Fantabosco

di TimesNewMozzi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ti sei mai visto allo Specchio? ***
Capitolo 2: *** Brividi di Trapano ***
Capitolo 3: *** Attento alla porta. ***



Capitolo 1
*** Ti sei mai visto allo Specchio? ***


Ti sei mai visto allo specchio?

<< Ti sei mai visto? >>
<< E-eh? >> il bifolco non sembrava capire.
<< Dico, ti sei mai visto la faccia? Sai come sei fatto? >>
Il bifolco si squadrò da testa a piedi dandosi qualche colpetto alla tunica. << Beh, ho due braccia e due gambe e a volte una testa, ma sa come si comportano quelle, sempre a scorrazzare in giro senza badare a ciò che gli viene detto e… >> s’interruppe vedendo che il palmo della mano del signore stava già iniziando ad affondare nel suo setto nasale.
<< Seguimi >> disse il signore e il bifolco obbedì, non che avesse molta scelta: le alabarde delle guardie tutt’intorno erano affilate e alcune avevano macchie di sangue qua e là. Il bifolco non voleva di certo rischiare di prendere il tetano, non si sa mai cosa ci possa essere su delle lame sporche.
Il signore lo guidò attraverso un’inutile serie di stanze, stanzette, saloni e bagni delle donne finché si trovarono di fronte ad una porta di legno dorato ed intarsiato. Le mani del signore spinsero le ante mentre la sua testa si inclinava leggermente a sinistra lasciando che una lama di luce si conficcasse direttamente tra gli occhi del bifolco dietro di lui.
La stanza era luminosa ed ovale, le pareti ed il soffitto erano dipinti di bianco, il pavimento di un nero lucido. Al centro non c’era nulla, a sinistra neanche, un po’ a destra c’era un mobiletto di legno particolarmente raffinato con quattro gambe e quella che sembrava una spalliera, ma che non lo era, coperto per la maggior parte da un telo.
Il signore cammino fin davanti al mobile fermandosi ad un metro da questo con le braccia incrociate dietro la schiena in una posa scomoda oltre l’umana sopportazione. Come facesse  farlo davvero era un mistero. Dopo un po’Il bifolco si trascinò inciampando in mattonelle invisibili vicino al signore, spinto forse da un paio di punte di lancia irritate dalla sua mancanza di iniziativa.
<< Te lo chiedo ancora: Ti sei mai visto allo specchio? >>
<< Signore mio, io questo specchio non so neanche dov’è, magari può provare a cercarlo sotto quel tavolino… >>
Il signore si contenne dal farlo impalare sul posto: aveva appena fatto incerare il pavimento.
<< Se è così, allora oggi potrai farne esperienza. Non sono in molti a possederne uno, ma ovviamente io sono tra i pochi privilegiati. Adesso apri le orecchie… No, non letteralmente. Ascoltami con attenzione. Tra poco io me ne andrò da questa stanza e ti lascerò da solo, quando me ne sarò andato solleva il telo sul mobiletto, fallo con attenzione se non vuoi diventare il mio prossimo trofeo di caccia al maiale deficiente, e guarda cosa c’è sotto. Tutto qui, credi di poterlo fare? >> Il signore era dubbioso e così il bifolco.
<< Posso provarci… >> Il signore si trattenne.
<< Bene, auguri >> disse il signore voltandosi e sorridendo, poi s’incamminò verso la porta e dopo qualche secondo il bifolco la sentì chiudersi accompagnata dal suono di una risata malvagia che avrebbe potuto giurare essere quella di un cattivo della Disney, non fosse che non avrebbe nemmeno avuto idea di cosa fosse la Disney. O un cattivo.
Ci mise un po’ il bifolco a decidersi che era passato abbastanza tempo per potersi finalmente muovere, il sole aveva fatto in tempo a calare. Alzò il telo con più grazia di quando accarezzava i propri figli e meno di quando schiaffeggiava le vacche, il mobile si mosse ma non cadde.
Di fronte a Sé il bifolco si trovò uno specchio. Non che avesse molto significato per lui finché lo non vide dal vivo. Cercherò di descriverlo per chiunque, per bifolcheria o per altre ragioni, non ne conosca le caratteristiche.
Al centro del mobiletto stava una superficie piatta e lucente, talmente lucente da riflettere tutto, non solo la luce delle finestre ma anche le immagini, tutte le immagini che la circondavano. Come uno specchio d’acqua, un cucchiaio o una minestra di sedani lo specchio faceva suo il circondario imitandolo come il più perfetto dei mimi. Il bifolco si accorse finalmente del significato delle aprole del signore. Sì, si era visto in faccia a volte, più che altro mentre tentava di afferrare a mani nude una carpa particolarmente succulenta, ma mai con quella chiarezza, mai senza che il suo riflesso venisse increspato da onde o dal passaggio di un boccone di carne di topo.
Era la prima volta che si vedeva in faccia, la prima volta che realizzava di avere un volto e di non essere un naso con una voce. Per la prima volta si vedeva con gli occhi di un altro.
****

