Mason Creek SECONDA STAGIONE

di Naki94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Riepilogo ***
Capitolo 2: *** Episodio 1 ***
Capitolo 3: *** Episodio 2 ***
Capitolo 4: *** Episodio 3 ***
Capitolo 5: *** Episodio 4 ***
Capitolo 6: *** Episodio 5 ***
Capitolo 7: *** Episodio 6 ***
Capitolo 8: *** Episodio 7 ***
Capitolo 9: *** Episodio 8 ***
Capitolo 10: *** Episodio 9 ***
Capitolo 11: *** Episodio 10 ***
Capitolo 12: *** Episodio 11 ***
Capitolo 13: *** Episodio 12 ***



Capitolo 1
*** Riepilogo ***


Il detective dell'FBI Jersey Shown viene incaricato da Ed Green, tenente capo dell'unità omicidi, di recarsi a Mason Creek, piccola cittadina della periferia americana, per aiutare l'agente Billy Wide e lo sceriffo Kooper Land a investigare sulla scomparsa di quattordici ragazzi e ragazze di età comprese tra i diciassette e vent'anni. L'ultima ad essere sparita è una ragazza, Sofia Monroe. L'amica, Irina Callaway, conferma di averla accompagnata a casa dopo essere stata con lei tutto il pomeriggio nella zona del bosco che circonda il fiume. Quando Shown, con l'aiuto di Wide, scopre che la ragazza stava mentendo, questa si toglie la vita impiccandosi con la tenda della sua camera da letto. Shown scopre una frase scritta al contrario sulla parte di vetro appannato dall'interno: tu, la tua famiglia o le mie vittime. Inoltre, poco dopo che la scientifica è uscita dall'abitazione di Irina Callaway, sembra essere entrato qualcuno nella stanza. Shown trova un impronta fresca sul fango nel giardino sotto la finestra, alcune impronte nella stanza. Nel fango, accanto alla finestra, trova pure un plettro per chitarra.

Intanto Mason Creek si agita tra stampa e genitori delle persone scomparse che lamentano gli insuccessi del corpo di polizia. Al Jerome's Room, dove alloggia il detective Shown, il proprietario, un certo Adam Fillingstone, racconta a Shown di una leggenda nata a Mason Creek dopo l'arresto di due satanisti trovati sulla scena del crimine sempre nei pressi del bosco, una leggenda legata a un certo demone che i due satanisti, ora rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Dodge City, avrebbero risvegliato. In città lo chiamano lo Slender per via delle sue fattezze. Adam racconta che alcuni cittadini giurano di averlo visto apparire in sogno e che il demone era senza volto. Shown è molto scettico a riguardo e la sua mente razionale lo porta apensare che dietro a tutto c'è qualche seriale psicopatico.

Alla mattina Shown raggiunge la casa dei Callaway dove viene informato che dalla stanza di Irina manca un orsacchiotto di peluche. I genitori mostrano al detective alcuni scarabocchi e disegni trovati nello zaino di scuola della figlia. I disegni rappresentano un uomo alto e senza volto.

Non avendo trovato né un corpo né una prova che portasse a un possibile indagato, lo sceriffo Kooper decide, in accordo con l'FBI, di chiudere momentaneamente il caso.

Ma quando Shown sta per abbandonare Mason Creek scompaiono altri due ragazzi: Martin Hoover e Jason Davies entrambi amici di Eric Wide, figlio di Billy Wide, trovato sotto choc e sporco di fango e terra alla mattina della scomparsa dei due ragazzi.

Wide potrebbe essere emotivamente coinvolto dal momento che il figlio Eric potrebbe c'entrare con la storia. E Jersey Shown è obbligato a restare a Mason Creek per continuare a seguire il filo dell'intricato caso che lo avvolge.

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Capitolo 2
*** Episodio 1 ***


 Quando arrivo in centrale trovo in lacrime, seduti su quelle scomode poltroncine nella sala prima degli interrogatori, due coppie di genitori. Sui loro volti c'è tenebra e dolore mentre stanno l'uno accanto all'altro abbracciati. Sono i genitori dei due ragazzi scomparsi. Mentre mi avvicino una delle due madri disperate davanti a me parla col marito a voce strozzata dal groppo forte alla gola e dal pianto. «Harry, dovevamo andarcene. Dovevamo andarcene finché eravamo in tempo. Te l'avevo detto, dovevamo andarcene da questa città!».

Incrocio lo sguardo di Kooper che arriva dalla parte opposta del corridoio, evito lo sguardo dei genitori ed entro nella stanza per gli interrogatori sapendo che ci avrebbe pensato Kooper a calmarli e a renderli più disponibili alle indagini prima di farli entrare.

I primi ad entrare sono i signori Hoover e io metto subito in chiaro un paio di cosette. «Signor Hoover, signora Hoover, conosco l'opinione pubblica della città di Mason Creek e riconosco che le indagini fino ad ora hanno conseguito pochi risultati, tuttavia vi garantisco che io personalmente sto impiegando tutto il mio tempo e le mie energie per trovare i vostri figli e mettere dietro le sbarre a vita quel figlio di puttana che gli ha rapiti. Detto questo pretendo da voi la massima collaborazione e zero lamentele e perdite di tempo. Sono stato chiaro?».

I signori Hoover mi guardano interdetti per qualche istante dandomi l'evidente l'impressione che le mie parole abbiamo smorzato in loro quella rabbia assassina che avevano in corpo due secondi e mezzo prima, quando sono entrati dalla porta.

Il signor Hoover avvicina il viso alla moglie che ancora mi fissa. «Il detective ha ragione, non serve a nulla incazzarsi. Dobbiamo trovare nostro figlio».

«Questo è lo spirito giusto, ora procediamo».

La signora Hoover si asciuga le lacrime e ripone il fazzoletto ormai intriso e fradicio nella borsetta.

«Ricordate a che ora vostro figlio, Martin Hoover, è uscito di casa?». Apro il mio taccuino sulla scrivania metallica.

«E' uscito di casa dopo pranzo, forse erano già le due del pomeriggio». Risponde il signor Hoover.

La signora Hoover precisa la risposta del marito. «Sì, intorno all'una e mezza è uscito di casa».

«Sapevate dove andava?».

Il signor Hoover si appoggia alla scrivania protendendosi verso di me. «No, credo che l'abbia chiamato uno di suoi amici ad uscire. Io ero in camera da letto e ho sentito squillare il telefono di casa e Martin parlare con qualcuno».

«Ma non vi ha detto dove andava o chi doveva incontrare?».

Il signor Hoover risponde. «No, è uscito e basta»

Questa volta la signora Hoover aggiunge qualcosa. «E' strano che non abbia detto nulla».

«Che cosa è strano?» Domando.

La signora Hoover risponde. «Vede detective, Martin è sempre stato, fin da bambino, una persona molto rispettosa ed educata. Non lo dico perché è mio figlio, glielo posso garantire. Le birbonate le ha fatte anche lui, ma non è bravo a nascondersi o a dire bugie. Ora che ci penso, ieri, dopo pranzo, è uscito senza dire niente. Io non ci ho dato peso, però in genere ci dice sempre dove va o con chi è. Sarà solo una coincidenza».

«Signora Hoover, una cosa importante mi ha insegnato questo mestiere, ovvero che non esistono coincidenze». Mi accendo una sigaretta e poi mi rivolgo di nuovo alla signora Hoover. «Dunque Martin è un ragazzo che tutto sommato che vi racconta sempre tutto?».

«Sì, esatto». Risponde la signora Hoover. «E' sempre stato molto sincero. Quando tenta di non esserlo noi lo vediamo subito».

«Dopo non avete più avuto sue notizie?».

«No, niente. Lo aspettavamo a casa per le sei così da prepararsi per la cena, ma non è arrivato così abbiamo chiamato subito a casa dei Davies e dei Wide per sapere se Martin era da loro e quando verso le nove abbiamo saputo che anche i loro figli non erano rientrati abbiamo chiamato subito la polizia».

«Grazie mille, siete stati molto bravi. Quando uscite dalla porta dite pure ai signori Davies che possono entrare. Grazie della collaborazione». Spengo la sigaretta nella tazza di caffè vuota che stava sulla scrivania da qualche giorno e aspetto che i signori Davies entrino.

La signora Davies, Clara Davies è la prima ad entrare, seguita poi dal marito. La prima impressione: l'agitazione di un interrogatorio è invisibile al confronto con la grave paura che noto vibrare sopra le occhiaie gonfie negli occhi stanchi avvizziti. Si siedono.

«Allora, signori Davies, voglio trovare vostro figlio e ho bisogno del vostro..».

La signora Davies mi interrompe seppur sussurrando, odio quando qualcuno lo fa. «Nessuno può trovare nostro figlio».

«Le assicuro, signora Davies, che, anche se le indagini possono sembrare lente e senza risultati, abbiamo il piede tutto sull'acceleratore e non intendiamo mollare». Provo a rassicurarla.

Allora lei mi guarda oltre il ciuffo di capelli spettinati che le scivola sul volto crespo. Mi fissa negli occhi con lo sguardo di una pazza, forse accenna a un sorriso di chi non ha più speranza e si lascia cadere nelle braccia del destino. «La creatura risvegliata nei boschi ormai l'ha presa, voi state dando la caccia a un fantasma. Non troverete mai il colpevole perché lui non esiste».

Il signor Harry Davies non calma certo la situazione, ma anzi aggiunge benzina al fuoco. E il suo tono è cupo e serio. «Clara ha ragione, quell'essere di cui tutti parlano è sorto dal bosco. Quei satanisti andrebbero arsi al rogo per quello che hanno fatto».

«Un momento. Immagino che l'assenza di prove, di testimoni, e di un sospettato in una comunità come la vostra, di fronte a tragedie simili, possa far nascere le più assurde superstizioni, ma non posso credere che voi ora parliate sul serio. Siete evidentemente in uno stato di choc per quello che è accaduto, vi comprendo».

Un profondo silenzio cala nella stanza mentre i rami secchi di un cespuglio grattano graffiando il vetro della finestra della stanza. «Detective, lei non ha idea di ciò che è stato risvegliato. Quel mostro ci ucciderà tutti se non andiamo via da qui». Continua la signora Davies. «Perché non siamo andati via prima che accadesse Harry? Perché non siamo scappati da Mason Creek finché avevo ancora il mio Jason?».

«Ha detto “avevo” non avevamo. Signor Davies, lei è il vero padre di Jason?».

Harry risponde prima chinando la testa. «No, il padre di Jason è morto quasi tre anni fa». La signora Davies precisa. «Robert ed io abbiamo divorziato quando quando Jason era ancora piccolo, poi mi sono risposata con Harry».

«Qual'era allora il suo cognome da coniuge?».

«Gordon».

«D'accordo. Voglio solamente farvi un paio di domanda». I signori Davies finalmente decidono di tacere ritirandosi in un attento silenzio . «Quando avete visto l'ultima volta vostro figlio Jason?».

Clara risponde. «Harry era al lavoro e mi aveva chiamato che non sarebbe tornato per pranzo, così Jason ed io abbiamo mangiato qualcosa davanti alla TV. Poi Jason ha chiamato col telefono di casa il suo amico Martin. Quando è tornato in salotto, perché noi abbiamo il telefono di casa in un angolo del corridoio nel reparto notte, mi ha detto che sarebbe uscito con Martin ed Eric quel pomeriggio».

Quella rivelazione mi piomba addosso come acqua gelata e annoto tutto sul quaderno. «A che ora è uscito, se lo ricorda?». Domando.

«Sì, poco dopo l'una del pomeriggio. Me lo ricordo perché stata per cominciare quel programma di cucina che guardo ogni martedì e avevamo appena pranzato».

«Bene. Jason per caso le ha detto dove andava?».

«No, è uscito abbastanza di fretta. Non gliel'ho chiesto».

«Un'ultima cosa: ha notato qualcosa di strano in suo figlio Jason quel giorno? Un gsto particolare o un frase?».

«Da quando suo padre Robert è morto, Jason ha iniziato ad avere dei comportamenti un po' strani. Anche se ha qualche amichetto come Eric o Martin, rimane un ragazzo a cui piace stare in disparte. Ha volte passa interi pomeriggi fuori casa, da solo».

«Grazie signori Davies, potete andare».

Alla porta, ancora voltata vero l'uscita, Clara Davies si ferma e mormora qualcosa. «Lo Slender, detective Shown, dall'oscurità di Carachura, si sfamerà di altre giovani anime».

All'esterno, oltre il vetro della finestra su cui battono i secchi rami del cespuglio, si apre lenta e regolare la successione di cupi versi monosillabici di un gufo.

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Capitolo 3
*** Episodio 2 ***


Mentre chiudo alle mie spalle la porta della stanza degli interrogatori mi sento improvvisamente stanco e senza forze e con un terribile senso di nausea. Tutto quelle stronzate su quel mostro immaginario mi turbano, ma al tempo stesso mi iniziano a incuriosire. Chissà che dietro alla leggenda non vi sia la spiegazione di una realtà. Raggiungo al secondo piano la stanza dove è conservato il calco del gesso. Guardo l'orario. E' tardi, ma spero di trovare ancora qualcuno che mi possa dare delle informazioni.

