Grey Hearts

di rosso rubino
(/viewuser.php?uid=802483)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Prologo



 
"Senza il buio le stelle non possono brillare"
(Tumblr)




Sono seduti attorno al fuoco, tutti stretti, per ricevere un po' di calore, per sentirsi protetti. Si nascondono, dalla verità, da qualsiasi altra cosa che possa rivelare loro quell'abominio. Ma sono consapevoli che ormai nessuno è più al sicuro. Le fiamme del piccolo focolare si protendono verso la notte scura, fino a rilasciare qualche scintilla. Illumina i visi terrorizzati dei presenti.
 Ecco ciò che rimane dell'umanità, solo il fuoco, come all'origine.
Una figura alta e spiccata si alza, ben differenziata dal gruppetto pallido. E' l'unico con i nervi ancora saldi. Si incammina con passo deciso verso il punto in cui il semicerchio finisce. Il suo viso viene immediatamente illuminato dalla luce del piccolo focolare. La su carnagione è scura, del colore del carbone allo stato nativo, i suoi occhi anch'essi scuri. Ha un paio di grosse borse sotto gli occhi, che tuttavia non riescono a nascondere la sua frustrazione.
-Signori, signore- dice chinando il capo- siamo riusciti a fuggire. Per qualche  strano scherzo del destino, siamo sopravvissuti. I sopravvissuti. Ma non tutti sono stati fortunati quanto noi. Non sappiamo quanti uomini ci siano là fuori. Non sappiamo se sono milioni, mille oppure centinaia o poche decine le persone che respirano ancora.  E noi dobbiamo accettarlo. E' l'uomo che si è creato la strada verso la distruzione di sé stesso e l'uomo dovrà ripagare per il danno commesso. So che siete disperati. Oggi abbiamo perso quasi tutto: parenti, amici, figli, casa e un tetto...- pensa bene di non aggiungere altro, avrebbe solo peggiorato la situazione- Ma non tutto. Abbiamo ancora noi tessi e un'unica speranza. Non so se esiste lassù un dio o se invece non esiste affatto. Chiedete asilo pure a chi volete. Ma non servirà a niente: noi dobbiamo reagire. Stare chinati e scongiurare, senza fare niente vuol dire morte certa.  E anche se può sembrare inaccettabile, un'altra minaccia incombe su di noi. Una minaccia anche peggiore della guerra, di qualsiasi altro incubo che possiate immaginare-. Il suo tono si spegne pian piano.- Sapete di cosa sto parlando. Domani, qualcuno di noi potrebbe morire, come è possibile che muoiano tutti o nessuno. Ma il nostro compito non è rimanere vivi per comodità, o per un lusso che non possiamo permetterci. Noi dobbiamo portare l'umanità alla salvezza! Non so se comprendete appieno il significato ma...è come se fossimo stati scelti per...ricominciare. Possiamo costruire una nuova vita, mattone per mattone. E possiamo insegnare ai nostri figli  non commettere gli errori del passato. In oltre...-
-Scusa, signor tante parole, e dove ne traiamo vantaggio NOI?
-Be', ecco- inizia a balbettare. Non si era preparato ad una simile domanda.
-Tanto prima o poi moriremo tutti, comunque vadano le cose, no?- .La piccola folla annuisce accennando convinta con il capo e rivolgendo sguardi insaziabili all'uomo che fino a quel momento aveva parlato.
Un piccola donna, bassa e robusta si alza. -E ormai abbiamo perso tutto. Come possiamo convivere con il rimorso dei nostri stessi errori? Come possiamo dimenticare il passato pensando in ogni maledettissimo giorno che si soffre ancora?
-Uomo, stai sognando. Ma il tuo sogno non è raggiungibile. Io propongo di dividerci e, dato che prima o poi tutti moriremo, di fare ciò che ci pare, almeno per una volta-.
L'atmosfera esplode. Tutti si mettono a parlare, l'uno sopra l'altro, ad azzuffarsi, ad urlare. Regna il caos più totale. Il povero uomo che prima aveva avuto tanta fiducia nell'umanità era rimasto indignato. Inizia a pensare alla stupidità, all'ignoranza, all'egoismo degli esseri umani. E si accorge che con c'è futuro.
Urla uno, due, tre volte.
Dopo non aver ricevuto alcuna risposta, corre veloce verso il bosco. Forse il ragazzo e la donna avevano ragione. Chi ha più voglia di credere in qualcosa di migliore dopo che la propria vita procede sempre peggio? E' da stupidi. Ma il suo cervello gli ordina solo una cosa: correre. Non sa il perché. Per scappare, da ogni scelta, da ogni problema. Non era mai fuggito. Aveva sempre abbattuto ogni muro, superato ogni ostacolo. Non si era mai sottratto davanti ad un difficoltà. Ma ora i tempi sono cambiati. E niente ha un senso logico. Quindi corre. Corre, corre, corre fino a non avere più fiato, fino a quando il senso asfissiante del soffocamento non gli travolge i polmoni, fino a quando non crolla a terra, sfinito. Perde il senso del tempo,  e gli si paralizzano le gambe.
Che senso ha continuare se il destino è sempre lo stesso?
Gli passano davanti le immagini di tutta la sua vita e gli risultano così terribilmente strazianti. E quei ricordi bruciano e ardono nel suo cuore supplicante e gli procurano un dolore lacerante. Un'intera esistenza buttata via...Tutto l'impegno di una vita a che era servito? Solo per renderlo più consapevole di cosa stava realmente accadendo e a farlo soffrire di più. Sente il suo nome, che riecheggia all'infinito ripetuto da un coro di voci. Ecco, la pazzia è un buon modo per sottrarsi dalla realtà.
Ma le voci si avvicinano e chiamano il suo nome, chiamano il suo nome.
Così, l'uomo di colore si ritrova ad urlare, un urlo non umano, ma simile al verso di una belva ferita. Una mano calda gli accarezza il viso.
-Piccolo uomo, noi siamo con te- sussurra la voce. Con una calma così accentuata, con una dolcezza così sincera e spontanea. Apre gli occhi e si accorge di aver pianto. La luce del giorno quasi lo acceca, eppure risulta talmente piacevole, nel suo piccolo. Con l'aiuto di un paio di persone si alza. Davanti ai suoi occhi si parano circa una dozzina di persone fra uomini, donne e bambini. Ma hanno negli occhi qualcosa di più rispetto alla serata prima. Che non sono i bolli procurati, né i capillari sconquassati.
Dentro vi brilla una luce, simile alla speranza.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


 
Capitolo 1



 

Tutto il grigio, tutto il grigio che c'è non ci stupisce più di tanto perché  abbiamo grigie mani e grigio cuore, ma specialmente abbiamo, abbiamo un grigio dolore.  

