Sweet Revenge

di Black_Tear
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Johnson's house ***
Capitolo 2: *** Winchester ***
Capitolo 3: *** A cup of tea ***
Capitolo 4: *** A Bloody Service Station ***
Capitolo 5: *** Candy Man ***
Capitolo 6: *** The woman in green ***
Capitolo 7: *** Secrets ***
Capitolo 8: *** Did I fall asleep? ***



Capitolo 1
*** Johnson's house ***


Quando giunsi davanti alla villetta a tre piani la macchina era quasi in riserva, il che significava che al ritorno avrei dovuto fare almeno un chilometro a piedi. Fantastico. Poche persone sono così stupide da fare un'ora di strada in mezzo alle foreste dello stato di Washington con il serbatoio mezzo vuoto e per mia sfortuna io sono una di quelle.
Irritata e nervosa frenai bruscamente davanti alla porta di spesso legno nero della casa. Nonostante fosse stata costruita tra gli alberi della foresta, era stranamente elegante con i suoi tre piani bianchi decorati con finestre incredibilmente pulite attraverso cui spiccavano delle tendine color panna. Per un attimo mi chiesi perchèla porta d'ingresso fosse nera, ma in fondo non erano affari miei. Certo, era proprio un bel posto per un mostro per fare a pezzi una povera signora.
Mi assicurai che il distintivo fosse nella tasca della giacca,mi sistemai la camicia e controllai che i capelli fossero a posto. Li avevo tinti di biondo quella mattina, prima di partire per questa "città", se così si poteva chiamare quel mucchio di case.Non volevo correre il rischio che qualcuno mi riconoscesse,anche se ero quasi completamente sicura che nessuno si ricordasse di me: erano passati troppi anni dall'ultima volta che ci avevo messo piede perchè qualcuno si ricordasse della piccola e insignificante Jade Russo.
Dopo aver controllato che anche la collana con il pentacolo fosse ben nascosta sotto la camicia, scesi dalla macchina sbattendo la portiera dietro di me e mi diressi a grandi passi verso la porta d'ingresso.
L'aria era fredda e graffiava la pelle, ma non mi dava fastidio, anzi, mi resi conto non senza un certo stupore che su di me aveva un'effetto rassicurante. Sentire quei brividi scorrere lungo la schiena mi facevano sentire al sicuro, a casa. Scossi la testa per scacciare i ricordi che cercavano di farsi spazio tra i miei pensieri e suonai il campanello. Questa avolta avrei preso quell'assassino, era poco ma sicuro.
Suonai diverse volte senza ricevere alcuna risposta. Dove poteva essere andato un sessantenne che aveva appena subito un lutto? Probabilmente al cimitero, mi risposi. Beh, non sarei andata lì per cercarlo.
Avevo mosso i primi passi verso il retro della casa quando dall'interno giunse un "Che volete?" che non fece altro che peggiorare il mio umore. Perchè non dovevo mai interrogare un'adorabile vecchietta che mi offrisse dei biscotti con un sorriso stampato sulle labbra? Respirai profondamente prima di rispondere.
-Buongiorno, sono l'agente Mary Ford, dell' FBI. Vorrei parlare con Peter Johnson.- Dall'altra parte non rispose nessuno. -Apra la porta- ordinai. Silenzio. Sentivo il respiro pesante dell'uomo dietrola porta,e per un attimo temetti che avesse intuito che non ero un'agente.
-Perchè l'FBI dovrebbe parlare con lui?-chiese infine con voce rauca, ma più gentilmente di prima. L'uso della terza persona mi fece capire che il signor Johnson era lui.
-Se apre la porta ne parliamo- risposi. La porta si socchiuse e fra lo stipite e la porta comparve un occhio azzurro, vitreo e gonfio di pianto. - Distintivo.-disse, burbero. Lo chiedevano sempre, ma secondo me nessuno sapeva davvero riconoscere se era vero o falso. Con un sospiro, lo estrassi dalla tasca interna della giacca e glielo porsi. Rimanemmo qualche secondo così, io con il distintivo in mano, l'occhio che lo leggeva e studiava, finchè la porta non si richiuse improvvisamente.
-Non parlerò con lei!- gridò l'uomo dall'interno della casa. Per un attimo rimasi senza parole. Aveva capito che era falso?
-Posso saperne il motivo?- chiesi, cercando di mantenere la calma.
-Non ho niente da dirle.- Bene, almeno non aveva capito niente.
-Io credo proprio di sì dato che sua moglie è morta e lei era l'unico presente quando è successo.-ribattei.
-Se ne vada!- Già,avrei preferito la vecchietta con i biscotti. Osservai la porta e constatai che non sarei riuscita a sfondarla:era troppo spessa.
-Signor Johnson, apra la porta!- ripetei,questa vota più duramente.
-Le ho detto che non dirò niente, quindi riporti quelculo da puttana sulla sua macchina da piedipiatti e sparisca!-. In questi casi un agente addestrato dell'FBI avrebbe cercato di instaurare un rapporto e di arrivare pacificamente ad un compromesso. Ma io non ero addestrata, non ero dell'FBI e instaurare rapporti non era esatamente il mio forte. E quella era una brutta giornata.
-Ascolti bene, stronzo! Ho fatto un ora di strada per venire fin qui a incastrare quel figlio di puttana che ha ucciso sua moglie, quindi o mi lascia entrare e ne parliamo civilmente o le giuro che sfonderò questa porta e la farò parlare con le cattive- Ero stata brusca e poco professionale, ma quella era la mia guerra e non avrei permesso che un vecchio scorbutico si mettesse fra me e e quel mostro.
Questa volta la porta si aprì quasi completamente e nella penombra vidi il Signor Johnson rivolgermi un ghigno sdentato.-E' sicura di essere dell'FBI?- chiese.
Qualcosa non quadrava: un minuto prima mi aveva dato della puttana ed ora mi faceva entrare in casa sua addirittura con un bel "sorriso" stampato sulle labbra.
-Sarei qui a parlare con lei se non lo fossi?- ribattei mentre entravo cercando di evitare di guardare l'uomo in faccia. Gli occhi, il sorriso, la postura gobba, la magrezza e le rughe che gli segnavano il volto era estremamente inquietante ed era in contrasto con l'ambiente, curato ed elegante.
La parte interna della casa era ancora meglio di quella esterna. Seguii l'uomo attraverso un corridoio fino al salotto. Puzzava tutto di alcool. Ai muri erano appesi diversi quadri rappresentanti paesaggi idilliaci e di straordinaria bellezza e le pareti erano coperte in gran parte da scaffali peni di libri. Alla mia destra una rampa di scale portava al primo piano, mentre alla mia sinistra c'erano una poltrona e un divano girati verso un camino, in quel momento spento. Al centro della stanza troneggiava un tavolo di legno sul quale erano disposte numerose bottiglie vuote. Alcool.Ecco spiegati gli sbalzi d'umore e l'odore.
Bottiglie a parte, dovetti ammettere che era arredato tutto con gusto. Ad un cenno del signor Johnson, presi posto sulla poltrona mentre lui si lasciava cadre sul divano.
-Allora- iniziò- cosa desidera sapere di così importante da ricorrere alle minacce?- chiese, senza smettere di ghignare nemmeno per un secondo. -Mi dica quello che è successo.-
-L'ho già detto alla polizia-sospirò.
-Lo ripeta.-
-Non è americana, vero? Ha un accento strano...Messicana?-chiese, ignorandomi.
-Italiana- rieplicai, più duramente di quanto avrei voluto.
Qualcosa si accese nel suo sguardo. -Ah, l'Italia! Pizza, mafia e mandolino! Che paese meraviglioso!- e qui scoppiò a ridere fragorosamente. Questa allegria mi metteva a disagio. Dopotutto aveva appena perso la moglie per mano di un essere-non-ben-identificato e,anche se era visibilmente ubriaco, quel comportamento era strano. 
-Fantastico. Ora che ci conosciamo, può dirmi come sono andate le cose?-
-Ma Ford non è un cognome italiano- riprese, ignorandomi deliberatmente per la seconda volta. -Padre americano e madre italiana, scommetto. Dev'essere proprio una bella famiglia la sua.- Un peso mi piombò improvvisamente sullo stomaco tanto che persi il respiro per un momento. Perchè era interessato alla mia famiglia? Guardai attentamente il signor Johnson: sul suo volto era dipinta un'espressione di tristezza, malinconia e qualcosa che mi sembrò invidia. Avrei voluto dirgli che non c'era assolutamente niente per cui essere invidiosi, ma quello che mi uscì dalla bocca fu:- Quello che è la mia famiglia non la riguarda. Mi dica cos'è successo.- Per un momento mi parve di vedere l'ombra di un ghigno, ma fu solo per un momento. 
-Non sono sicuro nemmeno io di quello che ho visto. E comunque non mi crederebbe.- 
-Potrei stupirla.- Risposi guardandolo negli occhi.
-No, la stupirei io e lei mi farebbe rinchiudere in un manicomio o qualche istituto per gente fuori di testa.-
-Non credo di avere l'autorità e le competenze per poterlo fare, e comunque non è facile sorprendermi.-
-Le assicuro che non mi crederà-.
-Mi metta alla prova.- ribattei. Durante questo veloce botta e risposta non distolsi mai gli occhi dai suoi.
Lui Lo aveva visto. Quegli occhi avevano visto la cosa per cui avevo setacciato gli Stati Uniti fino a quel momento, ne ero sicura, ed ora mi serviva solo che Johnson confermasse questa certezza.L'uomo ricambiò il mio sguardo per un po', poi tornò a sorridere in quel modo inquietante. -Mi piace il suo stile, agente Ford- disse. Non era la prima volta che uno psicopatico apprezzava il mio carattere, ma non sapevo ancora se prenderlo per un complimento o meno.
-Allora non le dispiacerà raccontarmi cos'ha visto di tanto sconvolgente- mi limitai a dire.
Esitò, ma alla fine iniziò a parlare. Finalmente.
-Era una sera, abbastanza tardi. Ero appena tornato dal paese...mi ero fermato al bar con degli amici...Eea qualche giorno che Jeanne era strana: sembrava terrorizzata. Aveva preso l'abitudine di chiudere, ma che dico, sigillare porte e finestre quando era a casa da sola e aveva iniziato ad usare molto...sale-.
Mi lanciò un'occhiata, come se si aspettasse un mio commento scettico o che mi mettessi a ridere. Dovevo avere una faccia piuttosto seria e concentrata, perchè riprese subito a spiegare. -Faceva cerchi con il sale ovunque e ne spargeva anche davanti a porte e finestre.- Questo mi sorprese. Ammettendo pure che sapesse di essere perseguitata da un mostro, come faceva a sapere come tenerlo lontano? Avrei dovuto chiedere a Bobby se era una cacciatrice.
-...dormiva sempre con una forchetta sotto il cuscino..- stava dicendo Johnson. Questo sì che era strano. -Una forchetta?!- le parole mi uscirono di getto. L'uomo si liimitò ad alzare le spalle. -Le avevo detto che era strano...era una vecchia forchetta del servizio d'argento che ci avevano regalato al matrimonio... e questa non è nemmeno la parte peggiore- continuò. Argento. Ora aveva più senso.
-Le ha detto prchè lo faceva?-
- Diceva che era per tenere lontani l'ombra. All'inizio credevo che fosse pazza...la slitudine può fare brutti scherzi e qui non c'è molta compagnia...ma poi...- Ormai pendevo completamente dalle labbra del signor Johnson. - Continui- dissi, senza quasi rendermene conto.
-L'ho visto. Era...era lì- indicò le scale.
-Una notte stavo scendendo per andare in cucina a bere un po' d'acqua e.. era l'ì.- L'uomo si passò una mano tremante fra i pochi capelli bianchi che gli erano rimasti.- Era un uomo, ne sono sicuro, ma non era...non aveva una...insomma..era praticamente un'ombra, senza faccia o tratti del viso. Un'ombra. Era lì in piedi e mi fissava, o almeno credo...io ero immobile...e ad un certo punto si è dissolto. Pensavo di essere matto.Voglio dire...avevo bevuto un po' la sera prima di andare a dormire...lo faccio sempre...concilia il sonno...pensavo che fosse per quello. Ho bevuto e sono tornato in camera da letto...era lì, di nuovo...in camera, chinato sopra Jeanne...non vedevo bene...le lampade che abbiamo fanno poca luce...non so cos'abbia fatto...non sono riuscito a fare niente.- Si interruppe, mentre una lacrima gli scorreva lungo la guancia, fermandosi dove iniziava la barba corta e grigia.
Era Lui. Avevo avuto la conferma tanto sperata. Avrei ucciso quel figlio di puttana, fosse stata l'ultima cosa che avrei fatto.
Dovetti fare uno sforzo enorme per non esternare la gioia furiosa e selvaggia che provavo e continuare a comportarmi da piedipiatti. - Come si spiega il fatto che sua moglie sia stata rinvenuta a pezzi?- chiesi, nel tono più neutro possibile.Mi resi conto di quanto avrei potuto ferirlo con le mie parole solo dopo averle pronunciate.
Johnson si passò una mano sulla faccia e fu evidente la sofferenza quando rispose:- E' stato lui.-
Gli feci semplicemente segno di continuare. Mi sentivo cinica ed egoista: lo stavo facendo soffrire terribilmente riportando a galla quei ricordi, ma se volevo fermare quel mostro dovevo fare qualcosa. Il fine giustifica i mezzi,no?
Sospirò,poi proseguì:-Non le dissi niente...pensavo che fosse tutto passato, che fosse uno scherzo della mia mente, dell'alcool, della vecchiaia...per qualche giorno la nostra vita continuò normalmente...anche se lei era strana...la mattina si era svegliata e aveva visto che il cerchio che aveva fatto attorno al letto con il sale era stato distrutto...probabilmente ero stato io quando mi ero alzato...pensava che non fosse successo niente, quindi da allora smise di comportarsi in quel modo strano..poi in a sera...ero appena tornato dal bar...-
A quel punto ero immersa completamente nel racconto, tanto che sobbalzai quando suonò il campanello. Merda. Eravamo arrivati al punto più importante: avevo scoperto che il sale teneva alla larga quel bastardo e se avesse continuato avrei potuto scoprire qualcosa di più, magari addirittura come ucciderlo, ma qualche idiota si era intromesso proprio in quel momento. 
Johnson si alzò, anche lui parecchio irritato dall'interruzione.-Scusi, mi dia un minuto- disse, avviandosi verso la porta d'ingresso. Senza esitare nemmeno un secondo mi alzai e lo seguii: forse se il disturbatore avesse visto un agente federale se ne sarebbe andato prima.
-Chi è?- abbaiò Johnson con la sua voce rauca.
-Peter Johnson?FBI. Vorremmo farle qualche domanda riguardo all'omicidio di sua moglie.-rispose una voce gentile da uomo dall'altra parte dalla porta. Johnson si voltò verso di me, guardandomi sospettoso e confuso. Alzai le spalle e scossi la testa, portando la mano alla pistola. Ero confusa tanto quanto lui. Perchè l'FBI avrebbe dovuto occuparsi veramente di un caso del genere? Un solo omicidio non avrebbe certamente attirato l'attenzione di veri agenti federali. "Solo che questo non è il solo omicidio" intervenne la vocina nella mia testa, sbattendomi in faccia la verità. Merda, di nuovo.
- Signor Johnson, apra la porta-disse un'altra voce, più profonda della prima. Erano in due. Feci segno a Johnson di rimanere in silenzio e di allontanarsi dalla porta. Afferrai la maniglia e la aprii.
Non saprei descrivere ciò che provai quando vidi i due uomini che, in giacca e cravatta, mi fissavano, confusi e incuriositi. Uno era molto alto, con spalle larghe e capelli lunghi e mi studiava con occhi piccoli, mentre l'altro, che aveva due magnetici occhi verdi, mi guardava divertito, sforzandosi di non scoppiare a ridere.
-Mai pensato ad un rimedio per quella...voce?- disse,indicando la mia gola, prima che l'altro gli tirasse una gomitata tra la costole.
Rimasi paralizzata.
Non erano dell'FBI.
Erano come me.
Erano cacciatori.
Mi passai nervosamente una mano fra i capelli prima di sorridere ai fratelli Winchester.
 