Nel corridoio incontro Kooper con un mazzo di chiavi in mano. Appena mi vede mi parla costringendomi a fermarmi. «Ho chiuso gli uffici là in fondo, ma ti ho lasciato ancora aperto la stanza dei computer. Vado a casa, è stata una giornata difficile». Fa per andarsene, per fortuna, quando invece si volta di nuovo verso di me. «Hai scoperto qualcosa dagli interrogatori?».

«I due ragazzi scomparsi, Martin e Jason, sono usciti di casa per incontrarsi intorno alle due del pomeriggio. E sono pronto a scommettere che c'era insieme a loro anche Eric. Non so ancora dove si sono incontrati o dove erano diretti».

«Bene, buona notte».

Questa volta sono io che continuo la conversazione. «Ah, Kooper, tu sei a conoscenza della leggenda folkloristica di quel demone, vero? Lo Slender, lo chiamano gli abitanti di Mason Creek».

Noto in lui una reazione che non mi sarei mai aspettato. Sugli occhi illuminati dalle lampade a neon sopra la nostra testa gli passa un'ombra di terrore quando nomino il nome del demone di cui parla la leggenda. « Sì, la conosco. Nasce dalla storia di quei due satanisti trovati deliranti nel bosco. La gente qui tende a inventare questo genere di cose quando non trova alcuna spiegazione a quello che sta accadendo». Dice il tutto non molto convinto. Non che sembri di sapere qualcosa di più, ma l'impressione è quella di essersi trattenuto dal mostrarmi una paura che pure lui prova. Forse crede anche lui a tutte queste stronzate, ma non vuole certo ammetterlo da sceriffo quale è, per di più, certamente, non con me presente.

«Cos'è Carachura?». Domando.

«Credo faccia sempre parte di questa leggenda. Ma non so esattamente cosa sia».

Beh, per lo meno non si tradisce. Ovvio che lo sa, lo sa benissimo, ma per farmi vedere che a lui certe questioni non gli interessano finge di non sapere nulla, rimanendo sul vago. «Buona notte, detective Shown».

Lo seguo con lo sguardo fino alle scale, poi scuoto la testa e torno a me stesso entrando nella stanza. Sharon ovviamente non c'è, ma è stata gentile a lasciarmi il fascicolo e il calco sul banco al centro della sala. Quando lo apro e leggo scopro che è di una comunissima scarpa da tennis, la suola e il tacco non hanno lasciato dei rilievi profondi nel fango, segno della loro consumazione. Non sono scarpe nuove e il proprietario non deve essere molto pesante. Numero di taglia: quarantaquattro. Certamente non si tratta di una donna. Questo numero di taglia va a mio vantaggio, non ci sono molte persone a cui vanno bene scarpe di questa misura. Chiudo il fascicolo e lo metto tra la camicia e l'impermeabile. Nel farlo noto che nella tasca interna ho ancora i disegni di Irina Callaway.

L'intera centrale di polizia di Mason Creek riposa nel silenzio. Nessuno passeggia per i corridoio, nessun rumore di stampante o fotocopiatrice, nessun telefono che squilla e il tempo sembra essersi fermato. Me ne sto per andare al Jerom's Room quando torno indietro fino alla stanza dei computer. Voglio capire di più a proposito di quei satanisti arrestati nel 1992. Mi accendo una sigaretta e lascio che il fumo mi riempia i polmoni, mentre nella stanza si crea un nebbia sottile. Jeremy Daughtry, quarantaquattro anni e Richard Campbell, trentanove. Furono arrestati il tredici dicembre 1992 nei pressi del bosco, vicino al fiume, a Mason Creek. Gli inquirenti gli accusarono entrambi di riti satanici. Riti che hanno portato alla scomparsa dei loro due figli. Nonostante le ore di interrogatorio unite ad una lunghissima ricerca sul perimetro effettuata dallo sceriffo e dalla task-force dell'FBI, i corpi dei due bambini, Hart Daughtry e Hellen Campbell, entrambi di undici anni, non sono mai stati ritrovati. I due padri vennero scoperti in un evidente stato di delirio e choc. La prova che li incriminò fu il sangue trovato sui loro indumenti. Il DNA corrispondeva a quello dei due bambini. Jeremy Daughtry, laureato in fisica e specializzato in astrofisica è tornato a Mason Creek per sposarsi con Laura Garner. Richard Campbell si laurea in matematica, non si specializza. Viaggia molto per gli Stati Uniti prima di conoscere Jeremy ad una conferenza all'università di Princeton. Si trasferisce a Mason Creek assieme all'amico e nel 1979 sposa Kelly James. Come possono due persone così brillanti impazzire improvvisamente? Cazzo, guardo fuori dalla finestra e la luce del sole, seppur fioca e scialba, attraversa la stanza come una lama sottile fino ad illuminare il pacchetto di sigarette vuoto accanto alla tastiera del computer.

Non passo nemmeno al Jerome's Room e tiro dritto sulla Bluerain Street, il bar di Hoogan ha appena aperto. La luce dell'alba sfiora i tetti di Mason Creek mentre entro nel locale ancora vuoto.

Compro un altro pacchetto di sigarette e un nuovo accendino. Mi siedo al banco e ordino del caffè, mentre lascio vagare la mia mente tra i dettagli del caso.

«A che ora posso trovare aperto il negozio di strumenti musicali sulla Jackson?». Chiedo alla barista. E' una bella ragazza, gli occhi verdi mi ricordano quelli di Sarah.

Lei allora guarda il grande orologio appeso alla parete e risponde. «Fra mezz'ora lo trovi già aperto il vecchio Bob».

«E' lontano da qui?» domando.

La ragazza mi versa altro caffè e risponde. «E' abbastanza lontano, io non me la farei mai a piedi».

Prendo il pacchetto di sigaretta dal tavolo e lo apro sbuffando.

C'è silenzio fra noi mentre mi bevo il caffè pensando a un modo per raggiungere il negozio di musica. Non voglio chiamare Wide, dopo entrerebbe con me in negozio e non posso immaginare la sua reazione se venisse a sapere così, a bruciapelo, che il plettro trovato nel cortile di Irina, sotto la finestra, è di suo figlio. Poi penso al distintivo allacciato alla cintura. Potrei farlo vedere alla ragazza e chiederle di prestarmi la macchina. Mentre penso lei si avvicina di nuovo al lato che occupo sul bancone. «Sei quel detective dell'FBI, vero?».

Annuisco e mi accendo una sigaretta.

«Non posso darle un passaggio in città perché sto lavorando, ma ho il mio scooter sul retro se può aiutare».

«Perché vuoi aiutare?».

«Perché sta indagando su un caso...su un caso importante e se le serve una mano ogni cittadino di questa città dovrebbe dargliela».

«E' un bel pensiero». Rispondo. «Magari tutti la pensassero come te. E' nobile da parte tua un gesto simile, ma questo mestiere mi ha condotto a un'unica conclusione: non c'è nobiltà nell'animo umano. Inoltre ho notati che hai fatto una pausa alla descrizione del caso su cui sto lavorando».

Lei si irrigidisce. «E questo cosa vuol dire? Sono una sospettata?».

Mi scappa un breve sorriso e rispondo. «Sei sospettata di non avermi detto tutta la verità». La guardo negli occhi e il ricordo di Sarah si rianima nella mia mente, finché la ragazza non cede e spontaneamente confessa. «Mia sorella minore fu una delle prima a sparire, non può immaginare cosa abbiamo passato». Gli occhi le diventano improvvisamente lucidi. «E' passato così tanto tempo da allora...nemmeno una traccia. Per questo voglio aiutarla, se posso».

La afferrò per la mani che intanto avevano iniziato a tremare, continuo a fissarla negli occhi, ma non dico nulla finché non è lei a rompere il silenzio. «Ma ora, che ho visto dal vivo le sue capacità, non posso far altro che tornare a sperare di nuovo, per quei nuovi ragazzi scomparsi. E' riuscito a leggere le mie emozioni e a notare quell'incrinatura nel discorso, è molto bravo. Vedrà che la città le sarà riconoscente un giorno».

«Pensare che non è nemmeno il lavoro che volevo fare». Borbotto quasi tra me e me.

«Come?».

«Niente, è solo che c'è molta oscurità intorno a noi, molto male in questo posto. Sono accadute e stanno accadendo cose veramente terribili. Vedo solo il buio».

«Nel cielo buio in cui lei è costretto a navigare, forse non si accorge di essere lei stesso una piccola luce».

La porta alle mie spalle si apre, ed entra un cliente. 

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Capitolo 4
*** Episodio 3 ***


 Bob è veramente vecchio come lo descrivono gli abitanti di Mason Creek. E' un signore esile e piuttosto basso di statura. Entro nel negozio e lo trovo ricurvo verso gli scaffali più bassi di un mobile. La porta dietro di me cigola quando la chiudo e il vecchio Bob si volta in mia direzione . Il naso adunco sorregge due lenti con montatura sottile e argentata. «Oh, il primo cliente». Borbotta tra sé e sé, poi alza il tono. «Prego, prego, entri pure».

Mi avvicino al bancone in fondo al negozio buio, stretto e pieno di cianfrusaglie impolverate.

«Cosa desidera?». Mi domanda pulendosi gli occhiali.

«Buongiorno, sono il detective Shown. Volevo solo chiederle una cosa, posso?». Mi sembra un tipo simpatico e non vedo il motivo di essere burbero o scortese.

«Mi chieda, allora, avanti».

Estraggo dall'impermeabile il plettro per chitarra e glielo appoggio sul banco. «Lo so che può essere una richiesta un po' difficile, ma tenterò comunque. Si ricorda per caso a chi può averlo venduto questo plettro per chitarra? E' molto nuovo, sembra usato appena. E' stato acquistato da poco».

Il vecchio Bob prende tra le dita il plettro e lo studia annuendo. «Sì, credo di sapere a chi l'ho venduto. Ma mi faccia comunque controllare nel registro».

«Tiene un registro?».

«Certamente. Lo so, qui in negozio c'è molto disordine da quando è morta mia moglie e fatico a tenere tutto al proprio posto. Ma per quanto riguarda le vendite sono molto preciso. Qui in paese meno o male conosco tutti e cerco di annotare ogni cosa che vendo. Un attimo solo, ecco qui. L'ho venduto insieme a delle nuove corde per chitarra acustica a Eric Wide, il figlio del poliziotto».

Riprendo il plettro e lo ripongo nella tasca interna dell'impermeabile, mentre un dolore fitto mi spacca in cervello in due. Cosa ci faceva quel plettro lì fuori nel giardino? Possibile che Eric sia entrato in casa di Irina? E se fosse così, perché?

«La ringrazio, è strato di grande aiuto. Buona giornata». Faccio per uscire, ma alla porta mi blocco un istante. Mi volto di nuovo verso il vecchio Bob. «Lei conosce la leggenda dello Slender?».

Bob si fa il segno della croce sul petto mentre le fitte rughe sulla sua faccia si contorcono in un'espressione di paura. «Non si azzardi più a nominare quell'essere nel mio negozio. Se ne vada, detective».

Esco e cerco d'istinto le sigarette nella giacca poi ricordo di averle finite. Cazzo! Raggiungo il telefono pubblico a dici metri dal negozio del vecchio Bob. Chiamo la centrale per sapere di Billy Wide. Un certo Gragory mi dice che Billy è a casa. Mi faccio dare il numero del telefono di Billy Wide e lo chiamo.

«Ciao Billy, sono Shown».

«Dimmi Shown».

«Sei a casa, tuo figlio come sta?»

«L'ho portato ora a casa dall'ospedale, sono qui con lui. Sembra stia meglio».

«Mi fa piacere. Credi che possa venire a casa tua per un momento? Ho bisogno urgente di parlare con Eric».

«Sì, vieni pure. Con me non parla o dice di non ricordare. Forse con te e i tuoi trucchetti psicologici del cazzo parlerà. Voglio sapere cosa è successo a mio figlio quella notte, Shown».

«D'accordo. Mi trovi al bar da Hoogan, se riesci a darmi uno strappo in macchina è meglio».

Restituisco le chiavi dello scooter alla ragazza del bar ringraziandola del favore. Mentre aspetto Wide prendo un caffè al banco e compro un pacchetto di sigarette in un negozio sulla strada alle spalle del bar. A saperlo prima ci sarei andato.

Finalmente arriva Billy Wide. E' visivamente stanco e pallido. Due scure occhiaie gli scavano gli occhi. Mi chiede subito degli interrogatori mentre saliamo in macchina. Durante il tragitto verso casa sua gli spiego la situazione.

«Martin, Jason e tuo figlio Eric sono uscito subito dopo pranzo nel pomeriggio. Si sono dati appuntamento. Questo è certo». Attendo un po' e rifletto se dire a Wide subito del plettro per chitarra. Decido di aspettare di essere di fronte ad Eric per vedere la sua reazione e scoprire se sta mentendo.

«Io non ci capisco più niente, Shown. Spero solo che mio figlio non si sia messo nei guai che..».

«..e che non faccia la fine di Irina. No, Billy. Questo non succederà».

Raggiungiamo la stanza al primo piano di Eric, lo troviamo sdraiato sul letto con lo sguardo perso nel vuoto verso il soffitto. Accanto a lui sua mamma, la signora Wide.