Fuori dalla sala, seduto su una comoda sedia imbottita, stava il signore con un sorriso isterico appeso agli zigomi.
<< Ah ah ah, quel bifolco non ha idea di cosa sta per succedere, non si è mai visto e non sa di essere diverso, non sa di essere fisico, non si rende conto che per tutta la sua vita gli altri hanno visto un altro lui, qualcosa che non poteva controllare, che non ha mai potuto controllare e che con lui non ha nulla a che fare >> durante quello che le guardie classificavano come l’ennesimo episodio di schizofrenia del signore il bifolco continuava a guardarsi, seguiva la linea della mascella e si osservava i profili deformandosi la faccia in smorfie e usando le dita per spianarsi la pelle come plastilina.
Il signore intanto peggiorava. Le sue di mani erano infilate tra i capelli ad arricciarne un paio di ciocche alla volta, mentre con gli occhi fissava davanti a sé con i muscoli facciali paralizzati, fissato su un punto molto più distante del muro un paio di metri di fronte a sé, un punto lontano nel tempo.
Era uno dei pochi privilegiati a possedere uno specchio, era vero, ma lo possedeva solamente da qualche giorno, abbastanza per essersi ripreso dal trauma e per aver progettato un esperimento degno del più patetico scienziato pazzo.
Quando si era visto riflesso nello specchio, qualcosa si era rotto, e non era il servizio da tè che una delle guardie aveva appena scaraventato a terra. Il signore era sempre stato una persona composta, non si abbandonava mai a emozioni eccessive, i suoi picchi di adrenalina coincidevano con le esecuzioni pubbliche e i mercoledì, quando Alfred cucinava il tacchino arrosto. Ma quel giorno quel maledetto specchio lo ruppe, perché il principe non si era mai visto, non ne aveva mai avuto né il bisogno né il desiderio e quando  gli venne regalato quello specchio si limitò a guardarlo per curiosità. L’immagine riflessa sulla superficie argentata era diversa, era un lui completamente diverso da quello che aveva sempre immaginato. Quel naso e quelle orecchie paraboliche, quell’eccesso di lentiggini sotto gli occhi, niente di quello che vedeva riflesso nello specchio sembrava assomigliargli eppure, pur girandosi e rigirandosi davanti ad esso, non riusciva a cambiare nulla di quell’immagine.
Cos’erano quegli occhi di quel colore così infimo, quelle sopracciglia cos’ì poco autoritarie, quegli zigomi bassi e ricchi di signorilità quanto un cestino di frutta?
Quello specchio doveva essere stregato. Chiamò una guardia perché controllasse che lo specchio riflettesse veramente ciò che lo circondava e la guardia glielo assicurò, aggiungendo pero che, ovviamente, non riusciva a catturare tutta la signorilità del signore. Quella sera un nuovo affilato palo fu innalzato nel giardino della magione.
Seduto sulla sua confortevole sedia il principe rise.
Quello specchio era qualcosa di demoniaco, l’uomo non era fatto per guardarsi in faccia, gli occhi non erano fatti per osservarsi, lo stesso atto di guardarsi nei propri occhi era qualcosa di innaturale, di sbagliato e da evitare in ogni modo; questa era stata la decisione del signore. Ecco perché aveva convocato (rapito) quel bifolco, voleva sperimentare, sfogare la rabbia su una mente semplice, qualcuno che non sarebbe riuscito a superare il trauma come lui aveva fatto.
Erano già passate diverse ore da quando la porta della sala era stata chiusa, il principe decise che era ormai tempo di vedere il risultato del suo piano e calciare in strada quell’uomo grezzo e, si augurava, ormai pazzo. Si alzò dalla sedia incamminandosi verso la porta della sala quando, contemporaneamente, la porta venne aperta da un fischiettante e allegro bifolco.
O forse no. Forse non era più un bifolco. Dove aveva imparato a fischiettare in quel modo? E dove aveva trovato un chiropratico che gli raddrizzasse la spina dorsale? C’era troppo orgoglio e fiducia in quella camminata.
Il principe si fermò in mezzo al corridoio, irritato ma pronto ad un lungo interrogatorio. Il bifolco non era della stessa opinione, lo sorpassò senza neanche degnarsi di ignorarlo e fece un cenno di saluto alle guardie dirigendosi verso l’uscita, una delle tante.
Il signore, pieno di rabbia come un novantenne in fila alle poste si girò di scatto urlandogli << CHE HAI VISTO IN QUELLA DANNATA COSA?! >>
Il bifolco si fermò sospirando.
<< Che, perdio, sei veramente brutto! >> poi uscì. 