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Capitolo 2
*** Winchester ***


-Agenti Wilson e Olt- disse Sam, sfoderando il distintivo quasi contemporaneamente al fratello. –E lei è…- si intromise Dean, senza perdere quell’accenno di sorriso. Aprii la bocca diverse volte, ma dalla gola non mi usciva alcun suono. Non sapevo cosa dire. Non sembrava che mi avessero riconosciuta, per il momento, ma avrebbe potuto tradirmi qualsiasi cosa, dall’accento italiano alla collana con il pentacolo.
-Mary Frd- dissi, con un filo di voce. Mi sentivo stupida. Non era da me reagire in quel modo di fronte ai problemi, o almeno, non lo era più da tanto tempo. Mi schiarii la voce, riprendendo il controllo. Solo la loro presenza era riuscita per un momento a farmi ritornare la quindicenne timida e stupida che ero stata.
-FBI. A quanto pare dev’esserci stato uno sbaglio…-  dissi, spostando lo sguardo da Sam a Dean nervosamente mentre tendevo loro il distintivo. Sam era altissimo, tanto che dovevo sollevare anche la testa per riuscire a guardarlo in faccia. Le spalle erano molto più larghe e muscolose e la criniera di capelli castani evidenziava la forma ovale del viso. Solo gli occhi, piccoli e verdi, erano rimasti gli stessi del  ragazzino che avevo conosciuto dieci anni prima.
Dean, invece, era un po’ più basso del fratello. Aveva braccia e gambe più toniche e muscolose e i corti capelli si erano schiariti. I tratti del viso si erano induriti e le labbra rosee, perennemente curvate in un mezzo sorriso, gli donavano un fascino quasi irresistibile. Ma ciò che colpiva di più erano gli occhi, due grandi smeraldi, brillanti e vivaci come quelli che ricordavo.
Dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per non perdermi nei ricordi e prestare ascolto a quello che diceva Sam.
-Accidenti, credo che ci sia stato un malinteso.- diceva, studiandomi con lo sguardo. Si scambiò un’ occhiata piuttosto eloquente con il fratello, quel tipo di occhiata che vuol dire “Non ci voleva”. Questo mi ricordò il motivo per cui ero lì. Era stato bello rivederli, davvero, ma se volevo eliminare il mostro che aveva ucciso la signora Johnson non potevo permettermi distrazioni. Era la terza volta che lo trovavo, ma a differenza delle due volte precedenti, non mi sarebbe scappato. Sapevo che i Winchester non erano quel tipo di cacciatori che avrebbero abbandonato un caso a causa dell’FBI. Questa caratteristica l’avevo presa da loro.
-Beh, agente Ford, è stato un vero piacere conoscerla, ma credo che questo caso spetti a noi.- esordì Dean, con un sorriso falso. Se credevano che avrei ceduto così facilmente si sbagliavano.
-Con tutto il rispetto, agente Olt, ma ho già iniziato ad interrogare il signor Johnson quindi sono costretta a rimanere.-
-Oppure, ci dice quello che le ha detto e si fa da parte- ribatté Dean.
A quel punto Johnson fece capolino da dietro la porta, con la stessa aria confusa di prima:- C’è qualche problema, agente Ford?- chiese, in modo inaspettatamente gentile. Mi ero dimenticata della sua presenza.
-Solamente qualche problema burocratico.- risposi.
-Credo che dobbiate parlare con il mio capo.- dissi poi, rivolgendomi ai due cacciatori. Estrassi un biglietto da visita, porgendolo a Sam.
-Sono d’accordo- replicò Dean, imitandomi. La scritta sul loro biglietto recitava “Agente Robert Willis, Washington DC”. Merda. Mi ero dimenticata che Bobby Singer conosceva anche loro. Ritrassi di scatto la mano da cui Sam stava per afferrare il mio pezzo di carta, su cui erano riportate esattamente le stesse parole.
-Basta che lo chiami io- mi giustificai notando il loro stupore di fronte a quella reazione così improvvisa. Se avessero letto quel biglietto avrebbero capito  che non ero una vera agente, e per il momento preferivo che continuassero a pensarlo. Se avessero scoperto chi ero veramente avrei dovuto spiegare troppe cose e quello non era il momento adatto. Mi allontanai di qualche passo, composi il numero e, alterando lievemente la voce, scambiai qualche parola con Bobby. Fortunatamente, nemmeno lui mi riconobbe, ma fu abbastanza chiaro nel farmi capire che i due ragazzi avrebbero lavorato a quel caso.
-Bene, a quanto pare dovremo lavorare insieme- dissi,  ridando il biglietto ai due fratelli.  Avevo perso già troppo tempo e non avevo voglia di discutere inutilmente, così voltai loro le spalle e tornai in casa, dove il signor Johnson si stava gustando una birra.
Sentii un “Dannazione!” sussurrato alle mie spalle, e non avevo dubbi che fosse stato Dean a parlare. Nemmeno io ero molto entusiasta di lavorare con loro: era il mio caso, la mia guerra , e se mi avessero messo i bastoni fra le ruote, quel mostro non sarebbe stato il loro unico problema.
Alla vista dei due ragazzi, Johnson si alzò in piedi.
-Cosa diavolo ci fanno qui quei due?- mi chiese.
-Lavoriamo insieme a questo caso- risposi, secca.
-Signor John…- iniziò Sam, ma prima che potesse continuare l’uomo lo interruppe:- Io con loro non parlo- sentenziò. Sospirai. Ci mancava solo questa. –Posso saperne il motivo?- domandò Sam.
-Non mi fido di voi.- si limitò a rispondere Johnson, tornando a sedersi.
-Sa che dopo dovrò comunque raccontare ciò che mi ha detto, vero?- mi intromisi. Questo lo fece vacillare. Mi fissò, visibilmente deluso. Per un attimo credetti che non avrebbe raccontato più nulla nemmeno a me, ma poi borbottò:- Non ricomincerò da capo, però.-
Soddisfatta, presi posto accanto all’uomo. – Dunque… era appena tornato a casa dal bar…cosa successe?- chiesi.
-Sì. Ero tornato da poco, quando la sentii gridare dalla camera da letto. Salii le scale, ed entrai in camera, e lei era lì, che si contorceva, gridava… aveva dei tagli su tutto il corpo…- lanciò un’occhiata sospettosa ai Winchester. –Non si preoccupi, può parlare liberamente- lo confortai.
-Non so come spiegarlo…c’era sangue ovunque. Sembrava che qualcosa di invisibile la stesse torturando. I telefoni non funzionavano più e non riuscivo a portarla fuori di casa…-
-In che senso?-
-Non…Non usciva…- Sembrava nervoso.
-Cerchi di spiegarsi un po’ meglio- disse Dean.
-Non usciva! Era come se ci fosse un muro davanti alla porta d’ingresso! Io potevo uscire, ma lei…c’era come  una…barriera invisibile che non riusciva a superare. La spingevo, cercavo di trascinarla fuori, ma ad un certo punto si bloccava, non andava oltre all’uscio.-
-E le finestre?- chiesi. Mi ero già dimenticata dei fratelli.
-Anche quelle. Era intrappolata in casa.- Johnson bevette un grande sorso dalla bottiglia che teneva  in mano. –Quando sono riuscito a chiamare e era troppo tardi.- Sospirò.- Il resto lo sapete.- concluse, guardandomi con un leggero sorriso sulle labbra.
-Vorremmo vedere il luogo in cui…- chiese Sam.
-Sopra alle scale, in fondo al corridoio a sinistra. Se toccate qualcosa vi taglio le mani- abbaiò, burbero. Vidi Dean aggrottare le sopracciglia e fare una smorfia prima di seguire l fratello su per le scale. Non andai con loro. Sapevo che non avrebbero trovato niente: niente zolfo, ectoplasma, campi elettromagnetici. Era un mostro che non avevano mai incontrato prima, ne ero sicura.
Ebbi la conferma dalle loro facce quando, cinque minuti dopo, tornarono.
 –Signor Johnson, grazie per averci concesso questo tempo.- dissi.- Se dovesse ricordare qualcos’altro o se ne avesse bisogno, chiami questo numero.- gli porsi un biglietto.
 – Mi dispiace davvero per sua moglie- aggiunsi prima di riuscire a tapparmi la bocca, mentre ci accompagnava alla porta. Non rispose, si limitò a guardare il pavimento.
Quando uscimmo chiuse lentamente la porta. Mi dispiaceva davvero.
-Le dispiacerebbe dirci cose le ha detto prima del nostro arrivo?- Dean interruppe brutalmente i miei pensieri mentre ci dirigevamo alle macchine. Notai con piacere che la vecchia Chevrolet Impala del ’67 apparteneva ancora alla famiglia Winchester ed era in ottime condizioni.
Feci una smorfia. - Cose deliranti- mi limitai a rispondere. Non sapevo esattamente perché stessi mentendo, dopotutto eravamo dalla stessa parte, ma qualcosa in loro non mi convinceva completamente. Forse erano passati troppi anni ed avevo perso un po’ di fiducia in loro. O forse volevo uccidere io quel figlio di puttana.
-Cioè?- chiese, spazientito.
Mi strinsi nelle spalle.
-Lavoriamo insieme a questo caso o no?- Dan stava iniziando ad innervosirsi. Se ne accorse anche Sam che gli appoggiò una mano sulla spalla mormorando:- Calmati-.
-Certo, ma non credo che quello che mi ha detto possa essere d’aiuto alle indagini.- risposi.
-Beh, si dà il caso che non me ne importi proprio niente di quello che credi tu. –
Aprii la bocca per ribattere, ma Sam fu più veloce. –Ok!-disse – Credo che sia stata una mattinata un po’ pesante. Perché non ne parliamo davanti a qualcosa di caldo?- propose, aggiudicandosi un’occhiataccia dal fratello.
Non avevo voglia di andare a mangiare con loro. Avevo bisogno di tempo per riflettere, riordinare le idee e fare qualche ricerca. E soprattutto temevo che prima o poi mi avrebbero riconosciuta.
-Mi dispiace, ho un altro impegno- dissi, sapendo che mi stavo mettendo in una brutta situazione.
-Ma davvero?- Dean distolse l’attenzione dal fratello posando gli occhi su di me. –Un impegno più importante del lavoro? Perché se hai da fare puoi raccontarci quello che ci ha detto e lasciarci il caso.-
Quando eravamo passati a darci del tu?
-Senti, signor gentilezza, non sono contenta nemmeno io di lavorare con voi. Ve lo racconterò, solo non qui, adesso.-
-Allora vieni con noi e ce lo racconti da un’altra parte- disse, facendo ricomparire quel sorriso da sbruffone.
Sospirai. Non me lo ricordavo così insopportabile.
-E va bene-cedetti. Tanto prima o poi avrei dovuto dirglielo. –Fate strada-.
Il viaggio di ritorno durò un’ora e la macchina resistette incredibilmente  fino a quando parcheggiammo davanti all’unico ristorante di Jefferson City.