«Scusa tesoro, puoi uscire un attimo. Anzi prepara a Shown un po' di caffè».

La stanza si riempie di silenzio quando la porta della camera da letto si chiude alle spalle della moglie di Wide. Mi avvicino ad Eric, accanto al letto. I suoi occhi sono lucidi e probabilmente a pianto molto di recente. Anche lui sembra non aver dormito da almeno due notti.

«Eric, come stai?». Gli chiedo.

Lui si volta verso di me. «Detective, lei mi deve aiutare. Ho paura!». Si agita e io gli stringo la mano. «No, Eric. Sei tu che devi aiutare me a capire cosa è accaduto. Perché sei uscito con Martin ed Eric prima della loro scomparsa. Dove siete stati?».

Prima di parlare guarda il padre alle mie spalle e poi getto lo sguardo a sinistra. «Ci troviamo spesso al pomeriggio. Stiamo in centro, chiacchieriamo, niente di più».

«Non ti ho chiesto quello che fate di solito, ma quello che avete fatto due giorni fa. So che che vi siete incontrati dopo pranzo. Dove siete andati?».

. «Siamo andati da in giro. Ci siamo fermati da Hoogan a prendere una crepes. Poi non ricordo, glielo giuro».

Devo giocare la carta. «Questo è tuo, Eric?» La punta di plastica rigida luccica a mezz'aria illuminata dalla forte lampada sulla scrivania. Gli occhi di Eric si ingrandisco. Ha capito che io so qualcosa di più di quello che mostro.

«Sì, è il mio plettro nuovo per chitarra».

Sorrido. Sorrido perché non mi chiede dove l'ho trovato. Lui sa dove l'ho trovato.

«Perché quel pomeriggio siete entrati di nascosto a casa di Irina Callaway?» La domanda cade sulla stanza sfondando e distruggendo ogni cosa mentre Billy Wide si avvicina al letto stupito e sorpreso dalla rivelazione. «Non è possibile! Shown si sicuro di quello che dici?».

«Che numero di scarpe porti Eric?».

«Il quarantadue, perché?»

«E Jason e Martin?».

«Jason non lo so. Martin il quarantaquattro. Lo so perché gli abbiamo regalato un paio di scarpe firmate per il suo compleanno il mese scorso».

Wide accanto a me capisce finalmente dove voglio arrivare.

«Abbiamo trovato l'impronta della scarpa di Martin e il tuo plettro nel giardino sul retro dell'appartamento dei signori Callaway. La finestra aperta della camera da letto di Irina e alcune impronte sul pavimento che prima non c'erano. Perché siete entrati in camera sua quel pomeriggio?».

Eric strizza gli occhi come colpito da un violentissimo lampo di ricordi. Si mette a sedere sul materasso e si stringe tra le coperte. «Okay, detective le racconterò tutto».

 

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Capitolo 5
*** Episodio 4 ***


Un folgore improvviso irrompe nella stanza e le inferiate, attorno alla finestra, si stampano sui nostri volti con le loro ombre aguzze per un brevissimo istante.

«Avanti Eric, racconta tutto quello che ricordi». Lo sprona il padre.

Eric deglutisce e aggrotta la fronte, si sforza di ragionare, di essere lucido e di ricordare esattamente cosa è accaduto. L'impressione è quella che il ricordo in lui si presenti bizzarramente annebbiato, celato oltre una fitta cortina di fumo. Il ragazzo stringe gli occhi come se stesse cercando di guardare aldilà di quel muro fumogeno, per vedere e raccontare la verità.

«Subito dopo pranzo ho ricevuto una chiamata da Jason. Ha detto che ci sarebbe stato anche Martin e che ci dovevamo incontrare al Mason Park. Ci siamo seduti su quelle panchine vicino al chiosco iniziando a parlare del funerale di Irina Callaway di domani. Abbiamo parlato molto di quello che sta accadendo a Mason Creek. Sofia era una nostra amica, ci manca molto. Poi Jason è scoppiato d'ira dicendo di sentirsi inutile e ha iniziato a insistere sul fatto che, da amici, dovevamo in qualche modo contribuire e fare la nostra parte».

Mentre Eric racconta estraggo il taccuino dalla tasca e inizio ad appuntare qualche dettaglio.

«Detective Shown, lei è d'accordo con me che una persona non si può togliere la vita senza un motivo e soprattutto senza lasciare un biglietto o una frase o qualsiasi cosa che spiega un gesto così estremo?».

Annuisco e lo lascio proseguire.

«Da una telefonata che ha fatto papà ho capito che non avevate trovato ancora niente tra le cose di Irina che giustificasse quello che ha fatto. Martin non poteva accettare che Irina se ne fosse andata così, senza motivo, quindi ha proposto di entrare in camera sua e controllare personalmente». Eric fa una breve pausa, come se stesse cercando le parole giuste per rendere quella confessione il meno dannosa possibile.

«Ovviamente Martin ed io eravamo contrari a fare una cosa simile, sapevamo che non potevamo entrare in casa di una persona di nascosto. Ho proposto di chiedere ai genitori di Irina se potevamo dare un'occhiata anche noi dal momento che conoscevamo bene Irina. Ma la mia idea è stata subito bocciata, non potevamo andare lì e chiedere una cosa del genere a due genitori ai quali era appena accaduta una cosa del genere».

«Quindi siete entrati dal finestra sul retro, entrando direttamente nella sua camera».

«Esatto». Eric abbassa lo sguardo. «Abbiamo aspettato che non ci fosse più nessuno e siamo entrati. Ma detective, non pensavamo di trovare..».

«Avete trovato qualcosa di utile alle indagini?». Chiede Wide.

«Avevamo paura. Avevamo commesso un reato, eravamo entrati di nascosto in una casa privata. Ma allo stesso stesso tempo avevamo in mano delle...delle prove». Eric si porta dapprima le mani sul viso sfregandole verso gli occhi serrati fino a giungere i capelli e la nuca. «Eravamo nel panico, non sapevamo che fare. Per consegnare alla polizia le prove dovevamo ammettere l'infrazione. Così alla fine Martin ha proposto di gettare le prove nel bosco. Prima o poi le avreste trovate con le vostre continue ricerche in quella zona e noi eravamo fuori dalla storia».

«Ma siete impazziti!» Wide alle mie spalle si avvicina al letto dove sta seduto Eric. «Avevate in mano delle prove su un caso come questo e vi siete fatti delle paranoie su un reato come la violazione di domicilio?». Wide prende allora Eric per il collo della maglietta e lo strattona. «Che cazzo vi è passato per la testa?».

Afferrò Wide per il polso stringendoglielo con forza. Lui si stacca dal figlio. «Wide, esci per favore».

Billy mi guarda stupito e, mandando giù una tonnellata di nervoso, si allontana ed esce dalla stanza sbattendo la porta.

Stacco lo sguardo da Wide mentre chiude la porta e mi avvicino ad Eric. Lo guardo fisso negli occhi lucenti. «Eric, che cosa avete trovato in quella stanza?».

Lui abbassa di nuovo lo sguardo stringendo gli occhi e corrugando la fronte. Un forte groppo alla gola lo assale, lo percepisco nella sua deglutizione e ancor di più quando riprende a parlare. «Io facevo la guardia all'ingresso, controllando che non entrasse nessuno in casa. Martin e Jason sono rimasti nella camera da letto di Irina. Io non ho saputo cosa avevano trovato e preso finché Jason non ha aperto il suo zainetto. Detective, abbiamo trovato la macchina fotografica di Irina, quella che cercavate. Stava nascosto dietro un cassetto della scrivania».

Mi rendo conto di aver improvvisamente ingrandito gli occhi in un'espressione di entusiasmo ed euforia. Di colpo uno dei pezzi più grandi del puzzle mi cade sulle mani con un sonoro boato.

«Eric aveva notato da subito, già nella camera di Irina, che mancava il rullino dentro la macchina fotografica. Io avevo sentito dei rumori, forse stava per entrare qualcuno in casa. Così siamo scappati di nuovo fuori dalla finestra. Prima di uscire Martin ha afferrato da uno scaffale un pupazzo. Ovviamente non avevamo capito il motivo di quel gesto finché non ci ha spiegato che, sfogliando velocemente il diario aveva trovato una foto di Irina con quel pupazzo e gli era sembrato strano infilare proprio quella foto in un diario segreto tenuto nascosto in cassetto. Così, preso dal momento di tensione gli è venuto in mente di agguantare il pupazzo e uscire».

Eric fa una breve pausa mentre si risistema sotto le coperte imbottite. Forse ha freddo, guardo la finestra. E' chiusa, ma fuori è buio e ha cominciato a piovere.

«Abbiamo iniziato a leggere il diario. Detective Shown, non puoi immaginare l'angoscia e la paura che quelle parole ci recavano nel leggerle. Nelle ultime due pagine Irina si pentiva di qualcosa che aveva fatto, qualcosa di orribile che era stata costretta a fare. Il diario finiva con sole due o tre righe, scritte malissimo, che portavano la data di quella notte in cui si è...si è tolta la vita».

«Cosa c'era scritto in quelle righe?».

«Era scritto tutto in maniera così...strana, non so spiegarlo, sembrava completamente fuori di sé. Era terrorizzata da quell'essere senza volto che la perseguitava, credo che si riferisse alla leggenda che c'è in città dello Slender».

«Per caso c'era scritto di cosa si stava pentendo?».

Eric mi guarda terrorizzato come se avvertisse l'importanza delle parole che sta per pronunciare. «In parte. Dopo aver letto il diario abbiamo iniziato a discutere tra noi sul da farsi. Non sapevamo che fare ora che avevamo alcune prove raccolte commettendo il reato di infrazione. Durante la discussione Martin, che aveva ancora in mano il pupazzo, si è accorto di qualcosa al suo interno. Così l'abbiamo squarciato aprendolo dai punti dai quali era stato ricucito. Dentro, detective Shown, abbiamo trovato i negativi del rullino. Quando...». Si interrompe al folgore di un lampo accecante. «Quando li abbiamo guardati controluce il seme del terrore e del male è entrato in noi. Ero io a tenere i negativi tra le dita, non riuscivo staccare lo sguardo dalla terribile verità che si era aperta sotto i nostri occhi. Le mani avevano smesso di tremare, non ne avevano la forza e il dolore di cento lame nel petto mi ha richiamato alla bocca il sapore amaro nel sangue».

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Capitolo 6
*** Episodio 5 ***


Capisco immediatamente che il ragazzo non mi sta mentendo quando mi soffermo sui i suoi occhi terrorizzati. «Dimmi Eric, cosa si vede in quei rullini e ora dove sono?».

Eric allora continua col suo racconto e intanto le violente gocce d'acqua piovana si schiantano contro il vetro della finestra. «Sul negativo abbiamo visto parecchie foto, da quanto Irina e Sofia sono scese nel bosco fino al fiume. Ma gli ultimi autoscatti, credo gli ultimi quattro sono incredibili. Irina e Sofia sono in posa davanti a un capanno o qualcosa costruito con dei tronchi in legno, poi si vede chiaramente che Irina afferra un oggetto, forse un martello da quella casetta nel bosco. Nell'ultima foto scattata dalla macchina fotografica si vede Sofia a mezz'aria mentre crolla a terra, uccisa da un violentissimo colpo alla testa».

Il silenzio spacca in due la stanza. Il tempo che la mia mente metabolizzasse quelle informazioni, poi riprendo a parlare. «Eric, sei sicuro di quello che hai visto in quel rullino?».

Ma Eric è in lacrime e fatica a rispondere. Sta male. Soffre per quello scoperta. E nasconde le mani tremanti sotto le coperte.

«Dove si trovano queste prove, il diario e il rullino?».

«Ora finirò di raccontare fino a dove credo di ricordare: Indecisi sul da farsi con quelle prove raccolte violando la legge, decidiamo infine di lasciarle nel bosco cosicché qualche poliziotto le trovasse per caso e risolvesse la faccenda senza che nessuno dei nostri nomi uscisse alla luce del sole. Così andiamo nel bosco, ripercorriamo tutta la strada. A un certo punto ci fermiamo a bere dell'acqua che aveva portato Jason in uno zainetto».

Eric improvvisamente si ferma e getta lo sguardo nel vuoto. Cerca qualcosa da focalizzare, un ricordo perduto. Lo cerca nell'aria della camera da letto, mentre la pioggia si abbatte ancora più violenta contro la casa.

«E poi?»

«E poi, Detective Shown, non ricordo nulla. Credo di essere svenuto, ho sentito per un po' il sapore della terra sulle labbra, forse per questo credo di essere svenuto, ma non ne sono certo. Sentivo delle voci, forse Martin e Jason che mi cercavano o provavano di rianimarmi, non lo so. Mi sono accorto improvvisamente di stare camminando da solo verso casa. Avevo freddo, ero congelato. Mi sentivo sporco, ma non mi sono guardato i vestiti o le mani perché continuavo a camminare verso casa. E' stata una bruttissima sensazione quella di trovarsi senza motivo a girare all'alba su una strada e non avere quasi alcun controllo sul proprio corpo».

«Cosa intendi?».

