Twinge.

di Gens
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** Chapter 1. ***
Capitolo 3: *** Chapter 2. ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


Camille aprì gli occhi, e sbadigliò appena portandosi una mano alla bocca.
Si stropicciò la faccia ancora assonnata e si mise seduta, posando lo sguardo sull’orologio del comodino.
Era ancora presto.
Sua madre Clarissa aprì la porta ed entrò in stanza, dirigendosi verso la sedia dove erano ammucchiati i vestiti sporchi che doveva lavare.
“Sei già sveglia?” le chiese sua madre, scegliendo quali magliette lavare prima.
La ragazza annuì, ricordandosi il perché era già sveglia a quell’ora.
“Va tutto bene?” le chiese ancora, vedendo lo sguardo turbato della figlia e i suoi occhi lucidi.
Lei annuì ancora. Sua madre lasciò cadere le cose sulla sedia e si avvicinò al letto, sedendosi ai piedi della ragazza. “È successo qualcosa?” le domandò, accarezzandole i capelli.
Camille scosse la testa. “Ho avuto un incubo” sussurrò, con la voce rotta.
Abbassò lo sguardo, e cercò in tutti i modi di cacciare via le immagini di quell’incubo dalla mente, ma queste non sembravano fermarsi, anzi; erano chiuse in un ciclo di pensieri che sembrava non interrompersi mai.
“Vuoi parlarne?” chiese Clarissa, che aspettò una qualche reazione della figlia.
Lei sollevò la testa e con le lacrime agli occhi e la voce rotta, disse solo: “Non te ne andrai, vero?”.
Sua madre spalancò gli occhi sorpresa da quella domanda, ma subito capì quale era stato l’incubo di sua figlia. “No che non me ne andrò, rimarrò sempre qui” le promise, abbracciandola e lasciando che quel terrore scivolasse via da lei.
“Promettimelo” sussurrò Camille.
“Te lo prometto”.
-
Camille corse fuori di casa e a passo svelto si diresse verso il luogo dove la sua amica Isabelle l’aspettava per andare a scuola. L’incubo e la conversazione con la madre l’avevano turbata a tal punto che aveva ritardato e adesso doveva fare in fretta affinché entrambe arrivassero a scuola in tempo.
Quando arrivò al luogo stabilito, Isabelle giocava col cellulare. Era una persona troppo attiva per starsene ferma con le mani in mano.
“Eccomi!” si fece notare dall’amica, che mise il telefono in tasca e l’affiancò, mentre si incamminavano verso la scuola.
“Come va stamattina?” le chiese Isabelle. Era una domanda di routine, quella che fai per iniziare una conversazione.
“Bene, tu?” le chiese Camille, giocando con le dita.
Non voleva dirle dell’incubo e della conversazione con sua madre, perché ora, a distanza di tempo, sembrava una cosa stupida e per bambini piccoli.
Avere gli incubi era una cosa normale, tutti ce li avevano, e molte persone li avevano di quel tipo. Semplicemente quella volta era toccato a lei.
“Bene. Sono in ansia per l’interrogazione, ma quello è normale” Isabelle sospirò, sollevando le spalle.
Camille annuì. Anche a lei quell’interrogazione metteva ansia, ci teneva alla scuola così come ai voti. Erano qualcosa di fondamentale per lei. Non poteva andare male, la scuola era tutto in quel momento della sua vita.
“Penso che tutti lo siamo, tre ore sono tante. Potrebbe interrogare tutti se solo lo volesse” affermò Camille, storcendo la bocca in segno di disappunto.
“Quella stronza” si lamentò Isabelle.
Varcarono il cancello principale e si incamminarono verso il loro posto preferito del cortile, quello sotto l’albero. “È il mio peggior incubo” continuò, passandosi una mano tra i capelli.
“Ci sono incubi peggiori” le rispose, ma Isabelle non riuscì a sentirla, perché la campanella suonò e il rumore coprì la sua voce.
“Cosa?” le chiese Isabelle quando tutto quel caos cessò.
“Niente, dicevo solo che stava per suonare la campanella ed è suonata mentre lo dicevo” Camille le sorrise, prendendo un po’ di quella vitalità che quella mattina le mancava.
“Solita veggente” scherzò Isabelle, prima di prenderle il polso e trascinarla dentro scuola con la massa di studenti che, di malavoglia, si accalcava all’ingresso.
Mentre salivano le scale parlando del più e del meno, Camille diede una gomitata ad Isabelle, facendola smettere di parlare: “C’è Harry!” le disse entusiasta.
“Dove?” chiese la ragazza, guardandosi intorno.
“Lì!” Camille fece un cenno col capo verso la direzione giusta.
“Lì dove?” chiese Isabelle, visibilmente irritata.
“Lì, sulla scala a sinistra” le fece un altro piccolo cenno col viso.
Isabelle guardò in quella direzione e finalmente lo vide. Le strinse il polso e: “Quanto è bello?” chiese, con le scintille negli occhi.
Camille rise, divertita da quella situazione. “Non lo so, dimmelo tu” scherzò, continuando a ridere.
“Perché non sono popolare” si lamentò Isabelle continuando a guardare il ragazzo dai capelli ricci e gli occhi verdi. “Devo rinunciarci, vero?”.
L’amica ci pensò un po’ prima di rispondere. Isabelle poteva essere popolare se solo l’avesse voluto, ma aveva scelto lei, e il fatto che fosse sua amica la allontanava un po’ da quello che era il resto del mondo.
“Ma no, non devi. Non sai mai quello che può succedere” le disse, alzando le spalle.
“Già” rispose Isabelle, che donando un ultimo sguardo a Harry entrò in classe, seguita da Camille.
-
La giornata scolastica era stata lunga e pesante. Il momento peggiore era sicuramente stato quello delle tre ore di interrogazione, dal quale Camille era uscita con un nove e mezzo, mentre Isabelle con un otto. Avevano discusso molto su questo, su quanto difficile fosse stata e su come Camille avesse fatto a prendere un voto così alto, anche se non era una novità.
Quando uscirono da scuola, videro correre loro incontro un bambino piccolo, di appena cinque anni, e i capelli scuri come la sorella. Isabelle era uguale a suo fratello se non per gli occhi: quelli di lui erano di un azzurro intenso, che contrastavano coi suoi color cioccolato.
“Alex!” lo salutò, prendendolo in braccio. Alexander serrò le piccole braccia intorno al suo collo e le diede un bacio sulla guancia.
“La mamma è fuori che ci aspetta” disse il bambino, giocando coi capelli della sorella.
Camille guardò intenerita quella scena, aveva sempre desiderato avere un fratello.
“D’accordo, allora io vado” fece per congedarsi Camille, ma il suo tentativo fu vano.
“No Lille” disse Alex, che il nome intero della ragazza non lo sapeva proprio dire. “Vieni con noi” continuò ancora.
“Sì, ti diamo un passaggio, ovviamente” sorrise Isabelle.
Succedeva sempre così: i genitori di una delle due un giorno si presentavano a scuola per riportarle a casa e l’altra faceva per andarsene, ma prontamente veniva bloccata dall’offerta di un passaggio.
