Ade e Persefone - Quel che resta delle Storie

di Sara Saliman
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il sesto scranno ***
Capitolo 3: *** Tra luce e tenebra ***
Capitolo 4: *** Dea di nulla ***
Capitolo 5: *** Cadendo giù ***
Capitolo 6: *** La città dolente ***
Capitolo 7: *** Fables and Reflections ***
Capitolo 8: *** Crepe - parte prima ***
Capitolo 9: *** Crepe - parte seconda ***
Capitolo 10: *** La Regina scalza ***
Capitolo 11: *** Il Sogno, il Labirinto, il Bambino Bianco ***
Capitolo 12: *** Il dio delle cose nascoste ***
Capitolo 13: *** La costruzione di un amore ***
Capitolo 14: *** La maledizione di Orfeo ***
Capitolo 15: *** Non Una ma Molte ***
Capitolo 16: *** Non Divisa ma Una ***
Capitolo 17: *** Epilogo - Il sorriso del Sottosuolo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Un grazie a Leda Swan per il betaggio
 
§§§§

-Prenderò il Sottosuolo.-
L’affermazione di Ade fu un sussurro assorto, più una constatazione che una scelta. Eppure, il brusio delle altre cinque voci si zittì immediatamente.
Da lati opposti del tavolo esagonale, cinque volti si girarono nella sua direzione con sincronia perfetta.
Era gli sedeva di fronte: i suoi occhi, di un verde cupo screziato di pagliuzze d’oro, si ridussero a due fessure piene di sospetto. Il labbro superiore si arricciò sui denti bianchissimi, e per un istante la dea fu brutta, irrimediabilmente brutta mentre faceva saettare lo sguardo dagli occhi alle labbra di Ade e poi di nuovo ai suoi occhi, cercando sui lineamenti regolari e composti del dio un inganno che non riusciva a vedere.
Demetra, seduta alla sua sinistra, sollevò le sopracciglia bionde e chinò il capo di lato. Piegò leggermente gli angoli della bocca, come se assistesse a uno scherzo di dubbio gusto, ma fosse troppo educata per non concedere un sorriso.
-Ade, sei sicuro?- Estia era seduta alla sua destra e fu la prima a prenderlo sul serio, la prima a parlare. La sua voce fu un sussurro, mentre gli sfiorava il braccio con la punta delle dita. Un gesto premuroso, gentile, privo della calcolata adulazione insita nei modi di Era o della spontanea sensualità di Demetra. Ade premette i palmi contro il legno del tavolo, soffocando l’impulso di chiudere la mano affusolata su quella più delicata della sorella maggiore.
-Tu reclami l’Averno, fratello?- la voce di Zeus era carica di incredulità, ma la sua fronte alta, colore dell’oro brunito, si stava già spianando per il sollievo.
-Ha proprio scelto l’Averno?- Poseidone si voltò prima verso Era e poi verso Demetra a cercare conferma: l’eccitazione nella sua voce suonava di cattivo gusto persino per lui.
-Reclamo l’Averno, sì- confermò Ade. Dal suo tono misurato, era impossibile dire se fosse irritato o divertito.-Lo desideri forse tu, Poseidone? Zeus ha scelto l’Olimpo e, poiché ci ha salvati tutti, esso gli spetta di diritto. Come maggiore tra noi, ho il diritto di scegliere per secondo. Tuttavia, se preferisci, posso lasciarti l’Averno e prendere...-
-NO!- Poseidone si sporse verso di lui, le mani grandi strette al bordo del tavolo. -No, fratello, ti ringrazio! Prendi tu l’Averno: a me vanno benissimo i mari!-
Ade finalmente premette la mano su quella sottile di Estia. La dea la strinse subito, sebbene gli occhi neri, così simili ai suoi, continuassero a scrutare il suo profilo invocando una spiegazione.
Il dio si volse di lato, eludendo deliberatamente la muta domanda della sorella. Oltre le vetrate in ferro battuto, scorse il manto nero di Nyx, la Notte, oscurare il cielo e lo scintillio dei fuochi sulle pendici dell’Otri, là dove si estendeva l’accampamento di Crono.
La guerra durava da dieci anni; con i Ciclopi e gli Ecantochiri finalmente dalla loro parte, la vittoria sembrava ormai imminente. Adesso che il nemico comune era quasi sconfitto, gli interessi e le tensioni personali cominciavano ad emergere, minacciando di dividerli.
In particolare, nessuno aveva osato esprimere ad alta voce il timore che tutti loro condividevano: che Ade avrebbe ragionevolmente scelto il dominio sui mari, e che alla terribile guerra contro Crono ne sarebbe immediatamente seguita una seconda, per costringere Poseidone ad accettare l’Averno.
Nessuno di loro aveva previsto… questo.
Ade appoggiò la schiena contro la rigida spalliera, incontrando lo sguardo azzurro di Zeus.
C’era perplessità negli occhi del giovane dio: come Era, ipotizzava un inganno che non riusciva a vedere.
-Ci saranno delle condizioni, immagino...- iniziò con prudenza.
-Avrà tutto ciò che vorrà!- assicurò Poseidone con calore, spazzando il piano di mogano con la mano aperta.
Era si mosse sullo scranno a disagio. Demetra incrociò le braccia sotto il seno generoso, rimanendo in attesa.
Ade non si voltò verso Estia, non ne aveva bisogno: intuiva i movimenti di lei come fossero i propri. La dea aveva chinato il capo e i capelli corvini le ricadevano ai lati del viso, celando la sua espressione.
Dopo un lungo silenzio, la fronte di Zeus si spianò.
-Sta bene, Ade. A me la Superficie, a Poseidone il Mare. A te, qualunque sia il motivo, il Sottosuolo.-
Così si ebbe la divisione del Mondo, come ancora lo conoscono gli umani.
E così ebbe inizio la mia storia, sebbene allora io non fossi ancora nata.

 
§§§§


Angolo dell’autrice (anche ribattezzato: “poche idee, ma ben confuse”):

Nonostante la patria del mito di Ade e Persefone sia l’antica Grecia, questa storia è costruita come un’AU e ambientata in un’era fantasy-medievaleggiante, simile al tempo senza tempo delle fiabe.
A parte questo dettaglio di –ehm- adattamento, cercherò di rimanere più fedele possibile al mito, dandone ovviamente un’interpretazione personale.
Insomma, gentili lettori: benvenuti (o bentornati) tra le mie ossessioni.

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Capitolo 2
*** Il sesto scranno ***


Ringrazio tutti i lettori e le lettrici che hanno commentato, messo la storia tra le seguite e tra le ricordate, e chiaramente ringrazio Leda Swan, che ha betato a tempo di record per permettermi di pubblicare :)
§§§§
Zeus padre, signore dell'Ida, grande e glorioso,
Sole che tutti vedi e tutto ascolti,
fiumi e terra, e voi che sotto terra
punite da morti coloro che giurano il falso,
siate testimoni, e custodite i patti.
(Iliade III, 276-280. Traduzione di Guido Paduano)



-Kore? Kore! Dove sei, monella? Giuro che appena ti trovo…!-
Schiacciai una manina contro la bocca per soffocare una risata e imboccai correndo la curva a gomito del corridoio.
Qui mi fermai a riprendere fiato, le spalle premute contro la parete color crema della galleria di ritratti. Mi chinai e sfilai in fretta le scarpine di seta, scalciandole nel mezzo del pavimento di marmo, poi mi nascosi dietro il panneggio di velluto che ornava una delle vetrate.
-Sei qui, birbante?-
La voce di Leucippe, proveniente dalla direzione da cui ero venuta, era sempre più vicina.
Premetti entrambi i palmi contro le labbra e chiusi gli occhi, soffocando l’ennesimo attacco di ridarella.
Leucippe stava avanzando lungo la galleria di ritratti; potevo quasi vederla: il verde luminoso dei suoi occhi, il collo bianco come panna e le guance rosa, mentre affondava una mano nei pesanti tendaggi color porpora e li scostava di scatto, per controllare che non fossi nascosta dietro.
Nei miei ricordi e nel mio cuore Leucippe rimarrà per sempre così: una giovane driade dai lunghi capelli castani, che si arricciavano mollemente attorno al viso punteggiato di efelidi e s’incendiavano di un rosso acceso quando il chiarore di Helios li baciava. Non era molto più grande di me, Leucippe, eppure mi faceva da madre e sorella maggiore quando Demetra lasciava il nostro palazzo sull’Olimpo e partiva per celebrare i raccolti nelle terre degli uomini.
Mamma le aveva dato l’ordine di sorvegliarmi a vista, così la mia abitudine di nascondermi nei più remoti anfratti del castello tingeva la sua voce di sincera apprensione.
Riusciva a trovarmi quasi sempre, comunque.
Quando non ci riusciva, il suo tono finiva per scivolare nell’angoscia, e allora ero io a uscire allo scoperto e cercare lei, a correre per i corridoi di marmo fino a trovarla: mi gettavo tra le sue braccia e la pregavo di non piangere, ché stavo solo giocando: ero solo nascosta -nascosta!- e non volevo farla preoccupare.
Quel giorno ero rannicchiata dietro il panneggio, desiderosa di continuare il gioco e tuttavia pronta a cogliere il minimo accenno preoccupazione nella voce di Leucippe.
Un dito batté dolcemente contro la vetrata alle mie spalle, e mi voltai. Al di là degli inserti di piombo, raffiguranti spighe di grano, incontrai lo sguardo ridente di Zefiro.
Premetti i piccoli palmi contro il vetro, affascinata dai riflessi cangianti che la luce di Helios conferiva alle ali di farfalla del dio. Zefiro si premette un dito contro le labbra carnose e indicò qualcosa dietro di me. Mi ricordai all’istante di Leucippe e mi rannicchiai sui talloni.
Aiutami!, sillabai verso di lui, senza emettere suono.
Zefiro mi fece l’occhiolino: istantaneamente una folata di vento fece piegare i rami carichi di mele del giardino. Un rumore risuonò in fondo alla galleria di ritratti, nella parte opposta a quella in cui mi trovavo: dei rami che sferzavano un vetro, forse, o magari una finestra che si spalancava.
Leucippe, in lontananza, lanciò un gridolino.
-Vengo a prenderti, monella!-
Lo scalpiccio dei suoi passi si allontanò in direzione opposta a quella in cui mi trovavo.
Dall’altra parte della vetrata, Zefiro si premette le mani contro il ventre e scoppiò a ridere, facendo una capriola in aria. Gli rivolsi il più luminoso dei miei sorrisi e sgattaiolai fuori dal mio nascondiglio, ricominciando a correre a piedi nudi lungo la galleria.
Ritratto dopo ritratto, vetrata dopo vetrata, tendaggio dopo tendaggio, mi parve che la corsa durasse un’eternità. Ben presto mi trovai in un’ala del castello che non riconobbi.
Continuai a correre finché una porta di quercia, chiusa, mi sbarrò la strada. Era così alta –e io così piccola- che dovetti inclinare il capo all’indietro per poterla guardare tutta: il corridoio sembrava finire lì.
La porta non aveva maniglia, solo una grossa serratura. Quando provai a sbirciare dal buco non vidi nulla, come se oltre quei cardini si celasse una stanza completamente buia. Premetti entrambe le manine contro la superficie e spinsi con tutte le mie forze, ma la porta non cedette di un millimetro.
Non mi scoraggiai: ero una bimba troppo sveglia per non aver imparato da Hermes qualche trucco, e quella porta mi incuriosiva.
Appoggiai la testolina bionda alla superficie di quercia, vi premetti contro l’orecchio e la guancia paffuta.
-Porta,- sussurrai -Mi senti? Per il potere dello scalpello che ti ha inciso e dei chiodi di metallo che ti tengono insieme, per il potere della sega e della pialla, che ti hanno dato forma… Rispondimi, Porta: tu custodisci un segreto?-
Il legno fremette sotto le mie dita calde: una coscienza lontana, lontana, guizzò come luce attraverso le venature.
, udii rispondere. Lo custodisco.
-Ascoltami. Sai che sono una dea?-
Lo sento, confermò la Porta in tono burbero.
-Allora adesso ti darò un nome, e tu sarai il nome che ti darò, e io ti darò quel nome perché esso è il tuo vero nome. Porta, io ti chiamo Legno. Rispondimi, Porta di Legno: tu custodisci un segreto?-
Sì.
-Non ci sono segreti, per me, nel palazzo di mia madre. Perciò ti chiedo ancora: tu custodisci un segreto?-
Sì.
-Per tre volte hai risposto di sì, ma presto risponderai diversamente. Questa è le legge del Cosmo: Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere. Quando tu saprai di non essere chiusa, non sarai chiusa, e allora sarai aperta.-
Ma io conosco la mia serratura e la pesantezza dei miei cardini. Ricordo il tintinnio della chiave che usciva dalla mia toppa, dopo avermi serrata. Io so di essere chiusa.
Annuii.
-Porta, io ti ho chiamata Porta di Legno. Ora ti do un altro nome: ti chiamo Legno e basta. Rispondimi, Legno: caldo, asciutto Legno, Legno robusto e flessibile sorto dalla terra fertile e generosa. Rispondimi, Legno.-
La porta parve tremare in tutta la sua lunghezza: i fregi che la ornavano si appianarono. La vernice che la lucidava sbiadì.
Ciao, disse la voce asciutta e rassicurante del Legno.
-Dimmi, Legno, tu custodisci un segreto?-
Sono forte e resistente. Sicuramente lo custodisco.
Chiusi gli occhi. Una ruga di concentrazione solcò la mia fronte, tra le sopracciglia bionde.
-Legno, io ti chiamo Albero, io ti chiamo Quercia.-
La porta non si dissolse davvero: parve piuttosto… cambiare. Sotto le mani e la guancia riuscivo adesso a sentire una corteccia scabra, umida di muschio. Alla narici mi giunse l’odore della resina.
-Dimmi, Albero di Quercia, dove sei cresciuto?-
La voce dell’Albero era sognante e lontana, come se giungesse attraverso sterminate pianure erbose.
Io crescevo su una collina. Eravamo molti: un bosco, una famiglia. Parlavamo l'uno all'altro, le nostre fronde frusciavano nel vento come un’unica voce, un unico sospiro. Chi ci diceva cosa eravamo? Noi stessi. Chi ci diceva cosa saremmo divenuti? Noi stessi. Gli uomini ci fecero a pezzi. Abbatterono i nostri tronchi, spezzarono i nostri rami. Strapparono le nostre foglie. Ci tagliarono in assi fino a quando piangemmo, e poi ci legarono fitti, e ci inchiodarono gli uni agli altri con chiodi di metallo che ci odiavano, e non fummo più Tutti, ma soltanto Uno.
-Ritorna,- dissi -a ciò che eri.-
Nell'oscurità dietro le palpebre, sentii la porta cambiare: gettò radici e rami e foglie: divenne un albero di quercia. Fremevo dal desiderio di aprire gli occhi, eppure non dovevo.
-Ora ti darò un nome per l'ultima volta: Quercia, io ti chiamo Ghianda, io ti chiamo Seme.-
Ciao... Sussurrò il seme. Aveva una voce ancora più lontana: un antico ricordo che palpitava sotto la corteccia.
-Ciao, Seme. C’è un segreto nella stanza accanto? Un segreto che tu custodisci?-
Ti sbagli, dea: io sono un seme. L’unico segreto che conosco, lo porto dentro di me. E non desidero custodirlo, ma rivelarlo fino al compimento del fiore e del frutto.
-Sei sicuro? Ricordi la serratura, la pesantezza dei cardini, il tintinnio della chiave che usciva dalla toppa, dopo averti serrato?-
Non so di cosa parli.
Sorrisi trionfante.
-Seme, sii Albero, sii Quercia, sii Legno, sii Porta! Porta, io ti ho ricreata: tu sei aperta, generosa come la terra da cui crebbe il Seme. Ascolta, Porta di Legno: tu custodisci un segreto?-
No, no e no. Io sono una Porta, sono fatta per accogliere e rivelare.
Aprii gli occhi: la porta scivolò silenziosamente sui cardini.
Scoppiai in una risata argentina e varcai la soglia.
§§§§

Mi trovai in una sala in cui non ero mai stata.
Era esagonale e ogni parete, a parte quella alle mie spalle, era interamente occupata da una vetrata priva di tendaggi.
Il cielo sembrava entrare da ogni parte, ma era un cielo strano, sgombro di nubi e di un blu denso, quasi pastoso, carico di pesanti sfumature violacee.
Al centro della sala c’era un tavolo esagonale: ad ogni lato dell’esagono un trono intarsiato. Completamente dimentica del gioco, di Leucippe e di qualunque altra cosa, mi avvicinai alla prima sedia.
Era un trono sottile e dalle linee molto semplici, ma robusto. Sulla bassa spalliera, simile a quella di una sedia, era inciso un cerchio da cui si ripartivano delle fiamme, che formavano il resto della spalliera stessa. Nel passargli accanto, sentii un’ondata di calore e di pace, come se mi trovassi in un rifugio amato, sicuro e caldo.
-Istie…?- il nome mi sfuggì dalle labbra, e io stessa me ne meravigliai. Quel trono mi ricordava Estia, la dolcissima zia che aveva scelto di vivere in mezzo agli umani e non si era mai sposata.
Incuriosita, proseguii lungo il tavolo.
Il secondo trono era maestoso e pesante, e sulla spalliera intagliata potei distinguere nelle nubi da cui proveniva una folgore. Sentii i capelli drizzarsi sulla nuca. Sentii tutto il corpo formicolare di un’energia frizzante, spaventosa, e scoppiai a ridere per sfogare l’euforia e la tensione, riconoscendo a pelle l’essenza di mio padre Zeus.
Il trono successivo era più basso, più largo. Solido e rigido, era ornato da intarsi che riproducevano le piume di pavone, così simili nei colori agli occhi cangianti di Era. Mi affrettai a passare al successivo.
I braccioli erano ondulati come spuma del mare; la spalliera riproduceva un tridente e il dorso flessuoso di un delfino. Nel passare accanto a quel seggio fui investita da un intenso profumo di salmastro. Sentii sorgere in me un’inquietudine senza nome, immensa, impetuosa, e riconobbi la presenza del più turbolento dei miei zii: Poseidone.
-Che cos’è questo posto?- chiesi a voce alta nella sala vuota.
Né i candelabri appesi ai muri né il pesante lampadario di ottone mi diedero risposta.
Quando passai accanto al trono successivo, le mie labbra si dischiusero in un sorriso: la spalliera era intrecciata di spighe e carica di frutti.
-Mamma, quando torni?- mormorai.
Senza quasi rendermene conto ero arrivata all’ultimo seggio. Che era anche il primo: quello che dava le spalle alla porta da cui ero entrata. Mi fermai a contemplarlo e mi stupii di averlo notato solo per ultimo. Era un trono alto, sottile, austero. Il legno era scurissimo.
Ebano, pensai, sebbene il colore e la consistenza porosa fossero più simili alle rocce vulcaniche disseminate lungo le pendici dell’Etna.
Nonostante la sala fosse invasa di luce, le ombre si raccoglievano ai piedi dello scranno.
Un passo dopo l’altro, mi accostai al trono.
La porta della sala era spalancata, ma dalla galleria non proveniva un suono: la quiete e l’immobilità erano così totali che udivo il battito del mio cuore, molto più celere del solito.
Fuori dalla finestra, il tempo si era come congelato. Il cielo e la luce di Helios erano ancora lì, ma sui miei occhi sembrava calato un filtro scuro.
Tesi una mano, toccando la superficie di ebano, e boccheggiai. Ebbi la sensazione che qualcosa di immenso si levasse da oscure profondità e si voltasse nella mia direzione
(Chi mi chiama, dopo tanto tempo?)
lasciando vagare lo sguardo
(Sei tu, Estia?)
e posandolo infine su di me.
Mi sentii
(risucchiare)
investire da una sfrigolante onda di potere: la sentii gonfiarsi e crescere come una gigantesca bolla nera. Ingoiò le mie dita, e poi la mano fino al polso, e poi l'intero braccio. Quando vi precipitai dentro, i miei occhi erano già chiusi.

 
§§§§

-Kore?- Due mani si posarono sulle mie spalle. -Per il Padre Zeus, cosa ci fai qui?!-
Mi ritrovai nella galleria di ritratti piena di luce, a fissare gli occhi verdi di Leucippe, prima che il suo palmo aperto mi colpisse con violenza la guancia.
-Kore, ti prego! Ti prego! Rispondimi!-
Mi schiaffeggiò, mi scrollò piangendo finchè non mi riscossi.
-Leucippe…?- la guardai con gli occhi sgranati e il piccolo viso pallido e spaurito.
-Sì, tesoro, sì! Sono proprio io!-
La ninfa mi abbracciò con calore. Da sopra la sua spalla vidi la porta di quercia, socchiusa. Non ricordavo di essere uscita dalla sala esagonale.
-Che cosa hai visto lì dentro? Che cosa hai visto in quella stanza?-
Scoppiai a piangere, terrorizzata dal suo terrore.
Pensai al grande tavolo di mogano, ai sei seggi, allo scranno di mamma. Cominciai a tremare.
Leucippe fraintese la mia reazione.
-Mi dispiace, mi dispiace tanto! Oh, Kore, è tutta colpa mia! Che cosa ti è successo lì dentro?-
Mi aggrappai alle spalle della ninfa.
-Leucippe, io... non riesco a ricordare...!-

 
§§§§

Note dell’autrice (altrimenti detto: diamo a Cesare quel che è di Cesare)
  1. L’idea che nella dimora di ogni dio esista una stanza contenente i simboli di tutti gli altri dei, attraverso i quali sia possibile evocarli, l’ho tratta e riadattata dal meraviglioso Sandman di Neil Gaiman. Lui parlava di simboli, io ho preferito parlare dei seggi… comunque siamo lì.
  2. Anche il dialogo tra Persefone e la porta è mutuato da un dialogo che compare nel romanzo Volkhavaar, di Tanith Lee, dove avveniva tra una strega e una spada.
  3. Visto che siamo più o meno tutte innamorate di questa coppia, vi segnalo, qualora vi fosse sfuggita, la storia di petitecherie, che a mio avviso merita moltissimo. Se avete voglia, segnalatemi qualcosa anche voi tra i commenti: anche in lingua inglese va benissimo :)

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Capitolo 3
*** Tra luce e tenebra ***


Ringrazio tutti i lettori e le lettrici che hanno commentato, messo la storia tra le seguite e tra le ricordate, e ringrazio Leda Swan per il betaggio

"Quando guardi a lungo nell'abisso
l'abisso ti guarda dentro"
(F. Nietzsche)

Il Fiume si avvolgeva in spire e gorghi, le acque nere sprofondavano scrosciando nelle viscere di Gea. Il boato risuonava attraverso le caverne sotterranee, tappezzate di stalattiti scintillanti di calcare, riempiva anfratti scoscesi e umidi che non avevano mai conosciuto la luce di Elios, il Sole.
L’oscurità era densa e pastosa, un’entità quasi fisica che impregnava l’atmosfera ed entrava e usciva dai miei polmoni insieme all’aria umida. Mentre respiravo, avevo la sensazione che una parte di quel buio mi restasse attaccata alla gola come una patina viscida.
Mi strinsi le braccia attorno al corpo, nel timore che quell’oscurità potesse insinuarsi sotto la mia pelle e scollare una per una le fibre della mia carne, fino a sfaldarla.
Lentamente, dallo sfondo di tenebra emersero tre vecchie magre e ricurve, abbigliate di cenci color fango.
Una di loro sollevò il capo. Due occhi color cenere, velati dalla cataratta, mi scrutarono attraverso una ragnatela di rughe. La vecchia reggeva fra le mani ossute uno stame, attorno a cui attorcigliava un filo.
 -Ah… sei tu!-
Riuscii ad udire la sua voce gracchiante nonostante il rimbombo che scuoteva le tenebre.
Anche la seconda vecchia posò lo sguardo su di me. Ciocche di capelli bianchi e unti sfuggirono da sotto lo scialle che le copriva il capo e le spalle.
-Non ti aspettavamo così presto.- Tendeva tra le mani nodose il filo prodotto dalla sorella, e se lo avvolgeva attorno al braccio scheletrico in movimenti lenti, per misurarlo.
- Sei lontana dalla Superficie. Vicina al cuore del Mondo.- sussurrò la terza vecchia. Era seduta nell’ombra, il mento sorretto da una mano ossuta. Tra le dita deformate dall’artrosi, scintillava un grosso paio di forbici.
Cominciai a battere i denti, un tintinnio patetico che si perdeva nel boato che riecheggiava lontano, lontano...
-Voi siete…-
-Siamo ciò che siamo.-
-Siamo ciò che rappresentiamo.-
-Siamo ciò che sappiamo di essere.-
Indietreggiai.
La mia schiena andò a sbattere contro qualcosa, il petto di qualcuno che si trovava dietro di me. Il terrore mi prese allo stomaco. Parlava di una tenebra informe, di forze senza controllo antiche quanto il Tempo e gli astri, di volti essiccati che spiavano nel buio e bocche senza labbra piene di denti.
Sentii un viso chinarsi sopra la mia spalla, una guancia sfiorare la mia. Non osai voltarmi. Non osai nemmeno respirare.
- Non guardare l’oscurità, piccola Kore.-
-Chi sei?-

-Se guarderai l’oscurità, anche lei ti guarderà.-
Come in risposta alle sue parole, le tenebre si diradarono e io li vidi.
Corpi scheletrici, come mummificati, con troppe braccia e troppe mani; creature enormi, prive di faccia, le costole esposte del loro torace che grondavano fango e ruggine.

Identificai finalmente il rombo che sentivo intorno a me. Non erano le acque del Fiume che scendevano, ma qualcosa, dalle profondità della terra, che saliva.

Fu il mio stesso grido a svegliarmi. Mi levai a sedere con tanta violenza che una farfalla posata su uno stelo vicino a me pensò bene di prendere il volo.
Sbattei le palpebre e mi guardai intorno. 
La luce di Elios faceva scintillare di verde i fili di erba della collina. Le corolle rosse dei papaveri tremavano dolcemente nella brezza, i gambi coperti di fine lanugine bianca. L’albero sopra la mia testa profumava di resina e albicocche. Potevo sentire sotto le dita il calore rassicurante della terra, e più in basso il dolce brusio dei semi addormentati, che sognavano i fiori che sarebbero diventati.
Un’ombra umana si allungò sul terreno davanti a me, proiettata da qualcuno che stava alle mie spalle.
-Una Vita per una Storia.- Una voce di velluto si fece strada attraverso il gelo che mi imprigionava.
Rovesciai il capo all’indietro: sullo sfondo del cielo azzurro incontrai, capovolti, un sorriso furfantesco e due occhi ridenti.
-Ermes?- le mie labbra di dischiusero di contentezza.-Ermes! Da quanto sei qui?-
Il mio fratellastro si passò due dita sul mento, coperto da un filo di barba.
-Non più di dieci minuti. Eri così graziosa che non ho potuto fare a meno di guardarti dormire.  E se tu sei qui, nei paraggi ci sarà sicuramente anche…- Un’albicocca matura fendette l’aria in direzione del suo viso, e Ermes la afferrò prontamente al volo.- …la dolce e bellissima Leucippe, appunto!-
La testa bruna e le spalle di Leucippe fecero capolino dal tronco dell’albero di albicocche.
-Ermes sei un cialtrone!- lo canzonò con voce musicale.-Sono sicura che riempi di complimenti tutte le ninfe che incontri!-
-Solo quelle che li meritano! E tu e Persefone decisamente li meritate.-
Leucippe gli lanciò un’altra albicocca, che lui prese nuovamente al volo.
-Sei fortunato che Demetra non sia nei paraggi.- lo canzonò la mia ancella uscendo dall’albero.- Se ti sentisse insidiare così la piccola Kore ti trasformerebbe in un cactus!-
Ermes fece un profondo inchino.
-Varrebbe ogni singolo istante. Dolce Lucippe, oggi sei davvero più bella solito!-
-Tu, invece, sei il solito cialtrone!- rise Leucippe, arrossendo di autentico piacere.
Era impossibile tenere il muso a Ermes. Se voleva qualcosa da te, sapevi che in qualche modo ti avrebbe raggirato fino ad ottenerlo, ma lo faceva in modo così garbato da lasciarti con il sorriso sulle labbra e il cuore più leggero. Anche se esagerava volutamente, avevo sempre avuto l’impressione che fosse molto affezionato alla mia ancella.  E, nonostante lei lo respingesse bonariamente, i suoi occhi verdi si illuminavano in un modo tutto speciale quando lui era nei paraggi.
Incrociai le gambe nell’erba, tirando giù l’orlo del vestito il più possibile.
-Sei venuto a farci visita tra un viaggio e l’altro, Ermes? Ti fermi a raccontarci una storia?-
-Mi farebbe piacere, sorellina, ma in realtà sono qui per lavoro.- Infilò una mano nella borsa di camoscio che portava alla spalla e ne estrasse una foglia di quercia, l’albero sacro a nostro padre. Lo posò nelle mie mani strette a coppa. -Ecco, questo è per te.-
Sollevai la foglia davanti agli occhi, contemplandone la superficie tenera e verde percorsa da delicate nervature dorate.
 -Un invito?-
Ermes annuì.
-Un invito sull’Olimpo, presso il palazzo di Zeus, per una festa in onore del suo ultimo nato.-
-Oh… Abbiamo un altro fratello?-
Leucippe e Ermes si lanciarono un breve sguardo. A nessuno piaceva ricordare che anche lui ed io eravamo figli di nostro padre, sebbene non legittimi. Per la nostra nascita non c’era stata alcuna festa: Era non l’avrebbe permesso, e Zeus non era così legato alla sua prole da sfidare il volere della legittima moglie.
-Darò l’invito a mamma, non appena tornerà. Al momento è…-
-In Tracia, a celebrare i raccolti. Lo so, sciocchina, perché vengo da lì.- Ermes si puntellò le mani abbronzate sui fianchi snelli. –Tua madre ha già il suo invito: quello che ti ho dato è per te.-
-Per me?-
-Di cosa ti meravigli? Sei una giovane donna in età da marito, adesso. Hai diritto a un invito anche tu!-
Leucippe mi passò una mano tra i capelli biondi.
-Sei contenta, Kore? Ci saranno tutti gli dei olimpi! Indosserai un bel vestito e renderai orgogliosa tua madre!-
-Io non sono sicura che lei sarà d’accordo…-
-Zeus non ha chiesto il suo permesso.- fece notare Ermes con un inchino. -Dolce Leucippe, mi aspetto sia presente anche tu. Come dio dei ladri, dovrò rubarti almeno un bacio!-
-Ti concederò un ballo,-sorrise Leucippe. –E niente altro!-
-Vedremo! Amo le sfide, - approvò Ermes. Gettò le albicocche in aria, riprendendole con la stessa mano.-Queste le porto con me per il viaggio.- Aprì la borsa e ve le lasciò cadere dentro.
Ora, io non so come e perché avvenne ciò che avvenne. Fu il Caso, forse, o il primo cenno di un Fato che già iniziava a tessere i propri fili.
Fatto sta che la borsa sfuggì alle dita abili di Ermes, e sul prato si sparpagliarono diverse foglie di quercia, simili a quella che avevo ricevuto io, ma di diversi colori. Ne riconobbi una dorata sicuramente destinata ad Apollo, e una blu come il mare che mi ricordò Poseidone. Una rossa come brace mi fece pensare a Estia e…
- E questa di chi è?-
Una foglia completamente nera si era adagiata accanto ai miei piedi nudi.
Prima che arrivassi a posarci sopra le dita, Ermes l’afferrò, traendola lontano dalla mia portata.
-Eh, no, sorellina: questa la prendo io!- Per un istante la sua allegria mi parve un po’ forzata, la sua pelle leggermente pallida sotto l’abbronzatura. -Quella è di…-
Leucippe gli premette una mano morbida contro la bocca.
-Non nominarlo. – La tensione che le vidi in faccia mi spaventò. -Non sta bene chiamare per nome poteri che non si comprendono.- Dopo un istante, Leucippe ritrasse la mano, imbarazzata.  –C’è un invito anche per lui, dunque?-
-Non potrebbe non esserci.- le fece notare Ermes con gentilezza - Lui non verrà, in ogni caso: a questo genere di cose non partecipa mai. Scenderò comunque là sotto a portargli la foglia.-
- Là sotto dove?- chiesi, sempre più confusa.
-Meglio parlarne il meno possibile.- tagliò corto Leucippe.
-Perché ne hai tanta paura?- Chiese Ermes richiudendo la borsa.
Leucippe si sistemò una ciocca dietro l’orecchio, c’era autentico disagio nei suoi occhi: il nervosismo di un cerbiatto braccato, che si stemperò di tenerezza quando posò lo sguardo su Ermes.
- Anche tu ne avresti, se non fossi l’adorabile cialtrone che sei. Voi divinità olimpiche vivete in un luogo privilegiato, da cui Cronos, il tempo, e Thanatos, la morte, sono banditi. Io sono solo una semplice driade: abbastanza vicina al suolo e alle creature che vi crescono da sapere che la Superficie non è tutta come l’Olimpo. Per i mortali la vita non dura per sempre, e finché dura non è per nulla facile.-
Tesi la mano, stringendo quella serrata di lei. Al mio tocco, lei aprì le dita.
-Leucippe, nessuno ti farà del male. Ti proteggerò io.-
La mia ancella abbassò lo sguardo su di me, sorridendo senza convinzione.
-Grazie, tesoro.-
Ermes le sorrise rassicurante, ma vedevo che non capiva il suo turbamento. Del resto, non lo capivo nemmeno io.
-Ade non verrà, davvero.- le promise.
Conoscevo quel nome per averlo colto, qualche volta, nelle fitte conversazioni bisbigliate tra la mamma ed Estia. Mamma chiedeva di lui come se si sentisse in dovere di farlo, ma interrompeva quasi subito le risposte della zia, come se ascoltarle non le interessasse davvero, o addirittura la mettesse a disagio. Zeus non lo nominava mai: al massimo accennava, ogni tanto, a un fratello maggiore troppo preso dai propri affari per venire a trovarlo.
Leucippe abbassò lo sguardo, lisciandosi nervosamente la veste.
-Non importa se lui verrà o non verrà: è sufficiente che, da qualche parte, lui e il suo regno esistano. Ed esistano creature altrettanto spaventose che lo abitano. In un momento qualsiasi, chiunque di noi potrebbe finirvi dentro e non venirne più fuori.-
Mi voltai verso Ermes.
-Mio zio è davvero sovrano di un luogo così spaventoso?-
-L’Averno ha leggi molto diverse dalle nostre. Ai nostri occhi, questo lo rende spaventoso. D’altra parte, Ade è stato costretto con l'inganno a diventare re di quel mondo di tenebra.-
Alla parola “tenebra” mi strinsi le braccia al petto, scossa da un brivido.
-Kore, tutto bene?-
-Sì, certo.-
Leucippe non mi contraddisse, ma capii che non mi credeva.
Ermes battè le mani.
-Gentili fanciulle, vorrei potermi fermare, ma devo completare il mio dovere.-
Leucippe si mi tese la mano e mi aiutò ad alzarmi.
-Non importa, Ermes: anche noi dobbiamo andare.-
Si avviò verso il palazzo di mia madre e io la seguii, la treccia bionda che mi si disfaceva sulla schiena e le tenebre del mio sogno ancora impresse negli occhi, a dispetto del pomeriggio soleggiato e della campagna in fiore che mi circondavano.

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Capitolo 4
*** Dea di nulla ***


Un grazie ai lettori e commentatori, e a Leda Swan per il betaggio!

§§§§
 
Leucippe mi puntò contro un dito accusatore e aggrottò le sopracciglia brune.
-Kore, non verrai alla festa così!-
Era tanto indignata che arrossii e mi voltai verso lo specchio accanto a letto, in cerca di conferme. L’abito che avevo scelto era di un pallido color lavanda; lo scollo arrivava sotto la linea sottile delle clavicole e schiacciava il mio già scarsissimo seno. I capelli biondi, sciolti sulle spalle, costituivano il mio unico ornamento, insieme a un sottile bracciale di margherite.
-Cos’ho che non va? Mi vesto spesso così ed è sempre andato bene!-
Leucippe affondò le mani nei capelli bruni e lanciò un gemito che avrebbe fatto invidia a una baccante.
–Certo che va bene! Va bene per correre nei boschi, e arrampicarsi sugli alberi, e immergere i piedi in un torrente e acchiappar trote! Ma a un banchetto sull’Olimpo non è previsto nulla di tutto questo!-
Schiacciai le mani contro le labbra per soffocare una risata, che Leucippe stroncò con un’occhiata truce.
-Insomma, mi ascolti?- sbottò, lanciandomi contro un cuscino.
Afferrai il cuscino al volo e me lo pigiai a forza dentro la scollatura. Puntellai le mani sui fianchi stretti e sporsi il petto in fuori, rimirando allo specchio quel seno improvvisato.
–Così andrebbe meglio, vero?-
Leucippe si nascose il viso fra le mani.
-Ti vendo… giuro che ti vendo al mercato!-
Estrassi cuscino dalla scollatura e lo appoggiai sul pavimento, ridendo. Ne approfittai per occhieggiare di nuovo la mia figura allo specchio. Per come la vedevo, il vestito che avrei scelto non aveva importanza. Niente di ciò che avrei indossato avrebbe cambiato quel che ero: una giovinetta di media altezza, dal seno piccolo e i fianchi stretti. Le mie braccia erano sottili, abbronzate per la vita all’aria aperta; i lineamenti del mio viso erano minuti, gli zigomi alti e spigolosi, appena addolciti dal biondo dei miei capelli ondulati. Avevo occhi allungati, bruni come la terra smossa, e una bocca espressiva come quella di mia madre, ma incline al broncio anche quando sorridevo. Mi piaceva la piccola fossetta sul mento appuntito: Estia raccontava che quando Zeus mi prese in braccio per la prima volta, poggiò l’indice proprio in quel punto e sussurrò “Benvenuta, Persefone”.
Non ero bella, ma indossavo con naturalezza il mio aspetto: trovavo che mi si addicesse, proprio come l’abito che avevo scelto per la festa.
Leucippe, invece, scuoteva la testa con aria sconsolata.
-Sei una giovane donna: perché non cominci a comportarti come tale?- Mi raggiunse da dietro e mi cinse la vita con le braccia, appoggiando il mento sopra la mia spalla. Nello specchio era bellissima, con quei capelli rosso bruni che le ricadevano sulle spalle e lungo la schiena in onde compatte, e la pelle bianca e rosa, vellutata come un’albicocca matura. Leucippe mi affondò le mani nei capelli biondi e me li sollevò sopra la nuca, rivelando la curva del mio collo. -Questi, ad esempio. Non puoi più portarli sciolti come una bambina: potremmo acconciarli in qualche modo!-
-Dobbiamo proprio?-
Mi sottrassi al suo tocco e Leucippe mi lasciò scivolare via.
-Ormai sei una giovane donna: presto ti accorgerai del tuo effetto sugli uomini. Anche tua madre dovrà rassegnarsi.-
Il suo tono pieno di tenerezza mi strinse il cuore.
-Sono sempre la stessa Kore- protestai, dubbiosa. -Nessun dio sano di mente mi guarderebbe due volte!-
Leucippe mi scrutò da sotto le ciglia, con un sorriso malizioso.
-Vogliamo scommettere?-
 
§§§§
 
La luminosità della giornata era quasi accecante, il cielo così blu da sembrare il frammento di un vaso di Cipro.
Tra la folla di satiri che saltavano e zufolavano, intravidi le spalle nude di mia madre: indossava un abito di broccato azzurro, lucente sotto i raggi del Sole. I boccoli biondi erano raccolti in un’acconciatura di fiori color magenta, e poche, lunghissime ciocche le ricadevano come miele fuso lungo la schiena. Una cinta di spighe di grano fittamente intrecciate le adornava la vita, mettendo in risalto la forma generosa dei suoi fianchi.
-Mamma!- chiamai.
Lei affondò la mano nel ricco panneggio dell’abito e sollevò leggermente l’orlo, voltandosi nella mia direzione. Una collana d’oro, anch’essa in foggia di spighe di grano, scintillava al suo collo.
Sollevai un braccio. –Mamma, sono qui!-
Feci per correrle incontro, ma una fitta delle scarpine di raso mi ricordò che non era l’atteggiamento che ci si aspettava da me. Lanciai un’occhiata truce a Leucippe, che mi sorrise sorniona, e mi avviai verso mia madre, sforzandomi di tenere un passo aggraziato e sentendomi, invece, penosamente goffa.
Quando la raggiunsi le rivolsi un rigido inchino. Subito dopo, ridendo, le gettai le braccia al collo.
-Mamma, sei bellissima!-
–Kore! Cosa ci fai qui?- Ricambiò a lungo l’abbraccio, riempiendomi le guance di baci. Era morbida e calda come pane fresco, il suo abbraccio era dolce come i frutti che maturavano sotto il sole brillante della Sicilia.
Quando si staccò da me, mi prese il viso fra le mani e squadrò con apprensione i miei capelli raccolti e gli orecchini di perla che portavo ai lobi, come non fosse del tutto certa di riconoscere nella fanciulla così agghindata la ragazzina che aveva lasciato a casa poche settimane prima.
Capivo che non si aspettava di vedermi lì, meno che mai vestita come un’adulta, e per un attimo mi sentii in colpa, come se avessi in qualche modo deluso le sue aspettative.
Ad ogni modo mamma mi sorrise, dicendo come sempre qualcosa di gentile.
-Hai messo l’abito azzurro: indossiamo gli stessi colori!-
Mi sistemai una ciocca dietro l’orecchio.
-Volevo fossi felice di me.- dissi con una punta di ansia, cercando di non pensare alla tunica color lavanda che aveva tanto scandalizzato Leucippe.
-Demetra!- La voce potente di Zeus ci fece voltare entrambe.- …Kore?-
Da quanto tempo non lo vedevo?
Per me Zeus era il protagonista degli aneddoti di Ermes e delle storie che Estia raccontava accanto al fuoco. Zeus era il nostro sovrano, Zeus governava sull’Olimpo e la Superficie, Zeus era il signore del Fulmine e ci aveva salvati tutti squarciando il ventre di Crono e portando l’Ordine sul mondo. Io sapevo chi fosse mio padre, eppure non lo conoscevo: lo rincorrevo con urgenza nelle storie che ascoltavo, e che richiedevo avidamente senza che riuscissero mai davvero a dissetarmi.
Adesso, vedendolo avvicinarsi, sapendo che era stato lui a ricordarsi di me –proprio di me!- e a volermi lì, ebbi un tuffo al cuore, che cercai goffamente di mascherare con un inchino.
Zeus non era imponente quanto Poseidone, ma era comunque alto, aveva le spalle larghe e occhi color cielo, e quando sorrideva comparivano due fossette ai lati delle sue guance e calde rughe attorno ai suoi occhi. In sua presenza l’aria si caricava di una strana tensione, che pizzicava sul viso come elettricità statica.
 -Stai molto bene vestita così.- mi squadrò con attenzione, soffermandosi sulle mie labbra tinte di un rosa tenue, sulla curva indifesa della mia gola. -Da quanto tempo non ci vediamo? Sembri ormai una donna fatta!-
Mamma mi cinse protettiva le spalle.
-È sempre Kore, la nostra bambina. È solo quest’abito a farla sembrare più grande.-
-Dici? Eppure…- Zeus continuava a squadrarmi. Mi parve che il suo sguardo indugiasse un istante di troppo sulla mia scollatura, e subito mi diedi della sciocca per quel pensiero. Abbassai lo sguardo, camuffando il mio imbarazzo con un nuovo inchino.
-Sei troppo gentile, signor Padre.-
Una risata contagiosa scosse l’aria, unita a un tenue sentore di salmastro.
-Zeus, caro fratello! Dove nascondi il nuovo frutto dei tuoi poderosi lombi?-
Poseidone arrivò alle spalle di Zeus e gli diede una manata tra le scapole con fare giocoso, ma la smorfia che mio padre non riuscì a trattenere sembrò di autentico fastidio.
-Fratello, è bello rivederti ma la tua espansività rischia di uccidermi!-
Poseidone si puntellò le mani sui fianchi ed ebbe un’altra delle sue risate scroscianti ed espansive, che fecero calare attorno a lui un velo di imbarazzo. Era così possente che provai l’istinto di celarmi dietro mia madre.
Anfirite lo raggiunse da dietro, appoggiandosi al suo braccio e sorridendo verso di me con aria timida, quasi di scusa. La Nereide indossava un abito bianco dalla scollatura vertiginosa, che seguiva le forme sinuose del suo corpo ed era talmente sottile da lasciar intravedere le areole rosate dei suoi seni.
Poseidone le cinse la vita con un braccio, possessivo, poi sorrise all’indirizzo di mia madre, facendo schioccare la lingua contro il palato.
-Cara Demetra, sei bellissima!-
Sentii mia madre irrigidirsi e rispondere con un sorriso insolitamente freddo.
-Grazie, caro fratello.-
Prima che lo sguardo invadente di Poseidone si posasse su di me, mamma gli volse le spalle e mi guidò verso Apollo, che porgeva elegantemente il braccio ad Afrodite. Dietro di loro, Efesto zoppicava penosamente, senza distogliere nemmeno per un istante lo sguardo adorante dalla bellissima moglie.
In verità, non voglio rievocare quella festa più del necessario.
Ricordo che mi sudavano i palmi e che la gonna azzurra del mio abito si impigliava dappertutto. Trovavo invadenti gli sguardi degli altri dei, e tuttavia mi sforzavo di sorridere a tutti: non volevo scontentare mia madre, non volevo deludere Leucippe, non volevo essere scortese con nessuno.
Ad un certo punto sbirciai il bracciale di fiori che avevo al polso -piccole margherite di un bianco delicato, l’unica cosa su cui l’avessi avuta vinta- e trattenni il desiderio di correre via.
Mamma era bellissima, come sempre: aveva fianchi morbidi, seni grandi, braccia tornite e accoglienti. Gli dei la guardavano passare e le dee le sorridevano amichevoli, irresistibilmente attratte dal suo sguardo caldo e dal suo sorriso luminoso. Io, vestita con gli stessi colori ma dotata di ben altre forme, non potevo fare a meno di sentirmi una sua copia sbiadita.
Rallentai progressivamente il passo, rimanendo indietro mentre Demetra si avvicinava alla piccola culla in cui riposavano Ares ed Eris, il miei nuovi fratellini. Indietreggiai furtivamente e subito trasalii, rendendomi conto di aver urtato qualcuno.
-Ti stai chiedendo se sarai mai come lei?-
La voce era roca e suadente, morbidamente femminile, e mi fece rizzare i capelli sulla nuca mentre mi voltavo.
Memore degli sforzi di Leucippe di migliorare i miei modi, feci un breve inchino.
-Buon giorno, signora zia.-
Era mi guardò con sufficienza; gli occhi verdi screziati d’oro erano ombreggiati dalle lunghe ciglia scure.
-Ti sta bene questo vestito, Kore.- Quel nomignolo affettuoso aveva sempre un suono sbagliato quando usciva dalle sue labbra: una nota di malcelato disprezzo, come quello di una donna piacente e matura che si rivolgesse a una ragazzetta tutta gomiti, ginocchia e ossa.
Abbassai lo sguardo.
-Grazie.-
-Dovresti vestirti così più spesso.-insistette Era. Mi posò un dito inanellato sotto il mento, costringendomi a sollevare il viso. -Sembri meno scialba.-
Farfugliai un altro ringraziamento e sgattaiolai via, desiderosa di sparire.
Vagai con lo sguardo tra la folla, cercando la figura di Leucippe, e andai a sbattere contro un petto sconosciuto.
-Eccola che arretra… hai già seminato la tua ancella?-
Nonostante l’isolamento in cui vivevo, costantemente circondata da ninfe nel castello di mia madre, era impossibile non riconoscere quella voce ridente. E, se anche non l’avessi riconosciuta, avrei percepito il calore del Sole sotto le dita, che mi cinse le spalle come un dolcissimo abbraccio. Arrossii fino alle orecchie e sollevai lo sguardo, incontrando un paio di occhi color oro e un viso bellissimo, circondato da una criniera di selvaggi capelli color fuoco.
-Helios!- mi staccai dal suo petto come se mi fossi ustionata e strinsi le mani una dentro l’altra, come a serbare un po’ del suo calore.
Helios sorrise.
–Quasi non ti riconoscevo! Oggi sei molto diversa da come ti vedo di solito!-
Quella frase implicava che, dall’alto del cielo, lui ogni tanto mi osservasse. Sentii i il cuore accelerare i battiti e una sensazione di calore arrampicarsi su per le mie guance.
–Io… ti sono arrivata addosso, scusami!-
Helios fece un inchino furfantesco, degno di Ermes.
-C’è un modo per rimediare: mi concedi un ballo?-
Demetra si intromise nella conversazione con il solito garbo, ma il suo tono fermo non ammetteva repliche.
-Kore è ancora troppo giovane per accettare inviti.-
Negli occhi felini di Helios scintillò una convinzione diversa, ma il dio celò il disappunto con il sorriso più luminoso che avessi mai visto.
-Posso invitare te, allora, dolce Demetra?-
-Me?- Per un istante mia madre parve sorpresa da tanta audacia, ma assecondò il gioco, lusingata.-D’accordo, se lo desideri. Kore,- mi bisbigliò avvicinandosi -non allontanarti!-
-Sì, mamma. Non preoccuparti.-
Li guardai fendere la folla in direzione dei danzatori, delusa.
Ripensai a Helios, al calore del suo petto che potevo ancora sentire sulle braccia.
Ripensai alle parole di Leucippe
(presto ti accorgerai del tuo effetto sugli uomini)
e all’osservazione acida di Era
(questo vestito ti rende meno scialba).
Guardai gli altri dei: ognuno di loro si distingueva dagli altri, portando con fierezza le insegne del proprio potere, della propria natura.
Io non ero nulla, non avevo in me nulla.
Cosa ci faccio qui, in mezzo a loro?
Ero chiaramente nel posto sbagliato: non mi ero mai sentita fuori posto mentre mi arrampicavo da sola sugli alberi, o correvo per i prati e i boschi insieme alle mie ninfe.
Fu allora che vidi Leucippe.
La mia ancella era sotto un arco di pietra invaso di glicine, il capo rovesciato all’indietro mentre parlava con Ermes e lo guardava in viso, come a cercare nei suoi occhi di mercurio il nucleo di verità celato nei suoi amabili inganni. Ermes le prese la mano e le baciò le nocche. Leucippe rise, ma non ritrasse le dita.
Non l’avevo mai vista così felice con me, al palazzo di mia madre. E non avevo mai visto nemmeno Ermes sorridere in quel modo, come se lei fosse il centro dell’universo e lui fosse grato di poterla sfiorare.
Ebbi un tuffo al cuore: mi sentii abbandonata. Peggio: mi sentii tradita.
Serrai gli occhi e per un attimo mi parve di sprofondare al suolo, e poi ancora più giù: nell’oscurità della terra, dove lo sguardo luminoso di Helios non arrivava e mai sarebbe arrivato.
Percepii qualcosa, in quel buio: un rombo lontano, lontano che…
Grida di sorpresa mi spinsero a riaprire gli occhi: Leucippe e Ermes stavano guardando il terreno: dei rampicanti erano emersi dalla terra e si avvinghiavano attorno alle loro caviglie.
Leucippe sollevò lo sguardo nella mia direzione e mi vide.
Le voltai bruscamente le spalle, inoltrandomi a grandi passi nel folto della selva.
-Kore!-
Sentivo la sua voce alle mie spalle, ma la ignorai. Udii il suono dei rampicanti che venivano strappati, i passi goffi di Leucippe nella mia direzione.
-Kore, dove stai andando? Non dovresti allontanarti. Tua madre si preoccuperà!-
-Lasciami in pace! Torna a quello che stavi facendo!-
-Kore, tu non mi stai ascoltando!-
-E’ vero!- sbottai, lanciandomi in corsa lungo il pendio del monte Olimpo.
Leucippe scattò dietro di me, ma ovunque posassi i piedi fiorivano rampicanti, arbusti e alberi.
-Kore!- Leucippe scostò esasperata i rami di un cespuglio di biancospino, e continuò a correre dietro di me. Un groviglio di bosso le sbarrò la strada.-Kore, aspetta!-
Ma io non ero più lì.
 