«Voglio dire che fino a quel punto ho un blackout totale, buio. Poi mi sono reso conto di stare camminando verso casa, sulla mia via, ma non potevo fare nient'altro che camminare, ogni imposizione del mio cervello non veniva percepita dal mio corpo. Ero come in una fase di sonnambulismo cosciente, ma comunque impotente».

Quel buio di cui parla mi fa pensare per un po'. Forse è tutta una scusa per non dirmi veramente cosa è successo, forse lui sa dove sono Jason e Martin. Poi lo guardo negli occhi mentre lui è distratto a fissare il vuoto della stanza. Non riesco più a pensare che mi stia mentendo.

«Quindi l'ultima volta che ti ricordi di Jason e Martin è nel bosco, ho capito bene?». Eric annuisce.

«E il rullino e il diario chi le aveva?».

«Li aveva Jason nello zainetto, assieme alle bottigliette d'acqua».

Rimaniamo un po' in silenzio poi Eric si volta verso di me e mi guarda. «Tutto bene, detective?».

«S'. stavo solo pensando. Eric, nel bosco avete incontrato qualcuno o avete visto qualcosa di diverso o strano?».

«No, non ricordo molto».

«Grazie Eric, sei stato di grandissimo aiuto. Spero che tu possa ricordare qualcosa di più».

Esco dalla camera da letto e raggiungo Wide al piano di sotto, in cucina. Se ne sta seduto a bere una Miller.

Metto la mano in tasca e afferro il pacchetto di sigarette quasi vuoto. «Si può fumare qui?»

Wide dal fondo della cucina, accanto al tavolo, mi risponde.«Finché non c'è mia moglie, sì». Quando mi avvicino di più scopro un volto serio e preoccupato.

«Dove è andata?». Domando.

«Chi?».

«Tua moglie».

«Non lo so, è uscita. Ha lasciato il caffè per te, prendi». Accendo la sigaretta e verso il caffè in una grossa tazza bianca. Il fumo di sigaretta si unisce al vapore del caffè.

Arrivo al dunque, che è quello che vuole sentire Wide. «Tuo figlio conferma di aver visto i negativi di quelle foto e di aver letto il diario di Irina Callaway. Le sue accuse nei confronti di Irina sono molto gravi, Billy».

«Del tipo?».

«Eric giura che in quelle foto si vede chiaramente Irina che uccide Sofia con un arma contundente, forse un martello o un pezzo di legno».

Billy si porta le mani alla bocca spalancata e aggrotta la fronte, lascio che metabolizza poi ricomincio. «Non riesco a capire il movente. Perché Irina deve aver fatto una cosa del genere?».

«Non lo so, Shown. Mi sembra di girare a vuoto in un vortice d'orrore. Credi che Irina sia la causa anche di tutte le altre sparizioni?».

«Se è vero quello che tu figlio dice di aver visto, penso che Irina Callaway fosse in qualche modo connessa con tutte le sparizioni. Tuttavia non credo sia la principale artefice di tutto questo, se no non si spiegherebbe il suo senso di colpa, la scritta lasciata sul vetro, il fatto che Martin e Jason siano comunque scomparsi dopo la morte di Irina e che lei non avesse alcun movente per uccidere Sofia. Certamente faceva parte di un gioco molto più grande, ma non è lei che comanda tutto questo. Ne sono certo».

«Cosa farai adesso?».

«Oggi vado al bosco. Voglio sapere cosa è successo e trovare delle tracce o magari lo zainetto con dentro le prove sempre che non l'abbia trovato e preso il vero stronzo che sta macchinando tutto questo».

«Vengo con te nel bosco, posso esserti..».

«No, Billy. Tu devi rimanere con Eric e tua moglie, è un momento difficile. Stai accanto a loro».

«Allora chiamo Kooper e gli chiedo di venire giù con te con una squadra».

«Assolutamente no. Vado da solo. La cosa è fresca e non voglio gente tra le palle, sopratutto non voglio tra i piedi Kooper e i suoi uomini».

«E se ti trovassi in difficoltà? Magari ti trovi di fronte quel bastardo».

Spengo la sigaretta nella tazza del caffè e fisso il mio collega assumendo un tono molto severo e duro. «Billy, ti giuro che se accadesse, quell'uomo non sopporterebbe tutto il male che gli causerei».

 

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Capitolo 7
*** Episodio 6 ***


Il bosco mi oltrepassa e mi avvolge in una morsa gelida. La pioggia continua a scendere in picchiata dal cielo ricoperto di nuvole nere. Non posso aspettare che smetta questa maledetta pioggia, non c'è tempo per aspettare. Parcheggio al limite del bosco fin dove la macchina può ancora avanzare nel fango. Nell'auto, che Wide mi ha prestato, trovo un paio di stivali in gomma e un impermeabile giallo col cappuccio. Indosso entrambi e dopo pochi passi mi trovo col fango oltre le caviglie. La pioggia è forte e fitta, non accenna a smettere. Raggiungo l'interno del bosco e sento, tra tutti quei rumori di rami e sterpaglie sotto la pioggia cadente, il fiume che si ingrossa e che si scaglia contro gli argini. Proseguo nel buio con la torcia come unica alleata.

Seguo a memoria la strada già fatta qualche giorno prima con Wide e, circa a metà del bosco che segue il fiume, riconosco la zona dove, sempre con Wide, c'eravamo fermati. Dal racconto di Wide quella doveva essere più o meno l'area dove avevano trovato i due satanisti. Il fiume all'epoca era ghiacciato, sulla lastra spessa di ghiaccio avevano trovato in stato di delirio Jeremy Daughtry e Richard Campbell.

Mi guardo intorno in cerca di quel capanno o insieme di assi che Eric aveva descritto a proposito delle foto scattate da Irina. Nulla. Solo fitte file di tronchi d'albero e il muro di pioggia.

Proseguo verso nord tendomi sulla sinistra il fiume. Intorno a me mille rumori diversi che strisciano e sussultano sobbalzando da ramo a ramo, mentre la forte corrente tenta invano di coprirli tutti con la sua potenza. Il ricordo e la descrizione di quella creatura, quel demone di cui tutti parlano aggiunge un certo brivido nei miei pensieri, ma sono razionale e scettico. In certi istanti la mia mente inventa qualcosa in lontananza, nascosto tra i tronchi d'albero, mi sforzo di respingere simili stupidaggini.

Vorrei fumarmi una sigaretta, ma quella pioggia torrenziale me lo impedisce. Finché non giungo finalmente davanti a un mucchio di rovi secchi incastonato tra due alberi. Mi incuriosisce e, dopo aver aperto e districato i rametti, scopro una fila di tronchi circolari posti in pila orizzontalmente. Provo a fare il giro mentre il verso di una civette gracchia nella notte oscura. Trovo un piccolissimo capanno abbandonato. Infilo la testa in quel metro quadrato facendomi luce con la torcia. Niente, solo sterpaglia e fango.

Mi assale un brivido al pensiero che Sofia, secondo il racconto di Eric, è morta proprio in quel preciso posto dove ora erano appoggiati i miei piedi. Dov'è il corpo allora?

Guardo le cortecce umide dei tronchi d'albero, non trovo niente finché la luce della torcia non fa risplendere un filo rosso in un punto più secco, rimasto coperto da alcuni rami più in alto. Sembra sangue e dalla traiettoria su cui si è stampato nel legno e dall'altezza sembra proprio dovuto a un fortissimo colpo alla testa di una ragazzina alta all'incirca un metro e settanta. Non ho tamponi con me, ma trovo un fazzoletto di stoffa nell'impermeabile. Cerco perlomeno di recuperare una prova, pur sapendo che, recuperata in quel modo così poco professionale, potrebbe non essere utile al mio ritorno in città.

Scatto violentemente all'indietro quando mi sento toccare alla spalla destra. Non è nulla, solo un rametto che è caduto dall'alto. Guardo verso l'alto mentre la pioggia si intensifica e diventa insopportabile. Verso l'alto, oltre le chiome spoglie, vedo solo il nero del cielo, finché quel cielo tormentato non si squarcia all'improvviso sotto i miei occhi generando una luce vermiglia accecante, sembra la fiamma di un fuoco scuro che si spegne pochissimi attimi dopo. Intanto la foresta intorno a me si ribella alla mia presenza, aggredendomi da ogni lato, complice la pioggia.

Voglio fuggire, allontanarmi il più possibile da quel posto. Mentre scappo in direzione opposta al fiume, la mia mano slaccia la fondina afferrando l'impugnatura fredda della Smith & Wesson, armando il cane.

Non conosco esattamente la mia posizione, quando finalmente riesco ad uscire da quella fitta rete di rami ed alberi immersa nel fango. Quando rialzo lo sguardo mi sorprende la vista di una fievole luce lontana. E' la casa di un contadino e quando la raggiungo busso energicamente alla porta, sperando di trovare riparo.

Mi accoglie un signore anziano, sulla settantina. Quando apre la porta e mi vede fradicio appoggia il fucile a lato, accanto allo zerbino, e mi fa entrare assicurandosi di aver chiuso bene il catenaccio. «Lei chi diavolo è? Che cosa ci fa in giro con questo tempaccio e per giunta di notte?».

Mi fa accomodare accanto al camino acceso, dove finalmente posso scaldarmi e levarmi di dosso quell'impermeabile. «Sono il detective Jersey Shown». Cerco il distintivo sulla cintura, ma non lo trovo. Forse l'ho perso nella corsa o mentre estraevo la pistola.

«Ah, è il nuovo poliziotto che sta indagando sui ragazzi scomparsi. Ho capito chi è e l'ho vista in città un paio di volte. Bene, io sono Sam Hartigan».

«Ho saputo che in questa zona, a causa di una certa superstizione, molti contadini si sono allontanati dalla campagna e dal bosco, lei che ci fa ancora qui?».

Il vecchio Sam si siede di fronte a me accanto al camino. «Da quando quei due scienziati hanno condotto quelle ricerche nel bosco, le cose sono cambiate. Non è superstizione, detective. Mi creda, forse è ora che inizi a credere pure lei ai fantasmi. In sogno appare un uomo magro e senza volto, è accaduto qualche volta anche a me. Ti fa vedere delle cose, ma poi, a meno che Lui non voglia, te le fa scordare».

Sorrido alle parole del vecchio, anche se nel suo tono c'è qualcosa di cupo e di tremendamente sincero che mi fa accapponare al pelle. Sam si allunga verso l'alto e dalla mensola del camino prende una piccola bottiglia di Jameson. La apre, ne beve un goccio e me la offre. Accetto volentieri e ne butto giù due grossi sorsi.

«Non è la prima volta che beve whiskey, non è vero?». Sogghigna.

Evito di commentare quella sua diabolica risata. «Si è mai ricordato qualcosa che questo demone le ha detto in sogno?».

Sam ci pensa un attimo e scuote la testa.

«Se non ricordo male, prima ha detto scienziati, non satanisti. Tutti parlano di quei due uomini associandoli a satana e ai riti di magia nera, lei invece li ha chiamati scienziati. Perché?».

Sam beve un altro goccio di Jameson e diventa improvvisamente più serio. «E' un ottimo detective, complimenti. Sa ascoltare molto bene. Dunque, li ho chiamati in quel modo perché li ho conosciuti, venivano spesso anche in casa mia. Mi facevano tenere in cantina alcuni loro strani oggetti, penso cose che preferivano non fare vedere alle loro famiglie».

«Posso vederli?».

«Quando li arrestarono scoprirono, durante le indagini, che avevano un collegamento con me. Così un giorno, si sono presentati con un mandato e hanno arruffato tutto».

Ascolto il camino che scoppietta e mi incanto a guardarlo mentre Sam continua a bere dalla bottiglia.

«Cos'è Carachura?».

Alla domanda il vecchio Sam per poco non si strozza con il whiskey.

«Amico, credo che tu stia facendo troppe domande, se cerchi simili risposte devi andare a trovare Jeremy al manicomio di massima sicurezza a Stonehill».

«Non era nel carcere di Dodge City?».

«Da quel che so poco tempo fa l'hanno trasferito».

«Dove?».

«Al manicomio di Chesterfield a Stonehill».

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Capitolo 8
*** Episodio 7 ***


E' notte fonda e sono sdraiato sul divano quando la mia mente viene assalita dal ricordo di quella luce scarlatta che proveniva dal nero abisso del cielo. Si apriva dalle profondità più oscure del cosmo sopra di me oltre i fitti rami del bosco. Mi alzo di scatto con quell'immagine. Il camino, quasi di fronte a dove sono sdraiato, è spento, ma il calore di alcune braci sotto la cenere mi arriva al volto. Un silenzio indescrivibile mi paralizza per un istante, poi appoggio nuovamente il collo rigido madido di sudore sul cuscino del divano rimanendo fino all'alba con gli occhi spalancati e offuscati da mille pensieri.

Avverto in profondità alcuni rumori che associo ai topi o a qualche animale di campagna. Per la prima volta nella mia vita inizio a dar forza a qualcosa di surreale, la mia mente si ribella alla razionalità e la sento silenziosamente addentrarsi in strade perdute, buie e nefaste. Ragiono. E la paura, di cui sto soffrendo questa notte, non posso attribuirla a qualcosa di reale e conoscibile, è una paura molto più feroce e sotterranea, innominabile e non conoscibile.