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Capitolo 2
*** Brividi di Trapano ***


Non che io abbia paura del dentista, ma, oggettivamente, chi si farebbe mai infilare un trapano nel proprio corpo affidando la vita delle proprie gengive ad uno sconosciuto?
X se lo chiedeva tutte le volte che varcava la porta del suo studio dentistico di fiducia. E quella porta non la attraversava, lui la varcava, come un eroe epico pronto a dare battaglia ad un nemico nascosto in un antro oscuro, solo che in questo caso ad avere spade e lance, in qualche modo, era il suo nemico.
Le poltrone della sala d’attesa erano di vimini intrecciati e a tratti rotti dal peso delle anziane signore che, pur senza denti, continuavano a venire a farsi vampirizzare il conto in banca. Erano anche stranamente confortevoli, una coccola strategica fatta per tranquillizzare le prede prima di condurle nella camera delle torture.
L’assistente chiama, X alza le mani dai braccioli legnosi e, a malavoglia, flette i quadricipiti, spinge le chiappe contro il cuscino e si alza dalla poltrona.
Il corridoio è sempre lo stesso asettico, illuminato di bianco, squadrato corridoio di lunghezza indefinita. A volerle contare le porte che vi si affacciano sono solo 6, ma ogni volta sembrano cambiare, nessuna stanza è mai la stessa e quindi l’ampiezza dello studio non è mai chiara, potrebbe essere grande quanto la Terra o quanto un granello di sabbia, nessuno lo sa. A parte l’architetto, forse.
Il lettino foderato in verde ha ancora impressa l’orma di un corpo caldo, X cerca di non badare a quei pensieri irrazionali e si siede, guarda l’assistente che ricambia un sorriso mai fatto e poi scatta via per catturare qualche altro tonno in forma umana con la sua rete da strega.
Questa poltrona è dura, non scomoda, ma capace di opporre resistenza al peso di X quando si stende e appoggia le braccia sul petto sapendo di dover aspettare. Deve sempre aspettare.
Ha preso l’abitudine di guardarsi intorno, cercare di scoprire differenze, nuovi calci di mascelle, nuovi gingilli d’acciaio dalle forme poco rassicuranti, nuovi computer comprati con i soldi dei contribuenti. Dalla porta sulla sua destra riesce a vedere l’interno di un’altra stanza, e poi forse di un’altra ancora, e poi ancora di un’altra, tutte insieme, stanze nella stessa stanza, o forse deliri nello stesso delirio.
Scuote la testa, chiude gli occhi e guarda in alto.
Due minuti.
L’assistente non torna; dalle altre sale vengono delle voci, ogni tanto qualche vibrazione di un trapano, tutti sono ancora lì a lavorare o subire.
Tre minuti.
Ruotare i pollici l’uno sull’altro non è mai stato divertente e mai lo sarà, ma non c’è molto altro da fare, di guardarsi in giro X non ne ha voglia, il dentista potrebbe entrare da un momento all’altro e non vuole farsi trovare a curiosare tra i suoi strumenti. Sia mai che decida ti tirargli via un molare per punizione.
Cinque minuti.
Sono finite le pellicine delle dita, non c’è più niente da topicare, da sgnaccare per passare il tempo. Quasi, quasi ci starebbe un pisolino.
Dieci minuti.
L’hanno abbandonato. È palese, o è una strategia par farlo cedere a firmare un abbonamento premium da millemila euro al mese per la pulizia completa di tutti gli orifizi dentali, oppure si sono dimenticati di lui. E dire che fino a qualche minuto fa tremava così tanto da scaldare l’aria, la poltrona di finta pelle minacciava quasi di sciogliersi e lasciarlo cadere al suo interno, lasciarlo scivolare in un dolce abbraccio incandescente.
Ora come ora non sembra una prospettiva malvagia; la luce bianca è stancante per gli occhi e per la mente, per X la luce bianca è quella dell’ospedale di House, quella dello sforzo mentale delle tre di notte per riuscire a finire l’ottava stagione e vedere House morire e risorgere, come Cristo, ma meglio, sicuramente con più spettatori.
Le palpebre son pesanti. I suoni dei trapani non si sentono quasi più, gli uncini di metallo alle sue spalle da dita mostruose sono diventati cose dimenticate, cose inesistenti poiché al di là del tunnel visivo, di quella finestra sul mondo esterno che va chiudendosi man mano che X sprofonda sempre di più nella poltrona, non perché questa si stia fondendo, ma perché Morfeo sarà fare il suo lavoro fin troppo bene.
Delle gengive non si preoccupava più. La placca e le carie non erano nemmeno al centesimo posto della sua lista delle preoccupazioni, anche perché adesso le prime mille erano occupate dal chiudere gli occhi, solo per cinque minuti, solo per rinfrescare la mente, non per addormentarsi, figuriamoci.