§§§§
 
Corsi per molto tempo.
L’acconciatura mi si sciolse lungo la schiena, l’orlo dell’abito si sbrindellò. Le scarpine erano scomode e mi fermai un istante a sfilarle, lanciandole dietro di me con un grido liberatorio.
Quel comportamento avrebbe molto scontentato mia madre, ma in fondo in quel momento ero sola, no? Ero sola nel bosco, ero sola nella mia fuga.
A ben guardare, ero sola anche alla festa, introdotta a un gioco le cui regole sembrano chiare a tutti, meno che a me!
La luce del Sole mi attirò fuori dal folto del bosco, in una radura.
Il cielo era un fazzoletto azzurro sopra la mia testa, le fronde verdi degli alberi ritagliavano arabeschi cangianti di ombre e di luce. Rivolsi il viso verso il cielo, lasciando che la luce verde che filtrava attraverso le foglie mi sfiorasse le palpebre.
Inalai a fondo.
Profumo di erba tenera, fiori di biancospino, terra umida di pioggia.
Se ascoltavo profondamente, sentivo il battito del mio cuore contro lo sterno. Ancora una volta mi parve che la mia coscienza scivolasse verso il basso, verso qualcosa che stava ancora più giù della terra coperta di erba e di foglie: un magma oscuro e sotterraneo di cui ero solo vagamente consapevole. Dall’oscurità, un brusio confuso mi chiamava: lo sentivo vicino, come se avessi potuto sfiorarne l’origine anche solo tendendo la mano, ma per farlo avrei dovuto
(cadere)
affondare le dita nell’oscurità che lo circondava.
Qualcosa mi spinse ad aprire gli occhi: il suono affannoso e irregolare di un respiro.
Qualcuno si agitava nel centro della radura.
Avanzai guardinga, curva nell’erba alta come un animale selvatico.
Lo raggiunsi, ma non riconobbi subito ciò che stavo contemplando.
Era a terra, gli occhi vitrei rivolti al cielo. La sua schiena era curva come un arco, e lui si artigliava la camicia con entrambe le mani, snudando il petto.
Mi inginocchiai accanto a lui: le sue pupille dilatate mi fissarono senza vedermi. Un filo di saliva schiumosa gli colava agli angoli delle labbra, distorte in una smorfia di dolore. Gli sfiorai la fronte, i capelli ispidi, e  sussultò con tanta violenza che ritrassi di scatto la mano.
Dopo un istante gli premetti due dita sul collo. Sentii il ritmo irregolare del suo cuore.
-Sei umano, vero?- Un tremito scosse il corpo dell’uomo; gli accarezzai il collo per calmarlo, come avrei fatto con un animale del bosco. -Cosa c’è? Cosa ti succede?-
-Non può vederti.-
Tre parole fendettero l’aria. Tre parole, e la temperatura sembrò abbassarsi, la luce del sole perdere brillantezza, come se un’ondata di gelo si spandesse da un punto preciso ai margini della radura.
Sollevai lo sguardo verso il punto da cui proveniva la voce. Scrutai la parete di rami e foglie senza riuscire a distinguere nulla.
-Chi c’è lì?-
Il cuore dell’umano continuava a pulsare sotto le mie dita, il sole a splendere sopra le nostre teste, magnifico e indifferente. Il dolce ronzio delle api selvatiche aveva qualcosa di irreale.
Vi fu un movimento: qualcosa che potei indovinare, più che vedere. Ebbi la sensazione che, se avessi chiuso gli occhi, l’oscurità dietro le palpebre mi avrebbe consentito una percezione più distinta, e così feci.
Un volto bianco: bianco come le ossa, come il marmo sulle tombe dei morti.
Mani grandi e affusolate, premute sulla superficie di un elmo invisibile.
Riaprii gli occhi, nervosa.
-Chi c’è? Mostrati, non avere paura!-
-Paura… ?- La voce suonò sommessa, incolore. -Grazie per avermi rassicurato.-
C’era sarcasmo? Il tono era troppo monocorde perché potessi esserne sicura.
Un movimento fece tremare le ombre verdi sul limitare del bosco. Mi ci volle un istante perché i miei occhi, così abituati alla luce, riuscissero a distinguere l’uomo che veniva avanti.
…no, mi corressi, non un uomo. Un dio.
Sebbene sull’Olimpo non lo avessi mai visto.
Era vestito di nero, come se l’oscurità gli fosse rimasta attaccata addosso. Ed era alto, così alto che, avvicinandosi, torreggiò sulla mia figura rannicchiata.
Portava una maschera bianca, dai lineamenti delicati; tra le orbite della maschera si annidava l’oscurità più completa. Poi un muscolo si contrasse sulla sua guancia: le labbra esangui si tesero agli angoli, bianchissime palpebre calarono a ombreggiare gli zigomi, e io capii che quello che stavo fissando non era una maschera ma un volto, e l’oscurità in fondo alle orbite erano i suoi occhi.
Sentii la pelle accapponarsi sulle braccia, i capelli rizzarsi sulla nuca. Ogni fibra del mio corpo, ogni tendine o muscolo mi ordinò di fuggire.
L’umano sotto di me tremava: tremava come avesse la febbre, come tremavano gli animali del bosco quando un predatore li inseguiva, come aveva tremato Leucippe quando aveva parlato dell’Averno.
Il dio avanzò. La sua ombra si allungò su di me, e mi ritrovai rannicchiata dentro.
Sentii il suo potere pesarmi addosso, riversarsi per la radura inclinando i fili d’erba. Sotto il peso di quel potere, le corolle dei fiori si reclinarono, i bordi dei petali si raggrinzirono.
Chiunque egli fosse, non era certo una divinità minore.
-Cosa ci fai qui? Perché non sei alla festa?-
-Festa?- Le labbra esangui del dio si assottigliarono un istante. Una lieve scrollata di spalle fece tremare l’oscurità perfetta del suo mantello. –Io non mi curo di queste cose.-
Il dio si accovacciò nell’erba, portando lo sguardo sull’umano. Tese verso di lui la mano più bianca che avessi mai visto.
-Lascialo andare!- scattai. -Non vedi che ha paura di te?-
Il dio riportò gli occhi neri su di me. Era un’ombra di impazienza, quella che gli leggevo nello sguardo?
-Questo umano mi appartiene. O mi apparterrà tra poco. Nessuno può farci niente, nemmeno io.-
Le mie labbra si dischiusero inopportune. Non seppi cosa stavo per dire finchè non udii la mia voce tremare nel silenzio della radura.
-Sei lui, vero?- Inorridii della mia audacia, eppure non riuscii a trattenermi.- Tu sei Ade!-
Le iridi nere mi scivolarono addosso come se mi mettessero a fuoco per la prima volta: studiarono i miei capelli arruffati e sciolti, il mio abito sgualcito, le braccia abbronzate piene di graffi, le mani affusolate, prive di anelli, i piedi orgogliosamente nudi.
Mi scambierà per una ninfa dei boschi, pensai.
Gli occhi neri del dio si socchiusero impercettibilmente.
-Tu,- disse -sei Persefone.-
 
§§§§
 
Angolino dell’autrice (altrimenti noto come: considerazioni inutili che però allietano il cuore di una fan girl)
  1. La mia Persefone, di cui finalmente svelo le sembianze, ha la bellezza schiva e spigolosa di Mia Wasikowska. In questo capitolo ho cercato di trasmettere la complessità e le contraddizioni che sento proprie di questo personaggio/archetipo: spero di esserci riuscita e di non averlo banalizzato o appiattito. Il dialogo iniziale con Leucippe prende spunto alla lontana da un dialogo presente nel libro Lemonade, di Nina Pennacchi.
  2. Finalmente entra in scena Ade. In quanto a complessità, lui mi darà un sacco di filo da torcere, lo sento!
*Saliman si prende la testa fra le mani e si dondola nell’angolino*
  1. Demetra ha preso forma mentre ne scrivevo: diciamo che potrebbe avere le fattezze di Charlize Theron.
E niente, che vi aspettavate? o_ò
L’avevo detto che si trattava di note abbastanza inutili!

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Capitolo 5
*** Cadendo giù ***


Bentornati o bentrovati :)
Come sempre, un grazie a Leda Swan per il betaggio!

 
§§§§
 
L'incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli,
alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante.
Chi è in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza

ha già assolto una piccola parte del compito
Jung C.G., "Gli archetipi dell'inconscio collettivo"
 
-Tu sei Persefone- disse Ade, chinando la testa di lato. Le ciglia scurissime fremettero, socchiudendosi, e qualcosa passò in quegli occhi neri, rapidissimo.
Un brivido mi scosse la schiena. Ebbi l’impressione che il mio nome fosse una parte nascosta, intima di me: un segreto scritto nel rosso del mio sangue, nel bianco delle mie ossa, nel marrone delle mie iridi, e che gli occhi penetranti del dio lo avessero svelato e letto.
Arrossii e incrociai un braccio sul petto, premendo contro la pelle il corpino ricamato dell’abito. Ade colse il mio movimento: una strana voracità affiorò alla superficie immota del suo sguardo.
Con strisciante inquietudine mi resi conto di essere lontana da mia madre, lontana dalle mie ancelle, in compagnia del respiro irregolare e sempre più flebile di un umano moribondo, e di un dio che si stava lentamente alzando in piedi, torreggiando su di me e inghiottendomi nella sua ombra. Il mantello nero, chiuso sul davanti, celava ogni dettaglio della sua persona, trasformandolo in una figura oscura e spettrale.
Il volto di Ade si stagliava bianco contro il cielo, incorniciato dalla corona arruffata dei suoi capelli scuri; i suoi lineamenti erano immobili, simili a quelli di una maschera mortuaria, e non tradivano alcuna emozione.
Improvvisamente, il dio dell’Averno scattò verso di me. Il suo mantello si aprì e la tenebra dilagò tutt’intorno, immensa: ingoiò l’azzurro del cielo, la luce Sole, le ombre verdi e fruscianti degli alberi.
Lanciai un grido e mi rannicchiai nell’erba, premendo le mani sopra la testa.
Mi avrebbe rovesciata a terra con una spinta, mi avrebbe inchiodata al suolo col peso del suo bacino.
Si sarebbe chinato su di me, curvo, e l’oscurità del suo mantello si sarebbe chiusa sul mio capo come un sudario, come le acque torbide di un lago sotterraneo, mentre io rovesciavo il viso all’indietro e tendevo le braccia verso la luce, annaspando per respirare.
Non accadde nulla.
Riaprii cautamente gli occhi: ero sola nella radura.
L’umano ai miei piedi era morto e il dio dell’Averno era sparito, portando quella vita con sé.
Mi lasciai cadere nell’erba, tremando, il cuore che batteva all’impazzata.
Anche io, realizzai, scossa. Anche io l’ho chiamato per nome…
 
§§§§
 
Ci sono pezzi di questa storia che conosco pur non avendoli vissuti. Molti li ho scorti nei globi scintillanti di Oniro, il Sogno, o appresi dai racconti di Ecate ed Hermes. Altri me li ha sussurrati Estia al chiarore informe del fuoco.
Tuttavia, non ho bisogno che qualcuno mi dica cosa accadde quella notte: conosco il mio Sposo così profondamente da saperlo. Se chiudo gli occhi, rivivo i gesti di Ade: non come una spettatrice esterna, ma come se in quegli istanti, sotto la sua pelle, insieme a lui ci fossi anch’io.
Le porte di corno dell’Averno si schiusero silenziosamente e il sovrano del Sottosuolo risalì a cavallo dalle viscere di Gea. Gli zoccoli di Abaste sprizzavano scintille azzurre contro i pavimenti di roccia, ma il destriero spettrale, lanciato al galoppo, non faceva rumore.
Ade tese un braccio e il suolo si aprì con un boato. Il cielo stellato si riversò attraverso la fenditura, la luce opalina della Luna dilagò per le caverne sotterranee coperte di cristalli. Il dio socchiuse le palpebre ed emerse in Superficie, sotto il cielo immenso, nero come inchiostro, e le stelle fulgide come occhi spalancati. Tirò bruscamente le redini, e Abaste si impennò con un nitrito. Il dio dell’Averno accarezzò il collo del suo destriero: Abaste nitrì di nuovo, scalpitò, grattando il suolo fertile con la punta degli zoccoli, infine si quietò.
Ade rovesciò il capo all’indietro, il profilo bianco contro la scia farinosa della via lattea, il fiato che si rapprendeva in vapore nell’aria fredda. Contemplò il volto argenteo di Selene, la Luna, e lasciò che la sua luce gli sfiorasse gli zigomi come una timida carezza.
Il dio inspirò a fondo: la Superficie profumava di terra smossa e di erba fresca, appena tagliata. Il sentore degli agrumi che maturavano sugli alberi si mischiava all’essenza misteriosa del gelsomino e a quella calda e rassicurante del fieno, che veniva dalle case degli uomini.
Ade tallonò i fianchi snelli di Abaste e lo lanciò nuovamente al galoppo. Viaggiò invisibile sotto la Notte immensa; cavalcò per i campi e attraverso le valli, superò con un balzo fiumi e colline, curvo sul dorso dell’animale. La brezza notturna gli scompigliava i capelli corvini; un’esaltazione a stento trattenuta fioriva sotto il giustacuore. 
Risalì le pendici dell’Olimpo, e tirò le redini solo quando riconobbe il profumo di glicine dei giardini di Zeus.
Il padre degli dei era seduto sotto il chiostro, alla luce tenue di una lanterna. L’ultimo nato gli riposava in grembo. Zeus sollevò il capo nell’aria fredda e sorrise, gli occhi azzurri scintillanti di stelle.
-Cominciavo a pensare che non saresti venuto.-
-Non amo le feste.- rispose Ade, smontando da cavallo.-Ma desidero conoscere i miei nipoti.-
Zeus lo guardò avvicinarsi con una specie di rassegnazione, come si guarda qualcuno o qualcosa che si ama irrimediabilmente, ma non si comprende.
Ade chinò il viso sul bambino, avvolto in una coperta di lana.
-Ares.- soffiò contro la sua fronte, e il piccolo agitò le minuscole mani, come a cercare di catturare il suono sommesso della sua voce.
-Hai sempre avuto un talento speciale per i nomi.- disse Zeus, rimboccando la coperta del figlio.
Il dio dell’Averno scrutò il bambino addormentato, i piccoli pugni serrati nel sonno. Si raddrizzò.
-Dov’è Eris?-
-È in casa. Ho appena finito di allattarla.-
Sia Ade che Zeus rivolsero lo sguardo verso la vetrata, dov’era comparsa la figura di Era.
-Sorella.- Salutò il dio dell’Averno. -Come stai?-
-Mi sto riprendendo dalle fatiche del parto.- Era venne avanti, allacciando la vestaglia azzurra sotto il seno. I suoi occhi verdi, screziati d’oro e di blu come le piume di un pavone, erano insolitamente dolci. –Perché non entri, fratello?-
Ade scrollò le spalle, composto.
-Meglio di no.-
-Ci farebbe piacere,- insistette Zeus.
Il dio dell’Averno guardò il piccolo Ares, i pugni chiusi e le gambette scalcianti nel sonno. Tese una mano verso il capo del bimbo, ma la ritrasse senza toccarlo, le dita piegate come i petali di un fiore. Sollevò il volto bianco verso il cielo notturno.
-Le stelle non sono come le ricordavo.-
Zeus indicò la volta celeste.
-Guarda, quello è Orione, che fronteggia la carica del Toro. Poco più in là, Sirio lo segue, fedele nel cielo come lo è stato sulla terra. E quelle, invece, sono le Pleiadi.-
Ci fu un lungo silenzio, poi Era parlò:
-Perché sei qui, fratello? Non è solo per salutare i nostri figli.-
Ade contemplò l’immensità del cielo stellato, assaporando la pace del giardino. C’erano cose che doveva dire e fare, e sapeva che le avrebbe dette e fatte. Dopo, il Mondo non sarebbe più stato lo stesso, e nemmeno lui.
-È giunto il momento di completare il nostro accordo.- disse, il cuore perduto nelle profondità blu.
-Che bisogno ha, l’Averno, di ciò che chiedi?- sbottò Zeus.
Ade distolse lo sguardo dal cielo, riportandolo sul fratello minore.
-Stai parlando di cose che non conosci. E comunque, hai frainteso la mia premura: non sono qui per chiedere, ma per informarti. Prenderò ciò che mi spetta.-
Era si accostò al marito, poggiandogli una mano sulla spalla.
-Fratello, dimmi la verità: sei qui per togliermi Eris?-
-Eris?- l’oscurità negli occhi di Ade si addolcì. -No, sorella, cresci pure la tua bambina: non sono qui per privarti di lei.-
Era si nascose il viso tra le mani e vacillò per il sollievo.
-Chi prenderai, allora?- insistette Zeus.
-Ha importanza?- Ade gli diede le spalle, tagliente come selce. -Se anche scegliessi Afrodite in persona, non avresti il potere di negarmela.-
-Tu non sceglieresti mai Afrodite!- replicò Zeus ostilmente.
Ade rimontò a cavallo.
-No,- sussurrò nel vento. –Hai ragione.-
 
§§§§
 
Leucippe mi evitava da tre giorni, rivolgendomi a stento la parola: il mio comportamento alla festa l’aveva ferita e, se ne avesse avuto l’autorità, mi avrebbe di sicuro schiaffeggiata.
Così stavo seduta mestamente su una collinetta, sulla riva del lago Pergusa, le gambe piegate contro il petto e il mento sulle ginocchia. Osservavo Leucippe e le mie ancelle fare il bagno pochi metri sotto di me, e cercavo un modo per fare pace. L’aria risuonava del torpido frinire delle cicale e dei gridolini e delle risate delle ninfe, che giocavano in acqua lanciandosi a vicenda una palla di stracci.
Era mezzogiorno, l’ora in cui le selve erano battute da Pan e dal suo stuolo di fauni, e in cui il Sole era ben alto nel cielo della Sicilia. Non avevo più incontrato Helios dopo la festa, ma da allora cercavo con struggimento il suo calore sulle braccia e intrecciavo piccoli fiori color magenta tra i capelli, sperando che lui, sporgendosi dal suo carro, ogni tanto mi osservasse.
Il giorno della festa era impresso nella mia mente anche per l’altro incontro, di cui non avevo parlato a nessuno.
Non sta bene chiamare per nome poteri che non si comprendono, aveva detto Leucippe, e le sue parole suonavano come una chiave per una porta dimenticata.
All’improvviso percepii un cambiamento nell’aria intorno a me: le risate delle ninfe si spensero; il suono delle cicale rimase, ma come smorzato. Un velo scuro attenuò la luce del Sole e un refolo di gelo mi raggiunse fra le scapole, facendomi boccheggiare.
Abbassai lo sguardo: i fili d’erba ai miei piedi seccavano a vista d’occhio, i fiori reclinavano il capo e avvizzivano. Le mie ninfe, immerse nel lago, erano ammutolite e si stringevano le une alle altre, guardando con occhi terrorizzati qualcosa che stava alle mie spalle.
Mi alzai e mi voltai, in un unico movimento. Intuivo di chi potesse trattarsi, ma non capivo il senso: scrutai la campagna che avvizziva sotto i miei occhi, sperando di essere smentita. Lui non si vedeva da nessuna parte, ma la sua presenza era come una lente che deformasse la luce. Puntai gli occhi al centro della chiazza di erba piegata.
Una figura pallida si materializzò esattamente in quel punto, avvolta in un mantello color pece. Le mani affusolate stringevano l’elmo appena sfilato. Sentii le grida delle mie ancelle levarsi dal lago alle mie spalle, ma non vi badai.
-Ade.- constatai. La parola zio mi rimase incastrata in gola e non ci fu verso per me di pronunciarla.
Il dio aprì le mani bianche e l’elmo svanì in una vampata nera. Mi resi conto, in un istante di gelo, di essere lontana dall’Olimpo, lontana da mia madre e da chiunque potesse aiutarmi.
-Non ci sono umani,- continuai. - Non c’è niente che stia morendo. Che cosa ti porta qui?-
Ade avanzò verso di me con ampie falcate, scavalcando arbusti e fili d’erba che appassivano al suo passaggio: nella piega decisa della sua bocca, nell’oscurità addensata nei suoi occhi lessi la mia condanna.
Mi voltai di scatto per fuggire, ma lui mi si gettò addosso con un balzo. Rotolammo lungo il pendio erboso della collinetta, il mondo ridotto a una macchia confusa di verde e di azzurro.
Sentii le sue mani perdere la presa su di me e quando la caduta si arrestò mi ritrovai nell’erba, stesa bocconi. Affondai le dita nella terra umida e mi rimisi in piedi, incespicando per non cadere. Ade mi afferrò la vita con un braccio e mi sollevò da terra.
-Lasciami!- soffiai come un gatto.
Mi girai nella sua stretta con l’agilità di un animale selvatico. Gli tempestai il petto di pugni, graffiandomi le mani con la sua cappa di cuoio. Scalciai furiosamente, alla cieca, lacerandomi i piedi nudi e la gonna contro i suoi schinieri.
Il dio mi uncinò prima un polso, poi l’altro; mi strattonò entrambe le braccia, strappandomi un grido, e infine me le bloccò dietro la schiena con una sola mano. Mi ritrovai col seno schiacciato contro il suo petto e un velo di capelli biondi sugli occhi. Cercai di divincolare le braccia, ma provai un dolore atroce, come se la tensione stesse per disarticolarmi le spalle.
-Smettila,- disse Ade.
La sua calma era terrificante: i miei sforzi per liberarmi non bastavano nemmeno a incrinargli la voce. Mi scostò i capelli dal viso con la mano libera, poi le sue dita fredde mi scivolarono sotto il mento, stringendomi le guance e sollevandomi il viso. Serrai gli occhi per non guardarlo in faccia.
-Lasciami andare.- ansimai, il panico tenuto a stento a bada, il volto accartocciato in una smorfia. –Ti prego...!-
Lo sentii rimanere perfettamente immobile. Quando riaprii le palpebre, trovai i suoi occhi scuri fissi nei miei, come a chiedersi quale bizzarro animale selvatico avesse catturato. Come cedendo a un impulso proibito, abbassò il viso sui miei capelli, inalandone il profumo. Serrai di nuovo gli occhi, trattenendo il fiato.
Ti prego, ti prego, ti prego. Lasciami andare.
Con un’agilità che mi atterrì, Ade mi lasciò i polsi, passò un braccio attorno alla mia schiena e l’altro sotto le mie ginocchia e mi sollevò da terra. Gridai, ma il mio urlo si perse nel fragore del terreno che si spaccava. Ade mi strinse a sé e saltò dentro la fenditura: la sensazione di precipitare mi uncinò lo stomaco, trasformando le mie grida in un singhiozzo strozzato; mentre i capelli biondi mi schiaffeggiavano la faccia mi aggrappai alla casacca del mio rapitore.
Dopo un tempo interminabile, il dio dell’Averno atterrò senza sforzo e aprì le braccia, lasciandomi andare. Scattai immediatamente all’indietro, stringendo le braccia doloranti attorno al corpo. Avevo gli abiti in disordine, la veste lacera, le gambe e le mani piene di graffi. Continuai a indietreggiare, senza distogliere gli occhi da Ade nemmeno per un istante. Pareti di pietra ci circondavano da ogni parte: il cielo era una ferita azzurra decine di metri sopra le nostre teste.
Le mie spalle urtarono un muro di roccia, e le pupille si dilatarono per il panico e la comprensione improvvisa: non avevamo ancora raggiunto il fondo del baratro; ci trovavamo su una cengia lungo la parete del precipizio. Forse per timore che mi gettassi di sotto, il mio rapitore si era interposto tra me e il vuoto.
Pensai di lanciarmi su di lui con tutto il mio peso: mi chiesi se sarebbe bastato a spingerlo giù nella gola. Mi vidi: una ragazzina tutta ossa contro un uomo adulto.
Ade avanzò verso di me. Sentii il panico sfuggire al mio controllo: foglie verdi, tralci di vite e di rovi emersero dalla nuda roccia per sbarrargli la strada… ma bastò che lui si avvicinasse perché gli arbusti avvizzissero e divenissero cenere. Mi rannicchiai contro la parete rocciosa, proteggendomi il capo con le mani.
-No…-
 Lui mi afferrò di nuovo per la vita, sollevandomi da terra.
-Per favore… per favore… NO!-
 La caduta riprese.
 
§§§§
 
Mi irrigidii di nuovo, chiudendo gli occhi e premendo la fronte contro la sua casacca. Serravo i lembi così strettamente da avvertire fitte alle dita. Questa volta la caduta durò un’eternità, scandita dal suono tremante dei singhiozzi che mi rimanevano incastrati in gola, e dal fischio del vento nelle orecchie.
Atterrammo molto malamente: Ade sulla schiena, io su di lui.
Ebbi il tempo di pensare che, se fosse accaduto il contrario, mi sarei sfracellata, poi il corpo sotto il mio mi ribaltò con un colpo di reni: mi ritrovai con le spalle schiacciate al suolo e Ade a cavalcioni su di me, che mi bloccava col proprio peso.
Picchiai i palmi contro il suo petto, cercando di togliermelo di dosso e di strisciare via da sotto di lui.
-Smettila!- sibilò.
Per tutta risposta, sollevai le mani verso il suo viso e cercai di artigliargli la faccia.
Spazientito, Ade scostò il volto all’indietro: serrò nel pugno il corpino del mio abito e tirò. Un rumore di stoffa strappata lacerò la penombra, poi il rosa dei miei seni rimase esposto all’aria fredda e umida. Incrociai le braccia sul petto, cercando di nascondere la mia nudità. Non ero in grado di coprirmi e di lottare contemporaneamente, e compresi con orrore che Ade lo sapeva. Serrai gli occhi e voltai il capo di lato, sconfitta, scoppiando in lacrime con la schiena contro il terreno.
-Per favore… Per favore, lasciami andare…-
I singhiozzi mi squassavano il petto e il corpo sopra il mio mi comprimeva il diaframma, mandandomi fitte ad ogni atto del respiro.
Se continuo a cadere, pensai sconnessamente. Se continuo a cadere…
Con una smorfia di dolore, il dio si alzò in piedi, liberandomi dal proprio peso.
Sentivo il suo sguardo su di me, ma non avevo il coraggio di guardarlo a mia volta. Mi girai su un fianco e mi rannicchiai in posizione fetale. Le braccia incrociate sulla veste lacera, sporca di terra e di sangue; il corpo giovane e flessuoso esposto.
Sapevo cosa stava per accadere: ero una Kore, ma lo sapevo. Ero vissuta in superficie abbastanza da sapere cosa volessero gli dei dalle dee, la stessa cosa a cui Poseidone aveva costretto mia madre: vana era stata la sua fuga come giumenta in una mandria di cavalli, come vane sarebbero state le mie grida.
Qualcosa di nero e pesante calò sulle mie spalle nude: impiegai diversi istanti a capire che si trattava del mantello di Ade. Sollevai il capo tremando e incontrai la sua espressione imperscrutabile.
-Alzati.-
Rimasi immobile, come morta.
-Alzati, o dovrò tirarti su io.- Lo disse in tono incolore, come se, più che una minaccia, fosse un’ovvia conseguenza, ma il solo pensiero che potesse toccarmi di nuovo mi riscosse.
Appoggiai i palmi per terra e mi portai sulle ginocchia. Mi rialzai in piedi a fatica, sentendo fitte e scricchiolii dappertutto. Ade posò lo sguardo sui miei pugni chiusi e sulle lacrime che mi lasciavano strisce bianche sulle guance sporche, ma non commentò, e per questo lo odiai un po’ meno.
Scivolò alle mie spalle come un’ombra e io mi irrigidii, temendo che mi avrebbe afferrato di nuovo.
Non lo fece. Tese una mano bianchissima, indicandomi il paesaggio sottostante.
-Guarda.-
Man mano che i miei occhi si adattavano al buio, vidi.
Ci trovavamo su una collina sotterranea. Davanti e sotto di noi si apriva una grotta scintillante di calcare, talmente alta e ampia che i margini si perdevano nell’oscurità. Adagiati sul fondo, bianchi come le ossa di un morto, si estendevano i viali, i palazzi e i fiumi di una città sterminata. Al centro sorgeva un castello alto e sottile, nero come onice, e poco distante da esso due torri gemelle di alabastro rosa.
Un vento sotterraneo soffiava sulla città, sollevando un gemito che risuonava attraverso gallerie nascoste nella roccia. Sembrava il lamento sommesso di qualcuno.
Non di qualcuno, mi corressi, mentre la pelle mi si accapponava sulle braccia. Sembra il lamento sommesso di molti.
Mi voltai verso il mio rapitore, smarrita.
-Perché mi hai portata qui?-
-Perché mi appartieni.-
Era troppo.
Sollevai una mano e gli vibrai uno schiaffo secco, fortissimo, talmente fulmineo che –ne sono certa- non lo vide nemmeno arrivare.
Ade raddrizzò la testa. Si umettò le labbra esangui, e per un istante vidi del rosso sulla punta della sua lingua. Tremai fino al midollo quando realizzai di averlo appena picchiato, addirittura ferito, e che il suo sangue era rosso come il mio. Ade fissò freddamente il mio viso graffiato: solo allora mi resi conto che anch’io mi ero ferita alla bocca durante lotta, in posizione esattamente speculare alla sua.
-Non farlo mai più.- disse con terrificante gentilezza.
Lo guardai con odio e disperazione.
-Quando scoprirà che mi hai rapita, mio padre ti punirà!-
-Ma davvero?-
Mi voltò le spalle e cominciò a scendere lungo il pendio della collina.
-Cosa fai?- strillai con voce acuta e spaventata da bambina.
-Vuoi rimanere lì?-
L’ululato del vento mi terrorizzava e l’oscurità della grotta mi circondava da ogni parte, così mi affrettai a corrergli dietro. Lo seguii a debita distanza fino a un basso monolite, a cui era legata una spettrale giumenta grigia. Ade mi porse una mano, e istintivamente mi ritrassi.
-Non riusciresti a salirci da sola.- fece notare in tono neutro.
-Non salirò lì sopra con te!-
Il dio parve riflettere un istante.
-Allora andremo entrambi a piedi.-
Sciolse le briglie e guidò l’animale lungo il pendio, come se gli importasse poco di cosa avrei fatto. Dopo un’ultima occhiata inquieta alla tenebra alle mie spalle, mi strinsi il suo mantello addosso e lo seguii.
 
§§§§
 
Note dell’autrice (altrimenti dette “Ho creato l’Ade più amimico di sempre!”):
Insomma, questo capitolo è stato parecchio travagliato e sono contenta di essermelo tolto dal groppone. La parte sul rapimento, che di sicuro è la più cruenta, mi suscita sentimenti contrastanti.
Voi cosa avete provato nel leggere? che emozioni vi ha suscitato?
Siete in tanti a leggere, ma quasi nessuno commenta. Io invece tengo molto a sapere cosa pensate.

Grazie a tutti.

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Capitolo 6
*** La città dolente ***


L’Averno era rischiarato da una luce soffusa e livida.
Non riuscivo a individuarne la fonte precisa: sembrava trasudare dall’aria stessa al livello del suolo e irradiarsi verso l’alto per diversi metri, diluendo il buio che gravava sulle nostre teste senza dissiparlo.
Capii che stavo contemplando Erebo, la notte degli Inferi, l’oscurità che mai avrebbe visto il sorgere del Sole, e mi accostai a Nonio, poggiandole una mano sul fianco in cerca di conforto.
Ade mi precedeva di poco, guidando la giumenta per le redini. Avrebbe potuto procedere molto più spedito ma si adeguava al mio passo, e anch’io facevo il possibile per adeguarmi al suo, spaventata all’idea di restare indietro e perdermi nelle tenebre e nel lamento delle anime sopra le nostre teste. Il mantello di Ade era enorme: strofinava sul terreno e mi intralciava i movimenti, ma il suo calore e la sua pesantezza erano rassicuranti.
Man mano che procedevamo, l’Averno sembrava sempre più sterminato, e io mi chiesi se non fosse grande quanto la Superficie governata da mio padre.
Un fiume scorreva tumultuoso sotto di noi: dalle sue acque si levava una foschia sottile, daIl’odore stantio. Centinaia, forse migliaia di figure umane stavano in piedi lungo la riva: rimanevano con le braccia lungo i fianchi, completamente immobili e silenziose, lo sguardo puntato nella nebbia in direzione della sponda opposta del fiume. Mi tirai il mantello fin sotto gli occhi; la stoffa pesante conservava un profumo acre, vagamente agrumato, e io inalai a fondo cercandovi conforto.
-Chi sono quelle persone?-
Ade mi gettò uno sguardo da sopra la spalla.
-Sono le Ombre dei mortali defunti. Aspettano il loro turno di essere traghettate.-
Nell’oscurità sopra le nostre teste, il vento soffiava con un gemito lontano. Volsi lo sguardo verso l’alto, ma scorsi soltanto tenebra. Accelerai il passo, per portarmi al fianco del dio dell’Averno.
-Chi è che piange così?-
-Sono le Ombre degli insepolti.-
Il viso di Ade era bianco, quasi traslucido nella penombra: lo scrutai ansiosamente, cercandovi una traccia di emozione, di compassione. Qualunque cosa potesse lenire il mio smarrimento.
-Ma perché soffrono in questo modo?-
-Perché sono ormai bandite dalla Superficie, ma non hanno ancora accesso all’Averno. Viaggeranno nel Vortice per cento anni, a meno che qualcuno non paghi l’obolo al posto loro. Il fiume che vedi è l’Acheronte: circonda come un anello tutto l’Averno.-
-Il fiume dalle acque amare...- sussurrai.
Ade inarcò uno scurissimo sopracciglio: mi sentii a disagio sotto l’esame dei suoi occhi, ma il dio non mi chiese spiegazioni e io non ne fornii.
Alcune delle anime assiepate più lontano dalla riva cominciarono a voltarsi indietro verso di noi, fissandoci con occhi grandi e tondi, lucenti come monete d’argento.
-È giunto il momento di montare su Nonio.- disse Ade.
-Non mi piace l’idea che mi tocchi di nuovo!- sibilai indisponente.
Il dio chinò il capo di lato, socchiudendo appena gli occhi felini.
-Se volessi farti del male, lo avrei già fatto.- fece notare in un tono serico che non gli avevo mai sentito.
Avevo molto da obiettare su quella frase, ma ero troppo stanca, spossata e indolenzita per controbattere. Non mi fidavo di lui, ma la sua risposta seguiva –come sempre- una logica ferrea. Guardai la giumenta.
-Non sono mai salita sul dorso di un cavallo.- confessai nervosa.-Ho bisogno che mi aiuti.-
Ade tese le mani affusolate e bianchissime e mi sfilò con delicatezza la cappa di dosso. Mi chiusi sul seno il corpino lacerato, tremando nel freddo del Sottosuolo. Il dio piegò in due il mantello, quindi me lo appoggiò di nuovo sulle spalle: lo girò due volte attorno alla mia figura, infine, senza sfiorare la mia pelle nemmeno per un istante, me lo annodò sotto il mento. Quella premura inaspettata mi spiazzò: cercai gli occhi di Ade e vi trovai uno scintillio che non seppi decifrare. Un istante dopo mi sentii sollevare per i fianchi e mi ritrovai su Nonio, seduta come un’amazzone. Il dorso dell’animale si mosse sotto di me come suolo in smottamento, e mi afferrai alla criniera.
Ade salì in groppa dietro di me e io mi puntellai immediatamente contro il suo petto, rigida ma stabile. Le labbra del dio mi sfiorarono la tempia.
-Rimani morbida, asseconda il movimento. Al resto penso io.-
Mi sentii arrossire, come se non stessimo parlando della mia goffaggine nel montare a cavallo ma di qualcosa di molto più intimo, la cui essenza mi sfuggiva.
Quando le braccia di Ade si tesero ad afferrare le redini, mi ritrovai circondata da lui da ogni parte: con la stessa risolutezza con cui mi aveva trascinata in quel luogo, avrebbe avuto cura di non farmi cadere. Mi parve una cosa terribile e rassicurante insieme.
Le Ombre si scostavano rispettose al nostro passaggio, lasciandoci avanzare e seguendoci da lontano con quei loro occhi d’argento. Ade cavalcava eretto, lo sguardo dritto davanti a sé. Alcune Ombre si inchinavano a lui così profondamente da sfiorare il suolo con la fronte diafana, e lui accettava quella deferenza con compostezza, svelando in risposta il proprio apprezzamento con un sobrio cenno del capo. Sull’Olimpo, non avevo mai conosciuto una divinità così schiva.
Gli occhi adoranti dei morti mi riempivano di costernazione, ma una sola volta ebbi paura: passando accanto all’Ombra di una bambina, questa tese le mani per toccarmi. Ade se ne accorse prima di me: si protese verso il basso e affondò le dita pallide nel petto dell’Ombra; essa si dileguò in fumo, riprendendo consistenza pochi metri più in là.
-Non ti faranno del male.- mi spiegò, raddrizzandosi di nuovo in sella. -Vorrebbero solo toccarti. Tu gli ricordi la luce del sole.-
Sollevai il viso verso di lui.
-Le Ombre ti temono?-
Mi guardò incerto, come se non capisse la domanda.
-Naturalmente.-
-Sembrerebbe piuttosto… - presi un respiro, calmando il tremito che mi scuoteva la voce –Sembrerebbe piuttosto che ti amino.-
Raggiungemmo la riva piena di ciottoli dell’Acheronte: un vecchio curvo e nodoso ci aspettava, in piedi su una grande barca a remi.
Ade smontò da cavallo, aiutandomi a scendere.
-Caronte.- lo salutò.
Il vecchio si inchinò con riverenza.
-Divino Ade.- I suoi occhi di diaspro rosso si posarono su di me.
Spostai il peso da un piede all’altro, incerta su come comportarmi.
-Buona sera.- dissi con voce sottile.
Il vecchio mi guardò dubbioso. Guardò Ade, poi di nuovo me. All’improvviso sgranò gli occhi, la fronte rugosa si spianò, come se avesse compreso qualcosa che a me, evidentemente, sfuggiva. Si profuse in un inchino pieno di emozione.
-Benvenuta, o divina! Benvenuta nell’Averno!-
Schiuse la bocca sdentata nel sorriso più brutto e più dolce che avessi mai visto, e al quale, nonostante la spossatezza, mi ritrovai istintivamente a rispondere.
Salimmo sulla barca insieme a Nonio. A prua scintillava la luce fredda e argentea di una lanterna, così pura da ricordare il volto splendente di Selene, la Luna. Fu lì che mi accoccolai, stremata, chiudendo gli occhi e affondando il naso nel profumo agrumato del mantello.
Con una spinta del lungo remo, la barca si staccò dalla riva, fendendo le acque nebbiose dell’Acheronte.
Sollevai lo sguardo una sola volta: Ade era seduto a poppa, le gambe leggermente divaricate e un gomito appoggiato su un ginocchio. Sotto la luce oscillante della lanterna, i capelli corvini erano spettinati e profonde ombre viola gli si allungavano sotto gli occhi. Mi fissava in silenzio, esausto ma composto: impossibile dire cosa stesse pensando.
In ogni caso ero troppo stanca per chiederglielo. Avvolta tra le pieghe del mantello, piegai un braccio sotto il capo e mi addormentai.
 
