I miei 20 metri quadrati

di aki_penn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mini Mei diventa Mei ***
Capitolo 2: *** Da grande svaligerò le banche ***
Capitolo 3: *** Per fortuna non ho il nome di una torta ***
Capitolo 4: *** A cucci e spintoni ***
Capitolo 5: *** Il Lancio del Kiwi ***
Capitolo 6: *** Schiavizzazione Consenziente ***
Capitolo 7: *** Tutto su di me ***
Capitolo 8: *** La verità nel frac ***
Capitolo 9: *** Il Furto della Gioconda sul Gabinetto ***
Capitolo 10: *** Vendette femminili ***
Capitolo 11: *** La Dura vita del Pungball ***
Capitolo 12: *** Dieci minuti di nobiltà ***
Capitolo 13: *** Nudisti Per Caso ***
Capitolo 14: *** Criminal ***
Capitolo 15: *** L'amnesia del Puzzle ***
Capitolo 16: *** L'alleanza delle Pettegole ***
Capitolo 17: *** Turchino Natale ***
Capitolo 18: *** Preludio Plenilunio Pediluvio ***
Capitolo 19: *** La Supriorità dello Struzzo ***
Capitolo 20: *** Per chi non sa ***
Capitolo 21: *** Guerre Culinarie ***



Capitolo 1
*** Mini Mei diventa Mei ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Primo

Mini Mei diventa Mei

 

 

 

A mio padre piacevano i computer. Gli piacevano più di ogni altra cosa. E a volte – odio dirlo-  gli piacevano più di noi. Gli piacevano più di me, Mei e la mamma , intendo.

Mei era il soprannome di mio padre, e mio fratello era mini Mei, dopo che lui è morto e mio fratello è cresciuto è stato inevitabile chiamare lui con quel nome. E così Mei adesso è mio fratello.

Non sentiamo molto la mancanza di papà a dire il vero, è brutto da dire, ma otto anni non sono abbastanza per ricordarsi come stavamo con lui. Se ne è andato via presto.

Mei non ci pensa mai, ma è proprio uguale a lui. Non lo vedo molto in giro per casa, se ne sta sempre in camera sua, col suo PC e le sue diavolerie elettroniche. Una volta ha costruito un tostapane artigianale, un'altra invece ha incendiato la cucina cercando di collegare il forno con il suo portatile via etere.  Dubito che con un forno si possa fare una cosa simile, ma se si può fare sarà sicuramente Mei a farlo per primo.

È bravo a scuola, più bravo di me e direi che possa essere considerato un Nerd, insomma i secchioni tutti studio e tecnologia, li chiamano così in America e nei film vero?

 

 

La signora Pavesi bussò energicamente alla porta della stanza più fredda di tutta la casa, attaccata all’uscio c’era una cordicella a piccole sfere caratteristiche dei vecchi sciacquoni , salvata anni prima alla ristrutturazione del bagno. In famiglia erano sempre tutti molto restii a gettare via qualche cosa che potesse avere un significato(anche i volantini restavano sul bancone della cucina per mesi senza che nessuno si occupasse di buttarli), ma quella catenella da gabinetto era eccessiva. Mei non era solito a impuntarsi su qualcosa, era un tipo silenzioso che preferiva far prendere agli altri le decisioni, ma su quella catenella era stato irremovibile, gli piaceva e non si sarebbe spostata di lì, nemmeno se glielo avesse chiesto il padre eterno! E quindi la povera signora Pavesi si era dovuta piegare alla buffa richiesta del figlio sul ciglio dell’età adulta.

“Chi è?” chiesero mestamente da dentro.

“Chi vuoi che sia? Sono tua madre! Posso entrare?” fece tronfia la signora Pavesi dall’alto del suo metro e un barattolo  da cui il figlio non aveva preso nulla né nell’aspetto né nel carattere.

Oltre la porta c’erano principalmente scartoffie, non che la camera fosse in disordine, ma c’erano così tante cose (per la maggior parte assolutamente futili) che era difficile trovare qualsiasi cosa si stesse cercando, a meno che non fosse Mei a cercarle.

Sua madre si guardò in torno prima di fissare il figlio negli occhi.

“Ehi, credi che sia saggio tenere quella stufetta così vicina alla carta? Non è che poi prende fuoco come col forno? Non starai mica cercando di creare una connessione con la stufa elettrica!” esclamò minacciosa la signora con quattro o cinque spilli in bocca.

Mei scosse energicamente la testa quasi spaventato, “Ho smesso con quella roba” dichiarò come se solo l’idea gli facesse ribrezzo.

Mei assomigliava a suo padre, solo era molto più schivo.  Per quanto Mei senior non fosse un compagnone in compagnia dava il meglio di sé, suo figlio invece magro e alto come il padre, preferiva di gran lunga starsene chiuso nella sua camera a lambiccare al computer, nel suo piccolo paradiso di venti metri quadrati.

La signora Pavesi, che nonostante l’età conservava ancora un po’ della giovinezza perduta negli occhi neri come il petrolio truccati di fresco ogni mattina e nei vestiti ben curati che si cuciva personalmente fissò il figlio, e per l’ennesima volta in diciotto anni sbottò “Per la miseria Mei! Hai diciotto anni! I tuoi coetanei vanno alle feste vanno, al  cinema, escono , si divertono, hanno degli amici,hanno una fidanzata, non puoi stare sempre chiuso nella tua camera!”

I lineamenti marcati di Mei si incresparono mentre le sopracciglia nere si avvicinarono tanto quasi da unirsi “Ieri sono uscito per andare a comprarmi un videogioco” ribatté compunto lui.

L’intera statura gnomica della signora ebbe un sussulto “Mei, il negozio di videogiochi dista due isolati…” replicò battendo il piede sul parquet.

Mei voleva visibilmente tornare alle sue diavolerie cibernetiche, ma sua madre sembrava non avesse troppa fretta di tornare a cucire ciò che stava cucendo. Invece rimase a guardarlo negli occhi, e lui non aveva il fegato   di distogliere lo sguardo da quelle iridi che parevano scavare nell’anima. Sicuramente suo padre si era innamorato di lei per colpa di quegli occhi.

“Marianna ha un problema col suo computer… le ho detto che andrai ad aggiustarglielo” sputò infine il rospo. La faccia del figlio cambiò completamente, contorcendosi in una smorfia. Appoggiò la fronte sulla scrivania. “No, mamma, Marianna no! tutte le volte che mi vede non fa altro che dirmi che sono proprio un bel bambino e mi tira le guance come se avessi due anni!” cercò di pigolare, ma fu inutile, sua madre era irremovibile e uscì dalla porta col vestito a fiori che svolazzava dicendo “E’ ora che tu esca e ti faccia degli amici, potresti cominciare da qui no?”

Mei sbuffò e si lasciò cadere sul letto abbacchiato“Non credo che un’amica di mia madre sia il modo migliore di cominciare ad avere una vita sociale

 

 

 

Mia madre non ne aveva voluto sapere di far chiamare alla sua amica un tecnico, e così mio fratello, succube com’è se ne dovette andare da Marianna.

La parte che doveva essere più piacevole si rivelò invece un inferno. C’erano zone della città dove gli edifici sembravano costruiti in serie, come se gli architetti avessero finito le idee. Marianna abitava proprio in una di quelle case. E individuarla non fu semplice, Mei ci mise quasi un’ora a trovare il citofono giusto.

“Sono Mei” disse quando glielo chiesero, e la risposta asettica su un secco “Terzo piano”. Mio fratello da sempre nemico dichiarato degli ascensori evitò prontamente  quel marchingegno preferendo le scale, arrivato al terzo piano si ritrovò a dover suonare di nuovo. Scocciato si chiese se non fosse maleducato trattare così un poveretto che controvoglia era costretto ad andare a fare il tecnico a casa di gente che a malapena conosceva.

La porta si aprì in tutta calma, e apparve una ragazza bassa con la faccia scocciata, una tuta blu e un asciugamano in testa. Sbuffò fumo in faccia a mio fratello. “Tu sei  Mei?” chiese con voce strascicata. Lui sbatté le palpebre e guardò la ragazza stralunato, poi annuì poco convinto come per un secondo se lo fosse scordato, chi era.

“Entra, e non dire a tua mamma che fumo, lei e la mia chiacchierano un po’ troppo”, Mei la seguì inebetito e la porta si chiuse dietro di loro.

Nikka, si faceva chiamare così. Nikka, perché il suo nome non le piaceva. Nikka l’esteta per eccellenza. Nikka, che avrebbe portato guai. A me e a Mei.

 

 

 

Eccomi di nuovo a scrivere. Lo so che è una pazzia cominciare a scrivere qualche cosa di nuovo quando ho già tre storie all’attivo, vi prometto (nel caso qualcuno le leggesse) che “Il Potere delle Pesche” e “Nato due volte” saranno aggiornate entro la fine della settimana prossima, mentre per “Siamo alla Frutta” ci vorrà ancora un po’ di tempo. Volevo scrivere qualche cosa di nuovo perché sono un pochino in crisi e andare avanti con quello che ho iniziato mi veniva difficile. Non so se la continuerò, ma se viene apprezzata è probabile che mi gasi e che la continui. Infine ringrazio veve_tonks per avere commentato la mia one-shot. ^__^ A questo punto ho finito e ringrazio in anticipo tutti quelli che hanno letto fin qui!

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Da grande svaligerò le banche ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Secondo

Da grande svaligerò le banche

 

 

 

 

Nicoletta, o Nicole…sinceramente non so come si chiamasse, sta di fatto che non le piaceva, e che si era trovata un soprannome stupido come Nikka. Assolutamente inutile, che si limitava a starle bene. Ma a lei che importava, lei era l’esteta.  Nominata nel nostro liceo “Studentessa più elegante dell’anno”. In America hanno le reginette di primavera, invece noi abbiamo queste cose qui. Probabilmente voi vi starete chiedendo se c’è davvero qualcuno che  si è preso la briga di decidere chi nella nostra scuola si veste meglio, e io vi posso dire di sì. Diciamo che il mach finale è stato tra me e lei, ma poi mi sono tinta i capelli di blu e pare che abbia perso apprezzamenti per questa stravaganza. Ma comunque non divaghiamo e torniamo a mio fratello Mei tra le grinfie di quell’arpia.

 

Il ragazzo seguì la padrona di casa col turbante dentro l’appartamento. Non era molto illuminato, le luci che la signora Marianna aveva messo dovevano essere di voltaggio sbagliato si disse Mei, perché si stava cavando gli occhi per vedere davanti a sé. La sua passione per le cose elettroniche spuntava sempre all’improvviso.

“Ecco è per di qua…”disse Nikka annoiata indicandogli la stanza dove entrare. L’ambiente non era grande, e come il resto della casa poco illuminato, c’era una lampada da tavolo che emanava luce soffusa e una finestra aperta dalla quale, data l’ora invernale non penetrava che scarsa luce.

A Mei si illuminarono gli occhi quando vide il vecchio computer col cassone che stavano affidando alle sue sagge cure. Per la prima volta da quando sua madre lo aveva obbligato ad andare a casa dell’odiosissima Marianna, era contento di aver accettato l’incarico. Lambiccare tra l’elettronica lo riempiva sempre di gioia.

Nikka fece un mezzo sorriso sbilenco mentre Mei tirava fuori baracca e burattini intenzionato a rimettere a nuovo il vecchio catorcio.

La ragazza si buttò sul letto continuando a fumare e a fissarlo insistentemente, ignorando il fatto che a lui potesse dare fastidio.

E infatti a lui dava fastidio. Deglutì un po’ a disagio, non era abituato a essere osservato. A scuola le ragazze non lo vedevano nemmeno, a parte sua sorella, e coi ragazzi non ci parlava se non per dare una mano nei compiti; così rimaner da solo in una stanza, seppure in compagnia di un pc anteguerra tutto per lui, con una ragazza lo metteva un po’ in imbarazzo. Soprattutto perché lei non lo era per nulla e si era sistemata a mo di sirena su un fianco tenendo la testa appoggiata alla mano destra.

Aveva una tuta blu e un asciugamano legato alla testa come se fosse un turbante, Mei non l’aveva mai vista struccata, ma sotto la coltre di trucco quel giorno si potevano notare due enormi occhiaie viola. Insomma lo aveva accolto in tenuta da casa, si vede che la sua venuta non la metteva in imbarazzo, oppure aveva davvero scarsa importanza.

L’aveva vista solo qualche volta a scuola, ma sapeva che era considerata un’esteta , come sua sorella. Era strano vedere un’esteta in desabie.

“come hai detto che ti chiami?” chiese dopo un po’ la ragazza con fare annoiato spegnendo la sigaretta in una lattina di cola.

Mei” fu pronto a rispondere lui come se lo stessero interrogando. Il guizzo del ragazzo la fece ridere, e lui arrossì visibilmente estrapolando la password d’accesso senza chiederlo alla padrona.

“Io sono Nikka” si presentò mettendosi a sedere , lui annuì. Nikka ebbe la sensazione che quello sarebbe stato più che una conversazione, un monologo.

“Ci siamo mai visti da qualche parte? Che so a qualche festa? Io vado spesso al Luxury…” chiese cercando di capire perché non l’avesse mai visto.

“Non vado alle feste…” fu la mogia risposta di mio fratello. Nikka si elettrizzò comunque credendo di aver capito di che tipo di ragazzo si trattasse “Ah! Allora sei uno da rave! Alcol e canne!!” strillò entusiasta prima di aggiungere “tranquillo non lo dico a mia madre”.

Ma Mei declinò un’altra volta la categoria in cui l’avevano messo dicendo, per la verità parecchio imbarazzato “Non bevo e non fumo…a dire il vero non esco molto io…”cercò di spiegare lasciando in sospeso un concetto assolutamente percepibile. Nikka ci mise un po’ per analizzare la risposta del ragazzo che le stava di fronte, ma poi dopo le dovute riflessioni aggiunse “Non mi dirai che sei un po’ nerd? E stai in casa tutto il giorno davanti al computer…?”.

Non c’era del disprezzo , più che altro dello stupore nel suo tono.

“Beh…a dire il vero è un po’ così…” ammise infine Mei.

“Allora sei un hacker! Potresti svaligiare una banca via internet!” esclamò ridanciana togliendosi l’asciugamano dalla testa e mostrando una ricca coltre di capelli tinti di un colore a metà tra il castano e il rossiccio.

“Beh…non è che sia proprio il mio hobby…però credo che se mi ci mettessi riuscirei a farlo…” disse Mei vergognoso. Il commento si fece attendere e sbuffò fuori insieme al fumo della nuova sigaretta che si era accesa “Figo

Era la prima volta che qualcuno lo definiva figo.

“Ho fatto” annunciò lui.

“Di già?” chiese lei stupita vedendolo alzarsi dalla sedia, era davvero alto. Lui annuì “Non c’era nulla, solo uno stupido trojan horse…” .

Nikka fece una espressione strana che obbligò il ragazzo a spiegare “Un virus…”.

 

Quando Nikka cominciò a interessarsi a mio fratello era chiaro che in realtà non si stava interessando a lui ma ai suoi vestiti. Almeno, a me e a lei fu chiaro il suo intento, Mei invece come prevedibile non aveva capito un tubo.

I vestiti, erano i vestiti ad avere ingannato Nikka. È ovvio essendo un’esteta è quasi l’unico parametro che ti rimane intatto per giudicare le persone. E un ragazzo che va in giro vestito come un modello, mai troppo elegante mai troppo sportivo o antiquato non poteva essere un nerd.

Peccato che Mei lo vestisse mia madre. Come vestiva me d’altronde, ma io a differenza di mio fratello ero consapevole di quello che mi affibbiava, lui invece viveva di sola inerzia senza chiedersi cosa mia madre gli avesse rifilato quella mattina.

Credo che le attitudini di nostra madre abbiano bisogno di una spiegazione: il suo sogno era diventare stilista, ed era arrivata sulla buona strada, prima che mio padre morisse togliendo così alla famiglia il suo sostegno economico, così mia madre non aveva voluto rischiare di arrischiarsi in un’avventura che poteva rivelarsi senza fondo, e aveva deciso di darsi al ruolo impiegatizio riservandosi di vestire noi due.

Quando Mei uscì da quella casa non poteva immaginare che non sarebbe finita così, non poteva immaginare che Nikka avesse una mente così perversa da pensare che dei vestiti del genere potessero essere sprecati su un nerd…non poteva immaginare che ce l’avrebbe avuta intorno ancora per molto tempo…

Quando arrivò a casa poi trovò ad accoglierlo nostra madre che credendo di non essere vista ballava con il suo manichino in cucina, e me che fumavo in vestaglia sdrucita in corridoio. Anche gli esteti a volte hanno bisogno di svaccarsi

 

 

Eccomi qui di nuovo con un capitolo idiota…a dire il vero non ho ancora deciso se la continuerò, primo perché i personaggi non mi vengono come dovrebbero venire(sono dei maledetti), per di più ho già due fic all’attivo che mi impegnano abbastanza…ma devo ancora vedere, se dovesse avere successo potrei gasarmi e continuare a scrivere!!!

Ringrazio tantissimo lisettaH che ha commentato. Ti ringrazio tantissimo per i complimenti e ti dico che in effetti credo che Nikka debba stare antipatica, o almeno all’inizio, si spera che cominciando a conoscerla cambi!!^_^

 

Volevo aggiungere un’altra cosa, se qualcuno leggendo questa fic pensa sia stupido che questa gente si interessi solo ed esclusivamente ai vestiti,sappiate che la cosa è assolutamente voluta, diciamo che la storia gira intorno ai vestiti….che idee idiote che mi vengono!!!!

 

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Capitolo 3
*** Per fortuna non ho il nome di una torta ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Terzo

Per fortuna non ho il nome di una torta

 

 

 

Il giorno seguente mio fratello seguì le lezioni attentamente come al solito. Non che dovesse per forza ascoltare per capire, ma lui ci teneva, era una di quelle tipiche persone a cui piaceva studiare. Tipiche persone che io non capirò mai. L’indubbia intelligenza ereditata da mio padre non gli negava di abbassarsi ad ascoltare i discorsi noiosi dei professori. Gli piaceva soprattutto matematica, e così come al solito dopo la lezione del professor Ruffi uscì dall’aula facendo calcoli mentali irripetibili tra sé e sé. Fu allora che quell’arpia di Nikka spuntò di nuovo all’urlo di “Ehi, hacker!”, mio fratello si voltò spaesato, sapeva di essere lui l’hacker, sapeva a chi apparteneva quella voce, ma non era abituato al fatto che qualcuno a scuola gli desse attenzione.

Nikka zampettò come un folletto accanto a lui, passandogli un braccio attorno alla schiena come se si conoscessero da tempo. Era truccata, non in modo eccessivo, nel senso che non era un trucco maleducato, tutto nei limiti dell’eleganza, ma in dosi massicce per un bravo osservatore. Mio fratello però non era un bravo osservatore, non lo era mai stato per nulla, figurarsi per del fondotinta!

 

Mei la guardava un po’ stupito, non era abituato a essere toccato, si sarebbe ritratto forse se non lo avesse giudicato un gesto scortese nei confronti di Nikka. Nikka diede un’occhiata a come era vestito, la signora Pavesi aveva sempre cercato di conferirgli il fascino del bel tenebroso con i suoi vestiti, ma al massimo Mei poteva avere il fascino del nerd… sempre che i nerd abbiano un fascino.

“Che fai questo sabato Mei? Vieni alla festa che sto organizzando al Luxury?” chiese allegra camminando con lui mentre si dirigevano al cancello che portava alla strada, per andare a casa.

Mei balbettò un poco, indeciso sul da farsi “Non vado mai alle feste , te l’ho detto…” disse poi con poca enfasi e parecchio imbarazzo. Nikka arricciò la bocca pensierosa senza mollare la presa sul ragazzo, mentre gli aveva afferrato stretto il maglioncino nero con le mani dalle unghie smaltate.

“Ma a te come piace passare il tuo tempo?” chiese poi più curiosa che inquisitoria. Mei del canto suo avvampò, oltre non essere abituato alle attenzioni, non era abituato al fatto che qualcuno gli chiedesse qualche cosa della sua vita privata, che a dir la verità era alquanto ridotta a poche attività.

“Mi piace stare al pc…” ammise in fine.

“Questo lo so, me lo hai detto quando sei venuto a togliere … togliere la troia..la…” disse con un leggero tono  indisposto, soprattutto perché non era convinta di ciò che stava dicendo, e Nikka odiava non essere convinta.

Trojan horse…” corresse Mei. “Sì, quello” liquidò presto lei per continuare “Dico oltre al pc

Mei ci pensò un po’ su, non pensò di mentire e quando disse “Mi piace la matematica” Nikka ci rimase un po’ male. Si aspettava che almeno per amore delle apparenze evitasse di dirle cose così nerd. Non si sprecò quindi a mascherare il suo disappunto e rimase un po’ in silenzio con l’aria imbronciata, lasciando andare il suo maglione.

“Come mai ti chiami Mei? Non è molto virile, dovresti trovartene un altro…” fece dopo seria.

“Beh…mi chiamo così fin da piccolo…cioè prima ero Mini Mei, poi sono diventato Mei. È il nome del primo programma che ha creato mio padre…lo chiamavano tutti così…ma stiamo parlando di parecchi anni fa,diciamo che il programma Mei ora potrebbe essere il moderno…” non fece in tempo ad entrare nei dettagli tecnici perché Nikka lo fermò sbracciandosi “Sì, sì Ok, ho capito…comunque è un soprannome effeminato”concluse incrociando le braccia e sbuffando come una locomotiva. Si accese una sigaretta e lo fissò dal basso.

“E tu perché ti chiami Nikka?” chiese Mei per la prima volta sinceramente interessato.

Lei alzò le spalle “Perché è bello”.

Mei dopo quei due brevi incontri non aveva ancora capito l’essenza profondamente estetica di Nikka, e non capì come uno potesse darsi un soprannome così, per capriccio.