Isabelle lasciò andare Alexander che si mise a correre verso l’uscita, seguito dalle due ragazze che non distavano molto da lui.
Il bambino correva fino a quando non si scontrò contro qualcuno e cadde col sedere a terra. Gli occhi gli si fecero lucidi e iniziò a piangere.
Il ragazzo che l’aveva preso in pieno proprio non si era accorto di lui, e mentre il resto del suo gruppo si allontanava, lui si piegò sulle ginocchia e rimise in piedi il bambino.
“No bel bambino, non piangere” cercò di rassicurarlo, asciugandogli le lacrime e togliendogli lo sporco dai pantaloni.
Le sue consolazioni però furono bloccate dall’arrivo della sorella, che preoccupata si assicurò che suo fratello stesse bene.
“Scusami, io non l’avevo proprio visto” si scusò il ragazzo, che piegato sulle ginocchia controllava ancora le condizioni del bambino.
Isabelle spostò lo sguardo dal bambino per incontrare gli occhi verde scuro del ragazzo e quando si accorse di chi aveva di fronte a sé, spalancò la bocca per la sorpresa.
“Non preoccuparti, stava correndo, era alta la possibilità che cadesse” gli rispose, senza riuscire a staccare lo sguardo dai suoi occhi.
Harry si alzò, e Isabelle fece lo stesso, sotto lo sguardo divertito di Camille.
“Mi spiace ancora” si scusò il ragazzo, infilando le mani in tasca.
Isabelle sorrise, e prese suo fratello in braccio.
“Io sono Harry” continuò ancora il ragazzo, senza staccarle lo sguardo di dosso, porgendole una mano.
“Isabelle” rispose lei, stringendogliela e tenendo Alexander in equilibrio su un braccio.
Lui le sorrise, per poi accorgersi della presenza di Camille. Porse la mano anche a lei e “Harry” si presentò.
Lei gliela strinse e “Camille”, sussurrò.
Harry sorrise ancora una volta a Isabelle e se ne andò, lasciando la ragazza con la bocca ancora semiaperta.
Dopo questo evento per niente previsto, continuarono ad incamminarsi verso l’uscita e nel frattempo Isabelle dava baci sulla guancia ad Alexander e gli ripeteva: “Io ti amo. Sei il bambino più bello e fantastico che esista! Per questo dovrei regalarti tutto quello che vuoi. Ti amo!” e Camille rideva.
Arrivati all’auto salirono tutti e tre nei sedili posteriori, accompagnati dal saluto della madre di Isabelle: “Ciao ragazze! Come è andata oggi a scuola?” chiese accendendo il motore e dirigendosi verso casa di Camille.
“Bene” risposero all’unisono le ragazze, e Camille pensò che ad Isabelle era andata davvero bene.
La guardò con la coda dell’occhio e si accorse che teneva lo sguardo fisso fuori dal finestrino, e sorrideva. Sorrideva come se fosse il giorno più bello della sua vita.
“Avete tanto da studiare per domani?” chiese ancora la madre di Isabelle.
La figlia era così persa nei suoi pensieri che toccò a Camille rispondere: “Un po’”.
La signora annuì, svoltando a destra e avvicinandosi sempre di più a casa sua.
Arrivati di fronte al vialetto di casa, Camille scese e dopo aver salutato tutti, si avvicinò al portone d’ingresso e prese le chiavi dalla tasca, aprendo la serratura.
“Sono tornata!” urlò per farsi sentire. Appese le chiavi e salì al piano di sopra per lasciare la giacca e lo zaino.
Dopo aver lasciato tutto ed essere scesa in soggiorno, vide sua madre con gli occhiali intenta a fare dei calcoli e Camille si stese sul divano, chiudendo gli occhi e rilassandosi un po’.
“Papà?” chiese dopo alcuni minuti di silenzio.
“Torna tra un po’” le rispose sua madre, senza staccare gli occhi dal foglio che aveva sotto il naso.
Camille lanciò uno sguardo verso l’orologio e si accorse che era tardi, doveva iniziare a studiare, così salì al piano di sopra e preso il libro di francese cominciò a studiare tutti gli argomenti che avrebbe trattato il compito il giorno successivo.
Erano le otto e mezza quando scese con il libro in mano per prendere qualcosa da bere. Presa la sua lattina di Coca Cola, che era una fortuna vedere nel frigorifero, e continuò a studiare stando sul divano.
“Sei proprio sicura di non voler venire con noi stasera?” esordì suo padre, sedendosi sulla poltrona lì vicino e continuando ad aggiustarsi il collo della camicia.
“Lo sai che verrei se non avessi questo compito domani” si lamentò Camille, sfogliando il libro nel tentare di fissare gli argomenti in testa.
“Non sei abbastanza pronta?” le chiese lui, rilassandosi sulla poltrona.
Camille scosse la testa in segno di negazione.
“Hai finito Jace? Tra poco dobbiamo andare” disse sua madre, entrando in cucina.
“Sì, aspettiamo un po’ o arriveremo troppo in anticipo” disse lui, e sua moglie si accomodò sull’altra poltrona, chiudendo gli occhi, stanca da quella lunga giornata.
“Sai mamma” disse Camille, chiudendo il libro ma lasciandoci un dito dentro per non perdere il segno. “Sei giovane ancora, potresti farmi un fratellino”.
La madre guardò suo padre, che le sorrise.
“A volte mi sento sola, voi vi siete mai sentiti soli?” chiese Camille, alternando lo sguardo dal padre alla madre. Quando vide le loro espressioni confuse, cercò di spiegarsi meglio. “Intendo, mi sento sola senza un fratello o una sorella, è una mancanza che non si può soddisfare con altro” disse, prendendo un sorso dalla sua lattina.
Sua madre abbassò lo sguardo, e subito dopo si alzò: “Quando hai una sorella e questa ti abbandona, beh, quella mancanza fa più male” disse, e mettendosi alle sue spalle, gliele strinse delicatamente.
“Andiamo?” chiese al marito.
Lui annuì, e si recò verso l’ingresso, ma non prima di rivolgersi alla figlia un’ultima volta: “C’è del prosciutto nel frigo e dei panini per cena”.
Camille annuì, ma prima che i suoi potessero andarsene domandò qualcosa che era nella sua testa da troppo tempo. “Sentite! Ma per quel concerto che vi ho chiesto?” chiese, sollevando la testa per guardarli meglio.
“Dobbiamo parlarne proprio ora?” chiese suo padre, che già cominciava ad innervosirsi.
“Sì” rispose acida Camille. Erano settimane che cercava di parlarne e i suoi evitavano sempre l’argomento, ma il tempo passava e i biglietti finivano.
“Non è momento” le rispose sua madre, che spingeva suo marito verso l’ingresso.
“Per voi non è mai momento! Vi odio!” rispose infuriata Camille, prima di andare in cucina e sbattersi la porta alle spalle.
Poté sentire la porta di ingresso chiudersi e l’auto del vialetto allontanarsi sempre più, e lei non ebbe alcuna risposta.
-
Dopo aver cenato, si era lanciata nuovamente sul divano e si era dedicata alcuni minuti di televisione prima di continuare a ripetere francese. Dopo aver fatto un po’ di zapping e aver sbollito la rabbia che aveva accumulato, riprese gli argomenti concentrandosi solo su quelli.
 
