalizza per fare in modo che tutto ciò accada.
- Io non...
- Io sto cercando di fare in modo che si possa fidare di tutti, anche dei maschi, ma tu le dimostri quanto le persone siano egoiste.
- Io non sono egoista! Chi credi di essere per dire cosa sono o non sono?
- Giudico in base a quello che so.
- Be', tu non sai niente. - Strinse i denti.
- Assomigli molto ad Elizabeth. Ha detto quasi le stesse parole quando ho litigato con lei - dissi.
- Allora suppongo che ti piace andare in giro a fare la morale alle persone.
- Un po'. - Sorrisi.
- Cercherò di risolvere con Elizabeth se questo può fare in modo che io non ti incontri più.
- Affare fatto. - Le porsi la mano.


 

Quando tornai dalla scuola e finalmente entrai in casa, trovai mio padre seduto sullo sgabello in cucina, quello su cui si sedeva sempre. Fu strano vederlo lì dopo anni. Da quando era andato via, mia mamma non lo aveva fatto più entrare.
Fortunatamente non si accorse della mia presenza, così decisi di ascoltare la loro conversazione, che era fatta di silenzi e di poche parole.
Sporgendomi, riuscii a vedere l'espressione sul viso di mia madre. Era ferita. La rabbia iniziò a crescermi dentro. Se era venuto per farle ancora del male...
- È una bella notizia - disse poi.
- Mi dispiace Lisa. - Ogni volta che parlava con mia madre, in rare occasioni, le diceva sempre le stesse parole.
- Non capisco perché sei venuto a dirlo a me.
- Volevo dirlo a Matt. E sapevo che te lo sarebbe venuto a riferire quindi ho preferito raccontartelo io.
"Sapevo che te lo sarebbe venuto a riferire". Quelle parole mi ferirono perché ero io che avevo raccontato a mia madre che la tradiva. Le avevo detto tutto ciò che sapevo e, anche se in quel momento mio padre non si riferiva a quello, per me quelle parole riconducevano solo a ciò che avevo fatto.
Decisi di inserirmi nella conversazione. - Cosa volevi dirmi? - chiesi entrando in cucina come se fossi appena arrivato.
Mio padre mi salutò e poi prese un grande respiro. - Charlotte è incinta.
Fu un brutto colpo. Davvero brutto. Avrei avuto un fratellastro. A 17 anni avrei avuto un fratellastro da un padre che odiavo e dalla donna con cui aveva tradito mia madre.
- Congratulazioni - dissi. E corsi in camera sbattendomi la porta alle spalle.
Non so perché lo feci. Ma l'idea di avere un fratello così non mi piaceva. Non era giusto. Quel bambino non aveva il diritto di passare la sua vita con mio padre, ricevendo l'amore che era stato negato a me.
Charlotte non si meritava di provare tanta gioia dopo che ne aveva negata così tanta a mia madre.
Era tutto così tremendamente sbagliato.
Presi a pugni il mio cuscino per rabbia e frustrazione.
- Ti odio, papà, ti odio.
Alcuni passi mi interruppero e dopo poco la porta si aprì facendo entrare mia madre. Senza che avessi bisogno di dire una parola, lei si sedette sul mio letto.
- So esattamente come ti senti: ferito, geloso, arrabbiato, tradito. Mi sento anch'io così. Quando mi hai raccontato quello che avevi visto, sette anni fa, mi sono sentita come se mi avessero sparato. Ho provato la stessa cosa cinque minuti fa, e anche più dolore, perché per quanto io provi a nasconderlo voglio ancora bene a tuo padre. Non voglio che lui abbia un bambino che lo unisca a Charlotte, tanto quanto tu lo unisci a me. È egoistico come pensiero, ma è così.
- Credevo lo odiassi - dissi soltanto.
- E io lo odio. Ma gli voglio anche bene.
- Non capisco. - Mi passai una mano tra i capelli.
Si alzò senza rispondere.
- Papà è ancora giù? -
- È andato via - disse.
Il mio telefono cominciò a squillare. La chiamata era da parte di Elizabeth, così chiesi a mia madre di uscire.
- Pronto?
- Non pensavo che saresti andato a parlare con Hannah! - disse la ragazza ridendo all'altro capo del telefono.
- Volevo rendermi utile.
Sentii un rumore di passi e una voce che si rivolse ad Elizabeth. Non riuscii a capirne le parole ma sembrava agitata.
- Aspetta un secondo - disse Elizabeth, probabilmente appoggiando il cellulare.
L'errore che fece fu non attaccare perché sentii metà conversazione.
- Dove vai? - chiese.
La risposta arrivò confusa.
- No, ti prego. Lascialo in pace!
Un brusio di voci confuso.
- No! È con me che devi prendertela, non con lui! - Iniziò a gridare e le sue parole mi giunsero come se le avesse dette direttamente a me.
- Matthew? - disse poi rivolgendosi davvero a me. - Ti richiamo dopo.


 

Due ore dopo, nelle quali mia madre uscì per andare in ufficio a finire il progetto, un enorme temporale si abbatté sulla nostra città facendo cadere a tutti la corrente.
Ero in camera mia a studiare e scese un buio improvviso. All'inizio credetti di aver spento la luce, essendo il tasto molto vicino al punto della scrivania in cui appoggiavo i libri. La luce che filtrava dalla finestra era poca, ma permetteva di muoversi. Utilizzando la torcia del mio telefono, scesi dalle scale e attraversai la casa diretto al garage, dove tenevo il contatore.
All'interno della stanza era molto buio e mi sembrò strano perché non ricordavo di aver chiuso la cler.
Un'ombra si mosse. Alzai la torcia, ma non vidi nulla, solo un striscia di tessuto per terra. Era dello stesso colore del cappuccio della mia perseguitatrice.
Quando riaccesi la luce, anche il garage si illuminò e io mi trovai davanti due occhi rossi.
Un cane si trovava sopra alla mia macchina. Era molto più grande del normale, aveva i denti scoperti, uno sguardo assassino e le unghie che graffiavano il tettuccio metallico. Il pelo era nero e la coda continuava a muoversi in preda alla furia.
Cercò di saltare.
- Buono! - dissi indietreggiando.
Lui ringhiò e si gettò su di me.
Un attimo prima che mi mordesse caddi a terra e me lo ritrovai addosso. Sentii un dolore bruciante alla guancia, causato dalle unghie del cane, e un rivolo di sangue che colava fino al mio collo. Non era normale che un cane avesse delle unghie così taglienti.
Lo afferrai e lo allontanai da me. Sembrava indemoniato, aveva una forza enorme. Lui riuscii a divincolarsi e cadde a terra, riprendendo subito a mordermi la caviglia. Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore.
Indietreggiai, ancora una volta, finché non mi trovai con le spalle al muro.
Cercando con un gesto disperato qualcosa che lo allontanasse, presi la chiave inglese che si trovava sul ripiano in alto dello scaffale di fianco a me e la gettai contro il cane.
Lui gridò e si dissolse in una nuvola di fumo.
Senza avere il tempo di capire ciò che avevo fatto, scappai via dal garage dirigendomi in bagno.
Chiusi la porta a chiave e osservai il mio volto. I graffi che fino a un secondo prima avevo sulla guancia si erano rimarginati, senza lasciare una sola traccia di sangue ma solo una minuscola cicatrice appena visibile. Alzai la gamba dei miei pantaloni e osservai la caviglia, che aveva solo un piccolo segno di denti.
Quello che mi aveva attaccato non era normale. Era un mostro. I cani non si dissolvevano come fumo, non avevano gli occhi rossi e non attaccavano una persona in modo così violento, senza che egli gli avesse fatto niente.
Insprirai. Lo avevo anche toccato e sembrava essere reale, ma evidentemente non lo era.
Bussarono alla porta e io scesi ad aprire.
- Stai bene? - chiese Elizabeth. Aveva i capelli biondi bagnati e teneva in mano un ombrello inzuppato d'acqua.
- Cosa ci fai qui?
- Stai bene? - domandò di nuovo con una certa insistenza.
- Si, grazie.
Sospirò.
- Perché me lo chiedi? - Era come se sapesse del cane.
- Hai un graffio - disse accarezzandomi la guancia e poi ritraendo velocemente la mano.
- Sono caduto dalle scale - mi giustificai.
Lei storse il naso. - Non è vero.
La feci entrare in casa.
Passammo davanti alla porta che conduceva al garage e io guardai dentro, poi la condussi in camera.
- Perché sei qui?
Sembrò avere un attimo di panico e dopo avermi guardato con gli occhi spalancati, biascicò quella che era sicuramente una scusa: - Ho pensato che era meglio venire a ringraziarti per quello che hai fatto oggi.
- Non è stato niente di importante - dissi. - Hai visto un cane uscire dal mio garage?
- No. - Scosse la testa.
Quando arrivammo in camera la tempesta sembrò aumentare, battendo con violenza contro la mia finestra. Un fulmine squarciò il cielo.
- Uno, due, tre, quattro...
- Cosa stai facendo? - chiesi.
- Cinque. - Il rimbombo del tuono scosse la casa.
Un'altro fulmine. Elizabeth non ebbe nemmeno il tempo di mettersi a contare perché il tuono arrivò nello stesso momento.
Il rumore ci impedì di sentire il ringhio del cane, che si era materializzato in casa.
Elizabeth sobbalzò sentendoselo passare vicino mentre lui non la degnò di uno sguardo e si diresse verso di me, iniziando ad abbaiare e a mostrare i canini.
La ragazza di fianco a me mise le mani davanti e cercò di calmarlo.
- Fuffy, buono!
- Fuffy? - Deglutii.
- Tutti i cani apparentemente cattivi si chiamano Fuffy - spiegò lei.
- Apparentemente? - gridai mentre il cane mi mordeva il braccio.
Elizabeth si mise davanti a me di scatto e il cane la morse senza volerlo. Per un attimo vidi sparire la rabbia del cane, che quasi si nascose dalla vergogna, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Lei mormorò qualcosa che non capii e pensai che il mostro sarebbe tornato ad attaccarmi. Mi sbagliavo, perché come aveva fatto prima, il cane si dissolse.
- Hai visto anche tu? Si è smaterializzato! - esclamai.
- Si - disse Elizabeth.
Mi guardò e disse che forse era meglio controllare le ferite.
- Si cicatrizzano da sole. Prima, io... è successo che...
Lei mi fissò.
- Tutto questo è impossibile. - Mi misi le mani tra i capelli. - Non sei stupita?
- Si! Certo! - Ma non lo dimostrava.
- Quello che è successo in questa stanza è impossibile! È stato come se la magia... - Mi bloccai e sgranai gli occhi. - Oddio. La magia esiste!
Elizabeth inspirò. - Ora calmo.
- Ma l'hai visto anche tu! È soprannaturale!
Lei cercò di farmi calmare.
- Non hai detto di no! Anche tu credi che quel cane sia frutto della magia! Non sono pazzo Elizabeth.
- No Matthew non lo sei. Quel cane si è smaterializzato.
- Ho sempre creduto che la magia fosse una cosa inventata, che derivasse da leggende!
Elizabeth si lasciò andare in una risata nervosa.
- Non raccontare a nessuno niente di tutto questo - disse soltanto.
Ci sedemmo entrambi e rimanemmo in silenzio. Pensai a quello che era successo e a ciò che mi aveva detto finché il silenzio non divenne imbarazzante.
- Mrs O'Leary - dissi.
- Cosa? - chiese lei.
- Non è vero che tutti i cani apparentemente cattivi si chiamano Fuffy. C'è anche Mrs O'Leary.
Si mise a ridere.


 

La strada davanti a me era piena di pozzanghere causate dal temporale che era finito poche ore prima.
Sfregai le mani per produrre calore e continuai a percorrere il marciapiede in silenzio. Quel giorno Chuck non era venuto al corso di nuoto e io avevo preferito farmi una passeggiata.
Davanti a me era buio. L'unica luce erano i lampioni che costeggiavano la strada.
Una magra figura camminava in fretta dalla direzione della piscina. Passò di fianco a me e la riconobbi.
- Marghe! - esclamai.
Lei fece un salto e si portò una mano al petto. - Matt, mi hai spaventato.
Mi spiegò che correva per paura della strada buia e deserta.
- Sono felice di averti incontrato, almeno non sono sola.
Non parlammo molto.
Dopo quanche metro ripensai al primo giorno in cui avevo capito di essere innamorato di lei.
Eravamo in piscina e lei mi aveva sorriso. Un sorriso piccolo che neanche si era accorta di aver fatto, ma mi aveva scaldato il cuore. In quel momento non capii di essermi innamorato di lei. Era stato Chuck a dirmelo, dopo che gli avevo confessato come mi ero sentito bene e come avessi desiderato vedere un'altro suo sorriso. "Amico mio, ti sei innamorato della secchiona" aveva detto. Aveva ragione. Da quel momento Margareth era sempre stata molto di più per me.
Dopo essere stato innamorato di lei per due anni, più di quanto lo fossi mai stato per qualsiasi ragazza nella via vita, lei si era fidanzata. Ricordo che il giorno in cui avevo lo appreso mi ero sentito male perché non volevo che qualcuno potesse avere il suo sorriso. Ero geloso.
"Non lamentarti se è di qualcun'altro, avresti dovuto agire e non aspettare che lei corresse tra le tue braccia perché nessuno lo fa mai, Matt." Dopo aver passato quei due anni a fare commenti idioti e allusivi su di noi, Chuck aveva tirato fuori il più vero dei pensieri.
Dopo qualche mese me ne ero fatto una ragione ed avevo iniziato ad apprezzare la storia di Margareth e il suo ragazzo.
Eppure quando si erano lasciati non avevo neanche pensato minimamente di avere qualche possibilità, lei ormai era solo Margareth, la mia amica. Chuck aveva preferito ritornare ai suoi commenti.
- Matt? - chiese lei risvegliandomi dai ricordi. - Sono arrivata.
- Oh, si. Ci vediamo domani.
- A domani - mi salutò.
Per scarsa voglia di tornare a casa e forse anche per paura di incontrare il cane, decisi di deviare verso il boschetto.
Al suo interno sembrava piovere ancora perché, ogni volta che toccavo un ramo, questo faceva cadere le goccie di pioggia che si erano depositate su di esso. Il terreno era pieno di fango che mi sporcava le scarpe.
Mi sedetti sulla roccia della radura e chiusi gli occhi.
Pensai a quello che era successo lì la seconda volta che avevo visto Elizabeth. I suoi occhi che invocavano aiuto. Mi ricordai del pugnale che avevo trovato e delle parole tra la donna incappucciata e sua madre. Capii il collegamento che c'era tra le due cose.
Elizabeth avrebbe dovuto uccidere quell'uomo. Lei era spaventata per quello.
Ripensai al cane, che avevo deciso di soprannominare infernale e a quello che avevo visto, alla faccia della ragazza quando avevo parlato di magia e alla sua reazione poco verosimile. Così, nella mia testa iniziarono a connettersi i fili. Pezzo dopo pezzo riuscii a formare la prima metà di puzzle.






Angolino dell'autrice: Eccomi qui! Okay ammetto di essermi divertita molto a scrivere questo capitolo, probilmente quando ho scritto la cosa della ballerina avevo mangiato qualcosa che mi aveva fatto male ma era troppo divertente. C'è un riferimento a due libri che spero capirete. Recensite e fatemi sapere cosa ne pensate, tengo molto a questo capitolo perchè succedono molte cose importanti. Vi aspetto *-*


 

 

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Capitolo 9
*** Hotel Caelum ***


Capitolo 9: Hotel Caelum

- Shh! - Il professore di storia pose l'indice davanti alla bocca e ci ammonì.
Thomas e io tornammo a metterci seduti.
Il signor Skin, professore di storia, nato durante il quarto anno della quarantesima dinastia dei Faraoni, dedito alla scoperta di cose a cui non poteva fregare niente a nessuno, aveva deciso di farci passare l'ora a vedere un documentario sulla prima guerra mondiale. Ci aveva condotto nell'aula video, una piccola sala con i banchi posti in salita e, giusto per essere sicuro che io e Thomas non parlassimo, ci aveva messo lontani.
Una volta spente le luci non ci era voluto molto perché Thomas scivolasse tra i banchi e si sedesse di fianco a me e Iris. Skin non si era naturalmente accorto di nulla.
Dopo che si fu girato, Thomas riprese a parlare. - E tua madre come ha reagito?
- Ha detto che si sentiva come me, ma ci è rimasta molto più male - mormorai.
- Mi sembra anche giusto - disse Iris mentre guardava le inquadrature della tomba dell'arciduca Franz Ferdinand. - Scoprire che il mio ex marito, che amo ancora, aspetta un figlio da un'altra donna dov'essere devastante. Penso che io mi sarei messa ad urlare.
Sospirai. Mia madre doveva amare molto mio padre se dopo sette anni era ancora sola. C'erano stati uomini, anche se ci era voluto molto. Quando avevo 14 e 15 anni, me ne aveva presentati due, ma non erano durati più di una manciata di mesi.
- Le prime operazioni militari del conflitto videro la fulminea avanzata dell'esercito tedesco in Belgio, Lussemburgo e nel nord della Francia... - continuò la voce del documentario.
- Cambiamo argomento - disse Thomas.
- Forse è meglio ascoltare - suggerì Iris.
Ci mettemmo tutti e tre d'impegno e ascoltammo la lezione. Thomas passò parte del tempo a muovere le mani ripassando le note di una canzone sulla chitarra.
Lui e Iris facevano parte del coro della scuola, che non era quel gruppo di sfigati che tutti si raffiguravano. Andavano forti. In realtà non era neanche un coro, non cantavano insieme, loro preparavano i pezzi per il concerto che si svolgeva a metà anno durante le ore scolastiche e quello che facevano a giugno la sera. Cantavano e suonavno insieme. Avevano circa quattro pezzi ognuno e, anche quell'anno, Iris e Thomas ne facevano uno insieme. Lei cantava, aveva una voce fantastica, mentre lui suonava la chitarra. Non avevano voluto dirmi il titolo della canzone.
Quando la campanella suonò, segnando la fine dell'ora, noi tre ci avviammo verso la sala mensa.
Sedendoci al quarto tavolo, prendemmo tutti un hamburger.
Dopo essersi accorta di non aver finito i compiti, Iris tirò fuori il suo libro di francese e si mise a scrivere mentre mangiava il suo panino.
- Odio il francese - disse Thomas nonostante non lo avesse mai studiato.
- Non puoi odiare una lingua - lo zittì Iris ricevendo un'occhiataccia dal nostro amico.
Vidi Elizabeth avvicinarsi al nostro tavolo con Hannah.
Non appena la bionda vide il libro di francese disse: - Tu parles français!
Iris alzò la testa dal libro e sorrise ad Elizabeth. - Oui! Je l'étudie.
- Es-tu au cour du professeur Rouge? - chiese.
- Non, je suis au cour de madame Jones.
Thomas mi guardò in cerca di una traduzione.
- Non studio il francese! - dissi.
- Ecco perché non ti ho mai visto all'avanzato - continuò Elizabeth nella nostra lingua, per farsi capire da tutti.
- Si sono al corso intermedio.
- A otto anni mia madre e mia nonna hanno iniziato a darmi lezioni - spiegò la cugina di Thomas.
- Scusateci. Tutti i tavoli sono pieni, possiamo metterci qui? - chiese Hannah impaziente di addentare il suo hamburger.
Thomas annuì e lei andò a sedervisi vicino. Elizabeth prese posto accanto ad Iris.
Notai che Hannah guardava Thomas con un certo interesse e mi ritrovai a ridere.
- Tu non avevi detto che non volevi più vedermi? - chiesi.
In tutta risposta mi fece una smorfia.
- Melanie mi ha detto che l'impronta si è asciugata. Oggi vieni a scrivere il tuo nome? - chiese Elizabeth.
Annuii vigorosamente e improvvisamente mi ricordai ciò che avevo scoperto la sera prima. Decisi di voler andare comunque con lei, era un buon momento per parlarle.
- Dove? - chiese Thomas addentando l'hamburger.
- Siete usciti insieme? - Iris sorrise.
- Davvero? - domandò invece Hannah delusa perché Elizabeth non glielo aveva detto.
Dopo qualche minuto di chiacchiere con l'amica, Hannah tornò a guardare Thomas finché lui non diventò completamente rosso. Dopo aver bevuto un sorso d'acqua sotto lo sguardo della ragazza, si voltò verso di lei.
- Ho qualcosa in faccia? - chiese passandosi una mano sul viso.
- No. Sei molto carino - disse tranquillamente lei.
Thomas aprì la bocca stupito, non avendo mai incontrato nessuno di così diretto, e senza controllarsi sfoggiò un enorme sorriso da sbruffone.
- Hannah! - esclamò Elizabeth.
- Ho detto la verità - rispose l'amica.
- Tutto questo è imbarazzante. - Guardai Iris che non distoglieva gli occhi dal libro e stringeva la penna tremando, poi alzò la testa e cominciò a ridere.
Mi unii alla risata. Quella di Iris però era diversa dal solito. Diedi la colpa ad un ipotetico raffreddore e non ci feci molto caso.
Thomas strinse i denti, arrabbiato per le nostre continue prese in giro, che in realtà non erano fatte per essere offensive, e si rivolse ad Hannah. - 346...
- Cos'è? - chiese la ragazza fermandolo.
- Il mio numero. - Sorrise beffardo fissando Iris.


 

Quel pomeriggio passai a prendere Elizabeth alla scuola, come la volta precedente. Aveva un grande sorriso sulle labbra ed era vestita di rosso.
- Ti vedo di buon umore - le dissi aprendole la portiera.
Lei salì in macchina. - È il sole. - Indicò il cielo azzurro. - Adoro la luce del sole d'inverno, ha un colore più tenue.
Ingranai la marcia e iniziammo a viaggiare verso il centro.
Pensai che dovevo dirle che avevo scoperto di sua madre, chiederle perché non era corsa a vedere come stava quando avevamo fatto l'incidente e il motivo per cui avevano commesso quell'omicidio. Mi trattenni. Forse era meglio conoscerla e cercare di scoprire da solo queste cose, non sapevo come avrebbe reagito e una parola sbagliata l'avrebbe portata ad allontanarsi da me, non permettendomi di scoprire nulla.
Quando arrivammo all'entrata del negozio riuscii a leggerne l'insegna, che mi era sfuggita la volta precedente: Brush&Paint.
Sulla porta notai invece il cartello che ne indicava la chiusura.
Elizabeth osservò la mia reazione confusa e infine tirò fuori un mazzo di chiavi dalla sua giacca con un sorriso divertito.
- Hai le chiavi? - esclamai.
Lei rise. - No. - Le rimise in tasca. - Sono quelle di casa. - Si appoggiò alla porta, che si aprì sotto il suo peso.
All'interno, Melanie ci aspettava china sulla cassa, intenta a leggere una bolletta della luce. Non appena ci vide chiamò Elizabeth a sedersi vicino a lei, su uno sgabello lì vicino.
- Com'è andata a scuola? - domandò.
- Tutto bene - rispose Elizabeth. - Hannah ci ha provato con Thomas.
- Davvero? La tua migliore amica e tuo cugino? - La guardò sospettosa.
Elizabeth sbuffò e si rivolse a me: - Cosa ne pensi?
- Spero che Hannah non faccia sul serio, perché Thomas le ha dato il suo numero solo perché Iris ha riso.
- Iris? - chise Melanie interessata. Sembrava mia madre, che in quel momento si sarebbe fatta prendere dall'euforia per il gossip scolastico, il suo preferito.
- Un'amica mia e di Thomas.
- Ah. - Fece un sorriso. - Be', suppongo che sia meglio che Hannah non si affezioni. - Era strano il modo in cui si sentiva parte di quelle faccende, non conoscendo nessuna delle persone di cui stava parlando.
- Forza! Abbiamo un nome da scrivere! - esclamò Elizabeth.
Si alzò dallo sgabello e, prendendomi involontariamente per mano, mi portò davanti al muro decorato con le mani dei clienti.
Sentì una forte scossa che partiva dalla mano e saliva per tutto il corpo e provai un forte calore.
La scaletta che avevo usato la volta precedente era già al suo posto. Ci salii e Melanie mi passò un pennarello indelebile a punta fine.
Spostai la mano lentamente sulla superficie del muro e lessi le lettere che stavo tracciando. Matthew Williams.
- Ora è perfetto - disse Melanie applaudendo.
Sceso dalla scaletta, Elizabeth insistette per rimanere ancora qualche minuto e io accettai di buon grado.
Non c'era posto per sedere per una terza persona, così corsi ad accaparrarmi lo sgabello.
Elizabeth capì subito che stavo cercando di rubarle il posto e mi venne dietro.
- È il mio posto! - urlava scherzando. - Nessuno può sedersi sullo sgabello di Elizabeth Lane!
Per la rincorsa per poco non caddi a terra, ma riuscii ad ottenere il mio posto a sedere. Elizabeth arrivò subito dopo e scivolò per terra prendendo una grande botta.
- Aia - mormorò massaggiandosi la schiena.
- Mi fai tanta tenerezza che quasi ti cedo il mio posto. - Il suo sguardo si illuminò. - Sto scherzando, ovviamente.
Alla fine Elizabeth andò a sedersi sopra il banco del registratore di cassa, lanciandomi più di uno sguardo assassino.
La sua espressione voleva essere giocosa, ma con ciò che sapevo non potevo fare a meno di pensare a cosa poteva aver fatto quel poverino per morire pugnalato dalla madre di Elizabeth, compito che avrebbe dovuto svolgere proprio la ragazza seduta davanti a me.
Rabbrividii e lei se ne accorse. Non disse niente.
- Hai portato il tuo album da disegno? - chiese Melanie una volta seduta.
Elizabeth annuì e andò verso la borsa che aveva appoggiato all'angolo. Ne tirò fuori un album dalla copertina marrone. Sembrava uno di quei libri di fiabe, doveva avere tante pagine.
La bionda venne verso di noi e appoggiò tutti quei fogli davanti a Melanie, che iniziò a sfogliarli.
- È bellissimo - disse la donna passando la mano sopra un disegno.
Scesi dallo sgabello e mi sporsi per vedere ma lei cercò di coprirmi la visuale.
- Vieni Matt - mi chiamò Melanie. - Elizabeth questo disegno è meraviglioso. E poi se lo hai portato qui ha il diritto di vedere i disegni.
Lei annuì e si spostò.
Sul foglio era disegnato a matita e colorato con gli acquarelli un bellissimo vascello con una polena a forma di sirena, attraccato al porto. Su un fianco della nave sembrava inciso il suo nome. Aveva sfumature molto riuscite, e l'ombra era perfetta. Sotto, a sinistra, c'era la firma di Elizabeth.
Girai la pagina. Questa volta era disegnata una mela rossa con un morso. Non era il classico simbolo della Apple, ti faceva venire fame davvero. Sembrava essere stata gettata per terra da poco.
Spostai di lato lo sguardo e notai un pugnale sfocato e piccolo. Riuscii subito a riconoscerlo, era il pugnale che avevo trovato e tenuto molto tempo nascosto dalla madre di Elizabeth. Quella era la prova di cui avevo bisogno.
Elizabeth si accose solo dopo che io ebbi riconosciuto il pugnale di ciò che aveva fatto. Tolse l'album dalle mani di Melanie e lo chiuse con un grosso tonfo.
- Perché l'hai chiuso? - chiese la donna triste.
- Devo andare. Si è fatto tardi. - Era in preda all'ansia.
Presa la sua borsa, vi infilò l'album e, con un saluto veloce, uscì dal negozio.
- La accompagno. Alla prossima Melanie.
Fuori dal negozio, la strada era quasi deserta, e non mi fu difficile individuare Elizabeth che correva via. Usando tutte le mie forze, fino a sentire benissimo i battiti del mio cuore dalla fatica, raggiunsi la ragazza.
- Perché stai scappando?
- Non sto scappando - disse lei fermandosi a respirare.
- A me sembra di si.
- Hai visto il pugnale. - Era la sua risposta alla mia prima domanda.
- So che è tua madre la donna che abbiamo quasi investito. - Ormai era inutile nascondere ciò che avevo scoperto.
- Si. Non sono tornata a casa perché avevo paura.
- Paura di cosa? - le chiesi.
Alzò i suoi occhi, che fino a quel momento avevano guardato verso terra, su di me. Aveva appena detto qualcosa che non avrebbe dovuto.
Improvvisamente ricordai il grande livido viola che aveva cercato tanto di nascondere, e che aveva detto di essersi procurata cadendo dalle scale. - È stata tua madre a farti quel livido che avevi il giorno dopo?
Lei distolse lo sguardo.
- Sono caduta dalle scale.
- No, è stata lei. - Ne ero certo.
Vidi che stava per piangere e mi venne l'impulso di abbracciarla, così come facevo sempre con Heidi. Solo quando era troppo tardi per allontanarmi mi accorsi di ciò che che stavo facendo.
Contrariamente a quello che credevo, Elizabeth allargò le braccia e si appoggiò al mio petto.
Era piccolissima racchiusa tra di me. Decisi che non le avrei più chiesto niente di quella storia per un po', sembrava farla star male e per qualche strano motivo non mi piaceva vederla piangere o soffrire, mi faceva provare una stretta al cuore. Appoggiai una mano sopra i suoi capelli e la lasciai scivolare tra di essi. Lei alzò di colpo il petto, come singhiozzando. Le sussurrai che andava tutto bene, finché non si calmò.
Quando si scostò aveva gli occhi asciutti.
- Grazie - disse. - Sai sempre cosa fare. Non ho mai incontrato nessuno così.
- Davvero? Non credo. È già la seconda volta che mi ritrovo a rincorrerti in strada.
- È la terza volta che fai qualcosa per aiutarmi. Hai anche convinto Hannah a fare pace con me.
- Le ho solo chiesto il motivo della litigata! - esclamai. - Il resto lo ha fatto da sola.
- Grazie.
Vorrei dire che la nostra amicizia nacque quando Elizabeth mi portò al negozio per la prima volta, ma mentirei. Fu in quel momento che capii che, seppur c'entrasse con l'omicidio, la ragazza non avrebbe mai voluto che qualcuno morisse e, in tutti i modi, voleva riuscire a fidarsi di me, come io mi volevo fidare di lei.
- Forza, - dissi mettendole un braccio sulla spalle - andiamo a prenderci una cioccolata calda.


 

Il bar era molto carino. Aveva le pareti lilla e tavolini rotondi.
Una signora anziana con lo chignon bianco ci accolse con un grande sorriso e ci chiese cosa desideravamo.
La signora portò al nostro tavolino due grandi tazze di cioccolata fumante con qualche biscottino offerto da lei.
- Mi fa piacere - disse quando le feci notare che era stata molto gentile.
Dopo qualche minuto di silenzio passato a gustare la cioccolata, Elizabeth decise di parlare: - Hai ragione. È stata mia madre a farmi quel livido.
Mi scottai con il calore della bevanda.
- Non mi ha mai picchiata. Quel giorno era furiosa e non si è controllata, mi ha tirato uno schiaffo fortissimo, ma non voleva. Mi ha chiesto scusa.
- Perché era furiosa?
- Abbiamo litigato - mormorò.
- Tua madre non voleva che tu mi frequentassi, non è così? Mi ha detto di starti lontano.
- Ammetto che la discussione è iniziata da quello ma...Ti giuro che non sei stato tu a farla infuriare.
Sbuffai. - L'importante è che non si ripeta.
Elizabeth sorrise e scosse la testa. - Ne sono certa...e se anche volesse, cosa che non succederà, non potrà farlo per tutta la settimana.
- Dove vai? - chiesi curioso.
- Al Grand Canyon! - esclamò eccitata.
- Aspetta. Con la scuola? Parti lunedì e torni venerdì?
Annuì vigorosamente.
- Anch'io ci vado! - esclamai. - A Flagstaff, Hotel Cealum!
- È fantastico!
Quell'anno il mio liceo aveva deciso di far decidere ai ragazzi dove andare in gita: la scuola proponeva cinque luoghi, nei quali potevano poi andare al massimo cinquanta alunni dal secondo al quarto anno. Quelli del primo, facevano invece una gita proposta dai professori di un solo giorno.
- Allora mi tormenterai anche quella settimana? - Era quasi un invito.
- Certo che si.


 

Lunedì non tardò ad arrivare. Ci attendeva una lunga giornata. Sarebbero state molte ore di viaggio. La partenza era a Louisville, la città con l'aeroporto più vicino, poi avremmo fatto uno scalo a Houston dove si doveva aspettare un'ora, e infine l'arrivo era a Phoenix. Avremmo visitato un museo e poi saremmo partiti in pullman fino a Flagstaff, dove si trovava l'hotel nel quale avremmo alloggiato.
La mattina mi svegliai alle sei, con i capelli arruffati e gli occhi stanchi, quella notte non ero riuscito a dormire molto per l'emozione di vedere il Grand Canyon. Mi preparai di fretta, mangiando solo qualche uova di colazione e ricevendo più di una sgridata di mia madre che mi diceva di mangiare di più.
Quel giorno non passai a prendere Iris, ci saremmo incontrati in aeroporto. Per poco non dimenticai la valigia.
- Divertiti! - disse mia madre dopo avermi riempito di raccomandazioni per tutto il viaggio.
Scesi dalla macchina e corsi dentro.
Iris e Thomas stavano parlando in mezzo ad altri nostri compagni.
- Ehi! - li salutai.
- Sono così felice di andare a vedere il Grand Canyon! - esclamò Iris gesticolando.
Il professore di lettere passò tra di noi per contarci più di una volta. Infine si girò verso i colleghi invocando aiuto.
- Ragazzi! Facciamo l'appello! Ci metteremo un po' quindi state calmi e non muovetevi! - urlò all'improvviso un professore facendoci sobbalzare dallo spavento.
Mi misi tranquillo perché il mio cognome era quasi sempre l'ultimo.
- Brown - disse il professore.
Charles aveva smesso di dare fastidio a Iris da un po' di tempo, ma sapere che sarebbe venuto in gita con noi ci inquietò parecchio.
- Lane! - urlò all'improvviso il professore.
- Qui! - disse Thomas dopo essersi riscosso dallo scoprire che c'era Charles.
- Presente! - esclamò Elizabeth da un gruppo vicino al nostro.
Il professore si grattò il capo e ripeté il cognome d'apprima con il nome di Elizabeth e in seguito con quello del cugino, poi passò ad un altro.
Elizabeth venne trotterellando verso di noi seguita da Hannah.
- Cosa ci fai qui? - chiese Thomas.
- Ti seguo. - Sorrise.
- Ciao Thomas - salutò Hannah.
- Ciao.
Quando il professore si fu sgolato chiamando Hannah, me e Iris, andammo a fare il check-in.
Fortunatamente nessun alunno si perse per l'aeroporto e tutti salimmo sani e salvi sull'aereo qualche minuto prima della partenza.
Mi sedetti in mezzo ad Iris e Thomas. Elizabeth e Hannah si sistemarono dietro di noi.
Iris si spiaccicò contro il finestrino, subito pronta a guardare l'aereo alzarsi in volo.
Thomas invece aveva l'aria di stare per vomitare. - Perché mi sono fatto convincere? Io odio volare! Dovevo iscrivermi all'altra gita. Il Grand Canyon è un ammasso di roccie! Perché vi ho dato retta? - continuava a ripetere.
- Non siamo neanche partiti - gli dissi.
Si girò di scatto. - Lo so.
Quattro hostes passarono tra di noi e ci chiesero di legare le cinture.
Dopo qualche minuto l'aereo si alzò in volo tra le lamentele di Thomas.
Mezz'ora dopo Iris si stancò di guardare fuori e mise un film. Era una sciocca storia d'amore e alla scena del bacio Thomas si alzò per vomitare.
- Smettila di fare l'idiota - lo riprese Iris mentre lui correva nel bagno. - Non si vomita per un film d'amore.
- Penso che sia a causa del mal d'aereo - dissi io.
Thomas tornò verso di noi e un professore si fermò a chiedere se stava bene.
- Guarda che ti ho sentita. - Si sedette.
Iris spense il televisore, il film era finito.
Con un forte sobbalzo l'aereo atterrò, eravamo a Houston.
- Houston abbiamo un problema! Thomas ha contaminato tutti i bagni degli aerei - disse Iris ridendo una volta in aereoporto.
Dopo altre due ore, vedemmo finalmente Phoenix. Era una bella città, probabilmente dieci volte più grande di quella in cui vivevamo, ma ero stato spesso a Louisville e, anche se gli abitanti erano di meno, ero abituato a molte persone. Fortunatamente il tempo era soleggiato e limpido. Quando la scuola aveva deciso di partire l'ultima settimana di gennaio per risparmiare, avevamo tutti sperato che non piovesse.
Ci attendeva ancora tutto il pomeriggio perché dal Kentucky all'Arizona c'erano due ore di fuso orario, quindi i professori decisero di farci riposare un po'.
Da fuori l’Heard Museum era bellissimo. Si trattava di una struttura bianca con un portico, dietro ad un grande giardino verde. Prima dell'entrata era posta una statua degli indiani Navajo, vicino alla quale ci aspettava la guida. Era un uomo basso, sulla sessantina, con indosso un cappello di paglia.
- Benvenuti all'Heard Museum! - cominciò entrando.
A metà percorso si avvicinò a me Elizabeth. - Sei sopravvissuto al viaggio?
- Io si, tuo cugino ha vomitato un paio di volte.
- Lo so. Ho detto ad Hannah che se proprio vuole baciarlo, almeno deve aspettare domani - disse ridendo.
- Vuole baciarlo?
Lei alzò le spalle. - Spero di no, che spettacolo raccapricciante.
Risi. - In effetti.
Il professore di lettere ci riprese.
Passammo per un gradino che Elizabeth non vide, finendo per scivolare. Fortunatamente riuscii a prenderla prima che cadesse. Arrossì tra le mie braccia, imbarazzata.
- Che figuraccia.
- Ne ho viste peggiori.
Iris e Thomas passarono in quel momento dal gradino e lei, nello stesso modo di Elizabeth, non si accorse e cadde. Thomas non fu pronto a prenderla.
- Sei proprio cieca per non vedere un gradino simile! - esclamò lui quando la vide con la faccia a terra.
Elizabeth e io tornammo a seguire la guida.
- A proposito, dov'è Hannah? - chiesi.
- Stava parlando con una nostra compagna di corso - disse noncurante. - Sai già con chi dividerai la camera?
- Con Thomas.
- Iris è da sola? - domandò sistemandosi una ciocca di capelli biondi.
- Penso sia con quella sua amica del corso di francese.


 

Le ore passarono in fretta e il tour del museo finì. Quando ne uscimmo un pullmam ci aspettava per condurci a Flagstaff.
L'hotel era un grosso edificio di sei piani con i mattoni visibili. All'interno, la hall era lussuosa, le pareti e alcuni mobili erano bianchi ma sulle prime erano presenti ghirlande azzurre. C'era una grande scala che portava ai piani superiori; l'ascensore era invece nascosto.
Alla recepcion, il signor Lyon, che era più un ragazzo che un signore, ci accolse benissimo.
- Ehi ragazzi! - esclamò.
Aveva i capelli castani e la barba che nascondeva un sorriso amichevole. Era vestito di blu e bianco, in tema con l'ambiente e il nome dell'albergo.
- Siete la scuola? - chiese.
Annuimmo tutti.
- Chi vuole le chiavi della camera? - Tirò fuori un mazzo.
Alcuni ragazzi si gettarono su di lui.
Alla fine anche io e Thomas riuscimmo a ricevere le chiavi.
Iris e due amiche con cui condivideva la stanza vennero a chiederci a quale piano eravamo.
- Quarto piano, camera 412 - risposi.
- Quarto piano, camera 408 - disse Iris sorridendo.
Il professore di lettere si inserì tra noi. - Ragazzi siete al quarto? - chiese.
Annuimmo.
- Bene, anch'io sono al quarto piano con il professor Smith. Al quinto ci sono gli altri colleghi. Siamo tutti a quei due quindi non vi voglio vedere girare per gli altri, dato che non ce n'è motivo. - Sospirò e allontanandosi prese la sua valigia.
Elizabeth venne all'improvviso sventolando le sue chiavi. - Camera?
Le risposi come avevo fatto con Iris.
- Anch'io! Quarto piano, stanza 404.
Prendemmo la valigia e salimmo tutti sull'acensore. Una musichetta leggermente triste accompagnò tutta la salita.
Tlin. Le porte si aprirono.
Due corridoi si aprivano davanti a noi come un piccolo labirinto azzurro. Dopo qualche passo nel vuoto trovammo le camere.
La camera mia e di Thomas era completamente azzurra. C'erano tre letti, due posti uno vicino all'altro e il terzo era in orizzontale rispetto agli altri. Il bagno era a sinistra della porta.
Mi stesi su un letto. - Questo è mio.