(Mina, Grigio)

 Grigio bianco nero. Nero grigio bianco. Bianco nero grigio. Apro i miei occhi stanchi  e osservo questo cupo mondo. Allora è vero, non è un incubo. L’aria ha il solito odore di edificio poco curato, con le croste sui muri e alcune crepe spaventose. Ma ormai nulla mi spaventa. Ho imparato a convivere con il terrore. Il soffitto è di un colore così bianco che mi viene la nausea e per un momento credo che possa venirmi addosso. Mi lascio andare sul letto e mi copro il viso con il cuscino. Ecco, ora è buio e non devo risolvere la faccenda dei colori. Oggi è il Giorno della memoria, il decimo giorno dei Venti, e devo andare in quel maledetto Riformatorio. Un’altra giornata noiosa. “Fatti coraggio, tra diciotto ore sarà di nuovo notte…” mi dico. Poi mi metto a ridere, isterica. Sì, certo, cosa vuoi che siano diciotto ore? Indosso la tunica anni 2103, gli abiti cuciti per la Quarta Guerra Mondiale. Durante la terza, ci siamo così indeboliti per l'eccessiva potenza delle armi, che abbiamo dovuto combattere con accette e spade arrugginite. La situazione si era fatta instabile: la scarsità dell'acqua e del cibo, l'effetto serra, le piogge acide e la mancanza di materie prime, spinsero tutti i Paesi a bruciare ogni convenzione e a tentare di acquisire quel poco in più che avrebbe permesso alla propria razza di sopravvivere momentaneamente. Ci furono miliardi di vittime. Quelli che sopravvissero al massacro, al bagno di sangue, morirono molto presto. A causa di epidemie, di scontri con altri uomini che proteggevano il proprio bottino. Per cinquant'anni si andò avanti in questo modo cruento, successivamente si instaurò il sistema della Cupole. Alcuni dicono che siamo al sicuro. Ma la verità è una sola: per la protezione dobbiamo lasciare tutto ciò che possediamo, tutto ciò che amiamo di più al mondo. Sto per prendere la mia pillola quando realizzo che non la voglio e la butto per terra, come segno di protesta.  Prendo il biglietto che trovo nel cassetto, anche lui bianco. Ogni volta che dobbiamo uscire dalla porta, ci lasciano questo biglietto. Naturalmente ce lo inviano nell’esatto momento in cui possiamo uscire, altrimenti potremmo fuggire. “Labor vita est”, la nuova parola d’ordine.  I Controllori  sigillano le porte delle nostre celle ad una certa ora, quando sono sicuri che siamo rinchiusi dentro, per sottoporci ad uno scanner che prova la nostra identità. Digito lentamente il codice. Poi mi blocco a metà perché mi fulmina un’idea: potrei buttarlo, dire che l’ho perso e stare nella mia cella. E’ un’idea assurda, me ne rendo conto, gli Educatori non mi crederebbero mai e forse dovrei solo lavorare di più. No, grazie. Ho già molte cose da sbrigare. Mi accorgo con orrore che ho pensato due volte agli Educatori questa mattina. Tre. Sono gli esseri più spregevoli della Thòlos, la cupola sotto cui viviamo. Non fanno altro che dire “La vostra città vi ama e vi protegge”, chiamatela città! Sospiro. Chissà cosa c’è là fuori? Ma c’è ancora un fuori? Mi viene voglia di scappare, di abbattere l’acciaio arrugginito che ci tiene rinchiusi qua dentro. So che la mia rabbia è decisamente più forte del ferro che tiene in piedi la cupola. Ma nel mio piccolo, le porte le ho già sfondate. Un brivido mi percorre la schiena. Questo è un atteggiamento da ribelle. E ai Guardiani non piacciono i ribelli, soprattutto se hanno sedici anni.  Raccolgo più energia e digito lentamente e timorosamente il codice. La porta si apre di scatto e io sobbalzo, nonostante siano passati circa otto anni da quando sono arrivata qui. Otto lunghi anni. Basta pensare! Maledizione, prima cominci questa giornata, prima la finisci! Mi incammino con gli occhi bassi verso la via. Il cemento è sporco, coperto di sangue e fango grigio. Mi percorre un brivido sulla schiena. Ieri c'è stata una carneficina. Io li ho visti. Io li conoscevo. Io non ho mosso un dito per aiutarli. Il senso di colpa mi pervade e so che non mi abbandonerà mai più. Resterà sempre nei recessi della mia memoria. Mi tormenterà per sempre negli incubi. In questo momento non posso che formulare un solo, lacerante, struggente pensiero: ho ucciso due persone amiche. Sento gli occhi bruciare e nel giro di qualche secondo vedo tutto appannato. Le lacrime sgorgano, cadono e i mi arrendo alla disperazione, non posso resisterle, è troppo forte. Sento un rumore, come uno scricchiolio alle mie spalle ma non mi giro. So benissimo chi si trova dietro di me.
-Ehi, buongiorno, D329!-Mi nascondo dietro l'angolo da cui ho sentito la voce. Subito due mani ferme e forti mi cingono i fianchi. Due labbra si posano sulla mia fronte. Io mi appoggio a lui e piango, piango come una bambina fino a quando non mi viene la nausea, fino al momento in cui le lacrime si fermano. Intanto mi accarezza la testa quasi senza capelli.
-Lo so, lo so. Scusa,  Hope…
-E' tutta colpa mia!- singhiozzo mentre sprofondo la testa fra un'incavatura del suo collo. Volevo fare la ragazza forte, quella che non teme nulla, ma il massimo che riesco a fare è piagnucolare copiosamente. E mi sento debole. Terribilmente debole. Dipendente dalle sue braccia.
-Questo non è vero- mi sussurra dolcemente all'orecchio. Ma in fondo lo sa anche lui, io non ho reagito mentre loro venivano mutilati, calpestati e torturati, sono rimasta immobile, con gli occhi vuoti e lo sguardo torvo mentre urlavano. Loro mi guardavano supplicanti, come se mi volessero chiedere aiuto. L'ho capito dai loro volti straziati, dal sangue bianco che fluiva e si spargeva sul terriccio.  I loro occhi, erano piccole fessure straziate e supplicanti. Che si fidavano di me. E io li avevo spudoratamente traditi. E non me lo perdonerò mai. Poi le urla sono cessate, così come erano cominciate. Così il mondo aveva avuto due persone buone in meno.                
Annuisco con il capo.
-Hai solo reagito come avrebbe fatto chiunque-