Da come scattò al suono ripetitivo del campanello, Camille capì di essersi addormentata sul divano.
Imprecò: sicuramente i suoi genitori avevano dimenticato le chiavi. Lanciò uno sguardo al grosso orologio appeso alla parete e si accorse che era veramente tardi.
Andò all’ingresso e aprì il portone, ma quello che vide non fu quello che si aspettava.
Due auto della polizia erano parcheggiate nel vialetto con le luci accese, e due uomini erano in piedi davanti la porta.
Camille sollevò le sopracciglia, sorpresa.
“Lei è Camille Smith?” chiese l’agente sulla sinistra.
La ragazza lo guardò ancora sorpresa, per poi rispondere: “Sì, sono io”.
L’uomo annuì: “Dobbiamo parlarle”.











Salve! Questa è la prima fanfiction che ho scritto sui 5sos.
Ci tengo particolarmente, proprio perché è la prima, e ci lavoro su da settembre, se non anche qualche mese in più.
Il prologo, come potete vedere, è semplicemente uno spaccato della vita quotidiana di Camille. Possiamo dire che la storia vera e propria inizierà dal prossimo capitolo.
Spero che mi lascerete un parere, e per ora è tutto. Alla prossima!
(Se ci sono errori chiedo scusa, li correggerò presto anche se credo che vada tutto abbastanza bene visto le numerose volte che l'ho riletto hahaha)

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Capitolo 2
*** Chapter 1. ***


I suoi genitori sono morti in un incidente stradale.

Era questa la frase che si ripeteva nella mente di Camille dagli ultimi dieci minuti.
La prima volta che gliel’avevano detto, aveva sentito le gambe molli e alla fine non avevano retto il suo peso. Si era accasciata a terra e i due agenti si erano subito piegati per aiutarla.
Camille non riusciva a crederci, come era possibile che fosse successo?
Aveva mille domande, ma queste non sembravano intenzionate ad uscire dalla sua bocca.
L’unico suono che rompeva quel macabro silenzio era quello dei suoi singhiozzi e delle sue lacrime che colpivano il pavimento.

