Arda Anno Zero

di Ernst Schmitt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ultimo Avamposto, Cair Andros ***
Capitolo 2: *** Giorno zero, Cirith Gorgor ***
Capitolo 3: *** Giorno quattro, Minas Tirith ***



Capitolo 1
*** Ultimo Avamposto, Cair Andros ***


Un peso come di un macigno mi schiaccia il petto. È il senso di impotenza o la scheggia di una freccia insinuatasi tra le maglie della gabbia toracica? Forse entrambe. Conquisto l’entrata della tenda con un respiro forzato. Il puzzo di morte ammorba l’aria di questa città. L’ho odiata fin dal primo momento in cui l’ho vista, Cair Andros, questa fortezza dimenticata dagli uomini, ultima alcova di una masnada di orchi ed ora cripta per i loro resti. Lancio uno sguardo al di là della stoffa che mi separa dai ruderi di carne e di pietra che fanno, in un tutt’uno, la triste cornice della nostra avventura giunta all’ultimo atto. Siamo rimasti in duecento appena. Gli altri si sono riappacificati con il nemico abbracciandone il medesimo destino nella fossa. Le braccia mi si sono fatte di marmo a furia di trascinare i corpi dei miei compagni fuori dal tappeto della battaglia. Cerco di farmi forza per affrontare i reduci di quel massacro senza ragioni. Non ho ancora raccolto coraggio a sufficienza per guardarli in faccia. Quel ramingo venuto dal nord, quello che aveva preso il comando delle truppe, avrebbe voluto che anche noi marciassimo sul Nero Cancello e che vi marcissimo sotto le imponenti mura. Nella sua follia non gli è riuscito difficile di servirsi delle vite degli uomini come se fossero pedine di un gioco. Ho preferito che il mio nome fosse marchiato di codardia piuttosto che spedire al macello amici e compagni, come fossero maiali. Abbiamo pagato questa scelta con l’assurda conquista di Cair Andros. Eppure abbiamo tutti combattuto sui Campi del Pelennor per la difesa della Bianca Città e prima ancora ad Osgiliath ed ancora prima sui confini di Gondor, regione su regione, valle su valle, metro su metro, contro un nemico ognora crescente. Tra noi vi è anche qualche rohirrim che vagheggia di aver cavalcato su oceani di scudi a torre al fianco degli Ent e di aver messo sotto assedio Orthanc. Ma gli antichi Re e gli Stregoni sono pronti a morire e a far morire perché non hanno niente per cui morire. E noi che abbiamo qualcosa per cui morire, conosciamo bene il valore della vita. Non avremmo gettato le nostre anime al vento perché siamo l’ultima speranza per la Terra di Mezzo.

Una voce mi distoglie da quel pensiero – Capitano – dice. Sì, chiamano me. Mi ci vuole qualche istante per collegare il suono al volto. È una delle sentinelle del perimetro esterno, una di quelle poche che sono riuscito a disporre a difesa della nostra posizione. Fino a pochi mese addietro aveva meno di vent’anni, oggi non avrei difficoltà a dargliene quaranta. La guerra ci ha reso più mortali di quanto già non fossimo. – Dimmi – gli rispondo mentre rivesto la cotta di maglia costellata di anelli spezzati in lotta con l’avanzare della ruggine – Nessuna notizia dal Morannon, Signore. I corvi ne hanno in compenso coperto il cielo – mi dice, e nello sguardo posso leggergli i sottintesi – È finita? – è la domanda che aleggia sulle nostre teste, carica di una dolorosa risposta. La sentinella mi guarda, attende un istante e poi si ritira. I corvi staranno banchettando con i cadaveri dei nostri eroi. E questo sarebbe di consolazione se nel baratro non vi avessero trascinato anche l’ultimo esercito degli uomini. I nostri padri hanno fallito. Gli Dei e i loro primogeniti hanno abbandonato queste terre. Ora siamo soli. E siamo gli involontari testimoni di Arda al di là delle Ere, alla fine dei tempi.

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Capitolo 2
*** Giorno zero, Cirith Gorgor ***


A Tyelemmaiwe
 

Giorno zero, Cirith Gorgor

È così lucente e liscio questo bell'elmo che ho trovato sulla testolina dai capelli dorati. Sorrido alla mia figura che viene riflessa dall'acciaio macchiato di sangue ormai rappreso. La mia sagoma deforme risponde con un ghigno. Quelle imperfezioni frutto di una vita passata nel fango a mangiare vermi tra una frustata e un'altra, mi hanno reso un mostro. Mi soffermo a guardare quei denti sottili come lische di pesce e quegli occhi vispi incastonati in un teschio foderato di un sottile strato di pelle grigiastra. Sono un orco: poco più che una bestia fatta per procacciarsi da vivere nell'oscurità di quei buchi dove spade, asce e fiamme ci hanno confinati.