§§§§
 
Ricordo il resto del viaggio attraverso i veli di un sonno frammentato e insicuro.
Sognai il volto delicato di zia Estia: la sognai guardare nel fuoco e vedermi, e vedere che io la vedevo. Le fiamme  proiettavano riflessi rosseggianti sulla sua carnagione diafana; i suoi occhi di onice nera, profondamente espressivi, erano illuminati dall’interno da qualcosa che sembrava speranza e forse invece era solo sconcerto.
Sognai Leucippe: la sognai col volto nascosto tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi.
Leucippe! Leucippe! Non piangere, sono qui! Le corsi incontro, di nuovo bambina, per gettarle le braccia al collo e gridare: perdono!
Ma il corridoio era interminabile sotto i miei piedi nudi e la Notte era un lupo nero che aveva ingoiato il cielo fuori dalle finestre piombate. Il pavimento si sgretolò in una voragine e io precipitai.
Sognai la caduta: il fischio dell’aria nelle orecchie e i capelli che mi schiaffeggiavano il viso. Il terrore mi paralizzava il diaframma, impedendomi di respirare. Poi ci fu l’impatto, ma un petto saldo mi attutì la caduta.
Mi sentii circondare da un profumo acre, simile all’odore degli agrumi della mia amata Sicilia, ma meno luminoso nella sua essenza. Sentii braccia forti sollevarmi con cura e ricordo di aver sussultato, temendo di cadere di nuovo, in profondità ancora più scure.
Udii la voce di Ade, resa esitante dalla stanchezza: -Forse dovremmo svegliarla.-
Dovetti schiudere le palpebre, perché ricordo un volto liscio come quello di un fanciullo, circondato da due grandi ali nere, che si chinava su di me.
-Lasciala riposare: ne ha bisogno. In verità, ne avresti bisogno anche tu.-
Il dio fanciullo soffiò dolcemente sui miei occhi, e altre immagini presero a rimescolarsi nella mia mente.
Tre vecchie intente a filare sollevarono lo sguardo su di me, i volti solcati da rughe profondissime.
-Ah… sei tu! Finalmente sei arrivata!-
-Temevamo di esserci sbagliate, e che dopotutto non saresti giunta!-
- Non che una cosa del genere sia possibile...- precisò la terza vecchia in un sussurro.
Cominciai a battere i denti.
-Chi siete?-
-Siamo ciò che siamo.-
-Siamo ciò che rappresentiamo.-
-Siamo ciò che sappiamo di essere.-
Ero di nuovo bambina: una dea bambina che aveva forzato la soglia di una porta lasciata chiusa.
-Come fate a conoscermi? Io non sono mai stata qui!-
Ma, mentre lo dicevo, sentivo che non era vero. Quella tenebra era familiare come lo spazio in cui ero rannicchiata prima di nascere, come il brusio dei miei pensieri ancora privi di forme che potessero abitarli, come lo sciabordio dell’amnios nel ventre di mia madre.
Udii una voce femminile, dolce come un frutto maturo: riconobbi in essa la mia stessa voce, ma più pacata, più piena, come se un’altra me stessa si fosse voltata indietro da non so quale futuro e mi stesse parlando attraverso le nebbie del Tempo: -Prima ancora che i miei occhi si schiudessero sul Mondo, io già ero: avevo già un nome.-
Udii le grida disperate di mia madre levarsi verso il cielo: -Kore! Kore!-
E il sussurro di Ade, feroce e dolente, come se la parola gli facesse sanguinare la bocca, ma lui non si esimesse dal pronunciarla: -Persefone.-
 
§§§§
 
Mi svegliai perfettamente lucida, in un letto che non conoscevo.
Mi levai a sedere, premendomi le mani sulle braccia, sul torace, sul viso. Mentre dormivo, il mio corpo era stato svestito e lavato; mani abili avevano sciolto i nodi nei miei capelli, spazzolandoli fino a renderli soffici come seta. La mia pelle era di nuovo integra; era stata unta di oli profumati e avvolta in una preziosa camicia di bisso.
Dei graffi, dei lividi e della stanchezza era rimasto solo il mio ricordo. Scostai le coperte e mi alzai dal letto, andando verso lo specchio che sovrastava la toletta. Vi trovai, accuratamente allineati, tutti i fiori che avevo nei capelli al momento del rapimento. Adagiato su un manichino, c’era l’abito che avevo indossato: qualcuno aveva avuto cura di lavarlo e di ripararlo con minuscoli punti precisi, talmente curati che, tra le pieghe, era quasi impossibile indovinare gli strappi. Su una sedia era piegato persino il mantello in cui Ade mi aveva avvolta dopo avermi rapita.
La porta si aprì e mi voltai di scatto.
Entrò una ninfa con delle asciugamani in mano. Accorgendosi di me, si fermò sull’uscio e mi guardò sorpresa.
-Ti sei svegliata.- Un lampo passò nei suoi grandi occhi neri prima che chinasse il capo e si chiudesse la porta alle spalle. Venne avanti e appoggiò gli asciugamani su uno sgabello. -Mi chiamo Minta. Sono l’ancella che ti è stata assegnata.-
Mi strinsi le braccia intorno al corpo, sorpresa che non si fosse inchinata, né mi avesse rivolto un saluto.
-Persefone.- mi presentai.
-Certo, lo so.-
Scrutai il volto pallido di quella donna cercando in esso del calore, della simpatia, qualcosa che mi facesse sentire meno sola. Non ne trovai.
-Sei tu che mi hai curata mentre dormivo?-
-Naturalmente.- Senza neppure guardarmi, aveva iniziato a rifare il letto.
- Io… mi sento veramente bene. Vorrei ringraziarti.-
-Ho fatto ciò che mi è stato chiesto. Quanto alle tue ferite, è stata l’acqua dello Stige a guarirle.-
-L’acqua dello Stige…?-
La ninfa ebbe un gesto vago con la mano, che trovai scortese.
-Sei stata lavata con quella.-
-Grazie, allora, per aver assolto così bene il compito che ti è stato assegnato.-
Mi avvicinai alla finestra e scostai i tendaggi: l’Averno era avvolto in una luminosità opalina che feriva gli occhi. Capii che, nel Sottosuolo, quella doveva essere la luce del giorno.
-Per quanto tempo ho dormito?- domandai, richiudendo le tende.
Minta stava sprimacciando i cuscini.
-Nyx è salita in superficie tre volte, da quando ti hanno portata qui, e altrettante volte è tornata.-
-Tre giorni!- esclamai sgomenta.
Gettai uno sguardo all’abito minuziosamente ricucito, ai fiori ormai appassiti che giacevano sulla toletta: cosa mi aspettavo? Era chiaro che era passato del tempo dal mio arrivo lì.
Minta gettò all’indietro i lucenti boccoli scuri, guardandomi finalmente in faccia.
-Il nostro signore ha ordinato che ogni cosa tu avessi indosso quando sei arrivata, venisse riparata e custodita fino al tuo risveglio, e che fossi tu a decidere cosa farne.-
Quelle parole, “il nostro signore”, mi colpirono come uno schiaffo. Minta le aveva pronunciate come ne fosse orgogliosa e mi sfidasse a contraddirla: ancora una volta la sua ostilità mi ferì e mi confuse. Ero cresciuta con Leucippe, che piuttosto che lasciarmi dormire per giorni sarebbe saltata sul letto e mi avrebbe svegliata facendomi il solletico finchè non fossi rotolata sul pavimento scalciando e ridendo. Anche le altre ninfe, sebbene non fossi altrettanto legata a loro, sarebbero entrate in stanza sorridendo e cantando, portando mazzi di fiori freschi e frutti resi fragranti dal sole. Capivo che da quella donna non potevo aspettarmi gesti di familiarità, ma non comprendevo l’astio con cui mi trattava.
Avrei dovuto riflettere sulla cosa, ma non era il momento opportuno.
Sperando di non irritarla, modulai la voce nel tono più mite che riuscii.
-Per favore, Minta, mi serve dell’acqua. Acqua dello Stige.-
 
§§§§
 
Minta aveva occhi neri fin troppo espressivi, e lo sguardo che mi lanciò prima di uscire dalla stanza fu un misto di veleno e di sospetto. Non capii cosa avessi sbagliato nel modo di formulare la richiesta: ero stata gentile, chiedendo come fosse un favore qualcosa che mi spettava, e che lei aveva il dovere di fornirmi. Ancora una volta, cercai di mettere da parte l’inquietudine.
Passai con dolcezza una mano sull’abito rammendato: era ancora il mio vestito e l’idea di indossarlo mi tentava, ma dopo quanto accaduto non ero più in grado di portarlo.
Aprii l’armadio e cercai di capire cosa avessi a disposizione.
Ade aveva scelto personalmente i pezzi di quel guardaroba? Era un’idea a dir poco grottesca, eppure rimasi colpita da quanto fossero una versione leggermente più femminile e pregiata dei vestiti semplici e pratici che amavo indossare. Come faceva lui a saperlo? Qualcuno glielo aveva detto? Lo aveva indovinato da solo? O peggio, mi aveva spiata?
(Ma era stato davvero lui a sceglierli, allora?)
Alcuni erano molto scollati e sensuali: al pensiero che qualcuno potesse immaginarmi in quelle vesti arrossii.
Scelsi un abito bianco e accollato, semplicissimo nella foggia, dal corpino ornato con piccole perle di ardesia, e lo indossai in fretta.
La porta si dischiuse e Minta fece nuovamente il suo ingresso reggendo fra le mani un catino.
Parve sorpresa di trovarmi attiva e perfettamente vestita, ma non le diedi il tempo di replicare.
-Per favore, appoggialo sulla toletta.- dissi, richiudendo l’armadio.
Ancora una volta, la mia gentilezza parve indispettirla piuttosto che ben disporla.
-Nel tuo guardaroba ci sono delle scarpe.-
-Mi piace stare a piedi nudi,- spiegai in tono di scusa, e la disapprovazione che le lessi nello sguardo mi lasciò sconcertata.
Mi avvicinai al catino, immergendovi dentro i piccoli fiori della Superficie che erano stati pazientemente districati dai miei capelli. A contatto con l’acqua dello Stige, i petali cominciarono a inturgidirsi, riprendendo colore e vigore.
Sapevo che non sarebbe durata a lungo, ma in quel luogo estraneo, mentre il mio stesso futuro era incerto, avevo bisogno di tenere in vita il più possibile ciò che mi era caro e familiare. Quella piccola vittoria mi strappò un sorriso, che vacillò non appena incontrai lo sguardo ostile di Minta.
Mi asciugai in fretta le mani con uno dei panni che aveva portato.
-Per favore, conducimi da Ade.-
La ninfa parve sconcertata dalla mia richiesta, ma almeno quella era una reazione a cui ero abituata: anche in Superficie, nonostante mi sforzassi eroicamente di compiacere tutti, sembrava che qualcuno dovesse sempre sconcertarsi per qualcosa che facevo o dicevo.
O per qualcosa che sono, aggiunsi, pensando a Era e al suo perenne malcontento per la mia pura e semplice esistenza. Be’, nonostante la disapprovazione della zia, sembra che io sia cresciuta sana e forte lo stesso, no?
Minta arricciò le labbra in un sorriso di scherno:
-Mi spiace deluderti, ma il nostro signore ha molti impegni: non ti accorderà udienza con così breve preavviso!-
Il mio primo impulso fu quello di stringere le sue mani e spiegarle ansiosamente le mie ragioni.
Smetti di infierire, ti prego! Guardami: sono sola e spaventata e lontanissima da casa. Ho mille domande e Ade è l’unico che possa rispondere. Lui mi ha rapita e trascinata qui, in questo posto terrificante, e non ho idea di cosa ne sarà di me!
Mi bastò guardare la ninfa negli occhi per capire che da lei non avrei avuto alcuna comprensione.
Mi strinsi le braccia attorno al corpo: intuivo che dovevo essere io a infondermi coraggio, perché nessun altro lo avrebbe fatto.
-Ade è venuto di persona a prelevarmi in Superficie: mio malgrado, questo mi qualifica come il suo impegno più urgente. Portami da lui.-
E prima che Minta potesse obiettare, la precedetti fuori dalla stanza.
 
§§§§
 
Note dell’autrice (altrimenti dette: sto morendo di stanchezza e ho un solo neurone funzionante, quindi pietà di me, sarò ancor meno brillante del solito):
Vi ringrazio tutti tuttissimi per i commenti: siete la gioia di questa povera scribacchina!
Questo è in gran parte un capitolo di passaggio, ma spero di essere riuscita a non annoiarvi e a renderlo lo stesso coinvolgente.
Cosa succederà adesso?
La domanda non è affatto retorica, perché Ade e Persefone cominciano a fare di testa loro, sovvertendo la bella scaletta ordinata che avevo stilato nella mia testa. Che posso dirvi? Seguiamoli e scopriremo insieme dove ci porteranno!
Un abbraccio,
S.

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Capitolo 7
*** Fables and Reflections ***


L’Averno era più freddo della Superficie, sebbene fossi così tesa da notarlo appena. I pavimenti, ornati di ricchi tappeti color sangue, erano di marmo candido e solcato da nervature rosate, simili a una rete di vene sottilissime. Le pareti di onice nera assorbivano la luce azzurrina delle fiaccole, restituendo riflessi sbiaditi di me e Minta. Ma mentre il riflesso della ninfa, benché sfocato, rimaneva sempre uguale a se stesso, il mio riverbero sui muri era più sfuggente: il più delle volte mi somigliava, ma a tratti sembrava appartenere a una Persefone più alta e aggraziata, dall’incedere più sicuro.
Sono seguita dallo spettro di me stessa, pensai col cuore in gola, mentre appuntavo lo sguardo sulla veste bianca di Minta e resistevo alla tentazione di voltarmi, per accertarmi che il mio riflesso avesse proprio le mie fattezze e non quelle di una me stessa che non conoscevo.
Le torce disposte lungo la galleria spandevano una luce fredda e soffusa, ma la tenebra si annidava contro i soffitti a cassettoni, si chinava a spiarmi dalla sommità delle colonne di alabastro rosa.
Non incrociammo nessuno, ma sentivo occhi invisibili spiarmi. Sospiri di rimpianto, risatine sommesse e un continuo, incessante digrignare di denti esalavano dalle ombre dietro le armature.
Giungemmo a una scala di marmo costeggiata da statue, e cominciammo a risalirla. La penombra si riversò dall’alto sui gradini come un fiume impalpabile, lambendo le nostre caviglie.
La sagoma flessuosa di Minta mi precedeva nel buio: in un altro contesto l’ondeggiare sensuale dei suoi fianchi mi avrebbe fatto sentire piccola e brutta, ma in quel momento acceleravo il passo per starle dietro, con l’angosciosa sensazione che, se mai mi fossi persa da sola su quelle scale, in quei corridoi, sotto lo sguardo cieco di quelle statue, mani bianche e lattiginose sarebbero emerse dalle ombre e mi avrebbero afferrata, trascinandomi all’interno della superficie lucida dei muri.
Finalmente raggiungemmo una porta di bronzo, e capii che la mia richiesta di essere condotta da Ade era stata esaudita. Mi aspettavo che Minta continuasse a farmi strada, invece la ninfa gettò all’indietro i folti capelli corvini e si fece da parte. Mi lanciò uno sguardo terribile, sfidandomi a procedere oltre.
Per un istante rimasi in piedi, immobile davanti alla porta di bronzo. Infine, soffocando un tremito, poggiai una mano sulla maniglia lucida e fredda e la abbassai. Mi aspettai che un cigolio tradisse la mia intrusione, invece la serratura scattò senza un suono e la porta si schiuse scivolando sui cardini senza fare rumore. Silenziosa come un topolino, la aprii quel tanto che serviva a sgusciare oltre la soglia, e mi trovai in una sala rettangolare, rischiarata da un grande camino acceso e dalla luce opalina che filtrava dalle alte e strette finestre. Tre figure erano in piedi, chine su un lungo tavolo rettangolare: complici i miei piedi nudi, sembrava che nessuno dei presenti si fosse accorto di me.
-Minosse ha scoperto tre nuove crepe sulla superficie ghiacciata del Cocito.- disse il più basso e giovane dei tre. Indossava uno strano copricapo di piume nere e quando aggrottò le sopracciglia una linea sottile gli solcò la fronte liscia, gettando un’ombra di disappunto sul suo viso androgino.
-Sapevamo che prima o poi sarebbe accaduto.- replicò lapidario il dio che gli stava di fronte. Il suo volto era asciutto e angoloso, le labbra sottili e severe. Aveva zigomi alti, sporgenti sulle guance emaciate, e l’espressione distaccata di un asceta. Un paio di ali piumate nascevano tra le sue scapole e il dio le portava incrociate sul petto, così che esse avvolgevano la sua figura come uno spesso mantello di penne corvine.
Tra i due, chino sul tavolo, scorsi un profilo puro che impiegai un istante a riconoscere. Ade non indossava mantello, giustacuore o armatura. Portava una casacca di velluto nero dagli inserti di cuoio e stava indicando qualcosa, sul piano del tavolo, con una mano affusolata che sembrava più adatta a impugnare una penna e intingerla in un calamaio, piuttosto che una spada. Per un istante ristetti, immobile, faticando a riconoscere in quella figura così dimessa quella dell’essere terrificante che mi aveva rapita.
-Rafforzeremo ulteriormente le difese.- stava dicendo in tono calmo. -Porremo fortificazioni qui, qui e…-
-Divino Ade, perdonate l’intrusione.-
Sussultai: mi ero completamente dimenticata di Minta. Mi voltai di scatto e le lanciai uno sguardo di rimprovero, ma Minta non parve affatto pentita per aver tradito la nostra presenza. Fissò il centro della sala come se io non esistessi: come se sperasse che, ignorandomi, avrebbe potuto cancellare la mia presenza. Quando mi voltai di nuovo verso il tavolo, mi trovai tre paia di occhi puntati addosso. Il desiderio di indietreggiare verso la porta per poco non mi sopraffece: a scoraggiarmi fu la consapevolezza che, per farlo, avrei dovuto avvicinarmi alla donna che tanto mi disprezzava.
Minta premette le mani in grembo e si inchinò con deferenza.
-Divino Ade, ho provato a dissuadere la vostra ospite, ma lei ha insistito perché la conducessi subito da voi.-
-Va tutto bene.- la rassicurò Ade. I suoi occhi neri erano puntati su di me con un’intensità vivissima, quasi dolorosa. -Benvenuta, Persefone.-
L’ovale pallido del suo viso era l’unica cosa familiare per me in quella sala: mi mossi in direzione della sua voce come per afferrarla e, stranamente, sentii che parte del mio nervosismo scivolava via, come una veste lasciata cadere sul pavimento e scavalcata con un passo.
Il dio con il copricapo di piume nere arricciò le labbra in un sorriso sornione, e due piccole fossette fecero capolino sulle sue guance tornite.
L’altro dio, quello col viso tutto spigoli e lineamenti taglienti, aveva un’espressione più difficile da decifrare.
-Così questa è la figlia di Demetra.- commentò. Il suo sguardo penetrante creava un vivido contrasto con la noncuranza della sua voce.- Molto graziosa.-
-Grazie,- risposi. Nonostante mi sentissi in soggezione, cercai qualcosa di gentile da replicare.-Tu hai davvero delle bellissime ali.-
Il dio fanciullo scoppiò in una risata languida e roca.
-Hai sentito, Thanatos? Impieghi secoli a farti una reputazione terribile, e una figlia dell’Olimpo ti smonta in due secondi!-
Guardai i due, arrossendo mortificata.
-Ho detto qualcosa di sbagliato?-
Ade scosse il capo.
-Niente di sbagliato.-Sollevò una mano pallida, il palmo rivolto verso l’alto. –Ti presento i miei più fidati consiglieri: Thanatos, la Morte…-
Il dio impassibile si inchinò rigidamente.
-…e Ipno, il Sonno.-
Il dio più giovane mi strizzò l’occhio, ridente, e il suo copricapo si aprì e si richiuse. Solo allora mi resi conto che ciò che portava sulla testa, e che avevo scambiato per un cappello, era in realtà tutt’altro: un paio di ali nere e lucenti che emergevano ai lati del suo volto e seguivano l’attaccatura dei suoi capelli dalla tempia fino alla nuca.
Sgranai gli occhi.
-Io ti conosco! Tu sei il dio che mi ha fatto addormentare!-
Ipno agitò una mano.
-Era mio dovere, cara: non c’è bisogno che mi ringrazi.-
Aprii la bocca per replicare che non lo stavo ringraziando, anche se certamente gli ero grata… il che significava che in effetti avrei dovuto ringraziarlo… ma Ade parlò prima che potessi incartarmi nelle parole.
-Credo che ci siamo detti abbastanza.- si rivolse ai due consiglieri.- Lascio pure a voi la scelta della modalità.-
-In verità,- protestò Thanatos -ci sono altre cose di cui dobbiamo ancora discutere…-
-…in futuro!- si affrettò a concludere Ipno, scandalizzato. Prese sotto braccio Thanatos e se lo trascinò verso la porta borbottando: -Ti prego, fratello! Dimmi che non devo spiegarti come e perché questi due vogliono rimanere soli!-
Erano così buffi che li seguii con lo sguardo, premendo entrambe le mani contro le labbra per non scoppiare a ridere.
Non appena la porta si fu chiusa dietro Minta, Thanatos e Ipno, la voce di Ade mi raggiunse come un refolo di aria fredda fra le scapole.
-Perdonali, di solito hanno più contegno.-
Mi voltai verso il sovrano dell’Averno, il sorriso che mi si congelava e infine mi si spegneva sulle labbra.
Se n’erano andati tutti: il mio rapitore ed io eravamo soli.
§§§§

Una mano appoggiata a sfiorare il piano di mogano e l’altra abbandonata lungo il fianco, Ade aggirò lentamente il tavolo, fermandosi a pochi passi da me. Mi fissava senza dire nulla, come fossi il cuore di un universo nuovo e sconosciuto. I suoi occhi neri, sorprendentemente penetranti, creavano un vivido contrasto con il diffuso pallore del suo viso.
-Perché mi guardi così?- domandai inquieta.
-Sto cercando di decidere cosa sei.-
-Non spetta a te stabilire cosa sono!-
Le labbra del dio si tesero agli angoli, le scurissime ciglia si abbassarono a ombreggiare gli zigomi.
Era irritato? Divertito? Avevo l’assurda sensazione che la mia risposta gli fosse piaciuta.
-Hai ragione,- concesse in tono blando. -non spetta a me.-
La sua espressione impenetrabile mi inquietava ed ero certa che lui lo sapesse, così fui presa alla sprovvista quando mi offrì uno scorcio del proprio stato d’animo, scegliendo con grande cura le parole.
-Sono molto… sorpreso. Non credevo che saresti venuta a cercarmi di tua iniziativa.-
Sentii il sangue affluirmi alle guance, il respiro accelerare.
-Certo che sono venuta a cercarti: desidero delle risposte!-
-Poni una domanda, allora.- suggerì Ade in tono di velluto. –I risultati potrebbero sorprenderti.-
Mi ritrovai a stringere i pugni.
-Prima di tutto, perché mi hai rapita?-
Mi aspettavo che negasse la gravità del gesto o almeno mostrasse un minimo imbarazzo, invece scrollò le spalle con grazia.
-Rapirti è stata una necessità. Non avresti accettato di seguirmi spontaneamente.-
-Come puoi saperlo? Non hai nemmeno provato chiedere!-
-Chiedere?- Ade sollevò le sopracciglia in un’espressione di puro sbigottimento. Poi chinò il capo e un tremito scosse le sue spalle. Sbettei le palpebre: il sovrano dell’Averno stava ridendo: non di scherno, rise proprio di cuore.
Rimasi esterrefatta da quel suono inaspettato e tutt’altro che sgradevole, ammutolita dal modo in cui quell’espressione gli illuminò per un istante tutto il viso.
Quando posò di nuovo lo sguardo su di me, il dio era già tornato all’abituale riserbo, ma uno scintillio indugiava sul fondo dei suoi occhi.
-A nessun Immortale verrebbe mai una simile idea. Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere. In una parola, siamo déi. Prendiamo ciò che desideriamo e talvolta ci scomodiamo anche per meno: qualcosa o qualcuno che ci incuriosisce, che attira la nostra attenzione. - Ade scrollò le spalle. -Al pari dell’umano nella radura, tu mi appartieni: non mi sarebbe mai venuto in mente di chiederti cosa ne pensassi.-
Sentivo il cuore martellarmi il petto.
-Smetti di ripeterlo: è la seconda volta che lo dici! Io non ti appartengo! Riportami a casa!-
-Questo, dolce Persefone, non è proprio possibile.-
-Quando mio padre saprà che mi hai rapita verrà a riprendermi!-
-Certo, naturalmente.- Ade sollevò una mano in un gesto vago, elegante.-Tuo padre.-
Avrei voluto corrergli incontro e tempestargli il petto di pugni.
-Mi ascolti? Tu non puoi farlo! Non puoi strapparmi alla mia casa… a mia madre… e portarmi in questo luogo terrificante!-
Qualcosa di remoto, che non seppi definire, passò nel suo sguardo.
-Terrificante?- Il dio mi scrutò con un interesse che mi parve del tutto nuovo.-Dunque saresti terrorizzata?-
-Certo che lo sono!-
Ade mi tese una mano bianca e affusolata: la guardai trattenendo il respiro, senza osare avvicinarmi.
-Lascia che ti mostri una cosa.- suggerì in tono serico. -Se mi sto sbagliando, ti riporterò in Superficie oggi stesso. Lo giuro sullo Stige.-
-Lo stai dicendo per blandirmi!-
-Le mie intenzioni sono irrilevanti. Un giuramento sullo Stige è sacro, e io ne ho appena formulato uno.-
Mi strinsi nelle mie stesse braccia.
-Mi stai ingannando!- quasi gridai, fissandolo dritto negli occhi. -Non so in che modo, ma so che lo stai facendo!-
Un muscolo si contrasse sulla sua guancia, ed ebbi la sensazione che la mia accusa lo avesse ferito.
No, mi dissi. Non è proprio possibile.
Buffo come i gesti più piccoli, sommati gli uni agli altri, possano dare inizio a catene di eventi sempre più grandi che ci renderanno chi siamo. Forse, se avessi rifiutato quella mano, adesso racconterei una storia diversa. Invece scivolai verso Ade con riluttanza e lasciai che le sue dita fredde si chiudessero sulle mie.
Mi guidò verso lo specchio che campeggiava sul caminetto. La superficie d’argento ci riflettè entrambi: una fanciulla bionda e minuta, dagli occhi colore della terra smossa, che cercava di portare con dignità emozioni più grandi di lei; un dio nel fiore degli anni, selvaggi capelli di tenebra a incorniciargli il viso, e occhi che sembravano troppo vivi su un volto mortalmente pallido.
Ade scivolò alle mie spalle, lasciando la mia mano. Per un istante, quando quel fragile contatto si interruppe, mi sentii perduta: catturata dall’occhio dello specchio e inchiodata ad esso dal mio stesso sguardo. Ero insieme la farfalla morente e lo spillo che la trapassava.
-Osserva.- disse Ade, guardandomi attraverso lo specchio. Il suo viso era un ovale bianco incorniciato di nero, che sovrastava il mio. -Con quale sguardo fronteggi il sovrano dell’Averno. Osserva la linea tra le tue sopracciglia, le tue labbra serrate, le tue spalle contratte. Ascolta il tuo respiro concitato, il cuore che pulsa nelle vene del tuo collo.- Ade si chinò sopra la mia spalla. Le parole si srotolavano suadenti sulla punta della sua lingua, attraverso la sua bocca, per lambire infine il mio orecchio. Sebbene non mi stesse toccando, sentivo contro la pelle sensibile del collo il tepore serico delle sue labbra. -Dee più antiche di te, al tuo posto, sarebbero rimaste a tremare nella propria stanza finché il loro rapitore non le avesse raggiunte o le avesse mandate a chiamare. Al più, avrebbero tentato di fuggire. Tu no: tu sei venuta a cercarmi, esigi da me delle spiegazioni. In questo momento non c’è un briciolo di paura in te. Se volessi dare un nome a quello che vedo, direi che sei arrabbiata.-
Trasalii come se mi avesse schiaffeggiata.
-Io… arrabbiata?-
Ade fece un passo indietro, sparendo dalla superficie d’argento, e allora fui io a voltarmi verso di lui e a cercare il suo sguardo.
-Che cosa puoi saperne tu della paura?- mi rivoltai come una bestia ferita.
Il dio scrollò le spalle con eleganza, come per lasciarsi scivolare di dosso la mia accusa. Si appoggiò al piano del tavolo, stringendone i bordi con entrambe le mani. Mi fissò con aria assorta, e all’improvviso sperai che non mi rispondesse, che reputasse la mia domanda troppo sfacciata per degnarla della propria regale attenzione. Invece, dopo un lungo istante, prese a raccontare:
-Quello che io so sulla paura, l’ho imparato molto presto dal mio stesso padre. Fu così anche per i miei fratelli e sorelle, anche se a volte, guardandoli, ho il sospetto di essere l’unico a ricordare come fosse. Eravamo schiacciati l’uno sull’altro in un luogo stretto e buio, così caldo, umido e maleodorante da rendere doloroso anche solo respirare. Gli acidi vischiosi nel ventre di Crono ci bruciavano la pelle, la gola e gli occhi: dopo un po’, tenerli chiusi divenne inevitabile. Eravamo stretti gli uni agli altri in quel buio che si contraeva, impregnati dello stesso odore e sudore e delle stesse lacrime. Eravamo immortali e anche nostro padre lo era, per cui per quel che ne sapevamo, la nostra tortura sarebbe durata per sempre. Estia ci abbracciava con dolcezza incrollabile. Consolava ognuno di noi, ma io potevo sentire il dolore e il panico che riusciva a celare a tutti gli altri.- Ade si voltò a fissarmi assorto, come se riemergesse a fatica da profondità oscure, riluttanti a lasciarlo andare.- Demetra c’era, ma capisco da come mi guardi che non te ne ha mai parlato. Forse sono davvero l’unico a ricordare.-
Sentir pronunciare il nome di mia madre in quel contesto, da quelle labbra esangui, mi fece tremare. Mia madre col suo sorriso luminoso e i profumati capelli color grano. Mia madre, che era la dea più generosa e piena di vita che conoscessi.
Mia madre aveva davvero vissuto una cosa così orribile?
Conoscevo la storia: anche lei era stata prigioniera nel ventre di Crono insieme a tutti gli altri. E no, non mi aveva mai parlato di quei giorni – di quegli anni – né io l’avevo mai razionalmente messa in relazione a quegli eventi.
Troppe mie convinzioni si stavano sfaldando una dopo l’altra. Ade era l’aratro che lasciava il solco, e io non ero più terra solida e compatta, ma zolla rivoltata.
-Io non mi arrabbio mai.- dissi con voce esile. Mi sembrava l’unica certezza a cui potessi aggrapparmi, con la stessa spasmodica fermezza con cui avevo cercato di prolungare l’esistenza dei miei fiori ormai appassiti.
-Eppure adesso lo stai facendo.- constatò Ade.
Potevo davvero negarlo?
Fin dal primo istante aveva parlato per confondermi, eppure tutte le sue osservazioni erano veritiere. Chinai il capo, sconfitta.
-Hai ragione, dopotutto non sono più così spaventata. Il che rende nullo il giuramento che hai fatto. Ma del resto sapevi di avere ragione, o non avresti giurato.-
Ade non commentò la propria vittoria né la mia sconfitta. Disse invece:
-La creatura arrabbiata e determinata che ho intravisto somiglia ben poco alla Kore pavida e indifesa di cui avevo sentito parlare. E allora, dolce Persefone, torniamo alla spinosa domanda di prima: se non sei la Kore timida e inerme, che cosa sei?-
Non era brutale né tantomeno crudele, ma incideva preciso, come un coltello affilato.
Lo guardai avvilita.
-Perché mi vuoi qui?-
Ade si staccò dal bordo del tavolo e ne indicò la superficie con la mano aperta.
-Lascia che ti mostri l’Averno.- sussurrò.
Seguitai a fissarlo, senza muovere un passo per avvicinarmi.
Il dio sollevò il mento verso di me: una luce che avrebbe potuto essere divertimento si contorceva in fondo ai suoi occhi.
-Non vuoi capire qualcosa di più di questo luogo che trovi così estraneo?-
Con un tremito realizzai che aveva nuovamente ragione: io volevo capire. Ade se n’era accorto ancor prima di me e si offriva di esaudire quel desiderio nemmeno formulato, usandolo naturalmente a proprio vantaggio.
Vacillai, sopraffatta dalla sensazione di stare combattendo una lotta impari, la cui posta in gioco neppure conoscevo.
Mi avvicinai al tavolo di mogano e vidi che sulla sua superficie era in realtà incisa una mappa. Ade ne indicò le linee salienti.
-L’Averno è circondato dall’Acheronte, e strutturato in cerchi concentrici. Come hai visto, le Ombre vengono traghettate da Caronte nell'Anticamera del Sottosuolo, dove vengono giudicate da Minosse. L'Averno vero e proprio inizia subito dopo l'Anticamera, con lo Stige, la palude Stigia e i Campi del Pianto. Subito all’interno si estende il Prato degli Asfodeli, dove risiede la gran parte delle Ombre dei mortali. Ancora più internamente, circondate dal placido letto del fiume Lete, ci sono le Isole dei Beati, o Campi Elisi. Esattamente al centro di questi, si trova la collina sotterranea su cui dimoriamo noi dèi inferi, e il lago ghiacciato del Cocito, sotto il quale si spalanca la voragine del Tartaro.-
Guardai la mappa, sfiorandone la superficie con le dita.
-Dunque le Ombre degli umani abitano tutto l’Averno, mentre gli dèi inferi, pur andando e venendo a piacimento, vivono perlopiù sulla collina. Esattamente come gli dei superni, pur andando e venendo a piacimento nelle terre degli uomini, abitano perlopiù sull’Olimpo. A vederlo così, il Sottosuolo sembra un riflesso della Superficie.-
Sentii Ade scivolare alle mie spalle.
-L’intuizione è corretta, ma puoi andare oltre.- Sentii il suoi capelli di tenebra solleticarmi la guancia, le sue labbra sfiorarmi l’orecchio. –Immagina, Persefone: se non esistesse alcuna cornice, ma solo uno specchio infinito, come potresti dire da quale parte dello specchio ti trovi? Come potresti dire quale dei due mondi sia reale, e quale riflesso? Se non ci fosse modo di distinguerli, si rifletterebbero l’uno nell’altro, ma sarebbero entrambi reali.-
La voce di Ade era suadente e ipnotica, le sue parole mi avvolgevano lentamente in spire. Non capivo dove volesse condurmi, ma una consapevolezza vibrava in ogni fibra del mio essere: il dio avrebbe potuto usare la verità per stritolarmi, invece stava facendo in modo che ne venissi cullata.
Mi sottrai il terreno da sotto i piedi, e al tempo stesso hai cura di afferrarmi al volo.
Pensai a una voce simile alla sua, ma femminile. Pensai a Estia e a ciò che mi raccontava nelle lunghe sere accanto al focolare: le storie di noi divinità, il modo in cui gli umani ci vedevano e ci rappresentavano, e che le parole di Ade stavano collocando in un tutto coerente, nel contesto del quale acquistavano un senso preciso.
Mi balenò in mente un pensiero strano: noi dèi non narravamo storie sul nostro passato, sul nostro presente o su noi stessi; erano gli umani a farlo.
Erano forse, gli umani, uno specchio nello specchio?
-Zeus Ctonio.- dissi in un soffio. Ade non disse nulla e io non mi voltai, e tuttavia lo sentii sorridere. -Gli umani ti chiamano “Zeus Ctonio”. Mio padre è “Zeus Olimpio”, Mentre Poseidone è “Zeus Ennosigeo”.-
-Continua.- mi invitò Ade. Avvicinò il naso ai miei capelli, aspirandone il profumo: la stessa cosa che aveva fatto in riva al lago Pergusa poco prima di rapirmi. E anche se non mi stava davvero toccando, e anche se io non potevo davvero vederlo, riuscivo a sentire gli angoli delle sue labbra curvarsi all’insù, riuscivo a percepire una luce di trionfo diluire l’oscurità nei suoi occhi.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla mappa: mi svelava maggiori dettagli man mano che ne percorrevo le linee.
-Tre sovrani, tre fratelli, tre Regni… tre realtà che si specchiano l’una nell’altra.- La voce mi si spezzava, eppure adesso vedevo: vedevo tutto così chiaramente che non potevo fare a meno di dirlo, per timore che la visione mi sfuggisse, o peggio: diventasse ancora più chiara e mi annientasse. -Zeus ed Era regnano sull’Olimpo, Poseidone e Anfirite negli abissi: il Mondo è diviso in tre Regni, ma solo due di essi sono retti da una coppia di sovrani.-
-Non più, mia dolce.- Le labbra di Ade mi sfiorarono una tempia, così vicine che potevo sentirne il calore.
Lui è davvero un serpente, realizzai. Non avrei dovuto lasciare che mi prendesse per mano.
Sentii le spire in cui venivo cullata serrarsi con dolcezza insidiosa: tutto quello che riuscii a fare fu socchiudere gli occhi e reclinare il capo all’indietro, mentre un brivido di resa e di aspettativa mi correva lungo la schiena.
Ade mi appoggiò le mani sulle spalle, le dita allargate in una presa rapace. Con un gesto delicato ma fermo mi fece voltare: mi ritrovai a fissare le tenebre, mi ritrovai a fissare i suoi occhi.
-Il Cosmo non si contrappone al Caos: piuttosto, lo contiene. Ma l'Ordine, per essere tale, richiede simmetrie.- Con un gesto cauto, il dio mi scostò i capelli dal viso e me li sistemò dietro l’orecchio con le punte delle dita. -Adesso anche l’Averno ha la sua coppia di sovrani.-
E senza attendere la mia risposta, si chinò sulle mie labbra e mi baciò.
§§§§

Note dell’autrice (altrimenti dette: ohibò, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo!):
Cari tutti, che posso dirvi? Ho avuto un bel po’ di skleri di cui vi risparmio la descrizione dettagliata, in favore di una pratica gif. Mi scuso se non ho risposto singolarmente a tutte le recensioni che avete lasciato: le ho lette e apprezzate una per una, e mi sono state di grande conforto mentre tiravo testate nel tentativo di riprendere la storia da dove l’avevo lasciata (allego altra pratica gif). Un sentito grazie a voi che avete letto, apprezzato, recensito e persino chiesto in pvt che fine avessi fatto.
E adesso poche note (ma, come sempre, ben confuse):
1- Il titolo del capitolo è un piccolo omaggio al Sandman di Gaiman.
2- in questo capitolo la storia comincia a capovolgere il mito e, pur ricalcandone i contenuti, a diventare... altro. Vorrei un po' sapere come vi sembra questo primo cambio di prospettiva: vi fa storcere il naso? state preparando i pomodori da tirare? Datemi un feddback prima che l'ansia mi uccida (e se io muoio, chi la scrive la storia? EH?)
3- Visto che siamo in tema di diapositive, vi passo due meravigliosi disegni di Ayami Kojima raffiguranti (secondo me) Ipno e Thanatos.

That's all, folks! Un abbraccio,
Saliman

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Capitolo 8
*** Crepe - parte prima ***


Breve avviso per i lettori: nel secondo paragrafo mi concedo qualche piccola pennellata horror. Personalmente sono così assuefatta al genere che ormai non ci faccio caso, ma mi han fatto giustamente notare che qualcuno più sensibile di me potrebbe restarne turbato.

Siete avvisati! ;P

 

§§§§

 

La bocca di Ade si dischiuse contro la mia in un bacio avido e dolce, animato da una voracità trattenuta. Il sovrano dell'Averno catturò le mie labbra e le saggiò dolcemente tra i denti; le sfiorò con la punta della lingua, suggendole come un frutto maturo. Mentre sprofondavo nella sua ombra, sentivo la sua bramosia: era qualcosa di simile a una fame divorante o a una sete cocente. Eppure ogni suo movimento era cauto, come se il dio non fosse certo di poter percorrere la strada che aveva imboccato... o non fosse certo che potessi percorrerla io. Mi ero aspettata di provare terrore e repulsione per quel contatto, ma non ce ne furono: il ventre mi si sciolse in calore, sentii il mio fiato fermarsi in gola e subito dopo accelerare. Chiusi gli occhi, rapita; la mia bocca si dischiuse come i petali di un fiore. L’unico modo che il mio corpo suggerì per rispondere all’intrusione di Ade, fu lambire la sua lingua con la mia e ricambiare il bacio.

Il dio mi prese il viso fra le mani, reclinandomi il capo all'indietro. Le punte delle sue dita erano fredde, i palmi caldi contro la pelle serica delle mie guance.

Avevo caldo, mi sentivo bruciare.

Le mie ginocchia divennero molli e cercai a tentoni gli avambracci di Ade: affondai le dita nel velluto delle sue maniche, aggrappandomi a lui. Respiro dopo respiro, l'oscurità dietro le mie palpebre acquistava profondità: divenne un luogo in cui non ero mai stata, ma che conoscevo e mi conosceva.

Ebbi la sensazione che il buio mi aspettasse, che avesse innumerevoli volti e la voce gracchiante di tre vecchie signore.

(Benvenuta)

(Bentornata)

(Ti stavamo aspettando)

Spalancai gli occhi di scatto e mi staccai dalle labbra di Ade, vacillando. Ero ancora aggrappata ai suoi avambracci.

Sentivo le guance in fiamme, il corpo pervaso da un languore che non avevo mai provato. Ade indugiò con i pollici sugli angoli della mia bocca, poi mi staccò le mani dal viso. Le sue dita si chiusero sui miei gomiti, sostenendomi.

-Se mi guardi così, aspettare la notte di nozze sarà estremamente complicato.- disse con voce arrochita.

Sapevo cosa significasse andare in sposa a qualcuno, ma solo in quell’istante, con gli occhi neri di Ade piantati nei miei e le labbra ancora calde per i suoi baci, lo realizzai.

Lui è oscurità, pensai. Tutta l’oscurità del Mondo. Mi ha rapita e ora mi vuole mangiare.

La paura mi stritolò la gola.

-Hai parlato di simmetrie,- annaspai -ma un matrimonio serve anche a suggellare un patto.-

-È corretto.- disse Ade, staccandosi da me e facendo un passo indietro. Capii che mi aveva guidato nella comprensione dei suoi progetti, ma non si era aspettato che intuissi quella intenzione. Senza rendermene conto, feci un passo avanti.

-Ma se desideri un patto tra la Superficie e il Sottosuolo, perché prendere in moglie una figlia illegittima? Perché sposare me?-

Qualcosa di lancinante e famelico balenò nello sguardo del dio. Avrei dovuto essere terrorizzata, e finalmente lo ero. Ma mentre quel buio mi si dibatteva dinanzi, io lo fissai e riconobbi...

Tormento.

Fu tale lo sconcerto, che il mio cuore mancò un battito e quasi dimenticai la mia paura.

Il tormento di un seme stanco di attendere, ormai impaziente di germogliare.

Sollevai una mano verso il viso di Ade, cercando, credo, di sfiorargli uno zigomo. Il dio si ritrasse prima che arrivassi a toccarlo e chiuse una mano bianca sulla mia.

-Ti tratterò bene.- disse, portandosi le mie dita alle labbra.

La paura tornò ad afferrarmi, e con essa la disperazione.

-Ti prego, riportami a casa!-

Ade scivolò via da me, come un’ombra che si ritraesse. Mi passò accanto e si allontanò in direzione della porta.

-Il castello è a tua disposizione, e così tutti coloro che lo abitano.- Parlò in tono impersonale, non mi guardò nemmeno. Solo molto tempo dopo mi sarebbe venuto in mente che forse, in un modo obliquo, con quelle parole stesse cercando di ripagarmi per ciò che mi aveva strappato.

Mi voltai verso di lui, stringendo i bordi del tavolo fino a provare dolore.

-Ade, aspetta! Ti chiedo un dono! Un dono di nozze!-

Mi gettò uno sguardo da sopra la spalla, immobile, le dita appoggiate sulla maniglia.

-Non ti riporterò in Superficie. Perciò smetti di chiederlo.-

-Allora dammi del tempo! Ho bisogno di abituarmi a questo posto… all’idea di vivere qui!-

Ho bisogno di abituarmi a te!

Non osai confessare la mia paura e sperai davvero, ingenuamente, di riuscire a nasconderla. Ora so che me la lesse negli occhi al pari di tutto il resto, sebbene evitasse accuratamente di mostrarlo.

Per un istante parve esitare, e osai sperare nella sua compassione. Poi le sue labbra si dischiusero e le sue parole fendettero l’aria in un sussurro.

-Non occorre che ti dia del tempo. Avrai tutta l’eternità per abituarti.-

Mi nascosi la faccia tra le mani, chiudendo gli occhi.

Udii lo scatto sommesso di una serratura e seppi che Ade aveva lasciato la stanza, abbandonando dietro di sé le macerie e la polvere di troppe certezze sgretolate, e un tenue profumo agrumato sui miei polpastrelli, dopo che glieli avevo poggiati sul petto.

 

§§§§

 

Non so per quanto tempo rimasi in quella stanza.

Mi rannicchiai sul pavimento in posizione fetale, premetti la tempia contro le venature fredde del marmo, cercandovi il profumo confortante del seno di mia madre, il calore della terra bruna baciata dal Sole, ma non lo trovai, e allora piansi in silenzio. Mi chiesi dove fosse in quel momento Demetra: se fosse stata avvertita della mia sparizione, se mi stesse già cercando per i boschi e le valli, gridando il mio nome verso il cielo azzurro, se già disperasse di trovarmi.

Pensai a Leucippe e al nostro litigio: non le avevo chiesto scusa per il mio comportamento, e adesso non l'avrei più rivista.

Mio padre mi troverà, mi ripetevo per confortarmi, stringendomi le braccia attorno al corpo. Lui è lampo e folgore: ha squarciato il ventre di Crono, ha guidato l’esercito che ha soggiogato i Titani. Mi cercherà in lungo e in largo sulla Superficie, calcherà i fondali sabbiosi del Mare chiamando il mio nome. E quando non mi troverà nemmeno lì, allora capirà chi mi ha rapita, e…

Un suono improvviso mi fece sollevare la testa. Iniziò come un uggiolio monocorde, tremante, e crebbe lentamente di intensità. Si gonfiò nella sala come una bolla, sempre più sgradevole, infine esplose in un frastuono insopportabile, un latrare e ululare di innumerevoli cani, che mi costrinse a tapparmi le orecchie con le mani e mi ricoprì le braccia di pelle d’oca.

Poi, improvviso com’era esploso, il frastuono si spense. Aprii gli occhi, rendendomi conto solo in quell’istante di averli serrati: due fuochi azzurri erano comparsi dal nulla e ondeggiavano nell'aria, avanzando nella mia direzione.

Mi levai in ginocchio e mi asciugai in fretta le lacrime con i palmi delle mani.

Le due fiamme fluttuarono verso di me, illuminando il mio incarnato dorato di freddi riflessi spettrali.

-Eccola qui,- esclamò una voce soave e pastosa, proveniente dal cuore pulsante di una delle fiamme. -La figlia dell'Olimpo di cui Minta ci ha parlato!-

-Tanto lontana da casssa.- fece eco il secondo fuoco. Scivolò alle mie spalle e, nel farlo, mi passò vicino alla faccia: una vampa si staccò dal suo nucleo azzurro e crepitò vicino alla mia guancia. Lanciai un grido, prima di rendermi conto che la fiamma non mi aveva ferita, perchè non emanava alcun calore.

-Chi siete?- gridai.

-Che insssolenza.- squittì il fuoco fatuo alle mie spalle. -Minta ha ragione: sssei molto maleducata!-

-Cosa…?-

-Ha detto sei un’insolente.- spiegò l'altro fuoco fatuo, con voce dolce come miele di timo. -Non capisci la nostra lingua, carina?-

Guardandolo fisso, mi accorsi che fra le fiamme azzurrine si nascondeva un volto sogghignante.