“Odio chiamarmi Nicoletta…”disse seria guardandosi le parigine grigio fumo che indossava. Mei dondolava mollemente avanti e indietro sui piedi, come un bambino alla sua prima recita scolastica che sta cercando di ricordarsi le parole della canzone da intonare.

Poi dopo un momento cupo, come il cielo che minacciava pioggia Nikka riprese il controllo della situazione dicendo ancora seria “Allora verrai…” sorrise e aggiunse “è una festa privata, ci vuole l’invito…”,gli strizzò l’occhio e scappò via con il suo spolverino beige che svolazzava, doveva arrivare a casa prima che cominciasse a piovere, non si poteva bagnare le ballerine nuove.

Mei non capì se era una domanda o un’affermazione; sta di fatto che la fissò un po’ inebetito finché non fu sparita dietro l’angolo della casa,intonacato di un orribile arancione marcio.

 

Se c’è una cosa che ricordo volentieri del mio periodo alle scuole superiori è il bar della scuola. Il bar mi salvava da un sacco di lezioni antipatiche, e poi facevano un gran buon cappuccino. Peccato che a volte mi imbattessi in individui come Milly.

Milly quel giorno si posizionò con la sua amica dalla dentatura cavallina nel tavolo accanto al mio, dove io in pace stavo sorbendo tutta la caffeina necessaria a farmi carburare per l’intera giornata; fui perciò costretta ad ascoltarmi tutta la sua filippica secondo la quale era preoccupata che Nikka non approvasse il suo nuovo top rosa shocking.

A questo punto vorrei fare un appunto : quel cavolo di top non lo avrebbe mai approvato nessuno. Di certo non Nikka almeno.

Per un secondo fui colta da un brivido, pensando che se fossi stata amica di Nikka probabilmente mi sarebbe toccato un soprannome come Rachy, Rackie… o comunque qualche cosa che avrebbe potuto somigliare moltissimo alla parola “Racchia”, Milly doveva il suo stupido nomignolo al cognome  “Millefoglie”, come la torta. Glielo aveva conferito Nikka ovviamente. Fortunatamente in famiglia mi chiamavano tutti Rachele.

Comunque fu proprio quando mi stavo arrendendo a dover ascoltare le lamentele e le infinite sciocchezze di Milly e la sua amica Puledro che mi accorsi di Nikka , che teneva il braccio saldamente attaccato alla schiena di Mei.

Mei stava bene da nerd all’epoca, e non dubitai neanche per un secondo che gli importasse qualche cosa di andare alla festa di Nikka.

Rimasi un po’ frastornata quando tornando zuppo a casa, perduto sotto la pioggia anche qual minimo di charme che gli conferivano i vestiti di mia madre dichiarò “Rachele, devo andare a una festa, mi aiuti?”

Sono quasi sicura che ci volesse andare solo per cortesia.

Mei non aveva ancora capito niente, non gli interessava Nikka e non voleva dimostrare niente a nessuno, voleva continuare a vivere la sua vita apatica, non perché non si curasse delle opinioni degli altri, ma perché non pensava che si potessero avere opinioni su di lui, e andando alla festa voleva solo essere gentile.

“Sì” risposi infine alzandomi dalla sedia a dondolo e spegnendo il mio mozzicone di sigaretta nel portacenere in vetro di Murano che mia madre aveva comprato in viaggio di nozze.

Dissi “sì”, ma non credo che Mei avesse capito in che senso “sì”, lo avrei aiutato, ma non nel modo che intendeva lui.

 

 

Salve a tutti, spero che questo capitolo sia degno di essere chiamato tale,perché sono un po’ giù di corda, e questo è tutto tempo rubato allo studio del valore di costo (che cosa appassionante!!), sono un po’ stressata, spero che la narrazione non ne abbia risentito, e che le frasi abbiano tutte un senso logico, anche se ho riletto non mi fido mai del tutto della mia attenzione scarsissima!!^__^

Bene dopo questo inutile sproloquio passo hai ringraziamenti sentitissimi per chi ha messo la storia tra i preferiti e naturalmente a chi ha commentato:

lisettaH :sono felice che Nikka non ti stia proprio antipatica, però ti dirò sinceramente, forse all’inizio dovrebbe essere antipatica(non lo so neanche io!!! Lo so che nell’altro capitolo ti ho detto di no…forse dovrebbe essere soggettivo e basta..chissà, tanti dubbi e poche certezze!!) e per quanto riguarda la sorella di Mei, in questo capitolo può sembrare un’attuatrice di piani loschi e malvagi a scapito del povero fratello ebete, ma lo fa a fin di bene!!

Rohchan: ti ringrazio tantissimo! Si è un po’ presto per parlare dei personaggi e della trama, ma ce la sto mettendo tutta perché si capisca qualche cosa al più presto!!

Crimsontriforce: grazie soprattutto per i complimenti all’introduzione, mi danno sempre un sacco di problemi perché non so mai che scrivere!!! In questo capitolo la mamma non c’è, ma apparirà di nuovo col suo immancabile manichino!

 

 

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Capitolo 4
*** A cucci e spintoni ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Quarto

A cucci e spintoni

 

 

Quando dissi a mia madre che avevamo bisogno di un vestito per Mei, i suoi occhi si illuminarono d’oro. I miei decisamente meno , ma ciò nonostante quando due donne Pavesi decidono di prendersi cura di qualche cosa , questa cosa viene fuori ,sempre, irrimediabilmente meravigliosa, e così mio fratello venne fuori al suo meglio. Acconciato con la camicia e il suo sguardo da opossum smarrito me lo trascinai fuori.

Non avevo ancora deciso cosa avrei fatto una volta al Luxury, ma nonostante questo non mi tirai indietro e lo accompagnai, camminammo a braccetto per tutto il percorso senza parlare. Lui non era un chiacchierone e io ero una di poche, ma significative parole. Non so se fosse un bene o un male, ma io e Mei non parlavamo se non c’era niente da dirsi. Lui non sapeva ancora se volesse davvero andare a quella festa, e so che probabilmente avrebbe voluto scappare a gambe velate, io non approvavo che lui ci andasse e avevo decisamente bisogno di una birra, che potevo trovare solo e unicamente alla dannata festa di Nikka. Eravamo in ballo e avremmo ballato, e io avrei avuto la mia birra!

 

Era inevitabile, davanti al Luxury il sabato sera c’era sempre un inferno, un mare di persone che si accapigliavano per entrare o per litigare con qualcuno. È incredibile come davanti alle discoteche venga sempre una gran voglia di fare i grossi.

Mei colpì per sbaglio un paio di persone e si beccò una quantità indescrivibile di insulti e dita medie, sua sorella non ci badò e continuò ad avanzare nella massa tirandolo per la manica della camicia mentre lui si prostrava in scuse con tutti.

“Allora Mei…chiama quella tizia e dille che sei arrivato…e che ci venga a prendere, perché dalla faccia del buttafuori direi che non entreremo mai!” comandò Rachele sputando veleno mentre parlava di Nikka.  Mei annaspò per qualche secondo facendo ordine tra le idee tutt’altro che ordinate. Ma non ci fu bisogno di nessuna telefonata, perché sopra il rumore si sentì una voce nota “Ehi Hacker!” . I due fratelli si voltarono a guardare una ragazza con un vestito lilla e delle scarpe eleganti con tanto di fiocco che li salutava dall’alto dell’entrata della discoteca, su una scaletta antincendio dall’aria tutt’altro che chic.

“Razza di una baldracca” brontolò Rachele a mezza voce senza farsi sentire dal fratello.

Mei impacciato e introverso ci mise un po’ prima di arrivare alla scala avendo premura di non urtare e chiedendo permesso e scusa a chi lo colpiva per sbaglio o meno.

Guardò incerto la scala arrugginita , poi diede un’occhiata alla sfavillante Nikka che aveva tutta l’aria di essere la regina della festa; prima di arrampicarsi fin su con gli occhi bassi.

Se il primo giorno che l’aveva incontrata gli aveva messo soggezione con solo una tuta e un asciugamano di spugna in testa, allora con quel vestito di raso e le scarpe eleganti lo terrorizzava.

“Ciao Nikka” disse come se si stesse confessando senza alzare gli occhi dalle proprie scarpe. Il saluto della ragazza fu decisamente più caloroso, e come se si conoscessero da una vita gli lanciò le braccia al collo schioccandogli un bacio sonoro sulla guancia liscia. Saluto molto coreografico, tutti urletti eccitati e occhioni truccati. Nikka era bella così, era bella nel suo mondo.

Il sorriso tutto denti si affievolì un poco quando vide dietro il ragazzo un volto conosciuto, accompagnato da una cascata di capelli bluette e un vestito nero coi lustrini.

“Lei è con te?” domandò come se stesse guardando una lumaca in putrefazione. Rachele da dietro il fratello le rispose con un sorrisetto sghembo e un’avida boccata di fumo alla sua sigaretta. Poi le mandò un bacio soffiato.

Nikka non raccolse la provocazione e ricomiciò a fare sorrisi plastici ancora più forzati dei precedenti “Su venite dentro…nel privee c’è il rinfresco!” dichiarò infine facendo strada seguita a ruota dalle inseparabili Millie e Faccia di Cavallo( che per comodità Rachele aveva cominciato a chiamare FdC), che l’accompagnavano dappertutto sghignazzanti e adoranti come due ottuse dame da compagnia.

“Non si può fumare dentro il locale” redarguì il buttafuori bonariamente appoggiando una mano grande come un badile sulla spalla esile di Rachele , la quale si voltò con la calma e la freddezza di un serial killer ,per poi squadrarlo da capo a piedi e dirgli “E allora? Lo faccio sempre!”

Imperterrita se ne andò in giro con la sua sigaretta appesa in bocca lasciando l’uomo decisamente attonito. 

L’immediata reazione di Mei invece, decisamente più spaesato della sorella, fu di tapparsi le orecchie, e chiedersi se per caso stava cadendo il cielo. Rachele di diede una gomitata sui reni che lo fece rinsavire “Non fare lo stupido…ti ci abituerai” sibilò priva di alcuna pietà per il fratello nerd. Mei aprì un occhio e si guardò in giro per assicurarsi che fosse tutto al suo posto, ma non gli sembrava di vedere nulla.

Si guardò in giro, gli sembrava di essersi drogato, era come avere la febbre, vedeva la gente muoversi a scatti, tra le luci intermittenti del neon e gli sbuffi di fumo bianco che spuntavano da sotto la consolle. In quel momento si chiese chi cavolo glielo avesse fatto fare di andare in quell’inferno. Riuscì a riprendere coscienza di se stesso giusto in tempo per sentire un tizio invasano urlare in un megafono “Su le mani!” e una masnada di gente spintonarlo alzando le braccia al cielo e continuando a ballare come se fossero stati tutti indemoniati.

“I vocalist andrebbero tutti lapidati” fu il commento acido che Mei riuscì a sentire al di sopra del rumore. Indovinare a chi appartenevano le parole non era certo un’impresa ardua.

In quel momento spuntò Nikka dal nulla, emergendo dalla massa come sollevata da una forza sovrannaturale urlando esaltata “Tesoro!” e buttando le braccia al collo al vocalist con gli occhiali da sole che si sperticò in complimenti alla sua persona urlando fesserie nel suo megafono. Mei  inebetito veniva sballottato malamente dai presenti che dimenavano i fianchi. “Ecco un altro motivo per odiarlo” ringhiò Rachele con aria truce. Nel mentre  lui stava cercando di liberarsi da una ninfomane ubriaca con una parrucca rosa che stava tentando di baciarlo.

La ragazza prese suo fratello per il gomito e cominciò a trascinarlo al comando di “Mei andiamo a prendere da bere”, incurante del fatto che il povero malcapitato stesse prendendo gomitate da chiunque si trovasse sulla sua rotta.

“Prendi una birra?” chiese lei guardandolo negli occhi. Approfittò di un suo attimo di riflessione per darsi una risposta da sola “Forse è meglio di no, ho idea che tu non regga nulla” concluse allungandosi sul bancone posizionandosi su uno sgabello dalle gambe lunghissime. “Magari dell’acqua” azzardò timidamente lui cercando di ingobbirsi il più possibile per essere notato poco. Ma probabilmente non abbastanza perché si ritrovò colpito da un pugno in pieno volto che lo fece volare per terra sul pavimento appiccicoso “Prova di nuovo a toccare il sedere alla mia ragazza e ti ammazzo!” grugnì un tizio in catenacci e canottiera mostrando un pugno che probabilmente non vedeva l’ora di sferrargli. “Ma io …” cercò di protestare lui ancora a gambe all’aria circondato da un sacco di ragazzi brilli che inneggiavano alla violenza gratuita.

E forse sarebbe finita così se Rachele non avesse messo una mano sul braccio muscoloso dell’uomo nerboruto e con voce seria non gli avesse  sussurrato qualche cosa che Mei non sentì. Il bestione lo guardò sottecchi lanciandogli un’occhiata perplessa poi annuì e tornò al suo drink.

Pratica porse una mano al fratello e lo aiutò ad alzarsi tra gli schiamazzi delusi del capannello di avvinazzati che era accorso per assistere alla rissa.

“E’ mai possibile che tu riesca a cacciarti nei guai senza fare niente?” fece lei divertita precedendolo tra la folla.

“Ma non è colpa mia! E poi cosa gli hai detto?” chiese lui vagamente esasperato massaggiandosi il naso, mentre Nikka tra la cortina di fumo attorno alla consolle gli mandava un sorriso tutto denti.

“Gli ho detto che era impossibile che tu gli avessi toccato il sedere perché sei gay!” spiegò Rachele con semplicità disarmante sorseggiando la sua birra.

“Ma io non sono gay!” sbraitò lui mentre un colorito simile al magenta gli inondava le guance e lei prendeva una manciata di ghiaccio dal cestello dello spumante per piantarglielo sull’occhio leso.

“Chiamasi ingegnoso artificio!” ribatté subito prima che un tizio con un pellicciotto arancione iniziasse a urlare insulti al suo indirizzo “Stupida megera coi capelli blu! È possibile che ti debba vedere anche qui?

“Ricambio i tuoi sentimenti brutto idiota!” lo rimbeccò lei lanciandogli in testa la sua birra con inaudita violenza.

Come era apparso , il tizio sparì di nuovo tra il fiume di persone.

“Chi era quello?”domandò Mei sbigottito. “Quello chi?” replicò sua sorella sbattendo le ciglia con aria angelica.

“Come quello chi? Quello a cui hai lanciato la birra!”vociò stringendosi nelle spalle.

“A quello? Non è nessuno” rispose con voce svagata con gli occhi mezzi chiusi “Ti va di andare nella sala dei lenti? Credo che sia più adatta a te, sai ballare i lenti?” chiese prendendolo per mano e ancheggiando lentamente verso la porta.

“A dire il vero no”

“Beh, l’unica tua preoccupazione sarà di non pestarmi i piedi, il resto non importa”concluse con un sorriso mefistofelico sul volto.

Mei rimase fermo sulla soglia della sala da ballo con la testa reclinata da un lato e un’aria perplessa. La stanza era pervasa di luce soffusa tendente al violetto e di strascichi di chiffon appesi al soffitto. “Questo posto fa tanto Il tempo delle mele, non trovi?”

Rachele arricciò le labbra e si guardò in giro con un vago senso di allegria “Vagamente…”fu la risposta  smorta di sua sorella che ondeggiò un poco fino a trovarsi davanti a lui e potergli tendere la mano “Allora si balla?”

Il ragazzo non fece in tempo ad afferrarla perché si ritrovò davanti una ridente e forse un po’ alticcia Nikka che gli passava una mano sul fianco “Ti stai divertendo Hacker? Queste cose non le puoi fare col pc!” sghignazzò quasi usandolo come appoggio mentre Millie e FdC la seguivano a ruota come due gallinelle. L’una infilata in un vestito rosa confetto che la faceva sembrare un insaccato, l’altra con un abito pieno di frange con cui poteva somigliare benissimo un’indianina dal volto equino.

“Oh, sì è un posto molto…molto…intimo e tranquillo…” mentì spudoratamente , con scarso successo tra le altre cose. La ragazza lo guardò un po’ dubbiosa , ma poi l’alcol la riportò alla sua beata incoscienza “Sì è vero, è carino!” cinguettò barcollando un po’ verso di lui, e montando un po’ il suo stato alcolico. Poi si voltò lentamente verso Rachele con aria di sfida, si lanciarono un paio di sguardi assassini, e mentre Mei stava per presentale, Rachele lo prese per il colletto, lui inevitabilmente volò in avanti e lei lo intubò in un bacio mozzafiato.

Il ragazzo rimase con gli occhi sgranati mentre Nikka e le sue amiche lo guardavano con un cipiglio irritato e poi  si allontanavano decisamente deluse con un mesto “Ciao”.

La ragazza azzurra aprì un occhio e monitorò la situazione, nessuna bisbetica pettegola esteta era nei paraggi. Si staccò dal fratello e sputò per terra schifata “Che schifo! Ho baciato mio fratello!! AH! Sta notte avrò gli incubi! Bleah!”.

Lui la guardava attonito “Ma Rachele! Cosa cavolo fai?” .

Lei lo guardò scocciata “Non credi che sia meglio andare a casa?” disse piatta. Mei alzò le spalle e puntò gli occhi in quelli della sorella. Lui voleva tornare a casa più o meno da quando era entrato in quel luogo infernale.

Lei sorrise e lo prese per mano e insieme uscirono.

 

E così mio fratello diede il suo primo bacio alla vergognosa età di diciotto anni, per di più a me. Sputacchiai per tutta la strada del ritorno. Arrivati a casa lui s’infilò subito nel suo letto, quasi di corsa. Io rimasi in cucina a chiacchierare con il manichino di mamma, non che potesse rispondermi, ma a volte mi aiutava chiacchierare con qualcuno che non potesse parlare. E poi quel servo muto oramai faceva parte della famiglia, troneggiava in cucina da anni, ballava con la mamma , parlava con me e assisteva a tutte le trovate cervellotiche di mio fratello, era uno di noi insomma.

I dubbi sul bacio che diedi a mio fratello mi vennero subito. Lì per lì, quando avevo visto Nikka abbarbicata addosso a Mei, mi era sembrata la cosa migliore da fare per allontanare quell’arpia da quell’irreprensibile cucciolo di opossum di Mei, ma col tempo sono sempre più convinta che attirai la sua attenzione su di lui. E fu così che cominciò una battaglia che non potevo vincere. Sperai ardentemente che non venisse fuori che eravamo fratelli, se no si sarebbe parlato di incesto per tutta la scuola. E per di più il giorno dopo nostra madre avrebbe visto l’occhio nero di Mei, e sarebbero stati cavoli amari.

Sospirai, andai in camera di mio fratello e gli rincalzai le coperte(sembrava davvero un cucciolo di opossum), poi me ne andai a letto anche io. Avrei pensato a tutto il giorno seguente.

 

________________________________________________________________________________

 

Aki_Penn parla a vanvera:

bene sono tornata con un nuovo capitolo, ci ho messo un po’ ad aggiornare lo so, ma è un brutto periodo con la scuola, e anche quando ho momenti liberi non riesco a scrivere cose decenti. Spero che questo capitolo  non sia malaccio! Comunque voglio ringraziare tutti quelli che hanno commentato, nello specifico:

              Selene_Malfoy:  ah,sono felice che sia interessante! Ho sempre paura di essere lagnosa!! Il nome Mei non so come mi sia venuto fuori, so solo che non mi piace dare nomi usuali, perciò metto soprannomi a destra e a manca. E lui si è accaparrato Mei! Per Nikka lo so che sembra un’oca , e forse un po’ lo è…ma ti assicuro che tutto dopo un po’ avrà un suo perché ^__^

              The Corpse Bride: anche sta volta ti devo ringraziare tantissimo, non sai quanto mi ha fatto piacere ricevere i tuoi commenti. Approfitto di quest’angolo per ringraziarti anche per il commento che hai lasciato alla mia one-shot! Mi ha fatto piacere che ti sia piaciuta, a un certo punto mi ero preoccupata perché mi sembrava troppo grottesca (Tim Burton???^__^uuuh!!). comunque neanche in questo capitolo si è vista molto Nikka, ma direi che dal prossimo non sarà più una presenza marginale. Spero che l’apparizione della sorella di Mei ti abbia soddisfatto, è un po’ brusca, ma gli vuole bene!

               LisettaH : Beh, diciamo che la frase drastica dell’aiuto che Rachele voleva dare a Mei si spiega un po’ di più in questo capitolo! Nikka non si vede molto, ma apparirà in tutto il suo splendore di perfezionista al più presto!! Grazie mille per il commento!!!

 

 

 

Grazie 1000 anche a chi ha messo la storia tra i preferiti e a chi legge solamente!

Al prossimo capitolo Aki_Penn

 

 

 

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Capitolo 5
*** Il Lancio del Kiwi ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Quinto

Il Lancio del Kiwi

 

 

 

 

Come avevo previsto , la mattina seguente gestire mia madre non fu semplice. Quando entrai in cucina mio fratello se ne stava con la faccia praticamente dentro alla ciotola dei cereali e mia madre volteggiava attorno al suo manichino con aria gioviale. Rimasi per un attimo appoggiata allo stipite della porta fumando a guardare la scena, finché mia madre non si accorse di me e proferì un allegro “Buon giorno tesoro, dormito bene?”

L’uscita di mia madre fece distogliere Mei dai suoi cereali, alzò la testa per guardarmi. Cosa che scatenò l’irreparabile.

Per poco mia madre non morì soffocata nel vedere l’occhio pesto di mio fratello. Mi sbattei una mano sugli occhi ben intenzionata a non assistere alla scena, poi esasperata mi andai a sedere al tavolo. Spensi la sigaretta nel portacenere scheggiato che avevo fatto alle medie con la creta e mi servii i cereali mentre mia madre guardava ancora atterrita Mei, come una grottesca rappresentazione moderna dell’urlo di Munch.