I suoi genitori sono morti in un incidente stradale.
Ancora quelle parole, a ronzarle nella mente, a scorticarle il cuore fino ad arrivare all’anima. Quelle parole che la stavano distruggendo, la stavano disintegrando, non lasciando più nulla.
È questo il problema del dolore. Esige di essere sentito.
E Camille lo stava sentendo, in ogni fibra del suo corpo, in ogni spazio del suo essere.
Era così forte che il resto sembrava essersi annullato. Sembrava caduto in un silenzio sordo.
Riusciva a sentire solo il suo dolore irradiarsi per la stanza, per la casa, per poi allargarsi sempre di più.
E voleva darci un taglio, voleva finirla, voleva cacciare via quei sentimenti che la stavano torturando.
“Vada a dormire” le disse l’agente che era rimasto in piedi nella stanza fino a quel momento, in silenzio, aspettando che la ragazza assimilasse la notizia. “Una pattuglia rimarrà di guardia e domani mattina la scorteremo al municipio”.
Camille annuì, e si diresse al piano di sopra. Ma di dormire non se ne parlava proprio.
La ragazza rimase così: gli occhi spalancati e rossi, colmi del dolore che la stava divorando, che fissavano l’immagine di quella che era stata la loro vita insieme.
Pensò che adesso era davvero rimasta sola.
-
La mattina dopo, qualcuno bussò alla porta della sua stanza.
Camille non aveva chiuso occhio neanche per un secondo, e sperò che tutto quello che era accaduto non fosse altro che un incubo, e dalla porta che adesso si stava aprendo sarebbe entrata sua madre sorridente, che le diceva di svegliarsi perché altrimenti avrebbe tardato a scuola.
Ma non fu così.
Un’agente della polizia fece capolinea nella stanza, i capelli biondi e gli occhi verdi colmi di comprensione per quella ragazza che così giovane aveva perso tanto, quasi tutto.
“Mi spiace tanto, sono venuta ad avvisarti che ti porteremo in municipio tra un’ora esatta, così hai tempo di prepararti” le disse la donna, quando si accorse che era sveglia.
Camille si mise seduta e annuì, facendo intendere che aveva capito, e l’agente la lasciò sola.
La ragazza si strinse forte la testa tra le mani e ricominciò a piangere, senza sosta.
Non ce la faceva, non poteva farcela, ma doveva.
Così, dopo aver cercato per molto tempo di calmarsi, si preparò e scese le scale per raggiungere gli agenti che l’aspettavano fuori casa sua.
Non le interessava cosa sarebbe successo, sapeva solo che ogni cosa aveva perso la sua importanza.
Salì su una delle auto e non staccò gli occhi dalle sue gambe fino a quando non dovette scendere. La lasciarono ad aspettare fuori dall’ufficio, e quell’attesa si stava rivelando uno strazio.
Voleva solo tornare a casa e stare da sola, aveva bisogno di pace.
“Cam!” si sentì chiamare ad un certo punto.
Una donna che piangeva voltò l’angolo e seguita dal marito si diresse verso la ragazza che si era messa in piedi e che l’aspettava, con le lacrime agli occhi e un senso di abbandono.
“Tessa” sussurrò, perché non ce la faceva a parlare più forte, era troppo.
Tessa le corse incontro e l’abbracciò, cercando di rassicurarla.
Sua madre aveva sempre avuto ottimi rapporti con quella donna, dal primo giorno che aveva messo piede in ufficio, e Theresa era diventata come la sorella che aveva perso anni prima. Lei e suo marito William erano diventati amici stretti dei suoi genitori e l’avevano vista crescere. Erano come degli zii per lei.
Tessa si staccò e tenendo le mani salde sulle spalle della ragazza, la guardò.
Non aveva parole. Come puoi avere parole in un momento simile?
Camille si staccò, solo per affondare tra le braccia di William che le accarezzava i capelli, cercando di fermare i singhiozzi che erano diventati troppo forti.
“James… Jem sta arrivando” disse Tessa.
James era il migliore amico di suo padre, quello che lui aveva definito la sua ‘anima gemella al maschile’, quello con cui era cresciuto, una delle persone a cui teneva tanto e di cui sua madre era anche gelosa. Sì, perché pensava che se James fosse stato una donna, sarebbe stata piantata in asso da suo marito.
“Che mi faranno? Dove andrò?” chiese Camille tra i singhiozzi, ancora stretta tra le braccia di William. Adesso stava avendo paura. Che ne sarebbe stato di lei?
“Non lo sappiamo, siamo qui proprio per questo” disse William, staccandosi e rispondendo lucidamente. Anche nei momenti peggiori sapeva essere forte, ed era per questo che sua moglie l’amava. Sarebbe sempre stato la sua ancora.
Camille annuì e si risedette, con accanto William e Tessa. Quest’ultima le stringeva forte la mano, per darle forza. Ma Camille non ci riusciva, ad essere forte.
“Eccovi” una voce, seguita da passi di corsa.
La ragazza si girò, e vide James venirle incontro. L’abbracciò.
L’avevano vista crescere, era anche la loro, di bambina.
“Salve” esordì un uomo, che ruppe quel momento di dolore e lacrime.
“Voi dovete essere Theresa, William e James” disse l’uomo, indicandoli uno ad uno. Questi annuirono, e restarono in silenzio, mentre James accarezzava una spalla di Camille per tranquillizzarla.
“Potrei parlarvi nel mio ufficio?” domandò ancora l’uomo.
Tutti lo seguirono nell’ufficio e prima di chiudersi la porta alle spalle, James le dedicò un ultimo sguardo.
-
Camille era rimasta sola per troppo tempo, e continuavano a tenerla fuori da tutto.
Si stava davvero innervosendo quando vide i tre adulti uscire dall’ufficio.
“Verrai con noi a casa” le disse Tessa avvicinandosi e circondandole le spalle. “E starai con noi. Il funerale è venerdì pomeriggio, ce la vedremo noi, tu non devi preoccuparti di nulla”.
Dire quelle parole sembrava molto stupido, perché come poteva una ragazza che aveva perso i suoi genitori non preoccuparsi di nulla?
“Rimarrò con voi?” chiese lei, a bassa voce. Dire quelle parole già le costava troppo.
“Per il momento sì, tesoro” le rispose Tessa.
Per il momento.
Tutti e quattro uscirono dal municipio, Camille ancora stretta a Tessa, il dolore a renderli una cosa sola.
 -
Quel venerdì mattina anche solo alzarsi dal letto si rivelò qualcosa di impossibile per Camille.
Sentiva ancora la ferita della perdita che bruciava, la sofferenza che non accennava a placarsi.
Non uscì dalla stanza in cui stava per tutto il giorno fino a quando William, che bussò alla porta nel pomeriggio, le comunicò che di lì a venti minuti sarebbero andati al cimitero e che doveva essere pronta.
E venti minuti dopo Camille si ritrovò nel vialetto della casa che non era la sua casa, pronta per andare al funerale dei suoi genitori.
Ma lei non era pronta, non era pronta a nulla.
Non era preparata a dover vedere due tombe nere che custodivano i corpi dei suoi genitori, non era pronta a rassegnarsi alla loro perdita, non era pronta a tutte quelle facce che avrebbero detto ‘Mi dispiace’ senza che sentissero la metà del dolore che lei provava.
Così, quando scoppiò a piangere, non tentò nemmeno di trattenersi perché lei non era pronta.