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Capitolo 3
*** A cup of tea ***


-Quindi…- stava dicendo Dean lanciando un’occhiata interrogativa al fratello -il signor Johnson ha visto un…un’ombra, la moglie  è stata fatta a pezzi da una “cosa” invisibile e non potevano chiamare aiuto o uscire di casa?-
-Per essere precisi, solo la moglie non poteva uscire di casa.- lo corressi, portandomi la tazza di tè alle labbra.
Eravamo seduti in quel ristorante da quattro sodi da più di un’ora: la cameriera di turno ci aveva chiesto se volevamo qualcos'altro almeno una decina di volte e aveva sbattuto le lunghe ciglia con aria civettuola verso Dean, che sembrava apprezzare le attenzioni della bionda e formosa ragazza.
Quella era la mia quinta tazza: gli agenti federali non bevevano alcool in servizio, e io dovevo sembrare uno di loro. Anche i due fratelli  avevano optato per del caffè invece della solita birra.
Avevo riportato per filo e per segno quello che aveva detto Johnson  e mi avevano ascoltata in silenzio fino alla fine, interrompendomi ogni tato per fare delle domande alle quali non risposi. Cercavo di essere più criptica possibile, e “per una mia incomprensibile distrazione” avevo tralasciato la parte del sale e del comportamento strano della signora. Non avevano mai incontrato un mostro del genere, per cui non sapevano della sua esistenza,  e la mia unica possibilità era sfruttare questa lacuna facendo credere loro che non fosse un caso soprannaturale, ma un semplice episodio di killer psicopatico e visionario.
Sapevo che probabilmente non avrebbe funzionato, ma intanto li avrei rallentati e avrei potuto trovare ed uccidere il mostro da sola o morire provandoci.
-Allora perché diavolo non è andato lui a chiamare aiuto?- sbottò Dean. Me l’ero chiesto anch’io: avrebbe potuto prendere la macchina e scendere in paese a cercare aiuto.
-Forse non voleva lasciare la moglie da sola. Era spaventato e preoccupato per la moglie e non avrebbe potuto lasciarla sola in quello stato- intervenne Sam, ma era chiaro che nemmeno lui credeva a quel che diceva.
-Oppure è stato lui, si è immaginato tutto, è andato fuori di testa e ha macellato la moglie- dissi, passandomi una mano sulla faccia.
Sospirai.
Speravo davvero che ci avrebbero creduto e che se ne andassero di lì. Il sapore amaro del thè senza zucchero e la tazza bollente tra le mie mani mi aiutavano a mantenere la calma e a non pensare al passato, ma la loro presenza rendeva tutto più difficile.
Bevvi un altro sorso di thè, spostando lo sguardo agli altri clienti del ristorante. Si voltavano uno alla volta o a gruppi di due o tre persone ad osservarci, per poi distogliere subito lo sguardo non appena si accorgevano che li guardavo. Non ci avevano tolto occhi ed orecchie di dosso da quando eravamo entrati e la cosa mi irritava parecchio, al contrario dei winchester che non sembravano farci caso. Come biasimare quai poveri paesani ficanaso? Lì gli stranieri erano più unici che rari e in un paese come quello in cui si conoscevano tutti era impossibile passare inosservati.
Fuori il tempo era peggiorato e stava per iniziare a piovere. Il sole era coperto da uno spesso strato di nuvole ed era buio, tanto che nel ristorante avevano acceso le luci tremolanti: erano le stesse da oltre vent'anni.
-Non saprei- rispose Sam. -Mancherebbe comunque il movente-
-Soldi, problemi coniugali, tradimento… oppure è semplicemente matto da legare- commentò Dean, alzandosi dalla sedia e afferrando la giacca.
–Non so voi, ma a me quel tizio sa tanto di stronzo- disse con noncuranza indossandola e gettando alcuni soldi sul tavolo.
Feci per estrarre il portafoglio, ma Dean mi fermò: –Offro  io- disse accennando un vago sorriso.
 
***

-Offro io- disse accennando un vago sorriso.
Rimasi immobile, osservando le sue mani veloci che gettavano dei soldi sul tavolo, accanto ad un bicchiere di birra e ad una tazza di tè, entrambi vuoti.
Probabilmente avrei dovuto insistere perché non lo facesse, ma mi sentii lusingata, e in parte anche sollevata, da quel gesto così gentile.
Non ero stata di grande compagnia nemmeno quella volta, come quella precedente e quella prima ancora, ma nonostante ciò, quel ragazzo dagli occhi verdi continuava a parlare con me.
Quella sera, ad esempio, avevamo parlato di musica, probabilmente l’unica cosa che avevamo in comune. Si era stupito quando gli avevo detto che mi piacevano gli AC/DC e i Metallica; per ripetere quello che aveva detto “non credevo che a ragazze come te piacesse questa musica” e non avrei saputo dire cosa intendesse con “come te”: sfigata, introversa, asociale, noiosa? Le opzioni erano tante.

Uscimmo dal bar e ci incamminammo per la strade buie di Jefferson City, verso casa mia.
Lo osservavo mentre camminava. Faceva passi lunghi,  le mani infilate nelle tasche della giacca di pelle per proteggerle dal freddo e le gambe leggermente arcuate coperte da jeans rovinati e strappati. Ogni volta che passavamo sotto un lampione la collana che aveva al collo brillava. Ma nessun gioiello avrebbe eguagliato i suoi occhi, di un verde luminoso e vivo, incastonati in un viso niente male: labbra rosee e carnose, zigomi alti e ciglia lunghe.
–A Sam sarebbe piaciuto restare, ma domani ha un test di scienze…o qualcosa del genere…-iniziò.
Eravamo usciti tutti e tre, insieme: eravamo andati al cinema e poi a bere qualcosa al bar, ma Sam era dovuto andare via prima.

-Credevo che il test fosse d’inglese-dissi.
-Bè, ci sono andato vicino-
-Non proprio- dissi sorridendo.
-Tu e Sam siete proprio una bella coppia di rompiscatole- disse, dandomi una spinta leggera, alla quale risposi con una gomitata.
Tra noi cadde silenzio. Camminammo un po’, ascoltando il canto dei grilli e dei gufi, mentre cercavo di soffocare una domanda che mi ronzava in testa dalla prima volta che li avevo visti arrivare su una vecchia Chevrolet assieme a loro padre.
-Da dove venite?- chiesi infine, prima di riuscire a zittirmi.
Rimase in silenzio per un po’ prima di rispondere. –Lawrence, Kansas.-
Non riuscii a trattenere una risatina, aggiudicandomi un’occhiataccia. Arrossii violentemente e fui grata al buio che impediva che lo notasse. -Voglio dire…perché attraversare mezzo Paese per venire in questo schifo di posto?-
Rise, mostrando denti bianchi e dritti.- Ti fa davvero così schifo vivere qui?-
-Non sai quanto-sbottai.
-Non è male…c’è un cinema e una scuola e credo di aver visto anche una libreria da qualche parte-
-Non puoi dire sul serio.-
-Sono serissimo.-
-Prova a viverci per quindici anni e mezzo e ti assicuro che cambierai idea.-
Per qualche secondo non rispose.
-Quindi immagino che te ne andrai appena potrai.-
-Già…-
-E dove andrai?-
-Ovunque. Voglio viaggiare, vedere il mondo e non fermarmi mai.-
-È davvero quello che vorresti? Non avere una casa, degli amici e una famiglia?-  C’era una nota strana nella sua voce, una sorta di malinconia, ma pensai che fosse dovuta alla stanchezza.
Riflettei un po’ su quello che aveva detto. -Prima o poi dovrò fermarmi, immagino…-mormorai.
-Già…- rispose, ma sembrava poco convinto. Solo allora mi accorsi che eravamo fermi davanti a casa mia.
Spinsi il cancello e mi voltai verso di lui. Aveva un'espressione strana, quasi triste, che mi confuse. Avevo detto qualcosa di sbagliato?
Gli sorrisi. -Grazie…di tutto.-
Sorrise anche lui e i suoi occhi tornarono luminosi. –Buonanotte, Jade- disse voltandosi e incamminandosi verso il motel a due isolati di distanza.
-Buonanotte, Dean-
Non mi accorsi che non aveva risposto alla mia domanda.

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Capitolo 4
*** A Bloody Service Station ***


-Dovremmo dividerci- propose  Sam mentre uscivamo dal ristorante. Aprì la porta e mi cedette il passo con un sorriso dipinto in faccia, in un gesto galante che mi mise estremamente a disagio. Ero perfettamente in grado di aprire una porta con le mie forze.
Mormorai un grazie patetico e visibilmente falso, ma sembrò che non se ne accorgesse.
-Così raccoglieremmo informazioni più in fretta e forse riusciremo a risolvere il caso più velocemente- proseguì dopo aver lasciato che la porta sbattesse addosso a Dean che usciva dopo di me. C’era una certa tensione tra i due da quando eravamo partiti dalla casa dei Johnson, ma non erano affari miei. Per quanto mi riguardava potevano trattarsi come volevano a patto che non intralciassero il mio lavoro. Questo, purtroppo, lo stavano facendo piuttosto bene.
-Prima incastriamo quel bastardo, prima ce ne andiamo- commentò Dean, spingendo la porta stizzito e alzando lo sguardo verso il cielo nero. Piovigginava, ma nessuno dei tre sembrava intenzionato a muoversi da lì. Alzai a mia volta lo sguardo e mentre lasciavo che le gocce fredde mi bagnassero il viso riflettevo: Avevo bisogno di passare del tempo da sola per capire le prossime mosse della creatura, trovarla e ucciderla senza far male a nessuno e cercando di passare inosservata. Mi serviva qualche ore per ideare un piano e non potevo farlo con loro due fra i piedi. Dubitavo che i Winchester mi lasciassero da sola, data la poca fiducia che nutrivano nelle forze dell’ordine, ma dovevo almeno provare a convincerli di lasciarmi stare.
-Io potrei andare in giro a chiedere informazioni riguardo ai Johnson, magari in quel bar in cui Peter dice di essere stato la notte dell’omicidio. Voi potreste andare alla centrale di polizia e verificare se ci sono stati dei casi simili in zona.-
-E noi dovremmo lasciarla andare ad interrogare i testimoni da sola?- disse Dean con un tono che lasciava intendere benissimo che la risposta poteva essere una sola.
-Perché no? –ribattei.
-Be’, senza offesa, agente Ford, ma non mi fido di lei e non credo che sarebbe un buona idea lasciarla scorrazzare in giro a interrogare testimoni senza sapere quanto di quello che ci riferirà sarà vero.-
Strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nei palmi delle mani.
-Il sentimento è reciproco, agente Olt, ma dato che a me non piace l’idea di lasciar scorrazzare in giro un assassino psicopatico direi di mettere da parte le nostre…divergenze-
-Proprio perché c’è in giro un killer psicopatico non mi va di mettere niente da parte con la prima persona che passa.-
-Se la persona in questione è un’agente dell’FBI dovrebbe metterle da parte senza creare tanti problemi-
Sorrise, arrogante. –Creare problemi è quello che mi riesce meglio-
-Ed è proprio per questo che non verrà con me.- sentenziai, avviandomi verso la mia Jeep, sicura di essere riuscita a liberarmi di loro.
-Mi sottovaluta. Ho risolto più casi di quanti immagina.-
-Ne sono sicura, ma tra risolvere un caso e parlare con le persone c’è una bella differenza- dissi voltandomi di nuovo verso di lui.
-Io parlo con le persone!-
-No, lei parla troppo e basta.-
A quelle parole il suo sorriso si irrigidì e Sam soffocò una risata conquistando uno sguardo omicida da parte del fratello.
-Vi raggiungerò alla stazione di polizia tra un paio d’ore, forse un po’ di più, okay?-
Sam annuì, mentre Dean andò verso la macchina- la mia macchina e si sistemava al posto del passeggero.
-Cosa…- iniziai a chiedere, confusa, ma mi interruppe quasi subito.
-Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro. Io vengo con lei.- disse rivolgendomi un sorriso strafottente. Strinsi la chiave che avevo in mano finché il dolore al palmo non divenne insopportabile. Respirai profondamente e mordendomi la lingua per bloccare le parole che avrei voluto dire salii in macchina chiudendo la portiera un po’ troppo violentemente. Guardai Dean con la coda dell’occhio. Mi stava fissando, con lo stesso sorriso stampato in faccia. Si stava divertendo. Mi venne una voglia improvvisa di prenderlo a pugni.
Inserii la chiave e misi in moto. Mi sforzai di no guardarlo, ma sentivo i suoi occhi verdi su di me e quasi non riuscivo a stare ferma sul sedile, tanto che quasi investii una coppia uscita da poco dal ristorante.
-Dove andiamo?- chiese. Sentii dal tono che usò che stava ancora sorridendo.
-A fare benzina.-
-Benzina?-  mi voltai verso di lui, notando con immenso piacere che il sorriso era sparito, lasciando spazio ad un’espressione vagamente confusa.
-Benzina. Sono a secco.- affermai, facendo un cenno verso il cruscotto dove lampeggiava una lucetta rossa.
-Non poteva farlo prima?-
-Se le dà fastidio è ancora in tempo per andare con il suo collega-
Sorrise, di nuovo.- Non vede l’ora di sbarazzarsi di me, eh?- Mi strinsi nelle spalle.
-Non si preoccupi, il sentimento è reciproco-
Il viaggio dal ristorante alla stazione di servizio durò meno del previsto. La pioggia aveva iniziato a cadere copiosamente e il posto era deserto. Circondati dagli alberi, due pompe di benzina e un edificio basso con le porte a vetri spiccavano per la loro trascuratezza. I vetri erano sporchi e coperti di poster strappati che pubblicizzavano prodotti venduti all’interno della stazione e sui muri scoloriti figuravano una serie di graffiti osceni e dichiarazioni d’amore sgrammaticate.
-Resti qui- dissi a Dean mentre scendevo dalla macchina.
-E dove vuole che vada?- fu la risposta che decisi di ignorare.
Dato che quell’ammasso di plastica, mattone e benzina non era dotato di un sistema automatico, per poter usare la pompa dovevo prima pagare all’interno dell’edificio. Dovetti spingere la porta un paio di volte per aprirla e quando la fece provocò un rumore acuto e vagamente inquietante. L’interno era persino peggio dell’esterno. Poco illuminato a causa delle luci poche luci a neon rimaste integre, sfoggiava pareti ammuffite e scaffali pieni di polvere e prodotti culinari e per la casa di scarsa qualità. Il pavimento esibiva macchie di dubbia origine quasi ovunque, fatta eccezione per il corridoio che passava tra due scaffali che serviva a raggiungere la cassa e che era più pulito, probabilmente grazie alle scarpe dei clienti che toglievano la polvere al passaggio. Seguii il sentiero pulito cercando di ignorare l’odore fetido che impregnava l’aria. Su uno scaffale erano esposte riviste da donne, fumetti e porno. Mi chiesi se a Dean avrebbe fatto piacere una di quelle riviste a luci rosse. Rosse. Rosso. Mi fermai  a metà strada. Sul muro dietro il banco della cassa un brillava un liquido rosso. Sangue. Colava lungo la parete. Il cuore iniziò a battere veloce. Estrassi istintivamente la pistola dalla cintura. Qualsiasi cosa fosse successa, era accaduta da poco. Tesi le orecchie per cogliere un eventuale rumore -passi, gemiti, un respiro troppo rumoroso- per capire se ci fosse qualcuno, ma a parte il ronzio di una lampadina rotta, lo scrosciare della pioggia e il battito del mio cuore non sentii niente. L’adrenalina aveva iniziato a scorrermi in corpo. Avanzai più silenziosamente possibile verso la cassa, concentrata sui rumori e su ogni piccolo movimento che vedevo. Camminando notai che anche il registratore di cassa e il banco erano sporchi di sangue. Accelerai il passo.
Arrivata davanti alla cassa vidi che anche sul pavimento, alla sporcizia accumulatasi negli anni si era unito del sangue. Ce n’era troppo. Il proprietario non poteva essere ancora vivo. Mi sporsi oltre il banco, cercando di non toccare nulla. Non riuscii a vedere molto, ma quello che vidi mi bastò. Un cappello da cow boy  e i brandelli di una camicia di flanella, entrambi intrisi di sangue erano appoggiati attorno ad un viso dalla barba color carota.
Stan.