 

Angolino dell'autrice: Buona sera a tutti! Come al solito spero che questo capitolo vi piaccia. Fatemelo sapere anche con quelle recensioni minuscole che arrivano per messaggio privato, l'importante è che vi fate vivi. Vi pregoooo *occhi da cucciolo*. Ci vediamo presto! :)

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Capitolo 10
*** Il Grand Canyon ***


Capitolo 10: Il Grand Canyon

La mattina dopo la sveglia suonò alle 7.30. Alzarsi fu una fatica perché la gravità ci spingeva tra le coperte. Fu solo il violento bussare alla porta di Iris a farmi alzare.
Le aprii passandomi una mano sul volto. - Che ci fai qui? - chiesi.
Iris mi guardò dalla testa ai piedi. - Sei in pigiama.
- Non dormo con i jeans.
- Sei ancora in pigiama - si corresse. - Alle otto si parte con il pullman per il Grand Canyon!
Mi voltai a guardare Thomas che era ancora a letto e si copriva con la coperta. Iris percorse tutta la stanza a grandi falcate e scoprì Thomas.
- Ti odio - disse semplicemente lui.


 

Il pullman saltellava sulla strada che divideva Flagstaff dal Grand Canyon. Thomas, che sedeva quattro posti lontano da me per il nostro ritardo, aveva un cornetto in bocca e la camicia abbottonata male e di fretta.
Iris era seduta vicino a me, separata solo dal corridoio. Mi guardai intorno in cerca di Elizabeth, senza però vederla.
- Elizabeth è davanti a Thomas - disse Iris sorridendo.
Si zittì e tenne d'occhio il professore per un po', infine la vidi alzarsi e camminare in fretta fino a lui. L'insegnante di lettere la guardò preoccupato, si girò verso qualcuno e lo fece alzare. Una testa bionda chiese ad Iris se stava bene e poi si diresse verso il retro del bus, mentre la rossa prendeva il suo posto.
Elizabeth si sedette di fianco a me.
- Mi dispiace che Iris abbia la nausea. - Era dispiaciuta.
Stavo per dirle che la mia amica non aveva la nausea ma poi capii: Iris aveva detto al professore che stava male per sedersi al posto di Elizabeth e fare in modo che lei venisse da me. Ma come avevo fatto a trovare un'amica così fantastica?
- Oh si - dissi. - Ma vedrai che quando arriviamo le passa.
Mi resi conto di non aver pensato alla magia da quando eravamo partiti. Avevo passato la settimana precedente alla gita a pensarci, a cercare di capire cosa stava succedendo, a diventare pazzo, e poi era tutto scomparso dalla mia testa fino a quel momento.
Il ragazzo seduto di fianco a me chiese ad Elizabeth se voleva stare al suo posto, così avremmo potuto parlare meglio. Lei lo ringraziò e accettò di buon grado.
Si alzò dal posto e sfilò davanti alle mie gambe, fino a farsi cadere vicino al finestrino.
Le nostre mani si incontrarono e lei scostò subito la sua, non permetendo neanche alla mia pelle di sentirne il contatto.
Mi guardai intorno e, assicuratomi che nessuno ci ascoltasse, le dissi: - Ci ho pensato Elizabeth, ho bisogno di parlare con te di quello che è successo.
Lei mi squadrò, non capendo o forse facendo finta di non farlo.
- Vorrei parlare del cane che mi ha attaccato.
- Matthew non posso farlo - mormorò lei agitandosi.
- Perché?
- Mia madre... - Iniziò a martoriarsi le mani.
- Sai che puoi fidarti di me - la incitai.
Non disse nulla e continuò a stringere una mano intorno all'altra.
- Elizabeth cosa sai della magia?
Silenzio, solo il rumore dei ragazzi intorno a noi, e quello delle mani della ragazza che fregavano tra loro.
Gliene presi una e la tenni stretta. - Smettila, ti farai del male.
Lei sospirò.
- Ti racconterò tutto - disse infine.
Io mi sistemai sul sedile del pullman per ascoltare tutta la storia, rivolgendole uno sguardo attento.
- Un momento Matthew. Non così in fretta.
Sbuffai come un bambino piccolo che si arrabbia con la mamma perché non vuole raccontargli subito la storia della buona notte.
- Oggi te ne racconterò un pezzo e, se mi darai prova di aver capito, ti racconterò il resto.
- Ehi! Non è corretto.
- Nulla è corretto - rispose malinconica.
- E cosa devo fare per mostrare di aver capito? - chiesi.
- Oh niente. Lo capirò io.
- È ancora più scorretto.
- Io non direi - disse ridendo. - Se ti va bene, la legge è questa.
Sospirai. - Racconta.
- Per cominciare, ti racconterò una leggenda. Comincia dal gennaio del 1404. - Il suo sguardo si perse nel finestrino mentre parlava. - In quel periodo in Francia e in Inghilterra infuriava la guerra dei cent'anni. In questo clima che William Lane e Jaqueline Reigner si innamorarono. I genitori di William si erano trasferiti in Francia da qualche tempo, consapevoli di rischiare molto. Ai due ragazzi non importava della rivalità dei loro paesi, non gli importava nulla di ciò che stava accedendo. Si sposarono e diedero alla luce una bellissima bambina di nome Beth. Le cose per i due non andarono bene, perché morirono entrambi di febbre non appena la piccola compì dieci anni. Mano a mano che il tempo passava, Beth divenne molto povera e fu costretta a diventare la serva di molti uomini ricchi. Si prese cura di un medico e apprese da lui i segreti delle erbe e, quando compì diciotto anni, venne assunta come domestica da Clémant Guibeux. Costui era un uomo ricchissimo con il doppio dei suoi anni, che non ci mise molto ad incominciare a corteggiarla. Beth era inesperta e cadde tra le sue braccia troppo facilmente. Non appena si accorse di essere rimasta incinta, andò a parlare a Clément per informalo. Lui però aveva lasciato la casa e si era trasferito per tutta l'estate in un luogo più fresco. Dopo che nessuna delle altre serve le volle dire dove si trovava questa casa, per gelosia, pensò lei, decise che avrebbe aspettato il suo ritorno. I mesi trascorsero e la gravidanza avanzò. Clémant tornò nella sua casa ad ottobre, quando Beth era incinta dell'ottavo mese. Lei lo informò di quello che era accaduto e l'uomo, che era già a conoscenza della gravidanza, le disse che il motivo per cui era andato via per tutta la primavera e l'estate, era proprio quello. Sperava infatti che Beth si scoraggiasse e andasse via. - Sospirò. - Ma la donna era troppo innamorata di lui, delle parole dolci che le aveva riservato e di tutte le promesse che le aveva fatto, per andare via. Clémant chiamò una levatrice per far abortire Beth, la quale però riuscì a fuggire in tempo. Non riuscendo ad uccidere la creatura che aveva generato, l'uomo decise di uccidere la donna che aveva illuso e sfruttato. La accusò di stregoneria e di averlo indotto ad amarla con un filtro d'amore; il tribunale riuscì a prenderla e a dedicarle un processo. Tutto era a sfavore di Beth, che creava medicine con le erbe e portava in grembo il figlio di un uomo che non era suo marito, in più era la figlia di un inglese ed era povera, motivazioni non sufficienti oggi, ma molto per l'epoca. Il tribunale decise che Beth sarebbe morta sul rogo la settimana seguente. Il giorno prima la donna cominciò il travaglio e riuscì a partorire una splendida bambina chiamata Suzanne. Beth fu portata al rogo, ma prima che il fuoco venisse acceso, urlò una maledizione. "Io vi maledico" disse. "Maledico tutti gli uomini di questo mondo. Tutti gli uomini che si metteranno sulla strada di mia figlia e delle sue nipoti. Quando ingannereto loro, come avete ingannato me, esse vi uccideranno. Sarà l'ultima azione sbagliata che compirete perché le mie figlie vi perseguiteranno, vi inganneranno e saranno la vostra rovina. E poi vedremo, come ci si sente a stare dall'altra parte del manico." -
Elizabeth chiuse gli occhi poi si girò a guardarmi.
- Conosco questa leggenda - le dissi. - Me l'ha raccontata una volta Thomas, ma lui non sapeva le parole di Beth a memoria.
- È da più di un secolo che la mia famiglia se la tramanda - spiegò. - Mi dispiace che tu la conosca, perché per oggi non avrai altro - disse poi ridendo.
- Cosa? Così poco? - esclamai.
Lei annuì.
- E Suzanne? Cosa ne è stato di lei?
- Lo saprai la prossima volta.
Il pullman passò vicino ad alcuni alberi.
- È questo il motivo per cui odio essere chiamata Beth. Non condivido le scelte di quella donna - mormorò.
Ci fu un grosso sobbalzo e una frenata che fece cadere tutti in avanti. Eravamo arrivati al Grand Canyon National Park. I professori ci fecero scendere e riunire in un gruppo.
Iris si avvicinò a me e mi fece l'occhiolino, mentre Thomas aveva ancora la camicia abbottonata male. La rossa si avvicinò a lui e sbuffò, allacciandogli la camicia. Trattenni un risata per la scena e poi fui pervarso da un'immensa tristezza: non sarebbero più capitati momenti del genere tra qualche mese.
La mia vita stava andando a meraviglia prima dell'inizio dell'anno nuovo. Iris e Thomas avevano progettato di frequentare la mia stessa università, ci eravamo iscritti senza farlo sapere a nessuno e, quando avevamo scoperto di aver mandato la domanda di ammissione alla stessa scuola ne eravamo stati felicissimi. Anche con mio padre non stava andando poi così male.
Ora invece non ero nemmeno sicuro che sarebbe stato possibile vedere ancora Iris, lei che era l'unica persona alla quale potevo parlare di cose private senza paura di un giudizio, perché la pensava sempre come me. E mio padre avrebbe avuto un altro figlio di cui occuparsi per ricordarsi anche solo che io esistessi, non che mi importasse. Perché era dovuto succedere?
Mi voltai a guardare i miei amici e mi avvicinai a loro. Thomas era così spensierato, non avrebbe avuto nulla che potesse disturbarlo finché Iris non gli avesse raccontato ogni cosa.
Presi la ragazza per un braccio e la allontanai da Thomas con un falso sorriso, in tutta risposta ottenni un sopracciglio alzato che chiedeva spiegazioni.
- È il momento giusto per dirlo a Thomas - le consigliai.
- Come lo sai? - chese lei agitata.
- Cosa?
- Cosa?
- Del trasferimento - spiegai.
- Oh! - esclamò. - Non adesso! Non voglio una scenata davanti a tutti.
Si allontanò sistemandosi i capelli.
Una guida di nome Stacy si avvicinò a noi e ci chiese cosa sapevamo del Grand Canyon. Nessuno sapeva niente. Stacy si illuminò e decise che sarebbe stato ancora più divertente. Era una delle poche guide fiere del loro lavoro, sembrava il professore di lettere. Con un grosso sorriso si diresse verso le prime roccie.
Il Grand Canyon era fantastico, ogni singola roccia era bellissima. Guardai tutto trattenendo il fiato e la pausa pranzo non tardò ad arrivare.
Ci fermammo vicino ad una piccola cascata e Stacy ci permise di sederci sulle rocce.
Scartai il panino che mi ero preparato quella mattina e mi passò subito la fame.
- Scusa. Devo averlo schiacciato quando mi sono seduta vicino a te - disse Elizabeth sedendosi sulla roccia vicina.
Le dissi che non importava e addentai il mio panino al prosciutto che, nonostante la forma, non era affatto male.
La cascata produceva un rumore rilassante.
- Il cognome di Beth è Lane.
- Non è un caso - disse Elizabeth.
- Era una leggenda per spaventare la tua famiglia.
- Esatto.
- Ma perché vi chiamate ancora Lane? Sono trascorsi più di seicento anni.
- Già. È buffo, ma è un caso.
Non lo era. Nella mia testa quella che mi aveva raccontato non era affatto una leggenda, nonostante lei non volesse dirmelo Anche se forse mi sbagliavo.
- Di cosa parlate? - chiese Iris avvicinandosi e fissando il mio panino.
- Nulla - dicemmo all'unisono io ed Elizabeth per poi scoppiare a ridere.
Vidi Hannah avvicinarsi, abbracciò Elizabeth da dietro e poi si sedette vicino a lei.
Si coprì la bocca e sussurrò qualcosa all'amica, la quale sgranò gli occhi. La bionda si alzò dal masso e trascinò via Hannah.
Iris mi chiese cosa avevano da nascondere quelle due.
- Hai parlato con Thomas?
- Non ho visto Thomas da quando Clare... - Che era la sua compagna di corso di francese - ...si è avvicinata a me.
In realtà non avevo pensato ai miei amici per tutta la mattina, preso com'ero dal Grand Canyon.
- Credevo foste dietro di me - dissi.
Lei annuì. - Io ero dietro di te. Thomas non lo so.
Decisi di andare a cercarlo. Mi feci strada tra una ventina di ragazzi buttati per terra, seduti sulle roccie o sui propri zaini. Girando intorno alla cascata riuscii a trovare Thomas, che era seduto vicino ad essa, mangiando il suo panino al salame, che io avevo preparato per lui.
- Dov'eri finito? - esclamò. - Ho fatto una cazzata.
Mi lasciai cadere vicino a lui e mi passai una mano tra i capelli.
- Hannah - cominciò.
- Sapevo che c'era di mezzo lei.
- Mi ha baciato e io non ho fatto niente per allontanarla - spiegò.
- Be' è carina. Perché dovresti aver fatto una cazzata? - chiesi confuso.
- Perché io non sono innamorato di lei. Non sono il genere di persona che bacia le ragazze come passatempo, non voglio ferire nessuno.
Rimasi zitto per un po' poi dissi: - Questo ti fa onore, Thomas.
Era naturale che la pensasse così, c'erano state tante delusioni d'amore in famiglia, che non poteva neanche pensare a baciare le ragazze per sport come faceva Charles. Forse era anche per questo che quei due si odiavano.
Stacy si avvicinò a noi e ci mise una mano sulle spalle, esortandoci a ritirare tutto per tornare alla nostra escursione.
Alzandomi, tesi la mano a Thomas e lui l'afferrò, accettando il mio aiuto per alzarsi.
Ci avvicinammo al gruppo di ragazzi che si era già riunito e ne riconobbi all'interno Elizabeth e Hannah. L'amica della cugina di Thomas si accorse della nostra presenza e venne verso di noi, sorridente. Si avvicinò al mio amico e gli diede un bacio sulla guancia.
- Hannah... - cominciò lui.
Elizabeth gli lanciò uno sguardo ammonitore che voleva significare: "Non ferirla, sei migliore di così".
- ...ho bisogno di parlarti - terminò.
- Questa sera - disse Hannah non capendo di ciò che si trattava, non si accorse neanche dello sguardo di Elizabeth e del tono di voce di Thomas.


 

Anche il pomeriggio passò in fretta e fu presto sera. Il sole calò lentamente e fu uno spettacolo magnifico. Eravamo tutti sopra una roccia, a guardarlo, riempendo i nostri sguardi di meraviglia. Era tutto arancione intorno a noi. Il tramonto più bello che avevo mai visto.
Iniziò a diventare buio e ci avviammo verso il pullman per tornare in hotel, avevamo camminato così tanto da essere stanchissimi.
- Mangiate e poi venite con me - disse Stacy quando arrivammo dove l'autobus ci aveva lasciati.
Ci voltammo tutti sgranando gli occhi, non era sicuro girare per il Grand Canyon di notte.
- Non abbiamo il cibo - si fece coraggio di dire qualcuno.
Stacy aprì il suo zaino e ci distribuì altri panini. - Ragazzi, sbrigatevi. Devo mostrarvi qualcosa di ancora più incredibile del tramonto.
Stanchi, ci lasciammo cadere per terra. Sbuffai, avrei voluto sedermi sul mio letto.
Improvvisamente mi riscosse il forte rumore di uno schiaffo.
Mi voltai verso di esso e mi accorsi che era stato indirizzato a Thomas.
- Scusa - disse il ragazzo.
Hannah corse via.
Mi precipitai da Thomas, accorgendomi che tutti lo fissavano.
- Cosa cavolo è successo? - chiesi.
Iris si avvicinò a noi, chiedendo spiegazioni.
- Iris non è successo niente.
- Voglio sapere perché Hannah ti ha tirato uno schiaffo. - Strinse i denti.
- Non è importante.
- Se non vuoi dirmelo tu, lo chiederò a lei. - Si girò e iniziò a camminare verso Hannah, che era stata raggiunta da Elizabeth.
Thomas imprecò.
Mi sembrò strano che non volesse dire a Iris il motivo della reazione di Hannah, ma non gli diedi tanto peso.
- Ha reagito male -dissi.
- Malissimo. Le ho detto che non avrei voluto rispondere al bacio, ma era impossibile non farlo. Ha cercato di tirarmi uno schiaffo, ma le ho detto di aspettare e di sentire prima tutto quello che avevo da dirle. Le ho spiegato perché non sono innamorato di lei e mi ha fatto alcune domande, ho mentito e Hannah se n'è accorta. Così...
- Ti ha schiaffeggiato.
- Ha fatto bene. Anche se mi sembra di essere un pungball degli ultimi tempi. - Rise.
Iris tornò dopo pochi minuti e si mise a ridere a sua volta. - Devo dire che Hannah ha tutto il mio appoggio.
Il mio amico si voltò di scatto, non accortosi prima della presenza di Iris. - Ti ha detto...?
- Cosa? Che l'hai illusa e l'hai trattata male?
- Io non l'ho illusa! Le ho parlato chiaro. E prima non le dimostravo interesse! - esclamò. - Comunque non era a questo che mi riferivo.
- Mi ha parlato solo di quanto tu sia stronzo. - Ci pensò un po' su. - Ha ragione.
Il professore di lettere interruppe la nostra conversazione per chiedere a Thomas cosa era successo e se doveva fare qualcosa. Lo rassicurammo dicendo che andava tutto bene.
Stacy ci chiamò.
Presi Iris e Thomas per le spalle e li portai verso la guida, che ci fece sdraiare su alcune coperte.
Guardai il cielo sopra di me, che era costellato di stelle. Da piccolo, a circa cinque anni, credevo che di notte venisse posta una coperta nera sul cielo e che le stelle fossero dei buchi che si erano formati con il tempo, da cui usciva la luce del sole che era stato nascosto. In quel momento, sapevo che le stelle non erano affatto buchi nel cielo e che nessuna coperta era così grande da coprire l'interna superficie terrestre, ma se fosse esistita avrei voluto che non fosse mai tolta, perché il cielo era bellissimo. Sentii un brivido di freddo quando qualcuno si stese vicino a me, ma ero troppo affascinato a guardare la stella polare che non mi voltai a vedere chi era.
- Quando ho scoperto che la seconda stella a destra non esisteva ci sono rimasta malissimo - disse la voce di Elizabeth vicino a me indicando la stella polare.
Mi voltai a guardarla negli occhi e lei fece lo stesso. I suoi capelli erano un groviglio, adagiati sulla coperta e i suoi occhi brillavano al buio.
- Avevo 10 anni - disse.
Trattenni un sorriso.
- Non sono una stupida - disse. - Ma desideravo così tanto che Peter Pan venisse a rapirmi, che non mi sono mai fermata a pensare che quella stella fosse stata inventata.
- Tutti volevamo andare nell'Isola Che Non C'è - la rassicurai.
- È diverso, Matthew. Io avevo un'ossessione verso quell'isola. Tutti i miei problemi sarebbero svaniti restando per sempre bambina. Odiavo Wendy e la odio ancora. Il motivo è che non è rimasta con Peter anche se avrebbe potuto. Non mi interessa del senso della sua scelta e tutte le baggianate che raccontano sul crescere. - Sospirò. - Ancora oggi mi trovo a desiderare che Peter venga a prendermi. Sono disposta anche a crescere, ma voglio andare via di qui.
Un ciuffo di capelli le cadde sugli occhi, così alzai una mano e lo scostai. Lei sorrise.
"Sarò il tuo Peter Pan" disse una vocina dentro di me senza controllarsi. Arrossi, non era opportuno ripere quella frase ad alta voce.
In silenzio, tornammo a guardare le stelle finché Stacy ci annunciò che dovevamo andare in albergo.



Angolino dell'autrice: Innanzi tutto vorrei scusarmi per il leggero ritardo, ho avuto molto da fare e non riuscivo mai a trovare un minuto per scrivere. Seconda cosa: in questo capitolo ci sono tantissimi dialoghi, quindi mi scuso di nuovo, però erano davvero fondamentali. Bene, ciao a tutti! Come vi è sembrata questa escursione al Grand Canyon? Thomas e Hannah? Secondo voi perchè lui non è interessato a lei? Fatemi sapere cosa ne pensate nelle... *rullo di tamburi* ...RECENSIONI! A presto!

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Capitolo 11
*** Il luna park ***


Capitolo 11: Il luna park

Il giorno dopo l'escursione al Grand Canyon passò in fretta. Visitammo alcuni musei a Flagstaff. Quando alla sera passammo di fianco ad un insegna che annunciava un luna park nella città vicina, mi avvicinai ai professori e chiesi loro il permesso di andarci quella sera. Il mio prof di lettere ce lo concesse subito e anche gli altri colleghi furono d'accordo, non vedevano l'ora di avere un minuto per loro.
- Thomas! - chiamai il mio amico che era qualche passo più avanti di me.
Lui si voltò.
- Sta sera si va al luna park.
Qualche ora dopo io e i miei amici ci trovavamo in una piazza piena di luci e di attrazioni. Alcuni bambini urlavano eccitati a bordo delle montagne russe, due ragazzi cercavano di vincere un premio per le loro fidanzate e una donna incinta e suo marito si tenevano per mano ridendo. Alla vista di quell'ultima scena pensai a Charlotte e mio padre. La prima volta che avevo visto quella donna lei era stesa sul divano di casa mia. Mio padre era chinato verso di lei e la stava baciando. Silenziosamente avevo risalito le scale e mi ero chiuso in camera mia, aspettando che tutto finisse. Sapevo che mio padre credeva che io fossi fuori casa, dovevo essere da un amico. Io come uno stupido avevo creduto di fargli una sorpresa, comparendo dalla mia stanza. Di certo non mi aspettavo che tornasse a casa con una donna. Una volta che Charlotte se ne fu andata, scesi di fretta le scale e uscii dalla porta principale. Bussai.
Iris mi riscosse da quei brutti ricordi e mi offrì dello zucchero filato blu.
Lo presi senza pensarci due volte.
Passeggiammo attraverso le attrazioni il tempo necessario per finire di mangiare il dolce.
Un signore barbuto si avvicinò a noi e ci sfidò a buttare giù tutti i bersagli con una sola pallina. Non potevamo certo rifiutare, così, io, Thomas e alcuni ragazzi che avevamo conosciuto quella mattina in hotel, offrimmo i nostri soldi al signore, che ci mise in mano una palla gialla ciascuno.
Cominciò un ragazzo che ricordavo vagamente si chiamasse Henry, che buttò giù due dei cinque bersagli posti uno dietro l'altro. Il signore barbuto rise e gli offrì di riprovare. Henry decise che era meglio lasciare perdere quando Frank, del suo nome ero sicuro, buttò giù un solo bersaglio. Una ragazza che si chiamava Margo, partecipò dopo aver scoperto che erano in palio due peluche da collezione che cercava da anni, riuscì a buttare giù quattro bersagli e riprovò. Con un po' di tristezza, il proprietario del gioco le regalò un peluche. A quel punto, fu il turno mio e di Thomas. Buttai giù quattro bersagli e mi voltai a guardare il mio amico.
Iris venne verso di noi. - Thomas! - esclamò. - Se vinci quel peluche - disse indicando un orsetto, - ti passo tutte le risposte della verifica di matematica.
Thomas sorrise, fece roteare il braccio e vinse l'orso.
- Prenderò una B! - urlò di gioia.
Poco dopo Elizabeth propose di andare sulle montagne russe. Frank, il forse Henry, la ragazza collezionista e altri annuirono.
Insieme ci dirigemmo verso l'attrazione mal messa. Era composta da una decina di vagoni da quattro posti ciascuno. Ci sedemmo tutti e partimmo, d'apprima andavamo piano e poi, dopo aver raggiunto una salita, ci buttammo in picchiatta nel vuoto. Il vento scompigliava i capelli alle ragazze sedute davanti a me e non riuscii a vedere nulla. Per essere un'attrazione del luna park, fu piuttosto divertente.
Passeggiammo ancora per un po' prima di entrare nella casa della paura. Era un'attrazione a forma di villa, sicuramente difficile da montare, al cui interno c'erano tre diversi percorsi da seguire. In ciascuno di essi si doveva camminare per la casa al buio e cercare di non rimanerci secchi quando qualcosa ti toccava la spalla. Il signore che ci vendette i biglietti ci avvisò che all'interno della villa ci avrebbero diviso a coppie.
Entrammo tranquillamente nella prima stanza della villa, che era illuminata. C'era un grosso lampadario al centro e due insegne indicavano di sederci per terra, vicino ad una freccia. Dopo aver fatto come ci dicevano e aver azionato la freccia, essa iniziò a ruotare e si fermò vicino a Frank. Riprese a ruotare per poi indicare un altro ragazzo. I due amici si batterono il cinque e una porta si aprì, indicando che dovevano entrare.
- Vi aspettiamo fuori, alla biglietteria - dissero prima che la porta si chiuse dietro di loro.
La seconda coppia a partire fu quella formata da Henry e Margo. Velocemente andò via metà gruppo, tra cui Hannah, Iris e Thomas.
La freccia ruotò velocemente e si fermò davanti a me. Sorrisi e attesi che mi venisse indicato con chi dovevo andare. La freccia fece per fermarsi davanti a un ragazzo ma, dopo aver incespicato un attimo, andò dritta davanti ad Elizabeth.
Presi per mano la ragazza e attesi che una porta si aprisse. La seconda.
Davanti c'era solo buio e silenzio. Dopo aver fatto un passo, la porta dietro di noi si chiuse e ci ritrovammo nell'oscurità più completa. Udimmo un urlo ed Elizabeth strinse la mia mano.
- È buio - disse.
Annuii, poi, sapendo che non poteva vedermi, lo dissi ad alta voce: - Si.
Avanzammo lentamento e sentii qualcosa toccarmi una spalla. Mi voltai e una luce rossa illuminò uno scheletro. Chiusi gli occhi, spostai la mano dello scheletro e incitai Elizabeth ad avanzare.
La ragazza urlò un paio di volte di terrore finché decise di chiudere gli occhi e farsi guidare da me.
- Scusa Matthew. Sono un peso morto. Ma non avrei mai pensato che questo posto fosse così inquitante - si scusò.
- Non fa niente - dissi.
Era strano che Elizabeth, dopo aver visto un uomo morire davanti ai suoi occhi, avesse paura di quei manichini, anche se erano piuttosto realistici.
Passammo davanti ad una bara. Iniziò ad agitarsi e si aprì davanti a noi. Il morto urlava e sentii Elizabeth aggrapparsi alla mia maglietta con forza, se non l'avessi avuta addosso mi avrebbe probabilmente graffiato.
Mi ritrovai a toccare un gradino con la punta delle scarpe.
- C'è una scala - dissi più a me stesso che ad Elizabeth.
Lei confermò.
- Aggrappati alla ringhiera perché in queste case le scale finiscono sempre per rivelarsi tranelli. Può darsi che si trasformerà in uno scivolo dopo cinque gradini.
- La ringhiera è viscida - disse la ragazza dopo averla toccata.
Posai la mano sul ferro che fungeva da corrimano e mi accorsi che Elizabeth aveva ragione. Una sostanza bagnata e viscida non permetteva che ci aggrappassimo ad essa. Sospirai nel buio e controllai se c'era qualcos'altro che potessimo usare. Non trovai nulla a parte un grosso cranio che evitai di far toccare ad Elizabeth.
Non credevo che la scala sarebbe diventata uno scivolo dopo davvero cinque gradini, ma indovinai. Il legno sopra cui stavo camminando si appiattì e si inclinò per sbalzarmi all'indietro.
Sebbene misi avanti la mani, battei comunque la testa mentre Elizabeth scivolava su di me.
- Aia! - esclamai.
- Scusa! - Si voltò e riuscii a vedere i suoi occhi verdi ad un passo dai miei. Il suo respiro era sulla mia guancia.
Si mosse di nuovo, per cercare di rialzarsi, e sentii i suoi capelli sul mio collo, i quali, invece di darmi fastidio, strisciarono sulla mia pelle facendomi provare un piacevole solletico.
- Cosa stai facendo? - chiesi.
La ragazza si scusò di nuovo mentre appoggiava una mano alla mia coscia e si tirava su.
Qualcosa di grosso strisciò sulla mia mano.
- Elizabeth, ce la fai a tirarti su? - Doveva sembrare una lamentela, ma le parole che uscirono dalla mia bocca avevano un tono dolce e preoccupato.
- Sono in piedi - rispose lei.
Il corpo passò ancora una volta vicino a me.
Mi alzai di scatto mentre Elizabeth si irrigidiva.
- Non preoccuparti è un manichino.
Un ringhio.
Quello che doveva essere un grosso cane iniziò ad abbaiare.
- È lui. - Elizabeth si lasciò sfuggire un grido. - Va-t'en!
Il cane smise di abbaiare qualche secondo, permettendo ad Elizabeth di prendere il suo cellulare e di illuminare la stanza.
L'essere che ci trovavamo davanti era simile al cane che mi aveva attaccato la settimana prima, ma più grosso e più scuro.
Cominciai a sudare, sapendo che non avevamo modo di scappare da lì. Quel mostro ci avrebbe ucciso e si sarebbe divertito con i brandelli dei nostri corpi.
- Elizabeth! - urlai. - Dobbiamo fermarlo.
- Credi che sia facile? Non mi ascolta. Lui non sa chi sono, non mi teme come il cane che abbiamo visto a casa tua.
Quel cane aveva paura di lei? Perché?
Non capivo, ero paralizzato dal terrore. In confronto a quel cane, i manichini di quella casa avrebbero potuto essere presi per far ridere dei neonati.
Il mostro ringhiò di nuovo, ancora e ancora. Aspettava il momento giusto per attaccare.
In un gesto disperato, afferrai Elizabeth per il polso e iniziai a correre. Non sapevo quanto potevamo andare lontani considerato che quel cane era anche veloce, viste le zampe che aveva. Sentii un grido provenire da sinistra e per poco non mi fermai. Era la voce di Iris, che era entrata nel percorso alla nostra destra. Possibile che avessi perso il senso dell'orientamento, che le scale non fossero state dritte o che stavamo tornando indietro? Correre al buio era davvero difficile.
Inciampai nel sarcofago di una mummia ed Elizabeth iniziò a tirarmi. - Più veloce, forza. Non voglio vederti morire a causa mia.
Allora era davvero così. Se quel cane mi avesse preso non sarebbe rimasto nulla di me, solo un ricordo.
- Non è dignitoso morire in un'attrazione del luna park. Poi tutti crederanno che sono un fifone - dissi per cercare di infondermi un po' di coraggio.
Svoltammo a destra, questa volta per davvero, e corremmo ancora qualche metro.
- Una luce! - sentii urlare Elizabeth quando le gambe mi fecero davvero male.
Non sapevo se quel cane avrebbe smesso di seguirci una volta fuori di lì, ma era giusto tentare. Uscimmo ancora correndo e non ci fermammo neanche quando una donna si parò davanti a noi per scattarci una foto.
- Nuovo record! - la sentimmo gridare eccitata, ma eravamo già lontani.
- Ragazzi! - esclamò Thomas correndo verso di noi. - Cosa state facendo?
Ci fermammo di colpo e, dopo esserci scambiati uno sguardo veloce, io ed Elizabeth ci voltammo a vedere se il cane ci seguiva. Fortunatamente, non ce n'era traccia.
Ci avvicinammo alla donna con la macchina fotografica, che ci informò che avevamo fatto un nuovo record. Nessuno era mai stato così veloce. Insistì quindi per scattarci una foto e noi accettamo. Elizabeth si mise di fianco a me e notai che il suo cuore batteva ancora a mille, le feci passare un braccio dietro le spalle e la strinsi. Il flash ci indicò che la foto era stata fatta.


 

Era quasi mezzanotte quando ci mettemmo sulla strada dell'albergo. Io ed Elizabeth camminavamo lentamente e in silenzio dietro agli altri. La strada diventava sempre più buia man mano che ci allontanavamo dalle luci del luna park. Hannah si accorse di noi e si fermò, aspettando che la raggiungesimo, poi si mise a camminarci a fianco.
- Stai bene? - chiese alla sua amica.
Lei annuì. - Si.
- Mi sembri triste - disse.
- Non sono triste. Sono... - Si voltò a guardarmi - ...confusa.
Hannah mi chiese cos'era successo con gli occhi. Io scossi la testa.
- D'accordo. Mi racconterai in camera. - Poi si mise a sussurrare sperando che non la sentissi , ma senza successo. - Hai ragione sul bacio di me e Thomas. Sono stata troppo avventata e lui non meritava quello schiaffo. Ne parliamo dopo.
Si allontanò lasciandoci nel silenzio per diversi minuti, poi Elizabeth sbuffò.
- Dopo oggi, hai diritto alla tua parte di storia - disse.
Mi misi in ascolto senza dire una parola.
- Dopo che Beth fu bruciata, sua figlia venne lasciata in strada a morire. Una donna sterile si era mostrata interessata a portarla con sé ma, dopo che la voce della maledizione prese piede, nessuno volle più una bambina destinata ad essere un'assasina. Il fato portò una donna del paesino confinante a passare di lì quella notte. Vide la bambina e, non essendo a conoscenza della maledizione, le salvò la vita, scaldandola dal freddo e sfamandola con il latte del suo vero figlio. Anne Lemoine tornò a casa da suo marito, Lucian, con la bambina e insieme decisero di crescerla insieme a Maxime, come se fosse la sua gemella. Suzanne crebbe forte e coraggiosa al fianco del fratello. Ma la maledizione era ancora lì e lei non poteva scappare al suo destino. Tre mesi dopo il diciannovesimo compleanno di Maxime, i suoi genitori le dissero che avrebbe dovuto sposarsi con un amico di famiglia. Suzanne non approvava una scelta del genere e scappò di casa, rifugiandosi nel paese della sua nascita. Non servì molto tempo perché la ragazza conoscesse la storia di Beth e di sua figlia e capii. Comprese che quello che poteva fare era vero, vivo, che aveva della magia dentro di lei, che doveva smettere di considerarsi un mostro per i sentimenti che provava per il fratello. -
La interruppi. - Era innamorata di Maxime?
Elizabeth annuì.
- È spaventoso - dissi.
- Non era suo fratello.
- Era come se lo fosse.
Elizabeth scosse la testa e io invece ripetei di si.
- Matthew fammi finire.
- È terribile! - esclamai.
Elizabeth cercò di zittirmi altre tre volte e alla fine si arrabbiò. - Se non sei disposto ad ascoltare in silenzio allora non ti racconto niente.
Iniziò a correre verso il resto del gruppo e io la lasciai andare.
Raggiungemmo in fretta l'albergo e Thomas e io andammo in camera a dormire.


 

Mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte con il cuore che mi martellava nel petto. Nel sogno un grosso cane mi aveva assalito ed io ero riuscito a scappare dopo qualche minuto, poi qualcuno aveva iniziato a picchiettarmi sulla spalla. Mi ero girato e avevo visto una ragazza senza volto, mi aveva parlato in francese e poi era tornata a picchiettarmi sulla spalla. Anche da sveglio, sentii quel rumore.
Mi voltai a guardare Thomas ma lui dormiva tranquillo. Così, dopo le esperienze fatte, immaginai che ci fosse qualcuno alla finestra e mi alzai dal letto a vedere. Quando l'aprii, sentii di nuovo il ticchettio. Proveniva da qualcos'altro.
Sfregai le mani sul pigiama e andai al bagno. La luce si accese e mi bruciarono gli occhi. Feci scorrere l'acqua e mi guardai allo specchio.
Il mio solito viso, i miei soliti capelli ricci e corti, i miei soliti occhi castani. Tutto normale. Non ero neanche sudato. Mi sciaquai comunque e poi tornai verso il mio letto.
Ancora il ticchettio. Mi avvicinai alla porta e proprio in quel momento il rumore si trasformò in un bussare, molto più forte.
Aprii e la ragazza davanti a me sussultò. Non si aspettava che fossi dietro la porta. Aveva i capelli biondi raccolti con una spilla, lasciando cadere alcuni ciocche mosse più lunghe. I suoi occhi avevano qualcosa di strano. Soltanto guardandola bene notai che non era truccata. Elizabeth non si truccava molto, soltanto una linea leggera e del mascara. Se metteva altro non me ne ero mai accorto. Non era in pigiama.
- Ehi - mi salutò.
- Ehi. Che ci fai qui... - cominciai.
- Alle quattro del mattino? - finì per me. - So che non posso andare avanti così: fare qualcosa e poi scusarmi. Ma lo devo proprio dire questa volta: scusa.
Non capii subito a cosa alludeva, nonostante questo accolsi le scuse.
La luce del corridoio era tenue, adatta alla notte.
Abbassai il capo e mi fissai il pigiama. In quello stesso istante mi pentii di non dormire in jeans come altri milioni di ragazzi americani.
- Vieni con me - disse Elizabeth con dolcezza.
Provai l'impulso di fare come mi diceva. Gli adulti rimproverano spesso i bambini che copiavano gli amici in bravate dicendo "Se lui si fosse buttato giù da un burrone lo avresti fatto anche tu?". Lo giuro, se in quel momento lei me l'avesse chiesto lo avrei fatto senza guardarmi indietro.
L'istinto non sbaglia mai, giusto? Le chiesi un momento per cambiarmi, infilai una maglietta rossa e un paio di jeans e la seguii.
Lei mi afferrò la mano. Quel giorno ce l'eravamo tenuta per così tanto tempo, per paura in quella casa spettrale e durante la corsa, che non avrei mai immaginato di sentire un forte calore e tutta quella felicità al contatto.
Elizabeth aveva la mano sudata ma non intendevo lasciargliela andare.
Mi portò verso l'acensore e lo chiamò. Dopo essersi fermato davanti a noi, spinsi dentro Elizabeth che sembrava indecisa sul da farsi e chiusi le porte con il tasto.
Lei mi guardò con aria interrogativa.
- Piano? - chiesi.
- Sesto - disse Elizabeth.
Premetti il bottone con il numero sei.
- Mi vuoi dire dove stiamo andando?
- Al sesto piano c'è una saletta dove potremo parlare senza svegliare nessuno.
- Parlare di cosa?
- Devo terminare la storia di Suzanne - spiegò.
L'ascensore si fermò al piano con il solito suono che sembrava prodotto da un triangolo. Elizabeth mi guidò verso una stanzetta con la porta a vetro dove un cartello indicava "Area Relax" e in piccolo "aperta a tutti i residenti dell'hotel", poi chiuse la porta dietro di noi, cliccò l'interruttore e abbassò la tendina sulla porta per evitare che filtrasse troppa luce. Era una stanzetta moderna, con un televisore e alcuni divani azzurri e blu. Mi sedetti su uno di essi ed Elizabeth si mise di fronte a me con le gambe incrociate.
- Pronto? - chiese.
Le feci cenno di partire.
- Dopo aver compreso che non era figlia di quelle persone che l'avevano cresciuta, Suzanne decise di trovare il suo vero padre. Clémant Guibeux viveva ancora dove un tempo Beth lavorava. Credeva che sua figlia fosse morta la notte stessa in cui Beth era stata bruciata e, per questo motivo, si stupì molto quando una ragazzina identica alla madre si presentò davanti alla sua porta. Suzanne cominciò a spiegare al padre come aveva capito di essere sua figlia e Clémant iniziò a temere per la maledizione. Suzanne però non sembrava interessata, era convinta che, nonostante suo padre fosse stato un uomo orribile, si era sicuramente pentito. Appena due settimane dopo il loro primo incontro Clémant si mostrò di nuovo l'uomo orribile che era, accusando anche la figlia di stregoneria, per cercare di fuggire al suo destino. Si trovò quindi a litigare con Suzanne e lei afferrò un pugnale. Iniziò ad urlare contro suo padre e il pugnale si riempì di magia nera, creando un marchio sull'impugnatura. La figlia tirò il pugnale, che si conficcò dritto nel cuore di Clémant, uccidendolo all'istante. Impaurita e spaventata, Suzanne tolse il pugnale dal corpo del padre e si rifugiò in paese. - Elizabeth si fermò un attimo a scrutarmi.
- Maledizione compiuta. Tutto qui? - chiesi.
- No. - Elizabeth si stese sul divano e appoggiò la testa vicino a me, facendo penzolare le gambe da sopra il bracciolo. - Beth non sapeva che con le parole che aveva pronunciato aveva condannato sua figlia e tutte le donne della sua famiglia nell'infelicità. Tutte infatti vennero ingannate dall'uomo che le aveva fatte innamorare e crebbero da sole una figlia. Sempre una femmina, nata per uccidere e soffrire. Suzanne fece compiere la maledizione, non solo uccidendo il padre, ma anche facendo la fine della madre. Due anni dopo l'omicidio che aveva compiuto decise di tornare a casa. I genitori l'accolsero con dolcezza e le perdonarono la fuga quando disse loro che aveva scoperto che l'avevano adottata. Quando chiese di Maxime, il fratello comparve alla porta di casa e corse ad abbracciarla. - Alzò lo sguardo verso di me. - Sai perfettamente cosa succede ora.
Annuii.
- La sera stessa, Suzanne rivelò al fratello adottivo i sentimenti che provava per lui e Maxime ne approfittò. Quando la ragazza si svegliò la mattina e chiese di lui, i genitori le dissero che era a casa con sua moglie. Fu un duro colpo per Suzanne che corse alla casa del fratello per chiedergli spiegazioni. Ad aprirgli la porta di casa fu una donna che sorreggeva un bambino di un anno al massimo. Suzanne non ebbe il coraggio di fare altro se non scappare. Per estraniarsi da i suoi genitori adottivi iniziò a farsi chiamare con il suo vero cognome, non quello di suo padre ma quello della madre: Lane. Non c'è bisogno di dire altro se non che nove mesi dopo partorì la piccola Thalie. Come tutte le altre donne Lane dopo di lei, morì solo dopo aver visto sua figlia soffrire a sua volta e uccidere Maxime con lo stesso pugnale con cui lei aveva assassinato Clément. -
- Ma è orribile! - esclamai.
- Si. Lo è - sussurrò Elizabeth. Quindi si alzò e si mise davanti a me.
Notai che stava stringendo gli occhi e pensai che lo stesse facendo per non piangere. Mi venne l'impulso di accarezzarle il viso e così feci.
- Non piangere - dissi.
Elizabeth si ritrasse. - Matthew...non sto piangendo. - Rimase in silenzio per un po'. - Sono furiosa. La mia intera vita é costruita su un odio di una donna vissuta seicento anni fa. È un odio che non provo! Che non ho mai avuto l'opportunità di provare. Come faccio ad essere arrabbiata con i ragazzi, se non mi è permesso parlarci?
- Thomas...
- L'unico ragazzo che conosco davvero e non lo odio affatto - disse. - Vorrei solo...avere una vita normale.
Mi sentii un po' offeso perché non mi aveva calcolato.
- Elizabeth, hai appena ammesso che quello che mi hai raccontato è vero.
- Certo che lo è. Non ha senso nasconderlo, tanto sai già tutto. E poi ogni parola del quarto racconto te l'avrebbe fatto capire.
- Ci sono altri racconti? - chiesi.
- Si - rispose. - E uno di questi è la mia unica opportunità di essere felice.
Udimmo dei passi nel corridoio ed Elizabeth mi fece segno di zittirmi.
Il professore di lettere aprii la porta.
- Williams. Lane - disse irritato senza alzare troppo la voce. - Cosa ci fate qui alle cinque?
Guardai l'orologio che portavo sempre con me. Era molto tardi.
- Noi... - Elizabeth si voltò per chiedere aiuto.
- Non riuscivo a dormire prof, così sono venuto qui per guardare qualcosa. - Indicai la televisione.
- Tu, Lane? - Il professore spostò lo sguardo su Elizabeth.
- Stessa cosa. Non volevo svegliare Hannah. Matthew era già qui quando sono arrivata.
- Spero che mi stiate dicendo la verità. Non voglio vedervi in giro. A letto, forza! - esclamò accompagnandosi con un gesto della mano.
Tornammo alle nostre rispettive camere attraverso l'ascensore.
- Buona notte - dissi ad Elizabeth per salutarla quando arrivammo davanti alla mia stanza.
Thomas aprì la porta all'improvviso.
- Forse dovresti dire "buon giorno".
Elizabeth sgranò gli occhi e scappò via.
Il mio amico mi trascinò dentro.
- Aiuto! - esclamai ridendo.
La stanza era illuminata, i nostri letti sfatti.
- Cosa le hai fatto? - chiese agitato Thomas.
- Cosa? - Feci un sorriso da cretino.
- Cosa le hai fatto? - ripeté.
- A chi? - domandai facendo il finto tonto.
- Elizabeth.
- Elizabeth, chi?
Thomas mi mandò a quel paese e se ne tornò a letto.
- Non le ho fatto niente - dissi rassicurandolo. - Ti preoccupi come un fratello.
- È come se lo fossi.
Rabbrividii a quell'affermazione. Tanto simile a quella che avevo fatto io quella sera riferendomi a Maxime e Suzanne.
Thomas si voltò verso di me, che nel frattempo mi ero seduto sul letto.
- Lei ha soltanto me.
Mi infilai sotto le coperte e pensai a quella frase e a mio fratello. Charlotte e mio padre erano figli unici, non avrebbe avuto nessuno tranne me. Improvvisamente mi sentii triste, non potevo far rimanere mio fratello da solo. Lui o lei non aveva colpe. Chissà se aveva poche settimane o già due mesi, se mio padre mi aveva informato subito della sua esistenza o aveva aspettato. Iniziai a formulare un discorso da poter fare ma, dopo la prima frase, Morfeo mi chiamò tra le sue braccia.