-Smettete di prendermi in giro! Mostratevi per ciò che siete!-

Come molti anni prima di fronte a una porta di quercia sbarrata, avevo parlato senza riflettere e senza consapevolezza, eppure la realtà mi ubbidì: le fiamme davanti a me vacillarono e tremarono come investite da un vento fortissimo. La luce azzurra si ingigantì, quindi si attenuò fino a svanire, svelando al suo interno una bimba bianchissima: bianca la pelle, bianchi i capelli, bianca la veste che le arrivava fino ai piedini nudi. Al posto degli occhi, la bimba aveva due vesciche piene di sangue; le sgranò verso di me così tanto che temetti potessero scoppiarmi in faccia.

-Sei così piccola,- esclamò con quella voce incantevole. -Assai più piccola di Minta!-

Protese verso il mio viso le piccole mani, munite di tre dita ciascuna. I palmi erano lisci, argentei come il ventre di un pesce.

Istintivamente mi ritrassi.

-Piccola quasssi quanto noi.- fece eco una voce alle mie spalle. Al posto dell'altro fuoco fatuo, c'era adesso una bimba dai capelli ricciuti. Aveva un colorito cinereo e tra le sue labbra rosee intravidi una lingua lunga e biforcuta, da rettile. -Ma hai occhi più belli dei nossstri. E capelli più sssoffici.-

-Adesso te li strappiamo, così sarai proprio come noi!- esclamò la bambina bianca, avventandosi verso di me.

Urlai e mi lanciai contro la porta, cercando la maniglia a tentoni. Le due bimbe avanzavano verso di me tendendo le braccia: avevano passi barcollanti e si muovevano a scatti, come se il mio occhio non riuscisse a cogliere tutti i loro movimenti, o avessero articolazioni sbagliate. Trovai la maniglia e spalancai la porta, ritrovandomi nell'oscurità del corridoio. Corsi in mezzo alle ombre, sotto lo sguardo di occhi nascosti e l'incessante macinare di denti che si levava dall'oscurità negli angoli.

Trovai le scale di marmo e feci i gradini a rotta di collo, le statue bianchissime che mi fissavano con occhi ciechi, le cariatidi che mi deridevano. Mi tappai le orecchie per non udire le loro risate. Con la coda dell'occhio vedevo fiamme azzurrine riflettersi sulle pareti di marmo nero: adesso, a mente fredda, mi rendo conto che tutti i bracieri disseminati per il castello avevano quel colore, ma allora ebbi la certezza che le due Empuse mi stessero inseguendo per strapparmi la faccia.

Vidi Minta prendere forma nell'oscurità dell'ingresso. Scorsi nei suoi occhi scuri il mio viso rigato di lacrime, la mia espressione sconvolta.

Mi sorrise, un sorriso freddo e ostile: aveva compreso al volo che stavo fuggendo, e per un terribile istante pensai che mi avrebbe afferrata per un polso e scaraventata contro il muro, dando l'allarme.

Con mia sorpresa, la ninfa infernale tese una mano pallida verso una porta.

-Se vai da quella parte,- sussurrò -troverai delle scale. Percorrile, e arriverai nelle stalle. Una volta lì, corri verso il Cocito: sulle rive del lago ghiacciato si nasconde un passaggio per la Superficie.-

Sbattei le palpebre, fissandola ottusamente.

Minta si accigliò.

-Che cosa aspetti, stupida! Vai!- sibilò in un'espressione così malevola che mi fece trasalire.

Balbettando un ringraziamento, imboccai la porta che mi aveva indicato e da lì delle scale di pietra grezza, che discesi fino a trovarmi in un ambiente dal basso soffitto a volta, e dal pavimento di terra battuta.

Senza smettere di avanzare, volsi uno sguardo sopra di me, per essere certa che nessuno mi seguisse... e andai a sbattere contro un petto sconosciuto.

Due mani mi sostennero, impedendomi di cadere.

-Persefone?! Che cosa ci fai qui?-

Sollevai lo sguardo e incontrai il volto glabro e tondo di Ipno, le sopracciglia scure sollevate per la sorpresa. Il Sonno mi sorrise con indulgenza; due fossette fecero capolino sulle sue guance.

-Sembri sconvolta, cara! Ti sei persa? Ti riaccompagno.-

Oh, somigliava così tanto a Ermes!

Stessa bassa statura, stessa corporatura snella, stesso sorriso dolce e impenitente.

Mi aggrappai alla sua casacca con lo stesso trasporto con cui avrei abbracciato mio fratello.

-Oh, Ipno, mi dispiace! Mi dispiace tanto!-

Il dio mi fissò senza capire: le ali che gli circondavano il capo si aprirono e si richiusero inquiete.

-In che senso ti dispiace? Di che cosa?-

-Io voglio solo tornare a casa!-

Sentivo le palpebre appesantirsi, gli occhi pizzicare per il desiderio di chiudersi.

No, no, no!

Non potevo cedere al suo potere.

-Persefone...?-

Qualunque cosa Ipno stesse per dire, non ebbe il tempo di finire la frase. Rami eruppero dal suolo dell'Averno, si strinsero attorno alle sue caviglie, facendolo cadere.

-PERS...!- rami e foglie si attorcigliarono intorno al suo viso: la sua voce si trasformò in un suono soffocato che rimbombò contro i soffitti a volta delle scuderie, facendo scalpitare i cavalli.

Le piante non possono dormire, pensai con un misto di esultanza e di angoscia.

Attraversai di corsa le stalle, passando in mezzo ai recinti. Gli arbusti nascevano incontrollati al mio passaggio, erompendo dal suolo sterile al ritmo forsennato del mio cuore, facendo nitrire e impennare i destrieri.

Mi voltai indietro una sola volta: la figura di Ipno era appena distinguibile; si dibatteva sempre più piano tra i rami sottili dei rampicanti.

Non fategli male! implorai, per niente certa che le piante mi avrebbero ascoltato.

Poi varcai le porte delle scuderie e mi ritrovai all'esterno.

 

§§§§

 

La non-luce livida di Erebo mi circondava da ogni parte, sfumando i contorni delle cose e celandomi agli sguardi dei figli dell'Averno.

Le porte delle scuderie si aprivano nel fossato che circondava il Castello: corsi verso il pendio, affondando le dita nella terra dell'Orco fino a spezzarmi le unghie, aggrappandomi agli arbusti per scalare il canale. Sotto di me udivo voci scomposte levarsi nel buio: qualcuno aveva trovato Ipno e stava dando l'allarme. Una sagoma alata che mi parve Thanatos planò dall'alto verso il fondo del fossato: mi rannicchiai istintivamente con le mani sopra la testa, terrorizzata all'idea che la Morte mi trovasse.

Quando la scalata finì mi ritrovai all'aperto, sul fianco di una collina erbosa, punteggiata di pochi alberi. In fondo al pendio, scorsi il riflesso lucido del Cocito: la superficie del lago rifletteva e assorbiva l'oscurità informe di Erebo, estendendosi a perdita d'occhio come un'unica lastra di ossidiana.

Ebbi un tuffo al cuore: il Cocito era più grande di come lo avevo immaginato. Minta aveva parlato di un passaggio per la Superficie, ma non mi aveva dato alcun punto di riferimento che mi aiutasse a trovarlo.

Le voci alle mie spalle crescevano di intensità: adesso non sembravano più così scomposte: qualcuno stava dando degli ordini e forse la mia sparizione era già stata notata.

Afferrai le vesti per sollevarle dal suolo, e ripresi a correre verso il lago.

Man mano che mi avvicinavo, sentivo il suolo farsi sempre più freddo e duro. Presto incontrai fili d'erba coperti di brina, che crepitavano sotto i miei piedi intirizziti, e alberi imbiancati di una sostanza vitrea e gelida, che non avevo mai visto. Man mano che mi avvicinavo al lago, la temperatura si abbassava e la sostanza vitrea si raccoglieva in cumuli sempre più ampi, seppellendo le zolle sotto una soffice coltre bianca.

Quando arrivai sulla riva del Cocito e ne contemplai la superficie ghiacciata, mi era ormai chiaro che era il lago stesso a irradiare quel gelo abnorme.

Mi strinsi le braccia attorno al corpo, il fiato che si rapprendeva in vapore. Non riuscivo più a sentire le gambe né i piedi, e un dolore urticante mi inghiottiva le mani fino ai polsi.

Il passaggio: devo trovare il passaggio!

Una parte piccolissima e lontana di me, rimasta miracolosamente lucida, mi gridò un avvertimento, ma io la udii appena.

Le parole di Ade galleggiavano disordinate nella mia memoria, in mezzo ad altri pensieri urgenti e convulsi.

...la collina sotterranea su cui dimoriamo noi dèi inferi...

La sua voce era un suono lontano, che si componeva e si scomponeva sotto il fischio del vento.

...e il lago ghiacciato del Cocito, sotto il quale si spalanca...

C'erano delle creature attorno a me. Si protendevano dai tronchi gelati degli alberi, scrutandomi con volti alieni, gli occhi simili a fiori di papavero.

Ninfe avernali, pensai, ma non ne ero sicura né mi importava.

Corsi goffamente lungo la riva, con la coltre bianca che ingoiava le mie gambe ad ogni passo e la veste troppo leggera, che non mi riparava dal gelo e si impigliava dappertutto.

Il suolo franò sotto i miei piedi sanguinanti e crollai sulla superficie ghiacciata del lago, ruzzolando e slittando lontano dalla riva. Cercai di rialzarmi, ma i miei piedi nudi scivolarono e mi ritrovai ancora più distante dalla costa, sotto raffiche di vento sempre più gelido, sempre più forte.

Come in un incubo, il ghiaccio sotto di me cominciò a scricchiolare.

Abbassai lo sguardo, terrorizzata, e li vidi: due occhi giganteschi mi fissavano dalle profondità del lago, oscure quanto Erebo stesso.

...il lago ghiacciato del Cocito, sotto il quale si spalanca la voragine del Tartaro.

Finalmente la mia mente riuscì ad afferrare le parole che inseguiva da un'infinità di minuti.

Minosse ha scoperto tre nuove crepe sulla superficie ghiacciata del Cocito.

Ebbi giusto il tempo di capire cosa significasse.

Quando, un istante dopo, la crepa si allargò, io stavo già gridando.

 

§§§§

 

Note dell'autrice:

Sono in ritardo e me ne scuso, posso solo sperare che la lettura sia valsa l'attesa! Questo capitolo ha allegramente deragliato sui binari della Bella e Bestia (*Saliman spolvera l'altarino*): dalle cariatidi animate presenti nel fim di Cocteau, alla fuga di Belle presente nell'adattamento Disney e ripresa nella versione di Gans, non ci siamo fatti mancare nulla!

Ultimo ma non ultimo: un Grazie a Viola, che con i suoi suggerimenti mi ha aiutato a venur fuori da un'impasse e a completare il capitolo nel modo più funzionale alle esigenze della trama (a buon rendere, sweetie!)

E insomma, un abbraccio a tutti!

Saliman

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Capitolo 9
*** Crepe - parte seconda ***


Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere.
                                                    
Wislawa Szymborska
 

Caddi nel Cocito di schiena, le braccia scostate dai fianchi.
Il gelo dell’acqua mi azzannò la carne e mi paralizzò il diaframma, togliendomi il respiro. La gonna dell’abito si gonfiò intorno a me come la corolla bianca di un fiore, mentre il fragore del tuffo mi assordava. L’ultima cosa che vidi fu il riflesso livido di Erebo diluirsi nel cielo, poi la superficie del lago si chiuse sopra i miei occhi, strappandomi ogni altra visione.
L’acqua del Cocito non era soltanto acqua, era anche tenebra: oscurità così fitta che, mentre sprofondavo, non riuscivo a distinguere il candore delle mie mani né il riflesso traslucido della superficie.
Non vedevo la voragine del Tartaro spalancarsi sotto di me, ma la sentivo: il buio che mi circondava non aveva fondo ed era più vasto del buio che mi sovrastava.  
C’erano presenze che mi spiavano dal basso: orbite nere prive di occhi e piene di denti; facce scavate; mani adunche, munite di artigli, che si protendevano verso di me.
Non le vidi: non fu nulla di così distinto. Ma le sentii, come se l’acqua stessa mi consegnasse l’immagine dei loro volti, mentre indugiava sulle mie palpebre (aperte? Chiuse? Non distinguevo la differenza), mentre la tenebra mi riempiva la bocca, la trachea e i polmoni.
I Titani.
Si erano strappati la lingua e gli occhi per la disperazione e l’impotenza.
Si erano artigliati la faccia, squarciati il ventre, azzannati ogni centimetro di carne, mutilandosi a morsi le braccia e le dita.
La loro rabbia e il loro dolore erano correnti gelide nell’acqua-tenebra che mi circondava.
Il loro odio splendeva di un verde malsano: era l’odio privo di cattiveria che un animale potrebbe nutrire per la frusta che lo colpisce o la gabbia che lo imprigiona.
Noi gli avevamo rubato il Mondo: lo avevamo trasformato in un luogo alieno, che obbediva alle leggi del Cosmo; un luogo che i Titani non comprendevano, in cui non avevano posto né diritto di esistere.
Non li avevamo uccisi, perché essi non potevano morire, ma avevamo fatto di peggio: li avevamo privati di un volto, svuotati di un nome; li avevamo sprofondati nella voragine della loro miseria e della loro disperazione. Infine, avevamo coperto la voragine sotto metri di ghiaccio e ne avevamo fatto una prigione.
A tutto questo avevamo dato il nome di “Ordine”.
E così i Titani ci odiavano, certo: dell’odio cieco e primitivo rivolto a qualcosa che annienta non il tuo corpo, ma la tua identità.
E allora, con un brivido, compresi:
Il Tartaro non è un luogo: è uno stato dell’anima.
Nel silenzio spettrale dei flutti, udii il ghiaccio sopra di me scricchiolare. Qualcosa turbò la superficie e affondò nell’acqua-tenebra, afferrandomi per un lembo del vestito.
Qualcuno mi tirò verso l’alto: mani forti mi afferrarono per le spalle, issandomi a forza sulla banchisa. Mi ritrovai piegata in due, inzuppata e tremante, mentre rigettavo l’acqua che avevo ingoiato.
Un braccio invisibile mi cinse le spalle. Le mie dita livide riconobbero al tatto il petto del mio soccorritore.
-Vattene!- tossii, respingendolo a tentoni con tutte le forze che avevo.
Un elmo cadde sulla banchisa e la figura in nero di Ade si materializzò nell’aria plumbea.
Il dio non badò alle mie resistenze: mi cinse le spalle in una presa di acciaio, mi sollevò in piedi di peso, schiacciandomi contro il suo petto.
-Alzati.- sussurrò con urgenza. -Andiamo via di qui!-
-NO! Lasciami in pace!-
Il ghiaccio sotto i nostri piedi scricchiolò minacciosamente; una crepa si allungò tra di noi, costringendo il dio a lasciare bruscamente la presa. Senza perderlo di vista nemmeno un istante, ne approfittai per arretrare verso il centro del Cocito.
Ade mosse un passo verso di me, ma un secondo scricchiolio lo fermò, costringendolo a restare dov’era.
-Persefone!- ringhiò. -Non da quella parte!-
Continuai a indietreggiare, curva, le labbra viola come gli occhi di Erebo. Il vento mi schiaffeggiava i capelli biondi e le lacrime mi si congelavano tra le ciglia. Non sentivo più la faccia, ma dal centro del lago percepivo il profumo disperatamente familiare dell’erba appena tagliata. Il passaggio per la Superficie era lì da qualche parte.
-Mi dispiace… Io voglio solo tornare a casa!-
-Non ha importanza adesso!- Ade mi tese una mano, il mantello nero sferzato dal vento, le labbra bianche piegate all’ingiù. la cautela con cui si muoveva creava uno spietato contrasto  con l’urgenza nella sua voce. –Muoviti lentamente… Torna verso di me!-
La crepa tra di noi si aprì con uno boato, una mano enorme eruppe dalla profondità del Tartaro, sollevando un’immane onda d’acqua. Mi ritrovai sollevata e scaraventata bocconi sul ghiaccio, parecchi metri più lontano.
L’enorme mano calò verso di me in un gesto convulso: mi resi conto che mi avrebbe schiacciata come un insetto e serrai gli occhi, chiedendomi se mi avrebbe raggiunto per primo il dolore del colpo o il fragore dello schianto.
Che non avvenne mai.
Le dita adunche si aprirono nell’aria, un attimo prima di serrarsi per il dolore.
Ade era in piedi sul dorso della mano, la spada piantata fino all’elsa nella carne del Titano. Facendo leva sulle gambe, il dio dell’Averno estrasse l’arma e la piantò poco più in basso, nella pelle coriacea del polso. Poi si lasciò scivolare lungo l’immenso avambraccio, squarciandolo. Un ruggito di dolore fece tremare le tenebre sotto di noi: il braccio schiaffeggiò l’aria, liberandosi di Ade come fosse una mosca.
Il dio dell’Averno fu scagliato in aria e atterrò malamente sul ghiaccio, la spada ancora nel pugno. Si rialzò subito, ma le gambe gli cedettero e crollò su un ginocchio. Sangue rosso vivo gli colava sul volto bianchissimo, sgorgando da una ferita alla tempia.
Una seconda, gigantesca mano eruppe dal ghiaccio a poche decine di metri da re dell’Averno.
-Alle spalle!- gridò una voce nel buio.
Thanatos si materializzò in volo, le ali dolorosamente contratte per cavalcare il vento assassino. Lo vidi sollevare una spada e gettarsi il picchiata sugli artigli che minacciavano il suo sovrano.
Tremai nel rendermi conto che neppure la Morte poteva molto, contro i Titani.
 L’Oscurità è giunta a proteggermi da un’oscurità più grande, pensai, ma non ne trassi alcun conforto.
Una voce polemica risuonò alle mie spalle, secca come una scudisciata.
-Ah, lo sapevo! Tocca sempre a me raccogliere i pezzi!-
All’improvviso le mie palpebre si appesantirono; Ade scrollò la testa e Thanatos sembrò vacillare in volo. Ma quel potere non era rivolto contro di noi. Lentamente, i Titani si ritrassero sotto il pelo di quelle acque, assopiti nel gelo del loro stesso rancore. Persino il vento crollò in una brezza leggera.
-Ipno?- sussurrai, battendo i denti.
Il Sonno aprì le ali piumate e si rese visibile, atterrando con grazia sul ghiaccio.
-Poche smancerie, ragazzina: abbiamo un conto in sospeso, tu ed io!-
Si chinò a raccogliere l’elmo di Ade e me lo spinse senza garbo contro lo sterno. Istintivamente afferrai il copricapo, stringendolo tra i seni per non farlo cadere.
Ade premette sul ghiaccio una mano bianchissima. L’acqua sotto di noi ribollì dolcemente, colmando le crepe di nuova tenebra, che si trasformò rapidamente in nuovo ghiaccio.
Thanatos era già planato accanto al suo re, e si stava chinando su di lui.
Il Sonno li raggiunse con passo felino, allargando le braccia come a raccogliere il plauso di un invisibile pubblico.
-Cosa fareste senza di me? Eh?-
Esitai: l’imboccatura della Superficie doveva essere vicina, vicinissima: adesso che l’aria era immobile riuscivo a sentire l’odore fragrante della terra smossa, il tenue frinire dei grilli.
È la mia ultima occasione, pensai. La mia unica occasione.
Ade passò un braccio attorno alle spalle di Thanatos, il sangue gli aveva inzuppato la manica fino alle dita.
Lui starà bene: non ha bisogno di me.
La Morte lo sollevò tra le braccia e si levò in volo.
Il Sonno li guardò scomparire nel buio, poi mi lanciò un’occhiata obliqua, tagliente come una lama.
-Che cosa decidi di fare?-
Lui starà bene?
Razionalmente conoscevo la risposta, ma fu il mio cuore a scegliere.
Esalando un lungo, doloroso respiro, volsi le spalle al frinire delle cicale. Strinsi fra le mani l’elmo di Ade e camminai zoppicando verso Ipno.
 
§§§§
 
Quando giungemmo al Castello, Ade era già nei suoi alloggi e Minta e altre ninfe infernali entravano e uscivano dalle sue stanze. Ipno mi trascinò di fronte alla porta dell’anticamera e mi piantò una mano fra le scapole, spingendomi all’interno.
-Forza, vai a dare un’occhiata!-
-Da sola?! Non vieni con me?-
-Scherzi? Se tra i divini regnanti del Sottosuolo volano piatti, non voglio trovarmi sulla traiettoria!- Abbassò lo sguardo sulla kuinè, che stringevo ancora tra le mani. –Saggia idea portarsi l’elmo: in queste occasioni può sempre servire!-
Gli lanciai un’occhiataccia, che non lo intimorì né tantomeno lo fece spostare dalla soglia. Raccogliendo tutto il mio coraggio e la mia dignità, attraversai l’anticamera fino alla stanza di Ade.
Il dio era seduto nel letto, le spalle appoggiate ai cuscini.
Le ninfe gli avevano sfilato la casacca e adesso gli tergevano il sangue di dosso con stracci imbevuti dell’acqua dello Stige. Mi rannicchiai su una poltrona, le ginocchia raccolte contro il petto, cercando di non essere d’intralcio all’andirivieni di geni e divinità minori che portavano via catini di acqua sporca e pezze sporche di rosso, per sostituirli con brocche di acqua limpida e garze pulite. La fronte del dio fu fasciata con bende bianchissime; le escoriazioni sulle mani vennero medicate con cura. Qualcuno lo aiutò a indossare una maglia pulita di mussola azzurra.
Ade tollerò quelle cure senza quasi dire nulla, poi congedò tutti. Aveva il volto tirato e sembrava non ne potesse più di avere gente intorno. Per un istante pensai di seguire le ninfe, di uscire anch’io dalla stanza. Invece all’ultimo momento ci ripensai.
Scivolai giù dalla poltrona e chiusi la porta dietro le spalle di Minta. Appoggiai la schiena al battente con tutto il mio peso. Nella penombra del letto a baldacchino, il volto di Ade era una maschera bianca.
La sua collera era una sfumatura che saturava le ombre dentro la stanza, una sensazione di oppressione che mi stringeva la gola e il petto, costringendomi a deglutire a vuoto.
-Mi dispiace.- esordii con voce flebile.
-Ti dispiace.- ripeté il dio in tono incolore. -È tutto quello che hai da dire?-
Non risposi.
-Ti dispiace per cosa? Per avere imprigionato Ipno, per essere fuggita sul Cocito, per avere quasi liberato i Titani… ? Per  cosa ti dispiace, esattamente?-
L’oscurità sgretolava gli angoli della stanza; le ombre si allungavano dai soffitti, pendendo come corpi sventrati.
-Non volevo fare del male a nessuno, volevo solo tornare a casa. Tu sai quanto lo volessi!-
-Non hai pensato alle conseguenze?-
La tenebra grondava da ogni parte in densi rivoli scuri. L’oscurità franò dai muri, colò sul pavimento lambendomi le caviglie.
-Io… io non conosco l’Averno… io non credevo…-
-Naturalmente,- la voce di Ade era di una dolcezza terrificante.- Tu non credevi!-
All’improvviso arrossii per la collera.
-Non puoi rimproverarmi di aver tentato di fuggire! Non mi hai lasciato scelta!-
-Chi ti ha detto del passaggio sul Cocito?-
-Ne avevo sentito parlare in Superficie.-
-Sei una pessima bugiarda.- tagliò corto Ade. -E una sciocca, anche. Cosa sarebbe accaduto se fossi finita nel Tartaro? Chi ti avrebbe tirato fuori di lì?-
Cercai di non pensare alle entità sfortunate che avevo percepito là sotto.
-Che differenza avrebbe fatto per te? Ti sarebbe bastato rapire un’altra figlia di Zeus!-
-Ti avevo detto di tornare indietro, e tu mi hai disobbedito…-
-Io non ti devo obbedienza!- mossi un passo avanti, i pugni stretti per la collera. Le ombre si ritrassero ai miei piedi, come intimidite dalla mia rabbia. Mi accorsi di aver gridato e trassi un profondo respiro. -Non sono una dei tuoi sudditi! Non sono nemmeno tua moglie!-
-Non lo sei, Persefone?- gli occhi di Ade si ridussero a due schegge di ossidiana. -Cosa dovrei fare per convincerti del contrario? Avrei dovuto comportarmi come un dio della Superficie, e stuprarti prima che passassimo l’Acheronte? -
-Per quel che ne so, avresti potuto farlo!-
Ade si abbandonò contro i cuscini.
-No, ti sbagli. Non avrei potuto.-
Sentii il mio cuore accelerare.
-Mi punirai?- chiesi.
-È questo che credi che io faccia? Punire?-
-Perché non mi lasci andare? Se tutto questo è una vendetta contro mio padre…-
-Una vendetta…?-
-Per averti costretto a prendere il Sottosuolo…-
-Costretto? In che modo, di grazia, Zeus potrebbe avermi costretto?-
-Con l'inganno.- azzardai con voce flebile.
Ade mi fissò a lungo: uno sguardo perfettamente impenetrabile.
–È questo che si racconta di me?-
-Gli umani talvolta lo raccontano, sì.- Mi umettai le labbra. –Ma non ho mai udito gli dei parlare di quei giorni.-
-Se avesse potuto, Zeus mi avrebbe pregato di prendere il Sottosuolo. Quasi non credette alle proprie orecchie, quando lo rivendicai come mio. La gratitudine e il sollievo erano tali, che mi promise in cambio qualunque cosa volessi.- fece un pausa, sollevando le sopracciglia. -O chiunque volessi.-
Tu mi appartieni.
-Menti.- sussurrai, con la gola secca.
-Non è nel mio stile. E poi, la verità è sempre più interessante.-
-Menti!- insistetti. - Mio padre non sa che mi hai rapito. Se lo sapesse, sarebbe già qui!-
-Davvero? Rifletti: io ti ho prelevata in riva al lago Pergusa. Credi possa accadere qualcosa di così grave in Superficie, senza che Zeus lo sappia? Senza che Zeus lo approvi? Purché lo sollevassi del peso dell’Averno, tuo padre mi promise in cambio qualunque cosa, e io chiesi la mano di una delle sue figlie. Il patto fu stipulato proprio sull'Olimpo, dove la sua parola è Legge.-
-Guarda tu il caso.- dissi in tono incolore.
-Diciamo che ho posto una certa cura a questo dettaglio. Ormai Zeus avrà capito che la figlia che ho reclamato sei tu, ma non può comunque rimangiarsi la parola. Se venissimo meno alle leggi che ci siamo imposti, il Caos inghiottirebbe prima noi e poi il Mondo. Persino mio fratello ne è consapevole.-
Desideravo che Ade tacesse, desideravo che smettesse.
Mio padre, l’eroe del mito, il mio eroe, mi aveva ceduta all’Averno ancor prima che esistessi!
Avevo la sensazione che una lama mi scavasse in petto.
–Mi stai facendo male.- dissi. –Nessuno mi aveva mai fatto così male, prima.-
Ade non mi rispose: si ritirò nel proprio riserbo senza scusarsi, ma  anche senza infierire.
-Perché hai preso me, tra tutte le figlie di Zeus?-
-Davvero non lo comprendi?- All’improvviso il dio sospirò e mi sembrò improvvisamente stanco, la sua maschera ridotta a un guscio malconcio e incrinato. -Sei così... giovane. Che cosa si prova a essere innocente? Io non riesco a ricordarlo.-
-È  per questo che mi hai scelta? Perché sono innocente? Volevi per sposa una Kore timida e inerme, che ti facesse più grande e potente di quel che già sei?-
Ade inclinò il capo di lato.
-Hai una lingua tagliente,- constatò in tono serico. -Mi chiedo da chi l'hai ereditata. In verità, io non ho mai conosciuto questa Kore di cui tutti parlate. In quella radura, quel giorno, c’era solo Persefone.-
 
§§§§
 
Mi attardai nella stanza di Ade anche dopo che si fu addormentato.
La verità è che non mi sentivo in grado di affrontare il mondo fuori dalla porta. Non conoscevo nessuno al Castello, non avevo più fiori da stringere al seno né illusioni a proteggermi, e in qualche modo sentivo che non era più nemmeno il tempo di piangere.
L’unica persona che capiva cosa provassi –sebbene non per questo si lasciasse distogliere dai propri propositi- era questo dio incomprensibile, che mi aveva strappato al mio mondo e mi rivendicava come sposa, come fossi sua di diritto. E a quanto pare lo ero davvero: con tanto di consenso di mio padre.
Mi resi conto che credevo alle parole di Ade: ci credevo non perché mi fidassi di lui, ma perché sentivo che erano vere. I tasselli che mi aveva disposto dinanzi si incastravano in modo tanto perfetto che mi pareva di sentire un click in sottofondo, che non potevo più ignorare.
E poi, nessuna menzogna farebbe così male.
Mi nascosi il viso fra le mani ed esalai un lungo sospiro.
Fu allora che mi raggiunse.
Un ululato tremante, cui si accostò immediatamente un confuso abbaiare e guaire di cani.
Uscii dalla stanza per sapere da dove provenisse: una dea era in piedi nell’anticamera, accanto alla vetrata, e si voltò nella mia direzione.
-Eccoti!-
Mi scostai i capelli biondi dal viso e mi lisciai in fretta gli abiti, cercando di ricompormi.
La dea indossava una veste color croco, leggera, che si increspò come schiuma di mare quando lei si staccò dalla vetrata e si voltò nella mia direzione. I suoi capelli erano una nube di ricci scurissimi e incontenibili,  che le ricadevano sciolti sulle sue spalle nude e sulle punte perdevano consistenza, come fossero fatti di fumo.
Due fuochi fatui dall’aspetto familiare fluttuavano accanto al viso della donna, illuminando il suo incarnato alabastrino di riflessi spettrali.
-Avevo chiesto di essere mandata a chiamare non appena ti fossi svegliata, ma vedo che arrivo in leggero ritardo.- La donna si fermò davanti a me, alta e bellissima. Lanciò uno sguardo alla porta alle mie spalle. –Mio fratello sta bene?-
-Credo di sì.- dissi.-Ha solo bisogno di riposo.- E poi, esitante: -Chi sei tu, comunque?-
-Hai sssentito che insssolenza?- squittì una voce familiare,  proveniente da uno dei due fuochi.
-Parlare così alla signora delle soglie!- fece il secondo fuoco fatuo, con voce dolce come miele di timo.
La donna li fulminò entrambi con uno sguardo: aveva occhi d'oro, bellissimi e spaventosi.
-Mormo, Lamia, smettetela! Non avete già fatto abbastanza? Abbiate la decenza di mostrarvi!-
In verità, quando le due creature svelarono le sembianze che già conoscevo, preferii che fossero rimaste in forma di fiamma. Tuttavia non sembravano più così ostili. Si inginocchiarono a terra, sfiorando il pavimento con la fronte.
-Ti chiediamo perdono.- dissero all’unisono.
-Tutto qui?- incanzò la dea.
-Ti chiediamo perdono umilmente, divina Persefone.-
-Accoglieremo con gratitudine qualunque punizione vorrai infliggerci.-
Arrossi, spiazzata dalle loro parole.
-Io… accetto le vostre scuse.-
La dea vestita di viola schiaffeggiò l’aria in un gesto spazientito.
-Ritenetevi fortunate, piccole sciocche! E adesso andate via, prima che mi arrabbi sul serio!-
Le bimbe si incendiarono, riprendendo le fattezze di due fuochi azzurrini. Le lingue di fiamma divennero sempre più piccole e dalla forma sempre meno definita; infine si spensero, come se l'aria stessa le avesse inghiottite.
La dea bruna unì in grembo le bellissime mani.
-Ti chiedo anche io di perdonarle: non ti avrebbero fatto del male. Volevano solo giocare.-
In verità non ero affatto sicura che le due Empuse conoscessero la differenza, ma lo tenni per me.
Le fattezze raccapriccianti delle due ragazzine mal si accordavano con la bellezza marmorea di quella dea.
-Sono le tue figlie?- domandai.
-Ormai è come se lo fossero. Non temere: più tardi le punirò per essere state così irrispettose.-
-Oh,- protestai. -Non occorre…-
-Dovrò farlo, o ci penserà Ade, esiliandole. E dove mai potrebbero andare due creaturine così disgraziate? In Superficie, la luce di Helios le distruggerebbe.-
Guardai la dea, affascinata.
-Hanno detto che sei la signora delle soglie.- Lei mi rivolse un sorriso indecifrabile, in cui scorsi un potere terribile e meraviglioso: la sacralità di tutti i bivi e i confini, di tutti i luoghi e i momenti di passaggio.
-Ecate Trivia.- la salutai. Il suo nome era intriso di potere. -Io non credevo che nell’Averno vivessero tanti dei!-
–L’Averno è pieno di divinità minori come le Empuse che hai appena conosciuto: sono nate in questo luogo e non saprebbero dove altro andare. Vi sono poi divinità maggiori e più antiche, che hanno visto la lotta tra gli Olimpi e i Titani e si sono trasferite nell'Averno dopo la Tripartizione: per loro, vivere qui è stata una scelta.-
-Chi mai potrebbe scegliere di vivere nel Sottosuolo, quando potrebbe vivere sulla Superficie?-
Un lampo di divertimento guizzò negli occhi d’oro di Ecate.
-Io l’ho fatto. Non provo stima per tuo padre Zeus né per gli altri cosiddetti déi dell’Ordine. Sono molto più antica di tutti loro: perché mai dovrei accettare come sovrano un dio la cui attività principale è slacciarsi i calzoni? O come regina una dea la cui attività principale è punire le donne di fronte alle quali il marito se li è slacciati?-
Arrossii, sconcertata da tanta franchezza.
-Anche Ade è un dio dell’Ordine.- feci notare.
Ecate ebbe un sorriso ferino.
-Senza dubbio lo è, ma, a differenza degli altri, non ha dimenticato che discendiamo tutti da Caos.-
La voce incolore di Ade risuonò per un istante nella mia testa. Cosa aveva detto esattamente?
Forse sono davvero l’unico a ricordare.
Ecate si accostò al tavolo, sulla superficie del quale era incisa la mappa dell’Averno.
-Quando si ebbe la Tripartizione, gli Olimpi presero possesso della Superficie e i turbolenti dèi delle acque si riversarono nel Mare. Tutti gli altri, tutti noi che non ci eravamo schierati né con i Titani né contro, e che non avevamo dimenticato di essere discendenti di Caos, non sapevamo dove andare.- Ecate sorrise senza allegria. –Zeus e Poseidone avevano paura di noi: la nostra stessa esistenza minacciava l’Ordine appena subentrato. Poseidone propose che venissimo rinchiusi tutti nel Tartaro, a marcire insieme ai Titani. Ade ascoltò entrambi i fratelli senza dire nulla, poi si ritirò nel suo palazzo. Dopo tre giorni e tre notti, senza dare spiegazioni, spalancò per noi le porte del suo Regno e ci rese tutti abitanti dell’Averno.-
-Molto generoso, da parte sua.- concessi con un punta di acredine. -Vi diede una casa.-
-Una casa?- Gli occhi dorati di Ecate scintillarono di malizia. –Anche Zeus e Poseidone la pensavano così. Impiegarono secoli a capire! Ade non ci diede una casa: ci diede un posto nel Cosmo. Ci rese parte strutturale dell’Ordine dal quale Zeus e Poseidone avrebbero voluto bandirci!-
Ripensai alla frase sibillina di Ade: Il Cosmo non si contrappone al Caos: piuttosto lo contiene.
Ero senza parole.
Rividi Ade sulla riva dell’Acheronte, che accettava gli onori dei suoi sudditi come se accettarli fosse uno dei suoi numerosi doveri. Rividi la devozione negli occhi d’argento delle anime: dove sarebbero andate a finire, le Ombre, se Ade non avesse trovato un posto nel Sottosuolo anche per loro? Sarebbero rimaste in eterno a girare nel Vortice? O si sarebbero tutte riversate in Superficie, sfogando sui vivi la frustrazione di non avere un luogo in cui andare?
-Io… io non immaginavo che Ade avesse fatto tutto questo...-
Ecate annuì.
-Per questo Nyx, Erebo, io e tutti gli altri lo accettiamo come sovrano. Per questo gli accordo l’onore di chiamarlo Fratello.- La dea mi fissò con quegli occhi dorati, e la sua luce mi parve immensa. -Lasciami dire una cosa, bambina: per quanto tu sia stata trascinata qui a forza e costretta a un matrimonio combinato, per quanto l’Averno possa apparirti sgradevole e spaventoso, esso è parte del Mondo. Non puoi capire davvero la Superficie, se non conosci il Sottosuolo.-
 
§§§§
 
Note dell’autrice (delle quali come sempre non si sente il bisogno!):

L’amena pratica a cui Ade si riferisce nel suo discorso a Persefone è quella del matrimonio per rapimento, tutt’ora realmente esistente in alcuni Paesi: se un pretendente rapisce una donna e la stupra, ne diviene il marito legittimo. Secondo alcune versioni del mito, il matrimonio tra Ade e Persefone fu esattamente una cosa del genere.
La mia idea a riguardo è troppo articolata per spiegarla in questa sede: semplifico dicendo che anche se non propendo per questa versione, le riconosco comunque un certo valore e ho voluto lasciarne una traccia in questo scritto.

Per il resto: CONGRATULAZIONI! avete finalmente toccato con mano la mia TOTALE incapacità di scrivere scene d’azione! xD
Come se non bastasse, questo capitolo era lunghissimo e denso: spero ne sia uscito qualcosa di decente e non vi abbia causato sepsi e dissenteria.

Un saluto,
Saliman

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Capitolo 10
*** La Regina scalza ***


l'Ombra è parte viva della personalità e vuole vivere con lei sotto qualche forma. Non è possibile impedirle di esistere con argomenti, né con altrettanti argomenti la si può rendere anodina. (…) presto o tardi il conto deve essere saldato e siamo costretti a confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con i nostri soli mezzi. (…) ecco che adesso ci sentiamo inclinati a prestare orecchio a un'idea utile o a percepire pensieri cui prima non permettevamo di formularsi. (…) Se si assume una simile posizione, forze soccorritrici che sonnecchiano nella natura umana più profonda si destano e intervengono, poiché miseria e debolezza sono l'esperienza eterna e l'eterno problema dell'umanità, al quale esiste anche un'eterna risposta; altrimenti l'uomo sarebbe già da tempo perito.
 
C. G. Jung
 
 
Ecate mosse un passo verso di me. Le fiamme tremarono sui candelabri e le ombre della stanza oscillarono di rimando. A quella luce incerta, la fronte della dea apparve solcata da rughe sottili, le sue guance scavate, il labbro inferiore cascante.
Poi Ecate sollevò una mano verso il mio viso e premette il pollice contro la mia fronte,  e fu di nuovo una donna nel fiore degli anni, la pelle liscia e compatta, le spalle dritte. Mi parve così simile a mia madre, che provai una fitta al cuore per la nostalgia.
Il suo riflesso si allungava sul pavimento di marmo: vidi che Ecate aveva tre ombre, una delle quali si fondeva con la mia.
-Alifto.- disse.
Una fiammella azzurrina guizzò sopra la sua spalla destra e io capii che quella parola era un nome.
La fiamma crebbe più vivida, più grande, fino a diventare una fanciulla della mia altezza, avvolta in una veste di mussola bianca. La fanciulla teneva il capo chino: lunghi capelli argentei e lisci le ricadevano ai lati del volto, celandone i lineamenti.
-Alifto.- disse Ecate nuovamente, senza voltarsi.
- Eccomi, divina Madre.-
La fanciulla sollevò il capo e i capelli argentei le ricaddero sulle spalle, svelando un volto diviso.
A destra la pelle era liscia, la guancia rotonda, le labbra morbide e rosa. Sotto l'arco del sopracciglio scintillava un occhio azzurro e vivace.
A sinistra la pelle del viso era lucida e rattrappita, sollevata in cordoni fibrosi. Da quel lato del volto l’arco delle sopracciglia era nudo, la palpebra ptosica e priva di ciglia. L’occhio destro era bianco come il ventre di un pesce e l’angolo delle labbra stirato in un ghigno.
-Alifto,- disse Ecate una terza volta. E poi:- questa è la tua nuova sorella.-
L’Empusa inclinò il capo da un lato e capelli le ricaddero sopra una spalla in una cascata di liquido argento. Mi sorrise, e io mi morsi le labbra per non gridare.
Venne avanti e protese le mani verso di me: una era bianca e soffice, l’altra grigia e mutilata, poco più di un artiglio scampato alle fiamme.
Un’intuizione mi raggelò: non potevo scegliere quale mano stringere, né quale metà di quel viso contemplare. Mi venivano offerte entrambe.
Esitante, anche io sollevai le mani verso l’Empusa e intrecciai le mie dita alle sue. Sentii la carne morbida e vellutata da una parte, e la cute ispessita e fredda dall’altra.
Abbassai lo sguardo sulle mani spaiate, e poi lo sollevai sul volto diviso.
Chiusi gli occhi.
Non vidi più due profili disarmonici che si incastravano a formare un volto.
Sentii Alifto: non Divisa, ma Una.
Fu di questo che scelsi di fidarmi.
 