Niente le impedì di correre dentro la chiesetta non appena mise piede fuori dall’auto, né i richiami disperati di Tessa, né la voce di Will. Si avvicinò alle bare e cadde sulle ginocchia. Non poteva farcela.
James, che era già dentro la chiesa, le si avvicinò e alzandola di peso la mise a sedere sul primo banco, continuando a ripeterle parole rassicuranti.
Pian piano arrivarono tutti: amici, conoscenti, colleghi, tutti venuti ad assistere a quella che era l’avventura più pericolosa della vita: la morte.
La cerimonia fu semplice, e tutti decisero di parlare, e toccò anche a Camille.
Tessa l’aveva avvisata e la ragazza aveva annuito, ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta.
Salì sull’altare e si avvicinò al microfono posto tra le due bare, le guardò entrambe, prima di sussurrare: “Io…” la sua voce riecheggiò per tutta la chiesa. “Io volevo solo dire che…” tentò di nuovo, ma un singhiozzo le impedì di continuare.
Sentiva il suo cuore distruggersi, perdere pezzi ad ogni parola pronunciata, ad ogni singhiozzo soffocato.
“Vi voglio bene” sussurrò. “Mi dispiace” si scusò, prima di scendere dall’altare e abbandonarsi sul banco, come se quegli ultimi cinque minuti fossero stati i più faticosi della sua vita.
Pochi furono quelli che restarono dopo aver fatto le condoglianze.
Le due bare sul prato stavano per essere seppellite e per essere allontanate per sempre.
Camille si guardò intorno, e tutte le persone che vide non furono altro che ombre grigie sullo sfondo nero del suo dolore. C’erano i visi più familiari, come quello della sua migliore amica Isabelle, o del suo vicino di casa Simon, e quelli che non riconosceva, come quello di un ragazzo della sua età dai capelli ricci e chiari, che vestito di nero teneva le mani abbandonate lungo il suo corpo, il viso contratto dal dispiacere.
Non gli interessava di loro, niente aveva importanza.
Stavano per portarli via da lei, per sempre.
Si avvicinò alla tomba della madre: “Me l’avevi promesso” sussurrò. “Tu me l’avevi promesso!” urlò questa volta, battendo un pugno sulla tomba. “Avevi promesso che non te ne saresti andata, che saresti rimasta!” continuò ad urlare Camille, coi singhiozzi che le riempivano il petto e gli occhi pieni di lacrime.
“Me l’avevi promesso” sussurrò abbandonando la fronte sulla tomba.
“Tesoro, dobbiamo lasciarli andare…” cominciò Tessa, cercando di tirarla via.
“NO!” urlò Camille, divincolandosi. “Io… Io non li ho neanche salutati per bene! Loro non sanno che li amo con tutta me stessa!” la spinse via.
“Sì che lo sanno” le disse, cercando di prenderle il braccio.
“No che non lo sanno! Lo sai cosa è successo prima che uscissero di casa, quella maledetta notte?” Camille la sfidò, e Tessa non le rispose. “È successo che abbiamo litigato e le ultime parole che ho detto sono state ‘Vi odio’. Vi odio, capisci Tessa? Sono morti con la consapevolezza che li odiassi!” sputò fuori Camille, che non ce la faceva più a tenere quel peso sul cuore.
La ragazza si avvicinò alla tomba del padre, strisciando con le ginocchia. “Mi dispiace tanto, papà. Mi dispiace per tutto” disse, accarezzando la bara come se fosse il volto di suo padre.
William le si avvicinò e la sollevò di peso,  e Camille lo lasciò fare.
“Mi dispiace, vi amo” furono le ultime parole che disse, prima che le bare entrassero nel terreno e venissero seppellite, allontanate da lei per sempre.
-
Camille era seduta a terra, poco distante dal luogo di sepoltura dei suoi genitori, e aspettava Tessa e William. Aveva visto James dire loro qualcosa per poi avvicinarsi ad una coppia, che era affiancata dal ragazzo che aveva visto prima. La donna con cui Jem stava parlando le dava un non so che di famigliare, ma in realtà non ci stava pensando molto.
Sollevò appena lo sguardo dall’erba per vedere William, Tessa e James avvicinarsi, accompagnati dalla strana coppia col ragazzo e un uomo con una cartellina sotto il braccio.
Tessa le si sedette accanto e la strinse a sé, e quando Camille le rivolse un’occhiata confusa, lei fece un leggero cenno del capo verso l’uomo con la cartellina.
“Salve signorina Smith. Innanzi tutto accetti le mie più sincere condoglianze per la sua perdita” cominciò l’uomo.
Camille annuì e si tirò su, perché era stanca di osservarlo con la testa sollevata e il collo piegato.
“Sono il giudice che si sta occupando del suo caso, e sono venuto a dirle cosa le accadrà ora” quelle parole fecero gelare il sangue nelle vene della ragazza, che si prese le braccia tra le mani e se le strinse, in ansia.
“Probabilmente sarebbe stata data in affidamento ai signori Campbell, se non avessimo scoperto dell’esistenza di una sorella da parte di madre. L’abbiamo contattata e lei si è resa disponibile nell’accoglierla a casa sua” finì l’uomo.
“Che cosa?” sbottò Camille, che sperava di non aver capito bene.
“Le presento sua zia, Maia Collins” disse l’uomo, indicando la donna. Ecco perché le era così familiare, era identica a sua madre: riusciva a riconoscere i tratti del viso, il verde brillante degli occhi, il modo di stringersi continuamente il labbro inferiore tra i denti.
“Mi vuole far credere che alla donna a cui non è mai importato dei miei genitori e di me, e che ha abbandonato mia madre facendole del male, adesso importi di tenermi con sé?” urlò Camille, che era davvero arrabbiata.
Tutti diventarono più tesi, e nessuno sembrava voler proferire parola.
Ma Maia Collins ruppe il silenzio: “Ho avuto i miei motivi per fare quello che ho fatto” rispose, in modo che a Camille parve cattivo. “Ma adesso ti vogliamo con noi, siamo l’unica famiglia che ti è rimasta” continuò, addolcendo la voce. Tentò di avvicinarsi per sfiorarle un braccio, ma lei si allontanò bruscamente.
“Voi non siete la mia famiglia!” la contraddisse Camille, stringendo le mani in due pugni che le fecero sbiancare le nocche.
“Io non vivrò con loro, mai” sottolineò l’ultima parola, facendola pesare tonnellate.
“Mi dispiace” le rispose il giudice. “Ma lei non ha scelta. Loro sono la sua famiglia e-”
“Loro non sono la mia famiglia!” urlò.
Tutto il dolore accumulato si stava trasformando in rabbia, una rabbia più che giusta agli occhi di Camille.
“Il vincolo di sangue la costringe a stare con loro, mi spiace davvero. Però credo sia la scelta migliore per lei, ne sono sicuro. Ci risentiremo” disse, prima di congedarsi.
“Tu non dici niente?” sbraitò contro Tessa, che però non si tirò indietro.
“Io non posso fare niente, e neanche Will o Jem, ci spiace tanto” si scusò.
Tessa le accarezzò il braccio, per calmarla un po’, ma Camille si scostò.
Non voleva essere toccata, non voleva essere più toccata da nessuno.
Camille si sentì gli occhi pizzicare.
“Ti verremo a trovare, te lo prometto” disse Jem. “A costo di volare dieci volte al mese”.
“Basta – si lamentò Camile – basta promesse! E che significa che volerete?” domandò, sperando che i suoi sospetti non fossero giusti.
“Abbiamo il volo lunedì mattina, spero che riuscirai ad organizzare tutto” disse Maia.
E il mondo le crollò addosso.