Quella situazione assurda , nella quale entrambi si guardavano a bocca aperta si dissolse un poco con mia madre che chiedeva con voce tremula “Che cosa hai fatto all’occhio , tesoro?”

Mio fratello rimase per tutta risposta a guardarla sottecchi con la bocca socchiusa e lo sguardo opaco di un barracuda sul bancone della pescheria. Dopo un po’ riprese coscienza della situazione e deglutì agitato, per poi cominciare a dire balbettando “Mi…mi hanno lanciato…” cercò di svicolare inventando qualche scusa. Nel frattempo io avevo quasi finito la mia ciotola di cereali.

“…mi hanno lanciato…un…un kiwi”.

Un kiwi? Un kiwi??? Pensai di aver sentito male , ma probabilmente non era così perché anche mia madre ripeté perplessa “Un kiwi, Mei? Ti hanno lanciato un kiwi?”. Probabilmente anche lui si rese conto di aver detto una fesseria, perché inarcò le sopracciglia e assottigliò gli occhi.

“Ehm…”, ovviamente non sapeva cosa rispondere. Ma si potrà essere così stupidi da dire di essere stati colpiti da un kiwi? Come se al Luxury andasse di moda lanciarsi la frutta. Data l’innegabile complicatezza del discorso decisi di prendere in mano la situazione e di dire la verità. Se bisognava dire delle bugie almeno bisognava dirle bene, se no era meglio non dirle. Questa era la mia filosofia.

“Un tizio gli ha tirato un pugno” ammisi infine io senza dare troppo peso alla conversazione e guardando con accuratezza tutte le mele dentro la fruttiera a forma di gallina, per vedere quale fosse la più invitante.

“Un pugno?” ripeté guardando me.

“Un pugno?” continuò mia madre guardando lui. Mei alzò le spalle senza sapere cosa dire. “E perché?”

Decisi di prendere la situazione in mano per la seconda volta “Un culturista insinuava che Mei avesse toccato il sedere alla sua ragazza” scandii masticando lentamente i miei cereali e scuotendo il cucchiaio per aria.

Mei è vero?”vociò mia madre senza fiato guardandolo con gli occhi fuori dalle orbite. Mei aveva reinstallato il suo sguardo da Opossum imprigionato in una tagliola.

Come al solito fui io a dover rispondere, perché se avessimo aspettato mio fratello tra balbettii e sussurri avremmo fatto notte “Certo che no , mamma! Come se non lo conoscessi!”

Mia mamma si consolò un poco per la gioia di avere una vaga idea dell’indole del figlio, ma poi tornò preoccupata con lo sguardo, a posarsi sulla mia persona. “E tu che hai fatto Rachele?”

Per un secondo mi frullarono davanti agli occhi tutti i momenti della mia vita in cui avevo dovuto salvare Mei come se fosse dovuto, e mi resi conto che non avevo alcuna intenzione di accompagnarlo per mano fino alla pensione. “Gli ho detto che era impossibile, perché Mei è  gay” dissi io tranquillamente.

Mei è gay?” strepitò guardandolo.

“No!!” dicemmo in coro, mentre io litigavo col cucchiaino del miele sbrodolando tutta la tovaglia di plastica a fiori che mia madre aveva messo sul tavolo della cucina. A quest’ultima affermazione ci teneva molto più lui di me. Ripensai alla sera prima, e mi dissi che non potevo fare cosa più stupida. Oltre al fatto che per la scuola si sarebbe gridato all’incesto in quattro e quattrotto, per di più mi stava cominciando a infastidire il fatto che Mei non avesse la facoltà di gestire da solo la sua vita. Bene da quel momento se la sarebbe cavata da solo.

 

I rientri pomeridiani non erano mai stati amati dagli studenti, e certo gli schifosi pasti confezionati della mensa non aiutavano ad allietare la situazione. L’unico conforto era il dessert, quel giorno c’era la millefoglie.  

La situazione in mensa era sempre la stessa, Nikka e un gruppo di bellocci coi vestiti firmati se ne andavano in giro a fare gli splendidi, poi c’era il gruppo delle ochette che li adulavano, una manciata di persone anonime e qualcuno che decideva di cercare solitudine in un tavolo singolo.

Tra queste persone c’erano sempre i fratelli Pavesi, peccato che la solitudine di Rachele durasse sempre poco, per qualche motivo finiva per essere attorniata da un gruppetto di ragazzine petulanti che avevano spostato il loro centro di adorazione da Nikka a lei, con grande fastidio di quest’ultima. Rachele diede un’occhiata alle tre ragazze sgraziate con i capelli blu che si stavano sedendo accanto a lei per poi sbuffare e mettersi a guardare invidiosa il fratello che a differenza sua riusciva sempre a rimanere da solo.

Mei infatti riusciva sempre a preservare la sua intimità all’ora di pranzo; sempre ma non quel giorno.

Mei e Rachele sussultarono di sorpresa uno da una parte l’altro dall’altra del salone, per l’arrivo di Nikka , che senza tanti complimenti e con una sorta di eleganza aristocratica si accomodò sulla sedia davanti a quella di Mei.

“Buon giorno Mei…” salutò gioviale accavallando le gambe mentre la gonna non troppo corta frusciava sulla sedia. Come ombre Millie e l’amica equina si accomodarono con molta meno grazia allo stesso tavolo.

Rachele fece una smorfia mentre le comari con capelli blu l’adulavano. “Oh, Rachele , che bello smalto! Come vorrei essere bella come te!” . La Pavesi le lanciò un’occhiata di disapprovazione per poi tornare a fissare suo fratello, la infastidiva abbastanza che quelle ragazzine civettuole cercassero di copiarla in tutto. Era come se la scuola pullulasse di sue brutte copie. Invece a Nikka sembrava che facesse piacere, era una cosa che non riusciva a capire.

Mei rimase basito per poi accennare un saluto balbettante e imbarazzato “Ciao Nikka…”.

Le due ragazze che la seguivano si distrassero un attimo dal loro pranzo per fargli un sorriso tutto denti, che non fece altro che intimorirlo di più. Anche Nikka sorrise, ma l’eleganza cambiava molte cose.

“Allora non mi avevi detto che stavi con la Pavesi” cominciò con aria appositamente svagata mentre rompeva il nylon della sua insalata scondita.

“Io non sto con Rachele…è mia sorella” vociò Mei più sconvolto che altro. Nikka fece scivolare la sua lunga coda di cavallo da una parte e increspò la bocca in un cuore maliziosamente “Ma ti ha baciato!”

Mei assunse un’espressione indecifrabile , a metà tra uno che ha visto un fantasma e uno che sta per vomitare, il colorito diventò di un florido fucsia. “In effetti non so perché…” sussurrò abbassando lo sguardo sulla sua bistecca che poteva sembrare benissimo fatta di plastica, a giudicare dall’aspetto.

Nikka assunse un’espressione fintamente preoccupata , poi buttò lì “Magari tua sorella è innamorata di te…” poi cambiò abilmente discorso “buona la bistecca?”

Mei era ancora un po’ provato dall’azzardo di qualche secondo prima, ma lentamente abbassò lo sguardo sul suo piatto tristo. “Insomma…tu non mangi…nient’altro?” chiese poi mestamente guardando il piatto di Nikka che riusciva a superare la tristezza del suo. Nikka alzò le spalle con aria svagata mentre con la forchetta giocava con l’insalata.

“Sono a dieta…” , nel mentre Millie adocchiava il dolce che Nikka aveva preso per pura scena “non lo mangi?” chiese indicando la millefoglie con occhi languidi.

 Naa” la liquidò lei passandole il piatto con fare quasi schizzinoso. Millie lo afferrò come se non mangiasse da giorni.

“Hai intenzione di mangiare una tua simile?” domandò la ragazza equina con fare serio fissando con occhi increduli Millie che si strafogava con la torta.

Dopo aver lanciato uno sguardo di disgusto alle due Nikka tornò a sorridere guardando Mei. “Sai…quando sei venuto a casa mia a togliere…togliere …la tro…la troia…” cominciò dubbiosa.

 “Il trojan hourse…è un virus…” la corresse educatamente lui. “esatto, proprio quello!” tagliò corto lei. “comunque dicevo… quando sei venuto a casa mia mi hai detto che non esci molto…vero?”. Il ragazzo di fronte a lei annuì senza capire dove fosse intenzionata ad arrivare, nel mentre Millie spargeva panna dappertutto, nella foga animale di sbranare la torta. Nikka lanciò un’altra occhiata schifata alle amiche che si stavano pressappoco picchiando tra gli schizzi di panna, prima di ricominciare a parlare.

“Mi hai detto, che sapresti entrare in una banca via internet…no?” domandò con fare malizioso, e a quel punto lui cominciò a temere che fosse intenzionata ad usarlo per fare una rapina o qualche cosa del genere, ma si vide costretto ad annuire. Il sudore freddo peggiorò quando Nikka sorrise di nuovo, ancora di più, compiaciuta dalle abilità che diceva di avere. “Beh, deduco che tu sia molto intelligente… per di più mi hai detto che ti piace la matematica…mi chiedevo se non ti andasse di aiutarmi… io sono davvero negata…!” aggiunse una risatina maliziosa alla fine della frase e Mei rimase per un po’ a guardarla tra l’indeciso e il sospettoso con la forchetta a mezz’asta.

“uffa …è finita la millefoglie…quando sono arrivata io al bancone non ce n’erano più…” piagnucolò una ragazza blu accanto a Rachele che tendeva il collo per sentire meglio quello che dicevano Nikka e suo fratello.

 “Beh, la prossima volta arriverai prima vorrà dire…” . La ragazzina blu abbassò lo sguardo  afflitta “è davvero un peccato…io amo la millefoglie…”, Rachele le lanciò un’occhiata prima di mettersi il viso tra le mani e rimettersi ad ascoltare la conversazione “Ma mi piace davvero tanto tanto…” . Rachele ebbe un fremito d’irritazione prima di sbraitare più come un ordine che come una concessione “Prendi la mia, tanto non mi piace” . Gli occhi della discepola si illuminarono di luminescenze “Non so proprio come ringraziarti Rachele!”

“stando zitta sarebbe un ottimo modo!” la rimbeccò acida lei.

“Grazie, grazie grazie davvero Rach…”

“ZITTA!”

“Va bene…”

Lo sguardo freddo di Rachele tornò a posarsi dolcemente sul fratello che probabilmente cercava di dire qualche cosa, ma non sembrava riuscirci al meglio. Il risultato era un incomprensibile e imbarazzante balbettio sconnesso. “Ok” rispose infine non riuscendo ad esprimere altri concetti, magari un po’ più articolati.

Nikka lo gratificò con un gran sorriso, prima di cambiare di nuovo discorso “Sono belli i tuoi vestiti!” dichiarò indicando una M  cucita sul suo maglioncino in corsivo.

“Li fa mia madre” pigolò mesto. “Sono davvero belli…” sussurrò con lo sguardo perso a fissare la lettera dorata. Mei deglutì a disagio.

Nikka si svegliò dal suo coma solo quando l’arrivo di un nuovo individuo la scosse “Oh, Mei, ti presento Joyce, Joyce lui è Mei .

Il ragazzo col pellicciotto arancione che si accomodò accanto a lui salutò con un grugnito senza dargli troppa attenzione. Mei ci mise un po’ prima di capire dove l’aveva già visto “Tu sei quello che ha litigato con mia sorella al Luxury?” chiese un po’ perplesso, fu solo allora che il ragazzo si voltò per dargli attenzione. Era animalescamente con la bistecca a  penzoloni in bocca, probabilmente perché era tanto dura da non riuscire a tagliarla con i coltelli di clastica.

“Tu sei il fratello della Pavesi?” Mei annuì guardingo. “Tu hai l’aria più simpatica, piacere, io sono Joyce” biascicò mantenendo la bistecca in bocca.

“Sì, me lo ha detto come ti chiami” sussurrò mesto guardandolo perplesso.

“Sai che Joyce è irlandese? È nato a Gallway, e si chiama così perché Joyce è lo scrittore preferito dei suoi genitori!

Joyce sbuffò vistosamente spargendo dappertutto la sua insalatina transgenica ricoperta di maionese. “Potresti non dirlo come se fossi un fenomeno da circo?”. Nikka sorrise angelica, “Ma ci pensi già da solo a fare il fenomeno da circo!” sentenziò maliziosa indicando il pellicciotto arancione che il ragazzo indossava.

Poi cambiò discorso adocchiando un tizio osannato un po’ da tutte le ragazzine della scuola. Un tizio biondo e statuario passò a poca distanza dal tavolo dove mangiavano.

“Carino vero, Joyce?” domandò Nikka con sguardo furbo, come un cacciatore che adocchia un’anatra. Joyce emise un grugnito senza voltarsi “Sinceramente gli uomini non mi interessano granché…” commentò grufolando nella sua bistecca. “Se, se…” lo liquidò con lo sguardo acceso. “A giudicare dal pellicciotto non direi…” rincarò la dose Nikka.

Joyce grugnì e disse sottovoce con un grugnito “Non è bello giudicare le persone per come si vestono…”, si rabbuiò stringendosi nelle spalle quasi a nascondere la bistecca granitica.

“Il dovere mi chiama scusatemi” e se ne andò a passo di danza verso il biondo statuario, inseguita da due adoranti ochette.

“Se, se… proprio il dovere” mugugnò Joyce tra i denti.  Da metà del salone Nikka si fermò e con una piroetta si voltò a guardare Mei “Allora domani alle quattro a casa mia, sai dove abito!!”. Il fatto che tutta la mensa si fosse girata a squadrarlo di certo non lo mise particolarmente a suo agio e mentre Nikka si voltava verso il bell’imbusto arrossì vistosamente. “credo che sia ora di andare” sussurrò mestamente a Joys, che sembrava decisamente poco interessato ai suoi spostamenti.

Dopo che Mei si fu alzato, ci volle un po’ prima che la disperata battaglia con la bistecca finisse per il meglio,fu allora, quando guardò trionfante la millefoglie che questa parve prendere il volo. In realtà era pressappoco finita tra le mani della Pavesi che gliel’aveva soffiata da sotto il naso.

“Ehi! Megera blu! Quella è mia!”sbraitò.

“Non mi pare dato che è nelle mie mani…è il mio dolce preferito!”rispose tranquillamente lei andandosene e lasciandolo nel suo furioso rancore.

 

Fu mentre gustavo la mia adorata millefoglie che rincontrai Mei ,seduto sul muretto che arginava le aiuole intento a riordinare i libri nello zaino.

Mei” biascicai “Che ti ha detto Nikka?” domandai, per colpa della banda che mi seguiva quasi ovunque mi ero persa alcune battute. Mei alzò le spalle con aria persa. Non lo stavo interrogando ero solo curiosa, avevo deciso che non lo avrei accompagnato per mano fino alla tomba? Bene avrei cominciato da allora, però un po’ di sana curiosità non poteva fare certo male.

“Mi ha chiesto di aiutarla in matematica”ammise infine, con lo sguardo perso oltre la siepe. Non capii immediatamente cosa ci fosse che non andava, rimasi quindi in silenzio aspettando che parlasse mentre finivo di mangiare la millefoglie.

Sei innamorata di me?” chiese di botto. Pensai che il mio cuore si fosse fermato. Maledetta deficiente! Che idee metteva in testa a quello stupido opossum di mio fratello. Era incredibile come Mei incarnasse nella sua persona una stratosferica intelligenza meccanica e un quasi nullo intuito per i rapporti interpersonali.

“Certo che no!” sbraitai “Stupido cucciolo di un opossum!”

Avevo deciso che non mi sarei più interessata alle sorti di Mei? Bene. Avevo cambiato idea!

 

 

Se a qualcuno interessano i miei gusti in fatto di dolci odio la millefoglie, ma mi piace molto il nome.

Vi ringrazio tantissimo per i commenti, e  pensare che all’inizio non ero neanche sicura di volerla continuare questa storia, ma dopo tutto l’appoggio è impensabile non farlo. Purtroppo sono di fretta, e non riesco a ringraziarvi uno per uno ma sappiate che apprezzo tantissimo le vostre recensioni!

Una cosa soltanto: questa non è una storia di incesto, spero che nessuno ne sia rimasto deluso!

A questo punto vi auguro un FELICISSIMO ANNO NUOVO! TANTI AUGUTI E BUON 2009!!!

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Capitolo 6
*** Schiavizzazione Consenziente ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Sesto

Schiavizzazione Consenziente

 

 

 

Quel pomeriggio mia madre se ne stava a cucire vestiti con l’ausilio di Mister Manichino (così era stato chiamato il manichino che se ne stava nella nostra cucina). Era la volta di un pomposo e ingombrante abito nuziale.

“Mamma credo di essere ancora troppo giovane per sposarmi” mugugnai distratta sgranocchiando biscotti con i piedi appoggiati sul tavolinetto basso in vetro.

“Ma no sciocchina!” trillò lei entusiasta armeggiando con il tulle “E’ per Concita! La ragazza del quarto piano!”

“Quella tizia coi baffi che abita insieme a ventiquattro gatti?”chiesi arricciando il naso “allora c’è speranza per tutti”commentai rimettendomi a ruminare i miei biscotti e fogliare i giornali di moda di mia madre.

“Oh, no, quella ragazza così carina è Matilde…io parlavo di Concita , la ragazza spagnola con quei begli orecchini con le perle…”. Arricciai la bocca mettendola a forma di cuore, non mi sono mai interessata agli orecchini delle mie vicine.

Mio fratello invece, diversamente dal solito si aggirava per la casa come un’anima in pena dando di tanto in tanto occhiate all’orologio sopra la televisione.

Non c’era proprio dubbio, quella ragazza non gli stava di certo indifferente, ma credo che allora non gli fosse ancora chiaro come lo era a me. Era la prima volta che una ragazza che non fossi io gli girava intorno.

Un’ora prima di uscire era già vestito di tutto punto e continuava a mettersi e togliersi ossessivamente l’orologio che io e la mamma gli avevamo regalato per il compleanno. Forse lui avrebbe preferito qualche cosa di cibernetico con cui cimentarsi, ma nostra madre amava i dettagli e aveva deciso che addosso a Mei un grosso orologio retrò avrebbe fatto un figurone. Lui aveva fatto finta che gliene fregasse qualche cosa di quell’affare, ma fino ad allora non l’avevo mai visto indossarlo. A meno mezz’ora dall’uscita si era messo anche il giubbotto e faceva la spola tra la cucina e camera sua per controllare di aver preso tutti i quaderni che sarebbero serviti per la sua lezione privata di matematica a Nikka. Mi veniva da ridere. Mia madre gli aveva creato un giubbotto in morbida pelle nera, che si sarebbe trovato meglio addosso a un motociclista o al bulletto della scuola. Su di lui però non faceva altro che accentuare la sua indole compunta e remissiva, mi veniva quasi da ridere.

“Meno cinque minuti alle quattro, credo sia ora di uscire…” dissi io distrattamente fissando la foto di una modella vestita come una diva anni venti. Mei che per tutto il giorno non aveva trovato pace annuì silenzioso ed preoccupato per poi sparire dietro la porta di casa tirandosela dietro.

Sospirai e tornai al mio giornale. “E la pecorella se ne andò nella tana del lupo” cantilenai.

“Che dici Rachele tesoro…?” chiese mia madre soave riemergendo dal tulle.

“Niente figurati… solo mi sa che stai esagerando coi fiori su quel vestito…

“Dici? Sarà kitch?” alzai le spalle. “Quando mi sposo…non voglio tutti quei fiori…

 

Dire che Mei era un orologio svizzero era un eufemismo, esattamente quando l’odiato orologio a cucù della cucina suonò le quattro il citofono suonò educatamente. Avete mai notato che si riescono a riconoscere le persone per come suonano il campanello di casa? Ecco, Mei era educato, e si poteva riconoscere da quello.

Diversamente dalla prima volta Nikka si presentò vestita di tutto punto con un abito rosso decisamente bon ton e uno sgargiante sorriso stampato in faccia.

La cosa non fece altro che farlo sentire più a disagio e affondare le unghie nella borsa a tracolla. “Ciao Nikka” fece con un sorriso tirato.

“Entra pure, vuoi qualche cosa?mia madre deve aver comprato della millefoglie…”disse addentrandosi nella piccola cucina con passo aggraziato e misurato. Mei, che del canto suo avrebbe preferito vederla di nuovo in tuta e asciugamano tra i capelli, scosse la testa di scatto tanto da sembrare terrorizzato all’idea della millefoglie.

Nikka sorrise bonaria sedendosi a tavola lentamente e iniziando a spargere ovunque quaderni e libri.

“Beh…beh…di cosa avevi bisogno…cosa non hai capito”, Nikka abbassò la testa e parve pensarci , poi gli allungò un foglio scarabocchiato strisciandolo sul tavolo lucido.

“Questi…” sussurrò guardandolo con sguardo liquido di fronte a lui. “I logaritmi…?” accennò prendendo un po’ di sicurezza appena si entrò in un territorio conosciuto.

“Li sai fare?” esclamò raggiante  alzando le sopracciglia così tanto che non si videro più da sotto la frangia. Mei annuì perplesso da tanto entusiasmo.

“Bene! Questi sono i compiti che devi fare…se puoi finirli prima delle cinque sarebbe meglio, perché dopo arriva mia madre!” trillò allegra e pratica alzandosi dal tavolo diretta al corridoio.

Nel mentre una testa di capelli biondi spuntò dalla porta, che Mei ricordava essere quella di Nikka, dicendo scocciato “Allora hai finito lì?”

“Sì, sì tranquillo arrivo..” rispose lei leggiadra camminando quasi sulle punte e senza degnare più Mei di uno sguardo.