Chiunque? Crede forse che io sia come gli altri? Dopo tutto questo tempo lui mi giudica come se fossi una qualunquista. Una serva di chi sa cosa.
-Lo sai che non sono come gli altri- ribatto acida. Giro i tacchi e, con il mento alto e la schiena dritta mi dirigo per la mia strada. Sento i mio nome ripetuto uno, due, tre volte e poi il silenzio. Non può ferire il mio orgoglio così, con una frase. Non glielo posso permettere.
Charles.
Annie.
Li ho convinti io con la mia stupida e inutile teoria a lottare per essere liberi, per respirare affinché le generazioni future potessero vivere nel Mondo-di-fuori. Era stato il mio egoismo la loro distruzione. In questo modo mi era rimasto solo K321, il mio migliore (e ormai unico) amico. Che ha cercato di consolarmi e l'ho respinto. Caspita, le combini sempre giuste, Hope.
In teoria non si potrebbero stringere amicizie ma chi se ne importa? Oramai nulla ha più senso. Sembra che il destino scriva due parole messe a casaccio per la vita di una persona. Se facciamo finta di non conoscerci anche quando qualcuno ci guarda il gioco è fatto. Will ha diciott'anni. E' alto, robusto e forte. E' l'unica persona di cui mi posso fidare ciecamente. Appena svezzata non avevo la più pallida idea di come fare per sopravvivere. Lui è stato come il fratello che non ho mai avuto. E, forse, anche di più. Mi asciugo le lacrime. Cammino lentamente e a distanza da Will per non destare sospetti. Non sarebbe carino nei miei confronti andare a sbavargli dietro... E, comunque, non ho più voglia di parlargli. Almeno per le prossime due settimane. Altri ragazzi camminano attorno a noi, ma non ci guardiamo negli occhi. Non possiamo, d'altronde. E’ incredibile quanto le persone, seppur così vicine, siano anche così distanti.
 Ci sono anche bambini piccoli, cadaverici, che camminano timorosi. Non possono avere più di otto o nove anni. Alcuni sono appena arrivati. Non sono pronti. Non ce la possono fare, sono troppo innocenti. E chi è debole non sopravvive. Questa è la regola della vita.
  Entriamo nell'edificio grigio-malattia che si scaglia come una minaccia inevitabile. Poi un gruppetto di noi si dirige verso le proprie aule. Io verso la stanza del corso quattro. I corridoi sembrano infiniti, i muri stretti e soffocanti. Entro e mi siedo al solito posto, ben lontano dagli altri. Una donna di mezz'età, bassa, magra e dall'aria smunta incombe su di noi come un'ombra. -Oggi parleremo dell'organizzazione della Thòlos-  che novità! -La nostra cupola è divisa in cinque diversi ambienti: la cittadina, la produzione, l'apprendimento, il dormitorio e la politica. Nella cittadina vivono le persone adulte tra i diciotto e i trent'anni. Vivono a coppie: un uomo e una donna. Con loro ci sono anche i genitori che...- . La mia testa diventa pesante. Il cuore mi balza in gola. La stanza inizia a perdere lucentezza e si trasforma in tenebre.
 Una scena un po' sfocata inizia a diventare più limpida e chiara. Una cella simile alla mia si presenta davanti ai miei occhi. Una bambina esile e magra è sdraiata su un lettino molto piccolo. I suoi lunghi cappelli argentati sono distribuiti a ciocche sul cuscino. Non è la bambina più bella che abbia mai visto: ma ha un qualcosa di diverso. Eppure ha quegli occhi così luccicanti e lo sguardo così fiero...  e accanto a lei c'è... mia nonna... Non capisco la causa di quel pensiero, neanche ricordo di aver avuto una famiglia. Ho forse lo sapevo ma non volevo ammetterlo. I suoi capelli raccolti in una crocchia splendono di luce propria. Le rughe le scavano il viso. Sembra triste.
-Ciao, Hope.- mi dice con una tenerezza che non udivo ormai da tempo.

-Ciao-
-Oggi è un giorno speciale.-
Quando vede la piccola me insicura assume un sorriso.
-Oggi compi otto anni!- esclama esasperata, ma non dopo una risata. La bimba urla contenta, battendo le mani tre volte.
Ho un regalo per te, Hope . Non trascurarlo, custodiscilo come il tuo più prezioso tesoro. Ora mi sembra arrivata l'ora di rivelarti la verità. Ti ricordi di tutte le storie che ti ho raccontato? Bene, sono racconti inventati, ma hanno sempre un fondo di verità, si ispirano a fatti reali. Comprendi ciò che sto per dirti, piccola mia? Tu hai un grande futuro. L'ho capito fin dal momento in cui hai aperto i tuoi occhi per la prima volta e non erano grigi e cupi, come quelli degli altri bambini, i tuoi erano accesi di speranza. Sei come tua madre, anche lei era speciale e ha lottato per un futuro migliore. Ma lei non è riuscita a completare il suo compito. Tu lo porterai avanti, me lo prometti?
Una fievole voce esce dalla bocca della piccola: -Te lo prometto.

-Brava, bambina. Ora ascoltami bene. Non abbiamo molto tempo a disposizione. Qualche giorno fa stavo osservando il perimetro della Thòlos e ho scoperto un'ammaccatura con alcuni fori. E ho rivisto il Mondo-di-fuori.-
Mentre recita l'ultima parola, il suo sguardo si incupisce, le rughe si scavano ancora di più, rendendola ancora più vecchia. Ma non fuori, dentro.

 -Piccola mia, non ti spaventare quando vedi qualcosa di brutto. Non tutto è come sembra. Ti ricordi cosa vuol dire la parola “Hope”?
-Speranza, nonna.
Lei annuisce.- Non smettere mai di credere in te. E in tutto quello che ti circonda. Lotta per la libertà. Poi si sentono tre battiti sul metallo, forti e potenti che risuonano come boati tra la cella. Entrano quattro figure incappucciate che la prendono per le braccia. L'anziana si guarda attorno con sguardo assente. Chiude gli occhi. All'improvviso, il mio cuore inizia a battere all'impazzata, a galoppare nella mia gabbia toracica.
-Devo andare-  si giustifica.
-Dove, nonna?
-In un posto migliore, Hope.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Il ricordo avrebbe dovuto riempire il tempo, ma rendeva il tempo un buco da riempire.