Angolino dell'autrice: SCUSATE! Scusate l'enorme ritardo, ho avuto un sacco di problemi questa settimana. Mi faccio perdonare con il capitolo più lungo che ho scritto per ora. Fatemi sapere cosa ne pensate. Alla prossima :)

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Capitolo 12
*** Rotture e riappacificazioni ***


Capitolo 12: Rotture e riappacificazioni

Per svegliarmi non bastarono tre sveglie. Thomas dovette togliermi le coperte e trascinarmi per terra. Quando aprii gli occhi, vidi le piastrelle del bagno. Mi tirai su e mi guardai in torno, domandandomi se ero sonnanbulo.

Alla mattina visitammo alcuni musei molto noiosi e al pomeriggio sistemammo le valigie per la partenza. La mattina seguente, arrivati all'aeroporto di Phoenix in grande anticipo, i professori ci lasciarono un'ora libera.

Thomas propose di visitare la città e tutti approvarono. Ci stavamo dirigendo verso di lì, quando sentii una bambina chiedere insistentemente a suo padre di poter vedere un aereo decollare. L'uomo la prese in braccio e le disse che si vedevano volare dal bosco, così mi voltai verso i miei amici e proposi di fare la stessa cosa: - Andiamo a vedere gli aerei!

Thomas storse il naso. - Dove?

- Al bosco - disse Iris indicandolo. - Mi sembra un'ottima idea.

Alcuni ragazzi che erano venuti con noi al luna park preferirono seguire il consiglio di Thomas e dirigersi verso la città. Anche Hannah andò al centro di Phoenix.

- Io vengo con voi. - Elizabeth si infilò un cappellino rosso e mi sorrise.

Soltanto Iris, Thomas ed Elizabeth mi vennero con me attraverso il bosco. Seguimmo l'uomo con la bambina fino a quando non fummo dietro all'aeroporto, vicino ad una rete enorme che ci divideva dalle piste di decollo e atterraggio.

Ci appoggiammo alla rete.

Dopo pochissimo vidi un aereo blu atterrare davanti a me, a pochi metri da un altro, e mi mancò il fiato.

- Credevo che gli sarebbe finito addosso - sussurrò Elizabeth.

Avvicinai la mano attraverso la rete e gliela strinsi, provando ancora quel calore. Mi sentii stupido, non avevo mai desiderato tenere la mano di nessuno. Lei mi faceva uno strano effetto.

L'aereo che era fermo si iniziò a muovere, posizionandosi davanti alla pista di atterraggio. Cominciò a rullare e a fare rumore e poi partì. Corse attraverso la pista e la mano di Elizabeth iniziò ad agitarsi. Infine la macchina volante uscì dalla mia visuale a da quella della ragazza. Fu come se mi avessero strappato un cerotto: Elizabeth tolse la mano dalla mia senza preavviso e seguì il percorso dell'aereo correndo lungo la strada fermandosi soltanto quando decollò.

Mi avvicinai a lei a la guardai in volto. Era felice.

- Non ho mai visto niente di simile. - Si sistemò il cappello.

- Ma ci sei stata - cercai di dire.

- È visto da un'altra prospettiva - mi zittì. - Non sembra affatto che qualcuno lo stia pilotando da qui. Era come un'uccello o...o come Peter con la polvere di Trilly.

Sorrisi in modo buffo ed Elizabeth me lo fece notare.

- Mi piace stare con te - disse.

- Anche a me piace stare con te.

- Con te sto meglio che con chiunque altro.

- Anche meglio di quando stai con Hannah?

Lei ci pensò un attimo e poi annuì. - Si. Io e Hannah siamo amiche da tantissimo tempo ma...siamo diverse. Da piccole non lo eravo, sai? - Alzò il viso su di me. - Stavo così bene con lei che non mi credeva strana. Sapeva sempre di cosa avevo bisogno. Mi faceva ridere. Ora non è più così. L'anno scorso mi sono accorta che non eravamo più come prima ma credevo fosse un periodo che sarebbe passato. Non lo ha fatto.

- Mi dispiace.

- Anche a me.

Mi avvicinai e le misi una mano sulle spalle. - Le persone cambiano. Fa parte del crescere.

- Odio crescere.

Rimanemmo in silenzio per un po', osservando due aerei decollare, poi mi voltai e vidi Iris che rideva vicino a Thomas. Si girò verso di lui e gli pizzicò una guancia.

- Andiamo prima che Iris ripeta ad alta voce quello che mi ha appena detto - disse Thomas prendendola in braccio e caricandosela in spalla.

- Cos'ha detto? - domandò Elizabeth.

- Thomas, ti ho detto che era uno scherzo. Non prendertela.

Guardai Iris di traverso e lei mi fece l'occhiolino dalla spalla dell'amico. Anche lui sorrise senza rendersi conto che lo vedevo.

 

 

Arrivati all'aeroporto di Louisville, mia madre corse a prendermi la valigia e a salutarmi. Mi diede un bacio sulla fronte e poi salutò i miei amici. Quando ci girammo per andare mi accorsi che Elizabeth stava salutando sua madre.

Vestita normalmente e senza quel cappuccio che le copriva la testa, la madre di Elizabeth non metteva affatto inquietudine. Era una donna esile e minuta con un grande sorriso sul viso. In effetti assomigliava molto a sua figlia. Le due donne ci sfilarono a fianco e mia madre, riconoscendo la più giovane, la salutò.

- Salve, sono Lisa Thompson, la mamma di Matt - si presentò mia madre.

- Isabelle Lane, la madre di Elizabeth. - Non mi guardò negli occhi. Non sapeva che conoscevo la sua identità e sperava quindi di non farsi scoprire. Aveva una voce normale, quasi strana su di lei.

- Ci tenevo a presentarmi - continuò mia madre. - Elizabeth è stata davvero gentile quando è venuta a trovarci.

Io e la ragazza trattenemmo il fiato. Isabelle non lo sapeva. Merda.

- Sono davvero contenta che siano diventati amici. Mi scusi, sono davvero in ritardo per un progetto di lavoro! Dirò ad Elizabeth di lasciarle il mio numero. - Prese Elizabeth per un braccio e la trascinò via.

- Peccato. Sembrava molto simpatica. - Mia madre alzò le spalle e mi guidò fuori dall'aeroporto.

Non sapeva di aver appena scatenato un altro litigio. Mi chiesi, anche se era quasi una certezza, se dopo quella conversazione, Isabelle avrebbe fatto ancora qualcosa per separarmi da sua figlia.

 

 

Il sabato dormii fino a tardi e la domenica pomeriggio decisi di andare da mio padre per fargli sapere cosa avevo deciso su mio fratello.

Bussavo alla porta insistentemente da circa un minuto quando Charlotte venne ad aprirmi. I riccioli castani le ricadevano con grazia sulle spalle. Portava un grembiule bianco e aveva le mani sporche di farina.

- Matt! - esclamò, chinandosi ad abbracciarmi.

Era una reazione totalmente diversa da quella che mi aspettavo. Avevo fatto tutta la strada per arrivare fin lì sperando di non incontrarla. Non sapevo se sarei riuscito a reggere il suo sguardo.

La lasciai fare, seppur con molto sforzo. Era sempre stata gentilissima con me e mi voleva bene. A volte mi chiedevo come ci riusciva quando io le rispondevo in malo modo. Mi capitava di non riuscire ad odiarla come volevo quando le stavo vicino e di provare sentimenti negativi verso di lei soltanto lontano da quella casa. Dall'ultimo giorno in quel posto e per tutto l'anno e mezzo in cui non ero più andato a trovarla, ero riuscito ad odiarla come mai prima ma, in quel momento, tra le sue braccia, tutto andò in fumo. Come faceva a volermi bene dopo quello che le avevo detto?

- È da così tanto che non ti vedo. Vieni.

Dopo averla seguita fino alla cucina, dove infilò le mani in un impasto per torte, le chiesi di mio padre.

- Patrick - chiamò Charlotte.

Sentii dei passi provenire dal salotto e mio padre comparve sulla soglia. Indossava vestiti pratici e comodi e aveva tutta l'aria di essersi appena alzato dal divano. La barba era più lunga rispetto a come la teneva di solito e immaginai che avesse dimenticato di radersi. A volte lo faceva ed era mia madre a dovergli ricordare quel compito.

- Matt, come mai qui? - domandò lui.

- Volevo scusarmi per la mia reazione. Sarò felice di avere un fratello - dissi.

Charlotte si mise una mano sul ventre e sorrise.

- Da quanto tempo sei incinta?

- Dieci settimane.

Impallidii. - È tantissimo.

Charlotte rise. - No, Matt. Non ho ancora la pancia.

Indugiai con lo sguardo sul suo ventre, che non mostrava segni di gravidanza, e annuii.

- Avremmo dovuto dirtelo prima, lo so.

Dopo che ebbero insistito perché rimanessi con loro, chiesi di poter rivedere la mia vecchia stanza. Loro acconsentirono. Salii le scale che portavano al primo piano e aprii una porticina di legno che conduceva alla mia stanza. Vi trovai ancora tutto come l'avevo lasciato: le cuffiette sulla scrivania, un cd sul letto e un unico quaderno di scuola sullo scaffale. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Non c'era un solo acaro di polvere perché Charlotte puliva sempre al meglio la mia camera.

Mi sedetti sul letto e, chiusi gli occhi, sentii di stare rivivendo l'ultimo giorno in quella casa. La rabbia e la frustrazione che avevo provato tornarono in me. Rividi mio padre entrare in camera e urlarmi contro di chiedere scusa a Charlotte per quello che avevo detto. Osservai me stesso chiudergli la porta in faccia e inserirmi le cuffiette nelle orecchie, guardando l'orologio fisso, sperando che arrivassero le sei. Poi mi ricordai di come avevo preso la sacca e messo via tutto. Avevo quasi finito, mi restavano solo le cuffie, un cd e un quaderno, quando mia madre aveva suonato alla porta. Era corso giù dalle scale senza guardarmi indietro, senza salutare niente o nessuno, senza prendere ciò che mi mancava. Mi ero ripromesso di non tornare mai più lì dentro.

Riaprii gli occhi e i ricordi sfumarono.

Mi sentii ancora peggio. Ero stato uno stronzo.

Scesi le scale e mi sedetti di fianco a mio padre. Era molto tempo che non lo facevo.

- Congratularmi per la gravidanza di Charlotte non è l'unico motivo per cui sono qui - dissi.

Mio padre rimase in silenzio.

- Devo chiederle scusa per una cosa che ho detto tempo fa. - Sapeva benissimo a cosa alludevo.

- Vai.

Mi avvicinai lentamente alla cucina ed entrai con un timido sorriso. Poi mi sedetti su uno sgabello a guardare Charlotte che impastava. Si sporcò la fronte con della farina.

- Scusa per tutti questi anni e in particolare per quello che ti ho detto l'ultimo giorno - mormorai.

La donna alzò la testa confusa, togliendo le mani dalla torta. - Matt, ti sei comportato come avrebbe fatto chiunque. Non mi devi delle scuse.

- Si invece. Non sei tu che ha tradito mia madre. È stato mio padre a farlo. Non è giusto che tu ti prenda le sue colpe e che io ti abbia fatto passare tutti quegli anni di inferno. - Quelle parole mi uscirono come un fiume in piena. - Scusa per averti rovinato il Natale, a 11 anni. Scusa per aver passato tutti quei giorni in camera. Scusa per avervi insultati entrambi ogni volta che scendevo in salotto.

Charlotte mi abbracciò, piangendo. - Smettila.

Scossi la testa. - Sei stata fin troppo buona con me tutte le volte che non hai badato agli insulti e mi hai difeso da mio padre.

Ricordai uno schiaffo, il più forte che mi avessero tirato nella mia vita. Non avevo pianto, ero corso in camera e avevo tirato un pugno alla scrivania, urlando.

Strinsi l'abbraccio, cercando improvvisamente affetto.

Tra le braccia della mia matrigna, notai mio padre sulla porta. Era appoggiato con un fianco e mi guardava con un'espressione infecifrabile. Sapevo che aveva sentito tutto. Si voltò e andò via.

Non dissi nulla. Il mio odio per Charlotte non aveva più motivo di esistere, me lo aveva detto più volte mio padre, che lei non era a conoscenza della nostra famiglia quando stava con lui, e finalmente avevo capito che aveva ragione. Era lui il colpevole, lui che non si era fatto scrupoli a portare un'altra donna in casa, lui che non aveva detto niente a mia madre per molto tempo. Strinsi i denti e chiusi gli occhi.

 

 

- Credevo che non sarebbe stato semplice per te uscire dopo che tua madre ha saputo che sei stata a casa mia... - dissi ad Elizabeth.

Eravamo davanti al negozio di Melanie. Portava un vestitino verde, corto abbastanza da farmi meravigliare che fosse suo.

- Già. Infatti mia madre mi aveva proibito di farlo. - Si sistemò una ciocca di capelli e mi sorrise.

- Come stai? - chiesi.

- Bene.

- Come hai fatto ad arrivare?

- Sono scappata - rispose lei guardandomi negli occhi.

- Come?

- Quante domande...zitto. - Lo disse abbassando la voce, quasi sussurrando.

La guardai confuso ma lei mi sorrise con gli occhi e si portò un dito alla bocca. - Shh.

Poi, lentamente, avvicinò le labbra alla mie e potei sentire il suo profumo inebriarmi i sensi. Chiusi gli occhi e socchiusi le labbra, ma non incontrai le sue.

Alzando le palpebre, vidi mia madre davanti a me. Aveva le braccia incrociate e il viso illuminato dalla luce che entrava dalle finestre.

- Quanto hai dormito! - esclamò.

Arrossii, cercando di coprirmi e immaginando ancora Elizabeth davanti a me.

Mi tolse le coperte di dosso. - Voglio vederti giù tra dieci minuti.

Uscì dalla mia stanza e io mi fermai a fissare il soffitto. Mi vergognavo così tanto di quel sogno. Non ne avevo mai fatto uno simile, soprattutto su una ragazza di cui non ero innamorato. Lei era solo un'amica e questo mi andava bene. O no? Mi bastava essere suo amico quando il calore mi pervadeva ogni volta che le toccavo le mani? Quando avrei dato di tutto per stringerla tra la mie braccia in ogni singolo momento? Quando, la prima volta che l'avevo vista, mi era mancato il fiato?

Trattenni il respiro. Non potevo innamorarmi di Elizabeth, non dopo quello che avevo scoperto.

Scesi le scale e, dopo aver fatto colazione ed essermi vestito, salutai mia madre per andare.

- Stai bene? - chiese lei scrutandomi.

Annuii vigorosamente e presi le chiavi della macchina. - Ci vediamo oggi pomeriggio.

- Non sarò a casa. Devo finire un progetto - disse.

- Okay.

Mi chiusi la porta dietro le spalle ed entrai in auto, sistemandomi con calma sul sedile. Fu quando girai le chiavi che mi accorsi di un biglietto lasciato sul sedile vicino al mio: "Se ti avvicini ad Elizabeth, ti ammazzo".

Rilessi il foglio per altre cinque volte, per essere sicuro di averci visto giusto. Era una minaccia. Isabelle Lane aveva deciso di fare sul serio.

Strinsi i denti e azionai il motore. Ingranata la marcia, abbassai il finestrino e buttai il foglio per terra dopo averlo accartocciato. Non me ne importava niente.

La macchina procedeva tranquilla. Mi fermai a prendere Iris, che era di ottimo umore. Sistemò la cartella sulle sue gambe e mi salutò con una pacca sulla spalla.

- Vieni a vederci alle prove del coro oggi? - chiese.

- Quando?

- All'orario di pranzo. A proposito, io e Thomas non ci siamo oggi in mensa - disse tranquilla. - Fortuna che mi sono ricordata di portare del cibo, se no sarei morta di fame. - Tirò fuori dalla cartella due panini incartati con l'alluminio, su uno c'era scritto il suo nome con l'indelebile e sull'altro quello di Thomas.

Sorrisi. Si preoccupava sempre per lui.

- Vengo a vedervi sicuramente.

 

 

La mattinata passò tranquilla. Ascoltai più la voce nella mia testa, che quella reale dei professori. All'orario di pranzo, mi diressi in mensa e mi guardai in torno per cercare facce amiche. Non avevo voglia di stare da solo perché sapevo che avrei pensato di nuovo al sogno. Di Elizabeth non c'era traccia.

"Meglio così" pensai.

Appoggiai la cartella al tavolo e mi diressi a prendere un vassoio di cibo. Bess, la cuoca, aveva preparato delle bistecche che avevano un aspetto fantastico. Ne presi una e poi passai alla verdura.

Dopo aver riempito il vassoio, tornai al mio tavolo. La cartella era sparita. Imprecai. Iris me l'aveva detto più volte di lasciarla nell'armadietto, ma era sempre così pieno che mi riusciva impossibile ascoltare il suo consiglio. Appoggiai il piatto sul tavolo e cercai lo zaino. C'era davvero qualcuno che voleva rubare una cartella rotta piena di libri scolastici?

Sentii qualcuno ridere dietro di me e mi voltai. Hannah stringeva il mio zaino.

- Non è divertente - dissi riprendendo ciò che mi apparteneva.

- Era uno scherzo innocente. Sei da solo? - disse lei.

Annuii.

Mi fece segno di seguirla e mi guidò a un tavolo occupato da alcuni ragazzi. Riconobbi Henry e Margo, che erano venuti con noi al Grand Canyon.

- È il mio gruppo di fotografia - spiegò Hannah.

Salutai i miei due amici e mi presentai agli altri. - Sono quello che ha litigato con Hannah davanti a voi - spiegai.

- Ci ricordiamo - disse una ragazza con la treccia.

Tagliai la mia carne e me ne infilai in bocca un pezzo. Era buonissima.

- Hai visto Elizabeth? - chiesi ad Hannah masticando.

- Si, l'ho vista. Aveva lezione di fisica, al secondo piano.

- Grazie. - Non sapevo perché glielo avevo chiesto. Nell'ultimo periodo, la mia bocca non sembrava connessa al cervello, soprattutto se si parlava di Elizabeth.

Rimasi in silenzio ad ascoltare i discorsi degli altri ragazzi finché non finii quello che stavo mangiando. Buttai giù un bicchere d'acqua e poi mi voltai verso Hannah, che mi guardava con sospetto.

Le chiesi perché lo stava facendo.

- Sei disgustoso quando mangi. - Lo disse con convinzione.

- Sei innamorata di Thomas? - le domandai, ignorando il suo commento.

Hannah scosse la testa, agitando le sue punte colorate. - Forse. Non che abbia importanza, visto il modo in cui mi ha rifiutato. "Non voglio ferirti." - lo schernii. - Ipocrita.

- Credo che Thomas dicesse sul serio. È un bravo ragazzo.

- Non esistono bravi ragazzi. Voi pensate ad una sola cosa e...

La fermai. - Scommetto che te l'ha detto Elizabeth.

- Me l'aveva detto, ma l'ho imparato da sola. - Alzò le spalle.

Far cambiare idea a quelle ragazze sarebbe stata una dura impresa.

Hannah era spesso l'opposto di Elizabeth, ma sapeva anche essere simile a lei.

Alzò gli occhi su di me, intuendo quello che stavo pensando. - È la mia migliore amica e l'unica persona che mi sopporti. Siamo diverse e il nostro rapporto non è più come quello di prima. Certe volte vorrei urlarle contro, dirle che non sono il suo strumento di sfogo, che non può buttare tutto contro me. Ma io faccio lo stesso. Mi lamento delle parti di Elizabeth che condivido e lei fa lo stesso. Non ci sopportiamo più. Siamo come quelle coppie sposate da cinquant'anni il cui unico desiderio é andarsene ed essere felici. Ma non lo fanno. E sai perché? Perché, nonostante tutto, vogliono ancora bene all'altra persona, con cui hanno condiviso tanti di quei giorni, che vivere un'avventura senza, sarebbe come farle un torto. Se io me ne vado, mi sento sollevata per un attimo ma poi...poi non ce la faccio e torno indietro.

Lasciai andare il fiato che avevo trattenuto per tutto quel tempo. - Cavolo.

Hannah sorrise e non aprì più bocca per tutto il pranzo. Quella ragazza era strana.

Ascoltai ancora i ragazzi per un po', infine mi alzai e mi diressi da Iris e Thomas.

Passai nei corridoi ed entrai nel piccolo teatro della mia scuola. Era una stanza grande come due classi, piena di poltroncine che potevano ospitare un centinaio di persone al massimo. Sul palco, una struttura in legno sulla quale si saliva da una scaletta mal messa, erano posizionate cinque sedie. Alcuni ragazzi stavano consultando uno spartito. Notai Iris e Thomas dietro di loro, che parlavano animatamente. Cercai di farmi vedere ma loro non si accorsero di me, così mi sistemai su uno dei posti a sedere in fondo e aspettai che Iris e Thomas provassero, se non l'avevano già fatto.

Dopo circa dieci minuti, fu il loro turno. Thomas si chinò a prendere la sua chitarra e Iris impugnò il microfono. Dopo essere stata accordata, la chitarra iniziò a produrre un suono bellissimo. La voce della mia amica sembrava più bella ogni parola di più. Non riconobbi la canzone.

Finito di cantare, Iris corse da Thomas, che le batté il cinque. Non mi sembrava il caso di interromperli, così uscii dal teatro e mi ritrovai davanti ad un gruppo di ragazzi che proveniva da un'aula.

Notai Elizabeth tra la folla, ma non si avvicinò. Fece finta di niente e andò via. Decisi di andare a parlarle.




Angolino dell'autrice: Lo so, lo so. La scuola mi stava soffocando negli ultimi tempi, verifiche e interrogazioni tutti i giorni. Ho dovuto studiare e non ho avuto molto tempo per scrivere, mi dispiace. Spero di avere più tempo d'estate se no pubblicherò ogni due settimane e mezza, scusate! Vorrei tanto pubblicare prima. Poi vorrei ringraziare Ciciolla26 perché è stata sua l'idea del sogno e mi serviva proprio qualcosa del genere♥ Comunque...vi è piaciuto il capitolo? Lasciate una recensione!
P.S. Se si vede con l'interlinea. Non so come ho fatto, ma non riesco più a sistemarlo e io odio l'interlinea! *piange* E' brutto da vedere così.

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Capitolo 13
*** Febbre ***


Capitolo 13: Febbre


Elizabeth aveva i capelli raccolti in una coda e le labbra molto rosse. Quando mi avvicinai iniziò a mordicchiarsele freneticamente e puntò il suo sguardo su di me.

Una parte del mio cervello mi chiedeva di scappare, mentre l'altra, che di certo non era la più razionale, mi urlava di rimanere.

La ragazza mi rivolse uno sguardo con il quale cercava di sapere perché ero lì ma io non aprii bocca. Rimanemmo a fissarci per un minuto intero finché lei, sfiorando il mio braccio, mi sfilò di fianco e andò via.

Non mi era mai successa una cosa simile. Avevo capito perfettamente quello che aveva da dirmi Elizabeth solo guardandola negli occhi. Sua madre stava combinando qualcosa.

Mi voltai e la vidi allontanarsi.

 

 

Lasciatomi la scuola e la mattinata alla spalle, mi rifugiai a casa. Chiusi la porta e chiamai mia madre senza però ricevere risposta. "Non c'è" pensai, ricordando quello che mi aveva detto quella mattina. Poco dopo Trovai un post-it blu sul bancone della cucina, vicino al telefono portatile. Vi erano scritte alcune mansioni che avrebbe dovuto svolgere mia madre:

- Richiamare Michael. (fatto)

- Chiamare l'ufficio. (fatto)

- Fare la spesa.

- Ricordare a Matt che deve fare da baby-sitter a Heidi nel fine settimana.

Mi domandai chi fosse Michael, non lo conoscevo. Doveva essere un collega.

Infilai la mano nel frigorifero e ne tirai fuori una lattina di coca-cola poi, aggirandomi per la dispensa, presi un pacchetto di patatine, quindi mi sdraiai sul divano e accesi la televisione. Dopo aver cercato un programma interessante, lasciai i cartoni animati che guardavo con Heidi. Erano stupidi ma, non lo avrei mai ammesso in pubblico, mi piacevano. Per mia fortuna Heidi non amava i cartoni femminili.

Quel pomeriggio sarei dovuto andare al corso di nuoto ed ero certo che Mark mi avrebbe fatto pagare la settimana di assenza. Sbuffai. Sarei arrivato a casa senza altra voglia se non quella di dormire.

Il mio cellulare prese a suonare provocandomi un salto di spavento. Lo cercai nella tasca dei miei pantaloni e lo afferrai.

- Pronto? - dissi.

La persona dall'altro capo del telefono attaccò.

Mi accigliai e guardai se conoscevo il numero che aveva chiamato. Elizabeth.

Richiamai. - Elizabeth?

- Lasciala stare - rispose la voce di sua madre. - Lasciala-stare - ripeté scandendo bene la parole.

- Ha chiamato lei! - esclamai d'istinto attaccandole in faccia.

In seguito, mi maledii per quello che avevo fatto.

Una profonda stanchezza, mi colpì e io chiusi gli occhi. Quando li riaprii mancavano dieci minuti al corso.

Corsi per casa per prepararmi lo zaino e infilarmi il costume, altrimenti non sarei arrivato in tempo. Chuck doveva essere furioso.

Salii in macchina e la azionai, guardando i messaggi lasciati dal mio amico che mi annunciava che era andato da solo ed era arrabbiato con me.

Viaggiai sulla strada ad una velocità non proprio consentita e giunsi al parcheggio della piscina due minuti esatti prima. Gli alberi spogli si muovevano sotto la spinta del vento, vicino all'entrata. Passai vicino al cespuglio dove mi ero nascosto per ascoltare la conversazione di Chuck e Luke qualche settimana prima ed entrai nello stabile. Dopo aver rischiato di scivolare sulle scale perché avevano appena lavato, giunsi nello spogliatoio dei maschi e iniziai a sfilarmi la maglietta.

Un uomo barbuto cominciò a fissarmi.

- Cosa c'è? - chiesi stressato. Ero già in ritardo, non potevo ritardare ancora.

- Hai della patatine in testa.

- Oh. - Mi passai le mani sui capelli e li ripulii, infine infilai la cuffia. - Grazie.

Le piastrelle erano fredde al contatto con i miei piedi. Corsi fuori dagli spogliatoi con le ciabatte infilate male e mi avvicinai alla quinta corsia della piscina, la nostra.

Chuck era già in acqua e stava facendo la vasca a stile libero, mentre Margareth si tuffò nel momento stesso in cui le passai accanto. Sospirai. Non ero così in ritardo in fin dei conti. Mark però non sembrava d'accordo: al suono dei miei passi, si voltò verso di me con una velocità tale che mi spaventò e cominciò a sgridarmi. - Matt ha deciso di onorarci con la sua presenza.

Luke si lasciò sfuggire una risata.

- Spero che tu abbia una buona scusa per l'assenza della settimana scorsa.

- Ero in gita.

- Ho detto una buona scusa.

Abbassai la testa e mi scusai.

- In acqua! Farai il doppio dei tuoi compagni.

Annuii senza protestare e mi tuffai.

La mia testa sembrò rompere il ghiaccio, provocandomi un dolore martellante alla fronte. Nuotai verso il fondo, fino a toccare le piastrelle azzurre che toccai con la mano, dandomi la spinta per tornare a galla. Emersi inspirando più aria che potevo, ma il dolore continuò per tutto il tempo.

- Amico, com'era il Grand Canyon? - mi chiese Chuck fermandosi a riposare quando Mark fu distratto da una collega. Aveva già dimenticato di essere arrabbiato con me. Mi fece piacere vederlo sereno, visto il suo cattivo umore e i segreti delle settimane precedenti.

- Bello. Senti Chuck devo chiederti una cosa.

- Spara! - esclamò agitando una mano nell'acqua.

- Come avevi fatto a capire che ero innamorato di Margareth? - domandai controllando Mark con lo sguardo.

- Bastava vederti e poi me l'avevi praticamente confessato, anche se non te ne eri reso conto.

- E io come faccio a capire se sono innamorato di qualcuno? - chiesi.

- Queste domande se le fanno le ragazze, non noi. - Si sistemò la cuffia che si era spostata. - Chi è la sfortunata?

- Non la conosci. Magari te la presenterò, a patto che non cominci con i tuoi commenti idioti.

- I miei commenti sono tutt'altro che idioti. - Si voltò verso Margareth. - Ehi! Lo sai che secondo internet il tuo tipo ideale si chiama Matthew!

Gli tirai un pugno. - Appunto.

Margareth mi fissò con sguardo interrogativo.

- Ho sognato di baciarla - dissi.

- Margareth? - chiese Chuck.

- Elizabeth. La ragazza di cui ti parlavo.

- Be', se l'hai baciata nei tuoi sogni, significa che vuoi farlo anche nella realtà.

- Ne sei certo?

Annuì. - È quasi sempre così. - Il suo sguardo si posò su qualcosa dietro di me ma, quando mi girai, vidi soltanto gli altri nuotare.

Mark ci riprese e noi ci zittimmo, ritornando alle nostre vasche.

 

 

Quando arrivai a casa sentivo ancora quel dolore martellante alla testa.

Dopo cena, mia madre si sedette dolcemente di fianco a me e mi chiese come stavo.

- Sento freddo - risposi attirando a me una coperta.

Mia madre mi rivolse uno sguardo preoccupato e appoggiò le sue labbra alla mia fronte, come quando ero piccolo. Mi disse che ero molto caldo e si allontanò verso il bagno, per poi tornare con un termometro. - Prova la febbre.

- Mamma, sto bene, ho solo feddro e mal di testa e... sono stanco.

Lei mi mise l'oggetto in mano. Lo feci passare sotto il braccio e aspettai.

Un minuto e il termometro prese a suonare, indicando che potevo toglierlo. 38.5 gradi di febbre.

- Ti porto qualcosa - disse allontandosi. - Tu vai a letto.

Presi la coperta e me la strinsi sulle spalle mentre salivo le scale. Dovevo essermi ammalato quando ero andato a casa di mio padre a piedi, al freddo. La fatica della piscina non aveva fatto altro che aumentarla.

Ricordai il mio sogno e, pensando alla febbre, gliene diedi la colpa, sapendo benissimo che quella mattina stavo bene. Avevo finito per pensare a quella ragazza di nuovo.

Mi ricordai di quando eravamo stati a vedere gli aerei volare, pochi giorni prima, e sorrisi. Quanto era felice. Molto diverso da quella mattina, quando mi aveva guardato senza aprire bocca, facendomi capire che le era proibito parlare con me. Ma perché? Perché Isabelle Lane ce l'aveva tanto con me? Era perché sapevo dell'omicidio del padre di Elizabeth o era per qualcosa di più grande?

Appoggiai il piede sulla coperta e rischiai di scivolare. Fortunatamente riuscii ad appoggiare la mano sulla ringhiera. Ricordai la casa della paura e il cane infernale. Elizabeth aveva detto di non riuscire a controllarlo. Ecco un'altra cosa che dovevo farmi spiegare: in cosa consisteva la magia?

Avrei voluto chiamarla, ma dopo oggi, sapevo che sua madre le teneva d'occhio il cellulare.

Arrivai in camera mia e mi misi il pigiama blu, sistemandomi sotto le coperte calde. Poi presi il telefono e avvisai i miei amici che il giorno dopo non sarei andato a scuola.

Mia madre entrò in camera con un bicchiere d'acqua e delle medicine. - Forza - disse. - Prendine una.

Feci come mi aveva detto. Misi in bocca una pillola e bevvi un sorso d'acqua, ingerendola.

- Mi dispiace così tanto, Matt. Domani devo andare ad una riunione alle dieci. Credo che durerà almeno fino all'una. Ne volevo approfittare per andare a controllare come procede il lavoro già alle otto ma...

- Vai, non fa niente. Ho solo la febbre.

Sorrise e mi fece passare una mano tra i capelli. - Ti lascierò qualcosa da mangiare in frigo.

Si alzò dal letto e andò a spegnere la luce. Tutto intorno a me si fece improvvisamente estraneo.

 

 

Speravo di poter dormire, ma non andò così. Alle otto e mezza del mattino, qualcuno suonò il campanello. Non lo sentii, immerso com'ero nei sogni, ma la persona che aveva suonato, non si diede per vinta. Mi alzai a sedere sul letto e mi striracchiai poi cercai di infilarmi le ciabatte, ma non riuscii così, infastidito, corsi giù dalle scale senza.

Mi diressi all'ingresso e aprii. La luce solare rischiò di accecarmi e per un attimo vidi a puntini neri. Elizabeth comparve sulla soglia sorridente.

- Cosa ci fai qui? - chiesi.

- Sei in pigiama - disse ignorando la mia domanda.

- E tu non sei a scuola.

- Nemmeno tu lo sei.

- Ho la febbre.

- Lo so - disse entrando in casa.

Si diresse verso il salotto e si sedette sul divano.

- Ho incontrato Iris e Thomas fuori da scuola, quando ti aspettavo, e mi hanno detto che stavi male - spiegò.

La raggiunsi e mi appoggiai sull'altro lato. Lei se ne accorse e si avvicinò.

- Mi aspettavi?

- Si. - Annuì. - Devo spiegarti alcune cose e finire di raccontarti la storia della mia famiglia, non ho più tutto il tempo che credevo, mia madre ti vuole morto.

Ero già a conoscenza delle intenzioni di Isabelle, ma sentite da Elizabeth mi spaventarono molto di più che sul biglietto trovato il giorno prima.

- Posso sapere il motivo esatto del perché mi vuole morto? - chiesi.

Elizabeth sospirò e prese un elastico dal suo braccio, per legarsi i capelli. - Quando sono tornata a casa dall'aeroporto, mi ha chiuso in camera dicendo che se avesse saputo che avevo continuato a frequentarti anche dopo questo, ti avrebbe ucciso. - Si zittì un attimo per osservare la mia espressione dopo avermi confessato che in quel momento ero in pericolo di vita. Si scusò e riprese a parlare: - Lei teme che io possa innamorarmi di te e finire nella stessa situazione di tutte le donne della mia famiglia.

Rimasi zitto.

- Il fatto è che il primo uomo di cui ognuna di loro si è innamorata, é stato l'ultimo. Nessuna via di mezzo, non abbiamo mai avuto cotte nemmeno in terza elementare. Se ci innamoriamo, lo facciamo seriamente. - Riprese a legarsi i capelli e li sistemò in una coda. - Non apprezza neanche molto che tu le abbia fregato il pugnale.

- Gliel'ho restituito! - esclamai.

- Se l'è ripreso - mi corresse Elizabeth.

Sentii un capogiro e appoggiai una mano alla fronte. La ragazza assunse un'espressione preoccupata e mi chiese se doveva portarmi qualcosa per farmi stare meglio.

Scossi la testa e lei tornò ad osservarmi. Io feci incontrare i nostri sguardi.

- Le paure di tua madre sono fondate? Potresti innamorarti di me? - chiesi.

Elizabeth sussultò. - Io...io non lo so.

La stanza si fece silenziosa tanto da poter sentire due bambini che ridevano davanti al vialetto.

Mi alzai in piedi di scatto, interrompendo quell'imbarazzo.

- Vado a cambiarmi, se non hai fatto colazione puoi andare in cucina e vedere di prepararti qualcosa - dissi allontanandomi verso le scale.

Passai dal bagno e controllai il mio aspetto. Era un fatto più unico che raro per me, controllare se mi stavano bene i capelli, non lo avevo mai fatto per nessuno. Una volta ero andato ad un matrimonio senza pettinarmi, obbligando mia madre a sistemarmi i capelli in chiesa. Mi infilai una mano nel groviglio che avevo in testa e lo smossi, infine sorrisi soddisfatto e mi avviai in camera. Tolsi i pantaloni tirandoli sul letto e mi infilai un paio di jeans poi mi tolsi la maglietta e iniziai a frugare nell'armadio, annusando magliette per trovarne una pulita.

Dopo averne infilata una verde, corsi giù dalle scale e raggiunsi in cucina Elizabeth, che nel frattempo si era legata i capelli in uno chignon.

- Mi davano fastidio - disse quando glielo feci notare.

Era impegnata ad armeggiare con la macchina del caffè. Mi sedetti su uno sgabello e la osservai buttare per terra un sacco di polvere. Non era capace. Alzandomi, le presi le mani e le mostrai come doveva fare.

- Scusa.

- Non c'è problema. - Finii di preparare e le porsi la sua tazza fumante.

Elizabeth la prese e mi rivolse uno strano sorriso.

- Non volevi il caffè?

- Cercavo di farmi un cappuccino ma non conosco questa cucina.

Andai a prendere il latte. - Non so come si faccia un cappuccino però posso farti un latte macchiato.

- Un caffè macchiato - disse Elizabeth fissando la sua tazza piena di liquido scuro e la bottiglia di latte quasi vuota, che afferrò. - Proviamo.

Il mal di testa del giorno precedente tornò a farsi largo dentro di me e mi sentii mancare le forze.

Strinsi i denti e mi costrinsi a rimanere in piedi. Mi preparai un po' di caffè anch'io e mi sedetti su uno sgabello che dava sul bancone della cucina, dove si sistemò anche Elizabeth.