-Stan verrà a cena da noi questa sera- proclamò mia madre mentre stirava i vestiti dell’ultimo bucato.
-Stai scherzando, spero!- protestò il diciottenne seduto scompostamente sulla poltrona.
-Michael, non ricominciare- lo ammonì la mamma con il tono autoritario che riservava solo a lui.
-Non piace nemmeno a me- disse Diana che, seduta dietro di me, cercava di acconciare i miei capelli in modo strano. Non mi piaceva che lo facesse ogni volta che ci sedevamo vicine, ma dopo quindici anni di convivenza sapevo che con la sorella maggiore era inutile protestare. Era famosa per la sua testardaggine.
-Neanche a me- si unì la bambina che, seduta per terra, giocava con le mie vecchie bambole. –E poi puzza!-
-Adesso basta, tutti quanti!- sbottò la mamma, piegando la camicia che stava stirando in malo modo.- Ci sta aiutando molto più di quanto vostro padre abbia fatto in tutti questi anni.-
-Sicuramente è più presente di lui- mormorai.
-Per una volta la mozzarella ha ragione- disse Michael, aggiudicandosi una cuscinata in faccia.
-Non chiamarmi mozzarella, asino- lo minacciai, sorridendo.
-E tu non chiamarmi asino, mozzarella- rispose, restituendomi la cuscinata e distruggendo l’acconciatura a cui stava lavorando Diana, che dopo averci fulminati smise di giocare con i miei capelli e commentò:-A quel vecchio piaci tu, mamma. Vuole prendere il posto di papà comprandoti con cose che non ha. Credi davvero che il suo sia un gesto di pura generosità senile?-
-Smettila.- fu tutto quello che mia madre riuscì a dire rima di scoppiare in lacrime.

Il rumore di un barattolo che cadeva mi riportò nella stazione di servizio facendomi sobbalzare. Strinsi la presa sulla pistola e mi diressi il più silenziosamente possibile verso il punto da cui era venuto il rumore. Sentivo i muscoli tesi, pronti all’azione. Chiunque si nascondesse fra quelli scaffali non aveva speranza di fuggire. Mi fermai in ascolto. Il battito del cuore rendeva difficile sentire qualcosa, ma riuscii a percepire qualcosa. Passi. Provenivano dall’altra parte dello scaffale dietro cui ero nascosta. Aspetta, mi dissi. Aspetta che sia a portata. Un passo. Un altro. Un altro ancora. Continuò per un tempo che sembrava interminabile. Aspettai, con il cuore in gola, finché riuscii a sentire l’ennesimo passo proprio dietro l’angolo. Allora attaccai. Accecata dall’adrenalina, lo colpii allo stomaco con una gomitata, gli afferrai un braccio e glielo torsi dietro la schiena. Sentii una cosa metallica cadere ai miei piedi. Era armato. Senza esitare gli sferrai un ginocchiata al fianco, costringendolo a piegarsi in due dal dolore. –Ferma! Ferma!- Gridò. Mi bloccai, il braccio a mezz’aria pronta per colpirlo di nuovo. Quando mi resi conto di chi avevo davanti, lasciai subito la presa sul braccio, lasciando che si appoggiasse allo scaffale.
-Scusa- mormorai, costandomi un ciocca di capelli dalla faccia. 
-Ma che diavolo ti è preso?!- Gridò Dean, senza fiato per il colpo allo stomaco, reggendosi il fianco.
Per tutta risposta gli indicai la macchia di sangue dietro la cassa.
-Dannazione- sussurrò.

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Capitolo 5
*** Candy Man ***


-Agente?
La voce giunse attutita, come venisse dal fondo di un pozzo davvero profondo, tanto che pensai fosse frutto della mia immaginazione. Attorno a me vedevo persone in divisa correre freneticamente da una parte all’altra della stanza, cercando accuratamente di evitare di posare gli occhi sulla macchia scarlatta del muro. Sentivo un vociare indistinto provenire dall’esterno dell’edificio, e ogni tanto un lampo bianco illuminava un gruppo di persone che, in piedi davanti alla pozza di sangue del pavimento, discutevano animatamente fra loro. Mi colpì particolarmente una donna anziana vestita di verde con dei capelli rosso fuoco e la faccia del medesimo colore che gridava contro un uomo di mezza età, puntandogli contro un dito scheletrico. Mi sarebbe piaciuto sapere il motivo di quella sfuriata, ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sentire niente che non fosse il dolore che mi attanagliava la testa. Immagini confuse continuavano ad irrompere tra i miei pensieri, ma non potevo e non volevo farci caso proprio in quel momento. La polizia aveva controllato le telecamere di sorveglianza, che, nonostante la scarsissima qualità, dimostravano chiaramente che nessuno si era fermato alla stazione di servizio all’ora del decesso, che, a detta del medico legale, risaliva a circa dieci minuti prima del mio arrivo.
Credevano tutti di essere ad un punto morto dell’indagine, ma per me non era difficile capire cosa fosse successo: Stan Marly era la seconda vittima del mostro a cui stavo dando la caccia e la mancanza di impronte e il modus operandi, identico a quello della creatura, ne erano la prova. Torturare e squartare le vittime, rimanendo invisibile e senza lasciare alcuna traccia, era così che agiva. L’unica cosa che non riuscivo a capire era ciò che connetteva quelle persone: la prima vittima era una donna di sessant’anni, una dolce signora che amava vivere in solitudine in mezzo alla natura e per questo aveva la casa nel cuore della foresta; la seconda era un uomo di settantacinque anni, un vecchio burbero amante dell’alcool e dei cappelli da cowboy che viveva in città e amava stare in compagnia. Negli altri casi le vittime avevano qualche caratteristica comune, ma in questo caso sembrava che si stesse dando all’omicidio casuale. Qualcosa non tornava. Perché avrebbe dovuto cambiare proprio in quel momento?
Vagai con lo sguardo dalla donna al resto della stanza, soffermandomi sul punto in cui avevo attaccato Dean. Dopo aver controllato che non ci fosse nessuno avevamo chiamato la polizia. Da allora non l’avevo più visto. Aveva detto che sarebbe andato a recuperare “l’agente Wilson”, ma era da oltre un’ora che non avevo più sue notizie e la centrale non distava cero così tanto dal luogo del delitto.
-Agente?
Questa volta la voce giunse più distinta, seguita da una lieve pressione sulla spalla. Mi voltai di scatto, un gesto probabilmente troppo brusco perché l’importunatore sobbalzò. Era un uomo di circa trent’anni, con l’aspetto del tipico milionario figlio di papà,  con un paio di occhiali da sole a goccia e capelli ossigenati e impomatati. Indossava un abito elegante e scarpe nere di pelle italiana.
–L’ho chiamata tre volte. Si sente bene?- chiese. Mi fissava con un’espressione preoccupata e spaventata allo stesso tempo, come se fosse indeciso se dimostrarsi preoccupato per me o se manifestare il suo terrore. Mi stavo chiedendo cosa potesse spaventarlo tanto, ma solo allora mi accorsi di tenere le mani strette a pugno e i muscoli tesi, come se stessi per saltargli addosso e assassinarlo a forza di pugni. Ritenendo che la mia faccia non dovesse essere più rassicurante della posizione del corpo, cercai di sorridere e di rilassarmi.
-Sì, scusi. – risposi, cercando di addolcire il più possibile la voce. –Sono solo stressata da tutta questa storia.-
-Non si preoccupi agente. Con un macellaio del genere da queste parti, non sono solo gli animali a dover essere spaventati.-  Detto questo si mise a ridere
 Cos’era, una battuta?
- Non sono spaventata- replicai freddamente. La risata del tizio si spense immediatamente. Cosa diavolo voleva quell’idiota?
-Frederick Marly, per servirla- si presentò tendendo la mano.
Fred  Marly… non sapevo che Stan avesse un figlio!
Scrutai meglio il suo visto cercando di scorgervi qualcosa che mi riportasse indietro di dieci anni, quando vivevo ancora felice ed ignara del mondo in quella città. Niente del viso di quell’uomo ricordava il vecchio Stan, eppure qualcosa nella sua espressione mi risultava familiare. Allora ricordai. Vero nome Frederick Charles Marly, Rick per gli amici –anche se era conosciuto così in tutto il paese- era famoso per essere il più stupido,  altezzoso e arrogante ragazzo che fosse mai passato da quelle parti. In giro si diceva che fosse adottato, ma non mi ero mai interessata particolarmente alla situazione familiare di quel ragazzo. Più grande di me di sei anni, non perdeva occasione per sfoggiare la sua antipatia contro i ragazzi più piccoli di lui, me compresa. Ricordavo ancora quando mi aveva soprannominata “amore di mamma” –pronunciandolo in italiano in modo scandaloso-  dopo che mia mamma mi aveva chiamata così per salutarmi dopo avermi accompagnata a scuola. Il suo errore era stato pronunciarlo proprio mentre Rick passava accanto alla macchina. Non avevo mai rimproverato mia madre per questo perché non aveva nessuna colpa se un coglione mi prendeva in giro, ma lei si era sempre sentita in colpa.
La stretta allo stomaco mi fece quasi piegare in due, ma lo nascosi incrociando le braccia sul petto.
-Mary Ford- dissi. Rimanemmo così per qualche secondo, io aspettando che dicesse qualcosa di sensato, lui con la mano sospesa a mezz’aria, finché decise di abbassarla.
-Wow, che freddezza. Comunque so benissimo chi è ed è proprio per questo che sono qui. – Ricominciò a sorridere, ma il suo entusiasmo si smorzò subito di fronte alla mia espressione indifferente. Quel tizio mi stava innervosendo.
-Vede, vengo dalla California, ho fatto davvero un lungo viaggio solo per venire fin qui…
-Risparmi i preamboli. Cosa vuole?
-Ehm… dunque… com’è scontrosa… allora…
-Allora?
-Sono il figlio di Stan Marly ed ero qui per vedere mio padre. Era tanto che non ci vedevamo, ma adesso è morto.- L’intelligenza che emergeva da quelle parole era davvero disarmante.
-Mi dica qualcosa che non so- dissi sorridendo, ironica. Non ero davvero dell’umore di portare pazienza con quell’uomo che, oltre a darmi sui nervi, mi stava facendo perdere una sacco di tempo.
-Non… volevo solo chiederle cosa… se ha scoperto qualcosa riguardo all’assassinio.
-Se avessi scoperto qualcosa non sarei qui.
-Ecco, il fatto è che fra due giorni dovrò tornare in California da mia moglie per partecipare ad un’asta per ottenere un pregiato mobile che viene direttamente dal Giappone e non vorrei perdermi l’evento per questo incidente e…- Doveva essere un’altra pessima battuta. Suo padre era apena stato fatto a pezzi e lui si preoccupava di una stupidissima asta?
-Guardi, non mi interessa. Ha qualcos’atro da dirmi? Avrei delle domande da farle, già che è qui.-
-No… ma vede, quest’asta…
-Ha qualcosa da dirmi che non riguardi una stupida asta o no?
La mia voce aumentò in modo considerevole, tanto che metà delle persone nella stanza si girarono a guardarmi, compresa la signora in verde, che mise di gridare contro l’uomo per capire cosa stesse succedendo.
-L’agente Ford sta cercando di dirle di rivolgersi a noi per l’interrogatorio- La voce proveniva dalle mie spalle, ma non dovetti voltarmi per capire a chi apparteneva.
-Sa, non è molto brava a parlare con le persone- disse Dean, che ora era vicino a me, seguito da Sam, che seguiva la scena, indifferente. Con la coda dell’occhio vidi che il maggiore dei fratelli mi guardava, con un’espressione compiaciuta sulla faccia. Mi pentii di non averlo picchiato più forte, poco prima.
-Agente Olt, iniziavo a sentire la mancanza della sua linguaccia.
-Non è la prima ragazza che lo dice- ribatté con un’espressione che lasciava intendere benissimo in che tipo di ricordi si stava perdendo. Tre facce scandalizzate si voltarono verso la sua espressione appagata. Sam scosse impercettibilmente la testa. Quando Dean se ne accorse, il sorriso si smorzò, assunse un’aria innocente e alzò le spalle, un gesto abbastanza eloquente per dire “Che ho fatto?”.
Ci mancavano solo i Winchester per rendere il tutto ancora meno sopportabile. Di quel passo sarei esplosa.
In un accordo inespresso, decidemmo tutti di ignorare il commento di Dean.
-Ha notato qualcosa di strano ultimamente?- chiesi. –Comportamenti innaturali di suo padre, strane sensazioni…
-Ombre…- iniziò Sam, poi, lanciandomi un’occhiata nervosa come se si ricordasse all’improvviso chi fossi continuò: -Persone che potevano fare del male ha suo padre?
-Tutto normale- rispose Rick.
-Non ha visto davvero niente?
Marly esitò.
-Beh… Ieri sera mio padre sembrava più nervoso e burbero del solito…
-Può immaginarne il motivo?- chiesi.
-Il motivo?- chiese, con un’espressione confusa stampata in faccia. Ma era stupido o faceva finta?
Sospirai, esasperata.
-Perché. Suo. Padre. Era. Nervoso?
-Perché dovrei saperlo?- Sembrava si fosse rincretinito col tempo.
-Era successo qualcosa che avrebbe potuto farlo innervosire?
-Non mi pare… Però continuava a dire qualcosa come “verrà a prendermi” o qualcosa del genere, ma non so perché.-
-Non conosce nessuno che avrebbe potuto fare del male a suo padre?
-No. Viveva da solo e stava sempre qui a bere e guardare la tv. Non aveva nemici. Voglio dire, a parte l’alcool.-  Rise a quella che avrebbe dovuto essere un’altra battuta.
Senza aggiungere altro mi diressi verso l’ingresso. Avevo bisogno di un po’ d’aria ed era evidente che Rick non avrebbe potuto dirmi nient’altro di sensato. Alle mie spalle sentii la voce di Marly dire qualcosa che non riuscii a capire e la voce di Sam che rispondeva.  –Ha solo avuto una giornata pesante.-
All’esterno dell’edificio alcuni poliziotti parlavano tranquillamente reggendo in mano una tazza di caffè, mentre un gruppo di cinque ragazzini si era radunato vicino alla porta per cercare di vedere cosa fosse successo.
Assieme a loro una bambina di circa sei anni saltellava cercano di vedere sopra le spalle dei ragazzi. Accanto a loro notai cinque  biciclette appoggiate al muro.
 -Hey!- li richiamai passando sotto il nastro che bloccava l’entrata alla porta. I sei stavano già per correre via, quando videro che stavo sorridendo. Probabilmente avrebbero saputo dirmi qualcosa di più consistente rispetto a Frederick.
-Cos’è successo?-  chiese il più grande.
-Cosa ci fate qui?- chiesi, fingendo di non aver sentito la domanda. Cosa si dice ad un bambino quando muore una persona? E se qualcuno viene ucciso?
-Abbiamo visto la polizia e l’abbiamo seguita.- intervenne un bambino con la faccia coperta di lentiggini.
-Vogliamo catturare l’assassino!- disse un altro che indossava un cappellino da baseball. A quanto pare qualcuno li aveva informati. Per un attimo non seppi cosa dire. Spero che tu non lo veda nemmeno, l’assassino, pensai.
-Non siete un po’ troppo giovani per fare i detective?-chiesi.
-Tu sei una detective?- chiese la bambina, l’ammirazione dipinta negli occhi color nocciola. Deglutii per sciogliere il nodo che mi si era formato alla gola guardandola.
-Non è una detective, idiota! Non ha l’uniforme!- Intervenne il bambino con le lentiggini.
Sorrisi.
–In realtà sono una specie di detective.
-Davvero?!
Annuii, inginocchiandomi per guardarli in faccia e non dall’alto.
-Conoscevate Stan Marly?
Sei teste annuirono tutte assieme.
-Ci dava le caramelle.
- Solo quando venivamo a trovarlo.
Per un momento non riuscii a credergli.
-Stan?! Il signore con il cappello da cowboy e la barba rossa?
Annuirono di nuovo.
-Da un po’ poi ce ne dava un sacco!
-Già! Quelle più  buone!
Qualcosa non tornava. Stan, l’ubriacone che sputava per terra ogni volta che vedeva un bambino, regalava caramelle?
-Perché lo faceva?- chiesi.
I bambini si strinsero nelle spalle.
-Diceva sempre che non importava.
-È vero! E che ormai era finita!
-Cos’è che non importava? Cos’era finita?-
Alle mie domande i bambini si strinsero di nuovo nelle spalle.
-Non gliel’abbiamo mai chiesto. Ci faceva un po’ paura.
-E poi puzzava!-disse la bambina, ridendo e scatenando l’ilarità generale. Sorrisi anch’io, nonostante il peso sul petto che m’impediva di respirare.
-Grazie a tutti, siete stati davvero utili, ma forse è meglio che ora torniate a casa. Questo non è un posto per bambini.- commentai, alzandomi. –Anche se sono detective!- aggiunsi ridendo davanti alle smorfie deluse del bambino con il cappellino da baseball.
-Anche se faceva paura e puzzava volevamo bene a Stan- disse la bambina, con le lacrime agli occhi.
 -Perché è morto?- chiese.
-Una brutta persona gli ha fatto male.- risposi, distogliendo lo sguardo dal suo volto spaventato.
-Ho paura…-disse la bambina, voltandosi per raggiungere le biciclette.
-Andrà tutto…- le parole mi morirono in gola.
 