La porta di richiuse e la cucina sprofondò nel silenzio interrotto solo di tanto da qualche risata che si sollevava dal leggero brusio.

Mei rimase impietrito per qualche minuto a guardare la porta dove era sparita Nikka e a boccheggiare incredulo. Aveva deciso di schiavizzarlo mentre faceva i suoi comodi con il biondo di turno?

Deglutì, e per un secondo pensò che avrebbe potuto piangere. Strinse la matita che aveva in pugno tanto forte che avrebbe potuto rompersi se non si fosse dato una calmata. Ma lui non era arrabbiato, era  solo ferito. Si era convinto di starle simpatico e invece…

Sospirò e guardò i compiti che lei pretendeva che lui facesse.

Deglutì a disagio, fare i compiti o scappare urlando insulti?

Insulti…? Ma poi l’avrebbe voluta davvero insultare?

Guardò il foglio scarabocchiato e si mise a fare gli esercizi. Non erano affatto difficili, e si chiese come Nikka avesse potuto avere delle difficoltà. La matematica era rassicurante, non c’era nessuno che potesse dire che la sua interpretazione era sbagliata, ce ne era solo una , non c’erano dubbi, ed era uguale in tutto il mondo.

Non ci mise molto, e non guardò l’ora quando finì, solo quando fu riemerso dal paradiso matematico, la tristezza lo riaccolse. Si alzò di scatto mettendo a posto furiosamente tutti i calcoli e andò a bussare alla porta della camera di Nikka “Io vado…i tuoi compiti sono nello zaino!” disse e senza aspettare che lei rispondesse.

“Ehi aspett…” cercò di dire Nikka affacciandosi di corsa alla porta, quando Mei si era già tirato dietro l’uscio principale. “…ti dovevo parlare…” concluse un po’ rassegnata ad occhi bassi.

Da dentro arrivò una voce maschile svagata che borbottò “Tranquilla, tanto lo rivedrai…non scappa mica, è a scuola con noi…”.

Nikka sorrise e richiuse la porta, felice di non dover più fare i compiti per il giorno dopo.

 

Quando mio fratello entrò in casa a malapena lo vidi, e se non avessi sentito lo spostamento d’aria non mi sarei accorta di lui da quanto andava di fretta, cosa abbastanza insolita per uno a cui avevo affibbiato il soprannome “il Flemmatico”.

“Com’è andata Mei?”, in realtà già supponevo, ma volevo sapere cosa era successo.

“Da schifo” ruggì lui senza guardarmi e puntando dritto alla sua stanza, i suoi venti metri di paradiso solitario.

“io te lo avevo detto, che sei uno stupido opossum e che non ti devi fidare degli altri”cantilenai perfida, adoravo avere ragione, ma allo stesso tempo mi dispiaceva che lui stesse male.

Fu quando mi mandò al diavolo sbattendo la porta e facendo ondeggiare la catenella da wc che vi era appesa che mi resi conto di quanto ero stata cattiva.

Mi appoggiai al muro e aspettai che uscisse a chiedermi scusa per avermi insultato, di solito faceva sempre così anche se era colpa mia. Ma non uscì. E aveva ragione. Andai in cucina a testa bassa dove mia madre mi accolse con un sorriso “Tesoro, è tornato Mei?”disse riemergendo da quintali di stoffa. Annuii senza alzare gli occhi dal pavimento e presi fuori della millefoglie dal frigo.

Rimasi un po’ davanti alla catenella da cesso prima di decidermi a bussare. Quando lo feci non ebbi risposta, ma entrai comunque e lo trovai seduto sul letto con la testa appoggiata alle ginocchia.

“Ti ho portato la millefoglie…” dissi sedendomi accanto a lui. Lui muggì un assenso.

“Stai piangendo?” chiesi un po’ preoccupata.  Mugugnò di no e io sospirai, non avevo quasi mai visto piangere Mei, anche quando era piccolo lo faceva sempre nell’intimità dei suoi venti metri quadrati. L’unico ricordo del genere che ho di Mei, è del funerale di nostro padre. Credo che quell’avvenimento ci abbia plasmati per la vita. Lui è un opossum indifeso, e io sono una stronza…buffe fatalità della vita. Mi sdraiai e gli accarezzai la spalla. “Tranquillo…non è successo niente…”

Non era possibile. Lasciavo che gli avvenimenti facessero il loro corso per solo una giornata e Mei mi tornava a casa in quasi-lacrime. Avrei dovuto darmi da fare con Nikka. Ma avrei cominciato il giorno dopo…quella sera ero davvero stanca e probabilmente avevamo tutti bisogno della millefoglie!

 

Salve a tutti ecco il sesto capitolo della mia storia idiota! Lo so che forse è un po’ più triste del solito , è un po’ corto e forse non è proprio la cosa migliore che abbia mai scritto, ma era un passaggio che dovevo scrivere…per vedere Rachele compiere la sua opera nel prossimo capitolo!!!

Vi ringrazio infinitamente per le recensioni! Addirittura quattro! (e 11 preferiti!!!) Non me lo aspettavo davvero!!! Grazie grazie grazie!! Ora rispondo a tutti!!

Shami chan: mi scuso se ci ho messo un po’ ad aggiornare(un bel po’), ma avendo all’attivo anche un’altra fic oltre la scuola faccio un po’ fatica ad aggiornare spesso!! Sono felice che il mio capitolo ti sia piaciuto, spero si possa dire lo stesso di questo!!!

The Corpse Bride: Joys? È così brutto come nome? Ç_ç …beh, ho pensato al kiwi perché direi che la dimensione della cavità dove sta l’occhio è più o meno come quella di un kiwi, quindi se gliene avessero lanciato uno sarebbe stato perfetto, però in effetti credo sia un frutto abbastanza innocuo.  Invece Rachele, beh, non è che odi il mondo, ha solo uno strano metodo di relazionarsi con gli altri, dovrebbe venire fuori pian piano, e alle persone che le stanno intorno vuole più bene di quanto sembri.^___^

Niggle: ti ringrazio davvero tanto per quello che hai detto nel tuo commento, mi hai fatto davvero felice…spero che il lavoro sia stato buono come ti aspettavi!!!! I Pavesi e gli Zampieri ringraziano!!

LisettaH: neanche io bacerei mai mio fratello, ma a casi estremi, estremi rimedi, oppure è solo colpa di Rachele che non ha mezze misure!! Il pellicciotto arancione farà la sua ricomparsa nel prossimo capitolo tranquilla!!!^__^

 

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Capitolo 7
*** Tutto su di me ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Settimo

Tutto su di me

 

 

 

 

Mi svegliai di soprassalto anche quella mattina. Per quanto ne so ho passato la mia vita a fare incubi.  Nel senso, che da quando ho memoria, non è passata una notte senza che sognassi qualche cosa di brutto. Da piccola avevo paura di dormire, per un certo periodo mi sono addirittura rifiutata di dormire per una settimana, finché poi alla fine sono crollata, con grande contentezza di mia madre. Sarà nata da questo , la mia abitudine a dormire poco.

Comunque mi guardai in giro accertandomi che la mia stanza non stesse prendendo fuoco. No, era  tutto al suo posto,a parte la coperta che era finita per terra per colpa dello slancio che mi ero data per mettermi a sedere.

Sbadigliai e andai a cercare il pacchetto di sigarette. Le trovai e me ne accesi una mentre uscivo dalla stanza portandomi dietro il portacenere scheggiato. Mia madre lo voleva buttare perché giudicato antiestetico, ma a me piaceva.

La prima cosa che vidi quando arrivai in cucina, fu un tipo in mutande , pantofole e pellicciotto arancione che frugava nel frigo. Storsi la bocca contrariata, e lanciai un’occhiata sbieca a mio fratello che seduto al tavolo mangiava i cereali guardando sbalordito, l’individuo.

“Che ci fai qui, idiota?”domandai strascicando la domanda. Sapevo già la risposta.

“ Buon giorno megera coi capelli blu! Ho finito le uova…volevo fare un’omelette per colazione…” fece tranquillamente riemergendo dal frigo per fare un sorriso. Sbuffai, mentre Mei ci seguiva con gli occhi senza dare un senso al tutto.

“Vuoi dei toast Joyce caro?” celiò mia madre ai fornelli mentre da Mister Manichino pendeva un nuovo gilet per mio fratello.

“No, la ringrazio signora Pavesi! Sono a posto, rubo solo un goccio di latte” fece lui cercando di tenere tra le braccia tutta la refurtiva prelevata dal nostro frigo.

“Ma sei sicuro di voler uscire così?” chiese la mia madre chioccia accennando al fatto che Joyce girasse a petto nudo con solo e mutande e il pellicciotto. “Tranquilla signora! Sono solo due passi” e sparì faticosamente dietro la porta che chiuse a fatica, ribaltando un paio di yogurt.

Mi sedetti e spensi il mozzicone di sigaretta nel portacenere sbuffando.

“Ben svegliata” cinguettò dolcemente mia madre mettendomi davanti salsiccia uova toast e ogni genere di ben di Dio. “Colazione inglese?” chiesi divertita. Mia madre si illuminò e diede un’occhiata ispirata al soffitto. “Oggi mi andava così!”. Alzai le spalle prima di mettermi a mangiare, del tutto dimentica di mio fratello, che del canto suo se ne stava ancora con la forchetta a mezz’aria con aria attonita.

Guardai la sua forchetta in cui era infilzata una salsiccia “Se non la vuoi te la mangio io quella” dissi subito prima di tornare a dare attenzione al mio piatto.

Mei ricordandosi che stava mangiando se la infilò in bocca. “Che  cosa ci faceva lui qui?” chiese mesto. Mi venne da ridere.

Mei, tesoro, Joyce è qui quasi tutti i giorni, ma dato che te ne stai sempre chiuso nei tuoi adorati venti metri quadrati non l’hai mai visto!” esclamò mia madre in un dolce rimprovero. Mei alzò le sopracciglia stranito ma ricominciò a mangiare in silenzio senza fare altre domande. Penso che sia la cosa più giusta : non fare domande di cui non vuoi sapere la risposta.

Dopo ciò che era accaduto il giorno prima ero decisa ad agire. Prima di tutto avevo pensato a un pedinamento, ma poi mi ero resa conto che seguendo Nikka e ascoltando i suoi discorsi al massimo avrei potuto scoprire che colore sarebbe andato di moda questo Natale, e poi non sarei passata certo inosservata con tutte quelle oche blu starnazzanti che mi seguivano. Decisi perciò di prendere il problema di petto, e la fortuna mi assistette, quel giorno c’era il rientro, e quale posto è migliore della mensa, per prendere di petto qualche cosa? Per di più i cuochi ci avevano voluto nuovamente graziare con la mia adorata millefoglie!

Riempii il mio vassoio con lentezza snervante prima di dire a Mei che non lo volevo tra i piedi. “Mei vai coi tuoi amici, oggi a pranzo ho delle cose importanti da fare!” dichiarai quando accennò a seguirmi al tavolo.

Mio fratello si immobilizzò accigliandosi. “Ma io non ho amici , lo sai!” disse come se gli stese sfuggendo qualche cosa.

Alzai le spalle “Allora ti presto le mie” concessi schioccando le dita, e sotto lo sguardo stupito, mio e di Mei, un branco di ragazze blu si assieparono attorno a mio fratello accarezzandolo e adulandolo. Io avevo schioccato le dita per ridere, non pensavo che sarebbero arrivate davvero…ma mi stavano seguendo? Alzai le spalle, poco male, avrebbero tenuto occupato Mei, e mi allontanai a grandi passi mentre mio fratello terrorizzato veniva circondato da quelle troppo affettuose signorine cerulee.

Fui felice di constatare che Nikka era sola al tavolo, mentre le sue due inseparabili guardie del corpo si azzuffavano al bancone per accaparrarsi l’ultimo pezzo di torta. Non mi badò quando le passai davanti, intenta com’era nel cercare di aprire la bustina monodose d’olio. Alzò gli occhi accorgendosi di me solo quando spostai rumorosamente la sedia e sbattei con poca grazia il vassoio sul tavolo. Mi fece un sorriso fittizio. Sapevamo tutte e due che avrebbe voluto strangolarmi, ma non era bello mostrarsi poco propense alla compagnia del prossimo. Poi sottovoce integrò il sorriso con un finto-allegro, quanto ostile “Che cavolo vuoi?” .

Era ovvio che se ero lì non era per pranzare o per fare due pacifiche chiacchiere sulla nuova marca di smalto che spopolava tra le adolescenti.

“Ho saputo che hai problemi con i logaritmi” cominciai sapendo che avrebbe afferrato l’allusione. Nikka non era stupida; o almeno non lo era in questo senso. “Già” fece irrigidendosi e facendosi seria. Rimanemmo un po’ in silenzio mentre io spargevo meglio il pomodoro sulla mia pasta scotta.

“Sai che non mi fa piacere come tratti Mei…potrei decidere di vendicarmi al posto suo” minacciai mentre arrotolavo gli spaghetti collosi attorno alla mia forchetta di plastica. Nikka assunse un’espressione  strana, tra il saccente e il curioso, come se mi dicesse “vediamo un po’ cosa sai fare”.

Alzai le spalle in risposta alla sua muta domanda “Vediamo Nikka… potrei dire a tua madre che fumi… ho saputo che non le farebbe piacere”. Lei si accigliò, probabilmente come minaccia era abbastanza valida.

“Sai cosa ha fatto la mia quando lo ha scoperto? Mi ha fatto sturare tutti i gabinetti del condominio, e non è stato divertente. Raccontai con un sorrisetto. Nikka arricciò il naso.

Non era stato affatto divertente, e per di più da allora quando c’era un qualche problema, che fosse elettrici stico, idraulico o che riguardasse solamente attaccare una mensola, venivano tutti a chiedere i miei gratuiti servigi.

“Oppure preferisci spiegarmi quali sono i tuoi progetti con mio fratello?” chiesi. Nikka sbuffò “Non cedo ai ricatti” disse, e per un secondo impercettibile mi irrigidii, avrei dovuto trovare qualche altro metodo per farla pagare a quell’idiota, ma poi continuò “Tutta via posso dirti che Mei mi piace. Insomma, ha del potenziale… è un bel ragazzo, non è di una bellezza trascendentale, ma non è da buttar via, si veste bene e non è un cafone…insomma si può fare qualche cosa…” spiegò con fare pratico. Inarcai le sopracciglia, mi chiesi se per caso non avessi capito o per caso se mi stesse prendendo per il culo.

“Insomma, è un po’ troppo introverso… sarebbe molto apprezzato dalle ragazze se fosse un po’ più deciso…ha del fascino e della materia grigia, non come Pallotti…” continuò accennando con un movimento della testa al ragazzo biondo che era in casa con lei il giorno delle famose ripetizioni di matematica.

“Non mi pare che tu ti sia fatta dei problemi a sbaciucchiarlo davanti a tutti e a mio fratello!” feci un po’ scocciata. Entrambe avevamo smesso di mangiare e ci guardavamo in torno fingendo di non essere realmente interessate alla discussione.

“Beh, tu a uno come Pallotti ci sputeresti sopra anche se ha in cervello di un’albicocca?” chiese lei incredula. Per tutta risposta mi voltai a guardare il ragazzo incriminato che se ne andava in giro tra i tavoli con un’aria da divo, aveva i capelli biondi, il fisico scolpito e un viso incantevole. Ridacchiai e dovetti ammettere che sarebbe piaciuto anche a me, purché stesse zitto. La guardai e ammisi di buon grado che aveva ragione lei. Nikka parve compiaciuta e fece un sorrisetto vittorioso. Ma non le lascia per molto la vittoria.

“Quindi devo dedurre che in realtà non volevi far fare a Mei quello che gli hai chiesto? Si è trattato di uno sfortunato incidente se ha fatto i tuoi compiti di matematica?” provocai sarcastica fissandola negli occhi.

“Certo che no!” esclamò “Non avevo alcuna intenzione di fare i compiti sui logaritmi, così ho pensato che dato che è così intelligente poteva farmeli lui!” ammise senza un minimo di vergogna . Non sapevo davvero cosa pensare, e mi ritrovai a guardare una delle mie ochette blu che cercava di imboccare un terrorizzato Mei. Poveretto, indifeso e circondato da esseri di tale tenerezza da incutere terrore.

Mi strapparono un sorriso, ma poi tornai a guardare Nikka con aria scocciata mentre lei con le braccia conserte ricambiava lo sguardo da sopra il suo piatto d’insalata.

“La mangi?” chiesi adocchiando la sua millefoglie.

“No, sono a dieta” rispose acida, sorrisi “Allora non ti dispiacerà se la mangio io, ho il metabolismo veloce”.

Lei increspò le labbra ma non disse nulla mentre io mi servivo con la sua torta, e a riprendere la conversazione dopo qualche boccone fui io.

“Quindi spiegami ancora, credo di non aver capito del tutto…cosa vuoi fare con mio fratello?” aspettò un secondo prima di rispondere, ed entrambe rimanemmo in sospeso.

“Vuoi saperlo sinceramente?” chiese protendendosi sul tavolo fino che i nostri nasi per poco non si toccarono. Annuii.

“Voglio farlo diventare la mia opera d’arte…” ridacchiò e si risedette compiaciuta. Mi passarono davanti un sacco di immagini poco eleganti di mio fratello da piccolo, da bambino aveva un’insana propensione a macchiarsi. E lui, con i suoi computer e la sua catenella da cesso sarebbero diventati la SUA opera d’arte? Mi fece ridere.

“Non scherzare…non ci riuscirai mai…” mi alzai ridendo “Buona giornata esteta da due soldi…”. E uscii sorridendo mentre la mia tracolla a fiori sbatteva contro la mia coscia.

Passò qualche ora prima che mi ritrovassi seduta su una panchina con le gambe incrociate e una lattina di birra calda in grembo. Andavo spesso in quel parchetto fuori mano, mi piaceva, si vedeva il tramonto, era polveroso al punto giusto e non c’era mai nessuno.

Quasi mai nessuno.

“Vecchia megera blu!” trillò allegramente Joyce prima di sedersi accanto a me. “Ciao idiota impellicciato” risposi pacata.

“Quella la bevi?” chiese adocchiando subito la birra. “E’ calda” spiegai. Joyce alzò le spalle “Me la dai lo stesso?” . annuii, la afferrai e la scossi con tutta la forza che avevo, poi gliela passai.

“Tutta tua”.

“Stronza”. Ridacchiai per la sua espressione delusa, come se non lo avesse saputo fin da subito  che non l’avrebbe mai ottenuta quella birra. Rimanemmo un po’ in silenzio mentre io contemplavo scettica i nuovi gingilli ben poco virili del ragazzo accanto a me.

“Che ci fai qui oggi? È successo qualche cosa?”. Alzai le spalle. “Nikka vuole ammaestrare mio Fratello…” interruppi la frase per ridere “un opossum ammaestrato!”

“E tu credi che non ci riuscirà?” chiese lui con una voce strana. Mi voltai a guardarlo prima di rispondere un po’ turbata “Certo che no, perché?”

“Convinta tu…” fece Joyce scettico. Non risposi, ma poi aggiunsi “E poi la signora del terzo piano mi ha chiesto se oggi pomeriggio le sturavo il lavandino…ma non ne ho voglia” conclusi svogliata, mi capitava spesso di fuggire dai miei vicini di casa.

“Io invece sta sera pensavo di venire a scroccare un po’ di carne a casa vostra, mio padre non ha fatto la spesa neanche oggi!”spiegò. attesi un po’ prima di rispondere.

“Ladro”

 

________________________________________________________________________________

 

 

Ecco il settimo capitolo, primo e ultimo completamente narrato da Rachele. È un po’ diverso dagli altri, spero non vi dispiaccia , ma dato che è lei la protagonista di questa parte gliel’ho dedicato completamente. E poi ci tenevo a mostrare un po’ anche la vita di questo personaggio, che spesso e volentieri non si esprime su se stesso.

In più ci tenevo a precisare che gli incubi di inizio capitolo non avranno nessun riscontro più avanti, non è un’eroina maledetta, lo faccio solo perché mi piace aggiungere vizi, virtù paranoie e turbe ai personaggi, trovo che li avvicini più alla realtà.

Ma passiamo ai ringraziamenti! Non ci posso credere! Tredici preferiti e ben cinque commenti!!! Davvero non me l’aspettavo da una storia che all’inizio non pensavo nemmeno di continuare (lo dico sempre ma è vero!!). passo a ringraziare ad uno ad uno!!!

Shami chan:  grazie per i complimenti, ho cercato di fare il più presto possibile, ma sinceramente non so quanto tempo ci ho messo! Spero non troppo!!!^___^

The Corpse Bride: quando ho letto il tuo commento mi sono sentita un’idiota… Joys? Che vergogna…. Ho corretto tutto…*auto fustigazione* nel caso trovassi altri orrori dimmelo pure, così potrò correggerli! Ma passiamo ad argomenti meno imbarazzanti:  beh sì, Nikka aveva chiamato Mei per fargli il lavaggio del cervello se si può dire così…ma poi ne ha approfittato e gli ha fatto fare matematica. E Rachele? Assomiglia a Effy anche qui?O_O… spero che il capitolo ti sia piaciuto!!!

Lidiuz93: mi fa piacere che ti piacciano!...e io amo le mamme chiocce… sono così spassose!

Niggle: figurati, inopportuna! Sì ho un fratellino^_^, però tra i due io sono Mei e lui è Rachele!!! Grazie mille per il commento!!

LisettaH: sono d’accordo, ma non credo che Mei sarebbe in grado di dire di no a Nikka, se lo rifacesse, perciò è meglio che ci pensi Rachele, anche se alla fine non si è concluso granché!!! ^_______^

Grazie a tutti Aki_Penn

 

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Capitolo 8
*** La verità nel frac ***


Salve a tutti, eccomi con il nuovo capitolo. Allora, forse leggendolo penserete che Nikka sia pazza(o che io sia un’amante del surreale). Ma alla fin fine lei e questa storia si basano sui vestiti, era ovvio che la prova del 9 si facesse col frac.