****
 
Non so che ora fosse quando rimisi piede nella mia stanza.
Non c’era una luna nel cielo del Sottosuolo, nessuna stella rischiarava il manto di Erebo che intravedevo dalle vetrate. Il castello era buio e immerso nel silenzio; Minta sembrava sparita, ingoiata da quei corridoi e da quelle silenziose file di porte chiuse a chiave.
Trovai da sola la mia stanza: era attigua a quella di Ade e arrossii intuendone i sottintesi . Mi lasciai cadere sul letto si schiena, le braccia aperte sopra le coperte.
Il filo delle mie riflessioni era molto frammentato: prendevo in mano un pensiero, lo rigiravo nella mia mente e poi lo posavo, incapace di seguirne le implicazioni fino in fondo. Mia madre si era ormai accorta della mia assenza: come aveva reagito? Mi stava cercando? Mi avrebbe trovata? E come l’aveva presa Leucippe?
Pensai alla mia nuova condizione di regina, sposa, prigioniera. Il mio tentativo di fuga, a ripensarci adesso, mi sembrava avventato e patetico, e un assurdo senso di colpa mi attanagliava per le conseguenze riportate da Ade.
La cosa che mi bruciava di più era il tradimento da parte di mio padre, il fatto che lui mi avesse venduta prima ancora che nascessi.
Non mi sentivo sgomenta come avrei dovuto, come Kore avrebbe dovuto.
Cercai di immaginare i sentimenti di Kore: paura, rassegnazione, condiscendenza. Kore avrebbe chinato il capo come un agnellino su un altare sacrificale e avrebbe belato, tremante: grazie, divino padre, per aver concesso la mia mano a uno sposo così potente, sovrano di un regno così grande. Mi inchino al tuo volere, compiacerò te e il mio sposo.
Io non provavo gratitudine: mi sentivo delusa e tradita, furiosa con mio padre, ma anche con mia madre e con Leucippe che non mi avevano protetta.
Un dubbio si fece strada in me mordendo e graffiando: di non essere la persona che avevo sempre creduto, di non essere la Kore che mi ero sempre sforzata di essere.
Sentii la mia identità scricchiolare: provai un dolore di ossa spezzate. Mi premetti i palmi sugli occhi, mi abbracciai forte, per tenermi insieme.
E allora, dolce Persefone, torniamo alla spinosa domanda di prima: se non sei la Kore timida e inerme, che cosa sei?
Ebbi paura che la risposta si rivelasse terribile, che la vera me fosse un’entità folle e piena di rabbia.
Il Tartaro è uno stato dell’anima, pensai.
 Sarei sprofondata anch’io insieme ai Titani?
Mi parve di chiudere gli occhi solo per un istante, invece mi assopii.
E sognai.
Sognai di riaprire gli occhi nella mia stanza e di scorgere una figura a torso nudo, in piedi accanto alla mia toletta. Grandi ali nere, piumate, emergevano tra le sue scapole, a destra e sinistra del rilievo nodoso della colonna vertebrale.
-Thanatos?-
Il dio non si voltò. Passò una mano aperta sui miei fiori, ancora ordinatamente disposti sul mobile. Fittissime squame da rettile coprivano il dorso delle sue mani e dei suoi avambracci fino ai gomiti.
-…sarebbe più misericordioso.- stava dicendo
Mi levai a sedere sul letto.
-Thanatos…? Che stai facendo? Vattene di qui!-
Il dio si voltò verso di me. Il volto magro era scolpito nel buio: il mento appariva bianco e appuntito, gli zigomi sporgenti come quelli di un teschio. Le labbra sottili si dischiusero.
-Ho detto: non credi sia più misericordioso lasciarli andare?-
Osservai i miei fiori disposti sulla toletta, i gambi recisi ravvivati dalle acque dello Stige, le corolle sfinite.
Mi vidi scendere giù dal letto e piantare i palmi sul petto di Thanatos, spingendolo via con violenza.
Non li toccare! Non osare toccarli! Sono i fiori di Kore e tu non li toccherai!
Artigliai le coperte, e mi accorsi di stare piangendo.
Thanatos mi guardò con aria dolente. Era poco più alto di me, così magro che vedevo sotto la sua pelle la linea dentellata delle sue costole. Gli spazi tra le sue ossa erano scuri, come lividi impressi da dita invisibili.
-Hai paura di me?- mi chiese.
-Tutti hanno paura di te!-
-Sono un dio come gli altri. Nemmeno tra i più potenti.-
-Tu hai un potere terribile, invece! Tu sei il silenzio da cui non si ritorna. Le parole che non potranno più essere dette. I gesti che non verranno mai più compiuti. Tu sei la fine di tutto!-
Sentii il mio petto sollevarsi e abbassarsi in respiri affannosi. Mi resi conto di stare gridando.
Thanatos sollevò tra le mani uno dei miei fiori, la corolla retta tra l’indice e il medio.
-In un ventre di donna, si trovavano due bambini. Uno di loro chiese: “tu credi nella vita dopo la nascita?”. L’altro rispose: “Sciocchezze! Non c’è una vita dopo la nascita… come potrebbe?”- Thanatos fece una pausa. -Io sono… inevitabile. Sono il prezzo che si paga per essere reali. Non ho scelto né il patto né i termini: è così, perché così è. Quando paghi un prezzo elevatissimo per qualcosa che non ha prezzo, hai comunque fatto un affare.-
I petali del fiore si scurirono e avvizzirono, l’ovario si inturgidì. Infine si essiccò e si sbriciolò, liberando nell’aria altri semi.
Spalancai gli occhi di scatto.
Ero nel palazzo di mia madre, adesso: mi trovavo in una sala esagonale, dalle pareti sostituite da ampie finestre piombate.
Un cielo congestionato si accalcava contro i vetri. La luce era opaca, l’aria ispessita: aveva una consistenza oleosa lungo la mia trachea.
Uno scranno nero e ossuto catturò il mio sguardo.
È enorme! pensai. E subito dopo: no, non è enorme: sono io che sono piccina.
Tesi una mano –la manina rosea e paffuta di una bambina. Toccai un bracciolo di ebano ed ebbi la sensazione che qualcosa di immenso si levasse da oscure profondità e si voltasse nella mia direzione
(Chi mi chiama, dopo tanto tempo?)
lasciando vagare lo sguardo
(Sei tu, Estia?)
e posandolo infine su di me.
Mi sentii
(risucchiare)
investire da una sfrigolante onda di potere: la sentii gonfiarsi e crescere sotto le mie dita come una gigantesca bolla nera. Ingoiò la mia mano fino al polso, e poi l'intero braccio.
Caddi.
Caddi attraverso tutti i luoghi dello Spazio e le epoche del Tempo, come attraverso un pavimento sfondato. Caddi attraverso tutte le vite che esistevano e mai sarebbero esistite: vite di umani, di animali, di piante. Le attraversai tutte, senza eccezione.
Quando il Tempo, lo Spazio e le vite si esaurirono, continuai a precipitare nel buio. L’oscurità intorno a me aveva la forma di un pozzo, il pozzo era il centro esatto di una Spirale.
Centinaia, forse migliaia di fanciulle, dee che non erano esattamente me, ma quasi me, si sporgevano dalla Spirale come da una balaustra, guardandomi cadere.
Morirò, pensai.
Forse lo dissi persino.
Quel pensiero mi riempì di costernazione, non per l’ovvia paura che lo accompagnava, ma perché seppi che era vero: io ero una dea, eppure sarei morta, e se anche gli dei potevano… dovevano… morire, se solo la Morte era eterna, allora a cosa valevano tutti i fiori, tutta la bellezza del Mondo? A cosa valeva…
-Smetti di cadere.-
Aprii gli occhi di scatto, anche se non sapevo di averli chiusi: non ci fu alcun impatto, eppure la caduta finì.
Mi domandai se fosse avvenuta davvero o se l’avessi solo immaginata.
-Entrambe le cose, naturalmente.-
Mi guardai intorno, smarrita. Un’oscurità fittissima mi circondava da ogni parte, eppure se abbassavo lo sguardo vedevo le mie manine, le pieghe del mio abito, le punte rosate delle mie dita.
-Dove sei?- chiamai. -Sento la tua voce, ma non riesco a vederti!-
-Sono intorno a te. Mi stai guardando.-
Capii che la voce non apparteneva a qualcuno nascosto nel buio, ma al buio stesso.
Dall’oscurità emerse il volto bianco di un dio. Non sembrava né vecchio né giovane, né brutto né bello, come se quelle categorie non lo riguardassero. Era alto, però: di questo ero sicura. Aveva un naso dritto e sottile e labbra ben disegnate. Il dio aggrottò la fronte in un’espressione severa, o forse solo molto concentrata, e mi guardò da sotto le scurissime ciglia, con occhi simili a gocce di inchiostro.
-Tu non sei Estia.-
-No.- confermai. -E tu, chi sei?-
Esitò un istante.
-Io sono Ade.-
Lo scrutai incuriosita. Allungai una mano e mi accorsi che l’oscurità aveva una consistenza: era spessa e pesante, soffice come velluto. Il dio sollevò un sopracciglio: mi resi conto di stare toccando un lembo del suo mantello, e subito ritrassi la mano.
-Dove siamo?-
-Voi dell’Olimpo lo chiamate Orco o Averno.-
-E tu, invece, come lo chiami?-
-Sottosuolo.-
-È sempre così buio?-
-Sei caduta al lungo. Siamo nel regno dei semi, non in quello dei fiori.-
-Tu vivi qui? Come puoi sopportarlo?-
Il dio sollevò una mano pallida, e un varco si aprì nel buio come una ferita. Oltre i bordi sfrangiati della Porta scorsi la stanza esagonale, i sei scranni, il cielo congestionato che premeva contro le vetrate.
Il dio fece un cenno verso quello scorcio di Mondo.
-Torna a casa, figlia della Superficie: questo non è posto per te.-
-Mi chiamo Kore.- precisai, e non mi mossi.
Ade mi voltò le spalle.
-Torna a casa, oppure rimani, ma lasciami tornare ai miei doveri.-
Mi aggrappai al suo mantello con entrambe le mani, ma lo sentii scivolare da sotto le mie dita come fosse privo di consistenza, fatto di tenebra.
-Aspetta! Non te ne andare!-
-Attenta a quello che dici. Attenta a quello che chiedi.-
-Ade!-
Il suo nome saettò come luce dalle mie labbra e il dio si fermò, raggelato. Si voltò lentamente verso di me, mi guardò come se mi vedesse per la prima volta.
-Sei tu.- disse. Sembrava aver compreso qualcosa e tuttavia stentasse a crederlo possibile. –Sei… tu.-
Sentii il mio cuore accelerare. Lui non era una porta di legno da spalancare. Era un dio, ma anche io ero una dea e volevo dimostrarglielo.
-Io ti chiamo Ade,- dissi sfacciata. -Io ti chiamo dio dell’Averno. Io conosco il tuo nome e lo sto pronunciando!-
Vidi i suoi occhi neri assottigliarsi, il suo volto bianco inclinarsi nel buio mentre mi squadrava.
-Certo,- disse tra sè. -Naturalmente. Avrei dovuto capirlo.-
Puntò un dito sottile contro la mia fronte, esercitandovi una leggera pressione. Il suo tocco era gelido, più forte di quel che mi sarei aspettata, ma anche più gentile.
Lasciò scivolare il polpastrello lungo il dorso del mio naso, e sulle mie labbra. Me lo appoggiò infine sul petto magro, all’altezza del cuore. Poi ritrasse la mano, come se la mia pelle fosse troppo calda per il freddo a cui era abituato e gli avesse bruciato le dita.
-Io ti chiamo Persefone.- disse.-Io ti chiamo figlia di Zeus e Demetra. Anche io conosco il tuo nome, anche io lo sto pronunciando.- Vacillò, come se la portata di ciò che si era compiuto lo avesse sopraffatto. -Torna a casa, adesso. È troppo presto: sei ancora una bambina.-
Aprii la bocca per protestare, ma una risata femminile mi interruppe.
-Ecco dov’eri finito!- Una dea che non conoscevo emerse dall’oscurità, gettando le braccia al collo di Ade. Tutta la tenebra vacillò e tremò, come se lo slancio di quell’abbraccio l’avesse percorsa per intero. Poi la dea abbassò lo sguardo e si accorse della mia presenza.
-Oh… ciao!- Non sembrava davvero sorpresa, solo un po’ impreparata. –Eccoti… eccoci tutti qui. Dove è cominciato. O comincerà.-
Ade le appoggiò le mani sulle spalle, sciogliendosi con delicatezza da suo abbraccio. Guardò me, poi di nuovo la dea.
–Tu lo sapevi?- non capii a chi delle due avesse posto la domanda, ma provai una fitta di gelosia quando fu lei a rispondere, rubandomi la parola.
-Sì, lo sapevo.-
-Non me lo hai mai detto.-
La dea fece spallucce e gli rivolse uno sguardo malizioso, poi si chinò su di me. Mi guardò con tanta dolcezza che arrossii e mi sentii subito in colpa per essere stata gelosa di lei.
-Che cosa è cominciato?- le chiesi.
La dea mi fece cenno di avvicinarmi e sussurrò la risposta al mio orecchio.
La ascoltai attentamente, spalancando gli occhi, sempre più costernata.
-Io non lo sapevo, non lo volevo! È talmente buio, qui! Come posso tornare indietro?-
La dea sorrise, e questo mi diede coraggio. Sembrava così serena… così felice!
-Non si può tornare indietro, piccola Kore: non sullo stesso braccio della Spirale. Però si può andare avanti. Ciò che è oscuro può essere illuminato. Ciò che è nascosto, può essere riportato alla luce. I semi vogliono fiorire. Vedrai.-
-Tu sei così saggia… e così gentile! Chi sei?-
-Saggia… io?- La dea scoppiò a ridere. Raddrizzò la schiena e si accostò ad Ade. Aprì una mano e le sue dita trovarono nel buio quelle del dio senza doverle cercare. –Sì,- ammise.-Immagino di essere diventata almeno un po’ più saggia.-
-Chi sei?- insistetti.
-Sicura di volerlo sapere? Sicura, sicura, sicura?-
Annuii ansiosamente.
-Io sono te.-
-È un indovinello?- mi accigliai.
-No, piccola Kore. È una promessa.-
E mi svegliai.
 
****
 
Prima ancora che Erebo avesse ritirato le sue dita diafane, mi recai nelle stanze di Ade. Il suo letto era rifatto, la stanza perfettamente in ordine, ma lui non c’era. Armandomi di audacia, cominciai a vagare di stanza in stanza.
Lo trovai in una sala che sembrava uno studio, seduto a una scrivania invasa di pergamene. Le pareti erano occupate da scaffali alti fino al soffitto, straripanti di libri. L’unica parete che non occupava ripiani era quella alla sua destra: vi si trovava un piccolo camino sormontato da una gigantesca litografia, raffigurante quello che mi parve in tutto e per tutto un Albero.
Avevo cercato di non fare rumore, ma Ade dovette avvertire la mia presenza.
-Intendi restare sulla soglia? Puoi entrare, se lo desideri.-
Lo disse senza sollevare lo sguardo dai documenti che stava esaminando, in un tono talmente neutro che pensai non gli importasse davvero che cosa avrei fatto.
Entrai nella stanza e mi chiusi la porta alle spalle. Avanzai cautamente, in soggezione.
Dal mio lato della scrivania c’era una piccola poltrona di damasco azzurro. Mi sedetti rigidamente, la schiena dritta e le mani strette in grembo.
-Non avevo mai visto tanti libri tutti in una volta.- buttai un occhio sulle pergamene che invadevano lo scrittoio. -Tu governi l’Averno da qui?-
-Anche.- disse Ade, senza guardarmi.
Iniziavo ad abituarmi alle sue risposte laconiche. In Superficie gli dei e le ninfe parlavano moltissimo, spesso per dire molto poco. Ade esprimeva o sottintendeva almeno il triplo dei concetti, usando appena un terzo delle parole.
-Non sembri sorpreso di vedermi. Ti aspettavi che sarei venuta a cercarti di nuovo?-
-Mi aspettavo che mi avresti sorpreso di nuovo, sebbene non sapessi in che modo.- rispose lui meccanicamente.
-E… capita spesso che qualcuno ti colga di sorpresa?-
-In verità, non capita mai.-
Non preoccuparti, divino Ade: a questo rimediamo subito.
Con il cuore che accelerava, allungai una mano aperta proprio sotto il suo naso, coprendo il foglio che stava leggendo.
Ade mi guardò finalmente in faccia, una scintilla interrogativa negli occhi di ossidiana. Non portava più alcuna fasciatura: sembrava che la ferita fosse già guarita, o comunque molto migliorata. Era pallido, ma non più del solito: la notte di riposo sembrava avergli giovato.
Ed è un bene, pensai serafica. Perché tutti quei sogni mi hanno lasciato delle domande, e ho la ferma intenzione di estorcerti una ad una le risposte, se sarà necessario.
 Gli occhi di Ade si ridussero a due fessure.
-Persefone, che cosa stai macchinando?-
Trassi un profondo respiro, pregando che la voce non mi tremasse.
-Tu hai detto che ti appartengo per volere di mio padre, secondo le leggi della Superficie. Secondo quelle stesse leggi, però, tu potresti rivendicare precisi diritti su di me… cosa che invece hai negato.-
In verità, dovetti concedergli, non aveva solo negato: era parso anche piuttosto offeso.
No, ti sbagli. Non avrei potuto.
Ade si accigliò.
-E dunque?-
-E dunque, siamo nel Sottosuolo, non in Superficie. Qui la sovranità di mio padre non ha valore: non è stato il suo consenso a rendermi tua sposa.-
-Certo che no. Ti ho reclamato come sposa in base alle leggi del mio regno. Sono un re: non accetterei niente di meno.-
Annuii, perché me l’aspettavo.
-Allora, chi ha decretato che io ti appartenga? Ha qualcosa a che fare col nostro vecchio incontro?-
La voce di Ade mi raggelò.
-Quale vecchio incontro?-
Lo guardai confusa. Avevo dato per scontato che solo io avessi dimenticato, e che lui invece ricordasse ogni cosa.
-Avvenne quando ero una bambina.- gli spiegai. –Mi imbattei in una porta sbarrata e la aprii usando parole di cui non conoscevo il significato. Mi ritrovai in una sala con uno scranno. Ce n’erano sei, in verità, ma io ne toccai soltanto uno.- Mi aspettavo che Ade dicesse qualcosa, invece seguitò a fissarmi e tacere. -Ricordo una tenebra fittissima, che si volgeva verso di me. Eri tu, quella tenebra.-
-Suona plausibile, ma non ricordo un incontro del genere.-
-Ma io lo ricordo: adesso ricordo perfettamente! Ricordo che cadevo, e che tu mi salvavi. Tu mi dicevi...-
Ade protese una mano sopra lo scrittoio e mi premette due dita contro le labbra.
-Non ricordo questo incontro. Non ero… io.-
Il suo tono precipitoso creava un netto contrasto con la sua espressione posata.
-Mi stai dicendo la verità?- domandai delusa.
-Te l'ho detto: non mento mai.-
-Eppure non sembri nemmeno sorpreso. Non mi stai dicendo tutto... vero?-
Ade non mi rispose.
-Che cosa intendevi, allora, quando hai detto che ti appartengo?-
Il dio scrollò le spalle.
-E’ nella natura del Mondo, che il Sottosuolo abbia una regina al pari del Mare e della Superficie.-
-Ho capito, ma perché tra le figlie di Zeus hai scelto proprio me?-
-Io ti ho reclamata. Non ho mai detto di averti scelta.-
Strinsi i pugni sotto la scrivania e mi protesi verso di lui.
-Chi mi ha scelta come tua sposa e regina, allora? È stato il Fato? Il Destino?-
-Queste domande non hanno senso.- scandì Ade in un sussurro incolore.
Rimanemmo a fissarci negli occhi per qualche istante. Infine mi abbandonai con la schiena contro la spalliera.
-Dimmi almeno una cosa: perché dei tre regni hai scelto l’Averno?-
-Non l’ho scelto. Non nel senso che intendi tu.-
-È  un’altra delle cose che ti sei limitato a reclamare senza sapere perché?-
Ade si protese verso di me, la voce vellutata e tagliente.
-Il fatto che tu non ne capisca il motivo, non significa che esso non esista. E non significa nemmeno che io non lo conosca.-
Mi nascosi il viso tra le mani.
-Voglio tornare indietro!-
-Non è possibile.- disse Ade laconico.
Sollevai lo sguardo dalle mie mani.
-Però… si può andare avanti.- recitai senza troppa convinzione.
Gli occhi del dio si socchiusero, riducendosi a due fessure color selce.
-Sei una creatura singolare, dolce Persefone.-
Senti chi parla, pensai. Solo un istante dopo mi venne il dubbio di avergli appena strappato un complimento.
-Dunque, io non ti ho scelto, né tu hai scelto me. Eppure siamo sposo e sposa.-
-È così,- annuì Ade. -Perché così è.-
Riflettei un istante, scoraggiata.
Se nemmeno lui possiede le risposte che cerco, che cosa posso fare?
La risposta mi balenò in mente, talmente ovvia che per la sorpresa persi un battito di cuore. Afferrai il bordo dello scrittoio, faticando a trattenere un tremito di eccitazione.
-Ade, ho bisogno di incontrare Oniro!-
Il dio sollevò uno scuro sopracciglio.
-Il Sogno è pazzo, ma se questo non ti turba sei ovviamente libera di andare a trovarlo.-
Lo guardai sgranando gli occhi.
-Stai dicendo che ho il tuo permesso?-
La mia domanda parve esasperarlo.
-Sto dicendo che sei la regina: non hai bisogno del permesso di nessuno.-
Lo fissai inebetita.
-Quindi nessuno mi sorveglierà? Nessuno controllerà che io non tenti di fuggire?-
Ade scrollò le spalle, come si trattasse di domande che non meritavano risposta.
Aveva nuovamente abbassato lo sguardo sul suo lavoro, e non ebbi il coraggio di infastidirlo oltre.
Rimasi per qualche minuto a fissarlo, il capo ricciuto chino sui fogli, il profilo aristocratico e impassibile, le sopracciglia leggermente aggrottate. Lo vidi intingere la piuma d’oca nel calamaio e tracciare sulla pergamena linee eleganti e precise.
In silenzio per non disturbare, mi alzai in piedi e indietreggiai fino alla porta.
-Persefone.-
Quando la sua voce mi raggiunse, avevo già una mano sulla maniglia. Mi voltai lentamente.
Mi stava guardando, e per un attimo ebbi un tuffo al cuore perché lo riconobbi: riconobbi l’altro Ade, quello che fissava innamorato la dea del mio sogno. Poi il dio aprì bocca, e l’illusione svanì come non ci fosse mai stata.
-Puoi andare dove vuoi, ma ti ricordo che non puoi garantire la tua sicurezza se lasci i Campi Elisi. E che, se non sono presente, non posso garantirla nemmeno io.-
-Grazie per avermelo ricordato,- sibilai con un inchino zuccheroso.
-Dovere.- replicò Ade, pacato.
Uscii dallo studio e mi chiusi la porta alle spalle. Poi ruotai su me stessa e gli feci una linguaccia, infantile ma liberatoria.
-Alifto.- sussurrai. -Ci sei?-
Una luce azzurrina divampò alle mie spalle, rendendo più scura la mia ombra contro la parete.
Mi voltai, incontrando il volto diviso dell’Empusa.
Sogno, pensai. Arriviamo!
La ninfa chiuse la mano sana sulla mia, e insieme ci lanciammo in corsa lungo il corridoio.
 
****
 
Chiedo scusa per il ritardo, anche se ormai sarete abituati alla mia puntualità non proprio svizzera!
Piccole note di cui non si sentiva il bisogno:
_Ringrazio tutti tuttissimi per i commenti e gli incoraggiamenti: mi sono stati di grande conforto mentre mi fumavano le orecchie e meditavo di cancellare tutto per scrivere solo drabble PWP!!!
_Angolino “date a Cesare quel che è di Cesare”: le parole che Thanatos rivolge a Persefone riecheggiano sia un post che gira su FB, sia una frase che torna spesso in alcuni articoli di Silvana De Mari. Si tratta di due riflessioni che mi hanno molto toccato, sia pure in modo diverso, e che ben rispecchiano la mia idea del personaggio.
_Piccola nota a parte per i miei lettori di Labyrinth: ho inserito un piccolo easter egg per voi, spero lo abbiate riconosciuto e gradito.
_Ultimo ma non ultimo: un grazie grosso così a Viola, che si è beccata i miei skleri, un capitolo sbagliato e pure un mega spoiler del tutto involontario.
Un abbraccio a tutti,
S.

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Capitolo 11
*** Il Sogno, il Labirinto, il Bambino Bianco ***


“Sogno colleziona nomi come altri collezionano amici, ma si concede pochi amici"
Sandman, Neil Gaiman
 
 
Ormai sto disegnando
mentre racconto ciò 
che raccontando si profila.
E' come se una nube
arrivasse ad avere
forma di nube.

Valerio Magrelli, Da Ora serrata retinae
 
-Prendi le mie mani,- disse Alifto. -E non lasciarle.-
Le obbedii.
Fiamme azzurre divamparono dall’orlo della sua veste e ci avvolsero entrambe. Il fuoco non emanava calore, ma la sua luminosità mi costrinse a serrare le palpebre. Quando riaprii gli occhi, Alifto e io ci trovavamo sul fianco erboso di una collina, sotto la luce slavata di uno sterminato cielo vuoto.
L’erba sotto i nostri piedi era di un verde talmente carico da virare a tratti verso il blu, a tratti verso il turchese. Era tenera sotto le mie dita, ma odorava di polvere. Lasciai le mani di Alifto e ruotai lentamente su me stessa, i capelli e la veste gonfiati da una brezza gentile.
Il castello di Ade non si scorgeva da nessuna parte; anche il lago del Cocito era sparito. Diversi metri sopra di noi, il prato lasciava il posto ad arbusti sempre più fitti, fino a diventare un vero e proprio bosco che si estendeva sulla sommità della collina.
Ninfe avernali si protendevano timidamente dai pallidi tronchi degli alberi: la loro pelle era chiara, addirittura bluastra, i capelli fluenti e scuri come quelli di Minta. I loro occhi, grandi e sporgenti, sembravano papaveri in fiore: la sclera di un rosso vivace conteneva un’iride nera, che si chiudeva su una pupilla puntiforme, colore dell’oro.
Non appena mi voltai nella loro direzione, le ninfe sparirono nel tronco degli alberi: ai loro occhi terrificanti, io ero una creatura aliena e spaventosa!
Sotto di noi, il pendio erboso digradava dolcemente verso valle. In quella  conca, circondata dalle colline circostanti come da alte mura, si adagiava la città più strana che avessi mai visto. Da quella distanza le sue strade apparivano tortuose, delimitate ora da pareti di roccia, ora da grovigli di siepi. I viali si intrecciavano come serpenti, si diramavano in viuzze intricate, che spesso finivano in vicoli ciechi.
Al centro esatto della città, sorgeva un castello.
La voce di Alifto mi raggiunse da tergo e io trasalii: mi ero dimenticata di lei.
-Siamo nel punto più vicino alla Superficie di tutti i Campi Elisi. Quello che hai davanti è il regno e la dimora del Sogno.-
-Oniro vive… in un labirinto?- Non riuscivo a staccare gli occhi dal castello. Guardando i suoi angoli impossibili e le sue strane propaggini, mi rendevo conto che quella costruzione non avrebbe dovuto restare in piedi. –Come arriveremo al centro?-
-Come tutti: un passo alla volta.-
Alifto mi oltrepassò, incamminandosi lungo il pendio. Dopo un istante di esitazione, le corsi dietro.
-Dobbiamo annunciare la nostra presenza?-
-Oniro sa che stiamo arrivando. Non è stato lui stesso a suggerirti di cercarlo?-
Ripensai ai miei sogni degli ultimi tempi: visioni oscure e vischiose che mi restavano attaccate addosso ben oltre il risveglio.
-Credo di sì.- ammisi. –Eppure, Oniro e io non ci conosciamo.-
-Pochi lo conoscono: Il Sogno visita i mortali, piuttosto che gli altri dei. Purtroppo per lui, l’amore tra mortali e dei non va mai a finire bene.-
Mi voltai di scatto, sorpresa.
-Mi stai dicendo che Oniro ama una mortale?-
Di fianco a me, Alifto mi offriva il suo profilo integro.
-Il Sogno ha molti Aspetti, quasi quanti ne ha il Sottosuolo. Uno di questi Aspetti ama una mortale, sì.- Mi parve sul punto di aggiungere qualcosa, invece disse soltanto: -Siamo arrivati.-
Le mura del Labirinto non sembravano costruite di mattoni, ma ricavate da immensi lastroni di roccia sorti direttamente dalla terra, inframmezzati da altissimi obelischi.
Dinanzi alle porte, un bambino di pochi anni si dondolava sui talloni, aspettando qualcuno. Aveva una carnagione color del latte e capelli ondulati dello stesso colore. Indossava una maglia troppo grande per lui, e pantaloni di un azzurro stinto, sdruciti, di un tessuto robusto che non avevo mai visto. Non appena ci vide arrivare, il bambino si sollevò sulle punte dei piedi nudi e agitò le braccia in ampi gesti di saluto.
-Eccovi! Da questa parte! Siete arrivate, finalmente!-
Man mano che ci avvicinammo, potei osservarlo meglio: sembrava umano, gli diedi cinque, forse sei anni. Al suo sorriso radioso mancavano gli incisivi superiori, che stavano ancora ricrescendo, eppure qualcosa nei suoi occhi verdissimi mi diede l’impressione che fosse più vecchio di quel che sembrava.
Alifto lo salutò con un cenno del capo.
- Sei molto cambiato: quasi non ti riconoscevo. È cambiato anche il tuo nome?-
-Certo!- Il bimbo spinse in fuori il petto in un’espressione di puro orgoglio. -Ora sono Il Bambino Bianco!-
-Mi sembra un buon nome.- approvò l’Empusa. -È stato il tuo re a mandarti?-
Il bimbo annuì, poi posò su di me gli occhi verdissimi.
-Signora, lui ti sta aspettando!-
-Allora guidaci,- gli sorrisi.
Il Bambino Bianco guardò Alifto con evidente imbarazzo. L’Empusa intese al volo il messaggio: ebbe un sorrisetto sarcastico e si sedette su una roccia.
-Andate pure, io aspetto qui.-
Il Bambino Bianco si intrufolò attraverso le porte, io invece mi attardai ad ammirarle: erano coperte di rampicanti fioriti: i primi fiori che vedevo, da quando avevo messo piede nel Sottosuolo!
Quando varcai l’ingresso del Dedalo, mi ritrovai in uno stretto corridoio di pietra che sembrava correre dritto sia alla mia destra che alla mia sinistra. Il piccolo umano sembrava sparito.
-Dove sei? Non ti vedo! Devo percorrere tutto il Labirinto? Ci vorranno ore!-
-Oh, no: non tu! Il Labirinto…- la voce del bambino proveniva dalla mia destra, così mi voltai in quella direzione. La voce si assottigliò fino a svanire, per poi ricomparire più squillante di prima, esattamente alle mie spalle -…gli umani!-
Mi voltai trasalendo, incontrando gli occhi ridenti del piccolo accompagnatore.
Aveva detto “il Labirinto è per gli umani”? O “degli” umani?
Non ero certa di volerlo sapere.
Il Bambino Bianco mi prese per un polso e mi strattonò dentro un muro con forza insospettabile. La parete ci inghiottì senza opporre resistenza, come non fosse reale. Sbucammo in una stradina lastricata di ciottoli, nel cuore di una cittadella.
-Seguimi!- trillò il Bambino Bianco, sparendo nell’ombra di un vicolo. Mi affrettai a obbedire, cercando di non perderlo nuovamente di vista. Mi guidò attraverso vie strette e tortuose, su cui si affacciavano basse case di pietra.
Le porticine dipinte di nero si dischiudevano al mio passaggio e piccole creature sbirciavano fuori: avevano arti sottili come ramoscelli; sul collo, al posto della testa, scintillava un nucleo di luce vivida, ma vuota.
Per quel che vedevo, quelle creature non avevano occhi né bocca, eppure sentivo addosso i loro sguardi, nella testa il vociare dei loro bisbigli.
-Cosa sono?- ansimai. Il Bambino Bianco era più veloce di quel che sembrava, e faticavo non poco a stargli dietro.
-Sono i sognatori che si sono smarriti! Il Labirinto è un luogo di passaggio: esiste per essere attraversato. Chi si smarrisce per le sue strade, diventa così!-
-Quindi quelli sono esseri umani?-
-Quel che ne resta,- rise il Bambino Bianco. -Quel che ne resta!-
Eravamo finalmente giunti al castello. Il ponte levatoio era abbassato, la saracinesca alzata. Imboccai la strada senza pensarci due volte: solo quando l’oscurità dell’ingresso mi inghiottì mi resi conto di essere sola. Mi voltai indietro, verso la pallida luce del giorno.
-Non mi accompagni?-
Dall’altra parte del ponte levatoio, Il Bambino Bianco mi sorrise senza schiudere le labbra.
-Lui ti aspetta, ma io devo fermarmi qui. Lui non gradirebbe se entrassi fin dentro il Castello.-
-Perché? Che cosa gli hai fatto?-
Il bambino chinò il capo, evitando il mio sguardo. Una ruga di concentrazione comparve tra le pallide sopracciglia, come se lui stesso faticasse a ricordare.
-Una volta, quando ero un altro me stesso e avevo un altro nome, io l’ho ucciso. Voglio dire: ho ucciso un Aspetto di lui.-
Per un istante, sotto le sue ciglia slavate, mi parve di scorgere un’oscurità senza fondo.
-Oniro non si è vendicato? Non ti ha esiliato?-
Il bambino sollevò lo sguardo di scatto.
-Oh, no: no davvero! Io sono un Aspetto della donna che ama!-
I suoi occhi erano di nuovo verdi, verdissimi. Non c’era traccia di tenebra in lui: l’avevo solo immaginata?
Avrei voluto chiedergli di raccontarmi meglio la sua storia, ma non feci in tempo.
La saracinesca del castello si abbassò sferragliando e la realtà si sgretolò intorno a me, tagliando fuori tutto il resto.
 
§§§§
 
In quelle stesse ore, mentre io mi spingevo fino all’estremo confine dei Campi Elisi e penetravo nel cuore del Labirinto per incontrare Il Sogno, altri intorno a me vivevano la loro storia, contribuendo ciascuno a tracciare la fisionomia del Mondo.
Mi riferisco a Leucippe, che si rannicchiava sotto il suo albero implorando pietà, chè non era colpa sua se qualcuno mi aveva presa, chè lei non era presente e non mi aveva mai persa di vista quando era con me. Nei miei incubi riesco a vederla mentre l’ombra di mia madre si allunga su di lei e le sue belle gambe si saldano sotto la veste in un’unica coda, coprendosi infine di fittissime squame. Odo le sue grida di orrore crescere sempre più acute, e infine spegnersi in un pianto roco e disperato mentre viene strappata al suo frutteto e scaraventata in mare in forma di sirena.
Mi riferisco a mia madre, fuori di sé per l’angoscia, che lasciava il nostro giardino e vagava sotto il cielo azzurro della Sicilia chiamando il mio nome, il volto rigato di lacrime e le gonne sempre più lacere ad ogni passo.
Mi riferisco a Zeus, che dall’alto dell’Olimpo si tormentava in silenzio la barba, chiedendosi come spiegarle e quali parole usare.
Mi riferisco a Minta, troppo orgogliosa per piangere, che rifaceva con rabbia il mio letto e alla fine, al colmo della frustrazione, scagliava il mio cuscino contro il muro e lo sventrava.
Soprattutto, mi riferisco ad Ade. Il dio passò tutto il giorno barricato nel proprio studio consultando uno dopo l’altro decine di libri, sfogliandoli con un cipiglio sempre più cupo e occhi sempre più inquieti, mentre, fuori dalla porta, Ipno scambiava brevi sguardi con l’impassibile Thanatos, senza che nessuno dei due osasse bussare.
-Non troverai lì ciò che cerchi!- proruppe Ecate spalancando le vetrate e facendo praticamente irruzione nello studio.
-Grazie per questo illuminato parere,- sussurrò Ade. Con una mano a sostenere il mento e l’altra a sfiorare la pagina, non si lasciò distogliere dal volume che stava consultando. –La prossima volta che decidi di venirmi a trovare, sentiti libera di entrare dalla porta.-
Ecate gli scoccò un’occhiata di fuoco… che andò sprecata, visto che il dio non la stava guardando.
-Questa non è una visita di cortesia, fratello. Arrivo dalla Superficie: lì sopra sta succedendo qualcosa che riguarda anche te!-
Ade agitò due pallide dita in un gesto vago.
-Provo a indovinare: Demetra si è accorta che sua figlia è sparita.-
Ecate si fermò dalla parte opposta della scrivania e premette i palmi sul piano di legno.
-Questo non ti preoccupa? Non ti domandi come reagirà?-
-So esattamente come reagirà Demetra.- rispose Ade voltando pagina.
-Adesso Vedi il futuro?-
-Io non Vedo: io osservo e, soprattutto, ragiono. È molto diverso.- Ade chiuse con uno scatto secco il libro che aveva in mano, poi lo adagiò sul pavimento assieme agli altri. Solo allora poggiò i gomiti sulla scrivania e chiuse i pugni uno dentro l’altro, a sostenere il mento. Guardò Ecate negli occhi. – Demetra cercherà Persefone per tutta la Superficie, come farebbe qualsiasi madre. E, poiché la cerca in Superficie, non la troverà.-
-E in tutto il tuo estenuante osservare e ragionare, non ti è passato per la mente di dirle che hai reclamato in sposa sua figlia?-
Il dio si accigliò.
-Ho già informato Zeus, secondo le leggi della Superficie. Quanto al resto, mi costringi a far presente che ciò che accade lì sopra non è di mia pertinenza.-
Ecate si protese sul piano della scrivania.
- Ti dico cosa Vedo io, invece: ogni azione compiuta in Superficie ha delle conseguenze, e le tue azioni non fanno eccezione. Demetra invoca il nome della figlia come una domanda: calca le strade della Superficie in cerca di risposte, e non si fermerà finchè non le avrà trovate. Il Mondo non può, per sua stessa natura, rimanere sordo a una ricerca condotta con simile urgenza.-
Gli occhi felini di Ade si ridussero a due fessure color selce.
-Stai parlando del Mondo, Ecate? O stai parlando di te?-
Un lampo di autentico dolore attraversò lo sguardo orgoglioso della dea.
-Io sono tutti i bivi, tutte le soglie, tutte le strade buie in cui ci si avventura con le mani tremanti e il cuore in gola, guidati dall’urgenza di una domanda.-
-So perfettamente chi e cosa sei, sorella: ci sono io, in fondo a quelle strade e oltre quelle soglie!-
-Allora capisci che agirò secondo la mia natura.- Non fosse stato per il portamento orgoglioso e lo sguardo fiero, la risposta della dea sarebbe suonata implorante.
Ade masticò con cura le parole, prima di pronunciarle tra i denti.
-Sta bene, sorella. Anche io agisco secondo la mia.-
 
§§§§

Quando la realtà intorno a me smise di incresparsi come acqua e si ricompose, mi trovavo in una sala senza eguali. Scale di pietra sfidavano il vuoto inclinate in angoli assurdi: talvolta conducevano a piattaforme  sospese nel nulla, talvolta si congiungevano ad altre scale che risalivano o scendevano in direzione opposta, talvolta si interrompevano a metà, sullo strapiombo di cui non vedevo la fine. Magnifici archi sorgevano talvolta dai piazzali, talvolta dall’incontro di due scale sospese, talvolta addirittura dalle pareti, dando l’impressione che i muri fossero pavimenti con un’inclinazione sbagliata, e che il pavimento su cui poggiavo i piedi fosse, a sua volta, la parete portante di qualcosa.
Provai a far spaziare lo sguardo e ad abbracciare la sala tutta insieme: la testa cominciò girare nello sforzo di dare una logica a quegli angoli incoerenti e a quelle scale senza uscita.
Indietreggiai per allontanarmi dal bordo, ma la piattaforma si rivelò meno profonda di quel che pensavo, e i miei talloni incontrarono il vuoto.
Per un istante rimasi sospesa sull’orlo del precipizio, agitando le braccia per non cadere all’indietro. Persi comunque l’equilibrio e…
Qualcuno alle mie spalle mi strattonò per la veste.
Serrai gli occhi e gridai, ma, invece di cadere nel vuoto, mi ritrovai ancora in piedi. Sbattei le palpebre, sconvolta: avevo effettivamente oltrepassato il bordo ma, invece di cadere, mi trovavo in piedi sulla faccia inferiore della piattaforma, quella rivolta allo strapiombo.
Mi voltai tremando, e mi trovai a fissare un viso spigoloso e due occhi spaiati: uno azzurro come il cielo estivo, l’altro grigio come un freddo crepuscolo invernale.
-Ma… ma siamo a testa in giù!- balbettai.
-Ma davvero?- Il dio gettò indietro i capelli biondi e arruffati e mi lanciò un’occhiata sprezzante. -Magari lo eri prima, a testa in giù, e adesso sei diritta. Ci hai pensato?-
Non riuscii a capire se fosse divertito o irritato dalla mia ottusità. Il dio si premette una mano guantata sopra il giustacuore e mi rivolse un impeccabile inchino.
-Piacere di rivederti, Signora. Ti aspettavo.-
La sua voce era roca e suadente, così piacevole da mandarmi piccoli brividi lungo la schiena.
-Tu sei lui, vero? Sei il Sogno!- Il dio sorrise, chiaramente compiaciuto di essere stato riconosciuto. -Io ti conosco,- balbettai, cercando di difendermi dal turbamento che mi causava. –Ma noi due non ci siamo mai incontrati!-
-Non in questo Aspetto,- concesse Oniro, passandomi accanto.- Tuttavia, la nostra è la più antica delle amicizie.-
Aveva parlato in tono piacevole, eppure intuii che la mia vicinanza lo innervosiva.
Ebbi paura della sua paura. Perchè mai qualcuno avrebbe dovuto temermi?
Cosa vedeva, quel dio, quando posava su di me i suoi occhi spaiati?
Quali Aspetti dissonanti coglieva in me, che io stessa non conoscevo?
Dopo qualche passo, il Sogno sparì sotto un arco. Mi affrettai a seguirlo, ma mi ritrovai di fronte un altro strapiombo (o era lo stesso strapiombo di prima, ma capovolto?)
Con estrema cautela mi sporsi oltre il bordo, cercando di scorgere la punta dei suoi stivali.
-Quello che mi hai mostrato nei sogni… L’incontro con Ade, la caduta, le Parche… era reale?-
La voce graffiante di Oniro risuonò intorno a me senza una direzione.
-Definisci “reale”.-
Mi raddrizzai e mi guardai intorno. Il dio era sul lato opposto della sala, sotto un arco perpendicolare, in linea d’aria, a quello sotto cui mi trovavo. Non avevo idea di come ci fosse arrivato e il solo pensarci mi faceva venire le vertigini.
-Voglio dire, -annaspai- Ciò che mi hai mostrato è accaduto davvero? Io ho davvero incontrato Ade, in passato?-
Il Sogno stava scendendo una rampa di scale.
-Ciò che esiste in Superficie proietta un’ombra qui nel Sottosuolo. E ogni ombra, qui nel Sottosuolo, presuppone in Superficie qualcosa che la proietti. Come sopra così sotto. Come in alto così in basso. Come dentro così fuori. Tutto è reale. Ma se sia già accaduto o debba ancora accadere… o entrambe le cose insieme… è impossibile dirlo.-
All’ultimo gradino, la scala di pietra si interruppe nel vuoto. Oniro fece un passo più lungo e si ritrovò a percorrerla a testa in giù, nella direzione opposta.
Eravamo lontani adesso, ma potevo distinguere il pallore dei suoi zigomi, la sua espressione altera.
-Perchè Ade mi ha reclamata?- domandai.
-Non poteva non farlo!-
Una sensazione sgradevole mi punse tra le costole: somigliava molto alla delusione.
-Allora lo ha fatto solo perché è stato costretto?-
Oniro ebbe una risata sprezzante.
-Niente potrebbe costringere Ade a fare qualcosa, se in primo luogo lui non lo volesse!-
Mi sentii frustrata come quando avevo parlato con Ade: sembrava che io e loro parlassimo lingue differenti!
-“Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere”- tentai ancora.-Fin da bambina conosco questa formula: chi me l’ha rivelata?-
-Tu l’hai rivelata a te stessa. O la rivelerai.-
-Quello che dici non ha senso!- sbottai, picchiando un piede a terra.
-Ah, non ha senso?- Oniro sparì dietro una curva, ricomparendo su una piattaforma pochi metri sopra di me. Si puntellò le mani sui fianchi, sporgendosi con aria di sfida. – Le risposte che ottieni non hanno senso, perchè le tue domande sono sbagliate! Passato! Presente! Futuro! Causa ed effetto! Sono Aspetti della Superficie. Tu cerchi di applicarli all’Averno, ma non puoi: il Sottosuolo ha leggi diverse, sebbene altrettanto rigorose!-
-Allora spiegami! Quali sono le leggi del Sottosuolo?-
Il Sogno spiccò un salto dalla piattaforma, atterrando in piedi davanti  a me.
-Tanto per cominciare, non è il Sottosuolo fuori di te: sei tu dentro di lui- disse, e capii che lottava con se stesso per evitare di indietreggiare.
-Cos’altro puoi dirmi?- lo incalzai.
- Nel Sottosuolo, ogni evento si propaga in tutte le direzioni, come i cerchi dell’acqua quando ci butti dentro un sasso. Per questo motivo non esiste alcuna barriera tra ciò che accadrà e ciò che è già accaduto... e viceversa. Nulla si cancella, ma tutto ritorna e, tornando, si riscrive, fino a diventare ciò che è sempre stato. Gli eventi non corrono in un’unica direzione: si avvolgono su loro stessi e disegnano… -
-…una Spirale.- Pensai al mio sogno, alle figure che non erano esattamente me, ma quasi me, e mi osservavano cadere. –Ma se qui non esistono barriere tra passato, presente e futuro… se persino i concetti di causa ed effetto sono così labili, su cosa posso contare?-
-Su te stessa!- sibilò Oniro, al limite della pazienza.
Lo guardai stranita, come se mi avesse schiaffeggiata. Provavo un senso di vertigine, come se il Mondo si fosse capovolto.
Magari lo eri prima, a testa in giù, e adesso sei diritta. Ci hai pensato?
-“Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere”. Che cosa significa questa frase?-
Oniro arricciò le labbra, mostrando denti piccoli e regolari, incredibilmente appuntiti.
-Non avrai una risposta da me! Non adesso, non qui dentro. Lo saprai quando lo saprai!-
Si ritrasse, come se volesse fuggire ma non osasse, o come se il mio sguardo lo inchiodasse al suolo.
-Mostrami le mani.- gli dissi in un soffio.
Il Sogno sollevò il mento e divenne, se possibile, ancora più pallido. Con oltraggiata lentezza si sfilò prima un guanto, poi l’altro. Li serrò per un istante nel pugno, poi aprì le dita e li lasciò cadere sul pavimento di pietra della piattaforma. Mi mostrò le mani: aveva un verme tatuato su un palmo, una stella tatuata sull’altro.
-Se la Signora ha visto abbastanza, chiedo il permesso di rivestirmi!-
Mi umettai le labbra, improvvisamente aride.
-Accordato.-
Con gesti pieni di dignità, Il Sogno si chinò a raccogliere i guanti e li indossò.
-Non hai motivo di temermi,- gli dissi. –Non ti farei mai del male. Non farei mai del male a nessuno!-
Oniro mi lanciò un’occhiata obliqua.
-Solo uno sciocco non temerebbe la Signora del Sottosuolo. E a detta di molti io sono pazzo, ma di sicuro non sono sciocco!-
Tu non sei pazzo, avrei voluto dirgli. Sei solo Diviso!
Ma sentivo che il dio degli incanti e delle illusioni non avrebbe tollerato di essere compreso tanto a fondo.
-Mi sdebiterò per l’aiuto che mi hai dato,- gli promisi con calore.
Oniro si inchinò, il volto composto in un’espressione indecifrabile.
-Tu mi hai già aiutato una volta, Signora. Sono io, oggi, che mi sto sdebitando.-
 
§§§§
 
Quando rimisi piede nel palazzo di Ade, era ormai pomeriggio inoltrato.
La luce azzurra di Alifto mi riportò indietro, poi l’Empusa sparì alle mie spalle senza proferir parola, lasciandomi nel corridoio buio.
Non ebbi il tempo di abituarmi alla mancanza di luce, che dita sottili si chiusero attorno al mio polso, strattonandomi senza garbo.
-Ti sembra ora di ritornare?-
Riconobbi la voce di Minta prima ancora di mettere a fuoco il suo viso contro il mio. I suoi occhi erano grandi e scuri come pozzi di tenebra, le sopracciglia aggrottate per il disappunto.
-Non mi ero resa conto di aver fatto così tardi,- balbettai. -Sono stata nel Labirinto di Sogno, e lì il tempo…-
-Certo, certo!- Minta dissipò le mie parole con un cenno della mano e mi trascinò verso la mia stanza. –Ma adesso sbrigati!-
La seguii incespicando, mentre i miei occhi si abituavano all’oscurità.
-Mi dispiace averti fatto preoccupare, ma avevo il benestare di Ade!-
La ninfa mi afferrò per le spalle e mi schiacciò la schiena contro la parete, inchiodandomi al muro. Tese una mano pallida, indicando il fondo del corridoio.
–Io non mi preoccupo affatto: non sono tua madre! Ma tra un’ora il mio signore si aspetta che tu scenda da quelle scale per cenare con lui, e quindi prendere possesso dei vostri appartamenti nuziali.-
Sbattei le palpebre, attonita.
-Prendere possesso…?-
Minta ebbe una risata cattiva.
-Guardati! Non sai nemmeno di cosa sto parlando, non è vero?-
-Mi aveva detto che non avrebbe aspettato, ma…-
-“Ma” cosa? Siete sposo e sposa: pensavi avesse cambiato idea? Lui?-
Osservai il bel viso di Minta, chino a un centimetro dal mio, sfigurato dal disprezzo che provava nei miei confronti.
Ti odio, pensai con semplicità, finalmente senza sentirmi in colpa. Ti odio!
In un angolo remoto della mia mente, immaginai una risata bassa e roca vibrare sulle spalle di Ade.
A quanto pare, Persefone, non sei poi così docile come ami pensare!
Ebbi un brivido di calore all’idea che la sua voce risuonasse così intima dentro la mia testa, mi fosse entrata già così profondamente sotto la pelle.
Lasciai che Minta mi accompagnasse nella mia stanza. Lasciai che mi svestisse e mi lavasse, che mi ungesse il corpo con oli profumati. Scelsi dall’armadio la veste più bianca che c’era e mi lasciai rivestire e colorare di carminio le labbra.
Nello spazzolarmi i capelli, Minta tirò un po’ troppo forte: non dubitai che lo facesse apposta, ma finsi di non notarlo.
Quando fece per raccogliermi la chioma sopra la nuca, sollevai una mano e la fermai.
Guardai il mio riflesso nello specchio.
Alla luce delle candele, la mia pelle conservava la sfumatura dorata che Helios le aveva conferito, ma le mie pupille erano così dilatate che i miei occhi sembravano più vicini al nero che al castano. I capelli mi ricadevano lucenti ai lati del viso, si inanellavano sul seno e lungo le spalle in onde compatte di oro purissimo.
-Sono pronta per Ade.- dissi.
-I tuoi capelli…- protestò Minta con una smorfia. -Non indossi un gioiello… nemmeno delle scarpe! Sei impresentabile!-
-Anche la mia ancella, in Superficie, direbbe lo stesso.- Tirai leggermente in su l’orlo dell’abito, fino a scoprire le punte rosa dei miei piedi. Un sorriso mi distese le labbra e un tenue rossore addolcì la linea dei miei zigomi. –Non temere: Ade non ne sarà deluso. Sa esattamente chi ha reclamato in moglie: finalmente comincio a capirlo.-
Minta mi fulminò con un’occhiata velenosa, che mi scrollai di dosso con un’alzata di spalle.
Mi posai una mano sul petto e sentii il mio cuore martellare furioso.
Calmati, pensai, distendendo le dita come se potessi accarezzarlo.
Uscii nella tenebra del corridoio e mi incamminai.
Mentre avanzavo, lo sentii: ero me stessa, ma non solo me stessa. Ero anche la Kore bambina che apriva una porta di quercia e la spalancava sul proprio destino. Ero la Persefone donna che mi aveva parlato da non so quale futuro, sussurrandomi all’orecchio una promessa.
Ero tutte le vite che avevo attraversato cadendo lungo la Spirale; ero tutte le storie in cui qualcuno veniva strappato alla luce del Sole e si inoltrava in un buio come questo, cercando a tentoni la strada.
In questo istante, io sono tutte loro. E tutte loro –dovunque si trovino, in qualunque epoca si trovino, qualunque sia il loro sesso o il loro nome- quando giungono a questo istante sono me.
Sfiorai con la punta delle dita i marmi scuri delle pareti. Sentii contro la pianta del piede il freddo levigato del pavimento.
Non è il Sottosuolo fuori di te. Sei tu dentro di lui.
Tutto ciò che fino ad allora mi era sembrato estraneo e distante, all’improvviso era reale e io ne facevo parte. Sentii i marmi tricromi del palazzo e il riflesso azzurrino delle fiaccole.
Fui gli affreschi sui soffitti e le ombre intorno a me che mi guardavano passare.
Fino ad allora i corridoi del castello mi erano sembrati grandi, silenziosi e vuoti: adesso mi rendevo conto che c’erano dei servitori –c’erano sempre stati, come in qualunque altro palazzo!- sebbene fossero incredibilmente silenziosi.
Sentii su di me i loro occhi d’argento, e per la prima volta anche io li guardai, salutandoli uno per uno con un cenno del capo.
-Bentrovati.- sussurrai. - Bentrovati a tutti.-
Al mio passaggio abbassavano il capo, eseguendo profondi, rispettosi inchini. Sentivo i loro bisbigli accompagnare i miei passi e lambire le mie caviglie.
È la nostra Regina!
È la nostra Signora!
Benvenuta, Regina!
Bentornata, Signora!
Ti stavamo aspettando!
Sempre ti abbiamo aspettato!
In Superficie, i loro volti cadenti e i loro artigli affilati sarebbero parsi mostruosi, ma quegli esseri non erano abitanti della Superficie!
Il Sottosuolo ha leggi diverse.
Giunsi alla sommità delle scale, e lì mi fermai. Nello stesso istante in cui lo cercai con lo sguardo, Ade emerse dall’ombra che mi stava di fronte.
I capelli ondulati gli sfioravano le guance; le ciglia abbassate tracciavano scuri arabeschi sulla linea regolare dei suoi zigomi. Le sue labbra sembravano fredde e immobili come quelle di una statua, ma quando le dischiuse ricordai quanto fossero state, invece, esigenti e morbide contro la mia bocca.
Il volto del dio era bianco, la pelle diafana come la mia veste. La sua giacca era nera, chiusa da alamari d’argento; il colletto e i polsini erano tempestati di gemme. Abbassai lo sguardo sulle sue mani affusolate e notai che Ade portava anelli alle dita. Ebbi l’impressione che li avesse sempre indossati in mia presenza, ma che solo adesso fossi divenuta capace di vederli.
Era un dio spaventoso: lo era indiscutibilmente. Nero come ossidiana, tagliente come un diamante: talmente inflessibile che, se fosse stato necessario, non avrebbe avuto compassione nemmeno per se stesso.
Eppure, quando mi vide, l’oscurità nei suoi occhi si rischiarò, svelando un’emozione più grande di entrambi.
Avanzai di un passo e rimasi così: bianca e sottile contro il suo petto, in piedi dentro la sua ombra. Ade si chinò leggermente per guardarmi negli occhi; io, invece, dovetti reclinare il capo all’indietro per guardare nei suoi.
Sollevai una mano e le sue dita si chiusero sulle mie, le sue labbra mi sfiorarono le nocche.
-Sono felice che tu sia arrivata.- sussurrò.
Mi sfiorò con i pollici gli angoli della bocca e io distolsi lo sguardo, perché Ade non mi leggesse negli occhi il desiderio di baciargli le dita. Mi sollevò i capelli ai lati del viso, li lasciò scivolare tra le dita aperte.
-Sei bellissima.- disse, e mi sentii percorrere da un brivido, come se Ade fosse nota adamantina, e il mio corpo cristallo risonante.
-Anche tu stai molto bene.- dissi con un po’ di emozione.
Ade mi prese per un polso e guidò la mia mano sopra il suo braccio. Trovai la sua manica di velluto e la accarezzai: era morbida come la ricordavo, come era apparsa alle mie piccole dita di bambina. Ogni gesto ne richiamava un altro, e un altro, e un altro, come un gioco di specchi che non vedesse inizio né fine, come se ogni cosa fosse l’eco di un’altra, e al tempo stesso irripetibile nella sua unicità.
Iniziammo a scendere le scale, Ade che mi guidava sicuro in una penombra talmente fitta che riuscivo a stento a distinguere i gradini.
-Dunque sei stata da Oniro. Cosa ti ha rivelato?–
Magari lo eri prima, a testa in giù, e adesso sei diritta.
-Mi ha rivelato che per tutto questo tempo ho pensato al contrario.- Lanciai uno sguardo al profilo elegante di Ade. Il dio sapeva cosa stavo per dire: lo aveva compreso da tempo, forse già al momento della Tripartizione. -Ti ho accusato di avermi scelta contro il mio volere, ma mi sbagliavo: non sei stato tu a rendermi tua sposa, non più di quanto io ti abbia reso mio sposo. È semplicemente ciò che siamo. Quando mi hai vista, tu mi hai riconosciuta, allo stesso modo in cui io ho riconosciuto te, sebbene non ne capissi il motivo. Così, dopotutto, non mi hai rapita: mi hai riportata a casa.-
-È tutto corretto,- disse Ade. Le scale erano finite, e la sua voce increspava le tenebre come una carezza.-Eppure, dolce Persefone, c’è un Aspetto di questa vicenda che forse neppure le Parche avevano immaginato.-
-Cioè?-
-Da che ti ho vista in quella radura, non ho desiderato altra sposa che te.-
Eravamo giunti dinanzi a una porta e Ade abbassò la maniglia. -Benvenuta nel tuo regno, Persefone. Benvenuta a casa.-
Entrai nella sala senza sapere cosa aspettarmi.
E mi fermai dopo qualche passo, incantata.
 