(Jonathan Safran Foer)
 
 Mi sveglio urlando parole insensate. Mi accorgo che ho la fronte imperlata di sudore e il respiro affannato. Una figura sfocata siede accanto a me, pallida come la morte.
-C-cosa è successo? D-dove...- balbetto, ma sono costretta a fermarmi per riprendere aria. La figura inclina il capo pelato, incuriosita. Piano piano la vista torna buona e anche l'udito. La ''Figura'' è un uomo, con un camice bianco. Un Guaritore. I suoi occhi scuri mi studiano e poi incontrano il mio sguardo perso. Infine corruga la fronte e con durezza domanda:-Niente pastiglia oggi?-. La sua voce  è inflessibile, il suo viso rilassato. Mostra un contegno mostruoso.
-Hai rischiato di morire- dice come infastidito dalla mia presenza. Ma quel tono non è causato dal fastidio ma è più...un accento.

-Ti lamentavi nel sonno. Ora dimmi- mi ordina fissandomi dritto negli occhi- hai visto qualcosa di strano durante la tua apnea?All'improvviso vorrei essere così piccola e insignificante e scappare da quello sguardo imperturbabile, terribile, spaventoso. Avrei voluto non essere mai esistita. D'istinto, mi alzo di scatto. Sento un dolore straziante alla schiena e la morfina che viene iniettata nel sangue e poi sprofondo nuovamente nell'oblio.
Quando riapro gli occhi, la figura è in piedi davanti a me e mi fissa, impassibile. Con l'ultimo gesto ho solo peggiorato la mia situazione. Perché chi fugge ha paura di mostrare qualcosa. L'unica soluzione al mio problema è fingere di essere stupida, ma talmente stupida da aver dimenticato di prendere la pastiglia. Forse può funzionare. Ma per riuscire nel mio intento devo credere di avere il cervello più arretrato rispetto a quello degli altri. E non sarà un compito facile. Dovrò abbandonare il mio orgoglio, mettere da parte la mia dolcezza andata a male e trasformarmi in qualcuno che è l'opposto di me. Ma come?
- Allora, hai qualcosa di interessante da dirci?
 Sei stupida, ignorante, innocua, incosciente. Inizio a studiare la stanza con lo sguardo e tocco gli oggetti sul tavolino fianco a me, ridacchiando. Avverto una lametta di metallo e il mio cuore si ferma per un attimo.
-No, non toccare.- dice innervosito. Si avvicina a me innervosito mi strappa di mano un oggetto di plastica. Ma la lametta ce l'ho ancora io, nascosta fra le dita. Mi trattengo dal sorridere, finalmente trionfante. Forse ho ancora qualche possibilità. La lametta non taglierebbe mai il metello della Thòlos. Ma la carne umana sì.
 Sei stupida, ignorante, innocua, incosciente. Assumo un'espressione triste, quasi supplicante.
 -Vogliamo solo aiutarti-dice. Ma dal tono gelido si capisce perfettamente che sta mentendo          spudoratamente. Ma lo stesso gioco si può fare in due.
 Sei stupida, ignorante, innocua, incosciente.
-Io...Io mi sono dimenticata di...io non volevo...- dico con aria innocente. Penso a tutte le cose brutte che mi erano successe. Penso alla mia difficoltosa infanzia, penso a Annie e a Charles, penso a Will, a come sarebbe andato avanti senza di me. Mi avrebbe dimenticata. Non sarei stata che un ricordo. Questi pensieri mi provocano tanta tristezza da farmi piangere disperatamente, il che non guasta affatto. Il Guaritore rimane scosso da quella reazione inaspettata. Spero che mi dimetta. Non ho più trucchetti da mostrare al mio amicone. Si leva in fretta e furia i guanti di silicone, li getta a terra e si precipita fuori dalla stanza. Sfilo la lametta dalle dita e cerco un buco nella mia tunica, una tasca o qualsiasi altra sistemazione. Trovo un'apertura nell'orlo strappato. Non posso che sospirare.
Per oggi ne ho abbastanza.
E sprofondo nuovamente nel dolce mondo dei sogni.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
Non possiamo tornare indietro. Ecco perché è così difficile scegliere. Dobbiamo fare la scelta giusta. Finché non si sceglie, tutto resta possibile. (Mr. Nobody)
 