Lancio un urlo, alzo la mia mazza ferrata e fracasso l'elmo e quell'immagine, poi mi avvento sul cranio del rohirrim che lo indossava e ne ricavo uno scalpo - Senza capelli non sono poi così belli! - gracchio verso un compagno seduto a qualche passo di distanza, intento a godersi la vittoria - Hanno la pelle liscia come quella dei maiali - mi risponde lui, e scoppiamo in una fragorosa risata.

Mi alzo e mi spingo sulla piccola altura che si erge alle spalle del mio compagno d'armi, per godermi lo spettacolo. Un'oceano di corvi fa da volta alla piana del Morannon. Devono essere visibili per almeno venti miglia. Un brulicare di miei simili, di uomini dell'est e di altre creature nostre alleate offre uno scrosciante sottofondo alla visione su cui mi ergo. Siamo finalmente liberi.

Faccio un cenno ai sopravvissuti del mio clan, non più di una cinquantina di orchi dei Monti Nebbiosi che hanno servito per lungo tempo l'Unico. Mi si fanno tutti attorno appesantiti dai cimeli qua e là raccolti, meritati frutti del bottino di guerra. Il mio parente più giovane veste l'elmo di un nano. Non credevo neanche ve ne fossero. Poco importa.

Alzo la mazza ferrata sopra la testa, qualche goccia di sangue mi cade sulle spalle. Gli altri mi si fanno vicino, portando a loro volta le armi al petto, in un rituale quasi ancestrale. Abbiamo marciato sotto il vessillo dell'Unico in guerra. Una battaglia si chiude e una nuova si apre. Dobbiamo guadagnarci una casa, una terra, un Regno.

- Fratelli! Il nostro tempo è giunto!

La mia voce riecheggia nella selva di lance e teste ferrate che nascondono sottili occhi di jena severi ed attenti. Si alza un urlo e il clan intona un antico inno di guerra. Passo il palmo della mano su uno spuntone della mazza e lascio cadere il liquido nero che mi scorre nelle vene in terra. Uno dopo l'altro tutti i guerrieri ripetono il gesto. Il patto è siglato. Noi ultimi di questa Terra ci riprenderemo ciò che per troppo tempo c'è stato tolto.

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Capitolo 3
*** Giorno quattro, Minas Tirith ***


Giorno quattro, Minas Tirith

E’ notte e sono fermo al margine dell’incrocio di due strette viuzze del primo livello di Minas Tirith, una bianca città incastonata lungo il margine di due mondi in eterna lotta tra loro. Il freddo pungente mi si insinua tra le fessure della cappa il cui bavero cerco di mantenere alto nel tentativo di opporvi una flebile resistenza, mentre con lo sguardo accompagno le sagome di un gruppetto di guardie al di là di un edificio non troppo distante. E’ tardi. Ma per qualcuno è presto, abbastanza almeno per cominciare a lavorare, come per la taverna alle mie spalle, le cui porte di legno fradicio si aprono e si chiudono con lenti movimenti meccanici al passaggio degli avventori notturni. Non ho il tempo di voltarmi che il calore del posto mi ha già proiettato al suo interno. Un paio di addetti alla ristrutturazione delle mura sono appoggiati al bancone, intenti a godersi a piccoli sorsi uno dei pochi, sudati, piaceri della loro giornata. Mi soffermo a studiarne i volti scavati dalla fatica scandire profonde risate ad un ritmo costante e penso, mentre mi siedo schivo ad un tavolo, che solitamente le brevi felicità fanno da intermezzo ad estese sofferenze. «Il suo vino» irrompe con un vivace sorriso la cameriera. Abbozzo un’espressione allegra, cercando di liberarmi di quel velo di amarezza che mi stringe il petto «Grazie» rispondo incrociandone lo sguardo. E’ bella come solo una donna può esserlo. E sono dello stato d’animo giusto per potermi innamorare. Mi accade spesso. Di innamorarmi, s’intende. Forse a quel grazie dovrei aggiungere qualcosa, eppure quell’impulso mi muore in gola poco prima che possa trasformarsi in suono. A lei non resta altro che rompere quel contatto con la stessa naturalezza con la quale vado a recuperare una manciata di tabacco dal pacchetto infilato tra le pieghe del soprabito. Socchiudo gli occhi e cerco di rievocare i lineamenti del viso appena fuggito, ma un frammento di carta scivolatomi dalla tasca attira la mia attenzione. A che bicchiere sono? Ho smesso di contare al quinto. Sul foglietto scorgo un indirizzo annotato in una calligrafia illeggibile per molti, ma non per me. È la mia. Sospiro, rificcando quella testimonianza della mia vita diurna là da dove era spuntata. Quando la conferma della disfatta del nostro esercito è infine giunta, abbiamo abbandonato Cair Andros in tutta fretta e ci siamo ritirati nella capitale. Almeno gli uomini saranno al fianco dei loro cari quando l'ombra si abbatterà su di noi. Un leggero formicolio alle gambe mi informa che è giunto il momento di alzarmi e di concedere una breve pausa al fegato ormai duramente provato. Ripasso dall’ingresso per pagare quanto dovuto e lascio scorrere sulla lignea superficie un paio di monete, coprendo con un lembo di stoffa il petto sul quale vesto l'armatura della guardia della cittadella. Ma sono distratto. È già tanto se mi reggo in piedi. L’occhio dell’uomo di mezza età alle spalle del bancone intravede il metallo e l'albero stilizzato su di esso forgiato, capisce, alza lo sguardo «Offre la casa!» esclama poi, accendendosi in viso di un sorriso reverenziale. Non ho la forza di replicare, ringrazio con un debole cenno della testa e sono fuori, tra le vie di Minas Tirith.