SALVE! 
Mi ero ripromessa che avrei aggiornato presto, ma c'è stato un inizio settimana che mi ha tipo sconvolto tutto, perché ho scoperto di essere una delle poche fortunate ad aver vinto il concorso dei 5sos che mi permette di andare al concerto e al m&g e quindi non ho fatto (e faccio ancora) altro che pensare a questo e piangere e tremare ogni volta che ci penso. I'm not okay.
Nonostante questo, il capitolo è qui. Quello precedente aveva delle visite, nessuna recensione, ma pazienza: ci tengo troppo per smettere di pubblicare.
Per ora è tutto. A presto! :)

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Capitolo 3
*** Chapter 2. ***


Camille aveva provato di tutto per non partire.
Aveva urlato contro gli amici dei suoi genitori per ore intere, e loro se n’erano stati zitti tutti il tempo, incapaci di proferire alcuna parola.
L’avevano abbandonata con una famiglia che non sentiva tale, che avrebbe continuato a crescerla senza sapere nulla di lei.
Aveva anche provato a chiudersi in bagno, ma il marito di Maia, Jordan, era entrato dalla finestra e senza dire mezza parola aveva aperto la porta, portandosi via la chiave.
Di scappare non se ne parlava, dove sarebbe potuta andare con tutti che le voltavano le spalle?
Era stata un intero pomeriggio tra le braccia di Isabelle, entrambe che si stringevano forte, sapendo che probabilmente quello sarebbe stato uno degli ultimi abbracci per un po’ di tempo.
In più, non ce la fece a tornare al cimitero.
I suoi genitori l’avevano lasciata sola, doveva fare ancora i conti con questo e tutto ciò che ne scaturiva.
Aveva deciso di non parlare più con nessuno, di non proferire neanche mezza parola. Questo l’avrebbe tenuta chiusa in se stessa, e a Camille andava bene.
Qualcuno bussò piano alla porta. “I bagagli sono stati caricati in macchina, stiamo andando via” l’avvisò il ragazzo, facendo capolinea nella stanza.
Camille, seduta sul letto che non era più suo, annuì.
“Andiamo via tra cinque minuti” specificò il ragazzo, e si richiuse la porta alle spalle.
Era l’unico di quella famiglia con cui non se la prendeva davvero, era così dall’inizio.
 