Ad ogni modo spero che possiate apprezzare le mie solite cavolate. Grazie mille a tutte le persone che leggono, a chi ha messo la storia tra i preferiti(quota 14!!!!) e a chi ha commentato, in particolare a LisettaH(per Mei la situazione si fa brutta, poverino, sarà dura sopravvivere in mezza a tutta quella gente! Tranquilla le oche blu torneranno alla ribalta anche a se sono personaggi decisamente secondari) , The Corpse Bride(grazie mille per i complimenti, e beh, per quanto riguarda Joyce e Rachele credo che siano amici, hanno un’amicizia un po’ atipica ma sono amici^_^) e Lidiuz93(per Mei è sempre peggio…e non siamo ancora arrivati all’apoteosi delle catture che Nikka intende fargli!!muahahah!!!).

Grazie a tutti e buona lettura.

Aki_Penn

 

 

 

 

I miei venti metri quadrati

Capitolo Ottavo

La Verità nel Frac

 

 

 

Quel giorno mi avventurai a scuola pressoché come un fantasma, contando sul fatto che le mie oche blu affezionatesi a Mei lo placcassero impedendogli di seguirmi, e in effetti così fu, perché mio fratello non riuscì a scavarsele di torno finché non entrò in classe e loro furono costrette ad andare nella loro. Fui anche felice di constatare che non era riuscito nemmeno a casa ad estrapolarmi nulla sulla mia discussione con Nikka.

Non che Mei fosse un convincitore di professione, diciamo che il nostro colloquio era andato più o meno così :

“Cosa vi siete dette tu e Nikka?”

“Niente”

“Va bene”, e poi l’argomento era decaduto. Anche se io qualche volta l’avevo chiamato “opossum addomesticato” , lui non aveva capito nulla.

Più complicato sarebbe stato togliersi di torno Joyce. Ma per fortuna non avevo bisogno di nascondergli certe cose, e quella mattina non era nemmeno venuto a fare razzia nel nostro frigo. Da ciò dovevo dedurre che in casa sua si fossero degnati di fare la spesa. La cosa mi rendeva gioiosa, non avrei dovuto vederlo razzolare in cucina in mutande e pellicciotto o ancora peggio con indosso quell’orrenda vestaglia plastificata con scritto “IRISH” in lustrini, a lettere cubitali.

Anche mia madre, per quanto fosse affezionata a Joyce era ben felice di non dover vedere tali scempi. Entrai in classe di malavoglia sbadigliando, nonostante la mia apparenza eterea ero decisamente turbata, come se stesse per succedere qualcosa.

Questo qualcosa che mi turbava, si personificò ben presto in Nikka.

 

Mei uscì dalla classe guardandosi in torno col terrore di vedere apparire da un momento all’altro quello sciame di ragazze blu, che sembravano fin troppo intenzionate a ricoprirlo di soffocanti attenzioni.

Riconobbe la voce che lo chiamò, non erano le asfissianti donzelle blu. E proprio per questo fece finta di non sentire. Non sarebbe riuscito a risponderle male, lo sapeva e se fosse riuscito a fermarlo gli avrebbe fatto fare tutto quello che voleva, perciò l’unica via di fuga rimaneva far finta di non aver sentito niente.

Purtroppo come strategia non funzionò particolarmente bene, infatti dopo più o meno un secondo da quando aveva sentito pronunciare il suo nome , Nikka gli si era presentata davanti con l’espressione assorta e gli occhi che fissavano dritti i suoi. Mei sentì la pressione scendere di un paio di tacche e le guance arrossire.

“Ciao Mei” ripeté lei seria. “Oh, oh..ciao, non ti avevo sentiva arrivare o, ti avevo sentito…però io non avevo capito…non ti avevo sentito…” preferì zittirsi prima di dire una cavolata. Arrossì più di quanto non fosse già e abbassò la testa cercando di nascondere l’espressione imbarazzata.

“Mi chiedevo cosa facessi oggi pomeriggio” disse seria Nikka controllandosi lo stato del mascara in uno specchietto color ocra che sparì subito in borsa.

“Ehm…niente” disse impacciato e allo stesso tempo atterrito. Non voleva che Nikka lo usasse nuovamente per fare i compiti mentre lei se la spassava con il bell’imbusto di turno.

Ma lei non sembrava in vena di volerlo infinocchiare. Sembrava seria, come se dovesse compiere una missione di estrema importanza.

In quell’istante passò urlando dietro di loro Joyce, mostrando il suo nuovo piercing al capezzolo, con la maglia tirata su.

“GUARDATE CHE MERAVIGLIA!” strillò in estasi.

“Joyce sei uno scempio… copriti per favore!” lo liquidò Nikka infastidita senza nemmeno guardarlo, e lui se ne andò a importunare delle ragazzine di prima che più che essere scocciate erano sconvolte dal vedersi arrivare un tizio mezzo nudo con un pellicciotto arancione addosso. Sono cose che ti rimangono dentro.

“Comunque ti volevo dire” continuò come se nessuno l’avesse interrotta “Voglio portarti in un posto”. A sentire tanta riservatezza il ragazzo non poté far altro che insospettirsi. Che cosa lo avrebbe costretto a fare adesso? Non ne aveva idea, ma era incredibilmente preoccupato. E l’espressione seria di Nikka non lasciava trasparire nulla .

In un secondo furono al loro seguito anche Millie e la sua amica equina. “Loro sono Millie e Vanessa…ma credo che tu le abbia già conosciute” fece Nikka senza badare veramente a ciò che le accadeva intorno. Mei azzardò un sorrisetto che venne accolto con due decisamente troppo ampi. Il ragazzo si rigirò a guardare Nikka. Sinceramente non sapeva chi delle tre poteva fare più paura. Millie e Vanessa , con l’aria di chi non vede un uomo da secoli, o Nikka, che ne aveva visti anche troppi e sapeva come trattarli. Deglutì a disagio.

“Dove andiamo?” chiesero le due che stavano loro dietro, mentre varcavano il cancello della scuola.

“A fare la prova frac!” disse Nikka perentoria suscitando un concitato bisbiglio tra le due che cominciarono a confabulare fitto lanciando occhiate sbilenche a Mei. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, tutta quell’emozione abbinata alla parola frac , non lo entusiasmava neanche un po’. Si guardò in giro circospetto, finche camminando quasi senza guardare avanti, non gli piombò addosso un Joyce piuttosto infuriato.

Spinto da un bidello altrettanto furioso.

“Vai via di qui,maniaco! Ti sembra normale spaventare così le ragazzine?” urlava l’uomo con grembiule rincorrendolo con una scopa.

“Ma io studio in questa scuola! E poi stavo mostrando il mio nuovo piercing!” ribatté lui riprendendo l’equilibrio a scapito del povero Mei, che per poco non caracollò a terra.

“Non dire fesserie! Tu sei uno di quei drogati che vivono sotto i ponti! Si vede da come sei vestito!” sbraitò l’uomo brandendo deciso la scopa, Joyce evitò il colpo per miracolo, come se stesse ballando il limbo.

A quel punto Nikka sbuffò, tutto quel casino era decisamente poco educato, poco formale e decisamente antiestetico. Antiestetico quasi quanto i calzini bianchi che si intravedevano sotto i pantaloni del bidello, e quanto il pellicciotto di Joyce.

“Signor Randelli!” esclamò con un sorriso che a un buon osservatore sarebbe sembrato più falso di una Vitton comprata al mercato, ma che convinse pienamente l’uomo facendolo sciogliere.

“Nikka cara…” chiocciò compunto, dimenticandosi del ragazzo dall’aria da depravato, che tra l’altro dopo tanta fatica era precipitato a terra inciampando nei suoi stessi piedi. Mei con le braccia incrociate e lo sguardo di chi non dovrebbe essere lì, lo guardava perplesso.

“Signor Randelli, come sta bene con quei baffi!” esclamò, mentre la sua faccia diceva esattamente il contrario. “Non si preoccupi, mi occupo io di Joyce” disse tirandolo su da terra con poca grazia. Scoccò un altro sorriso assordante al bidello prima di dirigersi finalmente verso il cancello d’uscita.

Il signor Randelli la guardò adorante per un altro secondo prima di incupirsi fissando Joyce che se ne andava con la sua andatura sbilenca mostrando deciso il dito medio.

“Su, su andiamo!” sbottò Nikka impaziente spingendo Joyce, perdendo tutta l’eleganza di cui aveva fatto sfoggio davanti al bidello.

“Dove?” chiese Joyce baldanzoso lasciandosi spingere dall’esile ragazza dietro a lui.

“Da Mexico” disse perentoria. “Mexico!” esclamò divertito e poi cacciò un’occhiata furba e allo stesso tempo di compatimento a Mei. “Allora ti vogliono far fare la prova del frac! Wow…” fece divertito, prendendolo un po’ in giro, mentre le due amiche di Nikka guardavano Mei con sguardo sognante.

Nikka si avviò con passo spedito per la via bene. Uno di quei viali pieni di negozi sfavillanti, con commessi snob e un sacco di luccicanze. Si arrestò solo davanti ad un negozio con un’entrata decisamente meno trionfale. Sul vetro stava scritto in bella calligrafia “Mexico”. Perché un negozio di abiti nuziali si chiamasse così poi era tutto da vedere. Sta di fatto, che tutti gli sposi bene di città e dintorni se ne andavano lì a comprare tutto, e Nikka era un’affezionata cliente. Se così si poteva dire.

Un vecchio barbuto , elegante e storto, aprì la porta con un sorriso. “Buon giorno Nikka”, lei l’accecò con il suo riso bianco.

“Non compri niente neanche oggi vero?” chiese pacato il babbo natale anoressico che se ne stava sulla soglia. 

Nikka gli lanciò uno sguardo malizioso prima di rispondere “Tu che dici? Sono una cliente indisciplinata?” scherzò facendoci le fusa.

“Non preoccuparti cara, da quest’estate ogni giovedì arriva una tizia con un manichino, che pretende di provargli tutti i vestiti… mi sembra di stare in un negozio di bambole”  sospirò il vecchio rassegnato, prima di accorgersi di Joyce che stava togliendo tutti gli spilli da un manichino particolarmente tronfio.

Il vecchio commesso fece un sospiro irritatissimo per non saltargli al collo e strangolarlo.

“Posso servirmi da sola?”, lui annuì, “tanto sai dove andare” concluse aspettando solo che Joyce si spostasse per avventarsi sull’abito con gorgiera e risistemarlo febbrilmente preso quasi da un moto di follia.

“Il solito” sbuffò Nikka avviandosi verso i camerini, dove il pavimento era ricoperto da un tappeto rosso. E le due amiche corsero tra gli scaffali a recuperare ciò che Nikka aveva ordinato.

Si fece cadere pesantemente , ma alla stesso tempo con una certa eleganza sullo sgabello dall’aria austera.

Joyce fece lo stesso, molto meno raffinatamente, tutto intento a giocherellare con gli spilli trafugati al manichino all’entrata.

“Ehm…ehm…” boccheggiò Mei sentendosi decisamente agitato, e cominciando a misurare a grandi passi la saletta.

Nikka si guardò le unghie laccate di bordeaux  prima di dargli udienza. “Mei” lo chiamò, e lui si pietrificò, prima di piantarsi davanti a lei.

“Io ho una teoria” cominciò Nikka accavallando le gambe. Joyce nel frattempo contava i suoi spilli e non dava udienza a nessuno.  “Un uomo ha fascino se sta bene vestito in modo elegante…insomma, se con un frac non sembra un prosciutto imbalsamato…” continuò senza guardarlo, come se non fosse abbastanza importante da poter avere la sua attenzione.

“Perciò volevo provarlo su di te” disse infine voltandosi verso di lui e lo sguardo le si accese.  Mei si sentì stringere lo stomaco e deglutì faticosamente sentendosi quegli occhi fissi addosso, che sembravano trapassarlo.  Nel mentre arrivarono Millie e Vanessa trasportando un ingombrante sacco di plastica bianca che aveva tutta l’aria di essere un cadavere.

“Dovrebbe essere quello giusto” bofonchiò Millie che aveva tutta l’aria di chi aveva  girato tutto il negozio quattro volte per trovare ciò che cercava.

“Oddio, non tenetelo così che si stropiccia!” sbraitò perdendo l’eleganza di cui prima faceva sfoggio. Prese il sacco per la gruccia e lo passò a Mei. “Mettitelo” ordinò perentoria senza dar adito a rifiuti, mentre Joyce ridacchiava.

Mei entrò mesto nel camerino rosso e dorato e si fece cadere pesantemente sullo sgabello posizionato vicino allo specchio. Guardò il suo riflesso e si sentì un idiota. Come aveva fatto a essere così stupido da cadere nelle grinfie di Nikka? Per la seconda volta per di più.

A seconda di come gli stava quel vestito si sarebbero decise molte cose a quanto pareva.  E aveva l’idea che sarebbe sembrato un bamboccio, un bamboccio imbambolato della peggior specie. E allora Nikka non gli avrebbe più rivolto la parola.

E allora? Cosa stava dicendo? Se quella pazza scatenata di Nikka non gli avesse più rivolto la parola sarebbe andato tutto meglio! Niente feste imbarazzanti, niente più compiti per altri…

Però se non gli fosse andato bene Nikka non gli avrebbe più rivolto la parola…e… sarebbe stato meglio…però…

Fece un respiro e rimase in boxer davanti allo specchio. Si morse il labbro guardandosi.

Non gli era mai capitato di preoccuparsene, ma visto così, sotto la luce abbagliante del neon si sentì estremamente insignificante. Aveva visto Pallotti, il tipo che era a casa di Nikka il giorno dei logaritmi, aveva visto gli amici e i vari ragazzi che lei frequentava. E perfino Joyce, da quello che aveva potuto vedere tra pellicciotto, pantofole e mutande non era un cosino da buttar via. In confronto a tutta quella gente lui era un insignificante fuscello. Pallotti lo avrebbe potuto ribaltare senza problemi. Le braccia erano decisamente insignificanti, e la pancia sembrava tirata fino a spezzarsi, poteva intravedere i tendini, tra gli addominali che si vedevano davvero poco, ed erano lì per costituzione mica per altro. Per un secondo pensò che forse avrebbe dovuto giocare a pallanuoto, come Pallotti, o andare in palestra. Ma non ci mise molto a tornare alla realtà. Chi voleva prendere in giro? Con quelle gambette striminzite e a parentesi sarebbe stato davvero ridicolo.

Decise di infilarsi in fretta l’abito, non voleva vedersi nudo per un attimo di più.

Ci mise un po’ a indossarlo, incastrandosi nella camicia e rischiando di strappare la giacca, ma poi riuscì a metterlo. Diede le spalle allo specchio per non vedersi e sbirciò da dietro la tenda rossa per vedere cosa si faceva dall’altra parte.

Joyce si stava improvvisando illusionista,venerato da Millie e Vanessa che lo guardavano con gli occhi luccicanti.

“Ehm…” si schiarì la voce Mei, nonostante il sussurro non fosse ben udibile ebbe subito l’attenzione di tutti, e la cosa lo fece avvampare da dietro le tende, soprattutto quando gli occhi di Nikka si posarono sul suo che sbirciava all’esterno.

“Quante possibilità ho di essere presentabile con questo coso addosso”. Nikka fece una risata fredda, che a Mei fece venire i brividi. “Beh, te la venderò così…fino ad ora ce ne è stato solo uno che sia riuscita ad apprezzare” spiegò guardandolo sottecchi, per quello che poteva vedere dietro la pensante tenda di velluto.

Mei deglutì intimidito. “E chi sarebbe questa persona?”.

 L’espressione di Nikka si fece decisamente scocciata, e si voltò per lanciare un’occhiataccia a Joyce, che si stava spanciando dalle risate. “Lui” ammise infine con un grande sforzo.

“Su dai esci di lì… non ti mangia mica anche se non ti sta bene” disse poi Joyce con tutta l’aria di volerlo tranquillizzare. Mei si fece coraggio e sgusciò fuori dal suo bozzolo con le spalle curve.

“Stai dritto” ordinò perentoria Nikka senza ombra di umanità, e Mei si raddrizzò tanto in fretta da pensare che qualcuno lo avesse punto con uno spillo.

Il ragazzo in frac strinse i denti, e i pugni, mentre gli occhi guardavano fissi davanti a lui. Avrebbe voluto guardare Nikka, ma gli faceva molta paura.

Lei sembrava del tutto assorta nello studio delle pieghe dell’abito. Una statua di ghiaccio. Tutti gli altri intenti a decifrare la sua espressione.

Poi si alzò e fece un sorriso. “Direi che possiamo andare!” esclamò soddisfatta roteando su sé stessa.

Mei con lo sguardo perso cercò il viso di Joyce per cercare di capire almeno da lui cosa fosse successo. Lui fece un sorriso bonario e alzò i pollici al cielo,poi con le mani in tasca si avviò all’uscita seguendo Nikka.

 

Quando mio fratello arrivò a casa aveva tutta l’aria di aver visto un fantasma. Cercò di defilarsi in camera sua senza dare udienza a nessuno, ma fu così sfortunato da trovarmi sulla sua traiettoria di fuga.

“Cosa è successo?” chiesi.

“Niente” disse balbettando e sudando, ben sapendo di mentire. Non avrebbe convinto nessuno, e mi ci sarebbero voluti solo un paio di minuti per farmi spiattellare tutto. Ma non ci volle nemmeno quel tempo perché sentii una voce alle mie spalle rispondere al posto di mio fratello.

“Nikka gli ha fatto fare  la prova del frac” spiegò Joyce che se ne stava seduto sul divano della cucina , sbocconcellando un toast.

“E come è andata?”chiesi nel modo meno gentile possibile. Infondo era sempre Joyce non potevo mica permettermi di trattarlo come un essere umano.

Lui alzò le spalle e con lo sguardo malizioso fece “Pare che sia il più bel ragazzo in frac che si sia mai visto! Credo che il tuo caro Mei si sia cacciato in un bel guaio!”. Quello che Joyce disse, Mei non poté sentirlo perché si era già nascosto in camera sua.

“A proposito tu dove sei entrato?” domandai scorbutica accantonando per un attimo Nikka e la sua prova del frac.

“Sono entrato dalla finestra del bagno, il citofono era rotto e nessuno mi sentiva” spiegò tranquillo mentre copiosi pezzi di tonno cadevano dal suo panino al mio divano.

“Joyce , caro… dovresti smetterla di arrampicarti su per la grondaia, prima o poi ti farai male” cinguettò mia madre gli preparava le frittelle.

Mi lasciai sprofondare nel divano, per poi giungere alla conclusione che per anestetizzare le preoccupazioni, avrei solo dovuto ingozzarmi di frittelle e millefoglie. E così feci. Tanto a darmi manforte c’era Joyce. Che il cibo non lo disdegnava mai.

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Capitolo 9
*** Il Furto della Gioconda sul Gabinetto ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Nono

Il Furto della Gioconda sul Gabinetto

 

 

Quella domenica non poteva iniziare in modo migliore. Prima di tutto , diversamente dal mio sogno nessun ladro diabolico era venuto a privarci del nostro quadro della Gioconda appeso appena sopra al water, anche perché non avevamo nessuna copia della Gioconda in bagno. Poi la madre di Joyce sarebbe venuta in Italia direttamente da Gallway per far visita ai figli e all’ex marito, e per quel giorno era in programma una gita fuori porta dell’intera famiglia, perciò Joyce sarebbe stato alla larga da casa mia per un po’. Inoltre era appunto domenica , ed essendo domenica né io né Mei saremmo andati a scuola, e quindi mio fratello non avrebbe corso il pericolo di finire tra le grinfie di quell’arpia di Nikka. Insomma, una giornata da segnare sul calendario con l’evidenziatore.

Andai in bagno, e mi compiacqui del fatto che non ci fosse nessuna opera di Leonardo da trafugare, mi lavai di denti guardandomi allo specchio, diedi un’occhiata al vetro della finestra, che inevitabilmente rimaneva sempre aperta, la chiusi dicendomi che era normale che Joyce riuscisse a entrare, se mia madre lasciava tutto spalancato.

Ma non mi feci abbattere da simili sciocchezze e mi accesi beatamente una sigaretta. Mentre me la fumavo con tutta le beatitudine del mondo mi diressi in cucina afferrando il mio solito portacenere scheggiato che portavo in giro per casa .

“Buongiorno!” trillò mia madre mentre mi mettevo a sedere a tavola dove la mia colazione era già pronta. “Ti sei svegliata tardi sta mattina tesoro!” continuò distogliendo per un attimo gli occhi dallo zabaione che stava cucinando. Mister manichino indossava un pomposo vestito da sera commissionato da chissà da chi.

“Tuo fratello si è alzato presto ed è già uscito”. La forchetta intrisa di millefoglie mi si fermò a mezz’aria mentre trafiggevo mia madre con un’occhiata per nulla tranquilla.

“Come sarebbe a dire che Mei è uscito?” chiesi con gli occhi fuori dalle orbite e la millefoglie che cadeva rovinosamente sulla tovaglia senza avvicinarsi nemmeno per sbaglio alla mia bocca. Da quando in qua Mei usciva?

“Oh, sì” fece allegra la mia ingenua genitrice  “è andato da quella sua amica, la figlia di Marianna…com’è che sia chiama? Nicole? Nicoletta? Sai che non lo so…sono davvero felice che si sia trovato un’amica ne aveva proprio bisogno!” continuò a vaneggiare lei mentre io rivolgevo uno sguardo malinconico alla mia colazione, per poi sospirare e cominciando a mangiarla.

Non potevo mica perdere l’appetito per Nikka… e poi infondo che gli poteva fare di tanto grave? Farlo camminare sui carboni ardenti? Frustarlo?  Metterlo in una vasca piena di ghiaccio?