- È stata tua madre a creare quel cane con la magia? - domandai riferendomi alla bestia che ci aveva attaccato sia in gita che lì a casa mia.

- Mmh...non proprio. È un po' difficile da spiegare, non abbiamo proprio poteri magici.

- Ma Beth con la maledizione e Suzanne... - feci per dire.

Elizabeth mi fermò. - Quello che ti ho raccontato, è il poco che so anch'io. Se un tempo la mia famiglia aveva la magia, ora non è più così. Quel poco che possiamo fare sono dei residui, non tanto della magia, ma della maledizione di Beth - spiegò bevendo un sorso dalla sua tazza e facendo una smorfia.

- Non è buono?

- È un po' forte. Mia madre può controllare il cane ma non è lei ad evocarlo. È il pugnale.

- Il pugnale?

Alzò gli occhi su di me. - Non siamo noi ad avere poteri, ma quell'oggetto. Il pugnale ti ha scelto, Matthew.

Un brivido mi percorse la schiena. - Anche tua madre me l'ha detto.

- Non accade mai prima di...prima che una di noi resti incinta, è strano. Il cane è stato evocato da lui, ma noi possiamo controllarlo o almeno è sempre stato così, fino a Flagstaff. - Bevve un altro sorso. - Non so perché non mi ha ascoltato.

- Il pugnale mi ha scelto perché l'ho tenuto in mano?

Scosse la testa. - Non credo sia per questo.

- E allora per cosa?

- Non lo so ma stanno succedendo tante cose strane negli ultimi tempi. Spero solo che sia un bene, quel bene. -

- A cosa ti riferisci?

- All'altro motivo per cui sono qui. Te ne avevo già accennato: la mia via di fuga, un modo per essere felice.

- Parlamene - dissi finendo di bere il mio caffè.

Elizabeth trasse un sospiro. - Nel 1603, Camille Lane decise di emigrare in America per lasciarsi il passato alle spalle e avere più fortuna. Sua figlia Laure aveva solo quattro anni e sperava quindi di evitarle di dover uccidere suo padre. Un mese dopo il suo arrivo in America però, incontrò una donna che affermava di essere una veggente. Erano in un vicolo di una piccola città e Camille temeva per mano sua figlia. Cercò di allontanare la donna che diceva sicuramente bugie ma lei afferrò la mano della bambina e gliela lesse. Affermava che Laure avrebbe incontrato un ragazzo di nome John, di cui si sarebbe innamorata. Disse anche che avrebbe fatto la fine di sua madre e che avrebbe ucciso suo padre, che, all'insaputa di Camille, si era trasferito nel nuovo continente prima di lei. Camille allontanò la bambina dalla veggente e fuggì, sperando che fosse davvero una bugiarda. Vent'anni dopo, Camille si trovava a passare per lo stesso vicolo, della stessa città, quando incontrò di nuovo la veggente. Era molto invecchiata e sembrava cieca, ma nonostante questo la fermò e le chiese se le sue predizioni si fossero rivelate corrette. In quei vent'anni, Laure aveva vissuto esattamente gli avvenimenti che le erano stati predetti e Camille dovette confermare. La veggente trattenne la donna e le prese la mano, leggendogliela, nonostante fosse cieca. "Non disperare" le disse. "Hai visto soffrire tua figlia e vedrai anche tua nipote fare lo stesso. Ma con i due la maledizione si allenterà, un patricidio verrà risparmiato e una vita salvata. La figlia dei gemelli porterà una fine e anche voi potrete riposare felici."-

- Elizabeth questo significa che...

- Non lo so, lo spero. È la mia via di fuga. Ci ho pensato così tante volte. "La figlia dei gemelli" potrei essere io.

- Lo sei, Elizabeth! Tua madre e il padre di Thomas sono gemelli, i primi gemelli dopo quattrocento anni di figlie femmine! Non puoi che essere tu.

- Ma non so cosa si intende, può voler dire tante cose. C'è stata un'altra "figlia dei gemelli" nel 1800 circa: una donna aveva deciso di adottare un bambino dell'orfanotrofio quando lavorava lì e siccome aveva l'età della figlia venivano chiamati "i gemelli". Non c'è bisogno che ti dica altro, tanto te lo immagini. La figlia credeva davvero di essere la ragazza della profezia. Se ne era illusa e poi ha fatto una fine orribile.

- Conosci la storia di tutte le tue antenate? - chiesi.

- Solo di quelle più importanti. - Si sciolse lo chignon. - E poi anche Thalie...

- Thalie è vissuta prima di questo! - Ero felicissimo. Elizabeth avrebbe potuto avere il suo lieto fine. - Hai anche rifiutato di uccidere tuo padre.

- Tu questo non dovresti saperlo.

- Ho origliato tua madre che parlava con... - Non riuscii a terminare la frase perché tutto si fece bianco e caddi a terra svenuto.

 

 

Quando aprii gli occhi mi trovavo sdraiato sul mio letto ed ero ancora intontito. Avevo una pezza sulla fronte ed Elizabeth era seduta vicino a me e mi faceva passare un dito sulla mano, accarezzandomela. Sorrisi e cercai di tirarmi su. Elizabeth mi prese per un braccio e mi obbligò a rimanere fermo.

- Mi hai fatto prendere un colpo! - esclamò. - Non farlo mai più.

Mi misi a ridere e lei mi tirò un leggero pugno sulla spalla, poi mi offrì una medicina e mi disse di prenderla.

Le sfiorai la mano. - Grazie.

- Avevi la febbre altissima.

Le chiesi l'ora e lei mi disse che ne erano passate un paio, avevo dormito.

Si avvicinò a me per cambiarmi il panno con uno più bagnato e avrei potuto inclinare la testa e sfiorarle le labbra per quanto era vicina. Alzai leggermente il capo ma lei si girò e io le toccai la guancia. Mi sorrise e tornò al suo lavoro, senza accorgersi di nulla.

- Elizabeth - la chiamai. - Prima volevo dirti che hai impedito un patricidio. Sei tu la ragazza, vivrai felice

- Ma non ho salvato nessuna vita. Mio padre è morto comunque. - disse mentre mi controllava la febbre. - Non voglio illudermi. Voglio sperarci.

Annuii. - D'accordo.

Rimanemmo zitti per un po' mentre lei mi curava. Dopo qualche minuto, accertatasi che stessi bene, tornò a rivolgermi l'attenzione. Le chiesi se voleva giocare a Monopoli e lei mi disse che avrebbe accettato solo se fossi rimasto steso sul letto, rialzato solo da cuscini. Approvai e la mandai a cercare il gioco in scatola.

Quando tornò aveva l'aria confusa.

- Matthew, prima hai detto che hai saputo che non sono stata io ad uccidere mio padre, perché lo hai sentito raccontare da mia madre. Lei con chi parlava? - chiese.

- Con tua nonna.

Elizabeth assunse un'espressione stupida, poi spaventata e infine confusa. - Sei sicuro?

Annuii.

- Matthew, mia nonna è morta.




Angolino dell'autrice: BOOM Colpo di scena. Okay...sembrerò pazza ma ci tenevo a dirlo. Questa volta non sono in ritardo e, considerato che volevo pubblicare ieri ma il computer era in vena di capricci e non ce l'ho fatta, mi merito un premio. Va bene, niente premio avete ragione. Fatemi sapere com'è il capitolo. Vorrei dire grazie a Dark Stalker che ha deciso di tradurre la storia in lingua inglese, quindi se avete voglia passate a dargli un'occhiata. Poi vorrei ringraziare i lettori silenziosi che anche se non recensiscono leggono la storia, o almeno spero, e le cinque persone che hanno aggiunto la storia tra le seguite e le due che l'hanno messa nelle preferite. Boh, mi sono accorta che non vi ringraziavo da un po'. Al prossimo capitolo!
P.S. C'è ancora l'interlinea? Mi sa che ho fatto un casino con word, mi dispiace ma non riesco a sistemarlo (anche se so che l'unica a cui dà fastidio sono io ma va be').

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Capitolo 14
*** Bugie e verità ***


Capitolo 14: Bugie e verità

- Matthew, mia nonna è morta.
Elizabeth si lasciò cadere sul letto, con ancora la scatola del Monopoli tra le mani, incredula. Fissava il vuoto e aveva un'espressione ferita.
La circondai con le braccia e la trascinai verso di me finché non arrivò ad appoggiarsi al cuscino, poi l'abbracciai tenendola stretta.
- Mia madre ha detto che era morta. Era morta.
- Calma. - Appoggiai il mio viso tra i suoi capelli. Profumavano di miele.
- Lei è morta - ripeté.
Con fatica, cercai di spostarmi ma Elizabeth mi afferrò il braccio. Non avrei voluto, ma feci in modo che allentasse la presa e le sfuggii. Mi misi divanti a lei. Le sorrisi, le presi le mani e gliele strinsi. Ma lei non voleva una semplice stretta di mano: si gettò tra le mie braccia con un tale impeto da sbalzarmi all'indietro e l'unico motivo per cui non finii sdraiato fu che misi una mano sulle coperte e mi ci aggrappai. Ripreso l'equilibrio, cominciai a sussurrarle all'orecchio che andava tutto bene e le accarezzai i capelli.
- Ci sono io - sussurrai.
Chiusi gli occhi e cercai di godermi il momento. Non sentivo più il dolore alla testa.
- Sono stata al suo funerale.
- Mi dispiace.
- Sono stata malissimo.
- Mi dispiace, Elizabeth.
- Lei è viva. - Mi strinse il braccio.
- È viva - ripetei.
Mosse la mano sulla mia schiena, provocandomi dei brividi.
- Grazie, Matthew.
Sorrisi.


 

Due ore dopo, Elizabeth mi stava decisamente battendo a Monopoli. Aveva cominciato già nel primo giro, dove aveva atteso senza comprare caselle finché non era caduta su quelle più costose e, già che c'era e avendo soldi, aveva comprato anche delle case, facendomi perdere molti biglietti una volta finitoci sopra. Nel secondo turno, aveva comprato altri terreni, anche meno costosi, ormai il suo obbliettivo era compiuto. Mai una volta che finisse sulle mie caselle. Alla fine capitai nel suo albergo e, dovendo darle duecento dei soldi del Monopoli, finii in bancarotta.
- Come hai fatto? Nessuno ha mai terminato una partita a questo gioco, figuriamoci vincere - dissi ancora stupito.
- Perché non avevi mai giocato contro di me. Chiedi a Thomas, se tutti quegli anni a Natale non l'ho stracciato. - Aveva un'espressione molto soddisfatta. Ero felice di vedere che si era ripresa.
Ero felice con lei.
Per la prima volta lo capii e lo accettai: quello che provavo per Elizabeth non era la semplice infatuazione che avevo avuto la prima volta che l'avevo vista, non era la cotta che mi ero preso per la ragazza del mistero con cui avevo litigato la mattina dell'ultimo dell'anno. No, quello era passato molto tempo prima. Quello che provavo per lei era qualcosa di più grande, qualcosa che non avevo mai sentito prima per nessuno. Io ero innamorato di lei.
Avrei voluto baciarla.
Mi avvicinai tantissimo a lei e la vidi arrossire, ma non si ritrasse. Incominciai a farle il solletico e lei si piegò in due dalle risate, cercando di allontanare le mie mani.
- Smettila - disse con le lacrime agli occhi per le risate.
Scivolò giù dal letto e io sentii un tonfo, così mi sporsi a guardare. Era accovacciata contro il materasso e si teneva la pancia.
- Non farlo mai più. - Rise.
- Non posso promettere niente. Hai fame?
Elizabeth annuì.
Mi alzai in piedi e aiutai lei a fare lo stesso tendendole una mano.
Arrivati in cucina, cominciai ad armeggiare con le pentole.
- Che fai? Sei malato. Sei svenuto. Dovrei prepararti io qualcosa - disse.
- È casa mia e poi sto meglio. Ho preso un'aspirina. Sei una brava infermiera. - Ricordai per un momento Margareth, che una volta lasciata la scuola voleva studiare medicina e diventare un medico, e misi a confronto i sentimenti che avevo provato per lei con quelli che sentivo per Elizabeth. Erano diversi perché gli ultimi erano più intensi. Non avrei mai potuto lasciare andare Elizabeth come avevo fatto con la mia compagna di nuoto.
- Cos'hai fatto nel tempo in cui ho dormito? - chiesi mentre indicavo alla bionda dove trovare le posate per apparecchiare la tavola.
- Mi sono presa cura di te...e mi sono annoiata.
Una trentina di minuti dopo, pronte le bistecche, ci eravamo seduti in tavola e le avevamo divorate. Poco dopo averle finite, suonarono alla porta.
Elizabeth disse che sarebbe andata lei ad aprire perché io non dovevo prendere freddo. Si alzò dalla sedia ed uscì dalla cucina. I suoi passi erano rumorosi e la porta si aprì con una cigolio.
- Cosa ci fai tu qui? - chiese la voce di Thomas.
Mi alzai dalla sedia e raggiunsi Elizabeth.
- Ciao Thomas! - lo salutò lei.
- Sono venuto a portare i libri di Matt, quelli con le cose da studiare - disse vedendomi arrivare. - Idea di Iris. - Fece cenno alla sua macchina, nella quale Iris era seduta tranquilla.
- Grazie.
- Che ci fai tu qui? - chiese di nuovo spostando lo sguardo verso la cugina e poi verso di me, alzando le sopracciglia.
- Sono venuta a vedere come stava.
- Certo - disse non troppo convinto. - Torno a scuola. Devo ancora pranzare e tra mezz'ora ricominciamo le lezioni. Dovresti fare lo stesso Lil. Vuoi un passaggio? - Non sapeva che in realtà lei non ci era proprio andata quella mattina.
Elizabeth scosse la testa. - No non preoccuparti.
- Non ti lascio andare a piedi. Forza, sbrigati.
La ragazza mi lanciò uno sguardo, voleva restare, ma sapeva che convincere Thomas era quasi impossibile. - D'accordo. Ciao Matthew.
- Ciao Elizabeth.
Uscì dalla porta con il cugino e mi lasciò nel silenzio.


 

Quando finalmente la febbre mi passò e potei tornare a scuola, andai in cerca di Elizabeth nei corridoi. Una volta davanti al suo armadietto incontrai Hannah. Aveva i capelli legati in una coda e indossava una maglietta a maniche corte, era sicuramente appena stata in palestra per l'ora di ginnastica.
- Non c'è - disse soltanto.
- Cosa? - chiesi confuso.
- Elizabeth ha la febbre. È assente.
- Ah okay. Grazie.
E si allontanò. Sembrava nervosa.
Alzai le spalle tranquillo e mi diressi dai miei amici.
Mentre percorrevo il corridoio scrissi un messaggio ad Elizabeth: "Evidentemente stare abbracciata ad un ammalato per troppo tempo, fa prendere anche a te la febbre."
Mi guardai intorno per cercare faccie conosciute ma notai soltanto ragazzi che parlavano vicino agli armadietti e altri che si dirigevano in fretta verso le aule.
"Blu" mormorò il mio telefono, vibrando. Lo presi in mano e lessi la risposta di Elizabeth: "Ne è valsa la pena."
Un sorriso si fece largo sul mio viso.
Iris e Thomas parlavano tranquillamente, come ogni giorno, quando arrivai da loro. La rossa portava i capelli sciolti e indossava una gonna che le arrivava sopra il ginocchio. Era davvero molto bella. Thomas si voltò verso di me e annunciò che mi doveva parlare. Guardatosi intorno, mi prese da parte.
- Non ho mai visto Elizabeth così, con quella luce negli occhi - disse posando i suoi occhi su di me.
- Cosa intendi? - chiesi.
- Non so se questo valga anche per lei, ma so riconoscere lo sguardo di una persona... - Si bloccò. - Felice. Quindi, Matt, so che ti ho già fatto un discorso del genere ma, a Capodanno, era solo per farti capire che non dovevi giocare con lei. Adesso però lei è molto più importante per te e so che non la deluderai. - Si fece serio. - Non provarci nemmeno.
Alzò i suoi occhi su Iris e la sorrise per poi dirigersi verso di lei. Li raggiunsi e proposi di andare a lezione. I due si avviarono mentre io mi fermai per qualche passo a guardarli. Cosa voleva dire Thomas sullo allo sguardo di Elizabeth? Ero sicuro che la prima parola che aveva pensato non era stata "felice". Una parte di me provava gioia mentre l'altra si chiedeva se i miei sentimenti erano davvero così facili da decifrare o Thomas sapeva leggermi perché era il mio migliore amico. Tornai a guardarlo. Anche lui ora avevo una strana luce negli occhi, ma era felice perché era con i suoi amici o era innamorato di qualcuno?
Iria scoppiò in una fragorosa risata e spintonò Thomas. Si trattava di lei? No, non poteva essere, erano solo loro. Un'amicizia nata da una promessa.
Sospirai e li raggiunsi in classe.


 

Quando mi misi in macchina per tornare a casa dopo le lezioni, ricevetti un messaggio da parte di Elizabeth. "Vieni al bosco, ti prego. Parcheggia la macchina in un punto non troppo in vista."
Eseguii i suoi ordini, chiedendomi per quale motivo una ragazza ammalata dovesse girare per i boschi. La strada sfilò velocemente intorno a me mentre svoltavo prima a destra e poi a sinistra. Arrivatovi davanti, mi fermai per capire dove lasciare la macchina. Qualsiasi posto davanti agli alberi era troppo in vista. Sbuffai e premetti il piede sull'accelleratore per allontanarmi da lì. Qualche metro più avanti, trovai una piccola insenatura nascosta dove potevano essere parcheggiate almeno due macchine quindi feci le giuste manovre e scesi dall'auto. Corsi sul ciglio della strada guardandomi intorno, nel tentativo di riconoscere gli alberi più vicini alla piccola radura con il masso dove avevo incontrato Elizabeth la seconda volta, in modo da poterla raggiungere con più facilità, sicuro che l'avrei trovata lì. Osservai bene un pino e alla fine decisi di addentrarmi nel bosco. Un'aria umida mi avvolse. Tutto era più scuro e freddo e degli aghi di pino caduti formavano un tappeto per terra. Camminai per un po', scostando i rami che mi impedivano il passaggio. Perché Elizabeth voleva che ci incontrassimo in quel posto?
Poi, improvvisamente, sentii una mano affermarmi da dietro e coprirmi la bocca, impedendomi di urlare. Cercai di uscire dalla presa del mio assalitore ed egli perse la presa su di me, giusto il tempo di voltarmi, poi mi coprì di nuovo la bocca. Io sgranai gli occhi vedendo Elizabeth.
- Shh. Stavi facendo troppo rumore. - Tolse la sua mano dal mio viso. - Un appunto per me: sei troppo grosso perché io riesca a tenerti fermo.
- Cosa facciamo qui? - mormorai.
- Seguiamo mia madre. È uscita con la scusa di andare al centro commerciale ma non ha preso la macchina, così l'ho seguita. Deve incontrarsi con qualcuno e spero sia la nonna.
Proseguimmo a passo lento, cercando di non pestare rami secchi per non fare rumore. Gli alberi iniziarono a frusciare a causa del vento e finalmente, arrivati quasi alla radura, la zona si fece più illuminata. Un brusio di voci iniziò a fare rumore ed Elizabeth mi spinse contro un albero dicendomi di rimanere fermo e zitto. Lei fece lo stesso, acquattandosi di fianco a me.
- ...si farà del male - sentii dire, riconoscendo la voce della madre di Elizabeth.
- Lo so. Dov'è lei adesso? - domandò una donna.
La mano di Elizabeth afferrò la mia con forza. Era la voce di sua nonna. Le sue labbra si mossero ma le parole le morirono in gola.
- A casa. La sto tenendo d'occhio, per evitare che vada da lui, evito di controllarla solo durante l'orario scolastico. Non l'ha visto in questi ultimi giorni... - disse sua madre.
Io ed Elizabeth ci lasciammo andare in un respiro di sollievo, non sapeva del nostro incontro.
- ...dopo le minacce.
- Hai applicato il mio metodo, allora.
- Si. Ma non mi piace molto il fatto che avevi ragione - disse sfregandosi le mani come faceva Elizabeth quando era nervosa.
- Perché? Hai paura che tenga a lui? - Sua nonna era molto tranquilla, di una tranquillità che metteva paura.
Isabelle annuì.
- Se ha rispettato le tue minacce é tutto il contrario.
- Cosa intendi dire?
- Se Elizabeth avesse davvero tenuto ad un ragazzo, non si sarebbe fatta scoraggare da una semplice minaccia - affermò.
La ragazza allontanò la sua mano dalla mia e io mi voltai a guardarla ma lei abbassò gli occhi. Era davvero come diceva sua nonna?
- Era una minaccia di morte, mamma. Elizabeth mi ha vista uccidere, sa che posso farlo.
- Conosco mia nipote, non le sarebbe importato - disse la nonna con un gesto della mano.
- Conosco mia figlia meglio di te - ringhiò Isabelle.
Mi sporsi a guardare la scena. La donna più giovane aveva le mani strette a pugno e un'espressione arrabbiata, mentre la più anziana aveva lo sguardo calmo e le braccia erano lungo i fianchi.
- Cos'hai Isabelle? - chiese quest'ultima.
- Credi di conoscere Elizabeth quando te ne sei andata al suo decimo compleanno, facendoti credere morta. Non hai fatto altro che pretendere da lei, per tutta la vita. Le hai dato lezioni di francese a otto anni, le hai raccontato le leggende a tre. Ha passato la sua intera vita conoscendo tutto. Sapeva che avrebbe dovuto uccidere suo padre a quattro, sapeva che i ragazzi l'avrebbero fatta stare male a cinque. Anche lontana da lei hai preteso che fosse un'assassina, come tutte noi, non hai sperato neppure un attimo che fosse lei la ragazza della profezia, che forse avrebbe potuto vivere felice.
- L'ho sperato. Perché mi stai dicendo tutte queste cose adesso?
- Lo sto facendo perché non voglio che mia figlia soffra e non voglio che tu mi illuda che io stia riuscendo ad allontanarla dal ragazzo. - La guardò dritta negli occhi.
- Non capisco.
- Nemmeno io. - La madre di Elizabeth si voltò e andò via, dalla parte opposta in cui eravamo nascosti noi, lasciando tutti, io, Elizabeth e sua nonna, a bocca aperta.
La ragazza si voltò verso di me e mi abbracciò, di slancio, senza pensare al rumore che avrebbe potuto fare. Io la strinsi molto forte e affondai il viso tra i suoi capelli. Mi piaceva abbracciarla, mi piaceva ogni sorta di contatto con lei.
Udii un rumore di passi e lasciai andare Elizabeth. Sua nonna stava vedendo verso di noi, quindi afferrai la ragazza e mi gettai per terra tirandola giù con me, dietro ad un cespuglio. La donna passò senza vederci.
- Perché mi ha mentito? - mormorò da sotto il cespuglio la ragazza, rivolta a sua nonna. - Mi hai abbandonato.
Non sapevo se avessi dovuto dire qualcosa. La nonna di Elizabeth le aveva raccontato ogni cosa da bambina, privandola dei pochi anni di spensieratezza che avrebbe potuto vivere. Lo aveva detto Isabelle. Ma perché allora lei le voleva bene?
Quando ci fummo assicurati che eravamo soli, Elizabeth uscì dal nascondiglio e si diresse alla radura. La seguii e la vidi sedersi sul masso.
- Mia nonna era molto severa. Più severa del professore di fisica - disse facendo una risata forzata. - Si occupava di me come se non avessimo nessuna parentela. Quello che ha detto mia madre è vero, mi ha raccontato tutto a tre anni ma inizialmente non credevo che quelle cose sarebbero dovute capitare anche a me. È stato quando l'ho capito, a cinque anni, che ho iniziato a desiderare di scappare sull'Isola Che Non C'è. Sapevo un sacco di storie sulle mie antenate, tranne l'ultima che ti ho detto, quella della chiromante. Mia nonna aveva evitato di dirmelo. L'ho scoperto a soli dieci anni, poco prima che se ne andasse, origliando diverse conversazioni. Quando le ho chiesto perché non me l'aveva raccontato mi ha detto che non lo aveva fatto perché quel racconto era inventato. Se n'è andata un mese dopo, il giorno del mio compleanno. Mia madre ha detto che era morta, un incidente. Le ho creduto anche se non ho mai visto il corpo, non volevo vederlo. Mi ha messo in punizione tante volte ma ho sempre pensato che mi volesse bene. Sono affezionata a lei, nonostante mi abbia lasciata senza spiegazioni, con una bugia, facendomi piangere tutte le lacrime che avevo in corpo. Quando mi hai detto che l'avevi vista viva all'inizio non volevo crederci e poi ho cominciato a pensare che, se era vero, era stata un'idea di mia madre. Ma non è così, ne sono certa. Mia nonna ha preso ogni decisione da sola, per tutta la vita, e anche ora è così. Una delle storie che volevo raccontarti è proprio la sua, che ho conosciuto grazie a mia madre, due anni fa, mi ha anche confermato che la storia della veggente era vera. - Si lasciò scivolare giù dal masso e vi si appoggiò con la schiena.
Rimasi in silenzio, aspettando che Elizabeth mi raccontasse la storia di sua nonna ma non arrivò. Lentamente e con cautela, mi appoggiai di fianco a lei.
- Cosa si prova? - mormorò. - Cosa si prova a sapere che la sera cenerai con entrambi i tuoi genitori, che di notte sentirai i loro respiri nella stanza vicino, che troverai sempre entrambi ad aspettarti?
Mi lasciai andare in una risata. - Penso di non essere la persona giusta a cui chiederlo.
Elizabeth mi guardò con un'espressione confusa.
- I miei genitori non stanno più insieme da sette anni. Mio padre ha tradito mia madre e lei l'ha buttato fuori di casa. Lui sta con un'altra e tra qualche mese avrò un fratellastro. I miei genitori si odiano.
- E tu non odi tuo padre?
- Per tanto tempo sono stato convinto di si. Ora non lo so...l'odio è un sentimento così forte. Provo rancore, questo si. E sono arrabbiato, da anni, e non l'ho ancora perdonato.
La ragazza rimase zitta per un lungo momento e poi mi prese la mano, stringendola. - È uno dei sentimenti più sbagliati che potrei provare adesso ma sono...sollevata.
Ero confuso. Sollevata?
- Tu puoi capirmi e ne sono contenta.
- Non volevi una risposta? - chiesi.
- Forse no. Ho sempre vissuto con la gelosia verso le famiglie felici: quella di Thomas, di Hannah e altre. Andavo da loro e venivo inondata da amore. Quell'amore che io non ricevevo davvero.
- Tua madre... - cercai di dire.
- Mia madre mi vuole bene, ma tu lo sai che riceverlo da una sola persona non è proprio il massimo. Non se tua nonna ti tratta e ti dice bugie come faceva con me tutti i giorni.
Annuii.
- Credevo che sapessi che i miei genitori avevano divorziato. Insomma, sei una specie di stalker. Hai trovato da sola il mio numero - dissi per farla ridere.
- Ho fregato a Thomas quello di cellulare la sera del ballo. E in quanto a casa tua, esistono quei giornali con i numeri di tutta la città. Non sono una stalker - rispose imbronciata.
- Perché hai preso il mio numero la sera del ballo? - chiesi ammiccando.
Lei rise. - Era da un po' che ti osservavo.
- Allora si che sei una stalker - esclamai.
- No - disse di nuovo ridendo.
- Sarà di famiglia. - Ripensai a sua madre e alle minacce. Ma non volevo che ci rovinasse quel momento quindi cercai di dimenticare tutto, almeno per un po'.
- Davvero mi osservavi?
Elizabeth annuì, arrossendo leggermente. - Non saprai altro, Matthew.
Cercai di protestare ma lei mi fece cambiare argomento.
- Ma tu non eri ammalata?
- Lo sono. Ma dovevo venire qui. Passarono minuti, nei quali rimanemmo soltanto vicini, seduto uno di fianco all'altra, ad osservare gli alberi. I silenzi non erano imbarazzanti con lei, non lo erano mai stati.
- Ti fidi di me, Elizabeth? - chiesi a bassa voce.
- Certo, Matthew. Mi fido di te. - E sapevo che quello era davvero molto per lei. Significava più delle sciocche promesse che si facevano tante persone, quello che intendeva Elizabeth andava oltre seicento anni.
Non feci quello che avrei voluto, rimasi soltanto vicino a lei, stringendole la mano, per simbolareggiare che la sua fiducia era ben riposta.



Angolino dell'autrice: Eccomi qui! Ho aggiornato appena ho potuto. Mi piace molto la fine di questo capitolo quindi spero che sia piaciuta anche a voi, fatemelo sapere. Forza recensite che mi fate contenta. Davvero, le recensioni mi migliorano sempre le giornate. Ci "vediamo" al prossimo capitolo!

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Capitolo 15
*** Il litigio ***


Capitolo 15: Il litigio

Rientrato a casa, parcheggiai la macchina nel garage e annunciai la mia presenza in casa a mia madre.
Lei non rispose, così decisi di andare a cercarla. Passando davanti alla cucina, la sentì parlare con qualcuno. Era una voce molto profonda, di una persona che sicuramente non conoscevo. Affacciandomi a guardare attraverso la porta, riuscii a scorgere mia madre seduta ad uno sgabello della cucina, aveva i capelli raccolti e sorrideva. La persona di fronte a lei mi dava le spalle e non potevo scorgerne il viso, sedeva vicino a mia mamma sullo sgabello di mio padre. Provai una strana sensazione di fastidio, nessuno si era mai seduto su quello sgabello da anni, tranne il suo proprietario quando veniva raramente a parlarci, e vedervi sopra uno sconosciuto non mi sembrava giusto. Ma non mi sembrava giusto nemmeno provare quella sensazione.
Entrai nella stanza e salutai mia madre. L'uomo si voltò verso di me, aveva un'espressione felice e il suo sorriso si estendeva anche ai grandi occhi azzurri. I capelli erano neri e corti, sembrava avere la stessa età di mia madre.
Accorgendosi del mio sguardo, l'uomo si presentò porgendomi la mano. - Michael Fisher. Sono un collega di tua madre.
- Matthew, ma può chiamarmi Matt.
- Lo so. Lisa mi ha parlato molto di te.
Spostai il mio sguardo verso mia madre e mi chiesi perché avesse detto a quell'uomo qualcosa su di me.
- Perché è qui? - gli domandai.
- Stiamo finendo un progetto - rispose mia madre al posto di Michael.
I due stavano bevendo una tazza di te e chiacchierando, sul bancone non c'era traccia di progetti. Glielo feci notare.
- È tutto nello studio, Matt. Stiamo solo facendo una pausa - mi rimproverò mia madre.
Annuii. Forse ero stato un po' acido con loro, ma quella faccenda mi puzzava. Li salutai entrambi e mi rifugiai in camera mia.
Salite le scale e chiusa la porta, lasciai scivolare la cartella per terra e mi sdraiai sul letto. Quindi presi il mio telefono e inviai un messaggio a Thomas e Iris.
"C'è un uomo in casa." scrissi.
"In che senso?" rispose Iris dopo qualche minuto.
"Un collega di mia madre."
"Un collega?" chiese Thomas. "Sei sicuro che sia solo quello?"
"No, per niente. Mia madre non faceva altro che sorridere."
"Dovresti essere contento che si stia rifacendo una vita ora che tuo padre avrà un altro figlio." scrisse Iris.
"Non lo so...lui mi sembra a posto ma..."
"Ma non è tuo padre. Già." Questa volta era Thomas.
"Non ti capisco, tu odi tuo padre. Perché lo rivuoi ancora indietro dopo quello che ha fatto a tua madre?" domandò Iris.
"Non lo voglio indietro...solo che vedere mia madre con un altro non sarà semplice. Non lo è stato le altre volte e quando le storie non sono durate mi sono sentito meglio."
"Sei strano."
"Penso di poterti capire, più o meno. Proverei le stesse cose." scrisse invece Thomas. "Forza, sta sera si va al bowling. Così non ci pensi."
Scrissi che andava bene. I miei amici sapevano sempre come tirarmi su.
Arrancai fino alla scrivania e trovai il cd che avevo riportato a casa dopo essere andato a trovare Charlotte e mio padre. Non lo ascoltavo da più di un anno, così decisi di inserirlo nel lettore. La musica era bella, come sempre. Mi era dispiaciuto lasciarlo lì. Ascoltando la canzone decisi che sarei passato a trovare mio padre ma soprattutto Charlotte più spesso, così sarei potuto stare più vicino a mio fratello. Chissà se sarebbe stato maschio o femmina. Heidi sarebbe stata gelosa. Sorrisi per la prima volta pensando a qualcosa legato a mio padre.


 

Quella sera, Thomas mi passò a prendere presto. Ad avvisarmi della sua presenza, fu un semplice messaggio che per poco non ignorai, ancora intento a prepararmi, visto il ritardo. A cena, la situazione era stata tesa. Mia madre aveva cercato di cambiare in tutti i modi argomento, ma io avevo deciso di farle domande di ogni genere su Michael. Alla fine lei era riuscita nel suo intento ed io ero andato a cambiarmi, avvisandola che sarei uscito. Mi era sembrata sollevata all'idea che io smettessi di farle domande. Di solito i ruoli erano invertiti. Non sapevo cosa mi era preso quel giorno, ma la stavo sicuramente infastidendo parecchio.
Quando mi chiusi la porta di casa alla spalle, mi lasciai andare in un sospiro di sollievo: con i miei amici non avrei pensato a Michael e alla sua possibile relazione con mia madre.
Thomas mi aspettava fuori dalla macchina e Iris era seduta tranquilla sul sedile davanti. Il mio amico mi batté una mano sulla spalla e mi salutò, poi entrò in macchina e si mise al volante.
- Come va? - chiese Iris voltandosi verso di me e alludendo a mia madre.
- Lascialo stare, Iris. Abbiamo detto che uscivamo per non farlo pensare - disse Thomas tenendo le mani sul volante.
- Tutto bene, non fa niente...c'era un po' di tensione a casa, più che altro a causa mia.
- Tua? - domandò il guidatore.
- Ho fatto qualche domanda.
- Del tipo? - Iris assunse un'espressione curiosa.
- Ho chiesto del progetto che stavano finendo e se interagivano spesso. Poi ho domandato il motivo per cui gli ha parlato di me.
- Gli ha parlato di te? - chiese Iris.
- Brutto segno - disse Thomas.
- Già.
Ci zittimmo tutti e io mi misi a guardare fuori dal finestrino. Dopo pochi minuti, il bosco mi sfilò di fianco, perdendosi in una macchia confusa di alberi e rami. Notai una luce, in fondo, che doveva essere sicuramente artificiale. Forse era una torcia. Immaginai che potesse trattarsi di Isabelle e sua madre e mi chiesi cos'avevano ancora da dirsi.
- Avete visto anche voi una luce nel boschetto? - chiese Iris.
Annuii nonostante non potesse vedermi. - Si.
- Si tratterà della polizia, non hanno ancora scoperto nulla sul morto. Tra poco finiremo in televisione - disse Thomas.
Forse aveva ragione e si trattava della polizia. Di certo era molto più plausibile data la litigata tra le due donne.
La macchina continuò a correre in direzione del bowling. Era un edificio abbastanza grande, a pochi kilometri dalla nostra città ed era facile raggiungerlo in una quindicina di minuti. Aveva un'enorme insegna che si illuminava con numerose luci al led gialle e rosse e tutti i muri erano colorati di quell'ultimo colore.
Thomas parcheggiò la macchina davanti all'entrata ed io e Iris corremmo dentro senza aspettarlo.
Una volta che fummo arrivati davanti al banco che distribuiva la scarpe, ne chiedemmo tre per partecipare. Il signore al banco, un uomo barbuto con un cappellino con la scritta “bowling”, ci consegnò le scarpe con i nostri numeri e ci squadrò da capo a piedi. Thomas comparve dietro di noi e ritirò le sue.
Ci appoggiammo su delle piccole panchine per poter indossare le scarpe e io me le infilai in pochi secondi. Alzai la testa, per vedere a che punto erano i miei due amici e sentii qualcuno che chiamava Thomas. Lui si voltò in cerca della voce e Iris mi lanciò il tipico sguardo di chi vuole infastidire il prossimo. Capì subito quello che voleva fare e la osservai mentre si chinava e allacciava le scarpe di Thomas in un unico fiocco. Quando lui tornò a girarsi affermando che probabilmente stavano chiamando un suo omonimo, Iris fece una risatina.
- Che hai? - chiese lui.
- Niente. Andiamo. - Si alzò.
Thomas fece per seguirla e, dopo aver provato a fare un passo, cadde a terra. Scoppiammo tutti a ridere, lui compreso.
- Siete dei bastardi. Lo sapete, vero?
- Lo sappiamo - dissi.
Iris si chinò e gli stistemò i lacci, poi lo aiutò ad alzarsi.
- Forza andiamo - dissi tirandoli.
Raggiungemmo le piste da bowling e iniziammo a giocare. Thomas ed io adoravamo quel gioco perché Iris era una schiappa. Buttava giù un birillo alla volta e ad ogni turno diceva che il prossimo sarebbe andato meglio. Sembrava convinta. Thomas invece faceva strike tutte le volte, quasi non c'era gusto a giocare contro quei due. Sapevo che Thomas sarebbe arrivato primo, io secondo e Iris terza, ma non mi importava, ero felice di essere lì con loro. Iris mi sarebbe mancata così tanto. Quel problema mi sembrava così importante che guardandola ridere con Thomas mi dimenticai di mio padre, di mio fratello, di mia madre e Michael. Per poco non dimenticai anche Elizabeth. Per poco. Lei era sempre nella mia testa.
Poco prima che la partita fosse finita, un inserviente si mise a pulire il pavimento dietro di noi. Dopo esserci assicurati che i risultati fossero come avevo predetto, Iris si voltò per tornare a ridare la scarpe e scivolò sul pavimento. Thomas si precipitò a prenderla per controllare che stesse bene ma lei stava ridendo.
- Ma continui a ridere oggi? - chiese.
- Ho male alla caviglia.
- E ridi?
Annuì.
Thomas si mise il suo braccio dietro le spalle e la aiutò a rialzarsi. Li raggiunsi e mi misi alla sinistra di Iris, aiutandola a camminare.
Lei continuava a ridere.
- Tu sei pazza! - esclamò Thomas.
Ci appoggiammo alle panchine e le tolsi le scarpe.
- Sarà solo una storta - disse.
- Non lo so, non ci so fare. - Thomas mi guardava preoccupato.
- Okay, andiamo in pronto soccorso.
- No, non ci voglio andare.
- Non comportarti come Thomas! - esclamai.
- Dai Matt, non ho niente.
Sbuffai. - D'accordo. Thomas rimettele le scarpe e poi cambiamoci anche noi, non possiamo fare un'altra partita con lei che si regge a mala pena in piedi.
Thomas fece come gli avevo ordinato e poi tornammo a tenere Iris per le braccia, trascinandola fino alla macchina.
- Vi voglio bene, ragazzi - disse.
Quella fu l'ultima sera in cui avrei potuto definire Iris e Thomas con la semplice parola "amici".