-Ho paura, Jade- sussurrò Cara  con voce rotta dal pianto. Era troppo buio per vedere qualcosa, ma sapevo che i suoi occhi color nocciola erano posati su di me.
La sentivo tremare nella mia stretta. Le porte dell’armadio non erano abbastanza spesse da impedirci di sentire le grida provenienti dall’esterno. Strinsi a me la bambina, cercando di rassicurala
-Tranquilla- mormorai, cercando si nascondere la paura
-Andrà tutto bene.
L’armadio si aprì.
Mia sorella mi venne strappata via.
 
Asciugandomi la lacrima che scivolava silenziosa lungo la guancia, tornai nella stanza. 
 

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Capitolo 6
*** The woman in green ***


La prima cosa che notai appena entrata fu il silenzio. Fatta eccezione per il borbottio degli agenti e  di Sam e Dean,ancora alle prese con Rick, la stanza era inspiegabilmente tranquilla. Accanto al luogo del delitto, degli uomini in divisa confabulavano tra loro lanciando occhiate con la coda dell'occhio alla donna in verde. Sembravano avere paura di avvicinarsi. La vecchia signora aveva finito la sua sfuriata ed ora stava seduta compostamente su una sedia vecchia e polverosa. Guardava i poliziotti con una nota di disgusto, la borsetta color smeraldo stretta tra le mani e una smorfia stizzita stampata in volto. Evidentemente non aveva sbollito completamente la rabbia.
Senza nemmeno rendermi conto di quel che facevo, mi incamminai verso di lei.
Scrutai il suo volto, provando a riconoscere in lei qualcuno degli abitanti della città, ma ogni sforzo fu vano. Il viso scarno dagli occhi infossati e la pelle olivastra non mi dicevano assolutamente niente. Osservandola bene, in mezzo alla nuvola di capelli rossi chiaramente tinti, si scorgevano degli orecchini dorati, decorati allo stesso modo della collana che portava al collo. Gioielli molto raffinati, oltre che costosi.
Quei dettagli davano l'impressione che fosse una donna arrogante e sicura di sé, ricca e abituata a dare ordini a chiunque ritenesse inferiore.
Stavo pensando a cosa dirle per attirare la sua attenzione quando all'improvviso una mano si posò sulla mia spalla. Per la seconda volta nel giro di dieci minuti, mi voltai di scatto, con la differenza che quella volta l'importunatore non sobbalzò.
-Si sente bene?- chiese Sam, impassibile. Feci un respiro profondo per rilassarmi. Perché mi facevano tutti la stessa domanda? Probabilmente perché ti comporti da pazza, suggerì una vocina dentro la mia testa.
La mano di Sam era ancora appoggiata sulla mia spalla, ma diversamente da quel che mi aspettavo quel contatto mi dava una piacevole sensazione di conforto. Trattenni a stento un sorriso: com'era che la sua presenza riusciva a calmarmi tanto quanto quella del fratello mi faceva innervosire? Era sempre stato così, pensai. Anche dieci anni prima.
-Certo- Sorrisi e non il solito sorriso falso che ero abituata a fare.
-Ne è sicura? Non mi sembrava molto tranquilla mentre parlava con Frederick Marly- commentò sorridendo debolmente, ma la sua espressione trasudava sospetto e, forse, anche una nota di preoccupazione. 
Le mani sì strinse a pugno e sentii il sorriso irrigidirsi. Solo pensare a quell'idiota mi faceva andare fuori di testa.
-No, è tutto a posto, davvero. Quel tizio mi ha fatto perdere la pazienza e...beh, niente che un po' d'aria fresca non possa sistemare- Un po' d'aria fresca e dei bambini con delle informazioni. 
Sam non sembrava ancora convinto.
-Sa chi è quella donna?- chiesi per cambiare argomento, distogliendo lo sguardo e facendo un cenno verso la donna in verde.
-Gilda Stride, ex-moglie della vittima-
Moglie?! Mi voltai verso di lui che, intuendo la mia perplessità, riprese:- Si sposarono una trentina di anni fa. Stando ai pettegolezzi le cose non sono andate bene tra i due. Avrebbero dovuto divorziare dopo due anni dalla cerimonia, ma una riconciliazione dell'ultimo minuto li ha portati addirittura all'adozione di un figlio- e qui indicò Rick.
-Come diavolo fa a sapere queste cose?- chiesi, senza pensare a come suonasse maleducata la domanda. Non avevo mai sentito niente del genere, eppure una storia come quella in un paesetto come quello avrebbe dovuto essere conosciuto da tutti. Inoltre non avevo mai visto quella donna in tutta la mia vita,ed era abbastanza improbabile che fosse passata da quelle parti senza passare inosservata.
Sam sorrise: -Ho le mie fonti.-
-Che misterioso- commentai, alzando gli occhi al cielo fingendo esasperazione. -Continui-
-Convissero assieme per qualche altro anno, poi lei chiese di nuovo il divorzio, lo lasciò sul lastrico e scappò con un altro uomo, un certo Bryan Stride, un ricco impresario texano, abbandonando il marito da solo con il figlio di sette anni. Lui prese malissimo la separazione, si diede all'alcool e non volle più sentir parlare di lei. Probabilmente è per questo che quasi nessuno in paese sa questa storia.-
-E perché la sa lei che non ha mai messo piede a Jefferson city prima d'ora?-
Per tutta risposta si strinse nelle spalle, abbozzando una smorfia innocente.
Sbuffai. -Come vuole, si tenga i suoi segreti.-
-La credevo più determinata- disse, con un sorriso provocatorio.
-Prima o poi lo verrò a sapere comunque- ribattei, ostentando indifferenza mentre dentro di me ardevo di curiosità. -Visto che è così informato, le dispiacerebbe spiegarmi il motivo della crisi isterica di poco fa?-
-Non ne sono sicuro, ma credo centri qualcosa con il contratto firmato al divorzio. A quanto pare il testamento contrasta con gli accordi presi e alla signora non va giù-.
Non potevo credere alle mie orecchie. Mi voltai a guardare Gilda per l’ennesima volta, soffermandomi sui suoi occhi piccoli e scuri e sulle sue labbra sottili, curvate in un broncio perenne. Nulla nella sua espressione lasciava trasparire la minima commozione per la morte dell’uomo con cui aveva passato oltre vent'anni della sua vita. Ripensai a Stan e al suo caratteraccio. Cosa aveva fatto a quella donna per renderla così fredda?
Ciò che mi aveva spiegato Sam,tuttavia, spiegava perché non mi sembrava di aver mai visto quella donna prima di quella mattina. Avrò avuto quattro anni quando se n'era andata e probabilmente non la ricordavo.
-Qualcos'altro?- chiesi,senza spostare lo sguardo dalla donna.
-Tornava in paese durante le vacanze estive, il giorno del ringraziamento e a Natale per rivedere il figlio. Non andava affatto d'accordo con l'ex marito. I vicini li sentivano gridare e lanciare piatti addirittura per tutta la notte. In qualche caso è intervenuta persino la polizia, ma raramente: a nessuno piaceva intromettersi in quelle liti. Dicono che la signora Stride abbia sempre avuto un gran brutto carattere.-
-Vado a parlarle.-
-Fossi in lei aspetterei ancora qualche minuto. Non sembra completamente calma-
-Le donne come lei non sono mai completamente calme-ribattei.
Mi avvicinai di qualche passo, abbastanza perché Gilda  si rendesse conto della mia presenza. Si alzò dalla sedia scrutandomi dall'alto al basso. Non mi tese la mano, né ritenne necessario presentarsi o conoscere il mio nome. Il suo volto tornò rosso e mi parlò con un disprezzo profondo e voce acuta, quasi sputando le parole.
-Ho già detto al suo collega che non me ne importa un fico secco del testamento! Era sul contratto!- 
In un primo momento rimasi spiazzata da quella reazione.
Guardai Sam che mi aveva seguita, ma la sua espressione provava che era confuso quanto me.
-Signora Stike, non ho idea di che cosa stia parlando. Sono l’agente Ford, FBI e…-
-Un federale?!- sbottò con una risata. –L’FBI si occupa della morte di Stan?-
-Esatto, e vorremmo farle qualche domanda- intervenne la voce di Sam dalle mie spalle.
Sembrò che la donna non lo sentisse nemmeno, tanto era occupata a fissarmi. I suoi occhi mi squadrarono da cima a fondo, fino fermarsi sui miei. Quella situazione mi stava mettendo a disagio, ma non abbassai lo sguardo.
Lentamente si sedette nella stessa posizione di prima, sempre tenendomi gli occhi puntati addosso.
-Non ho niente di meglio da fare perciò…avanti.- disse.
Dato che Sam non sembrava intenzionato a fare domande, decisi di prendere l’iniziativa.
-Da quanto tempo conosceva Stan?-
-Dire che lo conoscevo è un’enorme esagerazione, cara. Era talmente…strano che sarebbe impossibile affermare di averlo conosciuto. Comunque l’ho incontrato circa quarant'anni fa.- 
-Cosa intende quando dice che era strano?- Chiesi, cercando di non pensare al suo tono di voce, inspiegabilmente calmo e a quanto mi desse fastidio il fatto che non arrivasse direttamente al punto. Sii sintetica e diretta, questa era la mia politica.
-Aveva delle ossessioni, non puliva mai né la casa né se stesso, parlava a sproposito e di cose assurde, disprezzava qualsiasi cosa allegra, ma lui per primo cercava il divertimento quando andava fuori con gli amici.-
-Com'erano i rapporti fra lei e la vittima?-
Esitò. –Tesi. Non mi ha mai perdonata per aver abbandonato lui e Frankie.- Aveva uno sguardo strano mentre spostava lo sguardo da me al figlio, che stava parlando ancora con Dean. Probabilmente non si perdonava nemmeno lei. Per un momento, perse la maschera da matrona, ma fu solo un attimo prima che il suo sguardo tornasse privo di qualsiasi altra emozione che non fosse rabbia.
-Quanto…teso era il vostro rapporto?-
-Non abbastanza da ucciderlo, se è lì che volete arrivare. Tornavo qui una volta ogni tanto a vedere come stava Frankie, lui non lo vedevo nemmeno e non mi interessava vederlo, come a lui non interessavo io. Se ci capitava di rimanere soli nella stessa stanza litigavamo e ogni tanto siamo andati anche oltre le parole, per questo lui preferiva evitarmi, quel coniglio. Dopo un po’ mi sono assuefatta all'assenza di quell'essere.- 
-Per questo non è sconvolta per la sua morte?-
-Come potrei essere sconvolta per la morte di una persona che disprezzavo?- rispose con noncuranza, ma la sua espressione si indurì e il suo sguardo mi trafisse, facendomi capire che la mia domanda non le era affatto piaciuta. Non le piaceva passare per la senza cuore che era.