No, sicuramente no, e allora decisi di lasciar perdere. Al massimo avrebbe fatto qualche esercizio di matematica di troppo.

 

Nella sua testa non era chiarissimo come fosse finito lì dentro, ma la cosa che invece era più che chiara era che stesse morendo di freddo, che avesse le dita di un colorito tendente al blu e i denti che battevano facendo rumore.

Si chiedeva come aveva fatto a farsi convincere così stupidamente da Nikka a spogliarsi fino alle mutande davanti ai suoi occhi, e oltre a quello entrare in una vasca piena di ghiaccio dove probabilmente sarebbe morto assiderato entro un’ora. Si strinse un altro po’ nelle spalle mentre sentiva il calore andarsene dalle mani ormai blu. Alzò lo sguardo per guardare Nikka che seduta sul water col coperchio chiuso si faceva tranquillamente la french alle unghie, senza dargli particolare udienza.

Deglutì e cercò di schiarirsi la gola nel modo più rumoroso possibile per attirare l’attenzione su di sé.

Vano dispendio di voce dato che Nikka lo ignorò finché non ebbe finito di sistemarsi le unghie come esattamente desiderava.

Rimirò soddisfatta il lavoro svolto. “Sai Mei” cominciò senza guardarlo ma continuando a osservare come aderiva lo smalto “non dovresti fare lo zerbino e fare tutto quello che ti dicono le ragazze, cos non conquisterai mai nessuna…” concluse avvicinando il viso pericolosamente a quello del ragazzo decisamente infreddolito. Mei deglutì faticosamente sorprendendosi che la saliva non gli si fosse ghiacciata in bocca, poi annuì lentamente con aria a dir poco terrorizzata.

Nikka lo gratificò con un sorriso per poi rifugiarsi nuovamente sul suo water col coperchio chiuso, e dichiarare “Perfetto”.

Il ragazzo fece per alzarsi ma lei lo fulminò “Beh, cosa fai? Resta lì”, e lui si risedette facendola sorridere.

Poi si alzò  uscendo dal bagno perché Milly urlava qualche cosa dalla cucina. “Sì Milly puoi prenderla una birra; è nello sportello del frigo!” sbottò aprendo la porta del gabinetto dove stava chiusa con Mei da quella che poteva sembrare un’eternità.

“Posso uscire?” pigolò con voce strozzata Mei cercando di essere il meno fastidioso possibile.

“No” rispose tranquillamente Nikka senza pensarci su nemmeno un secondo. E Mei abbassò la testa e decise che forse era meglio starsene lì. Se fosse uscito forse sarebbe stato costretto a fare qualche cosa di peggio.

Sta di fatto che il lunedì seguente Mei rimase a letto. Intontito, senza accennare ad alzarsi, e quando alle due del pomeriggio sua sorella tornò a casa lui era ancora lì immobile come lo aveva visto quella mattina. Per un secondo temé fosse morto. Invece respirava. Piano. Ma respirava.

Mei?” sussurrò incerta sedendosi delicatamente sul letto del fratello. Mei mugugnò qualche cosa ovattato della trapunta.

“Hai la febbre?” chiese lei un po’ più decisa. Dalla coperta affiorò un occhio color nocciola

“La febbre non lo  so, ma mi sento come se mi fosse passata sopra una betoniera…” biascicò faticosamente per poi tornare a rincantucciarsi lasciando intravedere dall’esterno solo i capelli.

“Nikka ti ha fatto qualche cosa?” sbottò d’un tratto come se avesse avuto un’illuminazione, ma sentendosi subito stupida. Cosa poteva aver fatto Nikka per farlo ammalare? Forse era un po’ troppo prevenuta…Si morse il labbro, mentre il fratello riemergeva un altro po’ per farsi sentire.

“No, a parte farmi il bagno in una vasca piena di cubetti di ghiaccio, non ha fatto niente” brontolò sarcastico prima di nascondersi di nuovo per evitare la reazione della sorella.

“Che cosa ha fatto?” sbraitò Rachele con un’espressione degna di un clown.

“Niente!” urlò remissivo Mei da sotto il piumone sgambettando contro di lei e non permettendole di guardalo in faccia.

Rachele fece un sospiro e uscì dalla stanza. “Come vuoi tu, stupido opossum…”concluse senza cattiveria, ma più che altro con una sorta di muta arrendevolezza.

Rachele si lasciò cadere pesantemente sul divano guardano il soffitto ormai ingrigito dall’azione invernale dei termosifoni. La signora Pavesi canticchiava una vecchia canzone che riempiva l’aria di una sorta di ovattata allegria. Sua figlia si accese stancamente una sigaretta e si disse che non aveva il dovere, o forse il diritto, di interessarsi troppo della vita privata di Mei. Ora che pareva averne acquistata una, per quanto un po’ strana.

Il suo stato d’animo fu facilmente indovinabile, quando suonarono alla porta e dopo poco si trovò Nikka in piedi impettita sullo zerbino che salutava educatamente sua madre. Spalancò gli occhi e allungò la testa per guardare la porta d’entrata.

“Buon giorno Nicoletta… come stai?” . Lei sorrise, ma Rachele la vide irrigidirsi nel sentirsi chiamare col nome completo. “Bene , signora Pavesi, tutto a meraviglia” disse con voce melliflua e controllata.

“Vuoi un po’ di zabaione? L’ho appena preparato!” esclamò gioviale. Rachele vide un bagliore passare negli occhi di Nikka, come se andasse in standby per un secondo. Poi fece un altro sorriso un po’ falso, un po’ tirato “Oh, il suo zabaione è leggendario a casa mia. Mia madre ne parla sempre… ma sono a dieta”.

“Oh, ma che peccato” sussurrò la signora guardandosi il grembiule ricamato , ma si riprese subito dichiarando gioviale come suo solito “Mei è in camera sua, è la prima a sinistra”. Nikka annuì e si avviò con passo leggero vero la camera indicata. Si fermò a guardare la catenella da water di Mei  e l’espressione che le si dipinse in volto non fu delle più entusiaste. Appoggiò la mano sulla maniglia e spinse in basso dolcemente per poi entrare con passo felpato e chiudersi la porta alle spalle con un tonfo sordo.

“Ciao Mei” sussurrò piano appoggiandosi leggermente sul ciglio del letto. Mei si alzò di soprassalto guardandola come se si fosse visto atterrare sul copriletto un folletto irlandese. La fissò stralunato sedendosi sul cuscino e mostrando al mondo il suo pigiama blu notte.

“Che ci fai qui?” domandò come se si aspettasse una nuova tortura. Lei alzò le spalle e gli sorrise amabile. “Non ti ho visto a scuola e pensavo che volessi farti desiderare…sappi che con me queste cose non funzionano…” disse, non suonava minacciosa, ma la frase se non ispirava nulla di buono.

Si mise a sedere a gambe incrociate mentre lei si faceva più indietro per appoggiarsi al muro con la schiena.

“Mi sono ammalato dopo il bagno nel ghiaccio” spiegò con un’espressione bimbesca.

“E ora stai meglio?” tagliò corto lei senza essere troppo brusca ma senza curarsi troppo di quello che Mei le avrebbe voluto dire se lo avesse fatto finire di parlare.

Mei annuì dubbioso come chiedendosi cosa sarebbe successo adesso che aveva ammesso che non stava poi più così tanto male.

Sei venuta solo per controllarmi?” chiese lui preoccupato. Nikka alzò le spalle. “no…direi di no… stavo pensando che non voglio perdere neanche un giorno.. abbiamo ancora molto da fare…”.

Mei aprì bocca per ribattere ma Nikka parve rianimarsi da quella specie di trance in cui parlava più a sé stessa che a lui.

“Allora vuoi diventare emozionante, stupendo, perfetto, vuoi essere un’opera d’arte?” disse guardandolo negli occhi con eccessivo entusiasmo. Mei avrebbe voluto rispondere di no, che non ci teneva a diventare un’opera d’arte , e non vedeva come lui potesse essere considerato emozionante… e forse Nikka cominciava a fargli un po’ paura, con quella follia dell’essere belli e perfetti ad ogni costo. E ammaliare così tanto da avere potere su chiunque. Inutile dire che su di lui Nikka riusciva al meglio a esercitare il suo particolare fascino.

Nikka non gli diede il tempo di rispondere, dato che la considerava una domanda retorica e proseguì tranquillamente senza guardarlo, con aria da maestrina.

“Allora Mei, sei mai stato a una festa oltre a quella al Luxury dove ti ho portato io?” chiese con voce stentorea. Mei era convinto di averle già accennato alla sua vita piuttosto riservata e circoscritta nei suoi venti metri quadrati.

Deglutì arrendendosi a dover accettare quella conversazione scomoda. “No” rispose serio.

Nikka annuì come prendendo nota della cosa.

“Hai mai baciato una ragazza?” chiese ancora per poi aggiungere “A parte tua sorella intendo”. Mei arrossì in modo impressionante, un po’ perché lei si era avvicinata in maniera allarmante, un po’ perché la risposta che doveva dare lo imbarazzava.

“…no” sussurrò il più piano possibile sperando che lei non sentisse.

Nikka sbuffò, se lo aspettava e si appoggiò di nuovo stancamente al muro con il capo.

“Questo potrebbe risultare un problema…” fece fissando il lampadario. Poi tornò a guardarlo. Sembrava che lo facesse apposta per fargli prendere un colpo tutte le volte che si rigirava per osservarlo.

“Insomma parliamone, fare la figura dell’impacciato con una ragazza, non andrebbe molto a tua favore” decretò increspando le labbra a cuore. Si passò una mano sul mento pensierosa “Va beh… a questo possiamo rimediare” bofonchiò prima di sporgerglisi addosso più di quanto non avesse già fatto e dargli un bacio sulle labbra. Mei colto alla sprovvista rimase rigido come un cubo di marmo, si sentì arrossire , o ancora meglio andare a fuoco per l’imbarazzo mentre Nikka lo baciava a occhi chiusi come se fosse la cosa più normale del mondo.

Non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo, non amava il contatto fisico, ma il suo ginocchio, sul quale lei aveva appoggiavo la mano per non perdere l’equilibrio stava letteralmente bruciando. E il tutto gli sembrava troppo viscido. Cosa c’era di bello nel baciare qualcuno?…forse era una cosa sentimentale, forse doveva chiudere gli occhi, eppure continuava a stare lì con gli occhi sbarrati a contemplare inerme l’ombretto color ocra sulle palpebre morbide di Nikka.

Poi Nikka si staccò e lo guardò. “Credo che dovremo lavorarci Mei” disse come se stesse parlando di un compito di scuola.

“Un po’ di brio su! Se baci così una ragazza le sembrerà di amoreggiare con una statua!” . poi ghignò.

“Credo proprio che tu abbia bisogno di una flebo di sicurezza in te stesso… se no non potrò fare molto…” gli passò la mano tra i capelli e glieli scompigliò.

“Forse è meglio che vada… ci vediamo domani” si alzò leggiadra come era arrivata e si avviò verso la porta seguita dallo sguardo in trance del ragazzo. Prima di aprire ebbe un sussulto e si mise a lambiccare nella borsa beige in cerca di qualche cosa. “Dimenticavo… questi sono i miei compiti di matematica, non è che me li faresti tu?” fece appoggiandoli sul suo comodino e schioccandogli un bacio sulla guancia.  E poi sparì senza che Mei avesse il tempo di dire nulla. La sentì borbottare mentre chiudeva la porta “E comunque questa catenella è orrenda”.

 Rimase a guardare la porta da dove lei era sparita e poi si toccò le labbra. Non sapeva davvero più cosa pensare.

Nikka e Joyce si incrociarono sulla porta di casa dei Pavesi, lui che entrava lei che usciva.

Diede un’occhiata decisamente poco entusiasta ai pantaloni fucsia del ragazzo prima di uscire sospirando qualche cosa che suonava tanto come stai uccidendo il buon gusto.

 

Vidi con la coda dell’occhio Nikka andarsene lasciando il posto a un coloratissimo Joyce. Quel ragazzo non riusciva a vestirsi secondo dei canoni estetici terrestri. Decisi si non toccare il tasto del vestiario aspettando che si lasciasse cadere pesantemente sul divano accanto a me. Sotto il braccio aveva un foglio di carta arrotolato, mi chiesi cosa fosse, e mi chiesi cosa ci facesse lì. Non aveva detto di voler approfittare di tutti i momenti in cui sua madre sarebbe rimasta in Italia con lui e le sue sorelle?

“Ciao Stronza”

“Ciao Idiota” risposi io seria, mentre mia madre allungava una pentola verso il mio ospite chiedendo allegra se non volesse favorire del suo zabaione.

“Volentieri signora Pavesi, tra un attimo sarò ben felice di fare indigestione di dolci”disse con un sorriso dolce. Mia madre sorrise a sua volta gratificata.

“Che ci fai qui?” sbottai camuffando la mia perplessità con una decisa indisponenza. Lui non badò granché al mio tono, era abituato al mio essere bruca.

“Mia madre ha litigato con Papà…ed è tornata in Irlanda oggi pomeriggio di corsa…mi sa che la rivedrò solo la prossima estate…” spiegò con una punta d’amarezza. Avrei voluto dire che mi dispiaceva, ma non lo feci, rimasi una maschera impassibile come solito. E Joyce mi sorrise furbo, perché sapeva che cosa stavo pensando.

“E poi ho una cosa per te” dichiarò tornando allegro e allungandomi il tubo.

“Cos’è?” sbottai.

“Il tuo regalo di compleanno” rispose semplicemente lui tutto contento. Arricciai il naso.

“Ma non è il mio compleanno oggi!” esclamai irritata. Lui si aprì in un altro dei suoi soliti sorrisi sibillini “Lo so, ma è tra poco, e mia sorella si lamentava perché il tubo occupava spazio in camera!”spiegò.

Guardai il mio regalo. “allora non lo srotoli?” chiese Joyce impaziente, e io decisi di accontentarlo di buon grado.

Il foglio srotolato si rivelò una copia lucida della Monna Lisa. Guardai il poster sbattendo le palpebre.

“Allora ti piace?”

“No” mentii “Ma so dove lo appenderò!”conclusi puntando al bagno. 

 

Salve a tutti. Fine del nono capitolo. Spero che sia più carino di quanto mi è sembrato rileggendolo. La parte dove Mei è nella vasca e chiacchiera con Nikka mi è stata un po’ difficile…

Ma passiamo ai ringraziamenti!

Shami cham: grazie per il bellissimo… scusa se ci ho messo un po’ ad aggiornare, ma con Il Potere delle Pesche e tutto, faccio fatica ad aggiornare in tempi brevi!! Spero che il capitolo ti sia piaciuto!!

Niggle: sì, anche io sono convinta che se Mei esistesse mi odierebbe un sacco… e avrebbe anche ragione…ma infondo non odia neanche Nikka che è il suo carnefice!!! E Joyce.. il suo personaggio si è delineato un po’ meglio?^_^

LisettaH: si ,si Mei è proprio in balia dei capricci di Nikka… alle spossanti spese non ci siamo ancora arrivati, ma per ora mi limito a qualche cosa di più fisico che psicologico!!! E sì… Joyce sì, che sa cos’è il buon gusto!

The Corpse Bride: esattamente non lo so neanche io che l’ho scritto cos’è la prova del frac... e l’impellicciato beh… la sua famiglia è così… un po’ sfasata… e lui preferisce passare il suo tempo con un’imbronciata Rachele…^_^

 

Grazie a tutti quelli che hanno letto la mia storia, al prossimo capitolo, Aki_Penn

 

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Capitolo 10
*** Vendette femminili ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Dieci

Vendette Femminili

 

 

 

 

 

 

Il giorno che Mei si rimise e decise di tornare a scuola , io mi svegliai strana. Rimasi per un po’ seduta sul letto a guardarmi in torno. Era la prima volta che non mi svegliavo di soprassalto disturbata da un incubo. Se avevo fatto un brutto sogno non me lo ricordavo. Sorrisi agli angeli poi mi accesi una sigaretta ed impossessandomi del portacenere mi avviai verso la cucina strisciando i piedi. Giunta davanti alla porta del tinello, mi fermai a pensare, come se un particolare avesse colpito la mia attenzione, ma non me ne fossi accorta. Tornai indietro in retromarcia e mi fermai a guardare la porta chiusa della stanza di Mei, rimasi lì basita per qualche secondo. Mancava qualche cosa, ma non intercettai subito cosa. Aggrottai le sopracciglia e aprii la bocca quando mi accorsi che mancava la catenella da cesso. Sbuffai e imprecai al nulla mentre tornavo in camera mia a vestirmi. Uscii mentre mia madre diceva qualche cosa a proposito delle frittelle che mi aveva preparato per colazione. “Non ho fame” sbottai, e uscii schiudendomi la porta alle spalle.

 

 

Mei arrivò come al solito in anticipo, sapeva l’orario delle lezioni a memoria, per cui non ebbe bisogno di consultare l’orario per sapere che avrebbe avuto educazione fisica.

Si sedette pesantemente sul bordo dell’aiuola che ospitava una grossa agave, che con il freddo incalzante sembrava soffrire. Mei si sentiva un po’ così prima delle lezioni in palestra.

Forse sarebbe stato anche discreto come giocatore di basket se non avesse avuto paura della palla, e dell’allenatore, che ad ogni palla persa gli dava della femminuccia.

Deglutì e si mise a ripetere i primi dieci articoli della Costituzione, per non pensare alle due ore che lo attendevano.

Gli passarono davanti un paio di ragazze che erano in classe con lui e che non lo degnarono di uno sguardo. Un ragazzo basso, con gli occhiali , decisamente sciatto, gli fece un cenno con la testa al quale Mei rispose in modo altrettanto discreto.

Al suono della campanella si alzò e si avviò pesantemente verso la palestra strisciando i piedi. Non voleva andarci! Non voleva proprio! Si fermò un attimo davanti al vetro fumé della porta facendo una smorfia. Un nugolo di ragazzi gli passò accanto e un tizio prestante e biondo gli tirò una spallata, senza curarsi di chiedere scusa, e Mei andò a sbattere contro lo stipite con un tonfo e un timido “Ahi”.

Quando tutti furono passati, sbuffando e sgomitando, Mei riprese l’equilibrio e si massaggiò la guancia che aveva sbattuto. A quel punto sì che se ne sarebbe voluto tornare a casa, ma come sempre capitava, si costrinse ad entrare.

I ragazzi non badarono a lui quando silenziosamente compunto entrò nello spogliatoio e appoggiò lo zaino in un angolino libero. Si vestì nella generale confusione, mentre un tizio pieno di lentiggini saltava addosso ad un altro facendo finta di picchiarlo.

Volarono scarpe e libri, e Mei si fece piccolo per non farsi notare, mentre la maggior parte dei ragazzi uscivano dallo spogliatoio. Si sentiva troppo alto dentro a quei pantaloncini troppo corti, che gli lasciavano le gambe magre scoperte dal ginocchio in giù. Sistemò le ultime cose, piegando la camicia sopra i pantaloni in ordine. Non badò a chi era rimasto con lui nello stanzino finché non sentì un dito picchiettargli sulla spalla.

“Pavesi?” chiesero tranquillamente alle sue spalle. Mei si voltò e qualche cosa che non identificò subito lo colpì al mento e lo fece cadere seduto sulla panca sgualcendo i vestiti e rovesciando il deodorante.

Alzò lo sguardo e vide Pallotti, il ragazzone alto e biondo che aveva una tresca con Nikka, sorridergli con un ghigno strano e puntargli contro il dito indice.

“Pavesi…” esclamò avvicinando il viso a Mei che si massaggiava il mento guardandolo con gli occhi di chi non ci ha creduto nemmeno un secondo a quel sorrisetto. “Federico?”chiese sarcastico.

Mei” corresse lui incerto, non era abituato a farsi chiamare col nome di battesimo, e non gli piaceva.  Pallotti fece una smorfia come se si fosse ricordato perché era andato a cercarlo “Che soprannome idiota…” sputò schifato e improvvisamente gli diede un altro pugno in faccia facendolo cadere per terra.

Mei avrebbe voluto urlare per il male che sentii al naso. Se lo coprì con le mani, non riuscendo a pensare ad altro che al dolore, si chiese se fosse rotto. Sentì il sangue che gli colava sulla bocca. Ci mise un po’ prima di tornare a guardare in faccia il ragazzone biondo, che a quel punto lo guardava con aria truce, accompagnato dai suoi due amici imponenti quanto lui. Tutti e tre insieme coprivano quasi completamente la luce proveniente dalla finestra. Mei respirò piano, col cuore che batteva all’impazzata nel petto, sperò che da fuori non di sentisse quel tonfo sordo che batteva dentro la sua cassa toracica.

“Cosa vuoi da me?” biascicò col fiatone tenendosi seduto appoggiando le mani per terra.

“Tu vai a letto con la mia ragazza?”urlò, e più che una domanda era quasi un’affermazione. “Eh?” soffiò fuori Mei quasi impercettibilmente. “Chi è la tua ragazza?” ansimò mentre Pallotti gli assestava un calcio al ginocchio che non riuscì ad evitare.

“Nikka, tu ti fai Nikka, eh? Maledetto schifoso” ringhiò tra i denti, mentre Mei si rannicchiava per attutire il colpo che gli arrivò sul gomito.

Si alzò faticosamente, non lo avevano mai toccato nemmeno con un dito. Era abituato a vedere gli atti di bullismo negli spogliatoi, ma a lui non si era mai interessato nessuno. Non aveva mai dato fastidio a nessuno, e invece adesso…

“io non ho fatto niente con Nikka…” disse senza fiato più sconvolto che impaurito, mentre il bacio con Nikka gli pesava bruciante sulla coscienza. Non ebbe il tempo di dirsi che non era colpa sua, perché il ragazzo biondo davanti a lui gli assestò un calcio alla gamba e lo fece cadere di nuovo per terra sul pavimento lurido dello spogliatoio.