 

Il giorno dopo mi trovavo in piscina, avevo appena finito di fare venti vasche e mi stavo riposando, quando notai una figura zoppicante e dai capelli rossi scendere per gli spalti. Erano una piccola struttura a cui si poteva accedere dall'entrata che non era mai occupata da nessuno, tranne nelle gare. Una volta seduta, Iris si guardò intorno per cercarmi tra le corsie e io le feci un cenno.
Si passò una mano sul viso e notai che sembrava aver pianto perché aveva una striscia di trucco sbavato sulla guancia.
Preoccupato, chiesi a Mark di poter uscire dall'acqua notando che l'orologio affisso sulla parete indicava che mancavano pochi minuti alla fine. Il mio istruttore rispose con un no secco e obbligò tutti a fare altre tre vasche. Ero molto stanco, quindi ci misi più del previsto. Quando finii, Chuck era già uscito dall'acqua e si stava avvicinando ad Iris. Mi tirai su, senza ricorrere all'aiuto della scaletta, e mi diressi verso i miei due amici. Iris mi sembrava scossa e non volevo che Chuck la importunasse con le sue solite battute.
Arrivato loro davanti però, mi accorsi che Chuck le stava chiedendo come stava. - È successo qualcosa?
Iris spostò lo sguardo su di me e mormorò qualcosa che non afferrai.
- Non ho capito, cos'è successo?
Aveva gli occhi rossi dal pianto. - Thomas ha scoperto che mi trasferisco - disse, questa volta con più voce.
In un attimo capii quello che doveva essere successo. Senza pensarci due volte, non curante del raffreddore che mi sarei preso se non mi fossi coperto, scavalcai la ringhiera degli spalti e mi sedetti vicino a lei. Iris mi abbracciò e scoppiò di nuovo a piangere.
Chuck mi chiese con gli occhi quello che stava succedendo. Scossi la testa e gli dissi in labbiale che sarebbe dovuto tornare a casa a piedi. Chuck rispose che non ci pensava nemmeno e io gli ribadì di andarsene. Alla fine, notò Luke che entrava negli spogliatoi e lo seguì. - Ciao Iris - salutò.
Mark mi passò davanti e alzò un sopracciglio, poi mi tirò un asciugamano e andò via.
Tornai a rivolgere l'attenzione alla mia amica che si stava calmando. Si allontanò e io potei asciugarmi.
- Eri bagnato - disse.
- Lo so. Thomas ha reagito così male?
Iris spostò lo sguardo sulla piscina. - Si.
- Vuoi parlarne? - chiesi.
In tutta risposta iniziò a far uscire un fiume di parole. Riuscii a comprenderne soltando alcune e la fermai, dicendole di calmarsi.
- Eravamo alle prove del coro e la professoressa Lawrence... - che era la responsabile del coro -...è venuta a dirmi che era proprio un peccato che io non potessi più iscrivermi al coro dell'università che avevo scelto. Era anche la sua e ci teneva. Così Thomas mi ha chiesto il perché e io gli ho risposto dicendo che cantare non mi interessava più. Ha capito che mentivo ma non ha detto niente, ha aspettato la fine delle lezioni, mi ha fatto uscire ed è andato a chiedere tutto alla prof! - Si zittì e io le feci cenno di continuare. - Quando l'ho visto arrivare, ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. Si vedeva che era arrabbiato anche a dieci metri di distanza. Mi è passato a fianco senza degnarmi di una sguardo. Mi sono messa a dirgli di tornare indietro perché con la brutta storta che mi sono presa ieri riesco a fatica a camminare, figuriamoci a correre. Lui è tornato e mi ha guardato senza aprire bocca per un po', poi mi ha detto che sapeva tutto e ha iniziato ad accusarmi.. Gli ho spiegato che non era una mia scelta, che ero obbligata a farlo per via dei miei genitori, ma non ha detto niente! Ha preferito andarsene!
Le appoggiai un braccio sulla spalla. - Sai com'è fatto...quando qualcosa lo ferisce, si arrabbia.
- Non può fare sempre così! Non ha pensato che non gliel'ho detto proprio perché volevo evitare di litigare con lui? Che forse quella ad essere più ferita sono io? - Si voltò a guardarmi. - Me ne vado! Mi trasferisco in una città che non ho mai visto, dove non conosco nessuno!
- C'è Alex...
- Lo so. Ma Matt non voglio perdere Thomas per una litigata così stupida. Ho solo cinque mesi con voi, tra pochi giorni sarà febbraio, non voglio che resti arrabbiato con me per troppo tempo. Non ho un minuto da perdere.
- Lo farò ragionare - dissi. Sapevo che sarebbe stato un incarico difficile, quasi impossibile, ma glielo dovevo. Iris era una persona fantastica e non si meritava di essere infelice, soprattutto considerato che Thomas era l'ultima persona a volerla vedere così. Lui le era affezzionato, forse più di qualunque amico Iris avesse mai avuto, e si sarebbe pentito dopo un secondo di averle fatto del male. Sapevo quello che stava provando, che il suo odio non era rivolto al fatto che lei non lo avesse informato subito, ma al fatto che non fosse stata lei a dirglielo. Certo, lui se l'era andata a cercare. A Thomas frullavano talmente tante cose nella testa su Iris, che probabilmente una parte di me lo capiva. Lo conoscevo dalle medie, in fin dei conti.
- Vuoi parlargli di nuovo? Oggi intendo.
- Si. Voglio parlargli finché non si sarà deciso a perdonarmi.
- Va bene. Ora mi cambio, tu vai in macchina e aspettai lì. So esattamente dove trovare Thomas. - Le passai le chiavi della macchina e le dissi dove trovarla, poi corsi negli spogliatoi.


 

Quando lo vide seduto sulle altalene, Iris cambiò idea. Preferì che fossi io a parlargli, non voleva peggiorare la situazione. Scesi dalla macchina e mi incamminai verso il parco giochi, che era deserto. Avevo i capelli ancora bagnati e speravo con tutto me stesso che la febbre non tornasse.
Thomas guardava per terra, tenendo puntati i piedi nel terreno e dondolandosi avanti e indietro con il bacino. Mi sedetti vicino a lui e lo fissai.
- Ciao - sussurrò.
- Ciao. So che hai litigato con Iris.
- Già. Non voglio vederla.
- Perché? - domandai.
- Non voglio farlo e basta. - Il suo sussurro si trasformò in una voce normale. - Non sono in vena di litigare.
- A lei prima lo sembravi.
- Matt, non intrometterti. - Strinse i denti. - È già difficile così.
- Sei arrabbiato perché non ti ha detto che avrebbe dovuto trasferirsi?
- Un po' anche per quello. Credevo di essere importante per lei e invece ha preferito che io andassi a scoprirlo da solo. - Sospirò.
- Ma non è l'unica ragione. - Cominciai a dondolarmi.
- Non lo so, Matt. Prima avevo in testa mille motivi per fare quello che ho fatto. Quando mi monta la rabbia non ragiono più, trovo qualsiasi pretesto, come se volessi assicurarmi che quello che sto facendo é giusto.
- Credi ancora che sia giusto?
Tolse i piedi dal suolo e si dondolò ancora una volta, poi si alzò.
- Si. So di essere arrabbiato con lei.
- Tra cinque mesi se ne andrà. Non vuoi stare con lei?
Chiuse gli occhi. - Non è possibile. Mi farebbe troppo male.
Senza guardarmi in faccia, se ne andò, diretto dalla parte opposta in cui avevo lasciato la macchina.
Rimasi un attimo a fissare il terreno, come aveva fatto lui. Lo capivo, sapevo cosa gli stava frullando in testa, ma non potevo dirlo a Iris.



Angolino dell'autrice: Eccomi finalmente. Scusate la lunga attesa anche sta volta. Non è presente Elizabeth perchè, innanzi tutto mi sembrava di star trascurano un po' Thomas e Iris e poi perchè questo litigio è molto importante anche se è dato da motivi un po' stupidi e, siccome durerà un po', volevo che fosse il protagonista di questo capitolo. Volevo dirvi anche che alla fine mi sono covinta a pubblicare la storia anche su Wattpad. L'ho deciso perchè una mia amica è su quel sito e non su questo e volevo tanto avere il suo parere, oltre al fatto che Ciciolla26 ha insistito molto perchè io lo facessi. Ho lo stesso nickname e la storia ha lo stesso titolo, quindi se avete voglia di passare e lasciare una stellina sarei molto contenta, soprattutto se magari non avete il tempo o la voglia di scrivere una recensione qui (anche se mi accontento anche di tre parole). E' tutto, al prossimo capitolo!

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Capitolo 16
*** La casa nel bosco ***


Capitolo 16: La casa nel bosco

Quella sera mi trovavo steso sul letto, ripensando a quello che era successo poche ore prima.
Improvvisamente ricordai quando io e Thomas eravamo diventati amici. Ci trovavamo in terza media e fino a quell'anno avevamo condiviso qualche corso, ma non ci eravamo mai scambiati troppe parole se non qualche saluto. Poi il nostro professore di scienze decise di assegnarci un progetto a gruppi, dei quali avrebbe scelto lui i componenti. Nessuno era stato entusiasta di quella scelta, tutti volevano stare con i propri amici, ma il prof non voleva assolutamente cambiare idea. Mi ritrovai con Thomas e altri due miei amici e ne fui soddisfatto, il mio futuro amico sembrava un tipo a posto mentre gli altri due li conoscevo già. Ci incontrammo per decidere il progetto quel giorno stesso nella sala studio della nostra scuola. Thomas si trovò subito benissimo con noi e quasi non rimpianse di non trovarsi con chi voleva. In meno di una settimana diventammo ottimi amici e lui iniziò a sedersi in mensa con noi, portando anche i suoi di amici. Io e Thomas legammo più degli altri e in poco tempo cominciammo a passare più tempo tra di noi che con gli altri.
Guardai un insenatura sul soffitto e ripensai alla prima volta che ero andato a casa sua. Lui mi aveva accolto felice e mi aveva fatto fare un giro per le stanze prima di condurmi in camera sua. Quando eravamo passati per la cucina avevo conosciuto sua madre. Era una bella donna dai capelli biondi e con gli occhi castani, non troppo bassa. Al suo fianco, seduta al tavolo con un panino con la marmellata e un succo di frutta davanti, c'era una ragazzina con una treccia di un biondo diverso da quello della madre di Thomas, che doveva avere uno o due anni in meno di noi. Portava un vestitino verde primaverile e mi sorrideva candida. La ragazza non si era presentata e Thomas mi aveva condotto in un'altra camera.
Quando gli avevo domandato, curioso, se la ragazza era sua sorella, lui aveva risposto che si trattava di sua cugina.
Il mio interesse per lei era svanito in fretta e la sua esistenza si era confusa tra quella dei tanti cugini di Thomas. Chi si immaginava che quella ragazza, Elizabeth, sarebbe diventata così importante?
Nella mia testa si affollarono le parole di quella ragazza, mi aveva detto che ero io a non essermi accorto mentre lei invece mi osservava da un po' di tempo. Sorrisi il buio della mia stanza, se mi aveva notato quel giorno, forse c'era qualche possibilità che le piacessi.


 

Il fine settimana passò in pace. Mi occupai di Heidi per tutto il sabato perché i suoi genitori dovevano andare ad un matrimonio di un vecchio pro zio. In cambio ricevetti il triplo di quello che mi davano di solito.
La bambina insisté perché la portassi al parco e io accettai, accompagnandola e sistemandomi poi su una panchina mentre lei saliva sugli scivoli. In altre circostanze avrei chiamato Iris o Thomas, ma in quel momento decisi di lasciare perdere. Quella bambina aveva bisogno di tutto tranne che tornare da noi alla panchina e sentirci parlare di litigi e di odio. Non volevo turbarla e sapevo che anche se avessi cercato in ogni modo di evitarle di sentire, lei ci sarebbe riuscita lo stesso involontariamente, comparendo da dietro e sentendo tutto senza che io avessi modo di zittirmi in tempo. Poi sarebbe stata così curiosa che avrebbe deciso di sedersi sulle mie gambe e partecipare alla conversazione. Era una bimba sveglia.
Lunedì arrivò in fretta e anche quella situazione tesa. Ogni volta che mi avvicinavo ad uno dei miei due amici per parlare, loro cercavano in ogni modo di evitare l'argomento principale, raccontando qualsiasi cosa gli passasse per la testa. In un primo momento mi stupii di Iris, non era affatto da lei non sfogarsi. Sembrava che avessero deciso che non parlarne era meglio e tutti sapevano che non era così. Tacere ed evitarsi, questo era il loro metodo. Non appena Thomas svoltava nei corridoi, Iris si dirigeva dalla parte opposta, e stessa cosa faceva lui.
Non si degnarono di uno sguardo tutta la giornata facendomi quasi preferire che si urlassero in faccia piuttosto che riempirmi con quei silenzi.
All'ora di mensa mi sedetti al nostro tavolo, speranzoso che almeno a pranzo avessero deciso di convivere. Ma mi sbagliavo perché esattamente mentre addentavo una carota, vidi arrivare i miei amici da due direzioni opposte. Si videro solo quando giunsero ai lati del tavolo, uno di fronte all'altro. La tensione era decisamente palpabile.
Feci cenno ad entrambi di sedersi ma i due rifiutarono senza dire una parola e, perfettamente sincronizzati, si voltarono e cominciarono a camminare verso la parte opposta in cui guardavano prima.
- Smettetela! - esclamai. - Non vorrete certo lasciarmi qui da solo!
Iris si voltò. - Hai ragione.
- Già. Siediti tu qui. Io vado a cercarmi un altro posto - disse Thomas avvicinandosi e senza guardare Iris negli occhi ma riferendosi a lei.
Mentre Thomas parlava, alzai la testa e notai Elizabeth e Hannah arrivare da dietro di lui con due vassoi pieni.
- Ciao ragazzi - salutò Elizabeth. - Scusate ma non ci sono più tavoli liberi. Possiamo metterci qui?
Annuii e le sorrisi, ricevendone uno in risposta mentre si accomodavano.
Thomas e Iris si stavano ancora fissando, poi quest'ultima sbuffò. - Forza, siediti tu anche qui a meno che tu non voglia aggregarti a qualche tavolo di gente che non sopporti.
- Anche qui c'è gente che non sopporto - disse lui.
- Meglio una che tutti. - Iris si sistemò alla mia sinistra mentre Elizabeth si sedeva di fronte a me con Hannah di fianco a lei. Thomas si sistemò alla mia destra e cominciammo a pranzare.
- Vedo che ti sei ripresa dalla febbre - dissi alla ragazza di fronte a me.
- Si finalmente. Te la farò pagare per avermela attaccata.
Calò il silenzio. Iris e Thomas si rifiutavano di parlare e non solo tra di loro ma con chiunque e in poco tempo l'unico rumore al nostro tavolo era lo sfregare delle nostre forchette sul piatto e dei nostri denti che masticavano.
Ad un certo punto sentii una gamba sfiorare la mia sotto al tavolo. Mandai giù un boccone e aspettai di capire se qualcuno lo aveva fatto apposta. La gamba di ripresentò, percorrendo un piccolo tratto del mio polpaccio ed io alzai la testa, notando Elizabeth che mi guardava insistentemente. Impallidii e iniziai a sentire caldo, cosa stava cercando di dirmi? Di solito in quel mondo la gente ti fa capire che gli interessi e che vuole di più da te ma Elizabeth...Un calcio alla caviglia ben assestato mi tolse dai miei pensieri.
- Aia! - urlai. - Cosa vuoi?
Hannah mi guardò malissimo.
Elizabeth fece la finta tonta. - Non ho fatto niente!
Tornammo a zittirci e io guardai il mio piatto, chiedendomi per quale motivo la bionda avesse deciso di illudermi per poi distruggermi la caviglia.
Elizabeth tossì ed io ripresi a guardarla. Indicò con la testa suo cugino e la mia amica e mi chiese, senza usare la voce ma solo con il movimento delle labbra, cos'era successo. In quel momento capii il perché del calcio: cercava di attirare la mia attenzione senza farsi vedere dagli altri.
- Dopo - le risposi in labbiale.
Hannah guardava Thomas di sottecchi, trovandosi di fronte a lui. Mi chiesi se provava ancora qualcosa per il mio amico, se lo aveva mai provato davvero. Questo mi portò di nuovo a pensare ad Elizabeth. Era così bella. Portava i capelli sciolti e indossava una maglietta che si intonava alla perfezione al colore dei suoi occhi.
Finito il suo piatto, Thomas si alzò, annunciando che avrebbe cominciato ad andare a lezione nonostante mancassero ancora venti minuti. In poco tempo tutto il tavolo si svuotò, lasciando me ed Elizabeth da soli.
- Cosa succede tra mio cugino e Iris? - domandò lei.
- Hanno litigato. Iris si deve trasferire a causa del lavoro del padre e non l'aveva detto a Thomas, che lo è venuto a sapere tramite la professoressa del coro.
- E lui si è arrabbiato per questo?
- Non credo sia dovuto solo a quello. Insomma anch'io mi sarei arrabbiato ma sarebbe durato solo un paio d'ore. Credo che sia anche dovuto al fatto che a me Iris lo aveva detto, ma non è solo questo che gli frulla nella testa.
- Già - disse Elizabeth. - Non è arrabbiato con Iris, è arrabbiato con il suo traferimento. Non vuole perderla e finisce per sfogarsi con la rabbia, lo conosco bene.
- A proposito di Thomas, qualche giorno fa mi hai detto che mi osservavi da un po' di tempo... - cominciai.
Elizabeth sorrise. - Ti interessa questa storia, eh?
- Ho capito quando è stata la prima volta che ci siamo visti e in cui mi hai notato. - La guardai attento mentre lei sa la rideva. - È stato quando sono andato a casa di Thomas per la prima volta. Tu eri in cucina e stavi facendo merenda, portavi un vestitino verde e avevi una treccia.
- Che memoria. Esatto è stato quel giorno. Mi hai sorriso e ti ho trovato subito molto simpatico, così ho chiesto alla zia come ti chiamassi e da quando tu e Thomas eravate amici. Sono sempre stata una bambina curiosa e quelle domande mi sembravano lecite. Quell'anno ti ho visto con Thomas un paio di volte a scuola e poi voi siete andati alla scuola superiore. Quando vi ho raggiunto ormai ti conoscevo grazie alle storie di Thomas: gli piace raccontare quello che fa a scuola e dei suoi amici. Non ero io a chiedere di te, mi parlava anche di Iris - precisò. - Quando vi ho raggiunto qui mi sono stupita di quanto eri cresciuto.
- E di quanto ero diventato figo.
Lei mi ammonì con un'occhiataccia. - Salutavo Thomas nei corridoi ma tu non ti accorgevi neanche di me.
- Volevi che lo facessi? - chiesi.
Lei arrossì. - No.
- Non si dicono le bugie, signorina Lane - dissi imitando il professor Skin.
Scoppiò a ridere e io feci lo stesso.
Quando ci fermammo lei si fece seria.
- Sai, in questi giorni in cui sono rimasta a casa, ho pensato a mia nonna e credo di sapere dove si nasconde - disse.
- Cosa intendi?
- Dovrà pur dormire da qualche parte. Credo di sapere dove perché è davvero improbabile che sia in un semplice hotel o abbia affittato un casa, tutta la mia famiglia la crede morta e forse anche lo stato.
- Le avevano fatto il funerale, giusto? Me lo avevi accennato.
Annuì. - Io non l'avevo vista nella bara perché ero troppo piccola, però mi sembra strano che mio zio non abbia guardato. In ogni caso, credo abbiamo registrato la sua morte.
- Quindi dove si nasconde?


 

Erano le quattro e qualche minuto quando arrivai al boschetto. Un venticello leggero raffreddava l'armosfera e muoveva i rami degli alberi. Elizabeth mi aspettava impaziente davanti ad un pino, si era messa una sciarpa ma portava gli stessi vestiti di qualche ora prima a scuola. Appena mi vide, venne verso di me, impaziente di scoprire la verità.
Avevamo discusso se fosse il caso di andare a vedere se i ragionamenti di Elizabeth fossero veri e, dopo essere stati incerti perché temevamo di essere scoperti, avevamo deciso che valeva la pena tentare.
Elizabeth mi guidò attraverso il bosco. Superammo la radura e arrivammo nella zona in cui era stato scoperto il corpo di suo padre. Mi accorsi che non era a suo agio e mi chiesi come si doveva sentire per quello che aveva fatto suo madre, si trattava sempre di omicidio. Elizabeth non si fermò, al contrario decise di allungare il passo.
Dopo una cinquantina di metri, iniziai a notare che gli alberi diventavano meno fitti e, in poco tempo, si aprì un'altra piccola radura che era quasi totalmente occupata da una casa. L'edificio era stretto e composto da due piani, su ogni lato aveva due finestre e prima di arrivare alla porta bisognava salire su un piccolo patio, ricoperto da una tettoia che, sporca di ragnatele, conferiva alla casa un aspetto sinistro. Rabbrividii. Tutto in quella casa produceva rumori inquietanti, dai due gradini per raggiungere il patio che scricchiolarono sotto i nostri piedi, alla porta con la serratura rotta e piena di graffi che si aprii gracchiando.
Davanti a noi si estendeva un piccolo corridoio che portava al salone della casa abbandonata. C'erano diversi divani ricoperti da un lenzuolo bianco pieno di polvere. Elizabeth mi afferrò la mano e io mi lasciai pervadere da quella calda sensazione che provavo quando lo faceva. Per un attimo mi sembrò di essere di nuovo nella casa dei fantasmi del luna park, ma questa volta non era finzione, forse non avremmo trovato vampiri o mummie, ma quei divani e quel senso di vuoto mi terrorizzavano più di un manichino colorato.
Mi accorsi di un piccolo camino sul lato destro della stanza e mi chinai a guardare se qualcuno lo aveva acceso negli ultimi giorni. Elizabeth non volle lasciarmi la mano e io la trascinai giù con me. Nel caminetto erano stati lasciati alcuni rametti carbonizzati, che al tatto mi sporcarono la mano libera.
- Qualcuno è stato qui - mormorai.
Elizabeth annuii e mi fece cenno di andare a controllare la sala da pranzo, che si trovava vicino al salotto. Era una stanza spoglia e c'erano solo delle sedie ricoperte dai lenzuoli, sulle mensole non era rimasto niente. Nessun segno che qualcuno ci fosse passato.
Ritornammo verso il salotto e raggiungemmo una scalinata di legno, salendo al primo piano, dove si apriva un corridoio con tre diverse porte. Camminammo in silenzo, cercando di non fare rumore. La nonna di Elizabeth poteva trovarsi lì. Dopo esserci appostati davanti ad una delle tre porte, ascoltammo per capire se qualcuno si muoveva per la stanza. Dalla porta non arrivava nessun suono ed Elizabeth propose di aprire la porta ed entrare.
La spalancai, preso da uno strano coraggio. Quella che ci trovammo davanti era una camera da letto molto bella e grande, con un bellissimo letto a baldacchino completamente ricoperto di polvere e senza materasso. Nessuno ci poteva dormire.
Cambiammo stanza e, come prima, attendemmo prima di entrare. Anche quella era una camera da letto, con lo stesso baldacchino e senza materasso.
La terza era identica alla prime due.
Elizabeth sospirò e io non capii se era sollevata oppure delusa.
- Ci sono ancora la cucina e la camera della servitù - disse a bassa voce. - Le ho evitate perchè sono sotto il livello della casa.
Annuii, si trovavano vicino alla sala da pranzo.
Scendemmo di nuovo le scale e passammo per le stanze del piano terra fino a raggiungere una piccola scaletta nascosta dietro ad una porta che conduceva alla cucina. Anch'essa era quasi senza mobili. Ci restava solo una stanza da controllare e si trovava alla nostra destra, già semi-aperta.
Elizabeth inspirò e mi strinse la mano. Eravamo pronti ad entrare quando un rumore ci spaventò. Era come se qualcuno avesse gettato qualcosa per terra.
- C'è qualcuno - disse Elizabeth con la voce tremante.
- Già. - Avanzai, cercando di guardare dalla fessura, in cerca di sua nonna.
La bionda mi tirò indietro e mi ammonì con uno sguardo truce.
- Nascondiamoci - mormorò poi con la voce così bassa che quasi feci fatica a sentirla.
Ci chiudemmo in un piccolo ripostiglio delle scope dalla parte apposta della cucina. Lo stanzino era talmente piccolo che dovemmo stringerci uno contro l'altra. Sentivo il respiro di Elizabeth contro il mio collo, non potevo resistere molto così senza toccarla.
Cercai di muovermi e socchiusi la porta per guardare fuori. Proprio in quel momento, dalla fessura che si era aperta dalla stanza della servitù uscì una piccola palla di pelo bianca. Soffocai una risata e uscii dallo stanzino, trascinando Elizabeth con me.
- Ecco la strana presenza - dissi indicando il gatto.
Elizabeth si inginocchiò davanti al felino.
- Ma sei minuscolo - esclamò. Aveva ragione, si trattava di certo di un cucciolo. - Dov'è la tua mamma?
Sorrisi. Parlava con il gatto. Lui iniziò a miagolare e a strusciarsi su Elizabeth, in cerca di coccole.
Mi guardai intorno circospetto e controllai che l'unica presenza nella stanza fosse davvero stata solo il gatto. All'interno c'era un po' di confusione e notai uno scatolone rovesciato a terra, sicuramente era stato vittima dell'animale.
Elizabeth mi raggiunse con il gatto tra le braccia e io strorsi il naso. - Se è randagio, può avere qualche malattia.
- Non importa - disse lei accarezzandone il morbido pelo.
Avanzammo ancora nella stanza e notammo delle coperte nascoste in un angolo. Le toccai e notai che non erano affatto impolverate. Ci guardammo negli occhi: Elizabeth aveva ragione.
Appoggiato alla parete, trovammo un materasso.
- Andiamo. - Il gatto miagolò.
Io annuii, ero stato in quella casa già abbastanza.
Quando uscimmo, Elizabeth posò a terra l'animale e io potei osservarlo. Aveva il pelo lungo di un bianco candido, alcuni ciuffi sulla punta delle orecchie erano marronicini e i suoi occhi erano azzurri.
Mi chinai anch'io ad accarezzarlo. - Sei molto bello.
- È una femmina - chiarì Elizabeth.
La incitai ad andare ma lei non voleva lasciare la gatta.
- Non possiamo lasciarla qui. - Mi guardò con tanta intesità che cedere non mi fu difficile.
- D'accordo ma...
- La terrò io. Per mia madre non sarà un problema, ha sempre desiderato averne, ma mia nonna non approvava. Ci prenderemo cura di lei.
Sorrisi. - Portiamola da un veterinario, dobbiamo accertarci che non sia randagia.
Lei annuì con vigore e accarezzò la gatta.


 

Eravamo seduti nella sala d'aspetto del veterinario da qualche minuto quando decisi di chiedere a Elizabeth perché avesse pensato che sua nonna si nascondesse in quella vecchia casa.
- La verità è che la mia famiglia non è mai stata ben vista nella società, era una donna a fare da capofamiglia e a quei tempi...Le mie antenate sono sempre state costrette a fare lavori umili perché erano povere, facevano parte dei gradi più bassi delle società. La maggior parte delle volte erano cameriere nelle case dei ricchi. La mia famiglia è arrivata qui nei primi del Novecento e per vivere ha iniziato a lavorare per una famiglia ricca che abitava qui. La vecchia casa che ti ho mostrato oggi era la loro. L'hanno abbandonata nel 1925 quando hanno iniziato a pensare di essere troppo ricchi per vivere in una cittadina così piccola e hanno deciso di trasferirsi nelle grandi città come New York. Nei primi tempi la casa non è stata venduta perché era troppo costosa per le povere famiglie che vivevano qui e poi è stata completamente abbandonata.
- Io non sapevo nemmeno della sua esistenza! - esclamai.
- Proprio per questo, per la sicurezza che nessuno la visitasse, mia nonna avrebbe potuto rifugiarsi lì. E avevo ragione. - Sospirò. - Non so se essere felice.
Volevo risponderle che avremmo scoperto perché le aveva nascosto una cosa importante come il fatto che fosse viva e che dopo tutto sarebbe stata felice delle risposte, che se non lo fosse stata sarei stato io a renderla felice, ma proprio in quel momento il veterinario venne a dirci di entrare.
Quando ebbe fatto i dovuti controlli al gatto e ci ebbe assicurato che era un randagio, ci chiese se volevamo tenerlo o preferivamo lasciarlo a lui, che in quel caso si sarebbe assicurato di trovargli una famiglia.
Elizabeth rispose che intendeva tenerlo e il veterinario si occupò di fargli le dovute vaccinazioni. Alla fine ci chiese come intendevano chiamarlo.
- Credo che tu debba scegliere con tua madre... - feci per dire.
- Tinker Bell – mi interruppe Elizabeth. - La chiamerò Tinker Bell.
Sorrisi. - Come la fatina di Peter Pan.
- Esatto. - Accarezzò il morbido pelo dell'animale.



Angolino dell'autrice: Buon ferragosto a tutti! Come al solito, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo e soprattutto del nome della gattina di Elizabeth. Ci ho messo tantissimo a decidere siccome volevo qualcosa di legato a Peter Pan ma c'è ancora qualcosa che non mi convince...mi sembra lungo come nome da gatto.
Vi lascio il link della storia su Wattpad così, se avete voglia di passare, la trovate senza problemi. w.tt/1IuLKbz
Al prossimo capitolo e recensite!

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Capitolo 17
*** Seconda stella a destra... ***


Capitolo 17: Seconda stella a destra...

L'ultima settimana di gennaio passò in fretta. Dopo le ultime scoperte sulla nonna di Elizabeth non si era più saputo niente e, nonostante io cercassi di scoprirne di più, la mia amica non accennava a raccontare la sua storia. Non che io glielo chiedessi, l'accordo era che sarebbe stata lei a decidere quando, ma dopo che mi aveva detto che restava poco tempo, credevo che mi avrebbe fatto sapere tutto più in fretta. Sapevo che sua nonna era particolare, era stata la prima a mettere al mondo due gemelli ed ero parecchio curioso. Se poi mi avesse detto di lei, avrei saputo in meno tempo i dettagli sulla morte di suo padre, ma aspettai.
Elizabeth mi mandò via messaggio numerose foto di Tinker Bell, che era stata accolta in casa a braccia aperte e io scoprii che sua madre non le teneva d'occhio il cellulare. Era stata semplicemente la volta in cui io avevo la febbre che, dopo una litigata con figlia, era andata nella sua camera ad assicurarsi che stesse bene e aveva notato sullo schermo del telefono il mio nome. Dopo quel giorno non si era più preoccupata, sperando che le minaccie la allontanassero da me.
Iris e Thomas non accennavano a parlarsi e, poco a poco, stavano anche rinunciando alla silenziosa convivenza durante le ore di pranzo. In più sembrava che facessero di tutto per infastidirsi.
La sera del sabato decisi di uscire con Thomas per cercare di farlo ragionare. Alle otto mi feci trovare a casa sua e lo andammo insieme in macchina fino al Winter Pub.
Una volta arrivati io e Thomas ci sedemmo ad un tavolo in fondo al locale e prendemmo da bere solo una coca-cola.
- Era da tanto tempo che non uscivano solo noi due, senza ragazze tra i piedi - disse lui.
- Da quando definisci Iris una “ragazza tra i piedi”? - chiesi cercando di alzare un sopracciglio.
- Da sempre.
- Anche quando ti sei fatto rompere il naso per lei?
Lui mormorò qualcosa e bevve un sorso della sua bibita.
Io decisi di insistere: - Anche quando le hai fatto quella promessa?
Rimase zitto per un attimo, decidendo cosa dire e io spostai un secondo lo sguardo verso due ragazze ferme al banco per prendere delle ordinazioni. Una di loro aveva lunghi capelli castani con le punte colorate ed indossava un vestito nero molto stretto sui fianchi, la sua amica invece era vestita con dei semplici pantaloni e una maglietta e risultava più anonima vista da dietro.
- Senti, - cominciò Thomas, facendo ritornare il mio sguardo su di lui - io lo so che non vuoi che io e Iris litighiamo ma...
- Non sei arrabbiato con lei. - Lo bloccai. - Stai litigando solo per il tuo orgoglio e, forse ha ragione Elizabeth, solo perché non vuoi che vada via. Ma questo non cambierà le cose.
- So benissimo che le cose non cambieranno per me - disse alzando il tono della voce. - Lo sto facendo solo per l... - Non finì la frase perché proprio in quel momento qualcuno chiamò il suo nome.
Ci voltammo entrambi in direzione di quella voce e scoprimmo che si trattava di Hannah, la ragazza con i capelli colorati al bancone era lei mentre la sua amica era Margo, che avevo già incontrato in gita e avevo poi scoperto che faceva parte del gruppo di fotografia della prima.
Hannah prese una sedia da un tavolo vicino e si sistemò accanto a Thomas, Margo mi sorrise e si sedette con noi.
- Cosa ci fate qui? - chiese Hannah.
- Be' volevamo vederci e abbiamo pensato di venire qui - rispose Thomas senza il tono che aveva usato poco prima con me.
- Elizabeth non c'è? - domandai speranzoso.
- No, di solito non le piace molto stare qui quindi non le ho neanche chiesto se voleva. Iris invece? Non è potuta venire? - Si era accorta benissimo che quei due avevano litigato, voleva solo la conferma.
- Lei e Thomas hanno litigato...
Hannah si lasciò sfuggire una strana espressione in un misto tra stupore e soddisfazione.
- Per quale motivo? - chiese Margo.
Thomas scosse la testa. - Niente.
I miei amici si lanciarono in una lunga conversazione sulla scuola e di quanto fosse noioso dover studiare, fermandosi parecchio a chiarire che il tempo passava fin troppo lentamente in inverno. Io sbuffai e mi guardai intorno. Proprio in quel momento notai Chuck seduto da solo ad un altro tavolo quadrato. Possibile che tutti quelli che conoscevo si fossero riuniti lì? Decisi di alzarmi per invitarlo a sedersi con noi. Spiegai ai miei amici che andavo da lui e li lasciai soli. Quando raggiunsi il tavolo del mio compagno di nuoto lo trovai che giocherellava con le chiavi della macchina. Era un fatto più unico che raro che Chuck tirasse fuori la sua automobile.
Lo salutai e lui sobbalzò non aspettandosi la mia presenza.
- Cosa fai qui? - esclamò quasi spaventato.
- Sono con degli amici. - Indicai il mio tavolo. - Cosa fai tutto solo?
- Sto aspettando una persona.
Cercai di alzare un sopracciglio senza risultato. - Una ragazza?
Lui non disse nulla anche se una risposta affermativa era decisamente scontata visto il suo nervosismo. - Credo che non verrà.
- Vuoi sederti con noi?
Lui ci pensò su un po', decidendo se valeva la pena di rischiare che la ragazza arrivasse e lo trovasse con amici. Infine alzò la testa e annuì.
Lo condussi dagli altri e lui, sorridendo, mise una mano sulla spalla di Thomas e chiese di Iris, già pronto a provarci con lei e, come al solito, a fallire miseramente. Ad una risposta negativa concentrò quindi le sue attenzioni su Margo.
Per tutta la sera guardò con ansia la porta d'ingresso, speranzoso di veder entrare la ragazza che aspettava ma lei non si fece viva.
Quando iniziò a diventare tardi, decidemmo di andar via. In uno slancio di galanteria, Thomas propose alle due ragazze di accompagnarle fino alla macchina e io e Chuck li seguimmo.
Mentre camminavamo al buio con la sola luce dei lampioni verso il parcheggio, sentimmo un gruppo di ragazzi dalla parte opposta alla nostra strillare. Erano ubriachi. Li guardai in faccia e capii che non dovevano avere affatto ventun'anni, quindi sbuffai e feci segno agli altri ragazzi di proseguire quando Chuck si fermò di colpo davanti a me. Uno dei ragazzi ubriachi si era alzato e aveva iniziato a chiamare il suo nome a gran voce.
Le ragazze rabbrividirono.
- È Luke - disse.
Aveva ragione. Non avevo mai visto il nostro compagno di nuoto così: la postura scomposta e traballante, la voce tremolante e impastata, le mani che reggevano a malapena una bottiglia vuota e una sigaretta. Nonostante questo, non la smetteva di ridere. Forse era vero che tutte le persone che conoscevo si erano riunite lì quel giorno, magari avrei persino incontrato Iris ed Elizabeth.
- Vado un attimo da lui, voi iniziate ad andare. - Chuck attraversò di corsa la strada e raggiunse Luke.
Io e Thomas ci lanciammo uno sguardo e decidemmo di aspettarlo.
Chuck si avvicinò ai ragazzi ubriachi e tolse la bottiglia dalle mani del biondo, dicendogli qualcosa.
Lui reagì ridendo. Chuck si arrabbiò e gettò per terra la bottiglia che si ruppe in mille pezzi.
- Sei incazzato perché non sono venuto o perché sono sbronzo? - disse Luke.
- Smettila di ubriacarti.
I ragazzi dietro lo schernirono, ripetendo quello che aveva detto.
Li osservai, sperando di non scorgere anche Jason con loro. Fortunatamente non lo vidi.
- Se avessi fatto solo quello - disse il ragazzo in risposta.
Chuck imprecò e gli diede le spalle, per tornare da noi. - Sei migliore di così. Smettila di girare con loro.
- Oh, adesso il finocchio vuole fare la mammina che mi libera dei guai.
Per poco non scoppiai a ridere. Chuck era il ragazzo meno gay che avessi mai conosciuto: guardava nelle scollature delle ragazze e sotto le loro gonne e ci provava con qualsiasi persona di sesso femminile che gli passasse davanti. Se Chuck era gay, Iris e Thomas si sarebbero fidanzati, che era parecchio improbabile. Anche se...
Comunque Chuck e Luke mi nascondevano di sicuro qualcosa. Il tatuaggio che il primo si era fatto a capodanno e le loro varie litigate ne erano la prova.
Il amico ci raggiunse e ci fece segno di continuare a camminare.
- C'è Matthew. Perché non ci provi anche con lui? - urlò Luke.
Chuck lo ignorò.
Ci allontanammo e a poco a poco le grida e gli schiamazzi cessarono.
Margo si accostò a noi per chiacchierare e non nominò quello che era accaduto appena prima, impedendomi di porre domande al mio compagno di nuoto. Hannah e Thomas continuavano a camminare davanti a noi da soli.
Passammo davanti a un incrocio e Chuck si fermò, indicando una delle strade, poi disse che la sua macchina era lì. Mi dispiaceva non potergli chiedere niente, ma mi dissi che lo avrei fatto a nuoto. Chissà come si sarebbe comportato Luke.
Mi risvegliai dai miei pensieri accorgendomi che Margo mi stava parlando. Chiacchierai con lei e le chiesi se aveva un ragazzo. Lei mi disse di no e si zittì, permettendomi di sentire una parte della conversazione dei due amici davanti.
- Non lo dirò, puoi stare tranquillo. Non l'ho fatto quando me l'hai detto e in quel momento ero furiosa. Non dirò a nessuno che sei innamorato di lei - disse Hannah.
Cosa? Di chi era innamorato Thomas? Perché non me l'aveva detto?
Margo disse qualcosa che mi impedì di capire la risposta di Thomas.
- Matt? - mi richiamò la ragazza che camminava vicino a me.
Le risposi dicendo che la stavo ascoltando.
- Comunque, cambiando argomento. Perché tu e Iris avete litigato? - chiese Hannah.
Inizialmente, Thomas mi parve confuso, come se non capisse perché gli avesse fatto quella domanda. Hannah stiracchiò le braccia verso di noi e il ragazzo si fermò a guardarla, poi, come ricordandosi della domanda si affrettò a rispondere brevemente.
Margo mi chiamò un'altra volta e poi si stufò. Mi dispiaceva trattarla così ma dovevo ascoltare. Sperai che non mi avesse fatto scoprire e per un secondo lo temetti, così mi affrettai a scusarmi e a intavolare una conversazione. Dopo averle chiesto di raccontarmi della sua collezione di peluche rari, Margo cominciò a parlare a raffica senza nemmeno controllare che io la seguissi, permettendomi comunque di sentire sprazzi di quello che si dicevano i due davanti a me. Mi sentivo abbastanza bastardo, ma dovevo sapere.
- Allora intendi ignorarla? - disse ridendo la ragazza. - Perché non farla arrabbiare?
Thomas si grattò il capo. - Lo è già abbastanza.
- Infastidiscila. Fingi di aver trovato una sua sostituta.
Cosa intendeva? Avrei voluto chiedetglielo. Fortunatamente Thomas lo fece al posto mio.
- Be' lei è tua amica e di così importante hai solo lei a parte Matt. Fingi di trovarne un'altra.
- E come faccio?
- Comportati come una persona che si diverte con una ragazza che non è lei. Fai in modo che ti veda sempre con questa persona.
Non mi sembrava una grande idea ma Thomas annuì.
- E dove la trovo una ragazza che finge di essere la mia migliore amica?
Conoscevo già la risposta.
- Io, naturalmente.
- Penso che questa cosa renderà più soddisfatta te che... - fece per dire Thomas ma lei lo bloccò facendo segno verso di me.
Il mio amico si voltò. - La vuoi smettere di ascoltare?
- Non ascoltavo. Margo mi stava raccontando della sua collezione di peluche! - esclamai, cercando invano di giustificarmi. Non funzionò.
Thomas e Hannah continuarono a parlarne a bassa voce finché non arrivammo alla macchina e io fui costretto ad ascoltare Margo mentre farneticava su strane ossessioni per i peluche rossi. Tanto non mi serviva sentire altro per capire che da lunedì Thomas avrebbe torturato Iris fingendo un'amicizia che non era minimamente profonda quanto quella tra loro.