 
ZZZZ....

In un’altra stanza, Y ascoltava i trapani consumare corrente nella bocca di altre persone e si stringeva tra le spalle terrorizzato.
Tra qualche minuto, dimenticato in quel labirinto di stanze da ospedale, anche lui sprofonderà nel suo lettino, e si andrà ad unire a tutti gli altri, a tutti quelli che aspettano come X, T, W, tutti spaventati da un carnefice che non si ricorda neanche di andare a trovare le proprie vittime.
Tutti terrorizzati da un aggeggio di metallo che basta chiudere gli occhi per smettere di vedere e da un lettino verde nel quale basta rigirarsi per iniziare a sbadigliare.


 

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Capitolo 3
*** Attento alla porta. ***


(*plin plon* Questo racconto è, in alcuni punti, volutamente sgrammaticato. Ho inventato un paio di parole per il semplice motivo che suonavano adatte a trasmette l'idea che volevo far passare, ed essendo l'italiano un linguaggio, finché ci si capisce siamo tutti contenti. La seconda persona singolare è voluta, l'idea è quella di una sorta di ramanzina interiore ma non sta a me interpretare il racconto, che sia il protagonista o qualcun altro a parlare non importa realmente. Buona lettura. )

 
Attento alla porta.


Afferri la maniglia in acciaio, tiri, saltelli, spingi. Tirarsi sul treno da terra è sempre spiacevole, soprattutto se decidi di non alzare i piedi come i semplici mortali ma cerchi di salire fiondandoti come un masso catapultato da un trabucco medioevale sfruttando la maniglia di acciaio al centro della porta.
D’altronde, esisteranno pure per un motivo, no?
Ti trovi di fronte una sala, una stanza, un cubicolo. Da un lato la cabina del macchinista, dall’altro il corridoio e, dentro un grosso cubo di, forse, plastica, il bagno. Dietro di te il fuori, davanti a te una porta, vicina di casa di quella che hai appena sfondato.
Non devi andare in bagno; potresti andare a salutare il macchinista, ma probabilmente non hai nemmeno il biglietto e non pianificavi una multa di svariati ordini di grandezza superiore al costo di una caffè.
La porta chiusa non sembra avere intenzione di aprirsi, almeno per quanto riesci a cogliere dal suo linguaggio del corpo, e poi sei appena entrato perché dovresti uscire?
Il corridoio sembra l’unica soluzione valida. Ci sarai pure entrato per un motivo in questo dannato treno, vuoi andare da qualche parte, hai una meta, e per ora questa può limitarsi ad un posto decente in cui sedersi, magari un quartetto di posti liberi con abbastanza spazio per appoggiare ogni singolo arto e rimanere sospesi da terra mentre il treno sfreccia, immobile rispetto a te, mobile e veloce, per i comuni standard, rispetto al resto del mondo.
Ti volti, alzi un tallone racimolando la poca voglia di essere ontologicamente diverso dal pavimento e muovi una caviglia. Cammini superando il grosso cubo di plastica che, puoi dirlo con certezza, racchiudeva decisamente il bagno.
Ti accolgono altre due porte gemelle una davanti all’altra, una cabina stranamente familiare e uno schifoso cubo di plastica, forse.
Strano.
A memoria, anche se sono tecnicamente i treni a portare in giro la gente, niente ha mai vietato alla gente di andare in giro per i treni.
Questo in particolare non sembra essere della stessa opinione. Sedersi a terra non è comunque un’opzione visto che su questo pavimento c’è più melma di scarpe che pavimento.