Alla mattina sul presto Sam mi vede già in piedi con l'impermeabile abbottonato. «Sam, ti ho aspettato per poterti ringraziare dell'accoglienza, ma ora devo proprio andare».

Sam rimane però lontano, a metà via tra l'ombra del corridoio e la luce della lampada accesa. Risponde con un tono stanco e rauco, non sembra neppure la stessa voce della sera precedente. «Son contento che possa partire così presto, detective. Ho molte cose da sbrigare oggi, e speravo di non aver alcun ospite a farmi compagnia. Magari sembro scortese, ma è la verità».

«Nessun problema, Sam. Molte volte sono senza scrupoli anch'io nell'esporre una mia opinione, forse è per questo che non ho molti amici». Sorrido amaramente.

Prima di voltarmi verso la porta noto uno strano riflesso nel buio del corridoio, è un riflesso incandescente che sfavilla a mezz'aria, circa all'altezza degli occhi del vecchio ancora coperto dall'ombra della casa. Probabilmente è il riflesso della lampada su i suoi occhi. Esco e mi trovo di fronte a una campagna abbattuta dalla tempesta: lunghissimi tratti di fango e acqua rispecchiano i rami secchi degli alberi spogli e, nonostante il vento tagliente, le foglie non volteggiano per i campi aridi, ma rimangono stampate sul cireneo terreno.

Lasciare quella casa alle mie spalle mi rigenera ad ogni passo, non ne conosco il motivo. Raggiungo a piedi un locale che si trova sulla prima strada oltre la campagna, l'insegna dice “Hart - tavola fredda”. Quando entro acquisto un pacchetto di sigarette e, dopo aver bevuto due tazze grandi di caffè, alzo la cornetta del telefono sulla parete accanto al bagno. Chiamo Kooper in centrale.

Risponde al segretaria dell'ufficio che qualche istante dopo mi passa Kooper sull'altra linea.«Dove cazzo sei finito, Shown?». Questo è il buongiorno di Kooper.

«Ti ho chiamato per dirti che oggi vado a Stonehill a far visita a Jeremy Daughtry, devo fargli personalmente alcune domande su quello che è accaduto nel 1992»..

«Non ti servirà a niente, Shown. Quello è un matto ti riempirà le orecchie di stronzate».

«Non più di quanto lo fa la gente di Mason Creek».

C'è un brevissimo silenzio poi Kooper cambia discorso. «Oggi arriva una squadra di agenti da Dodge City, lo sceriffo Tyalor ci ha spedito i suoi ragazzi per aiutarci a trovare quei due poveretti che sono scomparsi. Ricominciamo dal bosco».

«Ho parlato con Eric, non so se Wide ti ha detto qualcosa».

«E' stato molto vago specificando che suo figlio è ancora sotto choc e fuori di sé».

Credo che Wide, da bravo padre quale dimostra di essere, stia cercando di difendere suo figlio e di perdere tempo nascondendosi dietro ai vaneggiamenti di suo figlio definendoli non credibili. Rifletto se dire o meno ciò che mi ha raccontato Eric a Kooper. «Kooper, Eric afferma che Irina ha ucciso Sofia nel bosco. L'ha letto nel suo diario».

«Sono accuse molto forti, dobbiamo avere delle prove Shown, lo sai benissimo!».

«Le avrai». Metto giù la cornetta del telefono e l'istinto di dare un forte pugno contro la parete del locale mi invade il corpo gonfiandomi le vene di rabbia.

Il taxi mi porta fino all'imponente struttura ospedaliera. Il manicomio di Chesterfield si erge maestoso e grigio sulla città a qualche miglio da Stonehill.

Quando, accompagnato da un'infermiera, raggiungo l'ufficio del primario del manicomio, rimango sorpreso alla vista di una graziosa donna seduta dietro la pesante scrivania riempita di scartoffie.

«Lei chi è?». Mi domanda abbastanza asciutta.

L'infermiera alle mie spalle esce dall'ufficio chiudendo delicatamente la porta.

«Sono il detective Shown, della squadra omicidi. Sto lavorando al caso dei ragazzi scomparsi a Mason Creek e desidererei parlare con...».

«...con Jeremy Daughtry». Mi interrompe e finisce per me la frase, una cosa che in genere non sopporto, ma quella donna lo fa in maniera così raffinata e audace che non mi assale alcun nervoso. Così lei continua. «Ogni tanto si presenta un detective o un giornalista che chiede di Jeremy, lei è l'ultimo di questi a quanto a pare». Fa una brevissima pausa durante la quale alzo lo sguardo per studiarmi. «Tuttavia tutti escono da qui insoddisfatti, capiscono che quell'uomo è matto e che ciò che dice non può che confermare il suo grave stato di salute mentale e il motivo del suo ricovero in questa struttura. E' solo tempo perso detective».

«Sarà, Dottoressa Ellison, ma questo è quello che devo fare. Mi accompagna alla cella?».

Da vera donna di potere non mi concede certo la soddisfazione di domandarmi come abbia fatto a scoprire il suo cognome, dal momento che sul vetro della porta c'è ancora stampato il nome vecchio primario: Dr. Crugher.

Così si alza dalla scrivania afferrando un mazzo di chiavi. «D'accordo, andiamo».

Mentre i nostri passi risuonano negli altri e nei corridoi dormienti, cerco di scoprire qualche dettaglio in più sul posto. «So che il vecchio primario è ricercato dalla polizia, cosa ha fatto?».

Sempre con tono freddo la Dottoressa Ellison risponde. «Faceva esperimenti sui pazienti, fortunatamente un prete della parrocchia dell'ospedale è riuscito a denunciare il Dottor Crugher con valide prove».

«Esperimenti di che tipo?».

«Erano pratiche occulte, non esperimenti scientifici. Agli inizi degli anni '90 il primario precedente a Crugher, il dottor Heinz, è stato trovato morto nel suo ufficio e inspiegabilmente tutti i suoi pazienti sono scomparsi, nessuno di loro è stato più ritrovato. Solo un uomo quella notte era ancora nella sua cella. Era uno scrittore con una grave forma di schizofrenia».

«Che fine ha fatto lo scrittore?».

«Quando il il Dr Crugher prese il posto di Heinz, lo scrittore fu torturato. Erano convinti che sapesse qualcosa sulla scomparsa di tutti quei detenuti, o che addirittura fosse sua la causa. Non so per quale motivo iniziarono a credere a questo».

Le linee opache delle lampade ci tagliavano velocemente la faccia ad ogni echeggiante passo in quel corridoio, mentre le urla dei pazienti si avvicinavano sempre di più a noi.

«Tra i detenuti si parla di un libro che scrisse questo paziente, ma qui si cade nel fanatico o nella leggenda. Io sono una donna di scienza e tutto ciò che oltrepassa un certo limite, non lo considero con grande importanza».

In un altro momento della mia vita le avrei certamente dato ragione, ma ora alcuni assillanti dubbi li sento annidarsi e respirare nell'oscurità degli angoli bui dei corridoi della mia mente, in attesa di rivelarsi.

La cella è alla fine del corridoio, un po' isolata dalle altre. La Dottoressa chiama due guardie che aprono la porta di ferro ammanettando il misterioso uomo avvolto dalle fredde tenebre al suo interno.

«Io starò qui fuori, assieme alle guardie. Le darò non più di dieci minuti. Se lo ricordi bene. Il detenuto è ammanettato e sedato, posso farla entrare senza la guardia, ma a qualsiasi dubbio bussi sulla porta e noi entriamo».

Annuisco ed entro nella tana del lupo.

 

OVVIAMENTE CONTINUA.... :)

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Capitolo 9
*** Episodio 8 ***


Si chiude la porta alle mie spalle con un boato metallico. La luce fredda della lampadina illumina in parte la stanza in cui mi trovo. Sul fondo la parete è ricoperta di formule matematiche e bizzarri disegni. Mentre l'uomo che cerco rimane seduto alla mia sinistra, con la schiena appoggiata al muro. Non è una brutta cella, e nel disordine c'è qualcosa di schematico ed ordinato.

«Se sta notando il disordine intorno a lei, detective, dovrà comprendere che per entropia ogni cosa è destinata al caos». La voce e molto sottile e sibila nell'aria attraversando lo spazio semibuio fino alle mie orecchie.

L'uomo barbuto e calvo non muove un muscolo e mantiene lo sguardo verso il pavimento. Se ne sta seduto a terra a gambe incrociate e le braccia l'una sull'altra. Dall'alto lo guardo e cerco di cogliere una prima impressione, è freddo e non mi trasmette nulla. Almeno finché non alza il volto e finalmente non vedo lo specchio della sua anima, due occhi dalla pupille grigio-azzurre che penetrano il vuoto.

«Lei è Jeremy Daughtry?».

L'uomo non risponde subito, cercando di dare a sé stesso una certa importanza nel farsi attendere. «Non crede, detective, che la risposta a questa domanda sia alquanto ovvia e banale, dal momento che la dottoressa Ellison l'ha accompagnata da me, in quanto lei cercava questo preciso nome?».

«Io sono il detective...».

Un sibilo profondo di disapprovazione taglia la cella in due. «Non voglio sapere il suo nome, il tutto è insieme di particelle di materia con precise proprietà distinte, ma non l'una più importante dell'altra. Lei è un uomo, nulla di più. La mia mente non vuole conoscere il suo nome perché la distinguerebbe dagli altri uomini conferendogli più importanza».

«Arriverò allora subito al punto». Mi chino reggendomi sulle ginocchia e mi avvicino al livello del suo volto mentre lui rimane in silenzio. «A Mason Creek stanno continuando a scomparire ragazzi e ragazze nella zona del bosco. Tutto questo sembra avere inizio subito dopo la vicenda del rito satanico che lei e il suo collega, il signor Richard Campbell, avete praticato nella stessa zona. Sono nate assurde leggende da allora, alle quali non voglio dare ascolto. Voglio sapere la verità, signor Daughtry».

Daughtry sospira a lungo prima di cominciare a parlare. «La verità...». Il tono è una landa desolata, una strada perduta in un pianeta deserto. «E' tanto semplice quanto complesso discutere sulla verità, ed io sono considerato un matto. Quale verità può mai rivelarle uno psicopatico internato a Chesterfield? Io posso solo raccontarle una storia, sarà lei a decidere se è vera oppure no».

Ci guardiamo negli occhi per molto, molto tempo. Un contatto visivo così prolungato da procurarmi un serio fastidio, nessuno aveva mai retto così a lungo il mio sguardo e, per la prima volta, sono io a dover essere costretto ad abbassare il volto.

«In quegli anni Campbell ed io, nonostante la famiglia, lavoravamo duramente pure la notte. Con noi c'era un altro scienziato, il Dottor Robert Gordon. Lui era astrofisico come me ed era un ottimo scienziato, fin troppo forse e questo lo capimmo solamente più tardi».

Quel nome non era inserito sugli archivi né sui giornali. Robert Gordon, non so il motivo, ma mi risulta familiare. Ho la percezione di averlo già sentito o incontrato. Forse è solo un'impressione. Lascio stare per il momento e aspetto che Daughtry continui a parlare della sua versione dei fatti. «Li è mai stato in montagna, detective?».

Annuisco e ripenso a una delle serate più belle della mia vita passate in compagnia di Sarah a Denver, nel Colorado. Ripenso a quella bellissima donna che mi attendeva al bancone del bar in reception, stretta nel suo abito nero e avvolta dalle luci soffuse. Penso a quel tempo e a quando le cose importanti sembravano altre. «Cosa c'entra la montagna?». Domando d'istinto.

«Per capire cosa le andrò a riferire deve prima comprendere un nuovo modo di vedere l'universo. Quando guardi verso il basso dall'alto di una montagna vedi ogni villaggio sotto di te, a valle. Li vedi tutti e separati l'uno dall'altro, ma da quella posizione si crea una immagine completa e coerente, non sei d'accordo?».

«Signor Daughtry, mi piacciono queste metafore, ma deve capire che mi è stato concesso pochissimo tempo e ho bisogno di sapere cosa è accaduto in quel bosco».

Jeremy Daughtry diventa subito più serio e aggrotta la fronte. «Il tempo, detective...il tempo è una grandissima illusione. Forse la più grande dell'uomo. Esso è percepito in molti modi...».

«Mi parli di suo figlio, perché l'ha ucciso?». Cerco di arrivare al dunque toccandolo nel profondo.

«Sono stato costretto a fare una cosa della quale non ero neppure cosciente. Quel volto bianco...». Poi si perde nei ricordi. Cazzo! Ho perso solo più tempo e capisco che devo lasciarlo parlare. «Mi stava dicendo della montagna...».

«Il nostro cervello si è evoluto concependo solo tre dimensioni, e fu difficile pure per me arrivare ad accettare la teoria che esso è costituito in realtà da membrane tridimensionali che galleggiano in uno spazio multidimensionale. Ogni membrana è un universo o mondo parallelo che vibra e si muove nel mare cosmico».

«Ma questo cosa c'entra con quello che tu e Campbell avete fatto ai vostri figli?».

«A volte queste membrane si trovano molto vicine le une dalle altre e nelle loro continue vibrazioni possono entrare in contatto. Si creano così delle dimensioni extra che collegano tra loro gli universi altrimenti distinti».