Mei si rannicchiò ancora come se fosse un riccio. Decisamente arreso. Pallotti lo guardò con disprezzo e gli assestò un altro calcio sul naso.

“Ma che razza di uomo sei? Non mi diverto nemmeno a picchiarti” sputò girando i tacchi e andando in palestra seguito dai suoi amici.

Mei rimase li stringendosi nelle spalle e sperando di poter sparire. Appoggiò la testa alle piastrelle lerce e deglutì piano mentre tirava su col naso , le braccia abbandonate in avanti, come se fossero state morte. Lasciò che le gambe si rilassassero e si distendessero, mentre si chiedeva perché era così. Perché non aveva reagito. Perché non aveva reagito almeno un pochino di più? Perché si era fatto picchiare come un maledetto fantoccio?

Perché era un fantoccio… nelle mani di Nikka, come aveva detto lei dal di fuori della vasca. Doveva fare qualche cosa. Non poteva farsi trovare ancora lì disteso a sguazzare nel suo sangue quando sarebbero tornati tutti dalla lezione di educazione fisica. Ma poi non si mosse.

Più tardi la porta dell’infermeria – se così si poteva chiamare uno sgabuzzino con due cerotti in croce- si spalancò con un botto e l’uscio andò irreparabilmente a sbattere contro la parete. Fu così che Rachele Pavesi e la sua orda di evidentissimi capelli blu , fecero la loro entrata in scena, seguiti da uno scricciolo coi capelli castano rossicci e l’aria corrucciata.

Rachele piegò la testa da una parte mentre squadrava il fratello che se ne stava seduto a testa bassa sul lettino improvvisato dell’infermeria. “Che è successo?” domandò brusca senza tanti giri di parole. Mei strinse un attimo i muscoli della mascella in modo impercettibile, solo Rachele se ne accorse, ma non diede segni di averci fatto caso.

“Ti sei fatto male?” chiese stridula da dietro Nikka, più preoccupata che non si fosse rovinato, invece che fatto male in sé per sé.

Mei fece una smorfia poi cercò di nascondere il viso contro la spalla. “Il naso non è rotto” pigolò sommessamente il bidello facendo una carezza al braccio di Mei, guardandolo come se fosse un cagnolino. Era buffo come a molti desse la stessa impressione. Mei ritrasse il braccio che il bidello gli aveva toccato, come se si fosse scottato.

Nikka gli si avvicinò e gli passò dolcemente una mano sulla guancia, studiando il livido violaceo che gli passava dal naso fin sotto gli occhi,  come un nastro scuro. Sul momento Mei si fece tonnare, sentendosi quasi consolato, finché non si ricordò il motivo per il quale era finito in infermeria. E allora distolse lo sguardo anche da lei nascondendo il viso e non facendosi toccare. Nikka ritrasse la mano stupita, sgranando gli occhi.

“Che cavolo è successo?” chiese di nuovo Rachele esigendo una risposta. “Ho sbattuto contro la porta…” sussurrò Mei, lanciando un’occhiata a entrambe, con il viso contratto, per poi abbassare nuovamente la testa. Ovviamente nessuna delle due ci credette nemmeno per un istante, e sua sorella schioccò uno sguardo veloce ed eloquente al bidello, prima di ritornare a dare attenzione al fratello.

Pallotti gli ha tirato un pugno” pigolò il bidello sputando fuori tutto d’un fiato.

Rachele si voltò verso di lui, reclinò la testa, increspò le labbra e alzò le sopracciglia. Poi annuì come per dire sarcasticamente  “Ma va là! Divertente!”  

Mei gli schioccò un’occhiata intrisa di risentimento, e il bidello alzò le mani in aria in segno di resa. Ma d’altronde , le due donne facevano molta più paura di lui, anche se il ragazzo gli aveva gentilmente chiesto di essere discreto.

Mei saltò giù dal lettino cigolante e senza guardare nessuno raccattò da terra il suo zaino dal pavimento e uscì dallo stanzino che puzzava di disinfettante, a testa bassa sbattendo la spalla contro lo stipite.

Le due ragazze si voltarono a guardarlo mentre spariva in corridoio. “Mei” cinguettò soave Nikka seguendolo con lo spolverino beige che svolazzava ad ogni suo movimento.

Rachele rimase ferma immobile per qualche secondo fissando il muro coperto dalle piastrelle e dal calendario Pirelli del bidello, prima di scoccargli un sorriso e dirigersi a passo lento verso la soglia. 

Guardò Mei allontanarsi a passo di marcia per il corridoio, tenendosi una mano sulla faccia, per non far vedere che il naso era viola,rincorso da una piccola e saltellante Nikka.

Dall’altra parte del corridoio, invece, Joyce dava mostra di sé dando poderosi calci e spallate alla macchinetta automatica delle bibite. Fece un sorrisetto, e per un attimo pensò di andare a denunciarlo dal preside. Era una cosa che la faceva divertire da matti mettere nei guai Joyce. Ma poi ci pensò su, e decise che forse quell’appariscente impellicciato le sarebbe potuto servire per altre faccende.

Nikka nel frattempo aveva raggiunto Mei che non ne voleva sapere di fermarsi ad ascoltarla, anche se lei continuava a tirarlo per la manica e chiamarlo.

Mei, MEI, santo cielo, perché Pallotti ti ha picchiato?” chiese con voce sempre più stridula, mentre aveva quasi cominciato a correre, per stare dietro al ragazzo, che del canto suo aveva le gambe decisamente più lunghe di lei.

“Dovresti saperlo, tornatene dal tuo Pallotti, se ci tieni tanto a saperlo!” sbottò Mei quando ormai erano arrivati all’atrio adiacente al giardino.

“Ma cosa vorresti dire con questo? cosa cavolo c’entro io adesso!” strillò lei alterata strattonandolo ancora per la manica, tanto che anche Mai si impalò. Non rispose subito, ma rimase a guardarla con quella che poteva essere solo rabbia, increspando le labbra, come per non farsi uscire parole di troppo.

Pallotti…” cominciò sputandolo fuori come veleno, mentre Nikka ricambiava lo sguardo dal basso. “E’ geloso di te… perché pare che io vada a letto con Nikka Santini…” continuò stringendo i denti. Lei stava per dire qualche cosa, ma Mei non glielo permise “Quindi , dopo quella stupida prova del frac, il bagno nei ghiaccioli, dovrei anche farmi picchiare dai tuoi fidanzati gelosi?” chiese adirato, e per la seconda volta non la fece rispondere “io non ci sto, torna pure dal tuo Pallotti, io me ne torno nei miei venti metri quadrati, dove si sta decisamente molto meglio” concluse serio girando i tacchi e andando via.

Mei” piagnucolò Nikka rimanendo ferma sulla soglia. La sua opera d’arte che le voltava le spalle e non ne voleva più sapere di vederla. Boccheggiò.

Mei camminò a passo di marcia, senza rallentare fino a casa, non era nemmeno la terza ora , ma non gliene fregava nulla. Si sentiva un idiota, non aveva reagito, si era fatto picchiare come un cretino. Per colpa di chi?

Per colpa di una pazza, da cui si faceva fare angherie di ogni genere! Era stupido stupido stupido… e la vita faceva schifo da quando aveva conosciuto Nikka. Doveva rimanersene barricato in casa fin da subito, perché diavolo aveva dato retta a sua madre?

Perché dava sempre retta a tutti… come uno stupido bambolotto.

 

Era finita l’ultima ora, quando vidi Nikka dirigersi nella mia direzione quasi correndo, e fermarsi trafelata davanti a me, decisamente parecchi centimetri più in basso.

“Pavesi” sentenziò senza fiato. Annuii facendo segno che l’ascoltavo. “Ho mollato Pallotti, dicendogli che è un orribile buzzurro, che io non sono di sua proprietà e che vado a letto con chi voglio… e che non mi rivedrà nemmeno col binocolo!” concluse orgogliosa del suo operato. Ghignai divertita.

“Io ho fatto di meglio” dichiarai. Nikka dondolò la testa da una parte e sgranò gli occhi. Feci cenno con la testa , verso il cancello della scuola.

Inutile dire che rimase a bocca aperta quando si rese conto che Pallotti se ne stava in mutande legato al cancello, circondato da un nugolo di turisti giapponesi, che lo fotografavano.

Co- come hai fatto?” boccheggiò incredula. Alzai le spalle divertita “Ho delegato Joyce

 

 

Ciao a tutti, scusatemi se ci ho messo un sacco ad aggiornare, ma ho avuto un sacco di problemi!Spero che il capitolo non sia malissimo. Se leggendo trovate qualche cosa che non vi convince vi prego di dirmelo, vedrò di rimediare! Il capitolo scorso appena avrò tempo lo sistemerò, perché il dialogo nella vasca proprio non mi piace!

Grazie a tutti quelli che hanno commentato e che hanno messo la storia tra i preferiti… al momento non riesco a ringraziarvi personalmente perché sono reduce dall’influenza e ho bisogno di dormire, comunque come sempre grazie a tutto di cuore!!! La prossima storia che verrà aggiornata sarà Stupid Cupid

Ciao a tutti e al prossimo capitolo

Aki_Penn

 

 

 

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Capitolo 11
*** La Dura vita del Pungball ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Undici

La dura vita del Pungball

 

 

Il giorno seguente, quando mi svegliai, avevo già la luna storta. Mi sono sempre chiesta perché di notte i termosifoni vengano spenti, nessuno ha mai pensato a chi soffre d’insonnia e si alza di notte per distrarsi?

Feci qualche passo sul pavimento gelido sbuffando e imprecando a bassa voce decisa ad andare in cucina a mangiarmi una ciotola di fiocchi d’avena, nonostante fossero le tre di notte.

Mi ero illusa che i miei incubi avessero avuto una definitiva fine, invece… in quel momento mi resi conto che non mi sarei mai liberata dei miei spaventi notturni, e ciò non migliorò di certo il mio umore già nero.

Rimasi ferma all’inizio del corridoio a guardare Mei seduto per terra davanti alla porta aperta della sua camera, con la faccia illuminata dal lampione.  Gli lanciai un’occhiata scocciata mentre lo superavo scavalcandogli le gambe stese, lui si raggomitolò subito dopo il mio passaggio come per nascondersi, io non ci feci caso ed entrai in cucina.

Rimasi per un secondo a guardare il vuoto buio, poi feci dietro front e sbuffai “Rimetti la catenella al suo posto deficiente!”.

Fatto il mio dovere mi diressi alla dispensa mentre Mei si rifugiava in camera sua. Fissai per un attimo i cereali indecisa sul da farsi poi presi il cordless e digitai un numero che conoscevo a memoria, dall’altra parte mi rispose la voce di qualcuno che di certo si era svegliato solo al suono del telefono, e sicuramente non connetteva ancora granché.

“Joyce” tuonai “Ho bisogno di te!”comandai.

“Ma sono le tre…” mugugnò lui disperato probabilmente rintanandosi sotto il cuscino.

“Ti sembra che io mi faccia dei problemi a stare sveglia a quest’ora?” lo rimbeccai. “E adesso ascoltami!”

 

 

Mezz’ora dopo stavano scendendo in uno scantinato dall’aria umida. “Che cos’è questo posto?” biascicò  Mei perplesso guardando i muri scuri, mentre sua sorella scendeva i gradini con un rumore ritmico di tacchi.

“La palestra delle sorelle di Joyce” spiegò Rachele sbrigativa, ma a giudicare dalla faccia nemmeno lei era particolarmente entusiasta della sistemazione.

“Certo che l’avevo proprio sopravvalutato questo posto… diamine fa schifo!” sbuffò arrivati in fondo alla scala ripida e buia, mentre si fermava davanti a una porta metallica di un color verde arrugginito. Abbassò la maniglia ed entrò. La sala era grande, e una delle pareti era coperta da un lungo specchio, Mei sbatté un po’ le palpebre per abituarsi al buio, rotto soltanto dalla luce fioca che veniva dalle feritoie  laterali.

Quando i suoi occhi si abituarono alla penombra riuscì a distinguere una figura che man mano si rivelò essere un Joyce prontamente impellicciato affianco ad un sacco da box.

“allora è questa la famosa palestra…” commentò Rachele guardandosi in giro scettica.

“Me la immaginavo più carina sinceramente”continuò con una faccia da schiaffi che avrebbe fatto alterare chiunque.

“Nessuno l’ha mai definita carina… le mie sorelle si lamentano sempre…” rispose lui tranquillo facendo dondolare il sacco. “E quando vedranno questo si lamenteranno ancora di più” ridacchiò indicando il sacco che aveva appena fatto dondolare.

“Cos’è?” chiese poi a bassa voce Mei.

“La saletta dove le mie sorelle si allenano per le loro gare di danza” rispose Joyce svagato “…ne avessero mai vinta una…” concluse però come se parlasse a sé stesso.

Rachele fece un sorrisetto strafottente che nella penombra nessuno notò, entrambi i ragazzi invece notarono lo spintone che diede al malcapitato Joyce.

“Allora hai quello che ti ho chiesto?” chiese.

“non vedi?” commentò il ragazzo dando un colpetto al sacco. Rachele lo scrutò con aria scettica, mentre Mei si guardava in giro spaesato.

“Che devo fare?” domandò avvicinandosi. Non si rese bene conto di cosa succedesse quando si sentì colpire in piena faccia. Cascò sul sedere strizzando gli occhi e toccandosi la guancia, mentre sentiva il sapore metallico del sangue scorrergli in bocca.

“Dovrai fare questo” esclamò Joyce tutto orgoglioso della sua performance. Rachele al suo fianco lo guardava sbigottita.

“Hai tirato un pugno a mio fratello?” strillò coi capelli che per poco non le si rizzavano sulla testa. Solo in quel momento Joyce si rese conto di aver compiuto una suprema idiozia e cercò di scagionarsi balbettando e arretrando.

“era … era a scopo educativo…”  farfugliò camminando all’indietro cercando di allontanarsi al più presto da quella belva blu che era diventata Rachele.

“E poi non ti sei fatto male vero?” chiese speranzoso.

“Mi sa che mi hai rotto un dente” commentò dubbioso Mei ancora seduto a terra, mentre perlustrava la parte contusa con la lingua.

Fu allora che Rachele saltò addosso al povero mal capitato che aveva perfino paura di difendersi e mugolava “No, ahi… Rachele … c’è stata un’incomprensione… io… ahi.. non volevo”

“Incomprensione un corno!!” urlò lei mentre Mei li ignorava bellamente.

Fu solo dopo il massacro di Joyce che Mei annunciò “Falso allarme… i denti ci sono ancora tutti…”.

 

Fu molto più tardi che il campanello di casa Pavesi suonò sfacciatamente. Rachele inguaiata in un troppo ingombrante vestito nuziale si avviò imprecando alla porta cercando di portarsi dietro lo strascico per limitare i danni. Aprì scocciata, e la sua espressione non si addolcì certo quando vide una sorridente Nikka dondolarsi dalle parti del suo zerbino.

“Oh, finalmente ti sposi e ti togli dalle scatole?” disse con un sorriso plastico. Rachele non ricambiò neanche per finta.

“ La spagnola del terzo piano si sposa… e ha chiesto a mia madre di cucirle il vestito” spiegò seria, “ma purtroppo Mr. Manichino non ha il seno… quindi l’aiuto io”.

Nikka alzò le sopracciglia beffarda “Come se tu le avessi” commentò incrociando le braccia e lanciandole uno sguardo sbieco.

“Scusami, quando Dio distribuiva le tette io ero in fila per il cervello… ma comunque non mi pare che tu sia una maggiorata…” la rimbeccò seria.

“Comunque non stavo cercando te” continuò con un finto cipiglio allegro.

“Chissà perché lo immaginavo…”sbottò incrociando le braccia e alzando un sopracciglio come aveva fatto prima la sua interlocutrice.

Mei oggi non è venuto a scuola” spiegò saccente.

“Sarà in giro… cercalo se vuoi… chissà se vuole vederti però…” rispose a una domanda che non c’era stata chiudendole la porta in faccia soddisfatta.

Il sorriso plastico le sparì dalla faccia mentre sospirava a occhi chiusi. Fece dietrofront e scese stancamente le scale.

Il cielo era coperto da nuvole che non minacciavano pioggia ma che comunque non mettevano certo allegria. Si accese stancamente una sigaretta e si avviò a passo lento verso il centro.

Non sapeva esattamente cosa stava facendo. Si sentiva in colpa , aveva decisamente esagerato con Mei… e per di più l’aveva messo nei guai con quell’idiota di Pallotti. Non è che volesse chiedergli scusa, non gli avrebbe chiesto scusa no, ma almeno metter una toppa. Almeno tornare sul suo piedistallo.  O forse non sapeva esattamente cosa voleva fare, però avrebbe dovuto parlarci.

 Costeggiò il canale dall’acqua decisamente sporca, che sembrava intonarsi col tempo uggioso. Si fermò un secondo accanto a un vaso dai fiori fucsia che abbelliva la veranda di un bar, aperta al pubblico nonostante la stagione.

L’angolo della bocca le si increspò in un sorriso quando intravide Mei seduto a un tavolino tondo, mentre digitava veloce sui tasti del suo portatile, con gli occhi coperti da dei grossi occhiali da sole.

Spense la sigaretta sotto la suola della ballerina rossa. Scivolò felpata e Mei si accorse della sua presenza solo quando si fu seduta dinanzi a lui. Sobbalzò per lo stupore.

Opplà” fece lei sorridente, appollaiandosi sulla sedia in ferro battuto. Era un sorriso meno tirato del solito, ma Mei non se ne accorse. Forse non si era mai accorto di quanto fossero plastici quelli che aveva sempre visto.

Mei si appoggiò allo schienale della sedia , sembrava che volesse starle il più lontano possibile.

Nikka appoggiò il viso sulle mani messe a coppa e lo guardò di sbieco con aria furba, ma non era rilassata come voleva far sembrare.

“Allora abbiamo cominciato a marinare la scuola?” fece con un sorriso dolce che mostrò tutti i denti a Mei.

“Non volevo farmi vedere così” spiegò indicando gli occhiali cercando di non incontrare lo sguardo della ragazza. “Sono belli” commentò lei sincera senza capire.

Lui schioccò le labbra vagamente scocciato e con uno scatto si levò gli occhiali mostrando un livido che gli passava da sotto un occhio, a sotto l’altro, passano per il naso.

“E’  sexy” disse alzando le spalle. Il ragazzo non aveva idea se fosse sincera o meno, ma forse non lo voleva nemmeno sapere.

Lo aveva più o meno ammesso a sé stesso, che Nikka non gli dispiaceva, gli piaciucchiava… sì, ma non si sarebbe fatto prendere in giro da due parole carine, e commentò rimettendosi gli occhiali “ Sexy per te forse… a me ha fatto male”.

Nikka si irrigidì sulla sedia e allungò il collo mentre guardava Mei rimettersi gli occhiali e sistemare il portatile nella custodia, dato che c’era lei non era più un luogo sicuro.

“Hai un livido anche sulla guancia?” chiese d’istinto senza pensare che avrebbe potuto peggiorare la sua già fragile posizione.

Mei si immobilizzò e si passò una mano sulla guancia, fece un respiro profondo e rispose “indirettamente potrebbe essere anche questa colpa tua… se il tuo amico non mi avesse tirato un pugno a quei due non sarebbero venute in mente soluzioni strane…” sbottò irritato. Prese su baracca e burattini sotto braccio e si avviò lungo il canale il più possibile lontano da lei.

Nikka si alzò di scatto e lo rincorse “In fondo però non è colpa mia se Pallotti ti ha picchiato! Io credo che sia stato davvero un idiota, e l’ho mollato subito…!!” cercò di dire mentre a fatica gli stava dietro, con le gambe che erano la metà di quelle del ragazzo.

“Forse tu non mi hai picchiato, ma mi hai fatto fare il bagno del ghiaccio e mi hai fatto fare i tuoi compiti e mi hai fatto sentire un idiota…” esclamò fermandosi di scatto. Storse la bocca e alzò le sopracciglia .

“Per sabato ho organizzato una festa di Halloween… vieni anche tu?”rilanciò senza un senso logico montando il solito sorriso plastico.

Lui la guardò da dietro gli occhiali , ma le rispose solo dopo essersi girato per andarsene.

“no”

Nikka si sentì sgonfiata come con un palloncino bucato. Rimase a guardarlo darle la schiena per qualche secondo, prima di ricordarsi  di cosa era lei.

Rimontò il sorriso plastico e strillò allegra “Se cambi idea sai dove trovarmi!!

 

Quella sera scesi le scale del seminterrato di quello scellerato di Joyce imprecando per l’umidità e lo squallore. La porta si aprì con un cigolio sinistro e io rimasi un attimo sulla soglia per abituarmi alla penombra.

Non ci misi tanto ad accorgermi di Joyce che stravaccato s’un materassone mi fissava, del famigerato sacco appeso in mezzo alla stanza e di un’altra figura supina sul pavimento.

“Che sta facendo?” domandai intuendo che quello immobile per terra era mio fratello.

“Prima è svenuto per colpa del rinculo del sacco” spiegò Joyce pacato, il cuore mi balzò in gola, e fui accecata da una specie di rabbia folle , perché quell’idiota non faceva nulla  se Mei era svenuto?

Probabilmente la mia espressione rivelò i miei pensieri perché lui si affettò a proteggersi la faccia e a dire “Poi però è rinvenuto e adesso dorme

Mi rilassai e la mia espressione si rilassò. Quello stupido opossum mi faceva sempre preoccupare.

“Sembra crocifisso” commentai in modo strascicato notando come era sdraiato, poco prima di collassare sul materassino dove già stava Joyce.

Non so cosa avesse la mia espressione, perché lui mi guardò con un sorrisetto strano. Non volli approfondire l’argomento e gli pestai un piede concludendo tutto quello che poteva essere iniziato nella sua testolina.