Non hai molta scelta, riprovi.
Fallisci.
Riprovi di nuovo.
Ri-fallisci.
A questa catena monomerica di carrozze evidentemente non piacciono i corridoio che portano da qualche parte, e tu hai finito le direzioni. Maybe.
Guardi in alto. Oltre la lampada bianca e la griglia di areazione stanca di vivere e funzionare che sputa aria digerita e rimasticata un paio di volte dal sistema di ingranaggi e caldaie, sembra esserci qualcosa. Magari qualcosa di raggiungibile a differenza della fine del dannato corridoio, e addirittura di sedibile con un po’ di fortuna.
Alzi un piede e lo piazzi parallelo alla tua pancia, camminare in verticale non ti è mai piaciuto, c’è sempre quella strana sensazione di non salire ma scendere, come se qualcosa ti tirasse in giù, come se il mondo avesse una corsia preferenziale a senso unico e delle direzioni vietate. 
Fai un passo, poi un altro e… Ti ritrovi al punto di partenza. Stavolta dall’alto sei passato al basso e ti ritrovi schiena a terra con la colonna verticale in orizzontale e i piedi in aria, almeno quelli in alto.
Sei steso a fissare la grata incosciente dei propri stessi istinti suicidi e di molte altre cose.
Inizia a farti male la testa.
È questo treno a farti male, ha regole stupide, non fa cose e ti impedisce di fare cose, forse invece che entrare in un treno sei entrato per sbaglio in tua madre, non pensavi che tua madre avesse un bagno di plastica nel collo ma chi sei per dirle cosa può o non può avere nel proprio corpo?
Questo treno porta ma non fa andare, viaggia ma impedisce di viaggiare.
Ti rialzi.
Barcolli per un attimo appoggiandoti di nuovo alla maniglia d’acciaio sporca di rosso.
Anche il pavimento è tinto di una chiazza rossa, più recente però, più liquida. E anche tutto il resto sembra rosso a tratti, se ti strofini gli occhi va via ma prima o poi il rosso sembra ritornare.
Riprovi ad andare in fondo al corridoio accorgendoti quanto sia più difficile, sei più stanco, più gorillesco nei movimenti e il pavimento inizia a sembrarti quasi confortevole, allettante.
Giusto per un paio di minuti.
Giusto per riposare le gambe. E gli occhi. E la testa. Soprattutto la testa.
La testa ti fa un gran male, te ne stavi quasi dimenticando. Ha iniziato a far male quando sei salito e l’hai sbattuta contro la porta che si stava chiudendo. Curioso.
Lo strano corridoio senza meta ha peggiorato il tutto, anche se forse camminare in linea retta piuttosto che girare su sé stessi avrebbe aiutato.
Non ci avevi pensato.
E anche lanciarsi in aria sperando di camminare fino al soffitto non deve essere stato benefico. La testa dopo ha fatto ancora più male.
Mah.
Il mondo è un posto strano. Tre direzioni e una percorribile solo a metà. Treni che vanno percorsi solo in linea retta come se i cerchi non fossero degni di nota.
E poi quel bagno. L’odore di quel bagno è talmente disgustoso che se riuscissi ad andare da qualche parte lo faresti semplicemente per allontanartene. Ma ora il pavimento è tanto comodo e la testa fa tanto male.
Il bagno è quasi sopportabile, giusto per un paio di minuti, giusto per aspettare che il rosso smetta di calare dai tuoi capelli, giusto per aspettare che arrivi qualcuno. 

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