Quando mi sveglio non capisco bene se sto ancora sognando o se sono sveglia. Ma non è come tempo fa, che aprivo gli occhi di malavoglia. Oggi ho finalmente una via d'uscita. Cerco fra l'orlo della tunica e vi trovo una striscia tagliente e robusta. Mi metto a ridere. Eh già, una via.
Ma il pessimismo arriva così come se n'è andato. Perché ho rischiato, anche fin troppo. Per una pastiglia “dimenticata” possono chiudere un occhio. Ma se mi trovano con la lama, è finita. Per sempre. Mi giustizierebbero pubblicamente e la mia sarebbe una morte lenta e dolorosa. Mi vengono i brividi solo a pensarci. La tortura è una tortura che non posso sopportare. E neanche lasciare Will da solo, lui ha solo me.
Diciamo che non ho in programma di morire.
Ma ecco che mi ritrovo davanti al dilemma più grande del mondo: Pastiglia o non pastiglia?
Ragiona. Se ingoio quella sottospecie di anestetico finisce che divento un cucciolo docile e rischio di dimenticare tutto. Se invece la sottospecie di anestetico finisce sul pavimento, be' a questo punto sarebbe peggio: un'altra reazione e mi beccano sul serio...Dunque, meglio ingoiare la sottospecie di anestetico! Mi sento orgogliosa, ambiziosa, se vogliamo, come se fossi un genio pronto a sfoderare le sue nuove scoperte. La pillola, nonostante il suo pessimo gusto e l'amaro che rilascia in bocca, sembra quasi una cura. Inizio a sorridere, a canticchiare e perfino a saltare.
E il genio diventa improvvisamente il cucciolo docile. Dopo una risata idiota comincio a ripetere: Chi vincerà?
Giro su me stessa come una trottola impazzita.
-Il mondo gira gira!
I colori si fondono, diventando macchie.
-Il mondo gira gira!
La testa si appesantisce.
-Il mondo gira gira!
Cado per terra, con un tonfo pauroso. E il dolore alla gamba mi porta alla cruda realtà: devo ragionare. Non posso permettere che mi facciano rimbecillire completamente. Mi alzo, appoggiando il braccio sulla coscia. E ci manca poco che non pianti un urlo. Alzando il lembo inferiore della tunica vedo una chiazza scura che ricopre circa un pugno della gamba. Il livido pulsa e brucia. Sento tutto quello che c'è soffrire, dall'osso al muscolo. Contraggo il viso in una smorfia di dolore.
E ora?
Aggrappandomi al muro, in modo goffo e accidentato, mi alzo in posizione eretta e quasi cado nuovamente sul pavimento. Mi scappa un lamento. Provo a zoppicare, a saltellare da un lato della stanza all'altro ma è tutto inutile. Ogni volta vado a sbattere contro una parete o torno con il sedere a terra e mi tocca strisciare e tornare ad appoggiarmi. Ma non è finita: appena torno a provare ad assumere un atteggiamento disinvolto mentre cammino, mi trema la gamba e i muscoli cedono. Bel casino. Ora non c'è via di scampo.
Dopo non saprei dire quanto riesco almeno a camminare con un'approssimata grazia. Zoppico, ma almeno cammino. Aspetto che l'apertura nel muro mi dia la nuova parola d'ordine, come tutti i giorni. Così digito le lettere nell'ordine in cui appaiono e la porta si apre. Esco, sforzandomi al massimo di non mostrarmi troppo debole. Così, imboccando la strada a destra, girando a sinistra e proseguendo per un centinaio di metri, arrivo a destinazione. La serra è completamente composta da strani frutti bianchi, lucidi, rotondi, perfetti. Ad un muro sono appoggiati cesti. Probabilmente li ha costruiti qualche altro schiavo come me, penso. Non probabilmente, sicuramente. Così cerco quello che mi sembra più resistente e comincio a raccogliere. La tentazione che ho nel vedere quegli splendidi frutti è immediata. Sono talmente perfetti, emanano una tale luce. Ne stacco uno dal ramo ruvido, nodoso, poi distolgo lo sguardo e lo butto nel cesto. Non posso permettermi certi lussi.
La giornata continua noiosa: stacco i frutti, li ripongo in un cestino, stacco frutti, li ripongo nel cestino, stacco frutti e li ripongo nel cestino. Intanto vedo passare davanti a me altre persone, affaticate, distrutte. Ma non solo all'esterno, ma più internamente. I loro occhi sono vuoti, gli zigomi ricoperti da una patina di sudore e di fango. Alcuni hanno addirittura grossi tagli sulle mani.  E tra di loro vi sono anche bambini, molto piccoli, troppo innocenti. E mi sento terribilmente in colpa, perché ho pensato solamente alla salvezza mia e di Will. E tutti gli altri? Tutti quei ragazzi che ogni giorno si spezzano la schiena in due per vivere, ognuno di loro che farà?                                
Se me ne vado io, loro tutti vengono con me. Ma il vero problema è: dove troviamo le provviste. Dove ci accampiamo, dove andiamo, come sopravviviamo.                                                                  
 Ma soprattutto, come scapperemo. Finché siamo in due è un conto ma l'intera abitazione della Thòlos è un numero troppo elevato.                                                                                                        
 Non potrò portarmi tutti. Osservo tutte quella povere persone, come possono continuare? Come posso scegliere il destino di ognuno?
 -Ehi, tu! Lavora, lurido verme!- Mi giro di scatto e tutte le mie certezze finiscono per terra. Ora devo affrontare un problema più grande. Mi si paralizza ogni cosa: dalle gambe, al busto, alle braccia. Perfino la testa non ragiona più. E il mio cervello non ha che un unico pensiero: il vuoto più completo. L'uomo agita tre volte su di se la frusta sulla propria testa. Poi la scaglia contro di me. Tento di schivare ma la gamba ferita cede e io cado a terra completamente inerme. La stringa arriva poco dopo con un dolore lacerante alla scapola. Scostandomi appena le maniche vedo una ferita profonda, scurissima. La carne lacerata assume un colore rosso scuro e l’odore del ferro mi penetra fino ai polmoni. Alla sola vista mi viene la nausea e vomito, con la percezione dell'acido che mi rimane in bocca. L'uomo assume un'espressione divertita e comincia a ridere di gusto, un gusto pieno d'odio. La sua risata mi incute paura, e mi fa tremare e piangere. Pian piano si avvicina a me, si china in ginocchio e inclina la testa guardandomi fitto. Ispeziona il mio corpo.
-Sai, sei proprio carina- dice con un cenno del capo. Poi inizia a leccarsi le labbra nervosamente, non di certo un buon segno. Tutte le paure che avevo vissuto prima spariscono. Ma qualcosa di peggiore le rimpiazza. Inizia a delimitare i lineamenti del mio viso con le dita. Io me lo scrollo di dosso. Ma nulla da fare, lui mi stringe ancora più forte.
-No, ti prego, no- comincio a lamentarmi. Cerco di scappare da quella stretta così feroce ma non ci riesco. Rafforza la presa sul viso e lo gira verso di lui.-Eh già, proprio carina- mi sussurra alzando le sopracciglia come un modo di intesa. Tremo.Cerca di venirmi addosso. E sputo. Gli sputo in faccia un grumo misto di saliva e sangue che gli va a finire dritto nell'occhio destro. Una risata si alza dal gruppo. Il Guardiano fissa tutti con disprezzo. -Cosa avete da ridere? Lavorate, esseri sudici!-. Detto questo si alza in piedi e inizia a tirare frustate a destra e a manca, colpendo tutti quelli che gli capitano a tiro. Immediatamente i presenti chinano la testa e continuano a raccogliere come avevano sempre fatto. Alcuni sono a terra con ferite anche gravi, altri si lamentano, altri ancora non si muovono neanche. Infine il Guardiano si gira dal mio lato e comincia a sferrarmi calci nella pancia e sulle gambe. Dopo un urlo mi rannicchio, quasi incosciente e lo guardo con disprezzo. Lui sorride, soddisfatto. Adesso basta. Dopo qualche ora, o chissà, qualche minuto, una barella mi porta via dalla serra. Guarda il lato positivo, almeno non dovrai più lavorare per un po'. Ma dentro di me tremo. C'è mancato poco, continuo a ripetermi, c'è mancato poco.