La voce della Dottoressa Ellison fuori dalla cella vibra improvvisamente in tutta la stanza. «Cinque minuti, detective».

«Scoprimmo che, in un particolare punto del bosco, si era creata da tempo una dimensione extra che collegava la nostra membrana a un altra. Il problema è che gli atomi non possono attraversare le membrane e vedere altrove. Stavamo studiando come riuscire ad entrare in contatto con l'altro universo e la scoperta di tutto questo ci eccitò a tal punto da renderci pazzi e schiavi. Ha mai visto una luce con toni di rosso provenire dal cielo?».

Annuisco e Daughrty sorride.

«Era l'undici Gennaio quando dall'altro universo ci arrivò un messaggio e lì conoscemmo Lui».

«Lui chi è?».

Lo sguardo di Daughtry comincia a vacillare, come colto da terrificanti ricordi. «Il Lord, detective. Il Lord trovò un modo per contattarci nonostante le leggi fisiche lo impedissero».

A quelle rivelazioni mi rendono frastornato e confuso. Non riesco a credere che uno scienziato mi stia parlando in quel modo. Tuttavia c'è qualcosa nella sua voce che rende il tutto dannatamente vero. Pur sapendo che ho davanti solamente un pazzo, nella mia mente si scalda l'idea che in quelle parole ci sia del vero.

«Il Lord ci parlò per notti intere. Ci raccontò di Carachura e del suo paese. Della morte del suo popolo e di una imminente guerra nel suo mondo. Ci chiese di offrire a Lui i nostri figli, non ne comprendemmo il vero motivo o scopo, non sembrava atteggiarsi da divinità, eppure ci stava domandando di compiere un sacrifico di sangue».

Un silenzio mortale copre la cella di un velo simile a un sudario mentre la luce, della lampada sopra di noi, vacilla e lampeggia.

«Così avete ucciso i vostri figli?».

«No! Eravamo tutti e tre inorriditi all'idea e terrorizzati da una simile mostruosità. Quello era un demone di un abisso, un male feroce. Lo capimmo troppo tardi. Nonostante ciò Robert fu più debole di noi e cadde nella tentazione di quel demonio. Poiché il Lord lasciò cadere una maschera completamente bianca, di un tessuto particolarissimo. Quella maschera, detective, una volta indossata, conferisce un grandissimo potere. Può farti entrare nei sogni più celati d'ogni persona e, in qualche modo, sussurrarle all'orecchio dell'incoscienza un pensiero. Il Lord chiese a Robert di usare la maschera per entrare nei nostri sogni e ordinarci di portare al bosco i nostri figli e...». Si ferma per il forte nodo alla gola, poi riprende a fatica. «Non eravamo coscienti di ciò che stavamo per fare. Io mi sono risvegliato ritrovandomi con la luce delle torce dei poliziotti puntate contro la faccia e poi il resto. Solo dopo scoprii ciò che era accaduto, ma solo perché Robert, su comando del Lord, ci fece ricordare e provare rimorso. Qualche giorno dopo Campbell si tagliò le vene con un ferro che sporgeva dalla struttura in ferro del suo letto in cella».

«Dov'è finito Robert adesso?»

«Non lo so, io non l'ho mai più visto».

«Perché Robert ho deciso di indossare quella maschera?».

«Suppongo per salvare suo figlio».

«Robert aveva un figlio? Come si chiamava?».

Prima che la Dottoressa Ellison aprisse ferocemente la porta, per trascinarmi fuori da quella cella, il nome volò a mezz'aria, tra le polveri sottili tagliate dalla luce violenta del corridoio. «Jason, suo figlio si chiamava Jason».

 

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Capitolo 10
*** Episodio 9 ***


La Dottoressa Ellison mi accompagna fino alla porta. «Non ha detto nulla di diverso, è sempre la solita filastrocca che recita. Una volta era sicuramente un grande scienziato, ma tutto quello studio l'ha reso certamente folle».

In realtà non mi accorgo nemmeno che sta parlando con me. La mia mente naviga ora in altre acque, quelle acque scure e torbide della follia. Il mio cervello ha registrato tutta la conversazione avvenuta con Daughtry, ogni singola parola è entrata in memoria. Ed ora sento nella mia anima lo scontro titanico tra ordine e caos, tra ragione e follia.

Il Lord. Quel nome evoca a pensarci un sinistro senso di impotenza di fronte alla grandezza. Il Lord. Qualcosa scuote le mie interiora mentre un'infermiera giunge dall'angolo del corridoio fermandosi davanti a noi. E' una donna di colore e in evidente sovrappeso. Quella breve corsa dalla reception fino a noi l'aveva stancata. «Dottoressa Ellison, c'è una chiamata urgente per il detective».

«Passamela nel mio ufficio. Grazie Kate». Poi la Dottoressa Ellison passa lo sguardo su di me. «Torniamo all'ufficio, detective. Sembra che qualcuno abbia urgente bisogno di lei». Le sfugge un breve sorriso prima di voltarsi ed incamminarsi di nuovo verso l'interno della struttura.

Il telefono è sopra la scrivania. La cornetta è rivolta verso il basso appoggiata sopra alcune cartelle gialle.

«Detective Shown, chi parla?».

«Sono Kooper! Shown devi assolutamente tornare a Mason Creek, Wide ha bisogno di te. Hanno appena caricato in ambulanza suo figlio Eric, lo stanno portando d'urgenza all'ospedale».

«Cazzo! Cos'è successo?».

«Non so precisamente cosa sia successo, ma credo che abbia tentato il suicidio».

Riaggancio e quando alzo lo sguardo noto involontariamente una fotografia appesa a un quadretto sul muro. E' l'immagine di un uomo, ma nella mia mente, tra i milioni di pensieri, si accende una vibrante scintilla. Quell'uomo l'ho già visto, ne sono certo. Nella foto stava seduto in quello stesso ufficio, ma quegli occhi fissavano l'obiettivo con una freddezza tale da risultare demoniaci.

«Chi è quello nella fotografia?».

«Quello, detective, era il vecchio primario: il Dottor Crugher».

Non sapevo dove l'avessi visto, ma ero certo di averlo incontrato.

«Grazie, Dottoressa Ellison. Ora devo proprio andare».

«La accompagno alla porta».

«No. So uscire benissimo da solo».

Non appena fuori dalla struttura accendo una sigaretta. Non ricordo nemmeno di averla finita, che in mano, tra le dita, ne ho una seconda già accesa. Entro poi nel taxi che mi stava aspettando nel parcheggio. Direzione: ospedale di Mason Creek e di fretta.

Temevo proprio questo, cazzo. Sapevo che Eric avrebbe tentato il suicidio come Irina. Sembra essere un cerchio di eventi inevitabile. Forse Eric si è ricordato, come è successo ad Irina, di qualche particolare. Il senso di colpa ha fatto il resto. Mentre penso a questo la mia mente ricorda quello che mi ha detto Sam Hartigan: “In sogno appare un uomo magro e senza volto, è accaduto qualche volta anche a me. Ti fa vedere delle cose, ma poi, a meno che Lui non voglia, te le fa scordare”. Ho l'impressione che questo demone o entità metafisica agisca nei sogni e sia in grado di rievocare, tramite essi, alcuni ricordi. Rammento pure il blackout di Eric. Affermava di non ricordare nulla da quando si era fermato a bere l'acqua che Jason aveva nello zainetto, fino al risveglio sulla strada verso casa. Irina affermava di aver accompagnato Sofia a casa e di averla vista entrare. Mentiva. Era però una menzogna ingenua e facilmente verificabile. Non ne capivo il motivo. Ora forse lo comprendo. Ma devo parlare con Eric un'ultima volta. Se risponderà come credo alle mie domande, allora ne avrò la conferma.

Jason. Quel nome, pronunciato alla fine del colloquio con Daughtry, mi rimane impresso fino all'ospedale di Mason Creek. Mi fa pensare parecchio, distraendomi dalla giungla selvaggia del traffico. Quel nome mi riconduce al ragazzo scomparso, amico di Eric. Jason Davies. Una mazza ferrata mi spacca il cranio in due parti quando improvvisamente, alla gialla luce lampeggiante di un cartello pubblicitario guasto, ricordo dove ho già sentito il nome di Robert Gordon. Alla vista del distintivo quella giovane infermiera si intimorisce, ma poi finalmente si convince ad accompagnarmi nella stanza di Eric.

Trovo Wide e sua moglie lì, accanto a letto. Eric sembra stia dormendo. Getto l'occhio sul monitor. Le sue funzioni vitali sono stabili. La moglie di Wide ha la testa appoggiata sul materasso all'altezza delle gambe del figlio, mentre Wide è in piedi davanti alla sponda finale del letto che mescola la bacchetta di plastica dentro al bicchiere del caffè.

«Come sta ora Eirc?». Cerco di bisbigliare e di fare il meno rumore possibile. Quel buio e quell'aria calda e viziata mi assopisce i nervi dopo tante ore senza sonno.

Anche Wide bisbiglia. Ha una voce roca. «Oh, Shown sono così felice di vederti. Ha perso molto sangue, ma sono arrivato in tempo. Gli hanno ricucito i tagli ai polsi qualche ora fa».

«Cos'è successo, Billy?».

«Usciamo a fumarci una sigaretta».

«Te non fumi».

«Vuol dire che dovrai offrirmene una tu».

Usciamo dalla stanza e raggiungiamo un'area più tranquilla dove si può fumare, accanto ad una lunga vetrata. Da lì, al secondo piano, si vede Mason Creek che dorme. Non ci sono stelle in cielo perché le nuvole, cariche di tempesta, avvolgono ogni cosa.

«Già dalla mattina aveva assunto un atteggiamento molto strano. Dagli occhi gonfi che aveva sembra che avesse pianto per tutta la notte. Era fisicamente distrutto ed io ho pensato fosse colpa di tutto questo casino che sta succedendo e che quelle sue condizioni derivassero dalla notizia della scomparsa di Jason e Martin. Nel pomeriggio l'ho trovato steso sul pavimento della sua camera da letto. Il legno e i vestiti erano zuppi di sangue. Cazzo Shown, da genitore non puoi nemmeno pensare a tuo figlio ridotto in quello stato».

«Ti ha parlato? Hai capito perché l'ha fatto?».

«No, non era del tutto cosciente. Vaneggiava. Ma nelle sue parole ridotte incomprensibili ho capito cosa aveva sognato quella notte e di chi stava parlando».

«Di quel demone senza volto, esatto?».

Wide getta la sigaretta nel portacenere e rimane in silenzio.

«Wide mi dispiace per quello che è successo a tuo figlio, ma è chiaro che quella presenza ha bisbigliato qualcosa al suo orecchio durante il sonno che gli ha fatto prendere la stessa decisione a cui era arrivata Irina per i sensi di colpa».

«Non mi dirai ora che credi allo Slender?».

Non rispondo. Così Wide cambia argomento. «Tu dove sei stato? Dove hai passato la notte?».

«Sono andato nel bosco e ho trovato una traccia di sangue in quel punto che mi avevi indicato, quello dove gli scienziati hanno aperto il portale. Ho preso un tampone, domani mattina lo faccio subito analizzare, credo si di Sofia Monroe».

«Aspetta un momento! Quali scienziati? Quale portale?».

«La mattina seguente sono andato al Manicomio di Chesterfield a Stonehill. Ho incontrato Jeremy Daughtry. Mi ha raccontato un po' quello che è successo e, dalla sua versione della storia, non sembrano affatto satanisti. E' tutto così chiaro e confuso allo stesso tempo...».

«Ti ha parlato di un portale?».

«Nel '92 tentarono di capire i meccanismi di un universo parallelo venuto a contatto con il nostro attraverso delle “dimensioni extra” le ha chiamate».

«Sono teorie interessanti, ma sicuramente fantasie di un folle satanista. Dove hai passato la notte?».

«Iniziò a piovere forte, un grosso temporale. Ho trovato riparo in un casolare abitato, subito oltre il bosco».

Wide mi guarda subito strano. Aggrotta la fronte e mi interrompe. «Impossibile!».

«Cosa?».

«Sei sicuro che era abitato e che era nelle campagne intorno al bosco?».

«Più che sicuro, Billy. Qual'è il problema?».

«Quelle zone sono disabitate dalla metà del 1993, dopo i fatti dei satanisti. La gente in quelle zone è venuta tutta a vivere in città o si è stabilita a Dodge City. Ti ricordi i nomi dei proprietari?».

«Era solo un signore anziano di nome Sam. Sam Hartigan. Ti dice qualcosa?».

Lo sguardo di Wide è sempre più perplesso e sconcertato e non ne capisco il motivo.

«Lì ci abitava il nonno di Jason, dalla parte di madre».

«Come sarebbe a dire “ci abitava”?».

«Shown, è morto tanti anni fa. Ti assicuro che in quella zona non ci abita più nessuno».

Mentre mi dice questo il mio cervello elabora una strana associazione, un'illuminazione improvvisa, forse stimolata dall'arrivo di un fulmine che spacca in due il cielo prima completamente buio e nero. Mi torna alla mente il volto della fotografia nell'ufficio della Dottoressa Ellison. Ora i pezzi più grandi del puzzle mi stanno cadendo dritti sulle braccia, ma ancora non riesco a collegarli.