§§§§
 
Note di dubbia utilità (fate la faccia felice, mi raccomando ^__^ ):
_Questo capitolo deve moltissimo a Labyrinth. Il primo amore non si scorda mai e io Labyrinth l’ho amato tantissimo, per cui, insomma, guardiamoci nelle palle degli occhi e diciamo le cose come stanno: era inevitabile che prima o poi saltasse fuori il crossover ^^;
_I pantaloni del Bambino Bianco sono di jeans. Non potevo scriverlo esplicitamente perché non credo proprio che Persefone conosca questo tessuto!
_La frase “Come sopra così sotto. Come in alto così in basso. Come dentro così fuori” riecheggia uno dei precetti di Ermete Trismegisto, ma io l’ho presa dalla storia di Petitecherie. Un grazie all’autrice per avermelo permesso.
_So che fa caldissimo, ma mi piacerebbe davvero molto sapere cosa pensate di questo capitolo.

 
Un saluto,
S.

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Capitolo 12
*** Il dio delle cose nascoste ***


_Cari tutti, vi invito a tornare un attimo al capitolo precedente: ho aggiunto un paragrafo (lo trovate in rosso) che va letto PRIMA di questo capitolo qui!
 
§§§§
 
BACCA: E che vuol dire che un destino non tradisce?
ORFEO: Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio
può toccarlo.
(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)
 
Ti ho dato un nome e tu hai fatto una scelta, e quella scelta era in te prima della storia di tua moglie o di qualsiasi altra. È sempre stata lì, in attesa.
E non hai forse usato quel nome per essere quello che hai sempre voluto diventare?
(True Detective, ep 02x06)
 

 
La sala era enorme, gremita di divinità e geni avernali.
Le fiamme azzurrine delle torce si riflettevano sui pavimenti di marmo bicromo e sulle possenti colonne di alabastro rosa. Ampi bracieri accesi pendevano dalla sommità degli archi: la loro luce si spandeva verso l’alto, specchiandosi sugli stucchi bianchi e dorati e rischiarando il blu siderale delle volte, prima di posarsi sugli astanti in una impalpabile nube di luminosità diffusa, dai riflessi cangianti.
La sala era immersa nel profumo del banchetto: frutta, miele, selvaggina; il sentore aromatico del vino caldo e speziato.
Avrei voluto rimanere su quella soglia, al sicuro, cullata da quella visione e dal mormorio avvolgente dei convitati.
Ade si portò di fianco a me. Il profilo aristocratico e bianco, i capelli di lucida tenebra, e quegli occhi di ossidiana così acuti e vigili, in netto contrasto con l’espressione imperturbabile.
-Aspettano di conoscerti.- mi disse. –Aspettano da moltissimo tempo.-
Trassi un profondo, tremante respiro.
-Allora andiamo.-
Appoggiai una mano sopra il suo braccio e lasciammo insieme l’oscurità della soglia. Avanzammo lungo la navata centrale, lo sguardo fisso verso i nostri posti, al banchetto sul lato opposto del salone. Un’onda di silenzio avanzò insieme a noi, diffondendosi in mezzo ai presenti.
Decine e decine di volti si girarono nella nostra direzione, mentre la moltitudine di invitati si apriva in due ali, lasciandoci passare.
Riconobbi Ecate, ritta e bellissima nel fluente abito color croco, e lei mi sorrise senza schiudere le labbra. Mormo e Lamia si strinsero alla sua veste al mio passaggio, e solo quando rivolsi loro un cenno di saluto accennarono un timidissimo sorriso.
Una donna morbida e bruna, dagli occhi color zaffiro, congiunse le mani in grembo e mi rivolse un profondo inchino. Era avvolta in un abito nero, formato da molteplici veli sovrapposti, e portava sul capo una corona di stelle. Un dio barbuto, dai profondi occhi viola, le scivolò accanto, cingendole la vita con un braccio robusto.
-Sono Notte ed Erebo.- mi sussurrò Ade, senza quasi muovere le labbra.
Continuammo ad avanzare nella folla che si apriva.
Tre donne si genuflessero al nostro passaggio, sfiorando il pavimento con la punta delle ali: i loro capelli erano vipere che si contorcevano e sibilavano, e io serrai le dita attorno al braccio di Ade vincendo l’impulso di ritrarmi.
Quattro dei e una dea, tutti e cinque con gli stessi lineamenti, si fecero da parte, lasciandoci passare. Vidi dell’acqua sotto i loro piedi nudi, e capii che erano Stige, Cocito, Acheronte, Flegetonte e Lete, giunti fin lì dai loro letti e dalla profondità turbinosa delle loro acque per rendermi omaggio.
Cercai nella folla la chioma dorata di Oniro, ma non la scorsi da nessuna parte.
Avanzando lungo la navata, colsi con la coda dell’occhio un unico punto rimasto in ombra. Il contrasto con la sala illuminata a giorno mi spinse a voltarmi in quella direzione: intravidi tre vecchie fragili e curve, abbigliate di cenci, ma Ade stava già scivolando avanti e la folla di invitati mi si stava già chiudendo intorno, celandole alla mia vista. Ancora oggi non posso giurare di non averle solo immaginate.
Raggiungemmo il fondo della sala e i posti a noi riservati per il banchetto. Ipno ci venne incontro reggendo fra le mani una coppa di oro bianco, tempestata di gemme.
-Il vino dell’Averno.- disse, offrendomela. Presi la coppa e me la accostai alle labbra; le mani mi tremavano così tanto che Il Sonno chiuse le dita sulle mie, guidando il mio movimento. Il vino era caldo e rosso e lo sentii molto denso contro la lingua e il palato. In un improvviso momento di panico pensai che potesse trattarsi di sangue. Ipno mi sottrasse in fretta la coppa e la passò ad Ade, che la vuotò.
Prima di scivolare via, Sonno si chinò sulla mia spalla.
-Ci crederesti? Ade ti guarda e sorride. Credevo che nemmeno li avesse, quei muscoli lì!-
Sorrisi e la mia tensione si allentò.
Subito dopo venne avanti Thanatos.
Tra le mani giunte, coperte di minuscole squame, reggeva un melograno diviso a metà. Lanciai ad Ade un’occhiata allarmata: tutti mi guardavano e io non sapevo cosa fare. Si aspettavano che mangiassi un frutto intero, per altro con tutta la buccia?
Ade mi tolse d’impiccio: raccolse pochi chicchi e me li accostò al viso. Sotto il suo sguardo di ossidiana, dischiusi le labbra e mi lasciai imboccare, sentendo contro la lingua la punta delle sue dita, arrossendo per quel gesto e quel contatto così intimi.
Uno scroscio di applausi esplose nella sala; grida di emozione e di giubilo ci travolsero. Ade mi cinse la vita con un braccio e io mi strinsi a lui, sorridendo timidamente a quelle manifestazioni di gioia.
Il dio mi poggiò una mano inanellata sulla guancia e mi fece voltare verso di lui.
I capelli color della notte formavano una corona attorno al volto bianchissimo. Alla luce diffusa delle candele, i suoi occhi scintillavano come le gemme che indossava. Gli premetti una mano sul cuore; sotto la giacca di morbido velluto nero sentii la linea solida del suo petto.
Come in un sogno, Ade mi cinse la vita e mi attirò verso di sé. Aveva un odore buono e rassicurante; il suo viso e il suo corpo erano troppo vicini, e io mi sentivo in fiamme, e allora chiusi gli occhi in preda all’imbarazzo.
La bocca di Ade si posò sulla mia, reclamandola con inesorabile dolcezza, e forse fu il vino che avevo bevuto, o forse fu per la sala gremita di musica, voci, occhi, danzatori, o per le fiamme delle candele che ardevano come stelle… ma serrai le dita sulla sua giacca e mi sciolsi contro le sue labbra.
Non so quanti battiti di cuore durò quel bacio, so solo che, quando sentii le labbra del dio abbandonare le mie, mi sembrò di perdere un pezzo di me stessa.
Riaprii le palpebre, incontrando il volto di Ade: l’oscurità nei suoi occhi non mi era mai sembrata così luminosa e viva.
Il dio si umettò le labbra con la punta della lingua: in un gesto forse involontario, ma che turbò ulteriormente i miei sensi già confusi.
-Mi appartieni.- disse con voce arrochita.
Lo guardai dritto in quegli occhi di ossidiana.
-Anche tu,- osai. –Anche tu mi appartieni.-
 
§§§§
 
Il corridoio del terzo piano appariva ancora più vasto e deserto con solo me e Ade a percorrerlo lentamente.
Il suono della musica e le voci degli invitati giungevano ovattati attraverso le algide curve della scalinata di marmo. I brindisi e le danze si sarebbero protratti fino al mattino.
Ma, aveva gridato Ipno sollevando in alto il calice, nessuno si aspetta che gli sposi presiedano ai festeggiamenti per tutta la durata della prima notte di nozze!
Ade aveva accolto quella frase e altre simili con la consueta compostezza, io mi ero limitata a rigirare il cibo nel piatto, riflettendo sul fatto che presto tutti quei sottintesi avrebbero smesso di essere tali.
Adesso, mentre mi dirigevo con Ade verso le nostre stanze, quella realtà diventava sempre più concreta e cominciava a serrarmi la gola.
-Hai gradito la festa?-
-Molto. Erano tutti molto felici… e gentili.-
Era vero. Nessuno si era scandalizzato per i miei piedi nudi, i miei capelli sciolti o la mia totale assenza di ornamenti.
Mi sentivo a casa, ma non avevo dove fuggire.
Su ciascuna parete del corridoio, per tutta la sua lunghezza, non si apriva né una scala né una porta, solo immense vetrate, e io cercavo di camminare al centro dove l’oscurità era più fitta, nella patetica speranza che Ade non notasse il pulsare delle vene del mio collo, il ritmo concitato del mio respiro o il mio passo sempre più esitante.
Quando la porta dei nostri appartamenti fu ben chiusa alle nostre spalle, mi sembrò semplicemente impossibile che il mio cuore potesse martellarmi in petto a quel ritmo senza sfiancarsi. La mano inanellata di Ade scivolò lungo il mio braccio, stringendo infine la mia.
-Vieni, voglio mostrarti una cosa.-
-Che cosa?-
Emergemmo entrambi alla luce della vetrata, e finalmente fui costretta a guardar fuori.
Il cielo del’Averno era sterminato e buio, privo di astri e di stelle. A fissarlo per più di qualche istante, cominciavi a diventare inquieto e a chiederti se fosse davvero così buio o se piuttosto non fossi tu ad aver perso improvvisamente la vista, o magari entrambe le cose.
La luce di Erebo si irradiava dal suolo: non diluiva l’oscurità del cielo, sembrava piuttosto tenerla a bada, incorniciando i  bastioni e la cittadella di sfumature iridate di indaco, argento e viola.
In lontananza, la superficie immota di Cocito era nera come una macchia d’inchiostro, ma le sue rive ghiacciate scintillavano di riflessi oltremare, come se fossero state coperte di smalto o di pasta di vetro.
Tra un atollo e l’altro, la luce si sfarinava pigramente sulla superficie placida di Lete.
Spaziai con lo guardo fino al perimetro esterno della città degli dei, e oltre, fino alle montagne innevate che nascondevano l'orizzonte.
Sentii la presenza di Ade alle mie spalle, il calore del suo petto contro la schiena, e provai un languore non del tutto sgradevole. Si era chinato ad aspirare l’odore dei miei capelli, e io inclinai il capo di lato senza quasi volerlo, trattenendo il fiato nel sentire le sue labbra così
(lontane)
vicine dalla tenera curva del mio collo.
Vista da qui, la Superficie appariva incomprensibile: un luogo in cui un padre assente barattava una figlia -una qualunque- prima ancora che nascesse. Un luogo in cui la dea della fertilità non poteva proteggere se stessa da una violenza, figurarsi proteggere la propria figlia.
E cosa potevo dire, invece, di questo mondo sotterraneo che mi aveva inghiottita?
L’Averno aveva le sue leggi, talmente rigorose che persino Ade doveva sottostarvi, eppure quando era giunto il momento di reclamarmi aveva fatto il possibile per addolcirmi la caduta.
Pensai a Ecate, madre severa e protettiva di uno stuolo di figlie adottive, fedele ad Ade perché così aveva scelto: perché così sceglieva ogni giorno.
Pensai alla misteriosa Alifto, non-divisa-ma-una.
Pensai a Sogno e alla tragica bellezza dei suoi occhi spaiati; pensai agli umani smarriti nel suo Labirinto: non sapevo dire se fossero prigionieri di Sogno, o se piuttosto il contrario.
Pensai ai prati turchesi dei Campi Elisi e alle timide ninfe avernali, spaventate da me quanto io lo ero da loro.
Pensai al ridente Ipno e all’impassibile e spaventoso Thanatos, e alla devozione che nutrivano per il loro sovrano.
Pensai alla bellezza inaspettata del paesaggio che stavo contemplando.
-Non immaginavo che l’Averno potesse essere anche… così.-
Ade mi scostò i capelli dai lati del viso, accarezzando piano la curva del mio collo.
-Come lo immaginavi?-
Rovesciai il capo all’indietro: il viso di Ade era chino sul mio, capovolto. La sua espressione era così fredda, e il suo sguardo invece così intenso, che provai l’impulso di allungare la mano e togliergli quella maschera dalla faccia.
Fiorisci. Pensai. Fiorisci!
All’improvviso ebbi paura, ma non di lui.
Mi scostai dalla vetrata e lo fronteggiai, stringendomi le braccia attorno al corpo, immaginando che a toccarmi fossero le sue mani forti e affusolate, invece che le mie. Una tensione silenziosa attirava i nostri sguardi l’uno verso l’altro. Era sempre esistita ma, al pari delle gemme e degli anelli che Ade indossava, la sentivo con chiarezza solo adesso. Cercai di immaginare da quanto tempo ne fosse consapevole lui, e arrossii con violenza.
-Quando ero in Superficie, pensavo che l’Averno fosse privo di luce e di vita. Immaginavo un luogo privo di amore, di bellezza e di gioia: un regno di tormento e angoscia.- Scrollai le spalle. –in realtà, non vi ho incontrato più crudeltà e sofferenza che in Superficie. E gran parte dell’angoscia che ho trovato veniva proprio da me: era posata sui miei occhi come un velo scuro, che sfalsava i colori. Adesso vedo con più chiarezza: c’è amore nel Sottosuolo, e c’è bellezza.– Mi voltai verso la vetrata ed ebbi un sorriso quasi allegro. -Anzi: guardando questo spettacolo, riesco persino a capire perché vivi qui!-
-Persefone,- la voce di Ade accarezzò il mio orecchio, serica e indolente. -Io sono “qui”.-
Mi voltai, guardandolo come se lo vedessi per la prima volta.
Mia madre era la terra fertile e generosa, Estia era il focolare e gli affetti, e Ade… Ade…
Ade era il Sottosuolo, e mi guardava felino.
-Per tutto il tempo hai pensato che io fossi Morte. In realtà, come hai visto, Thanatos ed io siamo due divinità distinte.-
Mi premetti le mani contro le guance, mortificata, ma era un gesto così infantile e così poco adatto a una regina, che non appena me ne resi conto mi imbarazzai ancora di più.
-Io… io… Sono desolata!-
Ade scrollò le spalle.
-Non importa, è un errore comune. Probabilmente perché incutiamo lo stesso terrore.-
Un scintilla di garbato divertimento passò negli occhi neri del dio.
C’è amore nel Sottosuolo, e c’è bellezza.
-Ma allora, mentre incontravo le altre divinità dell’Averno e visitavo i luoghi su cui regni, in realtà stavo conoscendo te!-
E quando ti ho detto che tutto sommato il tuo regno non è così male, stavo parlando ancora di te!
A giudicare dalla sua espressione, il dio aveva tratto le stesse conclusioni. Cominciavo a sospettare che l’astuzia con le donne, mio padre l’avesse appresa da qualcuno.
-Ade,- osai. –Tu sei il fratello maggiore: avresti potuto avere... o essere... qualunque Regno. Perché hai scelto proprio l’Averno?-
Mi guardò con quegli occhi neri e antichi, incastonati sul volto bianchissimo. Era un dio oscuro e potente: non doveva spiegazioni a nessuno, e darne non era nella sua indole.
-Non ho davvero “scelto” l’Averno, ma non sono nemmeno stato costretto ad accettarlo. Il Sottosuolo è quello che sono, la mia natura più vera, e io l’ho reclamata.-
-L’hai reclamata perché era il tuo destino?-
Mi guardò intensamente e seppi cosa vedeva: una sposa morbida e fresca, labbra imbronciate da mordere piano, da consumare di baci; fianchi teneri da attirare a sé e in cui affondare fino a smarrirsi. Ma anche –e fu questo il momento in cui capii che mi amava- una fanciulla bianca come un giglio, che aveva appena iniziato ad affacciarsi sul Mondo.
Mi sfiorò uno zigomo con la punta delle dita. Scrutò il mio viso senza supponenza, con un’ombra nello sguardo che mi parve nostalgia.
-Cosa si prova a essere così innocente?-
-Cosa si prova a non esserlo più?-
Il tocco di Ade si trasformò in una carezza contro la mia guancia. Non voleva parlarne, lo sapevo, lo sentivo. La sua risposta fu il suo dono di nozze, il primo di molti.
-Sai cos’è il destino, Persefone? È sapere che la tenebra ti strapperà il cuore dal petto e gli occhi da sotto le ciglia, ti renderà inadatto a vedere alla luce, e tuttavia sceglierla, perché questa è la tua natura e tu non accetteresti di tradirla. È sapere che un giorno incontrerai una fanciulla, e la riconoscerai e la vorrai contro il tuo stesso volere, anche se lei ti ricorda tutto ciò che hai lasciato per diventare te stesso. Cose che non rimpiangi, perché non le hai mai desiderate, eppure a volte ti mancano, per il semplice fatto che non le hai avute. Mi è bastato guardarti per capire chi eri. Mi è bastato sentirti pronunciare il mio nome per capire che avrei dovuto fuggire nel mio Regno e restarci per altri dieci, cento, mille anni. Ma ormai ti avevo incontrata e, dovunque fossi fuggito, tu eri già un’ossessione. Perché, a differenza di ciò che non avrò e non desidero, volevo che tu fossi mia, e in fondo già mi appartenevi come nessun’altra.- Ade si guardò le mani, assorto. Vidi quello che vedeva: il momento in cui mi aveva ghermita e strappata alla luce, trascinandomi nel buio; il momento in cui mi aveva inchiodata al suolo e lacerato la veste, perché smettessi di lottare. Sollevò il mento in un gesto regale. -Così, dolce Persefone, questo è il tuo sposo. Che cosa pensi, quando lo guardi e mi vedi?-
Ti tratterò bene, aveva detto.
E all’improvviso seppi che lo avrebbe fatto: seppi che le parole di questo dio così schivo non erano soffioni che si sfaldavano nel vento: erano roccia, erano giuramenti.
-Tu sei oscuro- sussurrai. -E incomprensibile.-
-Io sono tutte le cose nascoste. Guarda nei miei occhi, e vedrai te stessa: gli Aspetti di te che hai dovuto ignorare, perché non vi era posto per essi in Superficie. Gli Aspetti che hai voluto ignorare, perché ti spaventavano.- Ade prese la mia mano e se la premette contro il petto, all’altezza del cuore. -La tua ombra è qui, insieme a tutte le ombre del Mondo. Aspetta che tu la reclami. Io aspettavo solo che tu mi reclamassi.-
Fidati di te stessa, aveva detto Sogno.
Guardai Ade negli occhi e mi vidi.
Capii perché Oniro avesse paura di me: capii cosa ero e perché mi rendesse sposa di Ade.
-Dalla prospettiva della Superficie, tu sei tutti i semi…-
-…e tu, Primavera, sei colei che trasforma quei semi in fiori.-
-Dalla prospettiva del Sottosuolo, tu sei tutte le cose oscure e nascoste…-
-…e tu, Persefone, sei colei che le porta alla luce.-
Adesso che mi vedevo, non desideravo diventare nient’altro che me stessa, e non volevo altro sposo all’infuori di Ade.
Le labbra del dio cercarono le mie. Mi aggrappai alla sua giacca e anche io cercai la sua bocca, il capo reclinato all’indietro come la corolla di un fiore. Ade mi strinse a sé e io schiacciai il corpo contro il suo, con il bisogno di annullare ogni spazio, ogni distanza.
Mi sollevò tra le braccia. Mi adagiò su un talamo che mi parve grande come il Mondo, scuro come la tenebra che avevo visto negli occhi del mio sposo, e che apparteneva a me e non a lui.
Gli presi il viso fra le mani.
-Se io ti guardo, se io ti tocco, tu… cambierai.-
Ade chiuse le dita attorno ai miei polsi.
-Lo so.-
-Hai sempre voluto essere te stesso. Se cambierai, che cosa sarai?-
-Ancora me stesso. Il seme che fiorisce, diventa ciò che è sempre stato.-
Le sue mani scivolarono attorno ai miei fianchi, mi liberarono del vestito con gesti delicati e impazienti. Rimasi nuda come una calla, lo sguardo di Ade incatenato al mio mentre si spogliava.
Si allungò accanto a me, ferino come un animale selvatico. Sentii le sue mani sul ventre, le sue labbra sul collo, sulle punte dei seni. Sotto le sue carezze, sentii il mio corpo schiudersi come i petali di un fiore.
Mi aggrappai a lui: le dita affondate nelle sue spalle, il capo reclinato all’indietro nella pozza scura della sua ombra.
Non lui fuori di me, ma io dentro di lui.
I suoi occhi erano scuri, come se contenessero tutte le notti del Mondo, ma luminosi, come se racchiudessero anche tutte le stelle. Non l’avevo mai visto così emozionato.
Come un seme che attende da sempre, e finalmente sta per germogliare.
Gli premetti una mano contro la guancia.
Siamo ciò che siamo, pensai. Non mi ero mai sentita così unica, così perfetta, e al tempo stesso così disperatamente mancante. Tremavo sotto le sue dita come la corda di un liuto, il respiro accelerato per il bisogno di essere riempita.
-Cosa devo fare?-
Ade mi baciò con passione, e con tanta dolcezza da spezzarmi il cuore.
Accarezzò l’interno serico delle mie cosce, schiudendomi le gambe. Appoggiò il bacino al mio e spinse dentro di me, zittendo la mia protesta con le sue labbra. Ci fu del dolore, come se l’universo si lacerasse, ma attirai il mio sposo verso di me: il mio corpo lo esigeva.
Ade spinse ancora, e questa volta la vidi: un’esplosione di stelle, mentre mi inarcavo sotto di lui come una spiga nel vento, aperta come un frutto.
Eravamo una cosa sola: io dentro il Sottosuolo, il Sottosuolo dentro di me, cullati da un movimento ondeggiante che ricordava la risacca.
Qualcosa di immenso crebbe nel punto più caldo del mio ventre: lo sentii lungo le braccia, adesso coperte di pelle d’oca, sulle punte dei seni, sulle mani che artigliavano le coperte come fossero terra smossa.
Mi sommerse a ondate, scuotendomi fin dentro le ossa, così forte che avrei voluto piangere e gridare.
Fiorisci, pensai. Diventa ciò che sei.
E ancora oggi non so se lo dicessi al Sottosuolo o alla Kore che ero stata.
Andavo in pezzi, ma non avevo più timore: il Mondo moriva, e mentre moriva nasceva di nuovo; il Sottosuolo cambiava, diventando ciò che era sempre stato.
E io ero ciò che ero: un ponte tra Superficie e Sottosuolo che cavalcava l’infinito.
Quando finì, Ade si sostenne sulle braccia per non crollarmi addosso: l’espressione finalmente vulnerabile, il respiro ispessito. Affondai le dita nei suoi capelli e lo tirai verso di me, e quando perse l’equilibrio e mi cadde fra le braccia gli tempestai il viso di baci, ridendo di gioia.
Ci addormentammo così: uniti, abbracciati.
Sposi.
 
§§§§
 
_Oooooh!!! E finalmente! Ade ha aperto bocca e ha detto e fatto quello che doveva dire e fare! Che sudata, ragazzi!
Adesso però mi piacerebbe sapere cosa pensate di questo dio dell’averno, visto che finalmente si è deciso a entrare a tutti gli effetti nella storia!
 
_La prima parte di questa storia è FI-NI-TA!! E io ne sono felicissima!
Un abbraccio grosso così ai lettori che mi hanno accompagnata in questa discesa, in particolare a coloro che hanno trovato il tempo e la voglia di lasciare una recensione <3
La storia continuerà, lo giuro: ci sono ancora un casino di avvenimenti da narrare, ma per il momento mi fermo: ho bisogno di staccare un po' dalla scrittura (nonché di dedicarmi al mio vero lavoro, che mi dà da mangiare e mi consente di pagare le bollette, EHM ^^; ).
Nel frattempo vi segnalo la mia pagina facebook come autrice, sulla quale possiamo tenerci aggiornati. Se ho ben capito come funziona, dovete iscrivervi cliccando “mi piace” e cercare di condividere i posts per dargli visibilità (altrimenti non ho ben capito cosa succede. Finisce il mondo? Collassa il pc? Viene a prenderci il re dei Goblin? mah o_ò ).
Buone ferie! :)
Un saluto,
 
Saliman

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Capitolo 13
*** La costruzione di un amore ***


Cosa posso dire dei giorni che seguirono?
Ero felice: felice come non lo ero mai stata.
Adesso che smettevo di paragonarlo al cielo azzurro della Superficie, il cielo opalino del Sottosuolo mi sembrava suggestivo: Emera giungeva anche lì, stendendo sull’Averno i suoi veli iridati.
Dei primi giorni del mio matrimonio ricordo le lunghe passeggiate nei Campi Elisi, le mani aperte a sfiorare l’erba verdeazzurra che mi arrivava ai fianchi, e Ade vestito di nero, che mi seguiva senza fretta tenendosi a pochi passi di distanza.
Il mio sposo era un mistero che lentamente si rivelava e, mentre si rivelava, diventava ancor più inafferrabile.
-Parlami di com’era prima.- gli dicevo. -Prima della Tripartizione, prima dell’Ordine. Come siamo arrivati a essere ciò che siamo?-
Lui rispondeva senza scomporsi.
-Prima dell’Ordine, esisteva Caos, lo Spazio aperto e immenso, entità eterna ma che non esiste dall'eternità. Caos generò Erebo e Notte, e poi Gea, la Terra. Gea generò Urano, il Cielo, e ne fece il proprio sposo. Dalla loro unione nacquero Rea, che ci partorì tutti, e il Tempo, che tutti ci divorò, finché Zeus non gli squarciò il ventre, liberandoci. Ci fu una grande battaglia tra noi e gli altri discendenti di Caos: prevalemmo noi, imponendo il nuovo Ordine.-
-Ma tu spalancasti le porte dell’Averno ai discendenti di Caos, creando per loro un posto nel Cosmo.-
-Un Ordine contrapposto al Caos sarebbe stato incapace di rinnovarsi e avrebbe finito per divorare se stesso. Per rimanere vivo, l’Ordine deve presupporre del Caos al proprio interno. Ecate deve avertelo spiegato.-
-Lo ha fatto, ma volevo sentirlo da te. Così si ebbe la divisione del Mondo: Sottosuolo, Superficie, Mare.-
-Così dicono in Superficie.- disse Ade in tono accuratamente neutro.
Mi voltai verso di lui, camminando all’indietro. La brezza dei Campi Elisi mi gonfiava la veste e mi scompigliava i capelli biondi, facendoli fluttuare intorno al mio viso come alghe sottomarine.
-E cosa dici, invece, tu?-
Ade ebbe un sorriso tagliente.
-Io dico che Sottosuolo, Superficie e Mare si specchiano l’uno nell’altro. Come sopra, così sotto. Come in alto, così in basso. Come dentro, così fuori. Il Mondo non è diviso, ma Uno: non esiste un Aspetto senza l’altro.-
-Eppure, tu sei il regno più potente e più vasto: la simmetria non è perfetta.-
Un lampo di ironia passò negli occhi scuri di Ade.
-Il più vasto? Possibile. Il più potente? Non è del tutto esatto. Sono piuttosto l’unico che abbia piena coscienza del proprio potere.-
-…e questa consapevolezza,- scandii lentamente - comporta un contrappeso preciso: ti rende inadatto alla Superficie. La tua consapevolezza è troppo ingombrante, i tuoi occhi troppo acuti per la luce di Helios. La simmetria è rispettata, dopotutto.-
Ade mi scoccò uno sguardo divertito.
-La mia sposa è una compagna preziosa: comprende la mia natura e la porta alla luce. Quale dio o mortale può dirsi altrettanto fortunato?-
Mentre parlava, la brezza gli scompigliava i capelli neri, mollemente ondulati. Il suo mantello si gonfiava come le ali di un corvo, lambendo la sua figura asciutta ed elegante, il suo passo misurato e mai esitante. Mi fermai, lasciando che Ade mi raggiungesse.
Il Tempo era un Aspetto della Superficie: nel Sottosuolo non esisteva; c’era solo il fatuo succedersi in cielo di Emera ed Erebo. Nel Prato degli Asfodeli c’erano solo anime trapassate: nessuno cresceva, invecchiava, né tantomeno nasceva.
Così, se penso a una misura del tempo nel Sottosuolo, penso al passo di Ade: al suono regolare del suo respiro, alla sua figura dritta e fiera che camminava verso di me, mentre il cuore mi accelerava in petto per il desiderio di andargli incontro.
-Ti sto distogliendo dai tuoi doveri.- gli dissi quando mi raggiunse.
Ade si chinò su di me e io chiusi gli occhi, mentre posava un bacio sulla mia fronte.
-In questo momento, tu sei i miei doveri.-
In un certo senso era vero: entrambi sapevamo che quelle passeggiate non erano un passatempo. Ade mi mostrava i territori su cui regnava -su cui si aspettava che regnassimo insieme- e mi aiutava a comprenderli. Lui stesso, credo, aveva bisogno di familiarizzare con me, alla stessa maniera in cui un mortale ha bisogno di familiarizzare col proprio destino.
Col tempo, vedendoci camminare insieme, le ninfe cominciarono ad avvicinarmi, come piccoli animali incuriositi. Per lo più erano mute; mi tendevano le mani, allungavano le lunghe dita pallide offrendomi in dono piccoli ciottoli colorati. Le più audaci mi sfioravano i capelli, attirate dal colore dorato. Lottavo per non trasalire al loro tocco gelido, ma non sempre riuscivo a trattenere un brivido: tanto bastava perché le ninfe assumessero la forma di fuochi fatui e sparissero alla vista.
Un giorno, Ade mi condusse all’estremo confine dei Campi Elisi, sulla riva di Lete. Da lì contemplai le Isole Beate accolte nel placido grembo del fiume, e scorsi il verde pallidissimo della sponda opposta.
-Che cosa c’è lì?-
-Quello è il Prato degli Asfodeli.-
-Asfodeli.- sussurrai. Mi parve che la parola avesse un bel suono, mi fece pensare alla bianca corolla di un soffione. -Cosa significa?-
-Significa “ciò che non è stato ridotto in cenere”. Si tratta delle anime dei mortali, insomma.-
Contemplai rapita la riva lontana e l’erba sbiadita che vi cresceva, così diversa da quella verdeazzurra dei Campi Elisi.
-Le anime mietute da Thanatos giungono tutte lì?-
-Tutte, senza eccezione. Vi arrivano dopo essere state giudicate da me e Minosse, e vi rimangono per sempre, sotto forma di Ombre, che hanno le sembianze dei loro corpi.-
-Vorrei andarci.-
Ade mi ci portò il giorno stesso.
Camminammo in mezzo alle anime nude e argentee: per la maggior parte stavano in piedi, le braccia lungo i fianchi e il capo rovesciato all’indietro, immobili in quell’erba di un verde slavato. Si riempivano gli occhi del cielo sbiadito del Sottosuolo, ma non sembravano vederlo davvero. Parevano del tutto inconsapevoli della nostra presenza.
Mi strinsi istintivamente al fianco di Ade.
-Cosa fanno qui, tutta l’eternità?- Di fronte ai loro sguardi vitrei, mi venne spontaneo bisbigliare.
-Sono libere di fare ciò che desiderano,- disse Ade scrollando le spalle. –Ma perlopiù smettono di desiderare. Dimenticano di essere mai state vive e col tempo dimenticano anche di essere Ombre. A meno che qualcuno dalla Superficie non le convochi, offrendo loro del sangue e…-
Si fermò, zittendosi senza completare la frase e guardandomi intensamente.
-Cosa c’è?- domandai.
-Stai piangendo.-
-No… -protestai.- Non credo. Non…- mi portai le mani agli occhi, ritirandole bagnate di lacrime.
Una linea sottile comparve fra le sopracciglia di Ade.
-Che cosa ti rattrista, esattamente?-
Mi asciugai in fretta le guance con il palmo delle mani, arrossendo sotto i suoi occhi indagatori.
-Provo dolore per le Ombre. Mi rattrista questo tedio infinito e la perdita dell’identità a cui sono condannate.- Sentii un nodo serrarmi la gola e deglutii.- Sono state strappate al loro mondo, senza la prospettiva di potervi tornare, e una volta che arrivano qui non hanno più nulla da sperare né da disperare. E tutto questo le attende… per sempre. I mortali arrivano proprio tutti qui? Anche quelli che in vita sono stati molto pii verso i loro simili e verso noi dei?-
-Ci sono pene speciali per coloro che furono particolarmente empi.- disse Ade con lentezza. -Ma nessun particolare premio per coloro che furono virtuosi. E comunque, sì: gli uni e gli altri rimangono in questo luogo per l’eternità.-
-Non è giusto.- dissi in un soffio.
Ade inclinò leggermente il capo di lato.
-La Superficie non è giusta, Persefone, e nemmeno il Mare. Ti aspettavi che il Sottosuolo lo fosse?-
-Io… io credo di averlo sperato.-
Ade non disse più nulla finché non tornammo alla reggia.
Quella notte, rannicchiata contro il suo petto, lo sentii improvvisamente sussurrare.
-Alcune cose possono cambiare, se tu lo desideri.-
Sentii il mio cuore accelerare i battiti.
-In che modo?-
-Possiamo giudicare le Ombre in modo più accurato. Traghettare fin dentro i Campi Elisi le anime più nobili, e destinare al Tartaro quelle più oscure. Lasciare il Prato degli Asfodeli a coloro che in vita non sono stati né abbastanza pii né abbastanza empi da meritare una destinazione diversa. O a coloro che, come i suicidi, sono troppo legati al loro dolore per lasciarlo andare.-
-E dopo…? Quando avranno dimenticato chi sono stati e persino di essere Ombre?-
-E dopo… potrebbe esserci un ritorno. Potrebbero… reincarnarsi, se lo desiderano.-
Mi sollevai a sedere, cercando nel buio il suo volto bianco e l’ombra infinitamente scura dei suoi occhi.
-Rinunceresti a parte dei tuoi sudditi?-
Ade mi accarezzò i capelli, inanellando una lunga ciocca dorata attorno alle dita.
-Non ci sarebbe alcuna rinuncia: prima o poi tornerebbero qui. Non ne sentirò la mancanza, se è questo che temi.-
-Funzionerebbe?-
-Possiamo tentare. Ma capisci che non sarà semplice. Capisci che giudicare una per una tutte quelle anime e smistarle verso diverse destinazioni sarà un lavoro enorme, che non possiamo gestire solo io e Minosse. Nominerò altri giudici: Eaco… addirittura Radamanto, affinchè ogni umano venga giudicato da un suo pari, invece che da un dio. Io potrei occuparmi solo dei casi più complessi. Ma anche così...-
Gli tappai la bocca con un bacio.
-Posso aiutarti anche io.- sussurrai contro le sue labbra. -Se tu mi insegni, sono certa di poter imparare!-
Fu così che iniziammo.
Per me fu molto complicato assumermi quella responsabilità: non c’è da stupirsene, visto che non ne  avevo mai veramente avute.
Ero cresciuta libera di correre per i campi e danzare in mezzo alle ninfe; ero abituata ad ampi spazi aperti, ad arrampicarmi sugli alberi, ad evitare gli sguardi egli altri dei, ad eludere la sorveglianza della mia unica ancella e amica. Adesso imparavo a rimanere per ore seduta su un trono, in una sala ampia ma chiusa, sotto lo sguardo adorante di Ombre e divinità che pendevano dalle labbra mie e del mio sposo.
Ade e io giudicavamo solo i casi più controversi, eppure spesso le storie di quelle anime turbavano il mio sonno anche dopo che avevamo pronunciato un verdetto.
Giorno dopo giorno vedevo la mia pelle sbiadire, il mio atteggiamento farsi più serio e composto. Imparai a sedere eretta sul trono di marmo, i gomiti aderenti a fianchi, e ad abbassare la voce quando volevo essere ascoltata. Dentro di me, però, ribollivo: mi emozionavo per quelle anime, mi indignavo per i torti che avevano subito o commesso, e a fine giornata mi chiedevo se il verdetto che avevo emesso fosse giusto oppure no.
Ade era molto più distaccato: ascoltava attentamente, interrompendo talvolta con poche, mirate domande, poi proferiva i propri giudizi, imparziali ai limiti dell’insensibilità. Non tornava mai sulle decisioni già prese, ma sentivo il suo sguardo posarsi su di me, quando io mi prendevo il capo fra le mani e dubitavo delle mie.
Fu così che rimandai tra i vivi Sisifo per tre giorni affinchè il suo corpo venisse sepolto, nonostante egli avesse osato incatenare Thanatos in persona e strapparlo ai suoi doveri.
Ade non battè ciglio di fronte alla mia sentenza, ma scaduto il termine inviò nuovamente Thanatos a recuperare l’Ombra di Sisifo. Morte trascinò il re al nostro cospetto incatenato e gemente; lo colpì dietro le ginocchia per farlo crollare a terra e gli affondò una mano squamata nei capelli, per costringerlo a sollevare il capo e a guardarci in viso.
La brutale efficienza di quei gesti e l’impassibilità di Thanatos mentre li compiva mi fecero tremare, e istintivamente mi protesi dal mio trono, mentre una protesta mi affiorava alle labbra.
Morte piantò gli occhi d’ambra in quelli di mio marito e mi anticipò.
-Divino Ade, come tu stesso hai richiesto, trascino al tuo cospetto questo animale.- In contrasto con il suo volto impassibile e il suo tono sommesso, negli occhi dorati del genio ardeva un furore silenzioso.
La sala era piombata in un silenzio glaciale: tutti gli astanti trattenevano il fiato. Thanatos guardava Ade, ignorandomi completamente, mentre Sisifo gemeva sommessamente nella sua stretta.
Sentivo la pelle d’oca ricoprirmi le braccia e un moto di sdegno serrarmi lo stomaco.
Ade ricambiò lo sguardo di Thanatos pur un lungo, terribile istante. Negli occhi furibondi del genio bruciava una richiesta silenziosa, che mio marito colse chiaramente.
-Sarai tu a scegliere la punizione di quest’anima.- sentenziò, con una naturalezza che mi ricordò da quanto tempo lui e la Morte lavorassero insieme, al punto da essere spesso scambiati l’uno con l’altro.
Le Erinni digrignarono i denti, soddisfatte.
Thanatos si inchinò brevemente e si voltò, trascinando con sé l’Ombra scalciante di Sisifo.
E io dovetti tacere, perché l’alternativa -contraddire mio marito di fronte all’intera corte- semplicemente non esisteva.
Quella sera, mentre Erebo allungava le dita livide sull’Averno, lasciammo l’Anticamera per tornare alla reggia.
Quando calavano le tenebre avevo ancora l’abitudine di tendere l’orecchio per sentire il frinire dei grilli, e di rovesciare il capo verso il cielo, per cercare le stelle. Lo feci anche il quel momento, con il cuore gonfio di dolceamara speranza. Mi sarebbe bastata anche una stella, una soltanto, per…
-Persefone, non puoi essere sempre gentile e compassionevole.-
Ade era un’ombra scura e slanciata al mio fianco, che reggeva per le redini la pallida Nonio. Sapevo a cosa si riferisse, ma non avevo voglia di affrontare il discorso.
-Ehi,-tentai di scherzare- credevo che tra noi esistesse un patto: io cerco di non mostrare quanto il tuo regno mi sgomenti, e tu fingi educatamente di non notare  il mio sgomento.-
Naturalmente, Ade non si lasciò fuorviare dal mio tentativo di fare dell’ironia.
-Alcune situazioni, semplicemente, non meritano gentilezza e compassione.-
-Voglio essere gentile con le Ombre.- spiegai.
-Sei già la loro regina: mi sembra più che sufficiente.-
-Voglio che mi amino quanto amano te!- gli dissi ridendo, cercando di distrarlo con le lusinghe.
Non avevo tenuto presente che Ade era refrattario all’adulazione e bravissimo a scorgere il lato meno nobile delle persone.
-Quindi è questo? Sei gentile perché hai il timore che, altrimenti, non verresti amata?-
Ero la sua sposa, ma non si poteva certo dire che mi risparmiasse le rasoiate di quella sua lingua tagliente.
-La gentilezza di cui parli fa parte del mio carattere- dissi, finalmente seria. -Ma… sì, hai ragione: in fondo ho davvero paura che, se non fossi così accondiscendente, nessuno avrebbe reale motivo di amarmi.-
Ecco, l’avevo detto. Fu persino liberatorio ammetterlo, sotto quel cielo privo di stelle.
Sollevai lo sguardo verso Ade, amara.
-Deve sembrarti davvero patetico, non è vero?-
Mi prese il viso fra le mani e mi chiuse la bocca con un bacio. A suo modo, era una risposta.
Il legame che ci univa non stava cambiando solo me, comunque, ma anche lui.
Divenne innegabile quando mettemmo piede nella Pianura degli Asfodeli e trovammo ad accoglierci dei fiori: sottili, esangui, bianchissimi. Ma pur sempre fiori: i primi che l’Averno avesse mai avuto.
Crollai in ginocchio nell’erba pallida, cercando lo sguardo di mio marito.
Ade mi guardò sorridendo appena, scrollando le spalle.
L’amore che provavo per lui mi azzannò il cuore, con tanta ferocia da farmi un male quasi fisico.
Questo, pensai commossa, è proprio da te.
Capii che questo dio oscuro non mi avrebbe mai vezzeggiato, e capii anche che non mi importava. Le lusinghe erano della Superficie: erano le giustificazioni che mio padre rivolgeva a Era dopo l’ennesimo tradimento; erano le scuse che Poseidone aveva rivolto a Zeus, mentre il corpo violato di mia madre ancora sanguinava. Per amore, Ade non sprecava né parole né vuota gentilezza: per amore, Ade si lasciava incidere, sovvertire, trasformare.
Per amore, il Sottosuolo fioriva.
Questo è il suo modo di amare. E, realizzai meravigliata, è anche il mio.
 