Sento delle urla, ma fatico nel muovermi. Non mi importa di nulla, basta che mi lasciate sola con il dolore. Lasciatemi stare! Due mani tremanti mi afferrano.                                                                      Will.                                                                                                                                                            
Vedo i suoi occhi spaventati che mi fissano e vi trovo il sollievo.
-Stupido, vattene!- gli urlo in lacrime. Che prendano pure me, ma non lui. -Vattene via!
-Io non mi muovo da qui. Sono troppo coinvolto ormai.- E lo abbraccio, nonostante il mio corpo sia a pezzi. -Sei stupido-continuo ad urlargli-stupido!- tra singhiozzi e lacrime.
-No- sussurra- sono solo innamorato- E a quel punto mi bacia. Le sue labbra iniziano a premere sulle mie e le sue mani si posizionano proprio sotto la nuca. Chiudo gli occhi, forse per istinto, forse per non dover pensare.
Quella reazione è così inaspettata da parte mia che non so neanche cosa pensare. Tanta felicità miscelata alla paura e ad una strana sensazione che mi stringe lo stomaco fino a togliermi il respiro. Mi metto a singhiozzare, sempre più forte.
-Ti amo- mi dice. E io non so neanche cosa rispondergli. Non ho mai riflettuto su cosa ci fosse realmente fra me e lui. Se le cose cambiassero forse sarebbe tutto diverso. Se non fossimo costretti a lavorare come schiavi ogni giorno e restare segregati in celle, ogni giorno, sarebbe diverso.
Sento solo che sono tanto tanto felice quando gli sto accanto. So che mi posso fidare di lui. Ma non ho mai desiderato di più, non mi ero mai soffermata su quell'argomento. Io, che non so neanche cos'è l'amore. Lo guardo, terribilmente confusa. Non ho tempo. Non riesco a ragionare con tutta questa agitazione. Ma soprattutto non voglio rovinare la nostra amicizia che dura praticamente da sempre. Così gli rispondo: -Anche io ti amo.
Sento le sue labbra calde che premono sulle mie. Will, non posso dirtelo con certezza. Non ora. E' troppo difficile...sono troppo confusa...era questo che volevo dirgli. Gli avrei detto di aspettare, gli avrei promesso che avremmo avuto del tempo.
Ma noi non abbiamo tempo.
Nel migliore dei casi non ci saremmo mai più rivisti. Quindi, non voglio lasciargli di me solo confusione e incertezza. Voglio lasciargli qualcosa di bello da ricordare. Voglio lasciargli ogni attimo migliore della nostra vita.
-Ora vai!-
-Io non ti lascio-
-Vai, ho detto! Ti prometto che affronteremo questa cosa insieme. Will, se stai qui ci uccideranno di sicuro. Invece da sola posso difendermi meglio. Ce la faccio, sai che sono forte.
-Ci vediamo al solito posto! - urla dopo un'imprecazione. Non rispondo. Gli mentirei soltanto. -Promettilo! -
Dopo un'occhiata di sfuggita corre via. E lo guardo, per l'ultima volta. Osservo il corpo dell'uomo che ho davanti. Mi spezza il cuore. Osservo le sue spalle, le sue mani, le sue gambe. Lo imprimo bene nella mia mente. Lo seguo con lo sguardo finché non sparisce dalla mia visuale.       
Perché in fondo so che non lo rivedrò mai più.
-...Promesso...-.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Cammino. I miei piedi si slanciano in avanti, sempre di più, e proseguono sulla strada accidentata e ricoperta di ghiaia. E non penso altro che a camminare. Come potrei? Tutto attorno è di una luminosità accecante. Le celle si scagliano impetuose e minacciose sulle nostre teste e sembra che vadano man mano più in alto. Sono grigie, sporche, ricoperte di muffa e piene di crepe. Davanti e dietro di me, invece, c'è una squadra di Guardiani. Ma quanto tempo è passato? Cosa ho fatto? Dove stiamo andando? Man mano il cervello inizia a funzionare mi accorgo della cruda realtà e cioè che non mi aspetta nulla di buono. Quando mi è mai successo? La marcia della scorta è terribilmente regolare, noiosa. Le facce dei guardiani sono praticamente uguali l'una all'altra, tutte espressioni feroci e assetate di sangue. Ma la strada che stiamo percorrendo no, questa non l'ho mai seguita. E nemmeno Will. Porta da tutt'altra parte. Sarà la strada della morte, penso. Forse sono già nell'aldilà. Ma non posso che sorridere ad un simile pensiero. Dopo una vita di terrore non si può ricevere altro terrore. Sarebbe assurdo: una condanna inutile. Come per dire che tanto si soffre sempre e non si può cambiare nulla. Che non c'è scampo. Il mondo non è stato creato per incastrare le creature che vi vivono dentro. No, il mondo è nato sicuramente per qualcosa di bello. Deve per forza essere così. Entriamo in un edificio stretto e polveroso. Subito, giungiamo in una camera dove mi obbligano a sedermi e mi legano le mani e le caviglie al sedile con delle stringe. Non mi ribello neanche. Non so per quale motivo, ma qualcosa dentro di me lo impedisce. Mi sottrae ogni energia e ogni capacità che ho appreso. Non riesco nemmeno a ragionare. Mi svuota completamente. Una luce è proiettata su d me. Osservo inebetita la figura pallida davanti a me con la testa chinata. Inizio a sbavare.
-Ciao, D329. - ci manca solo lo strizzacervelli.
- Sono qui per aiutarti. Ultimamente hai protratto diversi ehm...comportamenti che non sono stati molto graditi. Me ne vorresti parlare? Un silenzio ininterrotto si espande in tutta la sala. -Cosa mi avete fatto?- dico a fatica, provando un dolore immenso ogni volta che pronuncio una sillaba.
-Non è importante. Ora...-
-Cosa mi avete fatto?- urlo- Cosa mi avete fatto!-. Una striscia di saliva cade a terra La strizzacervelli assume un'aria indispettita e, alzando il mento, orgogliosa, afferma:-E' solo l'effetto di una droga. Tra qualche ora passerà. Adesso, se non ti causa troppo fastidio, mi parleresti di questi tuoi comportamenti? Non posso darle la soddisfazione di aver vinto questa battaglia. Non voglio darle la soddisfazione di aver vinto questa battaglia. Quando sente che non rispondo inizia ad annotare qualcosa sul suo blocco di fogli. Non so leggere ma ho come la sensazione che non sarà nulla di buono. -Bene. Dunque, non dichiari di non aver infranto la legge? -No- sussurro.
-Come prego? -
-No!- le urlo convinta. Beccati questo, stupida approfittatrice. Sono sotto l'effetto di una droga ma non sono completamente incosciente. Infine noto, con mia enorme soddisfazione, che questa reazione l'ha spiazzata. E mi metto a ridere, isterica.
-Ridi, ridi. Ma sai cosa ti aspetta? La peggior punizione che un criminale possa ricevere. Non sai quante risate mi farò io quando sarai lì fuori! Ridi, finché ne hai la possibilità. Tra pochissimo tempo, perché non resisterai a lungo, ti pentirai di essere nata. Quindi, buona fortuna. Te ne servirà molta-
 E questa, droga o non droga, assomiglia molto ad una condanna a morte.