 

DRIIN.
La campanella che segnava la fine della lezioni della mattinata suonò. Mi affrettai a sistemare le mie cose e a infilarle nello zaino e uscii dalla classe. Raggiunsi quella di Iris a passo spedito per andare insieme in mensa e la trovai che mi aspettava.
- Ho una gran fame - annunciò. - Sparo ci sia qualcosa di buono.
I desideri di Iris non furono esauditi. Bess stava distribuendo a tutti il suo "fantastico" puré di patate e dall'arrosto mal cotto che non era mai stato la sua specialità. Iris mi guardò con sconforto e chiese alla cuoca se non avesse cucinato altro. La risposta era affermativa ma non era rimasto più niente, quelli dell'ora prima avevano evitato l'arrosto come la peste. Iris prese della frutta, io feci lo stesso.
Quando ci sedemmo al tavolo arrivò Thomas. Lui e Iris si guardarono e lui, senza dire una parola, si accomodò di fianco a me, come aveva fatto per tutta la settimana. Per lo meno c'era una silenziosa convivenza tra i due e io potevo stare con entrambi senza schierarmi.
Cercai di farli parlare un po' ma non intrattenevano mai una conversazione insieme, stavo iniziando ad innervosirmi.
Poi notai Elizabeth muoversi verso i tavoli, guardava il suo vassoio senza troppa convinzione. Possò vicino a me e capii che non non intendeva fermarsi, così le afferrai il braccio e per poco a lei non cadde il vassoio.
- Ma che cavolo... - cominciò a dire prima di accorgersi che ero io. - Matthew stavi per far cadere il mio pranzo.
- Ti avrei salvato la vita. - Diedi un'occhiata al purè che sembrava muoversi.
- Posso sedermi qui? - chiese.
- Devi! - esclamai. Non volevo rimanere solo con quei due.
- Credevo fosse scontato ormai - disse Thomas. - Hai fatto metà della settimana scorsa qui.
Lei arrossì e sorrise. - Grazie.
Si accomodò di fianco a me e iniziò a tastare il suo cibo con la forchetta. Le consigliai di non mangiarlo e lei annuì, allontanando il suo vassoio.
Iris le passò un po' della sua frutta e io feci lo stesso. Qualche minuto dopo, lei e la mia amica iniziarono a parlare. Iris le stava chiedendo dei consigli per la verifica di francese che doveva avere la settimana seguente.
Hannah comparve dietro Thomas e lo salutò con vigore. La loro inutile e stupida recita stava per iniziare. Sbuffai e mi misi in bocca un pezzo di mela, ero curioso di sapere quanto sarebbe durata quella storia.
Elizabeth salutò la sua amica e rimase molto stupita vedendo che aveva preferito accomodarsi accanto a Thomas invece che vicino a lei. Alzò le spalle e tornò da Iris che invece aveva voltato lo sguardo su di loro.
Notai uno strano sorriso di compiacimento nel viso di Hannah. Avrei voluto sbattere la testa contro il tavolo. Era tutto ridicolo, non si può fingere un'amicizia.
L'antipatia che Iris provava nei confronti della ragazza era evidente e forse quella era l'unica cosa che fece in modo che li notasse. Iniziai a pensare che forse sarebbero riusciti un po' a infastidirla. Era come se ad un tratto io mi fossi messo a conversare allegramente con Charles. Thomas mi avrebbe tirato un pugno in faccia. L'antipatia di Iris nei confronti di Hannah non arrivava a quei livelli ma, se la messa in scena fosse continuata, forse li avrebbe quasi toccati.
Elizabeth mi lanciò una strana occhiata, non capendo da dove fosse nata la loro improvvisa amicizia. Se ci stava cascando lei...
A giudicare dal suo sguardo, Iris avrebbe voluto incenerire Hannah.
Finito il pranzo, Thomas disse ad Hannah che l'avrebbe accompagnata in classe e insieme se ne andarono.
- Non posso credere che voi due ci abbiate creduto! - dissi.
- Creduto a cosa? - domandò Elizabeth sgranocchiando la sua pera.
Mi rivolsi a Iris. - Quei due fingevano per infastidirti.
- Davvero? - esclamò.
Annuii.
- Sono due cretini. Non mi importa niente se si frequentano.
- Fingono solo di essere amici come lo siete tu e lui.
Iris prese il suo vassoio e si alzò. - Ora che lo so, mi dimostrerò del tutto indifferente. Grazie per avermelo detto.
Buttò la sua roba e se ne andò.
Elizabeth finì di mangiare e poi mi annunciò che quel pomeriggio sarei andato a casa sua.
- Da te? Non è rischioso?
- Mia madre è ad una riunione fuori città. Il capo le ha chiesto se poteva seguirlo perché aveva bisogno che lei annotasse alcune conversazioni e dati in quanto sua segretaria. Non tornerà prima di sera e tu vieni da me - disse decisa. - Non ho telecamere in casa, fidati. Non rischiamo niente. Non lo saprà.
Accettai felice, contento di vederla anche quel pomeriggio.
- Oggi però ho nuoto.
- Va bene. - Sorrise. - Resti finchè non devi andare.


 

Finita la scuola, passai a casa giusto il tempo per prendere la mia sacca con l'occorrente per il nuoto e avvisare mia madre che sarei stato fuori tutto il pomeriggio. Lei mi rimproverò e mi disse che avrei dovuto studiare la sera. Le feci capire che lo avrei anche fatto tutta la notte, ma dovevo uscire. Alla fine lei cedette e io tornai in macchina.
Guidai fino a casa sua, cercando di ricordare la strada che avevo fatto per raggiungere quel posto la prima volta che ero stato al negozio di Melanie. Avevo lasciato Elizabeth all'inizio della via e quindi non avevo mai visto la sua abitazione. Quando trovai il numero civico, parcheggiai la macchina vicino al marciapiede e scesi. La casa davanti a me era abbastanza vecchia e, per quanto riuscivo a vedere da fuori, aveva solo il piano terra. Camminai attraverso il giardino sul vialetto che conduceva all'entrata e, fermandomi, cercai il campanello per suonare.
La porta si aprì quasi subito e io mi ritrovai Elizabeth davanti. Aveva un grosso sorriso e mi tirò subito dentro.
- Non vedevo l'ora che arrivassi - disse subito.
Mi mostrò la casa, facendomi vedere il salotto e la cucina, che avevano un misto di mobili vecchi e nuovi, poi mi condusse verso la sua camera. Poco prima di entrare mi indicò due porte.
- Quella a sinistra, - disse indicandola - è la camera di mia madre. A destra c'era quella di mia nonna.
Mi voltai a guardarle, curioso di sapere quali oggetti potevano esserci nascosti dentro. Chissà, magari nella camera di sua nonna c'erano mobili antichi.
- Mia nonna ha vissuto qui fin da quando ha avuto mia madre e mio zio. Quando poi mio zio si è sposato, mia madre è rimasta qui e qualche anno dopo sono nata io. La mia stanza è quella del padre di Thomas, anche se ristrutturata. Quando mia nonna se n'è andata abbiamo fatto altre modifiche e rimodernizzato la casa. Alcuni mobili erano davvero vecchi.
Aprì la porta bianca della sua camera e mi fece entrare. Rimasi senza parole, era bellissima. Le pareti erano state dipinte sfumando il rosa, l'arancione e il rosso fino a creare il tramonto.
- L'hai fatto tu? - chiesi.
Lei annuì.
- Sei bravissima.
Mi voltai a osservare il resto. Il suo letto era abbastanza piccolo. Era ricoperto da una trapunta arancione e aveva due piccole ringhiere di ferro bianche dove si trovavano i piedi e la testa. Di fianco ad esso c'era un piccolo comodino e sulla parete vicina c'era un grosso armadio. Alzai il capo, per tornare a guardare le pareti, e notai una scritta nera su una di esse a cui non avevo fatto caso dal punto in cui ero entrato nella stanza.
- Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino - lessi.
Elizabeth sorrise. - Ti ho detto del mio amore per quel racconto
Di fianco alla citazione era disegnata la sagoma di Peter Pan con una grande precisione. Mi avvicinai e la toccai.
- È la sua ombra - mormorò Elizabeth poi tornò a parlare con la solita voce. - Ti ho anche detto di come mi sono arrabbiata quando ho scoperto che quella stella non esisteva.
- Già. - Guardai di nuovo la frase sul muro.
- Siccome la stella non esisteva, ho provveduto io. - Assunse un'espressione furba e mi prese le mani.
Mi guidò fino al suo letto e mi disse di stendermi. Feci come mi aveva detto senza batter ciglio. Quel letto era un po' troppo piccolo per me e le punte dei miei piedi finirono per uscire, ma per il resto era molto comodo. Elizabeth raggiunse la finestra che si trovava sul muro del tramonto e abbassò le tende. La stanza iniziò a scurirsi e io sentii le gambe informicolarsi. Cos'aveva intenzione di fare? L'unica certezza che avevo era che glielo avrei permesso, qualunque cosa fosse.
Seguii la sua figura al buio che si avvicinava a me e si faceva spazio nel letto e sentii il mio cuore battere all'impazzata. Il letto era troppo piccolo e per starci lei era quasi completamente schiacciata contro di me.
- Guarda su - disse indicando il soffitto.
Alzai lo sguardo e vidi due stelle brillare sul soffitto. Una sembrava la stella polare e alla sua destra...
Ripetei la citazione sul muro che era una delle più famose di Peter Pan e immaginai che Elizabeth stesse sorridendo.
- Come l'hai fatta? - chiesi.
- Ho usato della vernice fosforescente. Da Zia Mel si trova di tutto. Mi fa compagnia di notte.
- È bellissima - sussurrai. - Come te.
Sentii il braccio di Elizabeth contro il mio irrigidirsi e poi si alzò. Mi maledissimi. Che stupido ero stato.
Lei alzò le tende e la luce tornò ad entrare in camera. Rimasi un secondo sdraiato, sperando di vederla tornare ma non successe e mi dovetti mettere a sedere.
- Perché mi hai chiesto di venire? - chiesi.
- Per dei filmati - disse sistemandosi sulla sedia della sua scrivania.
- Filmati?
Annuì. - Li ho trovati tra le cose di mia nonna e credo nascondano qualcosa di interessante. Magari ci farà capire perché si è fatta credere morta.
Un rumore improvviso ci fece zittire.
Spalancai gli occhi. Sembrava una porta che si apriva.
- Sei sicura che tua madre non sarebbe tornata?
Il rumore di una scarpa.
- Credo...credo sia lei. È il rumore delle sue scarpe. - Si rimise in ascolto. - È strano. Non è regolare.
Mi fissò per un secondo e poi si alzò. - Cosa facciamo?
- Ti nascondi.

 

Angolino dell'autrice: Questa volta voglio semplicemente ringraziare marasblood per le recensieni e Ciciolla26 per chiedermi sempre quando aggiorno, fantasticare su coppie improbabili e, naturalmente, recensire. Cosa pensate di questo capitolo? Credete che Isabelle sia davvero tornata a casa prima del previsto? Troverà Matt?
A presto!

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Capitolo 18
*** ...e poi dritto fino al mattino ***


Capitolo 18: ...e poi dritto fino al mattino

Elizabeth mi fece nascondere nel suo armadio in tutta fretta. Era abbastanza grande e largo e non fu difficile per me infilarmi tra le montagne dei suoi vestiti. Speravo solo che il ripiano reggesse il mio peso. All'interno profumava di pulito ed ero certo, grazie al tipico odore di nuovo, che non fosse appartenuto al padre di Thomas, probabilmente era uno dei mobili che era stato cambiato dopo la "morte" della nonna di Elizabeth. La ragazza lasciò l'anta leggermente aperta e la luce iniziò a filtrare dalla fessura, intorno c'era solo buio. Cercai di non respirare rumorosamente e di non muovermi mentre sentivo i passi di Elizabeth allontanarsi. I secondi passarono lenti, se Isabelle fosse arrivata davvero a casa prima del previsto, uscire da lì sarebbe stato davvero rischioso per me. E per Elizabeth.
Presi a contare. Uno. Due. Tre.
Nessun rumore, non mi sembrava che la ragazza parlasse con qualcuno. Cinque. Sei.
Mossi leggermente l'anta e feci entrare più luce. Sette.
Poi riuscii a sentire la voce di Elizabeth che si avvicinava a me. Otto. Nove.
La porta della camera si spalancò e io rischiusi l'anta con il cuore che batteva a mille per l'ansia.
Dieci. Elizabeth aprì l'armadio e mi sorrise.
Non aveva un'aria preoccupata, anzi, reggava tra le braccia Tinker Bell e accerezzava lentamente il suo lungo pelo.
- Falso allarme - disse e io mi lasciai andare in un sospiro di sollievo, smettendo di contare.
- Cos'è stato? - domandai.
Indicò il gatto e poi lo lasciò andare. - A volte quando lascio le porte accostate, lei ci appoggia sopra le zampe e le chiude, non so chi gliel'abbia insegnato, ma lo fa. Poi ha infilato le scarpe con il tacco di mia madre, probabilmente involontariamente, perché quando sono arrivata continuava a muoversi cercando di toglierle.
Scoppiai a ridere e uscii dall'armadio con l'aiuto della mano di Elizabeth. Quando fui finalmente a terra mi accorsi di esserle vicinissimo. Le guardai i grossi occhi verdi che mi fissavano e non dissi nulla. Sentivo il suo respiro sulla mia pelle. Mi accorsi che aveva un ciuffo di capelli sul viso così alzai una mano e lo spostai. Feci un passo avanti e i nostri nasi si sfiorarono. Lessi nel suo sguardo una profonda confusione e, scuotendo la testa, fece un passò indietro e si allontanò.
"Maledizione" pensai. Con lei dovevo andarci piano.
- Scusa - la sentii dire.
Mi voltai di scatto. - Cosa?
Scosse la testa. - Vale davvero la pena, Matthew?
Rimasi per un attimo in silenzio poi, con calma, sussurrai: - Per me si, per me tu vali la pena.
Per un attimo le mancò il respiro e arrossì poi scosse di nuovo la testa. - Ma è per anche per me che deve valere.
Fu come se Elizabeth avesse preso il pugnale e avesse iniziato ad accoltellarmi. Non aprii bocca, rimasi ad assorbire il colpo. Non lo aveva detto con cattiveria e poi aveva ragione, la maledizione si sarebbe compiuta su entrambi. Quella frase non significava nient'altro se non quello che diceva. Elizabeth non aveva detto di non amarmi, ma nemmeno il contrario.
- Hai ragione – dissi. - Andiamo a vedere questi filmati?
Lei annuì e uscì dalla stanza con me al seguito. Una volta in corridoio aprì la porta di quella che era stata la stanza di sua nonna e mi fece entrare. Era la camera più mal messa di tutta la casa. Intorno al letto, che aveva la testata di legno e molto rovinata, erano ammucchiati un sacco di vecchi mobili, tra cui anche un armadio. Appoggiato sopra al comodino nero c'era un disegno fatto a carboncino. Mi chinai per vederlo meglio e mi accorsi che era il ritratto di un volto. Raffigurava una donna giovane, sui venticinque anni, che sorrideva. La linea del viso era morbida e i suoi occhi erano pieni di vita mentre guardava verso di me. I suoi capelli erano invece raccolti in una coda che ricadeva arricciandosi sul collo. Era davvero molto bella. Per un attimo mi sembrò Elizabeth, aveva lo stesso sguardo e le stesse labbra, ma la donna del ritratto aveva almeno dieci anni più di lei. Immaginai che doveva essere stata sua nonna.
- È mia madre - disse la ragazza vicino a me dissipando i miei dubbi.
Prese in mano il ritratto e lo girò, indicando una scritta sull'angolo in basso a destra. La calligrafia era fine e ordinata. Lessi la dedica:

Alla mia Isabelle,
sei l'essere umano più bello che abbia mai visto. Sono così fortunato a stare con te. Ti amerò sempre.
  Malcom.


Quindi Elizabeth mi indicò la data sull'angolo opposto, in alto a sinistra: 2 giugno 1998.
- Due settimane dopo se n'è andato - mormorò. - Sono nata a febbraio, Matthew. Se fai il calcolo, ero stata concepita da appena un mese. Gli è bastato sapere che mia madre temeva di essere incinta per sparire dalla nostra vita. Ti amerò sempre." - ripetè come per schernirlo.
Riguardai il ritratto e riuscii a rivedere la donna che mi aveva minacciato in quella del ritratto. Avevano due espressioni molto diverse. Non c'era la spensieratezza e la voglia di vivere negli occhi della donna che abitava ora in quella casa.
- Era un artista come te.
- È l'unica cosa che ho in comune con lui - disse. Aveva uno strano tono, come se da una parte fosse dispiaciuta.
- Perché tua madre non l'ha buttato? - chiesi.
- Per quanto lo odiasse, in una piccola parte di lei amava ancora mio padre. Lo teneva nascosto sotto il suo letto e ogni tanto lo guardava. Me l'ha mostrato quando avevo quattro anni e mi ha fatto promettere di non dire niente alla nonna, che altrimenti glielo avrebbe portato via. - Fece una pausa. - Quando mio padre è morto non è più riuscita a vederlo, gli incubi erano già tanti senza farle provare dolore anche con questo. Lo ha lasciato qui, tanto nessuna delle due ci entra mai.
Quella situazione mi ricordò mia madre e capii che le due donne avevano in comune più di quanto immaginassi. Entrambe amavano ancora un uomo che aveva fatto loro del male.
"Io lo odio. Ma gli voglio anche bene" aveva detto mia madre quando mio padre ci aveva confessato del figlio che aspettava e io non avevo capito le sue parole. Come si poteva odiare una persona, continuando comunque ad amarla?
Forse Isabelle aveva la risposta.
Elizabeth mi fece tornare alla realtà portandomi verso il baule ai piedi del letto. Lo aprì e si chinò a cercare qualcosa. Mi appoggiai per terra vicino a lei e notai che si stava facendo largo con le mani tra numerosi album di fotografie. Decisi di rendermi utile e, siccome il motivo per cui mi aveva fatto andare da lei erano stati dei filmini, mi misi alla ricerca di qualcosa che potesse contenerli. Un attimo dopo, Elizabeth alzò il braccio reggendo una videocassetta.
- Sono lì dentro i filmati? - chiesi.
Lei annuì, tirandone fuori dal baule altre tre.
- Hai qualcosa per farle funzionare? - Le videocassette erano state sostituite dai DVD da molto tempo ormai e la maggior parte delle persone aveva buttato tutto.
Elizabeth tirò fuori il lettore dal baule. - Ho tutto il necessario.

 

Un quarto d'ora dopo Elizabeth aveva attaccato il lettore alla vecchia televisione che si trovava nella stanza e vi stava infilando dentro la prima cassetta datata il 1975. Sullo schermo iniziarono ad apparire alcune sequenze offuscate. Si vedeva male, i vecchi colori si erano rovinati, trasformandosi in un color seppia e l'audio quasi non esisteva. Poi finalmente le immagini si sistemarono e riuscimmo a vedere la scena.
Ci sedemmo uno di fianco all'altra sul letto, che non era molto comodo, e ci concentrammo a guardare il filmato.
Era stato girato in un salotto. Per terra c'era un grande tappeto pieno di colori con alcune frange e, a destra di esso, un divano imbottito e una poltrona su cui erano disseminati alcuni giocattoli: un orsacchiotto senza un occhio, una bambola e un paio di macchinine.
Due bambini si rincorrevano in giro per la stanza chiamandosi a gran voce, o almeno così sembrava, visto che non riuscivamo a sentire nulla. Dovevano avere la stessa età ed erano un maschio e una femmina. La madre di Elizabeth e il padre di Thomas.
Un attimo dopo, la piccola Isabelle si fermò, stanca, e raggiunse chi stava filmando. La telecamera si mosse e per un secondo vedemmo il soffitto, poi venne appoggiata per terra. I piedini di Andrew, il padre di Thomas, si avvicinarono e le sue manine raccolsero la telecamera. L'immagine iniziò a muoversi.
- La sta rosicchiando? - chiesi.
Elizabeth scoppiò a ridere. - Immagino di si.
Attraverso le immagini capimmo che Andrew aveva fatto cadere la telecamera e ora qualcuno la stava riprendendo. La nonna di Elizabeth, che assomigliava al ritratto della figlia in modo quasi impressionante, appoggiò la macchina da presa su una mensola del salotto e riuscimmo a vedere tutta la scena. Andrew piangeva, triste che la mamma non gli avesse permesso di finire quello che aveva iniziato mentre Isabelle lo abbracciava.
- Quanti anni avevano?
- Due. Mentre mia nonna ne aveva ventisette - rispose Elizabeth.
Non c'era niente di importante in quei video, erano solo ricordi di famiglia.
L'immagine si offuscò e si annerì. Il lettore buttò fuori la cassetta.
Elizabeth si alzò e il letto emise un cigolio poi si chinò e inserì la seconda cassetta. Questo filmato si era conservato ancora peggio del primo. Lo schermo mostrò solo un'immagine di due ragazzini sui dodici anni chini su una scrivania poi il buoio. Rimanemmo in attesa che si sistemasse e mostrasse altro ma non accadde.
Elizabeth sbuffò e fece per alzarsi.
- Ci penso io. - Infilai la terza cassetta. Aveva la data riportata sul dorso: 1991.
Il filmato cominciò subito. Era molto più chiaro rispetto agli altri e i colori non era quasi totalmente rovinati.
Inizialmente si intravide soltanto una luce che proveniva da una porta accostata ma un secondo dopo questa si aprì mostrando Isabelle e Andrew. Erano uno di fronte all'altro e lui portava dei vestiti eleganti. Compresi subito che in quella cassetta l'audio funzionava perfettamente.
"Guardati," disse lei allacciandogli la cravatta "sei bellissimo."
Lui sorrise. "Non so cosa farei senza di te, Iz."
"Forza, sbrigati. Caroline non aspetterà tutta la sera."
Andrew annuì. "Sei sicura di non voler venire?" domandò poi.
"Non ho nessun accompagnatore e non voglio fare la terza incomoda tutta la sera. Sei innamorato di Caroline da così tanto. È la tua occasione, non la rovinerò."
"Sai che per me non sei affatto una terza incomoda" disse il padre di Thomas.
"Smettila." Lei gli tirò un pugno ridendo. "Muoviti."
Andrew abbracciò sua sorella e si fece guidare verso la porta.
"Mamma!" esclamò Isabelle guardando verso di noi. "Stai filmando?"
Andrew fece una linguaccia verso la telecamera e per qualche secondo mi sembrò Thomas. Ero sempre stato convinto che assomigliasse più a sua madre, ma in quel momento mi accorsi che aveva la stessa espressione e la stessa linea del viso di suo padre, perfino la stessa identica sfumatura di occhi castani.
Isabelle accompagnò il gemello fino alla porta di casa e quando lui uscì, lei si rivolse alla madre. "Metti via la telecamera" disse in modo duro.
Sua madre la appoggiò sopra una mensola come aveva fatto nel primo video e tornò a guardare sua figlia senza dire una parola.
"È spenta?" chiese Isabelle con uno strano tono di voce. Sembrava quasi che stesse per scoppiare a piangere.
"Si" disse sua madre.
Isabelle le diede un'occhiata e, fidandosi della madre, ci cascò in pieno. Riuscimmo a vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime poco prima che si lasciasse scivolare per terra. Avevo indovinato, poco prima aveva la voce rotta di qualcuno che sta per abbandonarsi al pianto.
Sua madre la fissò con aria dura. "Smettila."
"Come posso farlo? È sempre stato con me, tutta la vita. E ora non sarà più così. Da questa sera comincerà ad uscire con lei, si fidanzeranno, si sposeranno e allora lo avrò perso per sempre. Adoro Caroline, è meravigliosa." Prese un respiro. "Ma senza di lui cadrò nella maledizione. Io...io non ho mai avuto bisogno di un uomo. Lui era tutto ciò di cui avevo bisogno. Non voglio innamorarmi, non voglio soffrire."
I suoi occhi cercavano conforto in quelli della madre che però non fece nulla per consolarla.
Sentii qualcosa toccarmi e abbassai lo sguardo: il dito mignolo di Elizabeth stava sfiorando il mio palmo. Ci misi un attimo a capire che stava cercando di fare in modo che le prendessi la mano. Spostai il palmo dal suo tocco e mi fermai un attimo per guardarla di profilo. Era totalmente presa dalla scena che mostrava il filmato, respirava in modo irregolare e per un secondo pensai che avesse gli occhi lucidi, ma non era così. Forse non si era nemmeno resa conto di quello che aveva fatto. Magari era stata una reazione involontaria. Le afferrai la mano e gliela strinsi d'impulso. Lei guardò le nostre dita intrecciate e poi il mio volto.
- Grazie - mormorò. Doveva essere difficile sentire quelle parole uscire dalle labbra di mia madre.
Tornammo a guardare il filmato. La nonna di Elizabeth aveva messo una mano sulla spalla di sua figlia. Non c'era tenerezza nel suo sguardo, sembrava provare pena.
"Non puoi sfuggire alla maledizione. Tuo fratello ti ha allontanato dagli altri ragazzi solo per un po', ma se anche fosse rimasto più tempo con te, tu ci saresti caduta comunque" disse.
Si mosse verso di noi e poi il filmato diventò nero.
Quando Elizabeth lasciò la mia mano per inserire il quarto e ultimo filmato, sentii come se mi stessero strappando una parte di me. Non avrei voluto lasciarla andare, ma lei si chinò di nuovo verso il lettore. Fu allora che lo schermo tornò a colorarsi prima che lei potesse toccare qualcosa.
L'immagine fu breve. Mostrava Isabelle, Andrew e la mamma di Thomas, Caroline, alla cerimonia dei diplomi. Erano vicini e in posa per una foto. Aspettavano, in silenzio e sorridenti.
"Mamma, quella è la videocamera" disse Andrew scoppiando a ridere.
Caroline si lasciò trascinare nella risata e Isabelle fece lo stesso, rivolgendo uno sguardo felice al fratello.
Poi il video finì.
Elizabeth si volse verso di me con uno sguardo confuso, io le feci segno di inserire la prossima cassetta e poi di venire a sedersi vicino a me.
- Di che anno é questa?
Lei arrossì. - Del dicembre del 1999. Avevo dieci mesi.
Le rivolsi un grande sorriso. - Non vedo l'ora di vederti.
Sullo schermo comparve un piccolo Thomas di due anni e mezzo vestito con una maglietta con i personaggi di un cartone animato, che reggeva tra le braccia una bambina con alcuni ciuffi di capelli biondi e due occhi verdi. La piccola si succhiava il pollice e si guardava intorno felice.
- Eri bellissima! - esclamai.
Elizabeth arrossì ancora di più.
- Non che adesso tu non lo sia, anzi. - Mi voltai. Forse non avrei dovuto dirlo.
- Matthew, noi... - cercò di parlare mentre nel video Thomas si chinava su di lei e le toccava la guanciotta paffuta.
La bloccai. - Senti, scusami per come mi sto comportando oggi, non lo sto facendo apposta e non voglio metterti pressioni. So quello che stai rischiando e che non puoi permetterti di innamorarti di me. Ma rischio anch'io, okay? La maledizione era innanzi tutto rivolta verso gli uomini e il fatto che ci vada di mezzo tu é stato un terribile effetto collaterale.- Mi fermai per guardarla negli occhi e deglutire. - Ma nessuno dei due ne subirà le conseguenze. Devi solo fidarti di me.
Mi resi conto solo quando smisi di parlare di quello che avevo fatto: mi ero praticamente dichiarato nel modo più stupido e impulsivo della storia! Avrei voluto mettermi le mani tra i capelli e prendermi a pugni da solo. In più avevo la strana voglia di urlare contro ad Elizabeth e allo stesso tempo baciarla.
- Non è semplice - disse lei tremando.
Annuii. - Lo so. Ma...
Proprio in quel momento ci giunse la voce di un'Elizabeth di sei anni dal filmato. La scena doveva essere cambiata mentre parlavamo.
Mostrava la bambina nella sua stanza, accovacciata su uno sedia ricoperta di cuscini per arrivare alla finestra. Guardava fuori e parlava, apparentemente da sola.
"Non voglio innamorarmi. Mai."
La Elizabeth del presente mi lanciò un lungo sguardo. Quella frase stava a pennello con quello di cui parlavamo fino ad un attimo prima.
"Ti prego, Peter, portami via. Non voglio crescere, non voglio. I grandi soffrono. Non voglio soffrire, Peter. Hai portato con te Wendy e lei non ha voluto restare. Ti prometto che io invece resterò." Guardò il cielo per un secondo e prima di scendere dalla sedia mormorò ancora una volta il nome del suo angelo. "Peter..."
Poi all'improvviso sentimmo la voce di Isabelle. "Smettila di usare quella telecamera per spiare attraverso le porte." E il filmato finii.
Elizabeth si alzò di scatto, prese la cassetta e la ributtò nel baule con le altre.
- Come cavolo si è permessa di filmarmi in un momento così? Ha fatto lo stesso con mia madre. Erano cose intime. Maledizione, credevo che nessuno mi vedesse. Ero fragile. Era un momento mio e lei se ne è appropriata!
Continuò ad imprecare contro sua nonna per circa cinque minuti ma io avevo smesso di ascoltarla. Aveva detto che quelle erano cose intime a tal punto che nessuno avrebbe dovuto vederla, che mostravano la sua fragilità. E allora perchè aveva voluto raccontarmele e rendersi debole anche ai miei occhi? Per un attimo mi sentii importante. Avevo appena appreso di essere l'unico a conoscenza di quei fatti e se li aveva detti a me, proprio a me, un motivo c'era.
Deglutii e glielo chiesi.
Lei mi guardò stranita, in parte perchè avevo interrotto il suo sproloquio e in parte parte perchè non capiva il perchè della domanda. Poi, come se fosse una cosa scontata, disse: - Te l'ho già detto, Matthew. Tu non sei come gli altri, sei speciale. Mi fido di te.
- Ma non ti fidi come vorrei. - Decisi che per quel giorno non avrei detto altro, mi ero sbilanciato fin troppo e non volevo rovinare il nostro rapporto.
Mi alzai dal letto e guardai l'orologio: il corso di nuoto sarebbe iniziato di lì a venti minuti.
- Devo andare – annunciai uscendo dalla stanza e dirigendomi a prendere la giacca.
Elizabeth mi corse dietro. - Ti prego, Matthew, non andare. Non abbiamo concluso nulla oggi. Sappiamo solo che a mia nonna piaceva filmare le persone di nascosto e che è sempre stata dura con i suoi figli e che non lo era solo con me, ma...
- Devo andare a nuoto – dissi ridendo.
- Credevo fossi arrabbiato...Posso venire con te? - chiese. - Non mi piace stare a casa da sola, soprattutto dopo questi filmati. Troppi penseri in testa e troppo silenzio nella casa.
Annuii. - Ti avviso però che ci vorrà molto.
- Posso aspettare. - Sorrise.



Angolino dell'autrice: Buona sera a tutti! Alla fine si è scoperto che la madre di Elizabeth non era tornata a casa ma era solo un falso allarme mentre il nostro Matthew ha finalmente fatto capire ad Elizabeth quello che prova, anche se in un modo tutt'altro che intelligente. Cosa ne pensate? Ha fatto bene o avreste preferito che non fosse così? Alla prossima!

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Capitolo 19
*** Emma ***


Capitolo 19: Emma

Quando arrivammo davanti alla piscina, le prime goccie di pioggia iniziarono a cadere sull'asfalto.
Elizabeth scese dall'auto stringendosi il berretto sulle orecchie e io iniziai a correre verso l'entrata. Quando le porte scorrevoli si aprirono fui inondato dal calore e dal tipico odore di cloro che tanto mi piaceva. Strinsi la mia sacca e indicai ad Elizabeth la scala alla destra del bar che conduceva agli spogliatoi. Esattamente al lato opposto c'erano invece gli spalti su cui ci si poteva sedere a guardare gli allenamenti. Lei disse che avrebbe preso qualcosa al bar e che poi mi avrebbe seguito da lì. Scesi in fretta verso gli spogliatoi e imboccai quello maschile. Sbuffai, consapevole che non avendo potuto già infilare il costume ci avrei messo di più. Mi infilai in una delle cabine e chiusi, appoggiando la sacca davanti a me. Lentamente cominciai a sbottonare i jeans e a sfilarmeli ma, mentre mettevo il costume, sentii una voce dietro di me, fuori dalla fila di cabine posta una dietro l'altra. Non mi fu difficile riconoscere a chi apparteneva: Luke. All'inizio riuscii a capire soltanto che stava parlando con qualcuno ma, in un suo scatto d'ira, distinsi anche le parole.
- Credi che se smettessi di bere riuscirei a capire perché dopo anni passati a farmi tre ragazze a sera adesso sto morendo dalla voglia di baciarti? Perché io ho le idee più chiare da ubriaco - urlò.
Per poco non mi strozzai con la maglietta che stavo sfilando. Luke era gay? Scoppiai a ridere e dovetti soffocarmi con i vestiti per impedire che mi sentissero. Fino a qualche giorno prima aveva accusato Chuck di esserlo, come un insulto. Come se essere gay fosse qualcosa di cui vergognarsi. Io la vedevo come una cosa normale, fin da piccolo non mi era mai saltato in mente il contrario. E ora Luke confessava di esserlo.
Mentre ridevo però, persi la risposta. Le voci si affievolirono e sotto alla cabina vidi un paio di Vans nere allontanarsi. Luke imprecò e anche le sue ciabatte sparirono dalla mia visuale. In tutta fretta finii di prepararmi e di sistemare le mie cose, quindi mi diressi all'uscita degli spogliatoi ancora ridendo.
Sul bordo della piscina, seduto sulla panca su cui lasciavamo gli asciugamani, c'erano solo Jason e Luke, che si arrovellava le dita con nervosismo. Mi domandai con chi potesse star parlando fino ad un minuto prima. Poteva solo essere qualcuno del corso o che comunque frequentava la piscina. Passai in rassegna le varie opzioni. I ragazzi del nostro gruppo eravamo soltanto io, Chuck e Jason. Esclusi che potesse essere un mio compagno senza pensarci due volte: Jason era il gemello di Luke e Chuck...be' Chuck era Chuck. Immaginai che frequentasse il corso prima del nostro o che magari nuotata nella corsia riservata a chi non voleva un'istruttore.
Mentre aspettavo che arrivasse Mark, mi avvicinai agli spalti per salutare Elizabeth. Era seduta in seconda fila ma appena mi vide si alzò per raggiungermi. Il suo sguardo mi percorse da capo a piedi e solo in quel momento ricordai di essere in costume. Lei arrossì, probabilmente nessuno dei due aveva calcolato quella situazione. Non che dovessi vergognarmi, un sacco di gente mi aveva visto in costume. Ma con Elizabeth era diverso.
- Fa caldo qui, eh? - disse agitando due volte una mano per farsi aria. Su di lei non pareva affatto un gesto frivolo.
Le sorrisi, un po' impacciato.
- È un nuovo metodo di conquista, Matt? - chiese Luke con un sorriso da sbruffone notando Elizabeth completamente rossa. - Le porti qui e ti fai vedere senza maglietta, così appena la indossi di nuovo, loro non resistono e te la strappano di dosso? È già la seconda.
Feci roteare gli occhi. - Divertente.
Elizabeth arrossì ancora di più e distolse lo sguardo dal mio addome.
- L'altra ragazza era Iris - chiarii io. - Aveva litigato con Thomas e aveva bisogno di qualcuno.
Lei annuì.
Sentii una mano battere sulla mia spalla e mi appena mi voltai, vidi Chuck mi guardava con un sorriso esagerato. Credevo sarebbe stato arrabbiato con me siccome aveva dovuto arrangiarsi per raggiungere la piscina e invece non lo sembrava affatto. Era troppo felice. Come se stesse cercando di nascondermi qualcosa.
Si voltò verso Elizabeth e lei si affrettò a presentarsi. - Sono Elizabeth, un'amica di Matthew.
- È la cugina di Thomas.
- In effetti vi assomigliate. Sono Chuck. - Spostò il suo sguardo verso i due ragazzi seduti sulla panca.
Luke si irrigì. Immaginai che fosse per la strana litigata di qualche sera prima, quando era ubriaco. Mi venne ancora da ridere.
Dal fondo della piscina, Mark ci chiamò e ci disse di cominciare a tuffarci. Salutai Elizabeth e corsi a bordo vasca. Chuck si posizionò vicino a me e cominciò a ridere.
- Che c'è? - dissi con le braccia pronte per il tuffo.
- L'hai vista? - esclamò riferendosi ad Elizabeth.
Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi. - In che senso?
Jason si tuffò vicino a noi mentre Mary faceva capolino dagli spogliatoi e correva a lasciare l'accapatoio.
- Le spalle larghe, i muscoli - disse Chuck facendo una vocetta da ragazza. - Venire qui é stata la decisione migliore della mia vita.
- Io non ho... - cercai di dire.
Chuck alzò un sopracciglio. - Amico, credi davvero che dieci anni di nuoto non abbiano dato i loro frutti?
Chuck aveva ragione, avevo il classico fisico da nuotatore, ma come aveva detto lui non poteva essere altrimenti dopo tutti quegli anni. E poi Elizabeth non era quel tipo di ragazza. Mi voltai a guardarla e lei mi sorrise.
- È cotta a puntino - disse Chuck poco prima di tuffarsi.
Mi voltai verso Elizabeth chiedendomi se fosse davvero innamorata di me. Trovare bella una persona non significa esserne innamorati, eppure speravo che lei lo fosse.
Mark corse verso di me e mi fermò dal tuffarmi. - Matt, l'altro giorno ho parlato con Margareth e Jason e hanno detto che abbandonano. Mary si trasferisce a New York per l'università e continuerà lì. Chuck ha detto che non lo sa. Luke ha accettato senza pensarci, quel ragazzo è troppo avventato e cambierà idea. Mi resti solo tu. Sei uno dei migliori, non posso perderti. - I suoi occhi mostravano ansia, non l'avevo mai visto così.
Rimasi a bocca aperta. Non avevo contemplato l'idea che avrei potuto smettere di nuotare, che se volevo farlo era arrivato il momento.
- Io... – cercai di dire. - Andare alle Olimpiadi e fare questo come una specie lavoro?
Sospirò. - Sei l'unico qui che non ci ha ancora pensato. Lo so che è impegnativo, le gare che fate ora non sono niente al confronto, ma vale la pena. Ogni singolo sforzo vale la pena, ogni dolore.
Pensai subito ad Elizabeth e alla coversazione che avevamo avuto quel pomeriggio. Ogni dolore sarebbe valso la pena.
- Matt, se accetti farai grandi cose.
Annuii. - Ci penserò.
Alzai le braccia e scorsi Margareth arrivare dagli spogliatoi. I miei occhi indugiarono su di lei. Proprio mentre mi gettavo in acqua in un tuffo di testa mi sembrò che Elizabeth spostasse il uno sguardo indagatore da me a lei.