§§§§
 
Furono giorni di grande dolcezza, ma furono anche giorni duri.
A ripensarci adesso, mi rendo conto che un’inquietudine di fondo, qualcosa di rimosso, gravava su di me senza abbandonarmi mai. Ne imputavo la colpa al cambiamento, alle nuove responsabilità di regina e alle storie talvolta terribili che raccontavano le anime.
Le suppliche delle Ombre mi scavavano nel profondo: spesso le loro richieste erano inesaudibili, ma io mi sentivo comunque in colpa per il fatto di non poterle accontentare. E quando invece le soddisfavo almeno in parte, e ricevevo indietro biasimo e ingratitudine, era forse anche peggio.
Non possedevo il distacco di Ade, ma nemmeno lui, in fondo, lo pretendeva. Rispettava ogni mia decisione, anche quelle che non condivideva: al più interveniva dopo la mia sentenza, per correggere il tiro.
Credo che, da un certo punto di vista, Ade capisse il mio stato d’animo meglio di me, che ero in balia di emozioni troppo grandi per poterle sviscerare.
-Stai camminando con Ecate.- mi disse Alifto una volta, regalandomi così un inaspettato conforto.
La compagnia della dea in persona, però, mi fu quasi del tutto negata.
Ecate veniva spesso alla reggia, perlopiù senza farsi annunciare. Stanava Ade fin dentro il suo studio (era un mistero come facesse a sapere sempre quando trovarlo) e vi si chiudeva dentro. Le loro conversazioni erano brevi e turbolente: dal corridoio si udivano le proteste di Ecate, perché è impossibile far alzare la voce ad Ade.
Una volta la sentii dire chiaramente:
-Non è possibile continuare così. Devi dirglielo!-
Vi fu una risposta da parte di mio marito, troppo sommessa perché si potessero distinguere le parole.
-Il Mondo,- tuonò Ecate -non può rimanere sordo a una ricerca così accorata!-
Ade ribattè qualcosa: mi parve di cogliere le parole “carestia” e “non importa”, ma poi sentii due mani poggiarsi sulle mie spalle e mi voltai, incontrando lo sguardo gentile di Ipno.
-Ma tu sai perché litigano così?- domandai desolata.
Il genio mi cinse le spalle con un braccio, guidandomi verso la finestra in fondo al corridoio, che dava sui giardini. Le ali nere ai lati del suo capo sussultarono appena.
-L’Averno è un luogo pericoloso,- disse in tono solenne. -Talvolta volano piatti, e allora l’unica cosa importante è mantenersi lontani dalla linea di tiro!-
Le sue parole mi strapparono un sorriso.
-Sei un dio di infinita saggezza…-
-Modestia a parte!-
-Oh, Ipno! Devi venirci a trovare più spesso!- gli dissi, gettandogli le braccia al collo e stringendolo forte.
Il genio sollevò le scure sopracciglia.
-Se Ade ci vede abbracciati, mi appende nel Tartaro a testa in giù: lo sai, vero?-
-Mio marito è un tipo geloso,- ironizzai. -Ma non è detto che debba venire a conoscenza proprio di tutto.-
Qualcosa passò nello sguardo di Ipno, ma lui fu rapidissimo ad abbassare il capo.
Proprio in quell’istante, sotto la finestra passava Minta. Cingendomi la vita con un braccio, Ipno si accostò una mano alla bocca.
-Hai sentito, Minta? Tu cosa dici: saresti felice di vedermi in giro un po’ più spesso?- La ninfa gli scoccò un’occhiata sprezzante, senza minimamente rallentare. -Cerca di contenere tutta la tua gioia: chissà cosa potrebbe pensare la gente!-
Io ormai ridevo senza pudore.
-Credo… credo che se non ricomincio a respirare… morirò!- singhiozzai.
-Se Thanatos venisse a reclamarti, dubito che Ade ti cederebbe. E poi, dove vorresti finire? Sei già nell’Averno! No no no, niente casini, mia signora: respira profondamente! Anche tu, Minta! RE-SPI-RA-RE! Avanti, su!-
Guardammo la ninfa allontanarsi fino a svoltare l’angolo e sparire dalla nostra vista.
-Le ho chiesto di essermi amica,- confessai. -Ma credo sinceramente che mi odi.-
Ipno emise un lungo fischio tra i denti.
-Hai chiesto a Minta se potevi diventare sua amica? E lei non ti ha… sì, insomma, come dire… smembrato?-
-In che senso?-
Ipno agitò una mano.
-Lascia perdere. Fai conto che io non abbia detto nulla!-
In quell’istante, Ecate uscì dallo studio di Ade. I capelli corvini le fluttuavano attorno al viso come una nube temporalesca, gli occhi mandavano scintille azzurre.
Ipno ritrasse di scatto la mano con cui mi cingeva la vita e fece un passo indietro, scostandosi da me. Ecate non lo notò nemmeno: si fermò davanti a me e mi prese per le spalle.
-Bambina, mi dispiace terribilmente, ma c’è una cosa che devi sapere, e qualcuno deve pur dirtela!-
-C-Cioè?-
-Ti sei sposata un cretino! Il più sveglio della nidiata, dopo Estia, ma comunque un cretino!-
E senza attendere la mia reazione, svanì in un lungo, lugubre latrare di cani.
Ade emerse sulla soglia poco dopo, torvo come non lo avevo mai visto. Gli corsi immediatamente incontro.
-Ade? Tutto a posto?-
Il suo sguardo di ossidiana si posò su di me, trapassandomi da parte a parte.
-Stavi origliando?- sibilò.
Fu come se mi avesse rovesciato addosso un secchio d’acqua gelida. Rimasi impietrita lì dov’ero, in piedi in mezzo al corridoio.
Non so da dove presi la prontezza di rispondere:
-Cosa dovrei origliare, marito mio, che tu non mi diresti spontaneamente?-
Ipno mi raggiunse silenzioso e si interpose tra di noi, inchinandosi morbidamente e interrompendo quel confronto.
-Divino Ade, perdona l’intrusione. È richiesto il tuo intervento per dirimere una questione spinosa.-
Per un istante credetti che Ade non l’avesse nemmeno udito. Poi, con una lentezza esasperante, mio marito distolse lo sguardo da me e lo posò sul capo alato di Ipno.
-Di che cosa si tratta?-
-Qualcuno giunto dalla Superficie chiede udienza ai sovrani dell’Oltretomba.-
-Dalla Superficie chiedono continuamente udienza. E noi non la concediamo. Mi sembra molto semplice.-
Ipno annuì.
-Ma di quest’uomo, forse, hai già sentito parlare. Il suo nome è Orfeo.-
 
§§§§
 
Ops, prevedevo di star lontana molto più a lungo, ma la Musa mi ha presa in ostaggio O_o
Poche note sparse:
_Dai miei studi classici avevo in testa un minestrone non da poco su quella che doveva più o meno essere la struttura dell’Ade. Ricordavo vagamente un noiosissimo prato degli asfodeli (che pensavo fossero solo fiori, invece no: originariamente era il nome che designava le anime!), però ero sicura anche dell’esistenza almeno di una selva dei suicidi (Didone, se ci sei batti un colpo!), per non parlare dei vari gironi di Dante (storicamente molto più tardi, ma ormai parte integrante del nostro immaginario collettivo). Per cui documentandomi un po’ qui, ho realizzato che, sostanzialmente, Ade non è sempre rimasto uguale, ma nelle varie culture (e spesso in autori diversi all’interno della stessa cultura) è cambiato molto e molte volte. E insomma, questa cosa mi ha emozionato così tanto che ho dovuto inserirla per forza, vi pare?
_Il mito di Sisifo sono certa lo conosciate tutti, per non parlare di quello di Orfeo (mi tremano i polsi al pensiero di dover affrontare un mito così amato).
_Il titolo del capitolo è tratto da un bellissimo brano di Fossati <3
Un saluto,
Saliman

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Capitolo 14
*** La maledizione di Orfeo ***



ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
 
(“Dialoghi con Leucò”, Cesare Pavese)
 
Quando lo vidi per la prima volta, sentii le gambe tremare e ringraziai il Fato di essere già seduta.
L’umano al centro della navata non aveva occhi d’argento, e la sua pelle non era del grigio spettrale della cenere. I suoi occhi erano azzurri come il cielo, i capelli castani e ondulati come viticci. La sua carnagione abbronzata parlava di colline baciate da Sole, del tocco gentile e ironico di Zefiro, del profumo voluttuoso e ricco dell’estate.
Provai, lancinante, il desiderio di alzarmi, scendere i gradini del trono e andargli incontro. Avrei voluto prendere le sue mani tra le mie, premere contro la guancia le sue nocche asciutte, assorbire  attraverso la sua pelle il tepore per me irraggiungibile di Helios, e attraverso le sue labbra il sapore dei frutti dolci di mia madre.
Raddrizzai la schiena e mi aggrappai ai braccioli di marmo con tanta forza da far sbiancare le dita.
-Orfeo dal nome famoso,- sussurrai. Ade mi lanciò uno sguardo obliquo, ma non disse nulla, e io non mi voltai nella sua direzione. -Vieni avanti!-
Orfeo avanzò lungo la sala, la cetra stretta fra le mani. Le sopracciglia aggrottate e la mascella volitiva creavano un vivido contrasto col suo sguardo azzurro, terso come quello di un fanciullo. Le spalle dritte e il petto ampio mi fecero pensare alla solidità della terra e all’aspra bellezza delle rocce, ma qualcosa, nel modo in cui sollevava il mento, tradiva un certo distacco dalle questioni umane.
Arrivato ai piedi del trono, Orfeo crollò in ginocchio, la fronte china fin quasi al pavimento.
-Rialzati.- disse Ade.
La voce di Orfeo, mite e pastosa, risuonò nella sala.
-Non prima di sapere che mi ascolterete, divini signori dell’Oltretomba.-
-Rialzati, ho detto. Hai la nostra attenzione.-
Ebbi la sensazione che Ade fosse infastidito, e intervenni cercando di smorzare la tensione.
-La tua fama ti precede, figlio di Eaco e Calliope. In ogni angolo della Superficie si narra di come il tuo canto riesca ad ammansire le bestie e affascinare gli uccelli, e di come persino i pesci guizzino fuori dall’acqua per udire la tua musica. Ascolteremo quello che hai da dire.-
Orfeo si levò in piedi e ci guardò. Ci aspettavamo che parlasse, invece strinse la lira al petto, poi ne pizzicò le corde e cominciò a cantare:
 
O dei, che vivete nel mondo degl'Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
 
La sua voce era ricca e vellutata, incantevole come quella di Apollo. Risuonò tra le colonne tortili, riverberando fino ai soffitti a volta e infine ricadendo sugli astanti, come fresca pioggia su un suolo riarso. Orfeo aveva scelto di cantare la propria storia anziché di raccontarla: era una mossa audace, ma di grande intelligenza: doveva aver pensato che, se anche non fossimo stati ben disposti verso di lui, una volta che avesse iniziato a cantare nessuno lo avrebbe interrotto, pur di non privarsi di un canto così bello.
 
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell'antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
 
Qui Orfeo tacque, e le note della lira si spensero. Mi parve che la sala tutta trattenesse il fiato e che ogni occhio fosse puntato su Ade e me.
Mi voltai verso il mio sposo, cercando il conforto del suo sguardo, ma lui contemplava Orfeo, assorto.
-E così, vorresti sottrarre la tua sposa agli Inferi.- disse in tono carezzevole. – Se desideri così tanto ricongiungerti a lei, sarebbe più indicato che tu ponessi fine alla tua vita.-
Orfeo doveva aver previsto quell’obiezione, perché il suo sguardo azzurro non vacillò nemmeno per un istante. Riprese a cantare:
 
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest'unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l'ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d'entrambi godrete!(1)
 
-Goderne…?- disse Ade. –Sopravvaluti, e di molto, la tua importanza nel Cosmo.-
Poggiai una mano sulla sua.
-Ade…- sussurrai, così piano che non fui nemmeno certa che potesse udirmi.
-Canta, mortale.- Ade non mi guardava, ma ero certa sapesse che lo fissavo. –Cantami le bellezze della Superficie. Dammi qualcosa per cui cedere.-
Orfeo chinò rispettosamente il capo, per cui non potei scorgere la sua espressione. Mi parve di vederlo umettarsi le labbra e stringere la cetra nervosamente.
La proposta di Ade era molto sottile: aveva fatto una richiesta precisa e alla quale non era possibile sottrarsi, eppure mettersi a tessere le lodi della Superficie lì nel Sottosuolo sarebbe stata un’insolenza imperdonabile.
Orfeo cantò, e sono certa sapesse che ormai non cantava più solo per salvare Euridice, ma anche se stesso.
 
The sun is sleeping quietly
Once upon a century
Wistful oceans calm and red
Ardent caresses laid to rest
 
For my dreams I hold my life
For wishes I behold my night
The truth at the end of time
Losing faith makes a crime
 
Le anime esangui, in attesa di essere giudicate, piangevano lacrime d’argento. Le furie si stringevano le une alle altre, gemendo piano. Sonno si raccolse le ginocchia al petto, stringendole nelle braccia. Persino Thanatos, la schiena appoggiata a una colonna, si tirò il bavero del mantello fin sotto il naso e incrociò le braccia al petto, chinando il capo.
 
I wish for this night-time
to last for a lifetime
The darkness around me
Shores of a solar sea
Oh how I wish to go down with the sun
Sleeping
Weeping
With you
 
Sorrow has a human heart
From my god it will depart 
I'd sail before a thousand moons
Never finding where to go
 
Orfeo era intelligente. Evocava i paesaggi della Superficie, come Ade aveva chiesto, ma invece di esaltarne la bellezza, li usava per tradurre in immagini il proprio dolore. Questo, se possibile, mi fece ancora più male. Se chiudevo gli occhi, riuscivo a vedere il cielo incendiarsi d’oro e le onde del mare tingersi di rosso alla luce del tramonto, solo che ero io a bruciare, io a sanguinare. Il suono della risacca era un immenso, regolare battito di cuore, che possedeva lo stesso ritmo dei miei singhiozzi. Dall’oscurità in cui mi trovavo e che pure amavo, non ambivo forse anche io a sentire un’altra volta sulla pelle il tepore di Helios? Potevo dunque biasimare Euridice?
 
Two hundred twenty-two days of light
Will be desired by a night
A moment for the poet's play
Until there's nothing left to say
 
I wish for this night-time
to last for a lifetime
The darkness around me
Shores of a solar sea
Oh how I wish to go down with the sun
Sleeping
Weeping
With you(2)
 
Mi sembrava di sentirlo: il suono dei gabbiani sull’acqua, il frinire dei grilli nei prati, e la luce, quella luce meravigliosa che…
Mi nascosi il viso fra le mani, scoppiando in singhiozzi.
Ade si alzò bruscamente dal trono e scese con grazia i gradini che lo separavano da Orfeo.
Il poeta smise immediatamente di cantare, crollando in ginocchio.
-Divino Ade…-
-Riprenditela.- disse mio marito. Il suo tono incolore non ingannò nessuno: era furente. –Riprenditi Euridice e riportala pure indietro.-
-Io… io non so come ringraziarvi!-
-Taci.- la parola di Ade irradiava gelo. Ostilità, persino. –Non ho finito. La mia concessione è valida a una sola condizione: non dovrai voltarti indietro neppure una volta, finché non sarete tornati entrambi in Superficie.-
-Divino Ade, divina Persefone, canterò la vostra generosità finché avrò vita!-
-Non hai nulla per cui ringraziare.- disse Ade tra i denti.
E, volgendo le spalle a Orfeo e alla corte intera, uscì a grandi passi dalla sala.
 
§§§§
 
Lo seguii immediatamente, cercandolo per i corridoi bicromi del palazzo dell’Anticamera dell’Averno.
Evitai le sale del piano terra, in cui Eaco, Minosse e Radamanto svolgevano le loro funzioni, e salii direttamente al primo piano, chiamandolo per nome.
Qualcosa mi seguiva, passando di ombra in ombra, celandosi nell’oscurità dei soffitti, ma io non vi badavo. C’erano un’infinità di porte, e io le aprii una ad una, piangendo. Sapevo che la mia reazione aveva ferito Ade profondamente, eppure non riuscivo a smettere di piangere.
Lo trovai nell’estrema ala ovest. Nella livida penombra del salottino, mio marito era una sagoma alta e oscura stagliata contro la vetrata piombata, che occupava un’intera parete.
Sotto di lui, le acque fumose dell’Acheronte si contorcevano inquiete.
-Ade!- lo chiamai, entrando esitante nella stanza.
Non si voltò né mi rispose.
-Ade… mi dispiace. Io…-
-Ascolta.-
Tacqui. Oltre i vetri piombati si levava il gemito delle Ombre sballottate nel Vortice.
-Gli insepolti…-
-No. Ascolta meglio.-
Oltre il lamento del vento, lo udii. Un grido umano, una voce ricca e pastosa che riverberava nell’aria del Sottosuolo, giungendo fino a noi.
Dio dell’Averno, ti maledico per il tuo inganno! La voce disperata di Orfeo risuonava per il cielo del Sottosuolo. Proverai un dolore simile al mio, un giorno! Proverai anche tu cosa sia, vedersi strappare dalle braccia la propria sposa!
Sgranai gli occhi, sconvolta dall’odio contenuto in quelle parole.
-Che cosa è successo?-
-È successo che avevo ordinato a Orfeo di non voltarsi lungo il tragitto, e lui invece si è voltato.-
-E la colpa sarebbe… tua?-
-Lo è.- Il sussurro di Ade era spietato. -Ho posto una condizione che Orfeo non poteva rispettare. E io lo sapevo: è per questo che l’ho posta.-
-Sì che poteva rispettarla! Sarebbe bastato…-
-No, Persefone. Non poteva.-
Lo guardai senza capire.
-Come puoi esserne certo?-
-Se al posto di Euridice ci fossi stata tu, io non avrei potuto evitare di voltarmi.-
-Lo hai ingannato? È questo che stai dicendo? Hai ingannato un mortale disperato, che ha fatto tanta strada solo per chiederti aiuto?-
Finalmente Ade si girò verso di me, offrendomi la linea tagliente del suo profilo.
-Sì, l’ho fatto, e lo rifarò tutte le volte che si renderà necessario. C’è una cosa che devi capire, Persefone: non possiamo essere amati da tutti, né elargire eccezioni e miracoli. Non è per questo che esistiamo!-
-Io… io non posso credere che tu lo abbia fatto davvero!-
-Persefone!- il sussurro di Ade sferzò la penombra come una scudisciata, facendola tremare. Facendo tremare persino me. -Siamo ciò che siamo: questa è accettazione! Ma siamo anche ciò che rappresentiamo, e questa è responsabilità!-
Indietreggiai, ma lui mi afferrò per un polso, tirandomi verso di sé. Le sue dita erano fredde e forti, i suoi occhi più bui del Tartaro.
-Le cose morte devono morire. Le cose che non appartengono più alla Superficie devono essere lasciate al Sottosuolo. È doloroso? Sì! È atroce? Crudele? Spietato? Sì, sì e ancora! Ma è necessario!-
-Smettila…-
-Noi non siamo gentili. Noi siamo ciò che siamo e siamo ciò che rappresentiamo: questa è la nostra funzione, la nostra responsabilità nei confronti dei mortali e del Mondo!-
-…HO DETTO SMETTILA!-
Strattonai il polso, così forte da farmi male. Ade continuò a trattenermi e allora strattonai ancora più forte, torcendo la mano nella sua stretta.
-È di Orfeo e di Euridice che stai parlando? O di me e di Helios?-
Ade fece una smorfia e aprì di scatto le dita, lasciandomi andare. Mi rivoltai contro di lui come una mangusta.
-Al pari della mia gentilezza, anche il tuo senso di responsabilità non è poi così nobile! O pensi non l’abbia notato?-
Il sussurro di Ade fu così freddo che i vetri si coprirono di brina.
-Ti prego, continua. Sono sempre così ansioso di sapere cosa pensano di me quelli della Superficie!-
Non aveva mai utilizzato il suo sarcasmo per ferirmi, prima. Per disarmarmi sì, ma per ferirmi mai. Fu un colpo di rasoio nella carne: per un istante il dolore fu quasi nullo, il taglio invisibile. Subito dopo arrivò il bruciore violento, e iniziai a sanguinare.
-Tu sei geloso!- sibilai. Mi arrabbiai esattamente come lui: abbassando il tono della voce invece di gridare. –Il potente Sottosuolo è geloso del Sole, perché il suo calore e la sua luce sono le uniche cose che non può darmi! Su una cosa hai ragione: Helios mi manca! Che cosa ti aspettavi, che non mi mancasse? E come potevi? La Superficie è il mio mondo! Ci sono nata, lì! La Terra fertile è mia madre, il Fulmine è mio padre! Helios era la misura delle mie giornate! Come puoi illuderti che tutti loro non mi manchino?- La mia voce era un sibilo roco, tremante di collera. – Tu ti senti così superiore agli dei della Superficie! Eppure non capisci la cosa più ovvia: lo avrei mangiato comunque, quel melograno, anche se tu non me lo avessi offerto con l’inganno. Lo avrei mangiato per amore, e adesso lo sapresti anche tu, se solo ti fossi fidato!-
Un’ombra scura si contorse in fondo agli occhi di Ade. Una linea sottile, come una crepa, comparve fra le sue sopracciglia.
-Di quale inganno stai parlando? Io non ti ho mai ingannata.-
-E cosa mi dici della nostra cerimonia di nozze? Cosa mi dici del melograno che mi hai offerto davanti a tutti, affinché non lo potessi rifiutare? Chi mangia i frutti del Sottosuolo è costretto a restarvi per sempre! Davvero pensavi non lo sapessi?-
Ade avanzò verso di me e, mentre avanzava, la sua figura sembrava farsi più gigantesca e più buia.
-Costretto a restarvi per sempre,- ripeté lentamente. –Così è questo che ti hanno raccontato. Pensi che ti abbia offerto quel frutto per costringerti qui, nel caso un bel giorno tu decidessi di andartene.-
Rovesciai il capo all’indietro e lo guardai negli occhi.
-Osi negarlo?
Il viso di Ade era una maschera esangue, gli angoli delle labbra piegati all’ingiù. Vi lessi un dolore e un’impotenza terribili. Vi lessi la rabbia per quanto era appena accaduto.
Impiegai un istante per rendermi conto che, ancora una volta, tutte quelle emozioni appartenevano a me, e non a lui.
-Ti interesserà sapere,- disse Ade graffiante, –che il modo in cui mi hai descritto è lo stesso in cui ci vedono gli umani. In cui ci vedono entrambi,- precisò.
-Spiegami il valore di quel melograno.- sussurrai, la bocca arida.
Ade torreggiava su di me come una colonna di tenebra.
-No.- Il suono della sua voce mi colpì come uno schiaffo, ma fu l’amarezza che conteneva a spezzarmi il cuore. -Se non sei capace di capirlo da sola, è inutile che io te lo spieghi.-
Aspettai, ma non arrivò nient’altro: non sentii il gelo delle sue dita serrarmi la gola, né la sua mano strattonarmi i capelli.
Ade mi passò accanto e uscì dalla stanza.
Crollai in ginocchio sul pavimento. Tremavo e mi battevano i denti. Premetti le dita sul polso slogato e trovai la forza di non balbettare.
-Mostrati, Ipno. So che ci sei.-
Un’ombra si staccò dal soffitto e calò silenziosa sul pavimento davanti a me. Un mantello morbido e pesante fu appoggiato sulla mia schiena. Mani gentili me lo rimboccarono attorno alle spalle, avvolgendomi in esso.
-Mi dispiace,- dissi. –Mi dispiace davvero per questo spettacolo così sgradevole.-
Le mani si poggiarono per un istante sulle mie spalle, poi la voce del genio fendette l’aria, composta.
-Dispiace anche a me avere violato un momento così privato.-
Trasalii: la voce era familiare… ma non apparteneva a Ipno.
Sollevi il capo di scatto, incontrando gli occhi ambrati di Thanatos.
-Credo, mia regina, che noi due dovremmo parlare.-

 
§§§§
 
1_Metamorfosi, Ovidio, ripreso pari pari da una traduzione trovata online. Francamente, l’idea di mettere in bocca a Orfeo parole *mie* volte a smuovere gli dei dell’Oltretomba mi faceva ridere istericamente, per quanto era spropositata rispetto alle mie capacità. Per cui, insomma, meglio Ovidio ;)
2_Sleeping Sun, dei Nightwish. https://www.youtube.com/watch?v=zwsIgHcr5iQE potete farvi un’idea di come sarebbe, cantata da una voce maschile. Sì, sì, lo so che Orfeo non conosceva né il metal né l’Inglese, ma io adoro queste commistioni un po’ sopra le righe, per cui sopportatemi e compatitemi!
 
Saliman

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Capitolo 15
*** Non Una ma Molte ***


Buon giorno! Ultimamente sono stata un po’ impegnata, ma non potevo lasciare che il traguardo delle 100 recensioni passasse inosservato: bisognava festeggiare!
Per ringraziarvi della gentilezza ecco dunque questo aggiornamento non programmato: il capitolo è stato scritto di getto e altrettanto di getto postato: nei prossimi giorni sistemerò meglio la forma, promesso!
Nel frattempo grazie <3
§§§§
“La comprensione è un esercizio spirituale”
Octavio Paz

In piedi davanti a me, Thanatos era una figura alata, stagliata contro il riquadro appena più luminoso della vetrata.
Mi aveva ceduto il proprio mantello ed era rimasto nudo fino alla cintola: le sue clavicole erano sporgenti, le sue costole un rilievo che si muoveva sotto la pelle al ritmo del suo respiro.
Non somiglia affatto ad Ade, pensai con sollievo. Il mio sposo era longilineo ma vigoroso, il genio invece era poco più alto di me e di aspetto scarno. Persino il suo addome era leggermente incavato, come se una forza misteriosa lo divorasse dall’interno. La Morte non tentò di sottrarsi al mio sguardo: si lasciò esaminare, negli occhi un’indomabile luce ambrata.
Senza dire una parola mi tese la mano: il dorso coperto da una fitta epidermide di squame, il palmo argenteo aperto verso l’alto. Dopo un istante di esitazione, anche io tesi la mia.
Nonostante l’aspetto emaciato, la presa di Thanatos era forte, i suoi muscoli si contrassero senza incertezze mentre mi aiutava a rialzarmi.
Al suo posto, Ipno mi avrebbe cinto la vita con un braccio e mi avrebbe sussurrato qualcosa di frivolo all’orecchio, Thanatos no: rimase un poco scostato e le sue dita non si attardarono sulle mie nemmeno un istante più del necessario.
-Hai paura di me.- disse, proprio come nel mio sogno, anche se non credo che lo sapesse. –Perché? Sono un dio come gli altri. Nemmeno tra i più potenti.-
Riflettei un istante, seriamente, sulla domanda.
-Tu hai un potere terribile. Tu sei il silenzio da cui non si ritorna. Le parole che non potranno più essere dette. I gesti che non verranno mai più compiuti. Tu sei la fine di tutto!-
-La fine,- Thanatos assaporò quella parola. –Perchè hai paura che le cose finiscano?-
Non seppi cosa rispondere.
-Voglio mostrarti una cosa, se mi concedi il permesso.-
Mi umettai le labbra.
-Accordato.-
Thanatos mi prese per un polso e spalancò le ali. Non avvertii alcuno spostamento da parte nostra: fu come se fosse il mondo intorno a noi, a spostarsi. Ci ritrovammo sulle rive imbiancate del Cocito, a contemplare la superficie ghiacciata del lago. Sebbene non potessi vederli, sentivo i Titani muoversi intorpiditi nelle profondità, immaginavo l’acqua fredda lambire i loro occhi eternamente spalancati, privi di palpebre.
Come indovinando l’oggetto dei miei pensieri, Thanatos indicò con un cenno del capo la distesa di ghiaccio.
- I Titani sono figli di un ordine ormai obsoleto, che noi oggi chiamiamo Caos. Non c’è più spazio per loro né in Superficie né nel Mare. Non c’è più spazio per loro neppure nel Sottosuolo, perché persino il Sottosuolo fa parte dell’Ordine. I titani dovrebbero morire e lo vorrebbero, ma io non posso aiutarli.-
-Perché?-
-Perché io appartengo a questo Ordine, e loro invece no. Loro esistono da prima della Tripartizione: non sono mai stati ingoiati dal Tempo; non hanno un Fato o un Destino; non esiste, per loro, un filo nel grande arazzo delle Parche che possa essere tagliato o intrecciato ad altri fili. -
-Non potrebbero… diventare altro?-
-Tu non hai potere su di loro, perchè io non ce l'ho. Io sono il prezzo che si paga per essere vivi: i Titani non possono morire, e dunque non possono nemmeno fiorire. Rimarranno per sempre uguali, eternamente inchiodati a ciò che sono. Questa è la loro condanna: questo è il Tartaro, mia Regina.-
-Lo ammetto: il loro destino suona ben più spaventoso di te.-
Thanatos gettò il capo all’indietro.
-Io non sono spaventoso. Io sono ciò che sono: Morte. Sono parte del Mondo come l’amore, la speranza, la forza, la tenerezza, il dolore. I mortali hanno paura di me, ma io non uccido: le cose muoiono e, quando muoiono, io vengo a prenderle.-
Non risposi, e Thanatos mi disse: -Parlami di Kore.-
-Di Kore?- Rimasi sorpresa di quanto quel nome, ormai, mi suonasse estraneo.- Kore era molto ingenua. No… non ingenua: innocente. Era così innocente da non sapere nemmeno quante cose non sapesse. Kore credeva che la Superficie fosse l’unico mondo possibile per lei e che, essendo il più luminoso, fosse anche il migliore. Credeva che Zeus fosse un sovrano giusto e un padre desideroso di proteggerla, e che gli dei dell’Olimpo fossero una grande famiglia legata da amore reciproco e sincero.- Mi accigliai.-E’ buffo: solo da qui sono riuscita a vedere le piccole crudeltà tra di noi e nei confronti degli esseri umani. Era, per dire, mi ha sempre odiata: non mi ha mai fatto del male solo perché sono la figlia di mia madre. In verità, adesso che la capisco non posso più biasimarla del tutto: capisco il suo essere al tempo stesso compagna, vittima e carnefice di un uomo senza il quale non esiste. Capisco meglio perfino alcuni Aspetti di mia madre. Il suo desiderio di tenermi con sé è realmente dovuto al fatto che mi ama sopra ogni altra cosa e desidera proteggermi. Ma c’era anche un’altra paura: vedi, Demetra è Terra fertile che dà frutto: è innanzitutto Madre. E ha paura che, divenendo me stessa, io la lasci sola: una Madre non più madre che cosa sarebbe?-
Thanatos strinse le spalle: tollerava le mie divagazioni, ma sembrava non gli interessassero.
- Kore aveva paura di morire?- insistette.
-Kore non sapeva neppure cosa significasse, morire. Lo ha capito solo quando ha visto quell’umano nel bosco: in quel momento ha compreso che sarebbe morta anche a lei, un giorno. Ha avuto paura, ma è stata anche affascinata. Quando è morta, non è stato tutto in una volta: è successo poco a poco, comprensione dopo comprensione, ed è stato doloroso. Le sue illusioni sono morte, e quando hanno finito di morire, anche Kore non c’era più. C’era soltanto Persefone.-
Thanatos mi rivolse uno sguardo che non seppi decifrare.
-Soltanto Persefone...?-
Pensai che mi stesse giudicando una stupida e arrossii.
-Non fraintendermi, io riesco a capire che tutto ciò era necessario. Se fossi rimasta per sempre Kore, non sarei mai stata Persefone. Non sto dicendo che morire sia piacevole, dico solo che…- esitai.-Che colgo il tuo posto nel Mondo. Ma questo non ti rende meno spaventoso.-
-Mia Regina, pensi di essere meno "spaventosa" di me? Colei che si immerge nell’oscurità, e porta alla luce le cose nascoste. Colei che estrae dai semi i fiori che essi sono sempre stati. Tutto ciò che tocchi, lo sovverti: tutto ciò che nomini deve cambiare o morire. A volte le due cose insieme.-
-Sogno aveva paura di me,- confermai scrollando le spalle. Non ero meravigliata: ero ormai oltre lo stupore, oltre l’accettazione.
Siamo ciò che sappiamo di essere. Pensai. Questa è consapevolezza, ed è la lezione che rimane dopo che passa Thanatos.
La Morte mi piantò in faccia i suoi occhi color ambra.
-Tu mi somigli come nessun altro, mia Regina. O sono io che somiglio a te? O entrambi somigliamo piuttosto a qualcos’altro: una Morte Benevola che il Mondo non ha ancora mai visto?-
Mi parve che il suo sguardo si posasse sul mio ventre e vi indugiasse, ma fu solo per un istante, e non ero certa di non averlo solo immaginato. Subito dopo, Thanatos volse il capo verso il cielo del Sottosuolo.
-Un giorno non ci sarà più posto per gli dei in Superficie. Allora li cingerò nel mio abbraccio e li porterò qui nell’Averno, uno per uno.-
-E poi?-
- Berranno le acque di Lete e dimenticheranno di essere dei. torneranno in Superficie in altre forme e storie. È questo che succede ai miti, quando perdono la loro sacralità. Anche tu, sai? Ci sono molte dee e fanciulle che non sono esattamente te, ma quasi te.-
-Lo so.- dissi.-Le ho viste.-
-Ade è quello che cambia di più. A volte è un vampiro, a volte una Bestia, a volte l’ombra alle tue spalle. A volte è un folletto dal nome impronunciabile, a volte è il Diavolo e tu devi ballare con lui. A volte mi somiglia così tanto che diventa quasi impossibile distinguerlo da me. Tu, però, ami sempre e solo lui: sei sempre la sua sposa, e lui è sempre il tuo sposo. Anche quando vi cingo nel mio abbraccio e cambiate, voi due cambiate insieme, inseguendovi di mito in mito, e di storia in storia. Nomi diversi, volti diversi. Un giorno nessuno crederà più a una divinità del tuono. Ma finché esisterà una realtà nascosta e qualcuno in grado di portarla alla luce, voi due ci sarete.-
-Ade lo sa?-
-Certo che lo sa! Sei mai stata nel suo studio?-
Annuii.
-è pieno di libri.-
-Lì c’è tutta la storia del Mondo. Tutte le possibili storie di tutti i possibili Mondi. Ade sa tutto, ma io sono l’unico che ricorda davvero.-
-E cosa mi dici degli umani? Cosa mi dici di Orfeo e di Euridice? Lei è morta: non ci saranno altre versioni di lei!-
-E’ morta nella stessa misura in cui è stata viva: non puoi vedere una faccia della medaglia senza l’altra. E ancora: è morta sulla curva della Spirale in cui è vissuta. Ma… quante curve forma una Spirale? Ogni punto torna su curve diverse, mai uguale a se stesso, eppure somigliante. Ciò che non appartiene più alla Superficie, diventa parte del Sottosuolo. Ma proprio lì potrà purificarsi nel Lete e rinascere.-
-Che cosa sei, Thanatos? Pensavo di saperlo, ma forse non è così.-
-Te l'ho detto: sono solo una divinità minore. Sono il prezzo che si paga per essere vivi, sono il gemello di Sonno. E… sono colui che ricorda tutti i nomi. Persino dopo che voi li avrete dimenticati, io continuerò a ricordarli. È questo il mio solo potere.-
-Ma se tu sei un Aspetto necessario del Mondo, se Kore è morta e io sono ormai parte del Sottosuolo, perchè la Superficie mi manca disperatamente? Perchè non riesco a rassegnarmi, come ha fatto Euridice?-
-Mia Regina! La legge del Cosmo è che le cose morte devono morire e le cose che non appartengono più alla Superficie devono essere lasciate al Sottosuolo. Euridice è morta, ma non Kore! Kore è Fiorita! E se Persefone è Regina degli Inferi, Primavera apparterrà sempre, per diritto di nascita, alla Superficie!-
§§§§

Lasciai sotto un albero le mie scarpine di raso (ebbene sì, col tempo avevo preso a indossarle!) e mi inoltrai a piedi nudi nei Campi Elisi. Erebo fluttuava nel cielo, e una brezza dolce che mi ricordava Zefiro lambiva i fili d’erba turchese.
Che sciocca ero stata, a pensare di dover andare in cerca di Ade! Lui era il Sottosuolo, era ovunque intorno e dentro di me!
Mi sedetti sotto un albero di melograno.
-Non mi schioderò di qui finché non assumerai una forma che io possa baciare.- dissi.
Dopo un istante, avvertii un respiro caldo contro l’orecchio.
-Sto seriamente pensando di assumere le sembianze di un mastino a tre teste.- sussurrò Ade.
Il suo tono era ancora sostenuto, persino seccato, ma io ridacchiai e rabbrividii insieme, perché il suo respiro contro l’orecchio mi faceva il solletico e il suono della sua voce invece… be’.
Mi voltai. -Ti vorrei bene comunque, ma se devo baciarti preferisco che tu assuma un altro Aspetto.-
Ade era accovacciato nell’erba, dietro di me. Non sorrideva: suo volto era pallido e tirato, il suo sguardo stanco.
Gli premetti una mano sul petto e lo spinsi giù. Lui si lasciò cadere nell’erba, ma mi trascinò con sé. Caddi sul suo petto, le labbra a pochi centimetri dalle sue labbra.
Mi venne in mente il giorno in cui mi aveva rapita e si era voltato in aria per atterrare sulla sua schiena.
-Sarà sempre così?- domandai.- Ogni cosa ne riecheggerà sempre un’altra, e un’altra, e un'altra?-
-Con me? sì. È la mia natura.-
-Capisco.- sussurrai.
Ero seduta a cavalcioni sopra di lui, in una maniera assai poco dignitosa, ma molto divertente. Rovesciai il capo all’indietro, verso l’oscurità violacea di Erebo.
-Là sopra, mia madre sta scatenando la sua furia pur di riavermi indietro.-
-Ti ha cercata in ogni angolo della Superficie. Visto che Zeus fingeva di non sapere dove tu fossi, Ecate voleva che fossi io a dire a tua madre che ti ho reclamata.-
-E tu invece non lo ritenevi un tuo problema: è per questo che tu ed Ecate litigavate.-
Ade strinse le spalle.
-Alla fine Ecate le ha rivelato che tu non sei più in Superficie. A quel punto, Demetra si è recata da Helios, che le ha spiegato il resto.-
-È stata la stessa Ecate a raccontarti tutto?-
-Non è necessario che qualcuno me lo racconti: era inevitabile che accadesse. Piuttosto, mi chiedo come lo sappia tu.-
-Nonostante i tuoi tentativi di tenermelo nascosto, intendi?- mi strinsi le braccia attorno al corpo, continuando a contemplare le profondità scure di Erebo. –Non sapevo nulla di tutta questa storia, fino ad ora, ma avvertivo… qualcosa. L’inquietudine mi teneva sveglia la notte, e anche nel cuore dei Campi Elisi continuavo a tendere l’orecchio per cercare il frinire dei grilli. A volte mi accostavo alle finestre cercando il sole, prima di ricordare che non l’avrei trovato quaggiù. Poi ho visto Orfeo, e finalmente ho capito cosa fosse lo struggimento che mi erodeva dall’interno.-
Le mani di Ade si strinsero sulle mie spalle, scrollandomi leggermente. Abbassai lo sguardo sul suo viso bianco. La tenebra nei suoi occhi si contorceva, in preda a un furore antico.
- Persefone, non lascerò che tuo padre o tua madre ti portino via da me. Io ti ho aspettata dall’inizio del Tempo: nel ventre di Crono, aspettavo qualcosa che mi portasse alla luce. Ho aspettato, e aspettato, e aspettato. E quel giorno, ai piedi dell’Olimpo, quando ho sentito la tua risata, sono emerso dall’oscurità per sapere chi fosse che rideva così. Il sole mi bruciava la pelle e i colori mi corrodevano gli occhi, ma tu eri lì, ed eri reale, e ancora più calda e luminosa e viva di tutto il resto. Mi sarei ustionato le dita fino alle ossa pur di toccarti, e non mi sarebbe importato. Non lascerò che ti portino via da me. Il mio patto è valido, sancito con Zeus dall’inizio di quest’era. Demetra dovrà rassegnarsi alla perdita.-
-Ade, io non sto parlando della perdita che ha subito mia madre.-
Ade volse il capo di lato, come un bambino che non volesse ascoltare.
-Il Mondo troverà un altro equilibrio, un Ordine che non si basi sulla mia rinuncia!-
Mi chinai su di lui, le mie labbra contro il suo orecchio.
-Si baserà, allora, sulla mia?-
Ade si voltò di scatto, guardandomi finalmente in viso. Sentii il suo corpo sotto il mio irrigidirsi.
-Il tuo posto è al mio fianco.- sibilò.- Tu sei la mia sposa.-
-E’ vero. Ma, come te, io non sono una soltanto.- mi umettai le labbra. –Nel Sottosuolo io sono Persefone: tua sposa e regina, nella stessa misura in cui tu sei mio sposo e mio re. Ma in Superficie io sono Primavera, e Primavera è un Aspetto di me. Se mi priverai di uno dei miei Aspetti, io non sarò più ciò che sono adesso, sarò… qualcos’altro.- ebbi una risatina tremante.- Minta, forse? Euridice?-
Ade mi prese il viso tra le mani.
-Smettila di nominare altre donne! Io non voglio un’altra!-
-Se mi ami per come sono, hai una scelta.-
-No,- disse Ade.-Se ti amo per come sei, non ce l’ho.-
Mi attirò verso le sue labbra.
Non racconterò cosa fu per noi quella notte, come fu fare l’amore disperatamente, furiosamente, aggrappandoci l’uno all’altra come se da quello dipendesse la nostra identità, la nostra memoria. Non racconterò come fu rimanere appoggiata al petto di Ade e sentire ogni battito del suo cuore riverberare in me, mentre la Primavera, chiusa dentro le mie ossa, implorava di uscire.
Perché è questa la verità, è così ogni anno da allora: il richiamo della Superficie non viene dal Mondo di Sopra e non ha la voce di mia madre. È qualcosa che appartiene a me soltanto, un’eco che riverbera dentro le mie ossa e ha il suono sempre più forte del mio stesso sangue.
Ade ne coglie i segni ancor prima di me: divento inquieta, insicura, i miei sorrisi si fanno più rari e i miei giudizi più distratti. La visione di Thanatos mi diventa intollerabile e la notte resto sveglia, rannicchiata contro il petto di mio marito senza dire una parola.
Questo è il modo in cui l’altro Aspetto di me mi reclama, chiamandomi all’altra mia Casa. E io lo ignoro più a lungo che posso, finché Ade mi affonda le mani nei capelli e mi guarda negli occhi e mi dice: -è il momento, Primavera. Tu devi andare.-
Il mito narra del dolore di mia madre, della vigliaccheria di mio padre e dell’immensa compassione di Ecate: in questo è accurato.
Il mito narra anche che Ade non volesse lasciarmi andare, e anche questo è vero.
Ma il mito dice che Ade cedette per ordine di Zeus: per salvare gli uomini e forse il Mondo.
Non è vero. Non è vero. Non è vero.
Ade è il signore delle Ombre: non deve niente a Zeus, non ha motivo di curarsi dei vivi e tutt’ora ritiene che l’ira e il dolore di mia madre non fossero una sua responsabilità. Quella notte, Ade lottò e vinse solo contro se stesso. Per tener fede all’unica promessa che mi abbia mai fatto: Ti tratterò bene.
Il giorno dopo, Ermes fu mandato a chiamare.
Ai piedi della scalinata di marmo, abbracciai Ade con forza e lui accettò paziente, sebbene sapessi che trovarsi lì gli risultava insopportabile.
Poi, quasi facendo torto a se stesso, mi posò una mano sulla nuca e mi attirò verso di sé, premendomi le labbra contro la tempia.
-Ricordati del melograno,- mi disse tra i denti.
Lo salutai con il cuore pesante, e iniziai a salire i gradini. Sentivo lo sguardo di Ade bruciarmi tra le scapole, ma non mi voltai nemmeno una volta. Gradino dopo gradino dopo gradino, le sentii intorno a me, impalpabili come ragnatele: tutte le vite che avevo attraversato cadendo, adesso le attraversavo di nuovo, a ritroso, mentre salivo. Passo dopo passo, sentivo l’odore e il calore della Superficie farsi più vicini, avvolgermi in un invisibile abbraccio. Ad ogni gradino, l’animo si faceva più leggero.
Quando posai il piede nudo sulla terra fertile, sotto la luce calda di Helios, l’emozione fu incontenibile. Mi traboccò dagli occhi sotto forma di lacrime, si riversò fuori da me, investendo il suolo e facendolo sgelare, scaldando l’aria, che si faceva più mite. Sentii gli animali aprire gli occhi nelle tane, destandosi dal loro letargo, sentii i fiori tremare dentro le gemme, e i fili d’erba sussultare sotto la neve.
Sentii il grido delle rondini: dèi, le rondini!
Rovesciai il capo verso il cielo azzurro.
-Madre!- gridai anch’io, con tutto il fiato che avevo in gola. -Madre!-
Due mani morbide e calde premettero contro le mie guance, un seno generoso premette contro il mio, mentre due braccia profumate mi accoglievano in un dolcissimo abbraccio.
-Madre,- singhiozzai, -sono tornata!-
E mentre tutto intorno a noi era luce, fu un pensiero immenso, di gioia.
§§§§

Ok, gente, la storia è ormai agli sgoccioli. Ancora un altro capitolo e poi un brevissimo epilogo.
Un abbraccio.
S.