Cammino. Meglio pensare a questo che al mio destino. Non è possibile che tutto possa finire qui. Tutto questo tempo, tutti questi sacrifici non possono essere stati ignorati. Non può essere finita per sempre. Non riesco ad accettarlo. Penso a tutti i belli o i brutti momenti che avrei potuto passare, il mio futuro, con Will in una casetta di campagna con un soffice prato verde e un ruscello che vi passa accanto. Il lieto fine. Come nelle storie che mi raccontava mia nonna. Penso ai sogni, a tutte quelle cose che non si sarebbero mai avverate. A tutto ciò che non vivrò mai. Tutti i miei progetti, dal primo all'ultimo, buttati via. Tutto perso. Sento la nostalgia di tutti quegli attimi non ancora vissuti. E bruciano. Mi pesano dentro e mi mozzano il fiato. Fanno male e mi legano ancora alla vita che non mi ha dato niente. Neanche un nome. Alla vita che ha lasciato una neonata senza nulla e che l'ha abbandonata al suo destino. Alla vita che, tutti i giorni, diventa morte. E scopro che non ci sarà mai un futuro. Né con Will, né nella Thòlos, né da nessun'altra parte. Dietro di me vedo migliaia di attimi. Davanti solo il vuoto. Sento un dolore al braccio, come un pezzo di metallo che viene iniettato nel sangue e che si rompe in mille frammenti. -Questo è un localizzatore. Dovunque tu vada noi sapremo dove sei. E se ti azzardi a superare il limite prestabilito salterai in aria. Bum!- dice divertita la Guaritrice alzando e allargando le braccia in aria. Il localizzatore lampeggia di una luce bianchissima. -Forte, eh? Sai, è la prima volta che seguo un Condannato e sono emozionatissima! Non la sto neanche ad ascoltare. Lei ormai non appartiene al mio mondo. Quindi, perché sprecarsi tanto? La scorta arriva puntuale e mi accompagna fino ad una porta blindata. Dopo, ci sono da passare solamente due porte e basta. Due porte e non ci pensi più. Appena uscita, un'onda gelida pervade ogni fibra del mio essere. Il cielo è grigio, la terra è secca e nera, arida e facilmente sfaldabile. E attorno non c'è niente, se non qualche albero completamente prosciugato e privo di vita. Quindi non ci sono più speranze. Anche il mio soprannome è un fregatura. Come tutto. La speranza non è altro che un'arma che puoi usare subito ma che dopo fa male. Troppo male. Calpesto il terriccio e sollevo nuvole di polvere. Non ci trovo né un filo d'erba, né un bruco o una formica. Tutte menzogne. Siamo tutti nati con la promessa di essere felici, la promessa che è tutto meraviglioso. Siamo nati sotto una luce che non esiste. Sotto un'illusione. La carne invecchia, i sogni si consumano, l'anima muore. Tutto sembra infinito finché dura, ma tanto finisce anche quello. Perché il per sempre non esiste. Qualunque cosa finisce. Te ne accorgi solo quando la fine è vicina. E quando non puoi fare niente per cambiare la situazione. -Hope, è meglio farla finita subito. Se non lo fai ora morirai disidratata o di fame- dico fra me e me. Non ci sono più scuse a cui aggrapparsi. Ormai è così chiaro. Ma una piccola parte di me non riesce ancora a credere che non c'è una soluzione.
-Non c'è niente!-urlo- NIENTE! Non ci sono opzioni, né un tasto reset, hai perso! E' finita...-sussurro lasciandomi sopraffare dalla disperazione e rannicchiandomi a terra. Mangio, respiro polvere e presto le lacrime si confondono con il terreno che avevo sempre sognato di poter sfiorare. Ma ora devo fare un'unica cosa, l'ultimo atto di ribellione che posso compiere. L'ultimo desiderio prima di morire. Mi resta solo una cosa da fare: correre. E così corro. Chiudo gli occhi. Vedo Will e le nostre avventure. Sento il suo respiro sulla mia pelle, le sue braccia decise che mi abbracciano e la sua calda risata. Seguita da un altrettanto caldo sorriso. Vedo Annie e Charles che mi aspettano, dall'altra parte. Mi salutano e sorridono. Sembrano talmente felici... Aspettatemi! Le lacrime scendono e non si fermano, proprio come me. Bruciano a contatto con la pelle e il loro gusto salato mi arriva fino alle labbra. Il cuore palpita come non mai, amando tutto ciò che è stato, apprezzando ogni aspetto di ciò che non vivrò più. E ho tanta paura. Ma devo superare questa prova. Non posso fallire. Il localizzatore inizia a produrre dei sonori bip. Via via che mi avvicino al limite, la frequenza del suono aumenta di velocità. Sempre di più. Quei suoni corrispondono ai momenti che mi restano da vivere. La frequenza aumenta. Apro le braccia e mi gusto l'ultimo soffio di vento sulla pelle. La frequenza aumenta. Sono viva! La frequenza aumenta. Finalmente posso essere libera. La frequenza aumenta. Chiudo gli occhi e urlo. La frequenza aumenta. Ho paura. Sento un suono sonoro e senza termine.
Dove vai, Hope?
In un posto migliore.

E poi il nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5


 

Un guerriero non può abbassare la testa, altrimenti perde di vista l'orizzonte dei suoi sogni.