Sono le cinque del mattino e nel camminare la mia ombra si getta avanti ai miei piedi ironicamente maestosa, disegnata dalla pallida luce che prova a sorgermi alle spalle. Un uomo di una certa età costeggia la strada senza meta, invisibile anche nell'ora in cui vagano gli invisibili «Hai dell'erba pipa?» domanda, e così gliene porgo una generosa manciata prima che possa salutarmi con un tono talmente sereno da lasciarmi interdetto. Il respiro mi si smorza nel petto «Buona giornata» rispondo e se solo ne fossi ancora in grado piangerei. Grigi edifici residenziali fanno da parete alla via che percorro, identica a decine di altre che si diramano su per tutta la superficie della città. Questa zona mi è quasi del tutto sconosciuta. Vorrei che l'alcol mi aiutasse a cancellare il ricordo del motivo per il quale sono qui. Ma non posso. Ripesco con due dita il fogliettino e ne rileggo l'indirizzo appuntatovi. Alzo poi lo sguardo confrontandolo con l'anonimo ingresso che mi si para difronte. Mi ci accosto con passo deciso e punto lo sguardo sulla porta di legno rozzamente intagliata sulla quale lascio stancamente abbattere il mio pugno rigidamente serrato.

«Sono il Capitano Thun, aprite!»

Avverto lo sferragliare del chiavistello al di là della porta. Il contorno di un soldato in armatura alto un palmo più di me lascia scorrere l'anta quel tanto da permettergli di gettare uno sguardo su di me e sulla strada.

«Capitano, finalmente è arrivato»

Mi infilo nello spiraglio e sono dentro una catapecchia costituita da un paio di stanzoni. Lungo le pareti, sedute su alcune sedie, vi sono una decina di prostitute di età e costituzione estremamente diverse. Un paio di soldati, oltre a quello di guardia all'ingresso, tengono d'occhio la situazione. Attraverso il varco che mi separa dalla seconda sala, decisamente più spaziosa della prima. L'aria è carica di un odore di incenso e candele talmente intenso da paralizzarmi per un istante. Stoffe di fattura orientale consumate dal tempo e annerite dai fumi penzolano dal soffitto a separare i giacigli sui quali si consuma l'amore a pagamento. Il silenzio sarebbe assoluto se non riecheggiassero in un eco lontano le voci delle donne nella sala d'ingresso. Un cadavere mi attende nella terza alcova. Le vene dei polsi sono recise ed il sangue copiosamente versato, raccolto in due tinozze. Il volto dell'uomo è contratto in una smorfia non di dolore, ma di un terrore antico e profondo. Mi porto una mano al viso e faccio qualche passo indietro. Senza rendermene conto sono ritornato nella prima sala, dove niente sembra essere cambiato.

«Seppellite il cadavere e non fatene parola con anima viva. Se si dovesse venire a sapere che il Reggente si è tolto la vita, la città cadrebbe nel panico più di quanto già non sia»

Sono le uniche parole che riesco a sussurrare alla guardia alla porta prima di uscire nella stradina dove già s'affacciano timidamente le prime luci dell'alba di un nuovo giorno.

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