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Capitolo 16
*** Non Divisa ma Una ***


Tu dormi così lontano, come faccio a sapere se mi stai sentendo?
Emily Dickinson



Nonostante fossi tornata ormai da diversi giorni, mia madre era perennemente in apprensione. Ogni volta che si allontanava dalla nostra dimora mi proponeva di seguirla; se declinavo l’invito la vedevo torcersi le belle mani, combattuta tra i suoi doveri e il desiderio di restare. Quando lei non c’era, sei o sette driadi mi seguivano per i giardini, per i corridoi del palazzo e persino dentro le mie stanze. Si fermavano a contemplare le siepi in fiore se io mi fermavo, si sedevano sul bordo della fontana se io mi sedevo, rientravano nel palazzo se io rientravo. Non vedevo Leucippe da nessuna parte, nessuna di loro la nominava, e quando chiesi espressamente di lei, si guardarono le une con le altre in evidente imbarazzo, chiudendosi in un improvviso silenzio.
Qualunque gesto io compissi, dal raccogliere un frutto maturo dai rami più bassi di un albero all’intrecciare dei fiori, venivo subito interrotta da un “lascia fare a me, signora” o “non affaticarti, signora” o “ci penso io, signora”.
Quando mi tolsero di mano persino un pettine di corno e cominciarono a pettinarmi come se non fossi in grado di farlo da sola, sentii la calma sfuggirmi.
Eravamo sedute all’aperto, sotto lo sguardo benevole di Sole, e mia madre ci stava venendo incontro, avvolta in una veste d’oro e marrone. Aspettai che ci raggiungesse, poi allontanai le ninfe che mi circondavano.
-Lasciatemi sola con mia madre.- dissi.
Il mio tono sommesso gelò il loro chiacchiericcio, che si spense immediatamente. Si lanciarono occhiate apprensive tra loro, e poi verso mia madre.
Demetra annuì, sedendosi nell’erba accanto a me.
-Fate come dice.-
Osservammo le driadi correre via: dopo pochi passi la loro perplessità parve dissiparsi, perché iniziarono a ridere e spintonarsi allegramente tra loro, lanciando acuti gridolini.
-Perché mi tratti così?- le chiesi.
-Così come?-
-Perché mi stai sempre intorno, o chiedi alle ninfe di farlo al posto tuo?-
-Non gradisci la compagnia delle tue ancelle? Te ne troverò altre…-
-Sono le tue ancelle, mamma.-
Osservai le ninfe, in lontananza, abbracciarsi e improvvisare un canto, che si spense dopo poche strofe in una pioggia di risate. Erano bellissime sotto la luce di Sole, felicemente inconsapevoli del suolo che calpestavano, come io non sarei mai più stata. Si giurarono eterna amicizia, e so che erano sincere, ma sapevo anche avrebbero iniziato a farsi i dispetti al primo bel volto maschile che avessero incrociato.
-La mia ancella è un’Empusa dal volto ustionato.- raccontai.- Si chiama Alifto, ed è in grado di trasformarsi in un fuoco fatuo e di recarsi ovunque voglia. Mi manca molto.-
-Kore…- mia madre mi abbracciò e io mi lasciai stringere contro il suo seno, avvolta dalla sua dolcezza. Nel suo abbraccio ero cresciuta felice, ma era un mondo troppo piccolo per me adesso: contro il seno di mia madre sarei stata per sempre Kore, e mai Primavera né tantomeno Persefone.
Mi sciolsi delicatamente dall’ abbraccio e le rivolsi un sorriso.
Demetra mi scostò una ciocca dalla fronte. Vedeva il pallore della mia pelle, diafana dopo mesi e mesi lontana da Helios, e la ricchezza dei miei gioielli: orecchini d’oro, un bracciale di brillanti, le pieghe di una ricchissima collana che mi ricadeva in sottilissimi fili sul seno.
Mia madre mi guardava e non mi riconosceva.
-Sembri così diversa… fatico a riconoscere la mia bambina.-
-Madre, sono sempre io. La bambina è cresciuta, è fiorita. Non sarò mai più Kore, ma sarò sempre tua figlia, e tu sarai sempre mia Madre.-
Demetra mi prese il viso fra le mani e lo avvicinò al suo.
Notai per la priva volta le minuscole linee di espressione attorno ai suoi occhi azzurri e alla sua bocca: non sminuivano lo splendore divino del suo volto: lo rendevano solo più reale.
Aveva una ferita, in fondo allo sguardo, una crepa nell’anima che non avevo mai notato. Intuii che –al pari dei gioielli di Ade- anche la ferita di mia madre c’era sempre stata: semplicemente, Kore non era stata in grado di vederla.
-Ho sempre saputo che saresti cresciuta.-disse.- Ma il dolore e l’umiliazione... quelli avrei voluto risparmiarteli!-
-Mi hai protetta più che hai potuto, ma un certo tipo di dolore fa parte del Mondo. Quanto all’umiliazione, ti giuro che non ho subito alcun affronto. L’Averno è diverso da come temiamo.-
-Stai dicendo che Ade non è oscuro e spaventoso come sembra?-
Risi di cuore.
-Oh, sì che lo è! Ma è anche...-scossi il capo.- Oh, ho così tanto da raccontare e non so da dove iniziare!-
Ma non fu per niente facile.
Tanto per cominciare, le parole e i gesti che avevo portato con me dal Sottosuolo non erano adatti alla Superficie. Da Sotto a Sopra, le parole perdevano densità e cambiavano significato: bisognava usarne molte di più per dire la stessa cosa.
-Il Sottosuolo…-
Mia madre si accigliò, nello sforzo di capire a cosa mi riferissi.
-Intendi l’Averno? L’Orco? L’Oltretomba?-
-Giù lo chiamiamo semplicemente Sottosuolo, mamma.-
-Lo… chiamate?-
-Sì, lo chiamiamo: noi tutti. E ascolta…-
Mia madre ascoltava, ma non capiva, e più cercavo di spiegarle, più mi rendevo conto che non potevo biasimarla.
Demetra ragionava in termini di Causa ed Effetto, Passato, Presente, Futuro.
Per me, Ora poteva significare Sempre e Sempre poteva significare Ora, perché nel Sottosuolo tutto poteva tornare e ripetersi, sebbene in forme diverse.
Per mia madre il Divenire era una linea retta, per me una Spirale.
Come poteva capire, e come potevo spiegarle, che Ade non mi aveva scelta ma riconosciuta?
Che non mi aveva rapita, ma riportata a Casa?
Demetra tollerava appena il nome di suo fratello, e tratteneva un brivido ogni volta che lo chiamavo marito.
Cercai di tranquillizzarla: le dissi che le creature dell’Averno mi amavano molto, e che io amavo loro.
Le raccontai che avevo conosciuto Ipno e Thanatos: le dissi che Ipno mi faceva sempre sorridere, e Thanatos, invece, mi costringeva a riflettere.
Le spiegai che Ecate mi aveva affidata a una delle sue figlie perché divenisse mia ancella.
-Ma Ecate non ha figlie!- protestò Demetra.
-Figlie adottive, Madre.-
-Infatti! Quindi non sono davvero sue figlie: non le ha portate in grembo nè partorite!-
-Sono ugualmente sue figlie, e lei è ugualmente la loro Madre. Non c’è differenza.-
-Ecate mi ha aiutata.- disse mia madre, cercando un punto sul quale potessimo intenderci.
-Lo so.- sorrisi. -Ecate non era per niente d’accordo sulla condotta di Ade. È l’unica che si permette di contraddirlo.-
-Nessuno contraddirebbe mai Zeus. Lui è… Zeus, appunto. Il suo volere è legge.- Demetra mi guardò ansiosamente, cercando nel mio sguardo una ferita identica alla sua.
-Mio fratello ti ha… fatto male?-
Serrai la mia lingua tra i denti.
Sì, pensai: me ne ha fatto. Ha accartocciato le mie convinzioni su me stessa e sul Mondo, e questo fa male. E anche io ho fatto lo stesso con lui.
-Ade è lo sposo più premuroso che potessi desiderare.- sussurrai.-Non mi ha mai recato offesa.-
-Come lo hai convinto a lasciarti andare?-
-Nel modo più ovvio: gli ho promesso che tornerò.-
Demetra strinse le mie mani.
-Ti ha fatto giurare sullo Stige? Sono certa che potremo trovare un modo per annullare il patto!-
Scossi il capo.
- Madre, io voglio tornare. Ade mi manca! Anche mentre parliamo, lo desidero con la stessa forza con cui in questi mesi ho desiderato il tuo abbraccio!-
-Dici così per paura!-
Risi.
-Guardami: ti sembro spaventata?-
Demetra guardò il modo in cui mi brillavano gli occhi, il modo in cui accarezzavo i monili che avevo ai polsi, o la collana che Ade stesso mi aveva chiuso attorno alla gola.
-Non ti ho mai vista così felice.- confessò. I suoi occhi si riempirono di lacrime e io pensai al dolore inevitabile che fa parte del Mondo e che a volte è inscindibile dalla gioia.
-Quanto tempo ti fermerai?- mi chiese.-Quanto tempo ti ha dato?-
Avrei voluto dire qualcosa che lenisse almeno un poco il suo dolore, ma sapevo che era impossibile.
-Tutto il tempo necessario: così ha detto. Tutto il tempo necessario.-
-E poi apparterrai a lui definitivamente?-
A quelle parole, ne sono certa, un bagliore d’oro attraversò i miei occhi.
-Io appartengo, definitivamente, solo a me stessa.-
§§§§

Ecate aveva ragione: non puoi comprendere la Superficie se non conosci il Sottosuolo. Adesso che ero stata in mezzo alle ombre, i miei occhi erano divenuti più acuti. Andai a trovare Era, perché benedicesse il mio matrimonio. Ci andai da sola, a piedi nudi e con una corona di primule sul capo, un manto color porpora attorno alle spalle.
La zia non era alta come la ricordavo, o forse ero io ad essere cresciuta. Non avevo il suo seno fiorente né i suoi fianchi morbidi, e sapevo che li avrei sempre un poco invidiati. Ma non invidiavo lei né la condannavo. Non potevo: se mio marito avesse guardato un’altra come Zeus guardava ogni donna che passava, io avrei desiderato far del male a quella donna (e probabilmente anche al mio sposo) con le mie stesse mani.
Era Persefone a provare un sentimento così oscuro e violento? O la delicata Primavera?
Persefone e Primavera sono entrambi miei Aspetti, ma io sono Una.
Mi fermai davanti a Era, e papaveri rossi come sangue fiorirono ai miei piedi. Mi chinai a raccoglierne uno e glielo porsi.
-Il papavero è tuo,- le dissi. -Tutti i papaveri saranno tuoi per sempre.-
-Da regina a regina, accetto il tuo dono.- disse Era, prendendo il fiore.
Poi fece qualcosa che non le avevo mai visto fare, nemmeno quand’ero bambina: mi prese il viso fra le mani e mi posò un bacio in fronte.
-Sei bellissima, come lo sono soltanto le spose felici. Dì a mio fratello che vi benedico entrambi.-
Mi posò le mani sul ventre e i nostri sguardi si incrociarono di nuovo.
Da lontano, Zeus ci guardava con aria magnanima, come se avesse sempre previsto una risoluzione così felice degli eventi. In quell’istante ebbi compassione di lui: vidi un sovrano talmente legato al proprio regno da non accorgersi nemmeno dell’ombra che proiettava mentre camminava.
§§§§

Maggio rotolò dolcemente sul dorso delle colline, coperte di soffice erba verde. Poi venne giugno, che profumava di pesche e di rose, e luglio, immerso nel canto pigro e avvolgente delle cicale. Di giorno correvo per i prati, andavo a far visita ai miei numerosi parenti, facevo il bagno nei laghi o nel mare.
Ma dopo il tramonto, quando ero da sola, spalancavo le finestre della mia stanza e contemplavo il manto stellato di Notte, pensando all’Averno.
Ade, mi ascolti? Se ti parlo, riesci a sentirmi?
Primavera gli scriveva lunghissime lettere, perlopiù raccontando cose divertenti e sciocche. Nella busta infilavo sempre un fiore, dei semi o dei fili d’erba profumata, e quello invece era il messaggio di Persefone. Ade non rispondeva mai, ma non mi aspettavo che lo facesse: mio marito non era tipo da comporre poesie sui miei occhi: la sola idea mi faceva ridere, e tanto.
No, se immaginavo Ade, lo vedevo chino sulle sua scartoffie, o intento a ignorare le occhiate fulminanti di Ecate, o seduto sul suo trono a svolgere il lavoro di entrambi. Il fatto che tollerasse la mia assenza era la sua lettera d’amore per me.
Una di queste notti passeggiavo per il giardino e pensavo a lui, quando un’ombra si staccò dalla parete di alberi e scivolò alle mie spalle. Una mano ferma mi tappò la bocca, attirando la mia schiena contro un petto sconosciuto.
-Non gridare, dolcezza. Che ci fa una dea carina come te in un posto come questo?-
Le piante risposero prima di me, e il mio aggressore ebbe giusto il tempo di lanciare un urlo che si ritrovò a terra, impastoiato dai rami come un salame. Mi voltai furente verso l’assalitore, che si contorceva come un lombrico, sbraitando contro i pampini che gli tappavano la bocca. Strappai i rametti che gli coprivano la faccia… e mi ritrovai a fissare due occhi scuri dall’aria molto familiare.
-Ipno?!? Che cosa ti salta in mente?-
Il genio mi fissò sollevando un sopracciglio, e io mi inginocchiai accanto a lui, strappando i tralci che lo imbavagliavano.
-Ok, dolcezza, io sarò un po’ imprudente, ma tu ci stai prendendo gusto!- borbottò sputacchiando foglie e fiori.
Scoppiai a ridere, continuando a liberargli le spalle e le braccia.
-Ah-ah. Molto divertente, sì.- sibilò Sonno, sciogliendosi dai rami che gli cingevano i fianchi e scalciando per liberare le gambe.
Gli gettai le braccia al collo e lo strinsi forte, senza tra l’altro riuscire a smettere di ridere.
-Sonno, io ti adoro!-
-E meno male: pensa se ti stessi sulle scatole!-
-Ti adoro davvero: sei troppo scemo!-
-Lo prendo come un complimento, però se continui a stringere così finirò per rimpiangere i rami!-
A malincuore lo lasciai andare e dominai la mia ilarità.
-Che ci fai qui? Ti manda Ade?-
Sonno si levò in piedi, affondando le mani nei ricci e scrollandosi di dosso rami, rametti e foglioline.
-Non proprio, ma gli manchi terribilmente.-
-Te lo ha detto lui? Ti ha detto proprio così?-
-Chi, Ade? Ma figurati! Lo sai com’è fatto: tutto silenzi pregni di significato e occhiate oblique. Usa giusto uno o due monosillabi quando non può farne a meno. Per ora che non ci sei lavora come un matto: più gli manchi, più lavora!-
Sonno mi porse una mano e io la strinsi, tirandomi in piedi.
-Tu hai un gran bell’aspetto, invece. Sembri ingrassata.-
Inarcai un biondo sopracciglio.
-Ingrassata, eh?-
Sonno si grattò nervosamente il capo.
-Sì, insomma… si può dire ingrassata alla tua regina senza che questa decida di legarti e appenderti a testa in giù come un salame, vero?-
-Ingrassata.-ripetei con un lento sorriso.-Guarda meglio!-
Ipno guadò la mia pancia. Poi di nuovo il mio viso. Poi di nuovo la mia pancia.
-Oh!-
-Esattamente.-
-Io, ehm, devo dirglielo? O preferisci che mi limiti a lanciargli dei messaggi, tipo dicendogli che all’improvviso ami le noccioline sgusciate e vomiti l’anima ogni tre per due?-
-Thanatos mantiene il segreto da prima che io risalissi, sono certa che puoi farlo anche tu.-
Sonno tese la mano verso il mio ventre, poggiandovi contro un unico dito. Mi venne in mente, in quell’istante, che anche lui aveva un figlio.
-Sta dormendo,- sussurrò. -E riesco a sentire il brusio dei suoi sogni. Devi assolutamente dirlo ad Ade.-
-Lo so, ma voglio farlo di persona.-
-Quanto manca al tuo ritorno?-
Mi accarezzai la pancia, protettiva.
-Manca poco.-
§§§§

Ci sono Aspetti della Superficie che puoi capire soltanto dopo essere stato nel Sottosuolo. Tuttavia, ciò non significa che sia facile accettarli.
Quando mi recai da Estia era ormai agosto. Le stelle sfavillavano nel cielo, e attraverso la sua porta di casa, spalancata sulla Notte, potevo vedere il chiarore confortevole delle fiamme.
La zia mi abbracciò con calore, ma senza enfasi, come ci fossimo salutate appena il giorno prima e il mio diritto a bussare a casa sua all’ora di cena fosse un fatto indiscutibile e indiscusso.
Scrollò una sedia per far scendere il gatto e mi fece cenno di accomodarmi.
-Bentornata, tesoro. Ti aspettavo.-
Mi sedetti alla sua tavola, senza sapere bene cosa dire.
Estia stava rimestando una pentola che bolliva sul fuoco, e dalla quale proveniva un profumo di verdura, cipolla e aromi.
-Zia, sono stata nell’Averno e mi sono innamorata di Ade.-
Mi aspettavo una gran quantità di domande, ma la zia ne pose soltanto una.
-Lui ti rende felice?-
-Moltissimo!-
La zia annuì, soddisfatta.
-Bene.-
-Tornando da laggiù, ho capito molte cose. Cose che sono sempre state sotto i miei occhi. Adesso c’è una domanda che devo farti. Potrei farla a mia madre, forse, ma non mi sembra il caso.-
Estia aggiunse un po’ di sale alla pentola e finalmente si voltò a guardarmi. Sotto il suo sguardo verde e profondo, ebbi la netta sensazione che conoscesse già la mia domanda.
-Ti ascolto.-
-Ho sempre creduto che mio padre fosse Zeus. Perché nessuno mi ha mai detto che in realtà mio padre è Poseidone?-
Estia scostò una sedia dal tavolo e si sedette proprio di fronte a me.
-Perché tua madre non voleva parlarne, non voleva nemmeno ricordare. Forse pensava che, sostenendo una versione diversa, avrebbe cancellato ciò che era accaduto.-
-Così io, la figlia che Demetra ama più di se stessa, sono in realtà il frutto di una violenza?-
Estia ebbe un sorriso gentile.
-Questo è un Aspetto della vicenda, quello che tua madre ha inutilmente cercato di cancellare. Ma c’è un altro Aspetto in questa storia: Demetra ti ha amata dal primo istante in cui ha saputo di te, indipendentemente dalle circostanze del tuo concepimento.-
La mia fronte si spianò per lo stupore.
-Tu parli di Aspetti: sei stata nel Sottosuolo?-
Estia mi lanciò uno sguardo divertito.
-Ci sono stata e ci sono ancora. Io sono il focolare e la casa. Non mi pare che nel Sottosuolo scarseggino i legami familiari e sinceri.-
Mi sporsi verso di lei, emozionata.
-Dunque hai mangiato anche tu il melograno?-
-Molto tempo fa. E anche tu, vedo.-
-Sì, l’ho mangiato.- confermai. Riflettei un istante: -Finalmente capisco cosa significhi.-
§§§§

A Settembre, cominciai a sentire il cambiamento.
Primavera era profondamente appagata, la sentivo sbadigliare e ritirarsi dentro le mie ossa, come una bambina sazia di giochi e di latte che volesse soltanto riposare. Persefone, invece, si risvegliava, reclamando un po’ di solitudine e di quiete, sempre più insofferente al chiasso, alla compagnia e alle feste.
Sempre più spesso, la notte, mi ritrovavo a contemplare l’oscurità fuori dalle finestre, in attesa di qualcosa che non potevo né vedere né udire, ma sentivo sempre più vicino.
Una notte, sotto la mia finestra, scorsi il volto opalino e gli occhi dorati di Ecate, e seppi che l’attesa era finita.
Mia madre mi abbracciò sulla soglia.
-Salutami… lui.- disse piano.
-Lo farò.-
-Sei felice?-
-Molto.-
-Sarai sempre mia figlia?-
-Sempre.-
Poi mi sciolsi dal suo abbraccio e presi la mano che Ecate mi porgeva.
Dopo tanti mesi in Superficie, all’inizio fui come cieca: Ecate guidò i miei passi lungo i gradini di marmo che sprofondavano nell’oscurità della terra. Passo dopo passo, i miei occhi ripresero a orientarsi in quel buio familiare, i miei piedi ritrovarono memoria di ogni singolo gradino: allora fui io stessa, sempre più emozionata, a precedere Ecate nella discesa.
Dapprima flebile, quasi un fruscio, poi sempre più definito, cominciai a sentirlo: il battito del cuore di Ade che riverberava nel mio.
Nonostante le mie condizioni, scesi gli ultimi gradini quasi correndo.
-Ade!- gridai.-Ade! Sono tornata!-
Mi guardai intorno, cercando le sue braccia in cui rifugiarmi, le sue labbra da reclamare.
I miei occhi si posarono su quelli dorati e impenetrabili di Thanatos e su quelli scuri e imbarazzati di Ipno.
Ma Ade… Ade non c’era.
§§§§

Questo capitolo ha giocato parecchio con le diverse versioni del mito riguardanti l'identità del padre di Persefone e le circostanze del concepimento. Tra l'altro, secondo me questo aspetto dà anche una ulteriore sfumatura di significato alla protettività di Demetra nei confronti della figlia, sfumatura che non mi pare di aver colto in altre storie che ho letto.
Lo ammetto: il calo di recensioni ha smorzato parecchio il mio interesse per questa storia e la mia buona volontà nell'offrirvi un editing decente, ma conto comunque di concluderla entro l'anno.
Auguro a tutti voi un buon Natale, perchè non credo proprio di riuscire a postare entro quella data.
Un caro saluto,
Saliman

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Capitolo 17
*** Epilogo - Il sorriso del Sottosuolo ***


È dalla fine del mondo
che vengo
con nuove parole
dall'inizio del mondo.
"Il tempo nella poesia" di Bijan Jilali
 
 
Dritta di fianco a me, Ecate scrutava gli anfratti bui della sala, come aspettando che la sagoma scura di Ade si materializzasse da un momento all’altro tra le pallide colonne. Gli occhi della dea si assottigliarono fino a ridursi a due fessure.
-Dov’è mio fratello? Perché non è qui ad accogliere la sua sposa?-  Il suo tono era talmente calmo che Sonno fece, per riflesso, un passo indietro, lanciando un’occhiata a Thanatos.
Sembrava di assistere ad un brutto scherzo, ma Ade non era il tipo da prestarsi a simili commedie.
-Sono certa che c’è una spiegazione…- buttai lì con un sorriso coraggioso.
Sonno arrossì fino alle orecchie, aprendo e chiudendo le ali che gli cingevano il capo.
Insensibile al disappunto di Ecate, Thanatos tamburellò le labbra con la punta delle dita e si rivolse direttamente a me.
-Non sappiamo dove sia Ade.- Il bagliore perplesso del suo sguardo smentiva il tono distaccato. -È sparito da qualche ora: lo abbiamo cercato ovunque, ma non riusciamo a trovarlo.-
Mi guardai intorno, delusa. Per tutti quei mesi avevo accettato i silenzi di Ade, arrivando persino ad amarli perché erano i suoi silenzi: parte di lui quanto le dimostrazioni d’amore che aveva avuto per me. Ma giorno dopo giorno, in Superficie, non avevo mai smesso di fantasticare sul momento in cui ci saremmo riuniti: avevo immaginato Ade dritto ai piedi della gradinata, solo un tamburellare delle dita bianchissime a tradire l’impazienza. Avevo immaginato l’istante in cui, emergendo dalla caligine che separava i nostri mondi, avrei incrociato finalmente i suoi occhi e avrei visto l’oscurità diradarsi. Con le braccia tese, avrei saltato gli ultimi gradini e mi sarei gettata ridendo tra le sue braccia, già aperte per ricevermi.
Guardai l’anticamera dell’Averno: appariva troppo grande, fredda e vuota senza di lui, e…
-Io so dov’è.- realizzai, mentre un’intuizione mi attraversava come un tremito.
Thanatos e Ipno mi guardarono senza capire.
-Che cosa?- chiese Ecate, voltandosi nella mia direzione.
La udii appena, mentre la comprensione mi faceva sgranare gli occhi e un sorriso incredulo mi affiorava alle labbra. Guardai Thanatos e Ipno.
-So che lo avete cercato ovunque, ma non potevate essere voi a trovarlo: questa volta devo essere io!-
I due gemelli si fissarono sconcertati, come fossi impazzita.
Levai gli occhi al soffitto, spazientita, poi mi diressi spedita verso l’uscita della sala.
-Persefone! Dove stai andando?- la voce di Ecate mi raggiunse alle spalle.
-Da Ade!-
-Sei sicura di sapere dove sia?- fece scettico Thanatos.
-Io so sempre dov’è mio marito!- gridai in risposta, inoltrandomi per i corridoi.-Spero solo che tutto non cominci senza di me...- sussurrai ansiosamente.
Ma forse era una paura vana: dopotutto, senza di me non poteva cominciare.
Svoltando una curva, andai quasi a sbattere contro Minta.
-Oh… ciao!- le sorrisi frettolosamente, facendo un giro su me stessa per oltrepassarla senza fermarmi.-Sono appena tornata!-
Percepii la sua occhiata malevola alle mie spalle, ma non le diedi peso finchè…
-Cagna!-
Il sussurro di Minta mi raggiunse quando l’avevo ormai distanziata: un suono sommesso e carico di disprezzo, che fendette l’aria del corridoio e affondò fra le mie scapole, fermandomi dov’ero.
Mi voltai lentamente, raggelata.
Gli occhi verdi della ninfa mi fissavano con odio, il suo viso bellissimo era deformato dal livore. Mosse un passo verso di me, stringendo i pugni.
-Sei solo una puttana venuta da Sopra! Vuoi sapere cos’ha visto Ade in te? Una vergine da svezzare: ecco cosa! E adesso che non sei più vergine e sei sformata dalla gravidanza, non ti guarderà due volte!-
Le parole di Minta si spensero in un respiro affannoso, come se aggredirmi in quel modo le fosse costato uno sforzo enorme. La fissai in silenzio, senza parole, e all’improvviso scoprii di essere incuriosita: non da lei, ma da ciò che non provavo. Nessun dolore, nessun senso di inadeguatezza o di inferiorità.
Minta e io distavamo pochi metri l’una dall’altra, ma era come se la guardassi da un’incolmabile distanza, da un posto in cui il suo odio non poteva più ferirmi.
Dopo che si è stati nel Sottosuolo, si comprendono molte cose della Superficie, ma è vero anche il contrario. E io, finalmente, capii.
Intrecciando le dita in grembo, avanzai verso Minta.
-Tu hai frequentato il letto di Ade prima che lui mi reclamasse, e adesso credi che io te l’abbia portato via.- La ninfa fece una smorfia, e io continuai. –Devi avere poca stima di lui, se pensi che sia possibile possederlo o rubarlo come fosse un oggetto. E c’è dell’altro: tu mi hai spinta volutamente sulle rive del Cocito, sperando che morissi. Ero una ragazzina disperata e sola e invece di aiutarmi o ignorarmi hai cercato di uccidermi.-
La ninfa arrossì.
-Ade non ti crederà!-
-Credermi? Sospetto che Ade lo abbia capito subito!-
Minta impallidì di colpo.
-Menti! Se lo ha capito…-
–…perchè non ti ha gettata subito nel Tartaro? Perché si è limitato ad allontanarti da me? Davvero non lo capisci?- Chiusi gli occhi, soffocando la fiamma ardente della gelosia. –Perché voleva essere gentile! Anche se non ti ama più, non ha dimenticato di averti amata un tempo.-
Tesi una mano verso la ninfa, ma non era un gesto di pace. -Hai un animo così freddo e sterile, Minta! La tua bellezza è un profumo che non si dimentica, ma dentro di te non ci sono fiori: li hai uccisi tutti! E allora, se questa è la tua natura, ti aiuterò a realizzarla. Come dentro, così fuori: sii ciò che sei!-
Minta aprì le labbra per replicare, ma getti di foglie verdissime eruppero dalla sua gola, soffocando la sua voce. La ninfa sbatté le palpebre e si portò una mano al viso: altre foglie gemmarono dai suoi occhi, dalle sue narici, dalle punte delle sue dita. Quando la vidi crollare in ginocchio, le diedi le spalle e ripresi a camminare lungo il corridoio, senza neppure attendere che la metamorfosi si completasse.
 
§§§§
 
Avanzai lungo i corridoi con l’orecchio ben teso, seguendo il suono flebile e costante di un battito di cuore, che veniva da qualche parte dalle viscere del castello ma andava a tempo col mio.
Quando giunsi in un’ala del palazzo in cui non ero mai stata, fu quel suono a guidarmi di stanza in stanza.
All’improvviso, una porta di quercia mi sbarrò la strada. Poggiai una mano sulla maniglia e la spalancai.
Mi ritrovai su un pianerottolo, delimitato da una balaustra affacciata nel vuoto.
Il luogo sembrava l’interno di una torre, ma talmente ampia e buia che non riuscivo a vederne i contorni, e talmente alta e profonda che non riuscivo a scorgerne un soffitto né un pavimento. L’oscurità si spalancava sopra e sotto di me come una gigantesca voragine.
Con gambe tremanti, avanzai sul pianerottolo fino a raggiungere la balaustra. La strinsi con entrambe le mani e, sfidando la vertigine, mi sporsi nell’oscurità oltre il parapetto. Sopra e sotto di me, il pianerottolo continuava in una scala di pietra: i gradini emergevano dalla parete della torre, seguendone la curva e avvitandosi verso il basso e verso l’alto come una spirale.
La scala era ampia e la ringhiera robusta, ma il senso di vertigine mi faceva girare la testa e contrarre lo stomaco. Timorosa persino di respirare, indietreggiai di qualche passo. Poggiai il palmo aperto contro la parete della torre e iniziai a scendere i gradini, bene attenta a tenermi attaccata al muro.
Un gradino dopo l’altro, oltrepassai centinaia di fanciulle: dee che non erano esattamente me, ma quasi me. Erano in piedi sulla scala e mi davano le spalle: si sporgevano dalla balaustra, guardando qualcosa che stava avvenendo sul fondo. Alcune si stringevano le une alle altre, sussurrandosi all’orecchio parole che non capivo, altre si abbracciavano e ridevano, qualcuna addirittura batteva le mani, commentando qualcosa che io non potevo vedere.
Sebbene fossi esausta, mi ritrovai a sorridere anche io, perché la loro vitalità era contagiosa e perché, man mano che scendevo, sentivo il soffice battito di cuore riverberare sempre più vicino al mio, ed ero sempre più certa di dove (o quando?) sarei arrivata.
I gradini finirono su uno spiazzo di limpida tenebra.
Lì, finalmente, scorsi Ade: il mio sposo non guardava nella mia direzione e non mi aveva sentita arrivare.
E non era solo.
 
§§§§
 
Nel buio che ci circondava, il profilo elegante di Ade era di un candore quasi luminoso. I suoi capelli e gran parte della sua figura sfumavano nell’oscurità: solo le mani scintillanti di anelli biancheggiavano, aperte, all’altezza dei suoi fianchi.
-Tu non sei Estia.- stava dicendo, studiando da sotto le ciglia qualcuno che non riuscivo a vedere.
-No.- confermò una voce infantile. -E tu, chi sei?-
Mio marito ebbe un istante di pausa.
-Io sono Ade.- disse infine. La sua voce vibrò limpida nel buio: la tenebra la catturò e la scompose in una miriade di echi, restituendola al mio cuore in tutte le ricche sonorità che ricordavo.
Così familiare, così amata. Mi tappai la bocca con entrambe le mani per non scoppiare a piangere. Tu non immagini quanto mi sei mancato!
Ade si mosse: non di molto, ma abbastanza da consentirmi di scorgere, oltre la tenebra che doveva essere il suo mantello, la figura minuta di una bambina.
Aveva i capelli biondi come un raggio di sole e gli occhi marroni come la terra smossa. Le piccole braccia erano abbronzate e dall’orlo candido della veste spiccavano le punte dei piccoli piedi nudi.
Mi poggiai una mano al petto, rapita: i miei occhi non avevano mai visto quella bambina, ma la riconobbi immediatamente. Il suono del suo cuore mi aveva guidata fin lì… e andava a tempo col mio.
La piccola dea rovesciò il capo all’indietro per guardare Ade.
-Dove siamo?- trillò.
Il dio scrollò le spalle, sprezzante.
-Voi dell’Olimpo lo chiamate Orco o Averno.-
-E tu, invece, come lo chiami?-
-Sottosuolo.-
La bambina si guardò intorno, curiosa.
-È sempre così buio?-
-Sei caduta al lungo. Siamo nel regno dei semi, non in quello dei fiori.-
-Tu vivi qui? Come puoi sopportarlo?-
Ade sollevò una mano pallida, scintillante di anelli, e un varco si aprì nel buio come una ferita. Oltre i bordi sfrangiati della Porta, scorsi una stanza esagonale e una tavola con sei scranni.
Ade indicò il passaggio alla bambina.
-Torna a casa, figlia della Superficie: questo non è posto per te.-
La piccola dea si puntellò le mani sui fianchi.
-Mi chiamo Kore!- precisò polemica.
I suoi capelli dorati illuminavano il buio, l’ovale del suo volto rischiarava la tenebra.
Era più piccola e luminosa di quanto immaginasse; più tenera e innocente di quanto io stessa ricordassi. Avevo creduto di averla persa per sempre, fuggita via come polvere tra le mie dita, e invece era qui, ad aspettare che la incontrassi di nuovo in questo istante che apparteneva ad entrambe, uguale e diverso come in una spirale.
Kore non è Morta, aveva detto Thanatos. È fiorita.
Ade si scostò da lei, chiaramente infastidito.
-Torna a casa, ragazzina, oppure rimani, ma lasciami tornare ai miei doveri.-
Kore si aggrappò al suo mantello con entrambe le mani.
-Aspetta! Non te ne andare!-
Il dio fece un passo indietro, come se il calore di quelle piccole dita lo avesse ustionato.
-Attenta a quello che dici. Attenta a quello che chiedi.-
La bambina non allentò la presa.
-Ade!- gridò. Il nome del dio saettò come luce dalle piccole labbra, e mio marito si fermò, gli occhi neri sgranati nel buio.
-Sei tu.- disse, paralizzato dalla comprensione. -Sei… tu!-
-Io ti chiamo Ade!- disse la bambina. Sul volto infantile ardeva una determinazione feroce. -Io ti chiamo dio dell’Averno. Io conosco il tuo nome e pronunciandolo ti lego!-
Un lampo di sofferenza straziò il volto del dio. Sollevò le mani affusolate verso il viso della bambina, come se lei fosse il sole e lui desiderasse soltanto toccarla, ma non osasse.
Fece l’unica cosa possibile, e la sua voce non tremò.
-Io ti chiamo Persefone: io ti chiamo figlia di Zeus e Demetra. Anche io conosco il tuo nome, anche io lo pronuncio e ti lego.-
Un istante dopo Ade vacillò, come se la portata di quanto avvenuto gli stesse crollando addosso.
Era stato gentile con quella bambina, e inesorabile e inflessibile, certo: con se stesso più ancora che con lei, sebbene lo capissi soltanto io e soltanto adesso.
Lentamente emersi dal buio, lasciando che l’oscurità scivolasse oltre le mie spalle come un drappo di velluto.
Avevo gli occhi lucidi e la voce incrinata per l’emozione.
-Ecco dov’eri!-
Non aspettai che Ade si voltasse e mi riconoscesse.
Gli gettai le braccia al collo e lo sentii irrigidirsi, per poi sciogliersi improvvisamente non appena il suo corpo contro il mio mi riconobbe. Serrò le braccia attorno alle mie spalle e mi strinse al suo petto, e tutta la tenebra intorno a noi vacillò e tremò, come se lo slancio del nostro abbraccio l’avesse percorsa per intero.
Tempestai di baci il volto di mio marito, finchè lui non mi prese il viso fra le mani e pose fine a quell’assalto bloccando le mie labbra con le sue.
Risi contro la sua bocca, e rise piano anche lui.
Non so quanto a lungo rimanemmo abbracciati in quel modo.
Con il capo ancora appoggiato contro il petto di Ade, abbassai lo sguardo su Kore, che ci fissava ammutolita.
-Ciao!- la salutai, la voce roca per l’emozione. –Eccoti… eccoci tutti qui. Dove è cominciato. O comincerà.-
Ade mi cinse le spalle, scostandosi con delicatezza. Indicò Kore con un piccolo cenno del capo.
–Tu lo sapevi?- mi chiese.
-Sì, lo sapevo.-
Ade inarcò un nero sopracciglio.
-Non me lo hai mai detto.-
-Davvero?-
Feci spallucce e mi chinai su Kore. La bambina mi piantò in faccia i grandi occhi scuri.
-Che cosa “è cominciato”?- mi chiese subito.
-La tua storia.- le risposi.-La storia che ti cambierà, rendendoti ciò che se sei sempre stata.-
La piccola mi guardò allarmata.
- Che cosa significa? Io non voglio cambiare!-
Le poggiai una mano sulla spalla e la sentii minuscola, fragile come le ossa di un uccellino. Io non mi ero spezzata, ma lei? Lei sarebbe stata altrettanto forte?
Provai l’impulso fortissimo di strapparla a ciò che sarebbe avvenuto.
La voce profonda di Ade fu una carezza nel buio.
-Persefone…-
 -Vorrei solo proteggerla dal dolore che la attende,- mormorai.
-E anche da tutta la gioia?- sussurrò lui in risposta, ancora più piano.
Deglutii il nodo che mi serrava la gola e rivolsi a Kore un sorriso incoraggiante.
-Cerca di ricordare, bambina: siamo ciò che siamo: questa è accettazione. Siamo ciò che rappresentiamo: questa è responsabilità. Siamo ciò che sappiamo di essere: questa è consapevolezza. Tutte e tre insieme, è potere.-
Kore mi ascoltò, ma non capì. Si guardò intorno, nella voce una nota di pianto.
- È talmente buio, qui! Io voglio… voglio tornare indietro!-
Le sorrisi per darle coraggio.
-Non si può tornare indietro: non sullo stesso braccio della Spirale. Però si può andare avanti. Ciò che è oscuro può essere illuminato. Ciò che è nascosto, può essere riportato alla luce. I semi vogliono fiorire. Vedrai.-
Kore mi guardò tremando.
-Tu sei così saggia… e così gentile! Chi sei?-
-Saggia… io?- Scoppiai a ridere. Raddrizzai la schiena e mi accostai ad Ade. Aprii una mano e le mie dita trovarono nel buio quelle di lui, senza doverle cercare. –Sì,- ammisi.-Immagino di essere diventata almeno un po’ più saggia.-
-Chi sei?- insistette Kore.
-Sicura di volerlo sapere? Sicura, sicura, sicura?-
La piccola dea annuì ansiosamente.
-Io sono te,- rivelai.
-È un indovinello?-
-No, piccola Kore. È una promessa.-
E prima che potesse ribattere, le premetti una mano tra le scapole, e la spinsi con dolcezza oltre la Soglia.
 
§§§§
 
-Ben fatto.- approvò Ade, guardando il Varco richiudersi.
-Non cantare vittoria,- lo canzonai.-Un giorno tu e lei vi incontrerete di nuovo, e allora non te la toglierai più di torno!-
Ade si massaggiò con indice e pollice la radice del naso, come per lenire un gran mal di testa.
-Per fortuna, questo è un problema che affronterà un altro me!-
-Mi sembra giusto,- annuii serafica.-Anche perché ci sono alcune questioni che invece richiedono la tua specifica attenzione.-
Ade mi guardò, le sopracciglia aggrottate in una domanda silenziosa.
Per tutta risposta, presi la sua mano e me la premetti con dolcezza contro il ventre.
Molto lentamente, la fronte bianca del dio si spianò.
-…Oh!-
-Pensa: Sonno ha detto esattamente la stessa cosa!-
-Ma tu… noi… Io…-
Gli presi il viso fra le mani e lo attirai contro le mie labbra, arginando con un bacio quella pioggia di pronomi.
-Sono felice che sei felice!- conclusi.-Avrei potuto scrivertelo in una lettera, ma volevo dirtelo di persona. Ah, e c’è dell’altro: ho capito il senso di quel melograno.-
-Ma davvero?- Ade si scostò un poco da me, senza togliere le mani dai miei fianchi. –Mi sembrava lo avessi già capito: il melograno era un perfido trucco per incatenarti a me!-
Tentai di dargli un piccolo pugno sulla spalla, ma Ade mi bloccò la mano e mi baciò le nocche senza smettere di guardarmi.
-Sto aspettando,- precisò.
-Tanto sai già cosa sto per dire!-
-E allora dillo.-
Il suo sguardo era un distillato di sarcasmo e non potevo dargli torto: lo avevo accusato ingiustamente di avermi ingannata; attendeva da mesi che gli porgessi delle meritatissime scuse.
- In Superficie,- cominciai -si dice che chi mangia i frutti del Sottosuolo è obbligato a restarvi per sempre.-
-E invece?-
Abbassai lo sguardo, incerta.
-Da Sopra a Sotto le parole sono quasi le stesse, ma il significato è l’esatto contrario.-
Ade annuì.
-Dillo, e finalmente sarà vero.
Non so cosa mi spinse a sollevare il capo e cercare i suoi occhi. Forse fu la dolcezza che incrinava il perfetto distacco della sua voce, forse fu l’urgenza nascosta nel suo tono: la speranza che io avessi finalmente compreso.
Senza sciogliermi dall’abbraccio di Ade, mi levai in punta di piedi e gli accostai le labbra all’orecchio.
- Chi mangia i frutti del Sottosuolo sarà sempre ben accetto in quel mondo, e il Sottosuolo farà sempre parte di lui. –
Ade rovesciò il capo all’indietro e rise di pura gioia. In quell'istante somigliò molto a Zeus, e non me ne stupii, perchè ormai avevo compreso:
Zeus, Poseidone, Ade.
Superficie, Mare, Sottosuolo.
Io, Subconscio, Inconscio.

Il Mondo non è Uno ma Molti, e non Diviso ma Uno.
Io lo servo seguendo la mia natura: calco danzando la Superficie, poi mi immergo nel Sottosuolo, e quando è tempo torno ancora in Superficie... e tutto questo molte e molte volte, e ogni volta i semi di un Regno danno fiori e frutti anche nell’altro.
Qui si conclude la mia storia, così come quella di Ade, se mai deciderà di raccontarla.
Da questo punto in poi, le nostre due storie diventano una soltanto, che appartiene ad entrambi e ricomincia da capo.
Quanto al senso di questo eterno tornare: il compito delle storie non è mai stato dare risposte, ma indicare una strada. La mietitura dei frutti è il compito degli Umani e noi, invece, siamo soltanto dei.
 
Nel profondo dell’inverno, finalmente scoprii
che dentro di me c’era una invincibile estate.
 
Albert Camus
 
§§§§
 
Cari tutti, questo viaggio durato un anno è finalmente giunto alla fine <3
A tratti ho amato questa storia e a tratti invece l’ho detestata: sono comunque felice di essere riuscita a darle una conclusione e spero un giorno di poterla riprendere in mano con più distacco.
Ringrazio di cuore chi mi ha accompagnata mettendo la storia tra le seguire, le preferite e quelle da ricordare, e soprattutto chi ha lasciato anche solo un commento.
Senza (spero) far torto a nessuno, sento sinceramente il bisogno di ringraziare singolarmente alcune persone:
_Sherazade per la sua gentilezza e per i suoi commenti, ormai diventati per me dei veri e propri appuntamenti fissi alla pubblicazione
_Viola, che nel corso delle mie crisi di “sticazziabbandonotuttoinserireunaparolacciaacasoqui” giustamente ha rivendicato più volte il suo diritto (e il mio dovere xD ) di tutelare la sua isola felice, ricordandomi che le storie appartengono anche a chi le legge e non solo a chi le scrive.
_Martin Forever e Eragon che, pur avendo iniziato a leggere a pubblicazione ormai inoltrata, hanno commentato quasi tutti i capitoli con un recuperone che mi ha commosso
Ultima ma non ultima:
_Loanna, che è stata il mio costante riferimento per confrontarmi sulle varie interpretazioni e versioni del mito, nonché per brainstorming e sfoghi di vari livelli e tipi
 
A tutti voi che leggete, in ogni caso, spero di aver lasciato qualcosa di positivo.
Voi di sicuro avete trasmesso qualcosa di positivo a me ;)


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