Perché, ci sono persone che apprezza? avrei voluto chiederle, ma mi trattenni con grande forza di volontà.
-Lo ha visto prima del decesso?-
-Sì, in effetti abbiamo parlato.-
-Ha appena detto che non riuscivate a stare nella stessa stanza senza urlarvi contro...-osservai.
-Quella è storia vecchia. Sono arrivata qui la scorsa settimana per vedere Frankie visto che sapevo che era venuto a fargli visita. Sono passata per di qua e c’era Stan che dava delle caramelle a qualche moccioso del quartiere. Abbiamo parlato un po’ del fatto che sperperasse denaro ai quattro venti regalando caramelle, poi me ne sono andata. Frankie non era lì, comunque.-
-Avete litigato quella volta?-
-Con mia sorpresa, no, anche se era più insopportabile del solito. Diceva un sacco di cose senza senso ed era detestabile il modo in cui mi ascoltava. Era accondiscendente. Non ha provato a contraddirmi nemmeno una volta. Quello schifoso coniglio.-
-Mi spieghi perché continua a chiamarlo coniglio.-
Una smorfia arrogante le curvò lievemente le labbra verso l'alto: -Era evidente che aveva paura di un confronto aperto. E' comprensibile, dato che ho acquistato una certa capacità di far stare le persone al loro posto da quando sono a capo dell'azienda di mio marito. Aveva capito che era inutile combattere una battaglia che aveva già perso al momento del divorzio.- No, pensai. Non era di te che aveva paura.
-Che tipo di cose strane diceva?-
-“Verrà”, “E’ finita” e cose sconnesse su un’ombra, mi pare. Cose da manicomio. Quel cretino aveva esagerato con l'alcool, come faceva ogni giorno della sua vita-
L’Ombra. Lanciai un’occhiata veloce a Sam: era immerso nei suoi pensieri, probabilmente cercando di collegare le due vittime fra loro. Notai con soddisfazione come una smorfia confusa si dipingeva sul suo viso. Non l’avrebbero mai trovato prima di me. Una caccia si stava trasformando in una gara a "chi arriva primo" con i Winchester e questo mi dava abbastanza fastidio: avevamo passato solo una giornata insieme e avevo già fatto la lista delle cose che sarebbero potute andare storte a causa loro, prima fra tutte il fatto che le loro indagini avrebbero potuto intralciare le mie.
Mentre guardavo Sam, ripensai a quello che mi aveva detto su Gilda Strike. Non erano passate che due ore da quando io e Dean avevamo scoperto il cadavere e lui sapeva già cose che non erano sicuramente scritte nei rapporti di polizia. Per saperle sarebbe dovuto andare all'anagrafe per chiedere il permesso di consultare i dati, ma anche se lo avesse fatto non sarebbe riuscito a raccogliere le informazioni necessarie in meno di un'ora, che era il lasso di tempo durante il quale non avevo più visto i Winchester. Ora, le opzioni erano due: o avevo a che fare con due cacciatori eccezionalmente bravi, o la storia dei coniugi Marly era più conosciuta di quello che aveva sostenuto. La fama che si erano fatti durante questi anni non lasciava dubbi sul fatto che fossero i cacciatori migliori in circolazione, ma potevo ancora sperare che non fossero così esperti da capire in una settimana quello che a me era rimasto un mistero per più di un anno.
Assorta com'ero nei miei pensieri, non mi resi conto che avevo ancora gli occhi puntati su Sam finché lui non alzò lo sguardo, incrociandolo con il mio. Appena me ne accorsi mi voltai subito da un'altra parte, avvampando senza controllo.
-Ultima domanda: conosceva Jeanne Johnson?-
-Mai sentita nominare- replicò asciutta e qualcosa mi disse che diceva la verità.
-Grazie, credo che abbiamo finito- dissi alla donna che continuava a fissarmi con aria incuriosita. Era da quando avevamo iniziato la conversazione che continuava a guardarmi in quel modo che, oltre a mettermi terribilmente a disagio, mi faceva sentire insignificante.
-Come hai detto che ti chiami?- chiese, visibilmente incuriosita.
-Mary Ford- risposi sospettosa. Perché adesso le interessava tanto il mio nome? E perché diavolo non chiedeva qualcosa a Sam invece di fissarmi come se fossi stata uno scherzo della natura? Stavo per chiederle spiegazioni, ma lei mi anticipò.
-E' per caso italiana? Perché ha un curioso accento, ma lo nasconde discretamente e non comprendo bene da dove... 
-Co...Cosa... Non credo che...Sono...- balbettai. La sua catena di domande mi aveva disorientata. Non capivo cosa fosse tutto quell'interessa nei miei confronti. Mi interruppe nuovamente.
-Ha cambiato nome? No? Mi ricorda molto una donna italiana che abitava da queste parti. Aveva qualcosa come una dozzina di figli... Magari siete parenti.-
Il mio cuore perse un colpo. Conosceva mia madre? Nascosi le mani nella tasca del cappotto per nascondere il loro tremore. Respira, mi dissi. Respira e pensa a zittirla. Se parlava troppo rischiava di compromettere la mia identità. Non ero sicura che i Winchester non si sarebbero ricordati di me, nel caso qualcuno avesse nominato la famiglia Russo.
-Come si chiamava? Rossi, mi pare, o qualcosa del genere...- 
-Mi dispiace, non conosco nessuno da queste parti- la interruppi. 
-Ho vissuto quasi tutta la mia vita nel Michigan- aggiunsi. Magari se le avessi detto qualche bugia si sarebbe tolta quell'idea dalla testa.
-Ora scusi, ma dobbiamo davvero andare- affermai, e mi voltai incamminandomi con le gambe tremanti verso Dean che aveva smesso di parlare con Marly Junior e mi veniva incontro. La testa aveva ricominciato a farmi male e le mani non smettevano di tremare dentro le tasche.
 Dopo qualche secondo Sam mi raggiunse.
-Cosa ne pensa?- chiese.
-Penso che con una famiglia del genere qualsiasi uomo si darebbe all'alcool- sbottai, facendolo ridere.
-Gilda Stike le ha fatto davvero una così brutta impressione?-
Sorrisi. -E' una donna arrogante e piena di sé, pettegola e fredda. Sembra che provi qualche emozione solo quando parla del figlio. Potrei dire che abbia ucciso lei Stan Marly, se non fossi sicura che non abbia mai nemmeno visto Jeanne. In più a troppe cose che potrebbe perdere se scoprissimo che è stata lei. E' troppo legata alla sua vita per rischiare di perdere tutto per un uomo che per lei non valeva niente.-
Il silenzio che seguì le mie parole non mi piacque. Alzai lo sguardo per guardare Sam e notai non senza una certa sorpresa che mi stava osservando.
-Che c'è?- chiesi, senza riuscire ad impedirmi di sorridere. Mi guardava allo stesso modo di quando eravamo ragazzi.
-Agente Ford, devo ammettere che non è male come detective.- disse sorridendo. Sorrisi a mia volta.
-Detto da uno che riesce a ricostruire la vita de coniugi Marly in meno di un'ora, è davvero lusinghiero- replicai.
-Quel deficiente non aveva niente da dire.- Fu la prima cosa che disse Dean non appena lo raggiungemmo, anche se da uno sguardo particolarmente "intenso" con cui guardò il fratello capii che una volta che fossero stati soli avrebbero discusso del caso e soprattutto di me. Lo vedevo da come non mi guardava che la sola mia presenza lo infastidiva parecchio.
-La scientifica dovrebbe avere i risultati dei test entro due giorni- dissi, ripetendo a pappagallo quello che avevo sentito dire da alcuni poliziotti qualche tempo prima.-Fino ad allora dovremmo cercare più informazioni possibili sulle vittime e su ciò che le accomunava. A meno che non sia uno psicopatico dovrebbe avere un criterio con cui sceglie le vittime.-
-M-mm...- Fu l'unico commento di Dean. Per qualche secondo nessuno parlò. Sam e Dean si scambiavano occhiate mentre io cercavo di capire ciò che cercavano di dirsi mentre fingevo di guardarmi intorno. Sostanzialmente, Dean non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me e voleva che Sam venisse a raccogliere informazioni al posto suo. Sam non voleva, ma non riuscii a capire bene il perché.
Probabilmente Sam l'ebbe vinta perché dopo un tempo fatto di sguardi, cenni e piccole smorfie, Dean si voltò verso l'uscita grugnendo un "Andiamo" che immaginavo dovesse essere rivolto a me.Mentre lo seguivo verso la mia macchina, mi ripetei di non rimanere troppo male per la scarsa fiducia che i due fratelli avevano in me. Dopotutto, una volta che avrei fatto a pezzi quello stronzo i Winchester non avrebbero più sentito parlare di me per il resto della loro vita così come io non gli avrei più rivisti. Al pensiero sentii un peso sullo stomaco che non riuscii a spiegarmi.





***Nota dell'autrice***
Buonasera!
Vi prometto che questa sarà la prima e l'ultima volta che metterò questa "nota" alla fine di un capitolo.
Ritenevo necessario informarvi che a causa della scuola sono davvero molto impegnata e vi prego di scusarmi se sarò più lenta del solito nella pubblicazione dei nuovi capitoli. Cercherò comunque di impegnarmi e ritagliare un po' di tempo per la scrittura della storia.
Chiedo venia anche per questo capitolo così noioso e simile a quelli precedenti. Consideratelo un capitolo "di transito": questa banalità si rivelerà utile nei prossimi capitoli (sempre che riesca ad ottenere l'effetto sperato).
Sono sempre aperta a consigli e critiche (se costruttive)
Saluti:)

Black_Tear

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Capitolo 7
*** Secrets ***


Non ricordavo di essere mai stata più stanca di quella sera quando, dopo un giro di interrogatori al bar in cui era stato Peter Johnson la sera della morte della moglie, io e Dean tornammo alla centrale di polizia. Avevamo parlato solamente lo stretto necessario, mentre il resto del tempo era stato riempito da un silenzio a dir poco imbarazzante. Non che avessimo provato ad iniziare una conversazione: ciascuno dei due si era limitato a guardare fuori dal finestrino dell'auto senza proferire parola. Per quel che mi riguardava, meno parlavamo meglio era soprattutto per me, per mantenere il "distacco emotivo" ed evitare di rievocare ricordi spiacevoli.
L'orologio sul cruscotto segnava le 19.43 quando parcheggiai davanti alla centrale, dove avremmo dovuto incontrare Sam. Speravo che fosse stato sfortunato quanto noi, ma la pila di fascicoli con la quale ci venne incontro non appena mettemmo piede all'interno dell'edificio demolì le mie speranze.