 

Due ore dopo, sedevo sul sedile del guidatore della mia auto in attesa di Chuck. Finiti gli allenamenti ero corso subito a cambiarmi, cercando di metterci il meno tempo possibile. Avevo asciugato i capelli alla massima velocità ed ero quasi caduto inciampando nelle mie stesse scarpe, ma ero riuscito a raggiungere Elizabeth abbastanza in fretta. Lei mi aspettava seduta in uno dei tavolini del bar e chiacchierava con una ragazza. Mi ero chiesto chi fosse, mi sembrava quasi impossibile che Elizabeth conoscesse una delle mie compagne di corso e soprattutto mi sembrava impossibile che una ragazza fosse riuscita a cambiarsi in meno tempo rispetto a me. Quando finalmente la figura si era voltata, avevo riconosciuto Margareth. Aveva i capelli bagnati e mezzi gocciolanti raccolti in una coda che creavano una grande macchia bagnata sulla maglietta nel punto in cui erano posati. La prima cosa che mi era venuta in mente era stato il motivo per cui Margareth era corsa a parlare con Elizabeth con una fretta tale da non asciugarsi i capelli. La seconda era se si conoscevano. Appena Margareth mi aveva visto aveva salutato Elizabeth ed era corsa negli spogliatoi con un sorriso.
- Allora, – dissi ad Elizabeth una volta seduto in macchina al riparo dal diluvio che stava scendendo dal cielo – come fai a conoscere Margareth?
Elizabeth era seduta vicino a me e fissava la pioggia che batteva contro i vetri. - Andavamo nella stessa scuola di disegno, un paio d'anni fa. É molto simpatica.
- Già. Non sapevo che le piacesse disegnare. Vuole fare il medico.
Era strano parlare con Elizabeth di Margareth.
- Una cosa non esclude per forza l'altra. Tu cosa vuoi fare una volta finita l'università, Matthew?
Non ne avevo idea. Fino a poco tempo prima sapevo che avrei frequentato l'università di Louisville, che distava pochissimo dalla nostra città, insieme a Thomas e Iris ma ora nemmeno quello era sicuro. Mi ero iscritto alla facoltà di matematica perchè era la mia materia preferita. Logica e calcoli si incastravano alla perfezione. Non c'era niente che non avesse un senso in quella materia, perchè unendovi le scienze si poteva spiegare ogni cosa. Ma come spiegava la matematica la maledizione che aveva lanciato Beth Lane agli uomini e inavvertitamente anche alla sua famiglia? Come spiegavano i calcoli e le equazioni la magia? Non potevano farlo, perchè non esisteva una spiegazione. Ma come potevo ora fidarmi della matematica, se non poteva più darmi le spiegazioni di cui avevo bisogno, se esisteva qualcosa che poteva annullarla completamente? Non aveva senso. E in più ci si metteva anche Mark, chiedendomi di continuare a nuotare e di raggiungere le Olimpiadi. Non era in programma. Niente del casino che stava succedendo lo era. Non era in programma che io mi innamorassi di una ragazza con una maledizione orribile addosso, non era in programma che sua madre mi minacciasse, non era in programma che la sua strana e pericolosa nonnina si mettesse a giocare al "sono morta, aspetta ora non lo sono più", non era in programma che Iris si trasferisse, non era in programma che mio padre avesse un altro figlio e non era in programma che mia madre si innamorasse di un suo collega. Avrei voluto urlare.
- Non lo so – risposi soltanto.
Attraverso la pioggia vidi Chuck correre da noi, poco prima avevo promesso di riaccompagnarlo a casa. Si infilò nei sedili di dietro e sospirò per un secondo. Il suo umore si riprese subito e mentre io accendevo il motore della macchina e iniziavo ad uscire dal parcheggio, lui si sporse verso di noi con un sorriso ammiccante.
- Di cosa parlavate? - chiese.
- Margareth - rispose Elizabeth prima che io riuscissi a zittirla.
Chuck alzò un sopracciglio. Ero rovinato.
- Matt ti ha detto che è innamorato di lei?
Se non fossi stato impegnato a guidare avrei strangolato Chuck.
- Non sono innamorato di lei - dissi risoluto.
Notai che lo sguardo di Elizabeth si posava su di me. Chuck finse di tossire.
- Ero innamorato di lei, okay lo ammetto. Ma non lo sono più.
Elizabeth tenne i suoi occhi verdi fissi su di me per tutto il tragitto fino alla casa del mio compagno di corso in silenzio. Aspettai che Chuck avesse varcato la porta del vecchio palazzo dove viveva per parlarle, ma quando notai le scarpe del mio amico per poco non mi venne un colpo. Erano un paio di Vans nere, identiche a quelle che indossava la persona con cui parlava Luke poco prima che iniziasse l'allenamento. Che fosse lui? Mi dissi di no, che doveva essere solo una coincidenza, che non era possibile che Chuck fosse gay. Ma quei due nascondevano qualcosa, ne ero certo.
Quando mi ripresi, Elizabeth mi parve pensierosa. Feci ripartire la macchina e svoltai a destra, diretto alla casa della ragazza. Quando passammo vicino al bosco mi resi conto che lei non si era staccata dal finestrino nemmeno per un attimo. Le chiesi se c'era qualcosa che non andava e lei si scostò dalla posizione in cui era e guardò la strana, annuendo. - Non riesco a togliermi mia nonna dalla testa. Credevo che venire con te in piscina mi avrebbe aiutata, ma gli spalti erano vuoti e i pensieri sono arrivati comunque.
- Mi dispiace. - Poi improvvisamente mi accorsi che era passato del tempo dall'ultimo racconto. - Non mi hai più parlato dei fatti successivi a Camille e alla profezia. Avevi detto che c'era poco tempo ma poi te ne sei dimenticata.
- Già, scusami, ma da quando mi hai detto di mia nonna...quella è stata l'unica cosa a cui riuscivo a pensare.
- Raccontami la sua di storia, allora.
Elizabeth accettò e io fermai la macchina. Volevo poterla ascoltare e stupirmi senza nessun rischio di incidenti. Parcheggiai il veicolo nella piccola insenatura in cui l'avevo messa quando Elizabeth mi aveva chiesto di correre al boschetto e di nascondere la macchina, sicuro che in quel luogo non ci avrebbe disturbati nessuno. Purtroppo però era un po' buio e dovetti accendere la piccola luce che si trovava in alto.
Quando ci fummo finalmente sistemati, Elizabeth cominciò.
- La vita di mia nonna non è stata semplice, come quella di tutte le sue antenate. Ma a differenza loro, lei perse sua madre quando era ancora giovane. Conosceva benissimo le leggende e quello che le sarebbe successo se si fosse fatta incantare da un uomo ma, senza i consigli di sua madre e senza nessuno che le ricordasse sempre il suo destino, in un periodo della sua vita la nonna credette davvero di essere sfuggita a tutto questo. All'età di vent'anni fu costretta a cercare un nuovo alloggio perchè i soldi che aveva non bastavano più per pagare l'affitto. Fu in quei giorni che rincontrò un suo vecchio amico di infanzia, il ragazzo che frequentava le sue stesse lezioni di piano quando sua madre poteva ancora permettersele. Lui scoprì che la nonna aveva problemi economici e la aiutò, offrendole alloggio in una casa che suo padre avrebbe dovuto vendere. Le trovò anche un lavoro e dopo un paio di anni si innamorarono l'uno dell'altra. Quell'uomo sembrava perfetto: era dolce e amorevole e dopo altri due anni le chiese di sposarlo. - Mi lanciò un'occhiata. - Ci credi? Le chiese di sposarlo! Non era mai capitata una cosa del genere a nessuna di noi. Mia nonna stava vivendo una vita perfetta, perchè non avrebbe dovuto credere che la maledizione si era spezzata? Sapeva della storia di Camille della profezia, ma chiunque in quei momenti non ci avrebbe creduto. Lui le comprò definitivamente la casa e le promise che ci avrebbero abitato insieme dopo il matrimonio. Qualche settimana prima però, lui fu costretto a partire per un viaggio di lavoro. Spiegò alla nonna che sarebbe tornato la sera prima del matrimonio e che si sarebbero visti direttamente in chiesa. Prima di partire però disse a mia nonna che voleva andarsene con un suo ricordo e quello l'avrebbe trattenuto dal non correre da lei in quelle settimane. Puoi immaginare cosa le chiese. - Io annuii ed Elizabeth continuò. - Il giorno del matrimonio lui non si fece più vivo, così come la sua famiglia. Se n'erano andati per sempre. La nonna lo cercò nella città di cui lui aveva parlato ma non lo trovò. Non lo trovò da nessuna parte. Il mese dopo si accorse di essere rimasta incinta e quando le dissero che erano gemelli scoppiò a ridere in faccia al dottore. La maledizione si era prensa gioco di lei e continuava a farlo.
- Quindi è questo il motivo per cui tua nonna è stata molto dura con voi – dissi io.
- Già. Lei non ha avuto nessuno che la facesse tornare con i piedi per terra, voleva che con noi non fosse così. Credo sia anche per questo che non mi ha raccontato la storia di Camille e che ho dovuto farmela dire da mia madre, forse non voleva darmi false speranze. Insomma, lei non ci ha creduto perchè le risultava comodo farlo, mentre a me risulta comodo il contrario, cioè credere di essere io la figlia dei gemelli.
Avrei voluto dirle che era sicuramente così, che lei sarebbe stata felice, che io l'avrei resa felice. Ma non lo feci, non era il caso. Elizabeth mi avrebbe sicuramente zittito con un'occhiataccia, quindi ingranai la marcia e uscii dal buco dove avevo parcheggiato l'auto. Per tutto il viaggio non feci che pensare a sua nonna e alla sua vita. Doveva essere stata dura quando tutti i suoi sogni si erano distrutti. Mi ritrovai a riflettere su cosa voleva dire tirare su dei figli da soli e senza nemmeno accorgermene la mia mente volò su mio padre, facendomi stringere il volante. Certo, la mia situazione era decisamente diversa da quella che avevano vissuto le donne della famiglia di Elizabeth. Ma, in fondo, non era nemmeno completamente diversa.
Quando accostai di fronte alla casa di Elizabeth lei mi salutò ma, mentre apriva la portiera, io mi accorsi di non conoscere il nome della donna che aveva turbato i miei pensieri per gran paarte della strada e la fermai. - Come si chiama tua nonna?
- Emma – rispose Elizabeth visibilmente confusa.
Tolse la mano dalla portiera e mi guardò un attimo. Tra di noi calò il silenzio, quel silenzio che c'era stato anche quel giorno a casa sua, e io sperai con tutto me stesso che quella volta si sarebbe conncluso come speravo.
Ma non accadde ed Elizabeth riprese a parlare. - Matthew, in realtà c'è un'altra cosa... - cominciò mentre spostava lo sguardo verso il finestrino, tornando a zittirsi un attimo dopo senza concludere la frase.
Indugiai sul suo riflesso finché non si decise a parlare. Sembrava imbarazzata.
- Tu e Margareth stavate insieme? - buttò fuori tutto d'un fiato girandosi a guardarmi. Era arrossita.
Sorrisi. - Sei gelosa?
- No! - esclamò. - Certo che no.
- Non mentire.
Elizabeth tornò a guardare il finestrino, completamente rossa di imbarazzo.
- Comunque no, non siamo mai stati insieme. - Decisi di essere il più sincero possibile con lei. - Ero innamorato di lei e lo sono stato per tanto tempo. Ma lei non ne sa niente.
Elizabeth annuì. - Capisco.
Nella sua voce c'era ancora qualcosa di strano. - Vuoi sapere qualcos'altro? - Non lo dissi come se fossi infastidito, ero davvero disposto a rispondere a tutte le sue domande.
- Quante ragazze hai baciato? - domandò lei d'impulso.
- Tu sei davvero gelosa! - esclamai sorridendo soddisfatto.
Quella domanda non mi disturbava come avrebbe fatto alla maggior parte dei miei coetanei. Ero davvero felice che Elizabeth me l'avesse fatta. La gelosia é, la maggior parte delle volte, dettata dall'amore ed era proprio questo che volevo da lei.
Feci finta di contare i miei baci sulle dita di una mano e poi passai all'altra mentre, con la coda dell'occhio, osservavo la ragazza di fianco a me spalancare la bocca, indecisa tra l'essere stupita e contrariata. Poi, quando fui convinto che si fosse spaventata abbastanza, scoppiai a ridere.
- In realtà non ne ho baciate così tante. Soltanto cinque - dissi.
Lei trasse un sospiro di sollievo.
- E sono stato con tre di loro. Anche se in realtà sarebbe più corretto dire due: non credo che una relazione avuta in terza media valga. Soprattutto se consiste nel darsi un bacio e tenersi la mano ogni tanto.
Il viso di Elizabeth si distese e si lasciò andare una risata, quindi decisi di continuare. - Ci siamo lasciati quando lei ha messo l'apparecchio ed era tanto imbarazzata perfino di parlarmi, quindi mi ha detto che non saremmo più stati insieme perché aveva il terrore che mentre ci baciavamo nel suo apparecchio ci fossero pezzi di cibo.
Elizabeth cominciò a ridere così forte che si piegò in due.
- Due settimane dopo l'ho vista baciare il capitano della squadra di Basket.
- Mi dispiace! - esclamò mentre cercava di smettere e di farsi seria.
- A me no. Quel giorno aveva mangiato un panino al tonno. Io odio il tonno.
E lei tornò a ridere. Le sorrisi, mi piaceva vederla felice.
- Ho incontrato la seconda ragazza che ho baciato in montagna con Thomas. Erano le vacanze di Natale del primo anno di liceo e lui mi aveva invitato a passare il capodanno nella sua casa sugli Appalachi.
- Oddio, me lo ricordo! - disse Elizabeth. - Ero così arrabbiata con lui perché di solito lo passavamo insieme. Mi ero presa l'influenza e mia madre non mi aveva lasciata venire per non disturbare gli zii, quando ho saputo che mi aveva rimpiazzato non gli ho parlato per tre giorni. - Mi lanciò un'occhiataccia, ma scherzava. - Io a casa dolorante e voi in giro a baciare le ragazze.
Alzai le spalle e lei mi tirò un piccolo pugno sul braccio.
- Aia - mi lamentai. - Più o meno verso aprile mi sono innamorato di Margareth ma non davo molta importanza alla cosa, così verso l'inizio dell'estate mi sono messo insieme ad una ragazza. Non è durata più di quattro mesi, quando sono stato sicuro che l'amore che avevo iniziato a nutrire per Margareth fosse vero. Non riuscivo a pensare che a lei, quindi ho lasciato l'altra. A settembre è venuta nella nostra scuola una ragazza spagnola, Alicia, in viaggio studio. Era davvero una ragazza dolce e simpatica. Siamo stati molto amici e mi divertivo ad aiutarla quando sbagliava le pronuncie. - Sorrisi al ricordo degli strani messaggi che mi inviava quando, all'inizio dell'anno, non era ancora riuscita a modificare la lungua del correttore automatico dallo spagnolo all'inglese. - Quando a giugno l'ho accompagnata all'aereoporto perché doveva tornare a casa, lei mi ha baciato. Non la consideravo più che un'amica e così gliel'ho detto. Ci è rimasta abbastanza male ma alla fine ha detto che era meglio così e che tanto le relazioni a distanza non funzionano mai. Ogni tanto ci scriviamo ancora.
Elizabeth mi sorrise. - Ne manca una.
- Lydia... - Inspirai a fondo dopo aver pronunciato quel nome e l'aria mi andò di traverso, facendomi tossire. Era davvero imbarazzante parlare di lei e della scommessa. - Be' non c'è molto da dire: ci siamo conosciuti ad una festa e lei mi ha baciato. Fine.
- Hai detto che eri stato con tre ragazze. Quindi la terza è lei. Che c'è? Hai qualcosa di orribile da nascondere.
Affatto. Era solo che ci eravamo usati a vicenda ed era brutto doverlo raccontare, perché sembrava più terribile di quanto non era stato.
- L'ho incontrata alla festa di compleanno di Chuck. Era la fine di febbraio ed ero abbastanza giù per via di Margareth. Ormai ero certo di non avere più speranze: lei e il suo ragazzo stavano insieme da quasi un anno. Così Chuck ha deciso di presentarmi Lydia. - Chiusi gli occhi e ripensai a come lei si era seduta vicino a me. I suoi capelli castani chiari si erano adagiati sul divanetto con grazia e lei mi aveva sorriso, socchiudendo appena le labbra ricoperte dal rossetto rosso. - E io e lei abbiamo fatto una scommessa.
Elizabeth mi guardò dubbiosa. Immaginai che stesse decidendo se la scommessa era quello che credeva.
Io annuii. - Già. Abbiamo scommesso cinquanta dollari che mi avrebbe fatto dimenticare Margareth e io ho accettato. - Lydia si era voltata verso di me e aveva decretato che la causa delle mie sofferenze era una ragazza impegnata poi aveva alzato il mio viso con un dito e aveva fatto la proposta. Chuck aveva spalancato la bocca, incredulo, e poi si era affrettato a farmi capire che Lydia non si concedeva mai così ad un ragazzo, mentre io ci ero rimasto di sasso. Una volta ripreso, avevo accettato.
Elizabeth storse il naso.
- È stata un'idea sua! - esclamai per giustificarmi.
- Non ho detto niente! - disse lei ridendo. - Alla fine ce l'ha fatta?
Scossi la testa. - In realtà ci siamo usati a vicenda. Io per dimenticare Margareth e lei il suo amico di infanzia che si era trasferito. Abbiamo rotto quando ci siamo resi conto che non serviva a nulla. -
Lydia si era dimostrata davvero fragile quel giorno, quando mi aveva raccontato tutto, quando si era scusata. Per un secondo mi sembrò di sentire ancora la sua pelle sotto le mie dita quando le avevo toccato la spalla per farla alzare e le avevo detto che non ero arrabbiato. Perché avrei dovuto esserlo se io avevo fatto la stessa cosa con lei?
Tornai al presente. - Quest'estate, due mesi dopo che io e Lydia ci eravamo lasciati, anche Margareth ha rotto con il suo ragazzo. Ma io avevo smesso di amarla da poco, forse pensavo ancora a lei quand'ero con Lydia, ma un mese dopo no. Non so come sia successo. Ma quando avrei potuto provarci con lei e non l'ho fatto, ho avuto la conferma che fosse così. Credo di aver finito.
Quando tornai a guardare Elizabeth lei sorrideva. - Non credevo che mi avresti raccontato tutto. Non sono nessuno per sapere queste cose, quindi grazie per aver risposto.
- Ti racconterei tutta la mia vita, figuriamoci queste cose. E poi tu mi hai appena detto la storia di tua nonna, dovevo sdebitarmi. Una storia per una storia, no? - Alzai lo sguardo sui suoi grandi occhi verdi che sembravano esprimere...affetto?
- Sei un ragazzo meraviglioso, Matthew - disse Elizabeth arrossendo.
Quindi si chinò verso di me e mi lasciò un bacio su una guancia poi, aprendo in fretta la portiera, uscì dalla macchina, lasciandomi solo a calcolare le ore che mi avrebbero diviso da lei.



Angolino mio: Innanzi tutto volevo dirvi che probabilmente il prossimo capitolo arriverà con un leggero ritardo. Nelle prossime settimane infatti sarò sommersa da verifiche neanche fossimo a Natale (i miei prof mi odiano) quindi non riuscirò a scrivere sempre. Prometto che ci proverò, ma volevo comunque avvisarvi. Seconda cosa: ho deciso di parlare molto più di Lydia rispetto che delle altre perchè volevo fare in modo che vi ricordaste di lei, infatti non ho ancora ben deciso, ma è possibile che la rivedrete. Detto questo, come al solito spero che il capitolo vi sia piaciuto. Viene raccontata storia della nonna di Elizabeth, di cui finalmente conosciamo il nome, e Matt inizia a capire cosa gli nascodono Chuck e Luke. Alla prossima, sperando di uscire viva dalle verifiche. Vi adoro!
 

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Capitolo 20
*** Ritagli di giornale ***


Capitolo 20: Ritagli di giornale

Riconosciuta l'identità dell'uomo trovato morto nel bosco della città di Heldown, nei pressi di Louisville, il 26 dicembre. Grazie ad alcuni abitanti che dicevano di aver già visto l'uomo girare per la cittadina più di dieci anni fa infatti, si è riusciti a risalire ad alcune foto che ritraevano Malcom Smith, questo il suo nome, come passante nella piazza della città con indosso la divisa del college di Louisville. Dopo questa informazione, la polizia si è messa alla ricerca del suo nome e dei suoi famigliari negli archivi dell'università. Questo li ha portati alla scoperta del motivo della mancata denuncia di sparizione di Malcom Smith: egli infatti non era sposato e non aveva nessun parente con cui si sentisse regolarmente. Al contrario, era molto legato ai suoi colleghi, che erano però ignari della sua morte. "Credevamo stesse bene" ha dichiarato il suo capo. "Si era licenziato agli inizi di dicembre. Diceva di aver accettato un incarico a Louisville." Di quest'incarico la polizia non ha trovato traccia.
Dopo i colleghi verranno interrogati quindi i suoi ex compagni di corso all'università per riuscire a risalire al killer che, come l'arma del delitto, non è ancora stata trovato.

 

Chiusi il giornale e lo gettai sul tavolo davanti a me, nervoso. Da quanto tempo quella storia era sui gionali? Perché nessuno mi aveva detto niente? La tazza di latte e cereali di fronte a me fumava da più di cinque minuti. Vi immersi il cucchiaio e me lo portai alla bocca, non curante del calore che emanava e che mi avrebbe sicuramente scottato il palato e la lingua.
- Cavolo - mormorai con la bocca in fiamme.
Il mio sguardo cadde di nuovo sul giornale, aperto ancora alla pagina dell'articolo sul padre di Elizabeth, e osservai la foto che vi era stata stampata. Era quella raffigurante Malcom Smith con la felpa dell'università. Gli avevo dato un'occhiata veloce soltanto prima di leggere e poi un'altra quando l'articolo ne parlava.
Sbuffai, non volevo cedere alla curiosità, ma avevo bisogno di guardarla meglio e di conoscere il volto del padre di Elizabeth.
Dopo essermi guardato intorno circospetto, avvicinai di nuovo la pagina a me. Nella foto, nonostante avessero i volti oscurati, i soggetti principali erano chiaramente due ragazze in posa in una delle vecchie piazze del centro. Dietro di loro camminavano alcuni passanti, ma l'unico che la polizia aveva messo a fuoco era un uomo sui ventitré anni. Rimasi un attimo a fissare il suo aspetto: era voltato verso l'obbiettivo, portava la felpa con il logo dell'università di Louisville, quella che avrei dovuto frequentare io, e aveva degli scuri capelli castani e folte sopracciglia. La sua espressione mi ricordava Elizabeth.
La didascalia sotto la foto diceva: "Malcom Smith all'età di ventitré anni in una foto del 1996 mentre cammina per Heldown."
- Elizabeth Smith - mormorai pensieroso. - È terribile.
- Cosa? - chiese una voce alle mie spalle spaventandomi e facendomi cadere il giornale dalle mani, che finii dentro la mia colazione.
Mi voltai verso mia madre, che si era liquidata dalla cucina poco prima per andare a vestirsi.
- Non sapevo che la storia dell'omicidio fosse finita sui giornali.
- Già. A quanto mi ha detto il giornalaio, che ha il figlio in polizia, all'inizio non volevano diffondere la storia perché credevano si sarebbe risolta in fretta. La settimana scorsa però si sono resi conto che stava diventando un caso difficile, soprattutto perché non sapevano nemmeno come si chiamasse quell'uomo, e hanno pubblicato le prime notizie. - Prese a fissare il giornale bagnato e io le sorrisi colpevole. - L'ho sentito anche al notiziario ieri sera, poco prima che arrivassi.
Sgranai gli occhi, stupito. Se la notizia si stava diffondendo così tanto, come avrebbe fatto Elizabeth a nascondere tutto? E se non ci sarebbe riuscita? Sarebbe rimasta sola. Ero ancora confuso nei confronti di sua madre e lo sarei stato finché non avessi saputo cos'era successo davvero quel giorno.
Mi alzai dal tavolo, diretto al bagno per lavarmi i denti prima di andare.
- Matt - mi chiamò mia madre. - Tuo padre vorrebbe che tu andassi a trovarlo oggi dopo la scuola.
- Perché? - domandai.
Lei alzò le spalle. - Non ne ho idea.
- Va bene. Cercherò di tornare presto.
Una volta uscito dal bagno, mi diressi in camera mia per prendere il mio zaino. Lo sollevai con un braccio e sentii il suo peso gravarmi sulle spalle quando ve lo appoggiai. Quando mi voltai per uscire dalla stanza, mi fermai per un attimo a guardare lo scaffale dei libri, attirato dal volume di matematica. Non avevo ancora parlato a mia madre della proposta di Mark. Non perché non volessi ma perché non sapevo quale opzione scegliere. Da una parte avrei voluto accettare subito, felice di poter fare per sempre qualcosa che amavo. Dall'altra non volevo lasciare la matematica, anche se l'opportunità di fare quello che volevo dopo l'università non era possibile come invece con il nuoto. In realtà, ero sicuro che mia madre mi avrebbe confuso di più le idee dicendomi di fare quello che mi suggeriva il cuore. Mi ricordai della gara che avrei avuto di lì a pochi giorni. Poteva essere una delle ultime della mia vita, oppure la prima di tante altre. Era una competizione importante, ma cos'era in confronto alle Olimpiadi? Mi passai una mano tra i capelli e voltai le spalle ai libri.
Il mio cellulare vibrò e io lo estrassi dalla tasca. Elizabeth mi aveva inviato un messaggio: "Esci."
Dopo il nostro ultimo incontro due giorni prima, ci eravamo visti a scuola solo qualche volta nei cambi dell'ora e a pranzo. Avevo davvero voglia di vederla.
Scesi in fretta dalle scale, mi infilai il giubbotto e salutai mia madre, per poi chiudermi la porta di casa alle spalle. Elizabeth era sul vialetto sorridente che mi aspettava. Appena la raggiunsi, lei prese a parlare in fretta.
- Posso guidare? Per favore! So che mi avevi detto che me l'avresti fatto fare una volta ottenuta la patente ma il mio istruttore ha detto che mi farà fare l'esame non appena avrò compiuto sedici anni e lui non sarà presente per tutta la settimana e io ho bisogno di guidare, altrimenti mi bocceranno e passerò tutta la vita facendomi accompagnare da mia madre - disse tutto d'un fiato.
- Calmati!- esclamai ridendo. - Iris ti ha contagiata? Di solito è lei che parla così.
- No, è che sono in ansia.
- Si vede. - Pensai un attimo se permettere ad Elizabeth di guidare la mia macchina. Non sapevo se fosse brava e non volevo che me la distruggesse, mia madre aveva fatto molti sacrifici per comprarmela anche se non era decisamente nuova. Osservai la sua espressione, indeciso se fidarmi o memo.
- Ti prego. - Mi guardò intensamente con i suoi occhi verdi. - Sono brava!
- Oh, al diavolo - dissi a me stesso. - Puoi guidarla.
Lei emise un gridolino e mi diede un abbraccio, poi corse verso il garage.
All'inizio, Elizabeth si mostrò molto ansiosa, continuava a ripetere che era stata una pessima idea e che sarebbe finita contro un albero e, non essendo sulle auto di scuola guida, questa volta nessun istruttore ci avrebbe salvato la vita utilizzando i comandi installati sul lato del passeggero. Quando però io scoppiai a ridere, lei si calmò ed iniziò a guidare benissimo e io dovetti ammettere che era davvero brava. La osservai mentre era concentrata. Elizabeth non era di quella bellazza che toglie a tutti il respiro, era una ragazza normale, modesta, eppure io la trovavo bellissima, fin dalla prima volta che l'avevo vista mi aveva colpita. Era sembrata così fuori posto nell'ambiente scolastico, così sicura di sé e poi avevo scoperto che quello che avevo pensato di lei era tutto sbagliato. Come se per un giorno avesse utilizzato quella maschera per comportarsi in un modo diverso, non preoccupandosi di chi fosse.
- La prima volta che ci siamo conosciuti - cominciai, - mi hai chiesto di ballare. Ma non lo avresti mai fatto se non avessi indossato quella maschera, non è vero?
Elizabeth annuì e sorrise. - È vero. Come ti ho spiegato quando abbiamo passato quell'ora buca insieme, io non sono mai stata così amica dei ragazzi, eccetto che con Thomas. Non mi sarei mai azzardata a farlo.
- Ma quel giorno hai deciso che per una volta volta avresti potuto essere chiunque tu volessi.
- Tu mi capisci, Matthew. Mi sai leggere come un libro aperto- mormorò sorridendo. - Non so se averne paura oppure esserne felice.
Io le sorrisi di rimando. - Preferisco la seconda.
Passammo a prendere Iris, che si complimentò con Elizabeth per la sua guida e le disse che era perfino meglio della mia.
Decisi di chiedere alla mia amica notizie di Thomas.
Lei alzò le spalle e sbuffò. - Mi manca, ma non ho intenzione di risolvere con lui, la colpa é sua.
Questa volta fui io a sbuffare. - Brutta cosa l'orgoglio.
In tutta risposta lei mi lanciò un'occhiataccia.
Proprio in quel momento arrivammo al parcheggio della scuola, dove Elizabeth parcheggiò senza alcun problema infilandosi in un buco tra due auto. Scesi dalla macchina, vedemmo Thomas venirci incontro. Camminava con le mani nelle tasche dei jeans e lo sguardo assente. Alla vista di Iris esitò un attimo poi si fece coraggio e venne a salutarci.
- Io devo andare - annunciò Iris.
- No aspetta. - Thomas la afferrò per un braccio e per un secondo si fissarono. Sperai che le stesse per chiedere scusa ma non accadde. Thomas si schiarì la voce. - La Lawrence vuole che andiamo a provare oggi.
- Va bene. - disse lei liberandosi dalla sua presa e dirigendosi verso l'ingresso, i suoi capelli rossi che svolazzavano come lingue di fuoco.
Thomas la seguì con lo sguardò finché lei non fu entrata poi si voltò verso di noi. Sembrava nervoso.
La campanella all'interno della scuola suonò, rimbombando anche all'esterno. Alcuni ragazzi si diressero fuori dal parcheggio e altri ritardatari arrivarono di corsa dalla strada.
- Andiamo Matt, abbiamo inglese - mi incitò Thomas.
Avrei voluto parlare con Elizabeth di quello che avevo letto sul giornale ma ormai non c'era più tempo. Cercai di salutarla ma suo cugino mi afferrò per il giubbotto, deciso a trascinarmi dentro la scuola il più in fretta possibile.
Elizabeth mi fece un cenno della mano ridendo.


 

La mattinata passò in fretta anche se dovetti ammettere che nell'ultimo periodo Thomas sembrava giù di morale. Immaginai che fosse colpa del litigio con Iris e provai l'istinto di tirare un calcio nelle caviglie del mio amico. Che senso aveva farsi del male da soli?
Quando le lezioni finirono, mi diressi da mio padre che voleva vedermi. Raggiunsi la casa abbastanza in fretta poiché in strada non c'era nessuno. Una volta davanti alla porta di ingresso però, mi bloccai. Ero curioso di sapere per quale motivo mio padre aveva voluto parlarmi, ma non ero molto desideroso di vederlo.
Un dolce profumo di crostata ai mirtilli fuoriusciva dalla finestra della cucina lasciata aperta. Mi lasciai trasportare da quell'odore e ripensai alle volte in cui, dopo l'ennesimo litigio, ero sgattaiolato fuori dalla mia camera e ne avevo rubato una fetta. Mangiare quella torta mi calmava, anche se non diminuiva l'odio.
Allungai una mano e suonai il campanello, rincuorato da quel profumo che dimostrava la presenza della mia matrigna.
- Si? - chiese una voce all'interno della casa prima di aprire.
- Sono Matt.
La porta si aprii preceduta da un leggero cigolio e mio padre comparve sull'uscio. - Sono felice di vederti.
- Già - dissi senza far trapelare emozioni. - Dovevi dirmi qualcosa?
Il profumo di dolci si fece più intenso mentre attraversavamo l'ingresso e ci dirigevamo in salotto. Diedi uno sguardo nella cucina e mi accorsi che Charlotte non c'era. Sbuffai, la sua presenza mi tranquillizzava.
Mio padre mi fece accomodare sul divano del salotto e poi si sedette di fianco a me, prendendo un grande respiro.
- Avevo bisogno della tua opinione.
Io annuii, facendogli segno di continuare.
- Ora che Charlotte è incinta, sto pensando di chiederle sposarla - cominciò.
Aggrottai le sopracciglia, confuso. Adesso? pensai. Ero sempre stato convinto che dopo il fallimento con mia madre, con Charlotte non sarebbe andato oltre la convivenza.
- Credo sia un bene per il bambino. Crescerà sapendo di Lisa e non voglio che abbia dubbi sull'amore che provo per sua madre o che creda che per me sia solo...be' l'amante. Cosa ne pensi?
- Penso che tu debba sposare Charlotte perché la ami e vuoi farlo, non per il bambino. Tante coppie convivono e basta. - Lo guardai negli occhi e decisi di dire quello che pensavo veramente, anche se sarei parso duro. - Non che a te sia mai importato molto delle conseguenze delle tue scelte. Se io sono cresciuto sapendo che i miei non si amavano, lui può anche porsi qualche domanda in merito se poi verrà smentita.
Non volevo risultare egoista e dire cattiverie nei confronti di mio fratello, volevo solo far capire a mio padre che venire a chiedermi qualcosa del genere non era stata una grande idea.
Lui sospirò. - Ho sbagliato con te e mi dispiace, ma sei un adulto ormai, devi capire. So che da bambino eri arrabbiato con me perché me n'ero andato di casa e avevo lasciato te e la mamma. - Sembrava così sicuro. I miei pugni cominciarono a serrarsi. - Volevi che tornassi indietro e litigavi con me per questo, non sapendo che in quel modo non avresti ottenuto niente. - Li strinsi più forte. - Adesso però hai diciassette anni, sai che è sbagliato fingere di amare qualcuno e stare con lui solo perché non si ha il coraggio di cambiare vita e abitudini. Non stavo più bene con la mamma.
Mi alzai in piedi, le mani serrate lungo i fianchi, incredulo. La rabbia che montava dentro di me.
- In tutto questo tempo hai creduto che il motivo per cui fossi arrabbiato con te, era che te n'eri andato? - chiesi. - Credi davvero che ti urlavo contro tutte quelle cose solo per riaverti indietro? Ti sembro così stupido?
Mio padre mi guardò stupito. Non si aspettava una reazione simile.
- Qualche giorno fa ho detto a Thomas e Iris che quello che provavo per te non era rabbia, ma delusione. Ma dopo questo... Ho sempre saputo che non ti avrei riavuto indietro litigando, non era questo il motivo. Vuoi sapere perché lo facevo? Perché sei un codardo, papà. Perché quando la mamma ti ha scoperto tu l'hai pregata in ginocchio di farti rimanere e il giorno dopo proclamavi il tuo amore per Charlotte. Proprio tu parli del coraggio di cambiare vita e abitudini, quando tu ne avevi una paura folle. Preferivi prendere in giro la mamma e usarla. Non è un comportamento da uomo. Avresti almeno potuto provare a riscattarti, migliorando la situazione con me, ma non ci hai nemmeno provato. Ogni volta che litigavamo, tu mi lasciavi in camera fino alla fine della giornata, non provando nemmeno a venire da me, a parlarmi o a risolvere. Sai chi veniva a vedere come stavo? Charlotte. Nonostante tutti gli epiteti che le davo, lei si interessava sempre a me. Lei e non mio padre.
Presi un grande respiro osservandolo. Era pallido. Credevo che avrei trovato rabbia nel suo sguardo e invece no, era ferito, forse quasi pentito. Avrei dovuto provare pena? No. Era tardi per lui. Mentre un ricordo si faceva largo nella mia testa, decisi di continuare, questa volta parlando con calma, come faceva Elizabeth durante i suoi racconti. - Il mese dopo che tu e la mamma vi eravate lasciati, lei non era ancora riuscita a parlarne con la maestra, aveva troppe cose per la testa. Mi aveva chiesto di accennarglielo, in modo che non vivessi altre situazioni spiacevoli per quel periodo di tempo. Uno di quei giorni ci fu l'accoglienza per i bambini che sarebbero venuti a scuola l'anno dopo. Un gruppo venne nella nostra classe e la maestra decise di proporre di parlare dei nostri eroi. Un bambino si era alzato senza la minima vergogna, nonostante fosse circondato da ragazzi della quinta classe, e aveva detto subito che allora avremmo dovuto parlare dei nostri padri, perché loro erano i veri eroi. La maestra allora aveva accettato, dicendoci di spiegare per quale motivo i nostri padri erano eroi. Mentre aspettavo il mio turno, sentivo tutti i miei amici raccontare di come i loro padri avevano comprato loro un bellissimo giocattolo o di come tutti i giorni si alzavano presto e tornavano a casa tardi e in tutto quel tempo riuscivo solo a pensare a come tu avevi tradito la mamma.
Mio padre deglutii, per poi prendere finalmente la parola. - E tu cos'hai detto?
- Ero l'ultimo, ed è stata una fortuna perché il suono della campanella ha portato gli sguardi dei miei compagni lontani. Ho detto che tu non eri il mio eroe, che non lo saresti mai stato, perché gli eroi sono coraggiosi, leali e giusti e tu non lo sei.
Mi alzai in piedi, dando le spalle a mio padre e dirigendomi verso la porta. Lui rimase seduto, chinò la testa e si fissò le mani. Raggiunsi il corridoio all'entrata e mi fermai un attimo ad annusare il profumo di crostata. Pensai alla mia camera lì e immaginai che in futuro sarebbe appartenuta a mio fratello. Sospirai, forse finalmente quella stanza avrebbe contenuto ricordi felici.
Allungai la mano verso la maniglia della porta, deciso ad andarmene così, ma poi cambiai idea. Mio padre era uno stronzo e non era un eroe, ma se c'era una cosa buona che aveva fatto era stata quella di farmi divertire quando ero piccolo. Era bravo a creare ricordi, nonostante quelli legati a lui si fossero presto trasformati in negativi. La mia infanzia non era stata poi tanto male. Forse avrei potuto persino definirla bellissima se lui non l'avesse rovinata proprio quando stava finendo.
Tornai nel salotto, dove lui era ancora seduto nella stessa posizione. Alzò la testa appena mi vide ma non parlò.
- Sposa Charlotte e non commettere lo stesso errore con mio fratello, eri un buon padre una volta, potrai esserlo di nuovo - dissi, e con questo me ne andai.



Angolino mio: Sono ancora viva! So di essere sparita per settimane e quindi voglio chiedervi scusa per il lungo periodo con cui vi ho fatto aspettare. Come vi avevo già detto, sono stata sommersa da impegni scolastici e quindi per tre settimane non ho scritto molto, non riuscendo a trovare il tempo e l'ispirazione, ma alla fine ce l'ho fatta. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, soprattutto la fine, dove Matthew lascia finalmente uscire tutto quello che pensa di suo padre. Da una parte penso sia stato parecchio crudele, ma dall'altra mi dico che è giusto così. Mi sono divertita parecchio a rileggerla però, anche se mentre la scrivevo non era così. Ringrazio tutti quelli che continuano a leggere. Un bacio e a presto!

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Capitolo 21
*** La gara ***


Capitolo 21: La gara

Una volta attraversata la porta di casa, quasi non mi accorsi nemmeno che mia madre mi stava chiamando, talmente ero stato assorbito dai miei pensieri. Non sapevo nemmeno cosa avrei dovuto dirle. Lasciai cadere la cartella per terra e raggiunsi la sua voce. Era seduta sul divano del salotto, arrotolata in mezzo ad una coperta. Davanti a lei, la televisione stava trasmettendo un'episodio di una delle serie che amava tanto. Appena mi sedetti di fianco a lei, iniziarono a trasmettere i titoli di coda e lei spense lo schermo.
- Di cosa ti ha parlato tuo padre? - domandò mentre tirava indietro la coperta.
Sbuffai, non sapevo se dirle la verità. Le avrebbe fatto male sapere che tra le motivazioni di mio padre per compiere quel gesto c'eravamo io e lei? Ci pensai su un attimo, mentre mia madre si alzava in piedi e piegava la coperta, e infine decisi che con tutto quello che le aveva fatto, il suo pensarla così non era niente di importante.
- Papà vuole sposarsi con Charlotte.
Mia madre si bloccò un attimo, alzò lo sguardo su di me e poi tornò alla sua coperta. - Mi sembra lecito, stanno per avere un bambino.
- Hai ragione, ma...non lo so. - Mi passai una mano tra i capelli.
- Avete litigato? - chiese.
Annuii.
- Oh Matt, è solo un matrimonio. Abbiamo perso Patrick tanto tempo fa. - Aveva gli occhi puntati su di me, ma non mi guardava.
- Lo so e non è questo. Abbiamo litigato per delle cose che ha detto ma non è il caso di pensarci. Ho già tanti pensieri per la testa. - Mi alzai anch'io dal divano, deciso a chiudere la conversazione e a recarmi in camera.
- Cos'altro c'è? - chiese invece lei, bloccandomi. Il suo volto assunse un'espressione preoccupata. - Problemi a scuola?
Scossi la testa, sorridendo. - Va tutto bene a scuola.
- E allora é qualcosa di nuoto?
"Anche" pensai.
- Sì, Mark mi ha chiesto se ho intenzione di continuare.
- Vuoi lasciare? - domandò triste. Le era sempre piaciuto così tanto supportarmi durante le gare. La sua reazione mi confuse ancora di più.
- Se voglio farlo, é arrivato il momento. Il problema é che non ci avevo mai pensato.
- Non devi lasciare se non vuoi, tante persone continuano - affermò convinta, anche se non conosceva veramente qualcuno che avesse continuato a frequentare nuoto nonostante avesse rinunciato a una proposta importante.
- Ma non come ora, in futuro non potrò più praticarlo così tanto. Ma se continuo...Mark ha parlato di Olimpiadi. - Pensai al me del futuro con in mano una medaglia e provai qualcosa. Era qualcosa di bello, di piacevole.
- Tra quanto hai la prossima gara? - chiese mia madre.
- Il dieci febbraio, tra tre giorni - mormorai. - Perché?
- Decidi in base a quella gara, in base a cosa ti farà provare, se andrà bene. Scegli un criterio e decidi - disse convinta.
Io mi grattai il capo, poteva essere un'idea. Senza pensarci molto, annuii e accettai quella proposta.
Presi in mano il telefono e guardai l'ora, quindi sbuffai e salutai mia madre per andare in camera a studiare. Salii le scale in fretta e mi sedetti davanti alla scrivania, pronto ad aprire i libri e a fare gli esercizi di matematica, ma improvvisamente la voglia sparì. Mi lasciai scivolare sulla sedia e guardai il soffitto. In fondo se aspettavo un po' non cambiava niente, avrei comunque finito giusto in tempo per andare a nuoto. Il nuoto...Tornai a posare lo sguardo sul libro: numeri, calcoli, problemi. Problemi. Quella situazione non mi piaceva affatto. Non sarei riuscito a scegliere da solo, nemmeno con la proposta di mia madre. Decisi di chiedere l'opinione di qualcuno e presi in mano il mio cellulare. Il nome di Elizabeth si fece strada nella mia testa in un attimo e, senza pensarci due volte, la chiamai. Lo lasciai squillare solo due volte prima che lei rispondesse.
- Matthew? - La sua voce mi fece tornare il buon umore e immaginai che forse avevo deciso di chiamarla solo per sentirla.
- Ciao Elizabeth - risposi, guardando fuori dalla finestra.
- Come mai mi hai chiamato? - domandò con una punta di curiosità.
- Forse volevo solo sentire la tua voce.
Lei rimase zitta un attimo, poi riprese, sviando l'argomento. - Oggi vai a nuoto? - La sua voce era diversa: non infastidita, l'esatto contrario. Immaginai stesse sorridendo.
Stavo per risponderle di sì, ma mi poi ricordai che quello era uno degli unici giorni in cui non ce l'avevo. - No, ma è proprio di questo che volevo parlarti.
- Allora non è vero che volevi sentire la mia voce - rispose lei.
- Anche. - Sorrisi. - Ma ho bisogno di un consiglio e mi fido di te.
- Spara!
- Mark, il mio allenatore, mi ha chiesto se ho intenzione di andare alle Olimpiadi... - mormorai.
- Ma è meraviglioso! - esclamò. - Matthew é bellissimo!
Io rimasi zitto. Lo era. Era meraviglioso. Significava che valevo qualcosa e che con il giusto impegno avrei raggiunto grandi obbiettivi e che tutti quegli anni avevano dato dei frutti.
Accortasi del mio silenzio, Elizabeth chiese: - Perché non sei convinto?
- Non lo avevo calcolato. Non mi era mai passato per la testa. Credevo che sarei andato a fare matematica all'università. Cosa devo fare? Non potrò certo fare entrambe le cose.
- Sinceramente non ne ho idea.
- Non mi aiuti.
- Non sapevo che la matematica ti piacesse a tal punto.
- Elizabeth la stalker non è arrivata a sapere una cosa così importante! Perdi colpi! Credevo conoscessi il mio orario scolastico a memoria. Così ci saresti arrivata subito, o almeno avresti capito che sono bravo, visto che sono nel corso dei migliori.
- Piantala! - La sentii ridere. - Tornando alla scelta, non so se sia giusto che sia io a prendermi una responsabilità del genere. Posso dirti quello che farei io, ma non voglio che tu agisca così, ho paura che poi tu te ne penta e che sia a causa mia.
- Ho già provato a chiedere a mia madre, ma non è stata molto d'aiuto. Ho bisogno di qualcuno che sia chiaro e che mi dica cosa fare - mi fermai, lasciando cadere lo sguardo su un problema, aspettando che lei rispondesse. - Ti prego.
- Credo che dovresti nuotare - disse Elizabeth così in fretta che quasi non riuscii a distinguere le parole.
- Grazie.
- Non so che lavoro vorresti fare dopo l'università o quanto ti piaccia spremerti il cervello in calcoli strani, ma ti ho visto nuotare e sei bravo, non mi sembra giusto buttarlo via così.
Annuii, era vero.
Mi tirai su e incrociai le gambe mentre mi sedevo sulla sedia, un'abitudine che avevo da bambino. - Il dieci ho una gara. Vuoi venire?
- Certo.