Billy mi guarda attentamente, mentre sono avvolto dai miei corrosivi pensieri. «Cosa ti sta frullando per la testa, Shown?».

«Ho scoperto alcune cose che non sapevo, Billy. Ed anche se ora non ha ancora alcun senso, sento che lo avrà presto».

CONTINUA...solo atri 3 episodi e tutto...

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Capitolo 11
*** Episodio 10 ***


«Credi che mio figlio, come Irina Callaway, sia colpevole?». Wide è disperato. Ovviamente non può credere che stia accadendo tutto a lui e così in fretta. Ma io vedo lo stesso meccanismo. In Eric, come in Irina, qualcosa o qualcuno deve aver risvegliato nel loro inconscio un ricordo cancellato, portando a galla un fortissimo senso di colpa che giustifica quegli atti estremi. «Non lo so, Wide. Devo parlare da solo con tua figlio prima».

«Ti vedo strano, Shown. Hai qualcosa che mi nascondi».

«Forse solo meri pensieri o inutili supposizioni». Mi accendo un'altra sigaretta. Ne offro una anche a Wide, ma scuote la testa e continua a fissarmi.

«Avanti, racconta».

Il fumo esce dal naso e dalla bocca invadendo l'aria, mentre la cassa toracica si sgonfia emettendo un sibilo. «Ti ricorda qualcuno il nome Robert Gordon?».

Ci pensa un attimo, poi risponde. «Sì. Era sotto indagine all'epoca dei satanisti. Nel '93 il detective Wilson aveva trovato qualcosa su di lui. Poi è svanito tutto nel nulla. Non so che fine abbia fatto quel detective. Ora Gordon è morto».

«Si chi è il figlio di Robert Gordon?».

«No, non saprei».

«Jason Davies. L'amico di tuo figlio Eric. Il suo vero cognome, acquisito dal padre biologico, sarebbe Gordon».

«Non lo sapevo. Ma questo cosa c'entra?».

«Secondo la versione di Daughtry fu Robert Gordon ha obbligarli a uccidere i loro figli. Robert lo fece per evitare di sacrificare il suo».

«Oh Cristo! Non crederai alle parole di quel pazzo, spero! Come li avrebbe obbligati a fare una cosa simile?».

«Gordon voleva salvare suo figlio Jason, così ha deciso di usare un oggetto in grado di interagire con l'inconscio altrui».

«Quale oggetto? Cosa intendi per “interagire con l'inconscio”? Io non sono così informato come te in psicologia».

«Una maschera in grado di entrare ed uscire dai sogni».

Il minuto di silenzio che segue è imbarazzante e stupido. E' uno di quei minuti nei quali la persona che hai davanti si ingrandisce schiacciandoti fino a renderti una fettina di formaggio.

«Io ti reputo una persona intelligente e molto dotata, Shown. Ma quello che mi stai dicendo non ha alcun senso. Comunque sia, Gordon è morto e non potrebbe fare nulla di simile».

«Questo è vero, ma se quella maschera esiste veramente, potrebbe essere in mano a qualcun altro».

«Ammettiamo anche che questo “qualcun altro” avesse la maschera, perché utilizzarla per far sparire delle persone?».

Rivelare a Billy Wide anche la storia del Lord mi sembra troppo per una sola nottata, mi avrebbe preso realmente per matto. Anche se lui stesso è molto superstizioso, non avrebbe mai creduto a una storia simile. Così mi limito spegnere la sigaretta nel portacenere e a dire. «Devo parlare con tuo figlio».

Decidiamo di rimanere in ospedale e di attendere la mattina accovacciati sulle sedie in sala d'attesa del pronto soccorso. Non dormo. Rimango con gli occhi semi aperti, mentre vengo circondato da orribili visioni. Quella luce scarlatta si ripropone ciclicamente nella mia mente, catapultandomi nuovamente in quel bosco. Gli occhi di Sam Hartigan alla debole luce della lampada mi forano il cervello, e la terribile verità che quello non è affatto Sam Hartigan mi terrorizza assieme al sospetto della sua vera identità. Quell'agghiacciante sospetto non mi fa dormire. Credo di sapere con chi ho parlato quella notte tempestosa. Percepisco solo ora il terribile pericolo che ho corso.

Ma anche Wide non dorme. E' disteso sulle sedie dietro di me, non lo vedo. Ma all'improvviso sento la sua voce. «Anche te soffri d'insonnia in questo periodo?».

«Wide, credo di sapere chi abita in quella casa abbandonata nella quale ho trascorso la notte».

«Non certo il vecchio Sam.». Risponde Wide.

«Dobbiamo entrare dentro quella casa Wide, è importante. Credo che lì si nasconda un criminale già ricercato. E' molto pericoloso e penso sia collegato a tutto questo».

«Chi?».

«Conosci il caso del primario di Chesterfield?».

Improvvisamente sento Wide alzarsi dalle sedie dietro di me. «Crugher! Ne sei sicuro?». «E' difficile esserne certi. Ma nel manicomio ho visto una sua fotografia abbastanza recente. Quel volto era identico a quello di quell'uomo che si è presentato a me col nome di Sam Hartigan».

«Devi subito avvertire Kooper e l'FBI di questo tuo sospetto».

«Prima dobbiamo avere delle prove».

«E come?».

«Entrando in quella casa».

«Ma ci serve un mandato per entrare in quella casa, a meno che la signora Davies non decida di farci dare un'occhiata. Credi che sappia che qualcuno vive in quella vecchia casa?».

«Domani andremo dalla signora Davies».

Aspetto che Wide prenda sonno. Mi accerto che stia dormendo e raggiungo furtivo la camera di Eric. Il polso è debole, ma i valori sono quasi nella norma.

Quando sono accanto al suo letto il suo sguardo incontra il mio. Strizza le palpebre come per cacciare un brutto ricordo, o una brutta realtà.

«Eric, perché ti sei fatto questo?».

Il ragazzo bisbiglia nel buio della stanza. «Detective, sento la voce dell'uomo senza volto e a volte lo vedo nei miei sogni. Lui mi ha fatto vedere ciò che ho fatto». Singhiozza, ma non si agita. Ormai sembra essersi arreso all'innegabile evidenza. Poi continua. «Shown, mi ha detto lui di ucciderli con quel bastone nel bosco. Lui me l'ha detto ed io l'ho fatto. Ho picchiato Martin e Jason finché non sono morti entrambi. Li vedo stesi lì a terra, come se fosse accaduto ora. Perché ho fatto una cosa del genere? Sono malato? Perché vedo quell'uomo?».

Con affetto prendo la mano del ragazzo tra le mie. «Ricordi qualcos'altro?».

«Sì, nel bosco abbiamo letto tutto il diario di Irina. Solo ora ricordo. Quel demone ha risvegliato in me le terribili immagini di ciò che ho fatto, ma assieme ad esse anche ricordi importanti. Irina doveva incontrare una persona».

«Chi?».

«Non c'era scritto il nome. Solo il luogo e che quella persona l'avrebbe aiutata a smettere di sognare l'uomo senza volto».

«Qual'è il posto, Eric?».

«Ti prego, detective Shown, non dica ciò che ho fatto alla mia povera mamma! La prego! Non dica nulla al mio papà!».

«Qual'è il posto, Eric?».

«Mi faccia questa promessa, la prego!».

«Qual'è il posto, Eric?».

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Capitolo 12
*** Episodio 11 ***


E' l'alba e sto consegnando al laboratorio della centrale il campione di sangue trovato sulla corteccia di quell'albero nel bosco, quando Kooper grida il mio nome dall'altro capo del corridoio, con la testa fuori dalla porta del suo ufficio. «Emergenza! Torna subito all'ospedale! Eric non è più nella sua stanza!».

La mia mente si muove prima del mio corpo. E penso alla chiacchierata avuta quella notte all'ospedale. Non avrei dovuto lasciare la struttura.

Attraverso il corridoio verso l'uscita, mentre sento qualcuno correre alle mie spalle. E' Kooper. «Vengo anch'io con te Jersey! Voglio sapere che cazzo sta succedendo! Prendiamo la mia auto».

Mi accorgo di guardarlo un po' perplesso e rispondo aprendo la porta. «Il problema, Kooper è che forse non capiremo mai fino in fondo ciò che sta accadendo qui a Mason Creek».

Accendo una sigaretta non appena saliamo sulla sua Cadillac Eldorado dell'81. «Cosa credi di fare con quella sigaretta sulla mia macchina?».

Lo voglio mandare a farsi fottere, ma la mia espressione rimane seria mentre la mente è concentrata su tutto quel pentolone di parole e fatti che sono accaduti e sui quali non riesco ancora del tutto a trovare una logica spiegazione.

Torno a infilare la sigaretta nel pacchetto quasi vuoto. A metà strada, dopo il tragitto di silenzio, Kooper prende a parlare. «Cosa intendevi dire prima, a proposito di questa storia?».

Distacco lo sguardo da Mason Creek vista attraverso il finestrino appannato. Le piccole case a bordo strada impennano la loro ombra tagliente sul manto grigio dell'asfalto. «Ci sono cose, nel piano di universo in cui viviamo, che non potremmo mai comprendere fino in fondo».

«Detto da te suona strano».

«Io non credo, io penso e mi adeguo alla realtà. Credo che ci sia una spiegazione, seppur bizzarra e quasi inaccettabile per l'intelletto, a quello che voi chiamate Slender o demone che appare nei sogni».

La conversazione termina lì. Non diciamo nulla fino all'ospedale. Gli urli che sentiamo provenire dall'interno sono quelli della moglie di Wide. Gli infermieri stanno cercando di calmarla. Kooper si ferma al primo piano a discutere col primario, mentre io trovo Wide in piedi davanti al letto vuoto di suo figlio Eric.

«E' scomparso un'altra volta e per un'altra volta io non mi sono dimostrato un padre attento». Mi aveva certamente sentito entrare e in qualche modo aveva capito che ero io. Rimango in silenzio, mentre lui, ancora voltato di schiena, continua a parlare a voce bassa. «Son rimasto accanto a lui tutta la mattina. Poi sono uscito e ho telefonato a mia moglie. Era andata a prendere a casa alcun cose per Eric. Quando sono tornato non c'era più».

«Questa volta Wide, sembrerebbe che tuo figlio sia intenzionalmente uscito da qua. Aspettava solo che tu ti allontanassi un attimo dalla stanza».

Finalmente si gira verso di me. «Ma dov'è ora?».

«Credo di sapere dove ha deciso di andare».

Billy Wide sgrana improvvisamente gli occhi. «Come fai a saperlo?».

«Intuizione». Rispondo, dopo qualche secondo aggiungo. «Dobbiamo andare in quella casa, Wide, con o senza mandato».

«Perché?».

«Irina Callaway doveva incontrare una persona in grado di aiutarla a scacciare quel demone dei sogni che sembra la costringesse a fare cose molto cattive. Eric ha letto il diario di Irina e credo abbia abbracciato questa minima possibilità di salvezza. Ormai devi ammettere a te stesso che è stato tuo figlio Eric a far sparire nel bosco i due ragazzi. Sostengo però che sia tutto, in qualche modo, una trappola. Non c'è salvezza, ma soltanto un mostro che ti attende alla fine dell'incubo».

Wide abbassa la testa in segno di rassegnazione. Singhiozza illuminato solamente dai monitor affissi accanto al letto. «Mi fido di te, Shown. Andiamo».

Si carica nell'aria e nel cielo un'atmosfera elettrica che annuncia un imminente temporale, mentre la macchina di Wide sfreccia verso l'aperta campagna. Parcheggiamo molto distanti dall'abitazione, passando a piedi in mezzo al fango e alle sterpaglie.

Cerco di tenere lucida e attiva la mia razionalità, ma mi accorgo di provare un certo terrore alla vista di quell'edificio, mentre d'istinto la mano sgancia la fondina appoggiandosi al freddo metallo della Smith & Wesson.

«Nessuna luce all'interno. Le finestre hanno le inferiate e la porta sembrerebbe chiusa. Proviamo a bussare con una scusa?». Suggerisce Wide.

Ci avviciniamo alla porta e busso utilizzando il battacchio. Niente. Riprovo. Nemmeno un rumore dall'altra parte. Intanto sopra di noi il cielo è nero e pronto a sparaci addosso la sua scarica di proiettili d'acqua.

Sul retro troviamo una finestra senza inferiate. Riusciamo subito a entrare. Sfodero la pistola e armo il cane, mentre Billy alle mie spalle mi segue silenziosamente. Raggiungiamo presto il salotto nel quale ho dormito. Le braci nel camino si stanno assopendo avvolte dalle cenere grigia.

Il mio corpo segue un percorso tutto suo e quasi d'istinto mi porta all'ingresso dello scantinato a metà del corridoio. «Diamo un occhiata qua dentro».

Scendiamo. E' buio pesto, non si vede nulla qua sotto e l'odore della morte mi invade le narici. Sento Wide alle mie spalle che cerca qualcosa, rumori di tessuti e di una cerniera. Poi il fuoco. Wide accende un fiammifero, pronto ad accenderne un secondo al termine del primo.