-Ho trovato qualcosa- annunciò.Non riuscii a capire se il tono che aveva usato fosse sorpreso o cos'altro, ma non ci prestai attenzione.
Lo osservai mentre veniva verso di noi, o meglio osservai ciò che aveva in mano cercando di contarli. Otto. Le farfalle iniziarono a volare forsennatamente nel mio stomaco. Probabilmente tra i fascicoli due riguardavano le vittime più recenti perciò ne rimanevano sei, e io sapevo perfettamente il loro contenuto. Avevo pregato che andassero persi, ma a quanto pareva non era servito a niente.
Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, ma non pensavo così presto. O meglio, non volevo credere che arrivasse così presto. Era ovvio che sarebbe stata una delle prime cose in cui si sarebbero imbattuti, anche perché non c'erano stati molti altri casi di omicidi in quella cittadina, ma non avevo mai considerato seriamente il problema e solo allora mi resi conto che avrebbero scoperto la mia identità. "Ma forse è la cosa migliore" sussurrò la vocina nella mia testa. No, non era la cosa migliore. Non volevo che sapessero ciò che era successo alla mia famiglia, che si mettessero in mezzo a cose che non li riguardavano come facevano sempre, come avevano fatto anche con la mia vita, per poi sparire nel nulla. Non avrei permesso che si intromettessero nella mia caccia e lasciare che scoprissero il mio segreto avrebbe significato dare loro una buona ragione per intromettersi. Non eravamo stati insieme a lungo, ma abbastanza perché capissi che il senso del dovere da cui erano oppressi i Winchester, soprattutto Dean, avrebbe fatto sì che si ritenessero responsabili della morte della mia famiglia e questo li avrebbe spronati ad aiutarmi, con o contro la mia volontà. Dovevo trovare una scusa ragionevole per depistarli e, possibilmente, sottrarre loro i fascicoli. O, almeno, dovevo impedire che ci pensassero troppo. Magari avrei potuto fingere uno svenimento: dopotutto avevo già fatto tante figuracce che una in più non avrebbe cambiato le cose.
Assorta com'ero nella difficile arte del tessere bugie, quasi non mi accorsi che i Winchester si stavano allontanando e si dirigevano verso la stanza degli interrogatori. Mentre mi esibivo in una sorta di cosetta per raggiungerli, mi chiesi perché avessero scelto proprio quella stanza.
Era abbastanza grande, con pareti grige e arredata con un semplice tavolo di acciaio e tre sedie dall'aria piuttosto scomoda. Al posto della parete alla mia sinistra c'era uno specchio enorme. Non mi sentivo a mio agio sapendo che qualcuno avrebbe potuto osservarci e ascoltarci da lì, e mi ripromisi di stare molto attenta a ciò che dicevo. I Winchester presero posto uno di fronte all'altro. 
-Non si siede?- chiese Sam.
-Preferisco stare in piedi, la ringrazio- risposi e solo allora, quando posai lo sguardo su di lui, notai il suo aspetto stanco e oserei dire sconvolto.
-Sta bene?- gli chiesi, sinceramente preoccupata. Era una caratteristica che mi portavo dietro da quando ero nata, l'empatia, un aspetto del mio carattere che non ero riuscita a cambiare nonostante tutti i miei sforzi: quando qualcuno soffriva, soffrivo anch'io.
-No, in effetti no- rispose. Quella era l'ultima risposta che mi sarei aspettata. Ammettere in quel modo i propri momenti di debolezza davanti ad una persona che si conosce appena è una cosa molto stupida. Esitai,indecisa su cosa dire. Un'altra caratteristica indelebile era la mia incapacità di consolare le altre persone. Di solito ero capace solo di peggiorare tutto.
Fortunatamente Dean interruppe il silenzio quasi immediatamente:- Quando voi ragazze avrete finito di parlare dei vostri sentimenti potremo passare alle cose importanti, cosa ne dite?- Ed eccolo lì, il sorriso più irritante del mondo tornato a peggiorarmi ulteriormente la giornata. Lanciandogli un'occhiataccia, mi spostai verso la mia sinistra, dietro a Sam, e mi appoggiai alla parete-specchio. In quella posizione non vedevo i fascicoli, coperti dal corpo di Sam, e nemmeno la parete-specchio. Mi sarebbe piaciuto trovare un modo per evitare di vedere anche Dean, che non aveva ancora perso la sua espressione arrogante, ma sfortunatamente la stanza era troppo piccola e dovetti accontentarmi.
-Bene, voi avete scoperto qualcosa?-chiese Sam.
-Solo il numero della barista.- Dissi, guardando Dean. Non ero riuscita a fermarmi, ma non avevo mentito. Il resto delle persone con cui avevamo parlato erano ubriaconi che non ricordavano nemmeno il proprio nome.
-Ha dato la sua disponibilità per aiutarci- si difese Dean, distogliendo lo sguardo. Effettivamente aveva scritto il suo numero su un pezzo di carta, dicendo che se avessimo avuto bisogno sarebbe stata più che disponibile ad aiutarci. La cosa non sarebbe stata tanto strana se non avesse sussurrato le parole con una voce seducente, guardando Dean negli occhi e sbattendo le ciglia, esattamente come la cameriera del ristorante.
- Certo, per aiutarci...- commentai con un mezzo sorriso.
-I clienti non sapevano dirci niente e lei non se lo ricordava. Quella sera c'era un sacco di gente e non faceva attenzione alle facce.- aggiunsi prima che Dean potesse ribattere. -Ma secondo me non è stato lui.- 
-Cosa glielo fa dire?- chiese Dean.
Mi strinsi nelle spalle. Non volevo che il signor Johnson fosse accusato di una cosa che non aveva fatto, ma non avevo vere e proprie prove per sostenere la sua innocenza.
-Non mi ha dato l'impressione di essere i grado di uccidere una persona.E non credo che avrebbe avuto interesse ad uccidere Stan Marly- dissi. 
- Ammetta però che aveva qualcosa di strano.-
Ripensai al sorriso che mi aveva rivolto, al suoi sbalzi d'umore e al suo interesse per la mia famiglia.
-In effetti era...particolare...-
-Quel "particolare" in grado di fare a pezzi la moglie.- ribatté Dean. Un brivido percorse la mia schiena. Sangue. Grida. Armadio. Fui costretta a combattere nuovamente con le lacrime.
-Che delicatezza.-commentai, rendendomi conto di quanto suonassero ipocrite solamente dopo averle pronunciate. Avevo usato le stesse parole con Peter Johnson, e non avevo pensato a come si sarebbe sentito. Il disprezzo per me stessa aumentò ulteriormente. Ero un'assassina bugiarda, insensibile e ipocrita.
-Mi scusi, non era mia intenzione turbarla!- ribatté scontroso. -Non so se se n'è resa conto, ma la delicatezza non serve a niente in questo lavoro.- continuò, passandosi una mano tra i capelli.
Per qualche secondo ci fu silenzio. Nemmeno Sam, che di solito faceva di tutto per far sentire le persone a proprio agio, non accennava a voler prendere la parola, anzi, aveva lo sguardo perso nel vuoto. Non ci voleva un genio per capire che tra i Winchester c'era qualcosa che non andava, anche se non riuscivo a capire cosa. Certo, era più di un semplice litigio. Odiavo vederli in quello stato. 
-Ha ragione, mi dispiace.- dissi istintivamente e velocemente, fissando un punto a caso del pavimento.
-Agente Wilson, lei ha trovato qualcosa di meglio?- chiesi, cercando di cambiare argomento. Sentivo lo sguardo di Dean su di me, ma io fissai il mio sulle spalle di Sam. Sapevo benissimo che quella domanda avrebbe portato a galla ciò che preferivo rimanesse sepolto, ma ormai le emozioni stavano prendendo il sopravvento su di me, anche se cercavo qualsiasi pretesto per nasconderle. Procrastinare non faceva altro che agitarmi ulteriormente e, come si dice, tolto il dente, tolto il dolore, anche se in quel caso temevo che il dolore mi avrebbe distrutta.
-Diamoci del tu, le va? Jeff.- disse, girandosi verso di me. Gli sorrisi. Fingere di non conoscerli diventava sempre più strano.
-Va bene, Jeff. Qualcosa di interessante?- Le mani iniziarono a tremare più violentemente di prima e fui costretta a infilarle in tasca e brividi freddi mi scorrevano lungo la schiena mentre prendeva in mano il primo pacco di fogli.
-C'è stato un altro caso simile a quelli che si stanno verificando...o meglio, altri quattro.- disse prendendo altri tre fascicoli. Quattro morti, due dispersi. Lo sentii sospirare mentre apriva un documento.
-Dieci anni fa la famiglia Russo è stata...aggredita.- Una fitta violenta si propagò dallo stomaco alla gola, spingendo le lacrime ad uscire. Chiusi gli occhi. Mi sentivo in trappola. Ogni parte di me voleva correre via, gridare e prendere a pugni qualcosa, ma non riuscivo a muovermi. Respirai profondamente, come avevo imparato a fare nei momenti difficili, ma nemmeno questo funzionò. Dentro le tasche, le mani erano strette a pugno e le unghie conficcate nei palmi. Iniziai a mordermi violentemente il labbro mentre la tristezza e il senso di colpa mi prendevano a pugni, inghiottendo il dolore. Oltre il buio delle mie palpebre non volava una mosca. Solo dopo qualche secondo sentii un -Cosa?!- pronunciato dalla voce profonda di Dean e una sedia spostarsi con un suono metallico. Sentii il fruscio dei fogli dei fascicoli, poi il tonfo dello stesso oggetto che veniva lasciato cadere sul tavolo. Per un attimo, fu come se il resto del mondo sparisse e rimanessi sola in compagnia del mio dolore e di quei suoni. Inspira. Espira. Fai quello che devi fare, non lasciar cadere il muro. Con uno sforzo sovrumano riuscii a ricacciare indietro le lacrime e ad aprire gli occhi. Il dolore non si era attenuato, anzi, si accentuò quando vidi che Sam mi osservava e Dean, in piedi, leggeva un foglio con una foga inaspettata, passandosi una mano sulla bocca di tanto in tanto. Dovevo trovare una scusa per giustificare le mia reazione o Sam avrebbe capito, ma la mia testa si rifiutava di collaborare. Avrei dovuto dire qualcosa, ma non sapevo più cosa sarebbe suonato credibile e cosa no, e soprattutto se sarei riuscita a nascondere il tremore della voce. Non dissi niente e Sam non fece domande.
Dopo un silenzio interminabile, Dean lasciò cadere il foglio alzando gli occhi al soffitto mentre sbuffava. Aveva gli occhi lucidi? Mi morsi le labbra ancor più violentemente. Non fare l'idiota, non si ricorda di te, è andato avanti. Non gira tutto intorno a te. 
-E' quella famiglia di cui parlava Gilda, non è vero?- chiesi debolmente. -Quella con una dozzina di figli?- Provai a sorridere ma tutto ciò che uscì fu una smorfia. Sam annuì, alzandosi in piedi. Fece qualche passo verso la porta e poi di nuovo indietro fino alla sedia.
- Fabrizio Russo, 45 anni, camionista, sposato con Alessandra Fabian, 40, disoccupata. Avevano quattro figli, un maschio, Michael, 19 anni, e tre figlie: Diana, 17, Jade, 16, e Cara, 5. Venivano dall'Italia e si erano trasferiti qui per cercare lavoro. - Prese quattro fascicoli e me li porse. Esitai prima di tirare fuori una mano tremante dalla tasca e afferrarli. Li strinsi al petto e mi appoggiai alla parete dietro di me. Sentivo che sarei potuta cadere da un momento all'altro. -L'assassino si è introdotto in casa la notte del 23 Novembre. Le vittime furono Michael, Diana, Cara e la madre. Fabrizio Russo era fuori città e non sono più riusciti a rintracciarlo.- Fece una pausa, cosa che mi permise di fare quello che non volevo fare: ricordare. Le immagini di quella notte irruppero nella mia testa con la violenza di una valanga. La neve fredda mi stava trascinando via, ma non riuscivo a reagire. Stavo immobile, a contemplarla mentre mi faceva a pezzi.
-Non è stato trovato il corpo di Jade Russo, dichiarata dispersa.- continuò Sam. -Le ricerche nel territorio circostante si sono rivelate inutili, perciò si esclude l'ipotesi che sia scappata...-
-Non sarebbe scappata...- mormorò Dean. Il battito del mio cuore aumentò mentre mi voltavo verso di lui. Invece è proprio quello che ho fatto, Dean.
-...e si è pensato che sia stata rapita dall'assassino. Ovviamente non è mai stata ritrovata.- finì Sam, lanciando una delle sue solite occhiate eloquenti a Dean. Non mi preoccupai di decodificare la loro ennesima conversazione silenziosa. Il mal di testa stava iniziando a farsi sentire, e cresceva assieme ai miei tentativi di controllare i miei pensieri e il mio corpo. Il nodo alla gola pesava, le gambe tremavano e gli occhi bruciavano, ma dovevo pretendere che fosse tutto normale. Come prima di conoscere i Winchester.
Basta, dovevo smetterla di comportarmi da vigliacca e affrontare il contenuto di quelle cartelle. Facendo appello a tutto la mia forza interiore appoggiai i fascicoli sul tavolo e aprii il primo. Guarda caso, era proprio il mio. Una ragazzina mi guardava sorridente dalla foto attaccata al primo foglio. Gli occhi grandi di un marrone spento mi fissavano da un viso rotondo e pallido, privo di trucco. Aveva i capelli scuri e ricci e indossava una semplice maglietta grigia, che era appartenuta a Michael, su cui brillava la collana con il pentacolo. Riconobbi lo sfondo blu e il mio sorriso forzato: era la foto dell'annuario. Era stata scattata lo stesso giorno in cui Sam e Dean se n'erano andati, pochi giorni prima della morte della mia famiglia.Non mi soffermai sulla foto e scorsi velocemente i fogli . Volevo sapere cosa sapevano e cosa non sapevano di me, e fortunatamente non sapevano nulla di importante. Una cosa,però, colpì la mia attenzione: all'ultimo foglio era allegata una foto di mio padre.
Era la prima volta che lo rivedevo dopo quasi undici anni. La barba nera e incolta presentava già alcuni peli canuti, e la pelle abbronzata e rovinata gli donava qualche anno in più. La ragazzina di qualche pagina prima non gli somigliava se non per il colore degli occhi, di quel marrone che avevo sempre detestato. Fissai la foto qualche istante, provando a ricordarmi il suono della sua voce, il suo profumo, ma tutto quello a cui riuscivo a pensare erano le grida di mia madre mentre veniva uccisa. 
E tu non c'eri,papà. Respirai profondamente un paio di volte per calmare il battito cardiaco e impedirmi di distruggere il foglio che tenevo tra le mani. Lessi velocemente ciò che era scritto: era stato accusato lui per gli omicidi e per il mio presunto rapimento e il fatto che non fosse più tornato a Jefferson City forniva una prova sufficiente a fare di lui il sospettato principale. Poveri sciocchi. Probabilmente aveva sentito dell'omicidio alla radio ed era scappato per evitare rogne, oppure aveva già deciso di filarsela una volta per tutte e che l'omicidio fosse accaduto nello stesso periodo era una coincidenza.
-Che c'è?-  In un primo momento non capii che la domanda di Dean era rivolta a me.
-Cosa?-
-Non lo so, stai tenendo quel foglio come se lo volessi distruggere.- Abbassai lo sguardo sulle mie mani e constatai che effettivamente lo stavo stringendo con troppa foga e i bordi si erano spiegazzati. I Winchester mi guardavano e mi sentii avvampare, anche se non sapevo spiegare il perché, dato che non era la prima volta che mi rendevo ridicola davanti a loro. Lo appoggiai sul tavolo cercando di riparare al danno mentre cercavo una scusa convincente.
-Sospettavano del padre.- fu tutto quello che riuscii a dire.
-Figlio di puttana...- mormorò Dean, prendendomi il foglio dalle mani.
-Cosa vuoi dire?-. Ero confusa. Credeva veramente che fosse stato mio padre? O era un'imprecazione generica?
-Dobbiamo prendere quel bastardo- disse, senza rispondere alla mia domanda e lasciandomi ancora più confusa. 
-Chi, Fabrizio Russo?- Alla domanda si girò verso di me, come se mi notasse per la prima volta. Lo sguardo che mi rivolse mi spaventò; sembrava studiarmi con un'attenzione che mi fece sospettare che avesse capito tutto. Rimanemmo in silenzio per qualche istante.
-Cosa c'è?- chiesi infine con l'ansia che saliva sempre di più. Scosse la testa.
-Mi ero dimenticato che fossi italiana.- Merda. Sapevo che l'accento mi avrebbe tradita, prima o poi.
-Quindi?- chiesi di nuovo, con il cuore in gola.
-Niente, ma è una strana coincidenza.- disse, togliendomi dalle mani l'intera cartella.
Non ero sicura che la sua reazione fosse dovuta solo a quello, ma decisi di lasciar perdere. Inoltre se avessi insistito avrei rischiato di peggiorare le cose. Per questo mi limitai a mormorare un "Già...". 
Sam aveva preso il fascicolo di Jeanne Johnson e lo stava leggendo e Dean era impegnato con il mio. Sul tavolo, di fronte a me, c'erano quelli del resto dei miei famigliari. Una morsa d'acciaio mi strinse lo stomaco. Era l'ultima cosa che avrei voluto fare, ma d'altra parte non potevo continuare a vivere ignorando il passato,no? No che non potevo. Dovevo leggere. Li avrei letti. E l'avrei fatto veramente, se fossi stata capace di muovermi.
Non ero pronta, mi serviva tempo. Qualsiasi pretesto sarebbe stato buono per allontanarmi da lì.
- Io...prendo un caffè. Volete qualcosa?-  
Sam mi rivolse una specie di sorriso, declinando l'offerta con la testa, mentre Dean non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Lo presi per un no. Uscendo, mi lasciai la porta aperta alle spalle.
Non andai alla macchinetta del caffè, ma mi fiondai in bagno, ignorando gli sguardi straniti degli agenti di turno. Feci appena in tempo a chiudere la porta prima che le gambe mi cedessero. Mi appoggiai al lavandino per non cadere mentre il sangue mi pulsava nelle tempie.
Dieci anni. Per dieci anni ero riuscita a tirare avanti senza problemi a fare finta che quella notte non fosse mai esistita, pretendendo di essere stata sempre sola, di aver sempre dato la caccia al mostro e di essere nata per fare quello. Poi, all'improvviso, l'equilibrio era stato spezzato da quella città e soprattutto dai Winchester e dalla mia determinazione a tener loro nascosto chi ero veramente.
Guardai il mio riflesso nello specchio. La donna riflessa era completamente diversa dalla ragazzina nella foto. I capelli erano biondi e lisci, gli zigomi sporgenti e le guance lievemente incavate. La pelle cadaverica era risaltata dal trucco nero e gli occhi sembravano più scuri di quelli che avevo nella foto. Al posto della vecchia maglietta grigia di mio fratello indossavo una camicia, verde scuro, coperta dalla giacca di pelle nera. Portai la mano al collo, estraendo dalla camicia la collana d'argento e stringendola, come per accertarmi che fossi la stessa persona. Esteriormente ero cresciuta e cambiata, interiormente ero rimasta la ragazzina della foto.
Misi i polsi sotto l'acqua e aspettai di riprendere un po' di colore prima di uscire dal bagno e tornare dai Winchester. Non avevo preso il caffè, ma non credevo se ne sarebbero accorti.
-Sono morti, Sam!- Sentii quando arrivai in prossimità della porta che avevo lasciato aperta. Capii subito che stavano parlando della mia famiglia.La voce di Dean era lievemente alterata, ma contenuta e dovetti avvicinarmi allo stipite per riuscire a sentire meglio. 
-Ce ne siamo andati e sono morti!- continuò Dean.
-Non...Jade potrebbe...-
-Credi davvero che si sia salvata? Cos'è, scappata in mezzo ai boschi in pieno inverno, sconvolta, senza avere un posto dove andare e si è salvata?-
Silenzio.
-Ecco, appunto.- disse Dean, con un tono di voce considerevolmente più basso.
-Se fossimo rimasti solo qualche giorno in più...-questa volta era stato Sam a parlare.
-Non potevamo saperlo.-
-Ma tu avevi insistito per rimanere ancora. Se papà ti avesse ascoltato...-
-Non scaricare la colpa su nostro padre.-
-Non sto dando la colpa a nessuno,Dean.-
Silenzio.
Una breve risata.
-Che c'è?- chiese Sam.
-Venendo qui sapevo che non l'avremmo rivista. Voleva andarsene da qui...Solo...Non pensavo che se ne sarebbe andata in questo modo.-
Non me ne sono andata, sono ancora qui.
Il silenzio regnò sovrano per un tempo che parve interminabile.
-Ci vorrebbe del whisky.- continuò Dean, prima che nella stanza piombasse di nuovo il silenzio.