 

I giorni passarano in fretta. In piscina, mi allenai più del solito, deciso a vincere la gara. Chuck non venne nemmeno un giorno perché, a detta sua, aveva preso una brutta bronchite e se voleva esserci alla gara, doveva saltare gli allenamenti e riprendersi completamente. Fu un peccato, perché dopo essermi accorto che le sue scarpe corrispondevano a quelle che indossava la persona che parlava con Luke, avrei voluto osservarli e cercare di capire cosa succedeva. A scuola tutto procedeva tranquillo, tranne che per le ore di matematica che avevano iniziato a crearmi confusione, non che avessi iniziato a sbagliare gli esercizi, ma non ero più sicuro di niente e questo non mi piaceva. Iris e Thomas continuavano a non parlarsi, mentre lui faceva ancora finta che Hannah fosse la sua migliore amica. Per fortuna ero riuscito a convincere entrambi a venire alla gara, in fondo non avevano bisogno di parlarsi per fare il tifo per me, e poi mi piaceva avere gente.
Alla mia prima gara mia madre si era messa a fare il tifo per me così forte che tutti sugli spalti avevano iniziato a guardarla male. Avrei voluto nascondermi sott'acqua e lasciar perdere tutto, ero così imbarazzato, ma poi avevo capito che se non per me, dovevo almeno provare a vincere per lei, perché il suo obbiettivo era quello di darmi forza. Quella gara non era andata bene, ma non mi era importato. Da quel momento avevo sempre chiesto a qualcuno di venire, perché anche quando mi accorgevo che stavo andando male o che qualcuno mi aveva superato, pensavo a quelle persone che erano lì per me e, nonostante fossi stanco, ce la mettevo tutta per recuperare. Lo facevo per me stesso, ma anche per loro.
Quando il giorno della gara arrivò, mi sentivo abbastanza motivato, soprattutto per quello che mi aveva detto Elizabeth. Ero felice che lei fosse lì, insieme ai miei amici.
La gara si teneva a Louisville, la capitale, che non distava troppo dalla nostra città e non c'era quindi voluto molto per raggiungerla.
Mancavano pochi minuti alla fine della gara precedente alla mia quando abbandonai gli spogliatoi e mi avviai verso la piscina, diretto alla mia corsia. Feci scorrere lo sguardo alla ricerca dei miei compagni e di Mark. Fortunatamente ci eravamo qualificati tutti. Luke aspettava impaziente davanti alla sua corsia, mentre gli altri erano rannicchiati sugli spalti. La loro espressione faceva intuire che non si sentivano a loro agio lì, ma i responsabili della gara non li avevano voluti vedere sulle panchine vicino all'acqua, sostentendo che avrebbero solo disturbato siccome dovevano affrontare altre gare. Mary aveva iniziato per prima e con il suo magnifico stile a farfalla era arrivata terza. Ora stava seduta vicino agli altri, il suo ragazzo le teneva una mano sulla spalla. Margareth era alla destra della ragazza, anche lei aveva disputato la gara quella mattina. Ad un passo da lei c'erano Jason e Chuck, che si era rimesso completamente. Seduti dietro di lui c'erano i miei amici e mia madre, che per nessun motivo al mondo avrebbe mai potuto perdersi una mia gara.
Thomas e Iris erano vicini e appena mi videro alzarono una mano in segno di saluto. Un attimo dopo, lo sguardo di Elizabeth si illuminò e io sorrisi.
Mark mi si avvicinò con un'asciugamano sulle spalle, nonostante non ne avesse bisogno. - Metticela tutta. In bocca al lupo.
Io annuii.
- Matt, forza sbrigati - mi chiamò Luke, cominciando a salire sul trampolino.
Lasciai le mie cose su una panca e la seguii, sotto gli sguardi dei miei amici.
Una volta posizionato, mi infilai gli occhialini e attesi il fischio di inizio. Le gambe e la braccia cominciarono a fremere, impazienti. Dovevo vincere. Volevo vincere.
Il fischio di inizio risuonò all'improvviso ma senza prendermi alla sprovvista, mi capitava spesso di non rendermi conto di quando stava per cominciare. In un lampo, mi buttai in acqua, che era stranamente tiepida, anche se non ebbi il tempo di farci troppo caso. Con una bracciata dopo l'altra arrivai fino al bordo della vasca e tornai indietro. Era una gara abbastanza importante, anche se Mark sosteneva che la dovessimo considerare solo un allenamento per quelle che avremmo dovuto affrontare in futuro. L'acqua era cristallina, riuscivo a vedere ogni minima striatura delle piastrelle sul fondo, ma non dovevo distarmi. Raggiunsi di nuovo il bordo e dovetti fare un'altra inversione. Essando la mia gara quella dei 200 m a stile libero, che era quello che mi veniva meglio, mi mancavano due vasche. Cercai di aumentare l'andatura, allargando le bracciate, senza però sforzarmi troppo e riuscii anche a superare Luke. Provai quel senso di libertà che mi travolgeva ogni volta che nuotavo, mi sentivo bene. All'ultima vasca ero davvero stanco ma dovevo vincere. Strinsi i denti e continuai. Venti metri. Dieci. Ero primo, non dovevo farmi superare. Cinque. Luke si avvicinò a me. Due. Toccai il bordo e qualcuno fischiò. Avevo vinto!
Guardai verso i miei amici e notai che stavano tutti gridando di gioia, Thomas stava addirittura battendo il cinque ad Iris che rideva. Ma il più felice ero io, ero orgoglioso di me stesso ed era una sensazione che mi piaceva moltissimo.
Nella corsia di fianco alla mia, Luke sorrise e allungò un braccio. - Bella gara.
Afferrai la sua mano e la strinsi. - Mi dispiace averti superato all'ultimo.
- Non è vero, non ti dispiace per niente.
Io annuii, lasciandomi scappare un altro sorriso.
- Vorrà dire che la prossima volta starò più attento - disse lasciando la mia mano e alzando un angolo della labbra. - Guardati le spalle negli spogliatoi.
Si tirò su e uscì dall'acqua, lasciandomi perplesso da quell'affermazione. Completamente confuso, me ne andai anch'io, raccogliendo l'asciugameno sulla panca e passandomelo sul viso. Proprio in quel momento, Chuck mi passò vicino e mi batté il cinque. - Grande Matt! Bella gara.
- Ora tocca a te.
Lui annuii e si diresse verso la vasca, mentre io andavo a salutare i miei cari.
Non appena vi avvicinai agli spalti, Elizabeth si alzò dal suo posto e corse giù. Senza nemmeno pensare alla ringhiera che ci divideva e che io fossi più in basso di lei, mi buttò le braccia al collo e mi abbracciò. In un primo momento rimasi immobile, totalmente impreparato a quel gesto, poi feci passare le mie braccia intorno alla sua vita e la strinsi.
- Bravissimo! - esclamò lasciandomi andare.
- Grazie - risposi. - Aspetta, vengo lì.
Passai sotto la ringhiera e la raggiunsi. Lei mi prese la mano e mi tirò dagli altri. Thomas mi batté il cinque e anche Iris fece le stesso mentre mi madre mi abbracciò, conplimentandosi con me e sussurrandomi all'orecchio qualcosa su me ed Elizabeth per poi sorridere con approvazione. Aveva frainteso, come al solito, ma decisi che per quel momento volevo lasciarglielo credere. Volevo crederlo anch'io.
Avevo vinto la gara, Elizabeth mi aveva abbracciato. Ero così felice e lo sarei stato per tutta la giornata se mia madre non mi avesse ricordato quella scelta che mi attanagliava da giorni.
- Allora, dopo la gara ti si sono schiarite un po' le idee? - domandò mentre mi sedevo tra loro.
Rimasi immobile, non volevo prendere una decisione subito, non dopo la foga della gara. Avrei rischiato di prendere decisioni senza pensarci abbastanza, e poi volevo sapere qual era l'opinione di Thomas, che era sempre molto bravo a fare delle scelte quando si trattava degli altri.
Eppure sapevo di voler continuare a nuotare e provare quella sensazione di libertà che avevo sentito in acqua.
- Forse - dissi infine.
Mia madre sorrise.
Feci scivolare lo sguardo verso la vasca e notai che Chuck era già in posizione. Quella mattina Mark mi aveva confessato di essere molto preoccupato. Il mio amico non si era allenato per l'intera settimana e come avversario si trovava a frontaggiare un ragazzo che tutti davano per favorito. Nessuno di noi credeva che ce l'avrebbe fatta, ma ci sbagliavamo.
Fin dal fischio di inizio, Chuck si buttò in acqua in netto anticipo rispetto agli altri, nuotando a dorso con grande velocità. Il ragazzo lo superò ma non per molto, perché Chuck tornò in vantaggio. Saltai in piedi e cominciai a fare il tifo più forte che potevo, seguito dai miei amici e i miei compagni di squadra. Luke corse verso l'inizio degli spalti, mentre Chuck faceva l'ultima vasca e toccava il bordo, vincendo.
Si voltò verso di noi, mostrandoci il pollice alzato e uscendo dall'acqua poco dopo. Mark corse a complimentarsi con lui e io feci lo stesso, correndo giù dagli spalti e passando sotto alla ringhiera. Arrivato ad un passo da lui, Luke mi superò e gli si buttò addosso.
- Chuck sei un grande! Sei arrivato primo! Chi l'avrebbe mai detto?
Lui si scostò, guardandolo negli occhi e deglutendo. La tensione tra i due era palpabile. - Grazie.
Un secondo dopo si voltò, riuscendo solo in quel momento a capire quello che gli aveva detto, e corrugò le sopracciglia. - Aspetta, credevate che non ce l'avrei fatta?
Io rimasi zitto.
- Begli amici che siete, ragazzi. Vi perdono solo perché ho vinto e non voglio rovinarmi la giornata. - Lasciandosi sfuggire una risatina se ne andò, diretto agli spogliatoi.


 

Poco dopo la gara di Jason e prima della premiazione, andai a cambiarmi anch'io. Chuck, che aveva avuto parecchio tempo, si era fatto la doccia e in quel momento si stava asciugando i capelli.
Decisi di fare lo stesso e mi misi sotto il getto d'acqua per sciacquarmi. Da lì, riuscivo a vedere tutti gli spogliatoi, perfino il punto in cui si trovava Chuck. In quel momento, Luke si scostò dalla sua doccia per andare a cambiarsi. Lo seguii con lo sguardo mentre appoggiava le sue cose sopra una panca e si asciugava. Volevo chiedere a Chuck quello che stava succedendo ma non volevo farlo con Luke lì. Lo guardai mentre si chiudeva in una cabina e mi accorsi che anche Chuck lo stava osservando. Ne uscì un attimo dopo, completamente rivestito.
In quell'attimo, l'avversario di Chuck che davano per favorito si avvicinò a lui. - Bella gara.
- Davvero bella, sì - disse assumendo un'espressione beffarda.
Luke scoppiò in una risatina.
- Che c'é? - esclamò Chuck.
- Nulla. - Cercò di trattenersi, ma invano, perché tornò a ridere.
Il ragazzo favorito lo fissò.
- Scusa, é un coglione - disse il mio amico.
L'altro alzò le spalle e andò via sotto gli occhi di Chuck, che poi si rivolsero al biondo. - Che problemi hai?
- Che problemi hai tu? Non posso ridere?
- Non puoi se ridi di me.
- Oh, scusami tanto - rispose esasperato.
Quei due erano come cane e gatto, com'era possibile che fossero stati insieme? No, i miei sospetti dovevano essere sbagliati. Eppure...la tensione che c'era e gli sguardi che si erano scambiti non li avevo sognati.
Chiusi la doccia e andai verso di loro per cambiarmi, interrompendoli mentre continuavano a bisticciare e Luke si avvicinava a Chuck.
Sospirai, mentre mi infilavo la tuta e guardavo l'ora sul cellulare . La premiazione sarebbe cominciata da lì a cinque minuti. Mentre mi cambiavo, lo spogliatoio si era svuotato completamente. Tutti erano già entrati, tranne i miei due compagni di squadra.
- Ragazzi, dobbiamo andare. Muovetevi! - li ripresi.
Loro non mi rivolsero nemmeno una sguardo, ignorandomi completamente e preferendo continuare a coprirsi di insulti.
- Oh al diavolo! - Me ne andai.
Appena ebbi chiuso la porta però sentii un grosso tonfo provenire dall'interno, qualcuno doveva aver fatto cadere una sacca. Ma c'erano solo loro due lì dentro e stavano litigando! Corsi dentro, preoccupato che fossero passati alle mani. Un atteggiamento del genere poteva portarli ad essere squalificati da ogni tipo di gara per molto tempo. Mark li avrebbe uccisi.
Quando però tornai dentro trafelato, mi resi conto che quello che stavano facendo era diverso anni luce dal litigio. Si stavano baciando.
Il tonfo che avevo sentito era stato provocato dalla sacca di Chuck, che ora era a terra ai suoi piedi, mentre lui faceva scorrere le mani sulla schiena di Luke.
Sgranai gli occhi e uscii in fretta di lì, fermandomi dietro alla porta. Ora sapevo quello che stava succedendo tra i due. Anche se in realtà ne era solo la conferma, dopo quello che avevo sentito dire a Luke lo avevo capito, l'unica cosa di cui non ero stato certo era Chuck. Chi se lo sarebbe mai immaginato? Proprio quei due, insieme. Scoppiai a ridere e mi appoggiai.
Quasi caddi a terra, mentre qualcuno spingeva sopra la porta per uscire. Luke mi passò di fianco, aveva i capelli arruffati e le guance accaldate. Nel suo sguardo lessi una profonda confusione, tutto l'opposto da quello che mi sarei aspettato di vedere. Poi ricordai, nella conversazione che avevo origliato Luke stava urlando a Chuck quanto lo confondesse questa storia.
- Che fai lì? - chiese.
- Stavo solo...niente.
Lui mi lanciò un'occhiataccia e si affrettò a sparire, mentre Chuck usciva dalla porta con un misto delusione e felicità dipinta sul viso. Gli feci passare una mano sulle spalle. - Forza, andiamo.



Angolino mio: Eccomi qui, sono in ritardo anche questa volta ma credo che possiate capirmi, questo periodo è pieno di verifiche per tutti. Durante le vacanze di Natale dovrei riuscire a tornare a scrivere di più. Finalmente sappiamo cosa combinano Chuck e Luke, anche se questi due mi sembrano parecchio confusi. Vi piacciono insieme? Sì Cice, lo so che li adori. Matt è sempre più confuso per la scelta che deve prendere, anche se forse dopo questa gara ha deciso. Che ne pensate? Continuerà a nuotare? Vi avviso che per un po' non si parlerà più di questa scelta, ma in futuro si tornerà a sapere cosa ha deciso. Dopo il prossimo capitolo (che io considerò un po' l'ultimo della prima parte) invece, inizieranno i veri problemi, molto peggiori di questi. A presto!

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Capitolo 22
*** San Valentino ***


Capitolo 22: San Valentino

- Hai visto quanto era difficile quella roba? - domandò Thomas appoggiandosi al mio banco.
Il professor Skin era appena uscito dalla classe, portandosi via le nostre verifiche di storia, che erano state decisamente difficili ed io ero certo che la mia non fosse andata bene.
Mi appoggiai alla sedia. - Scommetto che nemmeno Iris si ricordava la data di quel cavolo di trattato.
Thomas si voltò di scatto. - Iris! Tu ti ricordavi in che giorno si é tenuto il trattato della terza domanda?
- Mi ricordavo una data, ma sarà sbagliata. - disse lei, annodandosi i capelli in una coda e alzandosi per raccogliere le sue cose.
Lui andò verso di lei, prendendole l'astuccio e infilandoci dentro le penne che erano sparpagliate sul suo banco. - Scommetto che prenderai una A.
Osservai la disinvoltura con cui si stavano comportando. - Sono felice che voi due abbiate fatto pace! - esclamai.
Loro mi squadrarono leggermente confusi e poi sussultarono.
- Non...non abbiamo... - cominciò Iris.
Thomas imprecò e voltò le spalle alla rossa, cercando di parlare e venendo però interrotto da Hannah, che era entrata nella nostra classe in quel momento.
- Ciao! Non sapevo foste qui. Sto cercando volontari.
Iris la ignorò. - Thomas...
- Volontari per cosa? - chiese lui ad Hannah.
- Per appendere dei cuori di cartoncino nei i corridoi durante l'intervallo. Tra due giorni é San Valentino.
A mio parere, San Valentino era una delle feste più inutili della storia: prima di tutto, non si poteva restare a casa che era decisamente un punto a suo sfavore, poi il fatto che le ragazze regalassero i cioccolati era vero soltanto in parte perché io non avevo mai ricevuto nulla, tranne alle elementari. In più, era davvero imbarazzante incontrare coppie di ragazzi avvinghiati nei corridoi.
Hannah ci guardò con ansia, sperando di cogliere un cenno o una dimostrazione del fatto che volessimo partecipare, ma nessuno si fece vivo. Alla fine sbuffò e fece per andarsene.
- Aspetta, vengo con te - disse Thomas.
- Vuoi attaccare i cuori? - chiese la ragazza.
- No, devo cambiare classe. - Thomas rivolse un ultimo sguardo ad Iris e poi se ne andò, appoggiando un braccio sulle spalle di Hannah.
Mi voltai verso la mia amica, curioso di sapere quale espressione le avrei letto sul viso. Rabbia.
- Quella brutta...
- Mi dispiace aver rovinato il momento, credevo aveste risolto - dissi bloccandola.
- Non preoccuparti. Fai qualcosa a San Valentino? - domandò mentre uscivamo dalla classe.
I miei progetti per quel giorno comprendevano patatine, un film e il divano. Scossi la testa.
Mi voltai in direzione del mio armadietto e vidi che Thomas e Hannah si erano fermati a parlare con Elizabeth e improvvisamente ricordai: Elizabeth era nata il 14 febbraio!
- Forse sì - dissi, mentre nella mia testa si formavano numerose idee. - Ho bisogno del tuo aiuto.
Iris mi lanciò un'occhiata confusa e seguì la linea del mio sguardo, per poi tirarmi una gomitata.
- Volevo solo organizzarle una festa a sorpresa.
Iris rise e poi se ne andò come se nulla fosse, lasciandomi solo a guardare Elizabeth mentre parlava con il cugino.
- Dicevo sul serio - mormorai una volta rimasto solo.


 

Nei due giorni seguenti mi convinsi che organizzare una festa ad Elizabeth sarebbe stata una buona idea, soprattutto perché avrebbe compiuto sedici anni. Chiesi a Thomas di aiutarmi a scoprire quello che sua cugina aveva organizzato di fare quel giorno e lui accettò, spiegandomi che Elizabeth passava i suoi compleanni come delle giornate normali, soprattutto perché odiava essere nata a San Valentino. Finii anche per andare da Melanie per chiederle di collaborare e scoprii che la ragazza andava da lei ad ogni compleanno.
Quando ebbi preparato tutto, era già il compleanno di Elizabeth e decisi quindi di recarmi nel luogo dove ci sarebbe stata la festa, che in realtà sarebbe stato un semplice incontro tra amici.
Era un piccolo gazebo su un lago, ma in pochi sapevano della sua esistenza perché per arrivarci bisognava passare per un piccolo sentiero nascosto dietro a due cespugli dietro ad un'area pic-nic. Ci ero stato con i miei genitori un paio di volte quando ero molto piccolo e mio padre mi aveva spiegato di aver trovato quel posto mentre giocava a nascondino con i suoi amici. Io non ci avevo creduto, quel gazebo non mi sembrava così vecchio. A quei tempi credevo che i miei genitori avessero un centinaio di anni. Non sapevo perché avessi scelto quel luogo che mi ricordava così tanto mio padre, ma lo avevo sempre considerato un posto speciale, pieno di ricordi felici, e poi era sempre deserto, lontano dal chiasso della gente.
Superata l'area pic-nic, mi infilai nel piccolo sentiero e raggiunsi il lago, per addobbare il gazebo con degli striscioni che mia madre usava sempre al mio compleanno e delle luci. Speravo che ad Elizabeth sarebbe piaciuta la sorpresa. Quella mattina non aveva fatto un solo cenno al suo compleanno e io neppure, non volevo rovinare tutto. Prendendo Iris da parte, l'avevo convinta a venire facendo finta che Thomas non era invitato. Non le avevo nemmeno fatto cenno ad Hannah, ma pensai che fosse sottinteso visto che era la migliore amica della festeggiata. Era crudele ma ad Elizabeth avrebbe fatto piacere vederla, erano diventate parecchio amiche negli ultimi tempi.
Dopo aver finito di decorare il gazebo, diedi le spalle al mio lavoro e tornai in macchina.

Inviai un messaggio a Melanie, che si era gentilmente offerta di lasciarmi il suo numero. “Sto arrivando. Elizabeth?”

“È appena arrivata” rispose lei.

Appena letto il messaggio, ingranai la marcia e partii. Non sapevo cosa aspettarmi, inizialmente ero stato sicuro che Elizabeth avrebbe approvato l'idea della festa, ma in quel momento non ne ero più molto covinto. Ci speravo.

Quando raggiunsi il negozio di Melanie avevo le mani sudate. Le strofinai contro i jeans e scesi dall'auto, per poi infilarmi nel negozio furtivo. Il calore che c'era all'interno del locale mi rilassò e mi resi conto che non aveva senso preoccuparsi, ero uscito con Elizabeth così tante volte, ed eravamo anche soli, mentre quella sera ci sarebbero stati i nostri amici. Eppure una parte di me considerava quell'uscita un appuntamento. “Sei uno stupido” pensai.

Melanie mi raggiunse da dietro e per poco non mi fece prendere un colpo, poi mi fece segno di stare zitto e mi indicò una corsia tra gli scaffali. Capii subito che Elizabeth si trovava lì, quindi ringraziai la donna con un cenno e mi avviai in direzione della bionda. Era appoggiata allo scaffale con due tubetti tra le mani, intenta a scegliere tra due diversi colori di tempere. Era così concentrata che non si accorse nemmeno di me. Mi mossi piano, senza fare alcun rumore e le arrivai dietro, poi le appoggiai le mani sugli occhi e glieli coprii. Lei sussultò, ma rimase dov'era. Io non dissi nulla, non volevo che mi riconoscesse dalla voce e lei fece scorrere le sue mani sulle mie.

- Sei un maschio – disse con una profonda calma.

Non riuscii a trattenermi. - Questo non dovrebbe preoccuparti? Insomma Elizabeth, mi deludi.

Lei scoppiò a ridere. - Matthew, cosa c'è?

Le tolsi le mani dal volto e le afferrai la vita, per farla voltare verso di me. - Buon compleanno!

- Come fai a saperlo? - chiese stupida, puntando i suoi occhi sui miei.

- Ho i miei informatori. - Le feci un grande sorriso. - Vieni con me.

Afferrò in fretta una tempera color indaco e annuì, per poi dirigersi alla cassa per pagare. Melanie le lanciò un'occhiataccia e le disse che non aveva nessuna intenzione di farla pagare quel giorno, quindi buttò fuori entrambi dicendoci di andare a festeggiare.

Quando ci fummo sistemati in macchina, Elizabeth chiese: - Dove mi porti?

- Aspetta e vedrai.


 

Dieci minuti dopo eravamo arrivati. Elizabeth tentò scendere dall'auto ma la bloccai, quindi feci il giro e raggiunsi la sua portiera, poi le aprii.
Lei sorrise. - Che cavaliere.
- Lo so. Metti questo intorno agli occhi. - Tirai fuori dalla tasca una fascia azzurra e gliela posai sulle mani.
- È inquitante - mormorò.
- È romantico – ribattei.
- È inquietante.
- Oh, mettila e stai zitta. - Le presi la fascia dalle mani e gliela posai sugli occhi, stringendola, poi mi voltai a controllare che le macchine dei miei amici fossero parcheggiate lì vicino. Quando ne fui sicuro, iniziai a dare a Elizabeth indicazioni su dove andare.
Dopo aver rischiato di farla finire contro un albero due volte e averle fatto impigliare la maglietta in una siepe, mi minacciò di togliere la fascia.
- Non ci provare. - Mancava così poco al gazebo.
- Perchè no?
La sua mano tentò di toccare il nodo dietro la sua testa e io la fermai. Non avrebbe rovinato la mia sorpresa, anche se in realtà lo sarebbe stata anche se lei non avesse avuto gli occhi bendati, ma ero troppo orgoglioso di quell'idea per ammetterlo. Tentai di farmi venire in mente qualcos'altro e d'impulso presi Elizabeth in braccio.
- Che cosa fai? - domandò.
- Ti impedisco di rovinare la sorpresa che ti ho preparato con tanta fatica.
Inizialmente tentò di uscire dalla mia presa, seppur con scarsi risultati, ma arrivati a metà del sentiero decise di smettere e mi sembrò quasi che si stringesse a me. Era meno leggera di quanto pensassi ma il suo corpo era caldo.
Mi accorsi dei miei amici nel gazebo: Thomas e Iris erano seduti il più lontano possibile mentre Hannah guardava verso la fine del sentiero con la speranza di vederci arrivare e di togliersi da quella situazione. Appena si accorse di me, chiamò gli altri e io posai a terra Elizabeth, che fremeva dalla voglia di poter tornare a vedere. Le tolsi la fascia.
- Sorpresa! - urlammo tutti.
Lei si mise le mani davanti alla bocca, stupida. - Non credevo ci sareste stati anche voi! Grazie, ragazzi.
- Vieni a spegnere le candeline - le disse Hannah per poi afferrarla e trascinarla verso il gazebo.
Mentre si allontanava con la sua amica, Elizabeth si voltò verso di me. I nostri sguardi si incrociarono e io la sentii vicina come non mai.
Thomas mi tirò una gomitata. - Smettila di farti mia cugina con gli occhi. È imbarazzante starvi a guardare.
- Oh, piantala.


 

Restammi seduti nel gazebo a parlare tra di noi finché non divenne buio, perfino Thomas e Iris sembravano stare risolvendo i loro problemi. Mi accorsi che Elizabeth si voltava spesso a guardare il lago e mi chiesi il perchè. Si stava annoiando? Eppure non lo sembrava. Pareva soltanto interessata all'acqua, come se ci fosse qualcosa in mezzo.
- Matthew, - mi chiamò poi - ti va di accompagnarmi a fare una passeggiata sulla riva?
Io annuii e scattai in piedi, non vedevo l'ora di avere un attimo per stare con lei da solo.
La guidai fino a dove iniziava il lago. L'erba smetteva di crescere solo quando il terreno si infossava e cominciava l'acqua e questo implicava che non ci fosse nessuna spiaggia, se non si prestava attenzione infatti, ci si poteva finire dentro.
- È bellissimo qui - disse poi tenendo lo sguardo sul lago e continuando a camminare vicino a me. - Ho sempre pensato che non avrei mai passato un compleanno così bello.
- Perché?
- Sinceramente non lo so, ma ho sempre considerato questo giorno come una presa in giro. - Mi rivolse un sorriso forzato. - Sono nata il giorno di San Valentino. La festa degli innamorati. Io.
- In effetti, è abbastanza divertente.
- Non molto. Comunque, visto quello che è successo con mio padre poco tempo fa, ero convinta che oggi sarebbe stata una brutta giornata. Avevo paura di pensare a quel giorno da sola. - Si fermò. - Voglio parlartene, Matthew. Adesso.
Rimasi decisamente sorpreso da quella richiesta, dal modo in cui ne aveva parlato prima, doverci pensare proprio in quel momento sembrava il suo peggior incubo. Volevo sentire quella storia da così tanto ma ora il pensiero che avrei fatto star male Elizabeth mi fermava. Stavo per dirle di no, che non era nè il momento nè il luogo e che i nostri amici erano a una ventina di metri da noi, ma non lo feci, al contrario: annuii.
Lei si sedette a terra e io la imitai, facendo passare le mani tra i ciuffi d'erba. Tutto intorno a noi era buio.
- Quella mattina mia madre mi ha svegliato dicendomi che mio padre era in città e ho capito. Non so perché fosse lì, ma non credo avesse intenzione di incontrarci. Se n'era andato senza guardarsi indietro e probabilmente sapeva anche della gravidanza di mia madre. Non conosco bene la loro storia perchè a lei non piace parlarne. So che si incontrarono all'università e che rimasero insieme per quattro anni, poi un giorno mia madre scoprì di essere incinta e lo chiamò per dirglielo. Quando lui rispose, le disse che sarebbe partito l'indomani e che non voleva più vederla e lei non ebbe nemmeno il tempo per parlare. Però deve essere venuto a saperlo, forse prima, forse dopo, ma quando quel giorno mi ha vista, mi ha riconosciuta e mi ha chiamato per nome. -
- Per nome? - domandai. Ero stupito. Come aveva fatto a sapere il suo nome? Se anche avesse suputo della gravidanza e fosse scappato per quel motivo, di certo non poteva sapere che la bambina si sarebbe chiamata Elizabeth, era troppo presto anche solo per sapere che era una femmina.
- Già. Mia madre mi ha raccontato che un pomeriggio, quando ancora stavano insieme, mio padre le aveva detto che se mai avesse avuto una figlia avrebbe voluto chiamarla come lei: Isabelle. È strano, di solito le madri non danno il loro nome alle figlie. Magari per secondo, ma non per primo. Si era preoccupata, perchè sembrava che lui non la volesse come madre dei suoi figli, ma poi l'aveva guardato e dal suo sguardo lui non sembrava stesse pensando ad una donna diversa da lei. Per questo ha scelto di chiamarmi Elizabeth, voleva un nome simile e con lo stesso significato. Ci sarebbe stata troppa confusione in casa con due persone con lo stesso nome e poi non voleva davvero ammettere che stava seguendo le sue volontà nonostante l'avesse trattata malissimo. Forse mio padre ha semplicemente indovinato.
- O qualcuno deve averglielo detto – mormorai posando lo sguardo sull'acqua del lago. Era cupa.
- Non credo. - Si zittì, come se avesse paura di continuare il racconto.

- Non devi farlo se non vuoi.

Lei prese un grande respiro e fece segno di essere pronta. - Mi sono nascosta nel bosco e ho aspettato. Mia madre avrebbe dovuto bucargli le gomme lasciando qualcosa di appuntito sull'asfalto e quando lui si fosse fermato, io avrei dovuto fingere di essere in pericolo. Non credevo che sarebbe venuto. Pensato che l'uomo che aveva lasciato mia madre da sola non si sarebbe preoccupato di una voce che gridava tra gli alberi, ma non è stato così. Mi sono nascosta a pochi metri da lui e quando l'ho sentito arrivare, mi sono messa a correre fino in profondità, non volevo che arrivasse qualcun'altro. Mi sono fermata e ho tirato fuori il pugnale, ma è stato in quel momento, dopo avermi raggiunta, che mi ha chiamata per nome e io mi sono bloccata. Mi sono resa conto che lui era una persona, orribile, ma pur sempre una persona e che io non volevo ucciderlo, non lo conoscevo nemmeno. Cosa mi assicurava che quello che sapevo di lui fosse vero? E se anche lo fosse stato, il fatto che lui mi avesse abbandonato non mi dava il diritto di togliergli la vita. Poi lui si è accorto del coltello e ha iniziato ad indietreggiare. Sono stata colta dal panico, non avevo idea di quello che sarebbe successo se lui fosse corso alla polizia. Un attimo dopo, mia madre è comparsa dietro di lui, gli ha detto che lo avrebbe fatto pagare e mi ha chiesto di darle il pugnale. Non l'ho fatto e lei ha gettato a terra mio padre e mi ha strappato il coltello mentre lui tentava di rialzarsi...poi lo ha accoltellato. Credo di aver urlato e poi sono rimasta immobile con la testa che mi girava mentre il suo sangue impregnava il terreno. - Poi i suoi occhi smisero di guardarmi e si persero nell'ombra dietro di me. - Lo sogno ogni notte, mi rivedo mentre mi chino verso di lui e sento la sua mano sporca di sangue che mi tocca la gamba e i suoi occhi vacui, di qualcuno che sta morendo, che mi incolpano. Mentre mi alzavo sono caduta sull'erba sporca e ho macchiato anche i miei abiti di sangue, quindi ho avuto paura e sono scappata. Mia madre dice che ho portato con me il pugnale fino alla radura dove ti ho trovato e poi l'ho dimenticato lì, ma io non mi ricordo. Gli attimi dopo quello che è successo sono tutti confusi nella mia testa. È stato orribile.

Ero totalmente rimasto senza parole, sapevo che questo racconto avrebbe parlato della morte di Malcom, ma sentirlo mi sconvolse lo stesso. Mi resi conto che se io mi sentivo così, Elizabeth doveva essere a pezzi. Rimasi immobile, volevo fare qualcosa. Com'erano cambiate le cose. Un mese prima, dopo aver scoperto le dinamiche dell'omicidio, sarei corso a dire tutto alla polizia. Ora, il fatto che Elizabeth venisse scoperta era l'ultimo dei miei desideri. - Gli incubi passeranno, ti aiuterò.

Lei sorrise. - Come pensi di farlo? Non credo che tu sappia entrare nella mia testa mentre dormo.

- Non nel modo a cui stai pensando, ma magari puoi sognare questa festa che ti ho organizzato invece della morte di tuo padre. Quando ero piccolo usavo una specie di trucco: mi infilavo nel letto e focalizzavo la mente su qualcosa di bello. Credevo che il cervello sognasse l'ultima cosa a cui avevo pensato.

- Funzionava? - domandò curiosa.

- No, mai, ma era divertente illudersi che potesse essere così facile.

Cominciò a ridere. - Eri un bambino davvero carino.

- Una volta mia madre mi ha vestito da orso ad Halloween – mi venne spontaneo dirle. Stavo cercando di distrarla e farla ridere mi sembrava un'ottima soluzione.

La sua risata aumentò. - Oh mio Dio. Dovevi essere le cosa più carina del mondo. A tre anni i miei zii hanno vestito Thomas da fungo, devi vedere le foto, fa troppo ridere.

- E tua madre? Come ti vestita quando non avevi voce in capitolo?

- Da ape – mormorò arrossendo.

Trattenni il fiato per evitare di riderle in faccia ma non ci riuscii e lei mi seguì. Ridevamo come due bambini mente vanno in altalena per la prima volta, non volendo più smettere, perché quella sensazione sembrava la migliore che avremmo mai potuto provare nella vita. Poi i nostri occhi si incontrarono e ci fermammo, rimanemdo ad osservarci per un tempo che mi parve infinito, mentre il lago spariva, le risate dei nostri amici diventavano basse e distanti e noi due restavamo la sola cosa importante sulla faccia della terra. Mi chinai verso di lei senza nemmeno accorgermi di farlo e sentii il suo respiro sulla pelle mentre appoggiavo la mia bocca sulla sua. Rimasi in attesa che lei si allontanasse, ma Elizabeth era completamente immbole, quindi la baciai. Premetti contro le sue labbra e socchiusi le mie e lei mi imitò. Mi sbagliavo: la sensazione più bella che avessi mai provato era quella. Un attimo dopo, Elizabeth mi strinse più forte, impedendomi lasciarla andare, anche se io non volevo farlo. Alla fine, mi accorsi che si era messa a sorridere e ci allontanammo, anche se fu più per esigenza: eravamo seduti per terra in una posizione così scomoda che quasi non mi sentivo più le gambe. Solo in quel mi sembrò di tornare sulla terra, eravamo di nuovo sul prato, vicino al lago e con i nostri amici seduti nel gazebo ad un passo da noi. Le prime stelle avevano iniziato a brillare senza che me ne accorgessi, e la loro luce si rifletteva debolmente sull'acqua. E io ero felice. Inizialmente non dissi nulla, nonostante volessi dirle molte cose, rimasi soltanto a guardarla mentre fissava il prato rossa di imbarazzo.
- Sono innamorato di te - mormorai poi. - Non lo dico tanto per dire, lo sono per davvero. Volevo che tu lo sapessi.
- Matthew... - Alzò lo sguardo su di me.
- Lo so, ma ci siamo baciati e...
Mi fece segno di zittirmi. - Credo...credo di esserlo anch'io.
Rimasi totalmente spiazzato da quell'affermazione. Mi avvicinai di nuovo a lei ma proprio in quel momento sentii dei passi avvicinarsi e sobbalzai.
Hannah si avvicinò a noi e ci fissò per un attimo. - Che intenzioni avevate voi due? - chiese.
Elizabeth arrossì e io iniziai ad inventare scuse.
- Se volevate passare da soli tutta la sera potevate dirlo, non mi sarei presa la briga di venire. Forza. - Allungò una mano verso il braccio di Elizabeth e la aiutò ad alzarsi. Io feci lo stesso e insieme tornammo dagli altri.


 

Due ore dopo tornammo a casa. Volevo portare io Elizabeth, ma, come al solito, Thomas insistè dicendo che lui sarebbe dovuto passare davanti a lei comunque e lei accettò dopo avermi lanciato un'occhiata arrossendo. Entrambi volevamo rimanere soli, ma avevamo paura a dirlo perché temevamo che così facendo gli altri avrebbero scoperto che ci eravamo baciati poco prima. In realtà, non credo che gli altri avrebbero capito. La nostra richiesta sarebbe parsa normale, visto che nell'ultimo periodo io e lei passavamo molto tempo da soli. Avevamo solo la coda di paglia. Sinceramente, non sapevo nemmeno per quale motivo ci sembrava giusto nascondere loro il nostro bacio, ma in realtà, l'unica spiegazione era che non vedavamo nessun motivo per fare il contrario.
Tornai a casa con il sorriso sulle labbra e mia madre mi prese in giro parecchio dicendo che se avessi sorriso appena un po' di più mi si sarebbe slogata la mascella.
Feci anche molta fatica a prendere sonno, troppo impegnato a pensare a quello che sarebbe accaduto l'indomani e a fantasticare sui baci che avrei dato ad Elizabeth. Quando finalmente iniziai a sentire gli occhi che si chiudevano però, il mio cellulare prese a squillare a ripetizione. Ero tentato di ignorarlo ma mi tirai su e lo afferrai comunque.
- Pronto? - risposi accedendo la luce e senza nemmeno controllare chi fosse. Se avevano chiamato a quell'ora doveva esserci un buon motivo.
- Ciao - mormorò la voce di Elizabeth.
Mi rilassai. - Ti mancavo già?
- Non è questo, non si tratta di noi. Ti prego ascolta, non posso parlare ad alta voce o lei mi scoprirà. Appena ho aperto la porta di casa me la sono ritrovata davanti.
- Oh è tipico delle madri stare in ansia se si sta fuori un po' più del previsto, ma non era tardi, dille di non preoccuparsi - le risposi tranquillo.
- Non è di mia madre che sto parlando. Mia nonna è qui.
- Cosa?! - esclamai. - Ti aveva detto che era morta, perché diavolo è venuta da te?
- Appunto! Quando l'ho vista sono rimasta pietrificata e lei ha cominciato ad inventarsi delle storie sul perché lo aveva fatto. Credevo fosse tornata perché aveva scoperto che ho capito che è viva, ma non avrebbe inventato quelle storie. Così ho finto di non sapere nulla.
- Cosa credi che succederà adesso che è tornata? - domandai preoccupato per lei.
Nella sua voce lessi terrore. - Non lo so, ma è pericolosa.



Angolino mio: Ciao a tutti...so di essere sparita per praticamente un mese ma ho avuto parecchi problemi. Innanzi tutto ho dovuto scrivere alcune parti del capitolo un sacco di volte perchè non mi si salvava e poi perchè, siccome è molto importante, non riuscivo a capire se mi convinceva o no. Alla fine ho deciso di sì, ero troppo in ritardo. Non so come mai, è decisamente strano, in alcuni punti c'è l'interlinea e in altri no. Il mio computer è impazzito. Dicevo, è un capitolo importante: Elizabeth ci racconta com'è morto suo padre e lei e Matt finalmente si baciano. Le cose però diventeranno sempre più complicate perchè adesso Emma tenterà sempre di più di allontanarli. Mi piace considerare questo capitolo la fine della pima parte. Fatemi sapere cosa ne pensate e recensite! (Soprattutto tu Cice, scommetto che sei rimasta traumatizzata davanti allo schermo quando si sono baciati.) A presto!
 

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