“Questo fine settimana sistemeremo delle cose e tu farai i bagagli di tutto ciò che devi portare via, lunedì prenderemo il volo alle undici. Casa nostra ti piacerà, e avrai una stanza solo per te” raccontava Maia che si dava da fare ai fornelli.
Camille annuì, senza aggiungere altro.
“Hai intenzione di non parlare mai più con noi?” chiese ancora, sollevando appena lo sguardo dalla padella in cui stava friggendo qualcosa.
Camille annuì ancora, e Maia sospirò.
Ad un cero punto si sentì una porta sbattere, e subito dopo un uomo e un ragazzo entrarono in cucina. Le avevano lasciate sole, con l’intenzione di fare del bene e aiutare Camille, ma a quanto pare non era servito a nulla.
“Eccovi! La cena è quasi pronta” disse lei, facendo saltare il contenuto della padella.
Camille, dopo aver sbuffato si diresse in soggiorno, abbandonandosi sul divano.
“Tesoro – parlò Maia guardando suo figlio – perché non vai in soggiorno a parlarle un po’?”.
Maia stava provando di tutto per farla parlare, magari con suo figlio si sarebbe aperta.
Il ragazzo si diresse in soggiorno, e si sedette sul divano accanto a lei.
“Io sono Ashton” si presentò il ragazzo, tendendo la mano. “Non voglio costringerti a parlarmi, non ha senso. E ti lascerò i tuoi spazi, però se vorrai parlarmi ci sono”.
Camille sorrise appena, il primo vero sorriso da un po’ di tempo, ma non gli strinse la mano.
Ashton ricambiò il sorriso, e abbassò il braccio.
Quando sua madre li chiamò per la cena, si alzò sul divano e le domandò: “Vieni?”.
Lei scosse il capo in segno di negazione e salì al piano di sopra, diretta nella sua stanza.
 
Adesso, mentre Camille scendeva le scale e si guardava intorno, vedeva solo bianco.
Il bianco dei lenzuoli che ricoprivano i mobili di casa sua, quello delle pareti bianche ormai spoglie di tutto, e quello del volto dei suoi genitori.
Fu un attimo, e in quell’ambiente li vide: fermi, immobili, morti.
E bianchi.
Camille vacillò sulle gambe e dovette reggersi al passamano per non cadere.
Ashton se ne accorse e si avvicinò a lei, cercando di afferrarle un braccio per ridarle equilibrio, ma lei si scansò: “Tutto bene?” chiese preoccupato, vedendo la faccia sconvolta della ragazza.
Lei scosse la testa perché no, niente andava bene.
“Vuoi sederti?” le chiese, dato che faceva fatica a stare in piedi.
Lei si sedette e Ashton le si inginocchiò di fronte, attendendo che si riprendesse.
“Tornerai a casa tua un giorno, sarà sempre qui per te” cercò di rassicurarla lui.
Era questa l’unica cosa positiva in tutta quella terribile situazione: Maia aveva deciso di non vendere la casa e le aveva detto che l’avrebbe mantenuta fino a quando Camille non sarebbe stata abbastanza grande per decidere cosa farne.
La ragazza annuì, e tentò di allontanare via le brutte immagini che riempivano la sua testa.
-
Maia si era accorta che Ashton e Camille andavano d’accordo, anche se lei non gli parlava. Si comportava in modo diverso con lui: non lo guardava male, non gli sbatteva la porta in faccia o semplicemente non gli mostrava il suo odio. Forse accadeva perché avevano la stessa età e riuscivano ad intendersi meglio, o perché Ashton era stato capace di prenderla nel modo giusto.
Questa cosa non la stupiva, suo figlio era sempre stato bravo con le persone. Per questo aveva deciso di farli sedere vicini in aereo, con la speranza di renderlo più leggero, per quanto si potesse con ventidue ore di aereo continuo.
“Tutto bene, ragazzi?” chiese, affacciandosi ai sedili anteriori dove erano seduti.
Ashton annuì, mentre Camille continuava a guardare fuori dal finestrino, persa nei suoi pensieri.
“Camille?” la richiamò il ragazzo. “Camille?” disse di nuovo, toccandole appena il braccio.
Lei si scansò in fretta e lo guardò, in attesa che parlasse.
Lui si morse il labbro, aveva dimenticato che non voleva essere toccata: “Va tutto bene?”.
Lei lo guardò come se avesse detto la cosa più stupida del mondo e tornò a fissare fuori dal finestrino.
L’aereo decollò e Camille disse addio al luogo in cui era nata, ai suoi amici e alla sua vecchia vita.
Cosa le riservava il destino?