(Paulo Coelho)

Sono viva?
Sono morta?
Chi sono?
Dove sono?                                                                                  
 Vedo solo una luce bianca, che splende inesauribile. Ma non sento niente. Non sento le braccia, né le gambe, né nient'altro che mi appartiene.Sento solamente un fischio che mi perfora i timpani. E penso all'unica cosa a cui riesco a pensare: niente. Non riesco a capire niente.
Perché non sono morta? Dovrei esserlo.
Preferisco morire piuttosto che rimanere in uno stato di completa trance per poi risvegliarmi senza un braccio. Non posso farcela. 
Un suono sonoro e prolungato mi riporta alla realtà. Sotto i palmi delle mani avverto la terra fredda, ruvida, sfaldabile. La sento come se facesse parte di me. Ci giocherello, sollevo nuvole di polvere. Terra. Questa è terra vera!
Scruto ogni singola parte del mio corpo, stando bene attenta e preparandomi all'inevitabile. Tuttavia osservo ogni arto e trovo il tutto così perfetto. Mi giro i pollici e mi accorgo di tutti i migliaia di organismi che ci vogliono per compiere questo semplice movimento. Di quanta energia deve essere impiegata per compiere questo semplice movimento. Siamo delle macchine perfette. Ogni organo serve a qualcosa. Siamo un insieme di vite che ne creano una sola.
Sono ancora tutta intera.
Ma un dubbio mi assilla. Nessuna bomba è esplosa. L'apparecchio che ho nel braccio non mi ha fatto saltare in aria. Cerco di mettermi in piedi. Ma non ci riesco. Lancio un'imprecazione a dir poco benevola. Mi sono slogata la caviglia. Sono inciampata, forse per fortuna, forse per sfortuna, e sono caduta. E ho anche sbattuto a testa e ho perso conoscenza. Non ho superato il limite per un soffio.
Sono viva.
Infine rivolgo lo sguardo verso il localizzatore. E lo vedo lì che produce ancora quel bip insopportabile. Quindi sono di nuovo al punto di partenza. E devo scegliere ancora. Ma io non voglio scegliere. E una soluzione mi travolge. Assieme ad un'indescrivibile sensazione di sollievo. E' così ovvio! Come ho fatto a non pensarci prima?
Cerco la lametta fra l'orlo e la estraggo.
La carne umana sì.
Prendo il metallo e lo sfrego contro una pietra per affilarlo. In seguito raccolgo un ramoscello secco da per terra, strappo una manica della tunica e la avvolgo sul legnetto. Per poi ficcarmi il tutto in bocca fra la mandibola superiore e quella inferiore. Stringo con i denti. Distendo il braccio sinistro e posiziono la lametta sulla pelle. Al contatto sento freddo, tanto freddo. E mi pervade un terrore reverenziale.   
Spesso dobbiamo fare qualche sacrificio per ciò che vogliamo, mi risuona in mente come un ricordo lontano, ma così dolce e familiare nella mia mente e ormai perso per sempre. Era una frase di Will.
Pensa a lui, mi ripeto. Pensa a come sarebbe orgoglioso di te. Chiudo gli occhi e ritrovo il suo viso con un'espressione soddisfatta. Mentre annuisce con un'impercettibile movimento del capo.
Forza, ce la puoi fare.
Immagino un Will che mi incoraggia. La mia mente lo posiziona davanti a me, chinato, che mi guarda negli occhi. E non voglio deluderlo. Quindi, armata di convinzione, di un pizzico di paura e di una lametta tagliente inizio a sprofondare il bisturi nella carne. Subito una sensazione di nausea e di dolore mi pervade. Il ferro freddo a contatto con la pelle mi provoca continui brividi. E tanto dolore. Quasi come se tante schegge di ghiaccio premessero contro le vene. Sento il sangue che esce in quantità spaventosa dalla ferita. Non indugio oltre. Ormai è fatta. Man mano che il metallo lacera la carne, stringo i denti. Quasi urlo. Ad un certo punto riesco ad arrivare all'odioso affare che emana una luce innaturale e ad estrarlo.
E' tutta questione di secondi.
Con la stoffa che ho in bocca stringo il più possibile la zona del taglio in modo che fuoriesca meno sangue possibile. In modo da ritardare l'appuntamento con la morte. Strappando l'altra manica recupero il rametto, lo lego alla caviglia per mantenerla rigida e per permettermi di stare in piedi. Mi alzo, prendo il localizzatore con il braccio sano e lo lancio davanti a me. E corro.
Troppo tardi. La bomba esplode e io mi ritrovo a fare un volo di cinque metri. Cado a terra con un tonfo e mi sento debole, terribilmente debole. Indifesa. Ma non posso permettermi il lusso di pensare al dolore e alla stanchezza. Le opzioni sono solo due: corri o muori. E' la mia unica possibilità per scappare. Così mi rialzo in piedi e corro trascinando la gamba sinistra e dandomi lo slancio con il braccio. Non so quanto tempo passa. Né quanto percorro. Ma ad un certo punto non riesco proprio a proseguire. Ho il fiatone, i muscoli a pezzi, il braccio intriso di sangue. La testa mi gira e si fa pesante e non riesco a pensare ad altro che al dolore.
Mi rifugio fra le radici di un albero non particolarmente alto o possente e mi ci rannicchio dentro. Provo con estrema gioia un senso di ospitalità e di calore. Nonostante l'albero sia morto da secoli, a causa della contaminazione probabilmente, ha qualcosa di vivo dentro. E' come se riuscisse a confortarmi, con la sua sola presenza. E, nonostante il clima gelido, l'aria tagliente e il rifugio inspiegabilmente scomodo, mi sento a casa mia. Una casa che non ho mai avuto. Non voglio addormentarmi. Se lo faccio so che poi non mi risveglierò più. Non posso resistere ancora a lungo. Non ho cibo. Neanche acqua. Solo un'emorragia al braccio che non riesco a bloccare e una caviglia mal funzionante. Senza parlare delle varie ferite e dei vari lividi che ho riportato dopo l'esplosione. E senza contare la testa pesante.
Eppure mi sento così inspiegabilmente felice. Finalmente posso essere libera da ogni barriera, da ogni limite. Finalmente posso scegliere. Finalmente posso vivere. Senza avere paura della morte. Non importa dove andrò né come. Voglio solo godermi la poca felicità che mi rimane da provare. Perché ho perso tutto ciò che amavo.
Forse non ti risveglierai più. Ma se domani riaprirai gli occhi, allora dovrai combattere, prometto a me stessa, Devi continuare a lottare.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2980008