Non credo ai miei occhi quando davanti a noi si apre uno scenario quasi indescrivibile. Al centro un piccolo altare di pietra, ci sono degli strumenti in metallo accanto. Il sangue è quasi dappertutto, dall'altare fino al pavimento. Nessun cadavere. Le pareti intorno sono piene di scaffali colmi di libri. Mi avvicino a un tavolo, subito dietro l'altare. Wide accende il secondo fiammifero e nell'istante brevissimo di buio sento l'alito freddo della morte sulla pelle. Raccolgo alcuni appunti dal tavolo. Separazione dell'anima dal corpo. La maschera. Il Lord e le sue creature. Carachura o L'oltre Parallelo. Questi sono alcuni dei titoli che riesco a decifrare. Poi, come se qualcuno mi avesse spaccato entrambe le rotule utilizzando una mazza da baseball, sento le gambe improvvisamente cedere alla vista di una zainetto azzurro sotto il tavolo. Lo apro immediatamente. Dentro trovo tutto quello di cui avevo bisogno. La macchina fotografica di Irina Callaway e i negativi che testimoniano l'uccisione di Sofia Monroe. In una tasca più interna trovo il diario di Irina e due bottigliette d'acqua quasi vuote. Una di queste ha l'etichetta intatta, l'altra ne è priva.

«Qui non c'è nessuno, Shown». Mentre Wide inizia ad agitarsi, scopro sul tavolo un appunto che riporta la data di oggi. La calligrafia è quasi illeggibile, riseco a decifrarne solo un tratto. Ma quel tratto mi basta per scoprire dove si trova Crugher. «Dobbiamo andare al bosco! E di corsa! Potrebbe essere già tardi».

Il bosco non è lontano e riusciamo a raggiungerlo molto in fretta con una folle corsa contro il tempo. Nel primo tratto i rami degli alberi ci graffiano il volto e i rovi taglienti contro le caviglie ci costringono a rallentare. Ci dirigiamo verso Nord, nel punto in cui anni prima avevano arrestato Campbell e Daughtry. La mia preoccupazione era quella di essere costretto a rallentare il passo per fare il meno rumore possibile, ma fortunatamente il rombo assordante dei tuoni e dei folgori della tempesta in arrivo coprono la nostra corsa tra i rami secchi e le foglie cadute.

Quel libro maledetto, di cui si parlava al manicomio di Chesterfield, sta a mezz'aria davanti a nostri occhi accecati da una potente luce scarlatta, mentre il cielo si apre in un vortice di nubi sanguigne sopra la testa di Crugher. L'uomo è fermo e di spalle. Davanti a lui due corpi. Wide riconosce suo figlio Eric, steso a terra accanto al letto del fiume. L'altro ragazzo sembra essere Jason. D'istinto Wide scatta in avanti correndo carico di rabbia e odio verso Crugher. Un lampo accecante invade il bosco, un bagliore bianco che mi frantuma il cervello in mille pezzi. Ho l'impressione che il tempo si sia fermato, non sento più scorrere il fiume. Dopo un brevissimo istante l'illusione. Il bianco sfolgorante svanisce e gli oggetti tornano a prendere forma.

Wide è a terra assieme a Crugher. Quando esco da dietro all'albero per correre in soccorso di Wide noto subito un fondamentale dettaglio. Ora, sull'argilloso suolo del bosco, c'è solo un corpo, quello di Eric. L'altro ragazzo sembra essere scomparso nel nulla. 

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Capitolo 13
*** Episodio 12 ***


 Sento un grido strozzato di Crugher. «No! No!». Nel dimenarsi allontana Wide spingendolo contro un ceppo. Forse lo stesso ceppo d'albero su cui Irina e Sofia avevano posizionato la macchina fotografica. Crugher si alza a fatica scomparendo oltre i rami neri del bosco, mentre Billy arranca verso il figlio Eric, ancora disteso a terra. Le gocce di pioggia si uniscono al sangue che cola sul volto dalla tempia di Wide, mentre io, senza pensarci, inseguo nelle tenebre quel pazzo. Vedo pochissimo in tutto quel buio, ma i rumori dei suoi passi frettolosi sono ben udibili anche a quella distanza. I rami e i rovi continuano a lacerarmi la pelle. Li sento, ma non provo dolore. Ora la mia mente e il mio corpo sono alleati contro un nemico più grande.

Nessun rumore. A un certo punto tutti quei passi nel buio cessano. Rallento e con entrambe le mani tengo ben salda la pistola verso la vuota oscurità.

Una voce cupa e roca si muove improvvisamente nell'aria fredda. «Lui ci sta osservando detective, il Lord è qui con noi adesso».

Mi muovo a scatti e in modo circolare su me stesso nell'oscurità, cercando di individuare la provenienza di quel terribile suono.

«Esatto detective, ha capito bene. Continui a girare su sé stesso e capirà il senso di questa esistenza. Siamo intrappolati in un cerchio, mentre Carachura si prepara di nuovo alla battaglia».

La mia vista nel frattempo migliora, si abitua al buio. Distinguo i tronchi d'albero e la sagoma dei rami secchi. Non vedo Crugher.

«Abbiamo già compiuto tutto questo, se lo ricorda? Eravamo a Carachura, sul cammino del prete sadico. Il Lord ci osservava dalla sacra altura».

Rimango in silenzio. Quelle metalliche parole mi disturbano e mi terrorizzano. Mi penetrano nel cervello come un chiodo. Rimango però concentrato sforzando gli occhi e la vista.

Mentre la voce sembra avvolgermi da ogni lato, sento alle mie spalle un leggerissimo fruscio, quasi impercettibile. Così mi volto di scatto, ma troppo tardi. Con un calcio ben assestato mi spacca probabilmente un dito della mano sinistra. Perdo l'arma, la sento roteare e cadere al suolo. Con la mano destra carico un pugno. Colpisco il vuoto e sento quel demone afferrarmi il braccio. D'istinto gli frantumo la faccia gettando, con tutta la forza possibile, il gomito all'indietro. Finalmente l'ho beccato. Rotola un attimo a terra. Il tempo per me di chinarmi e cercare la pistola. La sento fredda al tatto. Quando mi volto i suoi occhi lo ingannano. Sono ben visibili, gialli e lucenti nel buio. Sparo e il boato del colpo esplode nel silenzio del bosco. Il lampo di luce illumina brevemente il corpo di Crugher che cade a terra.

Mi avvicino per accertarmi delle sue condizioni, non ho la minima idea di dove sia finito il proiettile. Intanto la mano sinistra accusa un dolore mostruoso, ma sopporto. Sono a dieci centimetri dalla sua faccia quando nel buio la sua voce si fa sentire. «Credi di aver sconfitto il vero mostro alla fine dell'incubo, detective?». La voce è ridotta a un sibilo sforzato.

«Se non tu, figlio di puttana, chi? Il Lord, forse?».

«Il Lord è il motore immobile di tutta questa faccenda». Tossisce. «Ma è limitato da leggi fisiche. Egli comanda il demone che tutta questa stupida città ha soprannominato Slender. Lui è il tuo nemico».

«E tu sai chi è».

«So chi era e so chi è ora». Ogni forza lo sta abbandonando, devo averlo colpito in punto vitale.

«A chi devo dare la caccia?»

«Cacciatore, con la tua interruzione del rito non saprei dirti dove la tua prede sia finita».

«Fammi un nome, cazzo!».

Crugher non risponde e il silenzio del bosco intorno a noi inghiotte i suoi ultimi affannosi respiri. «Un nome!»

L'ultimo sospiro prima della morte è preceduto da un nome lasciato cadere e scivolare nell'aria. «Jason».

Lascio lì il cadavere e guardandomi intorno cerco di orientarmi. Niente da fare. Non ho idea della mia posizione. Cerco le sigarette nella tasca e mi rendo conto di aver perduto pure quelle. Fortunatamente ritrovo l'accendino con il quale riesco a farmi strada tra i fitti rami del bosco. Seguo il suono del fiume sapendo che, per tornare verso il luogo del sacrificio, devo tenermi alla sua sinistra.

In questo modo raggiungo Wide. La scena mi frantuma l'anima in mille pezzi. Billy tiene stretto suo figlio incosciente tra le mani cercando di tenerlo al caldo. Mi avvicino di corsa. Tasto il polso del ragazzo. E' ancora vivo, ma ha un respiro irregolare. «Forse è entrato in coma! Dobbiamo portarlo subito all'ospedale, Billy!».

Wide è in lacrime e sembra non reagire alla situazione, così gli faccio capire l'urgenza e l'importanza del fattore tempo. «Facciamo in questo modo: io cerco di raggiungere il più velocemente possibile la casa di Crugher, lì c'è un telefono. Chiamo l'ambulanza! Tu stai qui col ragazzo!».

Non li lascio nemmeno il tempo di rispondere che il mio copro già corre tra i rami fitti del bosco, verso l'aperta campagna.

Raggiungo il retro della villa ed entro dalla finestra senza inferiate. Quando sono dentro trovo il telefono e chiamo l'ospedale di Mason Creek. La seconda chiamata la faccio alla centrale di polizia. Spiego brevemente l'accaduto e faccio mandare da Kooper una squadra al bosco e un'altra alla villa. Non ho più forze quando riaggancio la cornetta e faccio scivolare la schiena lungo la parete muro fino a sedermi a terra. Penso a Wide da solo col figlio privo di coscienza nel bosco. Penso a Crugher e a tutte quelle parole. Ci avrei riflettuto in un altro momento, ora sono senza energie. Lascio che il buio entri dentro di me, chiudo per un po' gli occhi finché la squadra mandata da Kooper non mi trova.

Mi risveglio in ospedale su di un letto scomodissimo e il bip del battito cardiaco sul monitor.

La vista sfuocata riconosce Wide a lato del letto. Ha due cerotti bianchi sulla fronte. Mi guarda d'istinto la mano sinistra: ingessata fino al gomito.

«Come sta Eric?». Chiedo immediatamente.

Dall'espressione capisco la risposta, ma lascio che si Wide a dirmelo. «E' in coma e i medici dicono di non sapere quando si risveglierà. Mi resta solo da pregare, Shown».

«Non perdere le speranze, Billy. Pensa sempre che tuo figlio è l'unico ad essere tornato indietro. Molte famiglie qui a Mason Creek ancora aspettano di riabbracciare il loro figlio perduto, che non tornerà mai tra le loro braccia».

Credo di averli fatto ritrovare un briciolo di positività con quelle parole, così lui mi risponde. «Grazie Jersey, senza di te non avrei nemmeno più rivisto Eric. Ora torno da lui».

Wide si volta allora di spalle e raggiunge la porta. Prima di vederlo scomparire nel corridoio lo chiamo. «Wide!». Lui si volta e mi da attenzione.

«Non ho mai capito perché Kooper ha chiamato un detective della Squadra Omicidi, dal momento che si trattava solamente di persone scomparse».

Mi accorgo che stiamo rallentando solo quando il fischio ferroso dei freni mi penetra pungente nei timpani. Così mi sveglio e ricordo di essere in treno. Le gocce di pioggia rigano il vetro sporco e appannato sul quale mi ero assopito. Osservo il mio volto quarantenne riflesso sul finestrino e penso a quelle formose occhiaie che sporgono nere sotto gli occhi.

Il treno si sta fermando alla stazione di Mason Creek, una piccola città di pianura ad est, circondata perlopiù da un fitta linea di pioppi, salici e querce che sorgono sulle sponde del torrente. Il fiume si affianca alla periferia separandola dall'aperta campagna. Un luogo isolato e teatro di numerosi incidenti, dieci anni fa ero stato chiamato a seguire i passi di un giovane ed inesperto detective su un caso di omicidio passionale. Detective, già, al pensiero la mia mano raggiunge l'acciaio freddo del cane della Smith & Wesson nella fondina e il bordo in pelle del distintivo dell'FBI appeso alla cintura.

Il treno si ferma e penso a quello stronzo di Ed Green, tenente capo della unità omicidi dell'FBI e all'incarico che dodici ore fa mi ha affidato a proposito della ragazza trovata morta proprio in quel bosco vicino al fiume.

Sofia Monroe, diciassette anni, capelli corti e occhi neri, alta all'incirca un metro e settanta, dalla foto recente, che ora mi accorgo di tenere tra le mani gelide, noto nel suo volto l'espressione ribelle di un'adolescente avventurosa e in cerca di nuove esperienze. Sofia Monroe, scomparsa quattro giorni fa, secondo gli inquirenti tra le sette del pomeriggio e mezzanotte. Trovata morta la mattina scorsa. Il corpo era seminudo e crocifisso ad un tronco d'albero. E' già caso nazionale.

Quando scendo alla stazione accendo subito una sigaretta e attendo che il treno riparta nella direzione contraria finché la solitudine non si unisce al silenzio e il fumo grigio di sigaretta non si lega in un tutt'uno con la foschia della bassa pianura.

Raggiungo la centrale di polizia di Mason Creek a bordo di un'auto della polizia, un certo Billy Wide mi attendeva al parcheggio della stazione. Una sensazione strana mi invade. Quell'uomo, Billy Wide, credo di averlo già visto. Non ci penso e salgo in macchina.

 

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