Durante le ventidue ore di viaggio, Camile alternò sonno e cuffie. Maia e Jordan la controllavano in continuazione, e come se non fosse abbastanza ogni tanto sentiva su di sé lo sguardo di Ashton. Stava odiando tutta quella situazione, voleva solo scappare via da quell’aereo.
Aprì lo zaino alla ricerca di una rivista e trovò un braccialetto. Era di sua madre, e l’aveva portato via dal suo armadio quando lo aveva trovato per caso mentre cercava qualcosa settimane prima della sua morte.
Lo infilò al braccio e sentì gli occhi pungere, stava per piangere, ancora.
Così si alzò dal sedile e ignorando lo sguardo interrogativo di Ashton, in quel momento l’unico sveglio tra i tre che l’accompagnavano, corse in bagno, per stare da sola e cercare di riprendersi.
Un piccolo bracciale aveva innescato una bomba a mano di ricordi. Forse era meglio così: andare via l’avrebbe aiutata a dimenticare più in fretta.
Ma lei non voleva dimenticare.
Quindi sperò che quel cambiamento totale la aiutasse a superare tutto.
Quando ritornò al suo posto, aveva gli occhi ancora un po’ rossi, ma non gliene importava.
“Hai pianto?” le chiese Ashton, con fare ingenuo.
Camille lo guardò male. Lui le aveva promesso i suoi spazi, ma non lo stava facendo.
“Scusami” si giustificò Ashton, quando lo capì. “È solo che mi fai… preoccupare” indugiò sull’ultima parola, perché aveva paura fosse sbagliata.
Camille lo guardò negli occhi e tutto quello che vide fu sincero dispiacere e interessamento. Annuì, e tornò a fissare il nulla fuori dal finestrino, perché di certo era meglio di quegli occhi che le mettevano in subbuglio l’anima.
-
Mentre percorrevano le strade di Sydney in taxi, Camille non poté fare a meno di notare di quanto fosse diversa dal luogo in cui era nata e cresciuta.
Un po’ l’affascinava, non era mai stata in Australia, e non aveva idea di cosa aspettarsi da quel posto.
Il taxi parcheggiò di fronte una casa a due piani, con un vialetto d’accesso chiuso da un cancello e un giardino ben curato tutto intorno.
Il tassista scese le valigie dal cofano e dopo essere stato pagato andò via.
“Vieni” la esortò Maia, e la ragazza camminò per ultima, preceduta da Ashton.
Quando mise piede in casa e le luci si accesero, il rosso delle pareti l’accecò. Tutto era arredato in stile molto elegante e a dirla tutta, le piaceva.
“Ti piace?” le chiese Ashton, che le aveva visto come una scintilla negli occhi.
Lei lo guardò e annuì, continuando ad analizzare i particolari.
“D’accordo” cominciò Jordan. “Vuoi vedere il piano di sopra? È lì che c’è la tua stanza” spiegò, ed ebbe un cenno di consenso da Camille.
“L’accompagno io” si offrì Ashton, e cominciò a salire le scale.
Camille lo seguì e Ashton le indicò le stanze: “Questa è dei miei genitori che ha il loro bagno, questa è la mia e questa stanza di fronte è la tua” le disse, indicandole una porta. “Infondo da questa parte c’è lo sgabuzzino, mentre qui” disse indicando la porta tra le loro stanze “C’è il bagno che dobbiamo condividere io e te” le sorrise.
Camille annuì, ed aprì la porta della sua stanza.
Le pareti erano di un bel blu scuro e qualunque cosa si adattava ad ogni possibile tonalità di questo colore.
“Il colore l’ho scelto io, spero ti piaccia” disse passandosi una mano sul collo, imbarazzato.
Lei continuò a guardarsi intorno e non poté fare a meno di pensare che quella era la tipica stanza che aveva sempre sognato. Aveva sempre amato la sua camera a Londra, e proprio per questo non aveva mai voluto cambiarla definitivamente; ma quella lì, nella sua nuova casa a Sydney, era come l’aveva sempre immaginata.
La ragazza si voltò verso Ashton e sorridendogli, annuì.
“Sono contento che ti piaccia” le rispose. “Adesso vado a prenderti le valigie” si congedò, dirigendosi verso le scale.
Camille continuò a guardarsi intorno. Si avvicinò alla scrivania e notò che sopra di essa c’era uno scaffale pieno dei suoi libri della nuova scuola. Storse le labbra in segno di disapprovazione e continuò a guardare. C’era una piccola libreria con alcuni volumi e in un angolo un armadio color panna: lo aprì, e dentro ci trovò qualche vestito nuovo.
Alzò gli occhi al cielo, lei non voleva essere comprata in nessun modo.
“Ecco qui i tuoi bagagli” disse Jordan, lasciando le valigie e andando via. Ashton arrivò dopo poco e ne lasciò qualche altra. “Si cena tra dieci minuti” le disse, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Camille si stese sul letto, chiudendo gli occhi.
Sarebbe stato tutto difficile.
-
Quando quella mattina si svegliò, non ci mise tanto a ricordarsi dove si trovava.
La sera precedente aveva cenato il necessario e dopo si era dedicata alle sue valigie e alla sistemazione delle sue cose. Maia si era affacciata e le aveva chiesto se avesse bisogno di aiuto, ma lei aveva rifiutato con un cenno del capo.
Era stata fino a tardi, ma voleva rendere quella stanza più sua possibile, e soprattutto voleva avere tutto a portata di mano.
Doveva ancora abituarsi ai nuovi orari, ma la sveglia non sembrava della stessa idea.
Scese giù in cucina senza neanche cambiarsi, e trovò Maia ai fornelli e il resto della famiglia seduta a tavola.
“Buongiorno!” la salutò Maia. “Dormito bene?”
Camille scosse la testa e prese posto vicino ad Ashton, senza degnare nessuno di uno sguardo.
Dopo qualche minuto Maia portò loro la colazione e iniziarono a mangiare, in silenzio.
“Ho parlato con la scuola dove andrai” cominciò Maia, poggiando le posate sul piatto. “Comincerai la settimana prossima. Come hai visto ci sono già i libri, e Ashton andrà a ritirarti i corsi uno di questi giorni. Andrete insieme, non è molto distante da qui” spiegò, guardando ogni singola azione della nipote.
Lei annuì e basta, come sempre.
“Perché non posso cominciare anche io lunedì?” chiese Ashton, bevendo il suo succo di frutta.
Suo padre lo fulminò con lo sguardo.
“Non è equo, mi sento inferiore” scherzò lui, posando il bicchiere sul tavolo.
“Ashton” lo riprese severamente sua madre.
Lui annuì e non disse più nulla.
Ashton era stato il primo a terminare ed era andato di sopra a finire di prepararsi, mentre Camille, dopo aver preso qualche piatto e averlo lasciato nel lavello della cucina, fece per andare di sopra ma fu fermata da Ashton che stava per uscire.
“Come sto?” le chiese.
Lei sollevò il pollice per dirgli che stava bene.
“Augurami buona fortuna” disse roteando gli occhi al cielo.
Lei gli sorrise, ed Ashton uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle.












Dovevo aggiornare prima, ma me ne sono scordata... mi dispiace così tanto.
Riprenderò il ritmo, e aggiornerò di nuovo domenica pomeriggio, penso di farcela.
Vi prego, se la storia vi piace o la odiate, la schifate o vi interessa, lasciatemi una piccola recensione :(
Ora vado, a presto! :)

 

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