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Capitolo 8
*** Did I fall asleep? ***


Ero ferma.
La stanza girava.
Da quello che potevo vedere, era una bella stanza, dalle pareti color panna ed arredata con qualche mobile chiaro che però non riuscivo a distinguere bene. Gli oggetti giravano abbastanza lentamente per consentirmi di vederli, ma troppo veloci perché riuscissi a guardarli nel dettaglio.
Avevo la netta sensazione di non toccare i suolo, ma, non appena provavo a muovermi, percepivo chiaramente la superficie dura del pavimento. Era freddo. Probabilmente ero a piedi scalzi, ma non avrei saputo dirlo con certezza. Non ero nemmeno in grado di stabilire se fossi vestita. Non percepivo niente.
Confusione e pace convivevano nel mio corpo, producendo una sensazione indescrivibile che mi terrorizzò, anche se non ero in grado di capirne il motivo.
Sentivo i muscoli intorpiditi e pesanti, come se avessi dormito troppo a lungo e non riuscivo a camminare, solo a spostare i piedi di qualche centimetro. Passò un tempo che parve interminabile, durante il quale dovetti combattere contro la nausea, prima che riuscissi a fare un vero e proprio passo. Non appena posai il piede per terra, però, la stanza iniziò a roteare ancora più velocemente, destabilizzandomi. Il piede perse l'appoggio ed ebbi l'impressione di cadere in avanti. Cercai istintivamente di portare le mani avanti per attutire il colpo, ma mi accorsi con orrore di non riuscire a muoverle. Erano rigide lungo i fianchi, impotenti. Cercai di gridare, ma dalla gola uscì solamente un suono strozzato. Il pavimento in legno era ormai a pochi centimetri dal mio naso, quando improvvisamente la mia caduta si fermò.Rimasi qualche secondo orizzontale, sospesa a mezz'aria, a fissare le sfaccettature del legno scheggiato prima di alzare la testa, sperando che la stanza avesse smesso di girare. Constatai, invece, che i muri continuavano il loro moto. Provai a muovere il resto del corpo, senza successo.
Ero bloccata mentre tutto intorno a me continuava a muoversi.
Non passò molto prima che sentissi una lieve pressione sul polso della mano sinistra. La presenza del terreno tornò a farsi sentire sotto i piedi, anche se continuavo ad avere il mio viso ad un palmo dal pavimento. Mi stavo chiedendo come fosse possibile, quando la pressione sul polso mi costrinse a fare mezzo giro su me stessa, facendo in modo che dessi le spalle al "pavimento" e mi trovassi di fronte ad un uomo un po' più alto di me. Stringeva delicatamente il mio polso e con l'altra mano che premeva leggera sulla mia vita, mi traeva più vicina a lui.
Sapevo chi fosse ancora prima di alzare lo sguardo sul suo viso e incontrare i suoi brillanti occhi verdi e il suo sorriso beffardo.
-Meno male che passavo di qua, o avresti preso davvero una bella botta.-
Sorrisi, incapace di far uscire alcun suono dalle labbra.
Voltai la testa per controllare se ci fosse ancora il "pavimento" su cui stavo per cadere. Era sparito. Vedevo solo le pareti e i mobili girare.
-Che c'è?- chiese Dean.
Ogni parte di me voleva parlargli, spiegargli tutto, chiedergli dove fossimo, come ci eravamo arrivati e perché lui fosse così tranquillo, ma non riuscivo a proferire parola.
Tornai a guardarlo, scuotendo lievemente la testa. Il mio viso era ad un soffio dal suo, ma mi sentivo stranamente a mio agio.
Solo allora mi accorsi della musica. In qualche modo sapevo che c'era sempre stata, ma non ci avevo fatto caso fino a quel momento. E, quasi nello stesso istante in cui me ne resi conto, Dean iniziò a condurmi in una danza, seguendo le note. Mi lasciai guidare, ridendo. Non mi sarei mai aspettata di vederlo ballare.
Per qualche tempo mi dimenticai completamente di dove fossi e mi concentrai solamente sul suo viso. Non prestai più attenzione né alla musica né alla disavventura di qualche secondo prima. L'intorpidimento e la pesantezza dei muscoli, così come la confusione e la paura, erano spariti lasciando spazio ad una leggerezza dolce e piacevole.
Giravamo su noi stessi sempre più velocemente, fino a raggiungere la stessa velocità della stanza. Guardandomi intorno, sembrava che tutto si fosse fermato, mentre in realtà ero io che avevo iniziato a muovermi. O almeno, la pensavo così finché non mi accorsi che Dean non mi stringeva più e la nostra danza era finita assieme alla musica.
Fui assalita dal panico, guardandomi intorno cercandolo senza successo. Ero da sola.
La stanza era una camera da letto. Al centro della stanza era posto un letto matrimoniale sfatto, accanto ad esso, uno a destra ed uno a sinistra, due comodini di legno chiaro e dietro di me un armadio dello stesso materiale. Il pavimento era in legno, come quello su cui stavo per cadere poco prima.
Nella camera dei miei genitori era tutto esattamente come me lo ricordavo, tranne per un dettaglio: non c'erano finestre né porte. Sul muro, al posto della soglia, c'era un disegno stilizzato di una. Non appena lo vidi sobbalzai. Mi ricordava vagamente qualcosa, ma non riuscivo a ricordare cosa esattamente. Accennai qualche passo verso di esso e allungai la mano per sfiorare i suoi contorni neri. Sembrava cenere. Alzai lo sguardo sul suo volto per identificarla. Gli occhi erano stati disegnati in modo dettagliato, al contrario del resto del corpo.
Mi alzai in punta di piedi per guardarlo più da vicino, quando sentii un rumore di vetro infranto alle mie spalle.
Mi voltai, ma non c'era nessuno. Il cuore batteva all'impazzata e la testa aveva iniziato a girare, ma non era l'adrenalina questa volta. Ero terrorizzata e confusa. Dovevo uscire di lì, e la chiave per farlo era il disegno.
Tornai a guardarlo, ma era cambiato. Gli occhi erano sbarrati, rossi, e mi guardavano. La bocca si stava piegando lentamente in una smorfia i dolore, mentre lacrime rosso sangue sgorgavano dalle palpebre.
Poi accadde.
All'improvviso la donna si piegò su di me, spalancando la bocca in modo innaturale. Grida di bambini, donne e uomini si diffusero nella stanza, mentre il disegno sembrava contorcersi dal dolore, porgendomi le mani in cerca di aiuto.
Non glielo diedi.
Scappai, le mani nelle orecchie, e mi nascosi dentro l'armadio. Era più grande e meno buio di quello che mi ricordavo. Mi rannicchiai nell'angolo più lontano dalle ante con le mani premute sulle orecchie per non sentire le grida, ma non servì a niente.
Appoggiai la fronte sulle ginocchia e serrai gli occhi. Volevo che finisse tutto. Volevo tornare a fluttuare a mezz'aria con il naso che sfiorava il pavimento. Volevo tornare accanto a Dean.
Dopo un' infinità di tempo mi sembrò che le grida si fossero placate. Aprii gli occhi e tolsi le mani dalle orecchie.
Dall'esterno non proveniva un rumore, ma all'interno, accanto a me, erano comparse due persone. Una bambina di circa sei anni e una ragazza, la stessa che avevo visto nella foto del fascicolo.
-Cosa fate?- chiesi. Sapevo benissimo cosa stessero facendo, ma le parole uscirono senza che potesi fermarle.
-Giochiamo a nascondino con un mostro- disse tranquillamente la Me di dieci anni prima.
-Un mostro?-
Annuì.
-Come si gioca?-
-Non è molto diverso dal nascondino tradizionale: lui conta, tu ti nascondi e quando ha finito di contare prova a trovarti.-
-E cos'ha di diverso dal nascondino tradizionale?-
-Praticamente niente...Chi cerca è un mostro e se ti trova può ucciderti.-
Parlava tranquillamente, come se fosse la cosa più normale del mondo.
-Chi sta vincendo?- chiesi con voce tremante, anche se sapevo già la risposta.
-Lui. Pensa che ha già ucciso la mamma, Michael e Diana. Ma rimaniamo io e Cara. Penso che potremmo vincere noi due!-
-Non credi sia scontato nascondersi in un armadio?-
Alla mia domanda si voltarono entrambe verso di me, improvvisamente pallide, con gli occhi sbarrati dalla paura.
-Non dovevi dirlo- dissero in coro, prima che la porta dell'armadio si aprisse e venissero risucchiate fuori.

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