“Ha detto che Nikka è andata a cercarlo” disse nell’ombra, mentre nessuno dei due guardava l’altro.

Alzai le spalle “Lo immaginavo” risposi mentre mi accendevo una sigaretta.

“Alle mie sorelle non fa piacere che si fumi qui” mi avvertì tranquillamente.

“Perfetto, la spengo subito” feci pratica prima di schiacciargliela sul dorso della mano.

“Ahi!”

 

 

Ciao a tutti!!! E alla fine ho aggiornato prima del previsto!! Comunque devo avvertirvi che l’aggiornamento è un avvenimento eccezionale, il prossimo potrebbe arrivare dopo l’esame o addirittura dopo l’estate se non trovo il tempo per scrivere…=_= mi dispiace tanto!!!

Ringrazio tantissimo per tutte le e-mail che mi sono arrivate , mi avete davvero dato la carica per scrivere questo nuovo capitolo ^_^ e ovviamente ringrazio anche chi ha commentato l’ultimo capitolo :

Lidiuz93: grazie davvero  per il commento, eh lo so che Nikka è un po’ strana…ma forse con questo capitolo si vede che poi non è così stronza… ^_^spero che ti sia piaciuto!!

Niggle: alla fine sono guarita! Adesso c’è l’ansia da esame ma spero sopravvivrò!! Sono felice che Mei sia un bel personaggio *_* spero che sia abbastanza realistico nella sua irrealisticità ( cosa sto dicendo?) comunque  si è scelto un brutto momento per uscire dal suo guscio dato che è finito nelle grinfie di Nikka!!! Spero che il capitolo ti sia piaciuto!! Alla prossima!!

Prue786: ti ho fatto aspettare un po’… mi spiace che tu sia arrivata proprio quando gli aggiornamenti diventano più radi!!! Comunque mi ha fatto davvero piacere il tuo commento, per gli errori di battitura devo dire che mi impegno per non farli, ma a volte anche se rileggo mi sfuggono lo stesso (sono un’inguaribile distratta). Temevo che prima o poi qualcuno mi avrebbe chiesto se Mei e Rachele fossero gemelli… in realtà ci ho pensato prima di iniziare a scrivere la storia, prima Rachele era più piccola, poi ho deciso che fosse meglio che fosse più grande, ma non mi convinceva nemmeno quello e sono giunta alla conclusione che fosse meglio che fossero della stessa età. Ma come gemelli non mi convincevano, quindi ho optato per una soluzione semplice quanto abbastanza irrealistica, sono nati nello stesso anno, Mei a gennaio e Rachele a dicembre :p… che stupidaggine!!

Grazie ancora a tutti, spero che vi sia piaciuto il capitolo e a presto!!!(spero!!)

Aki_Penn

 

 

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Capitolo 12
*** Dieci minuti di nobiltà ***


I miei venti metri quadrati

Dodicesimo Capitolo

Dieci minuti di nobiltà

 

 

 

 

 

Era dalla mattina presto che mia madre lambiccava attorno a uno stralcio di tulle fucsia che imbottiva una gonna a frappe. Con tre aghi in bocca e il metro al collo , mentre le sue mani correvano veloci sulla stoffa. Io ero decisamente assente, non stavo pensando a nulla, mi ero svegliata presto, come al solito a causa dei brutti sogni e da parecchio tempo mi ero rintanata  sul divano con un biscotto in mano, che però non accennavo a mangiare. Fuori il tempo si era fatto ancora più uggioso del giorno prima , se era possibile.

“Cosa ne pensi Rachele, tesoro?” domandò mia madre che si alzava presto per poter cucire un po’ prima di andare al lavoro.

“Carino” commentai senza guardarlo e volgendo lo sguardo verso il corridoio. Mi chiesi che fine avesse fatto mio fratello, ovviamente quando mia madre non l’aveva visto nel suo letto, quella mattina, si era presa un colpo, ma si era subito tranquillizzata dopo che l’avevo informata della sua degenza da Joyce.

Non avrei mai capito da dove spuntava quella cieca fiducia nell’impellicciato, perciò avevo smesso di badarci.

“Nikka dice che è carino” brontolò guardando critica l’imbastitura. Rizzai le orecchie e increspai le sopracciglia.

“Quando l’ha visto Nikka?”mi informai accigliata. “Oh” cominciò distratta lei “ieri sono andata da Marianna , e sua figlia ha dato un’occhiata ai miei disegni”

Schioccai la lingua. Sembrava che Nikka volesse rubarmi anche mia madre , oltre che mio fratello.

“Forse dovresti metterci qualche lustrino” azzardai dando attenzione alla creazione di mia madre, mentre mi avvicinavo a Mr. Manichino.

Lei mugugnò “Tesoro non saprei… secondo Nikka ultimamente uso troppi lustrini, appesantiscono troppo… temo che abbia ragione…” fece con voce preoccupata girando pensierosa attorno al vestito.

Colpita e affondata.

“credo che dovresti seguire solo il tuo gusto” terminai indispettita ingoiando il mio biscotto, mentre qualcuno suonava alla porta.

Andai ad aprire, e forse lo feci con troppa veemenza, tanto che mio fratello fece un passo indietro mentre io grugnivo “Chi è?”.

Se prima ero di cattivo umore, di sicuro la vista di Mei mi tirò su il morale, intabarrato in una  giacca gessata fucsia e un cappellino dall’aria fin troppo femminile.

“Non chiedermi perché sono vestito così, è opera di Joyce” si difese subito. Sorrisi e gli lanciai uno sguardo malizioso “Chissà perché lo supponevo… e capisco anche perché nessuno abbina più la lana con le paillettes” continuai guardando disgustata il suo copricapo.

“Ho deciso che andrò alla festa di Nikka” continuò torturandosi le mani in grembo aspettando la mia sfuriata.   E invece ebbe la mia benedizione. “Perfetto” faceva troppo ridere perché la stupida festa di Nikka potesse rovinarmi l’umore.

“Ma non ti aiuterò” aggiunsi. Mei sobbalzò “Certo, infatti… Joyce si è offerto di aiutarmi”.  Mi astenni per cortesia  dal fargli gli auguri.

“Bene allora siamo a posto” trillai accennando a chiudergli la porta in faccia, poi la riaprii “Dimenticavo, entra dalla finestra che mi vergogno a farti passare dalla porta conciato così” spiegai, poi gli strizzai l’occhio e richiusi l’uscio.

 

 

Joyce se se stava seduto per terra con la schiena appoggiata al letto e le gambe distese in avanti sul pavimento, intento a lambiccare col cellulare quando entrò tranquillamente Nikka in mutande e canottiera di un rosa caldo e in mano un piatto d’insalata.

“Ehi” esclamò lui alzando gli occhi da quella che fino a pochi secondi prima era stato il suo unico interesse “Giri in mutande con me nella stanza?”

Nikka alzò le spalle “Tanto tu sei gay” spiegò tranquillamente lasciandosi cadere accanto a lui e mettendosi in bocca un pezzetto di pomodoro e una foglia d’insalata.

“Ehi! Basta con questa storia!! Io non sono gay!” esclamò accigliandosi e voltandosi su un fianco per guardarla.

“Guarda che non te ne devi vergognare! E poi lo sappiamo tutti che hai un tatuaggio sul sedere con si scritto Darcy!”esclamò allegra accavallando le gambe e mostrando al mondo le sue pantofole rosa fashion.

“Ma Darcy è un nome unisex!” cercò di difendersi inutilmente.

“Certo certo bla bla bla!” lo scimmiottò lei dando attenzione alla sua insalata. Joyce sbuffò e si lasciò scivolare sul pavimento coperto da un tappeto.

“Beh, allora? Che ci fai qui? Non sarai mica venuto a dirmi che non posso girare per casa mia in desabie!!” scherzò allegramente  infilzando con la forchetta un pomodorino pericolosamente trasparente.

“Sono venuto ad assicurarmi che non facessi del male al mio protetto” spiegò con voce teatrale. Nikka lo guardò perplessa.

“Che sarebbe?” chiese . “Mei Pavesi!” sbottò accigliato.

“ Di cos’hai paura? che lo mangi?” chiese con un risolino beffardo, mentre Joyce lanciava uno sguardo disgustato al pranzo dell’amica.

“No, non credo che rientri nei tuoi gusti… sono convinto che Mei sia decisamente troppo calorico per i tuoi standard. Però potresti indurlo al suicidio. Piuttosto hai intenzione di diventare trasparente?” continuò.

“Non si è mai abbastanza magri” fece con un sorriso mentre si sdraiava sulla pancia di Joyce con l’intento di prendere dei tovagliolini appoggiati su una mensola bassa.

“E questo chi l’avrebbe detto scusa? Coco Chanel?” domandò lui alzando un sopracciglio ma rimanendo comodamente sdraiato sul tappeto.

“Vedo che sei informato” ridacchiò lei.

“Ho sparato a caso..” fece con un grugnito schifato.

“A proposito di Mei” continuò pulendosi la bocca con un tovagliolino di carta. “L’ho visto ieri… ha un nuovo livido… sullo zigomo… come se l’è fatto?” chiese seria guardandolo.

Joyce strizzò gli occhi dovendo ammettere che il nuovo livido era decisamente opera sua. “Beh, quello gliel’ho fatto io… ma non l’ho fatto apposta… cioè c’è stato un malinteso e ho rischiato di staccargli un dente… ma sono stato abbondantemente punito da sua sorella!”.

Nikka fece una smorfia “E’ sempre stata manesca” disse con un po’ di rabbia repressa. Joyce alzò le sopracciglia come per chiedersi per quale motivo Nikka dicesse una cosa del genere.

“Andavamo alle medie insieme” sbottò “non so se ti ricordi, i simpaticissimi gavettoni di aranciata, eccetera eccetera …” continuò un po’ alterata.

“Beh almeno con l’aranciata ha smesso” constatò lui soddisfatto.

“Sì, e ha cominciato con il brodo di dado… ci ho rimesso i miei stivali di Chanel” brontolò dando l’ultimo boccone rabbioso al suo pranzo.

“E voi quando vi siete conosciuti?” chiese fingendo disinteresse mentre finiva di masticare il suo boccone vegetale.

Lui sembrò pensarci, ma in realtà non aveva bisogno di ragionarci nemmeno un secondo “Ci siamo conosciuti in un parco, mentre lei dava la caccia a un opossum… avevamo otto anni. E’ stato qualche mese prima che morisse suo padre”. Nikka non commentò.

Joyce si alzò da terra scuotendosi la polvere dai pantaloni violetti. “Devo andare all’Irish… Mei mi aspetta lì… ma prima devo andare in bagno. Non è che avresti qualche cosa da leggere? Senza leggere proprio non concludo nulla… e leggere la composizione chimica dello shampoo mi pare triste” spiegò.

“Tu in casa mia non fai proprio nulla!” sbraitò cacciandolo fuori a calci. “Ehi calma! Sono questioni fisiologiche! Niente di personale , Nikka!” .

Nonostante tutto lei non sembrò intenerirsi e il ragazzo venne malamente cacciato fuori, d’altronde la regina della festa doveva prepararsi.

Nella stessa città, ma in tutt’altra atmosfera Mei camminava lento ed incerto con un foglietto accartocciato in mano, il suo senso dell’orientamento non era un granché. Anche perché non aveva avuto modo di allenarlo, stando sempre in casa. Le sue mete erano sempre le stesse: scuola , edicola, negozio di computer e pochi altri.

Quella via scritta con la calligrafia di Joyce non l’aveva mai sentita nominare, e aveva dovuto procurarsi una piantina da internet per arrivare nelle vicinanze.

Rimase per qualche secondo a fissare la tenda verde speranza un po’ sdrucita e arricciata, tanto con quel tempo uggioso di certo non serviva. Sulla tenda stava scritto in caratteri semplici e bianchi “Irish”.  Mei deglutì e increspò un poco le labbra guardando le due sedie squallide e sporche che se ne stavano abbandonate fuori dal locale.

Si affacciò per poi entrare, mentre all’interno era tutto piuttosto scuro e fumoso. Nella penombra riconobbe delle sagome, che parevano bere e giocare a carte. “Salve” cominciò incerto e balbettante “Stavo cercando Joyce” disse, un tizio gli rispose con uno sbuffo e disse qualche cosa in una lingua strana che Mei non conosceva.

Dall’altro capo del localino buio si levò un urlo “MEI” e uno sgargiante  Joyce con un enorme cappello verde  si accinse ad attraversare la sala per il lungo passando sopra i tavoli, rovesciando pinte di birra e rovinando mazzi di carte tra le proteste degli avventori.

Arrivatogli accanto gli cinse le spalle con il braccio e urlò “Lui è Mei!! Siate carini con lui, e soprattutto parlate in italiano! Va bene?” . Dal locale si alzò un consenso insoddisfatto e qualcuno azzardò un “Adesso mi ripaghi la birra però!”

“Eddy!” continuò tranquillamente Joyce trascinando per la stanza il malcapitato Mei “Quando vedi questo ragazzo offrigli una birra! E non parlare in gaelico!! Mi raccomando!!”

“Sei sempre bravo ad offrire coi soldi degli altri eh?” commentò un uomo quasi calvo e con un dente in meno del normale, mentre puliva il bancone con uno straccio bisunto, e Mei non capì se scherzava o era davvero scocciato quindi preferì avvertire “Non si preoccupi, sono astemio!”.

Joyce lo strattonò tirandolo per il collo e rischiando di strangolarlo mentre lo conduceva verso l’uscita e nel frattempo urlava “Eddy, sei il solito taccagno!!”.

Poco dopo si trovarono nuovamente sul marciapiede, la strada era vuota e il cielo uggioso come prima che Mei entrasse.

“Che posto è quello?” ansimò il ragazzo massaggiandosi il collo. “E’ l’Irish!! Il ritrovo di tutti gli Irlandesi di questa città! Ci troviamo lì , parliamo in gaelico, beviamo a carte e festeggiamo San Patrizio”

“Non pensavo che la percentuale di Irlandesi in questa città fosse così folta…” fece Mei ancora senza voce, mentre l’amico rispondeva con un’alzata di spalle sibillina.

“Vuoi il cappello tipico dei lepri cani?” domandò porgendogli l’enorme copricapo verde. Mei declinò gentilmente l’offerta.

A quel punto bisognava avere un’idea, un’idea intelligente su come conciarsi per la festa. L’Irlandese si appoggiò al muretto di un passaggio che dava su un lurido canale, che avrebbe dovuto ricordare Venezia, ma che di Venezia aveva solo la puzza, e si accese una sigaretta.

“Ebbene mio prode Mei  hai qualche proposta intrigante?”. Mei si guardò un po’ in giro come se potesse chiedere l’aiuto del pubblico.

“A dire il vero non saprei”. Joyce non sembrò preoccupato, anzi diede tutta l’attenzione alla sua sigaretta che aveva l’aria di essersi spenta.

“Falso allarme” disse rimettendosela in bocca “Allora pensiamo… feste in maschera…carnevale: cosa ti viene in mente?”.

Mei ci pensò. “Arlecchino?” domandò come se avesse paura di sbagliare.

“Ti vuoi vestire da arlecchino?” chiese tranquillo Joyce sempre comodamente appoggiato al muretto mentre Mei se ne stava davanti a lui in piedi  e intirizzito, con l’aria di chi viene interrogato in una materia difficile.

Il ragazzo si sbrigò a scuotere la testa. “Immaginavo” sentenziò l’amico “passiamo oltre: carnevale di Rio… no vabbè questo lo escludo io perché non credo che avresti speranze di conquistare Nikka con un perizoma e una corona piumata… rimane halloween… cosa pensi…?”

Mei alzò gli occhi al cielo, forse sperando che la risposta fosse scritta nelle nuvole.

“Zucche?”

“NO! vampiri Mei! Vampiri! Ti vestirai da Vampiro… non puoi mica conquistare Nikka vestito da zucca!!” sbraitò esaltato sbracciandosi senza un motivo vero e proprio.

“Credi che sia un travestimento carino? E poi comunque non mi piace Nikka!”

“Vabbè non importa! Corri corri Mei ci aspetta la nostra grande impresa!!” strillò sovraeccitato trascinandolo dove pareva lui.

“La parte difficile sarà la dentiera… ma qualche cosa troveremo!!” esclamò allegro continuando a tirarlo.

“Dentiera? Che dentiera?”domandò preoccupato, ma l’Irlandese non si degnò di dargli risposta.

 

Era vero, la cosa difficile era la dentiera , ma non perché fosse difficile da trovare, o troppo costosa, ma semplicemente perché era incredibilmente scomoda. Storse la bocca un poco, sentendo i canini di plastica scorrergli sulle labbra.

“Da cosa sei vestito?” domandò Rachele che camminava accanto a lui silenziosa e veloce nonostante i tacchi vertiginosi.

“Da vampiro” rispose lui incerto.

“Originale” commentò lei senza guardarlo. Mei arrossì “Grazie”

“Facevo del sarcasmo” lo stroncò senza pietà. “E’ stata un’idea di Joyce…” spiegò lui con gli occhi bassi. Quelle parole rubarono alla sorella un sorriso “Allora immagino di dover ringraziare di non vederti vestito da Lepricano” disse ridacchiando.

“E tu da cosa sei vestita?” domandò guardandola senza capire. Si era messa gli occhiali da vista anche se non ne aveva bisogno.

“Da cliché…”. Mei sbatté le palpebre senza capire.

“Da segretaria porno” spiegò lei con un sorriso. “Di quelle che seducono il datore di lavoro?” chiese delucidazioni lui, incerto.

“Esatto…comunque… sta sera con Nikka… non fare il nerd” disse, ma probabilmente le costò molta fatica. Mei ci pensò su, per quanto sua sorella detestasse Nikka non sembrava intenta a sabotarla per una volta.

“Sei un bel cliché” disse con quel che avrebbe dovuto essere un complimento. Lei lo prese come tale e sorrise mentre arrivavano a una villa illuminata, il giardino era disseminato di candele e c’era gente vestita in modo ambiguo e sgargiante ovunque.

“Bah… tanti soldi spesi per questa idiozia” commentò Rachele sprezzante. Ma Mei suppose che in fondo quelle cose eccessivamente costose ed eccentriche piacessero anche  a lei, se no non si sarebbe certo presentata.

Oltrepassarono a passo lento il cancello guardandosi intorno, Mei notò poco distante un mangiafuoco. Sbatté le palpebre e si chiese in che razza di posto fosse andato a finire, non ebbe tempo per pensarci ulteriormente, perché davanti a loro apparvero come per magia una Nikka dal sorriso plastico e un Joyce dal sorriso esaltato. Lei vestita di veli rosa, frappe e lustrini, Mei suppose fosse una specie di odalisca. Mentre Joyce sfoggiava una camicia floreale Hawaiana e un grosso medaglione di plastica con due serpenti incrociati, dalla’aria decisamente pacchiana.

“Accidenti Mei ti sei vestito da vampiro! Pensa che caso io sono vestito da esorcista!” trillò gioviale.

“Joyce, ma lo hai deciso tu che mi sarei dovuto vestire da vampiro” fece il ragazzo incerto, Joyce, che del canto suo voleva dare un po’ di spettacolo si rabbuiò.

“E quello sarebbe un esorcista razza di idiota?” sbottò acida Rachele “Gli esorcisti sono dei preti.. e comunque non si è mai visto un esorcismo a un vampiro! E che roba è quella camicia? Non siamo mica alle Hawaii!” . Joyce si voltò verso Nikka sperando in un po’ di comprensione, o almeno di un po’ di spirito di contraddizione verso la ragazza coi capelli blu.

“Mi spiace ammetterlo ma devo darle piena ragione…” fece lei prima di girarsi e continuare “e tu da cosa saresti travestita?” chiese strafottente.

“Da segretaria porno” rispose Rachele come se fosse una sfida.

“Raffinato” fu il commento sarcastico della sua interlocutrice.

“Ciao” saluto Joyce allegro facendo cenno a un tipo che scappò via impaurito. Mei assottigliò gli occhi per vederlo meglio “Joyce , perché conosci Pallotti?”domandò accigliato.

“Oh, è una lunga storia che riguarda nudità e cancelli” spiegò tranquillamente. “Ha un ché di osceno” fece lui con una smorfia.

“Di osceno non c’è proprio niente” lo tranquillizzò l’Irlandese con un sorriso che più che altro faceva paura.

 “Il vampiro viene con me?”. Mei che non si era reso conto che stava parlando con lui si guardo in giro, e Nikka un po’ scocciata fu costretta a ripetere la frase e prenderlo per un braccio perché capisse. Rachele si coprì il volto con la mano e mugolò qualche cosa che poteva essere un “cosa ho fatto di male per avere un fratello così invornito?”

Quando finalmente Nikka e Mei riuscirono ad allontanarsi anche Rachele girò i tacchi annunciando “Ho bisogno di alcol dopo questa scena assurda!” .

“C’è il free bar!” esclamò allegro Joyce rincorrendola.

Mei sbatté addosso a una decina di persone mentre Nikka con una mano lo tirava e con l’altra si teneva stretta i veli.

In un batter d’occhio si trovò lanciato su un divanetto bianco con accanto una Vanessa che per colpa della pettinatura, coi capelli raccolti somigliava più del solito a un cavallo. Milly invece trangugiava una millefoglie , Nikka ancora in piedi la fulminò con uno sguardo che sembrava dire “CALORIEEEE”, e la malcapitata fu costretta vergognosamente a lasciare andare la sua torta.

Poi anche Nikka si lasciò cadere accanto a Mei.

“Allora cosa vuoi fare?” chiese alzando le sopracciglia ed avvicinandosi di più a lui. Mei di rimando aumentò la distanza che c’era tra di loro spostandosi un po’ dall’altra parte.

Nikka probabilmente se ne accorse, perché lo guardò male, e lui si rese conto di aver fatto una tremenda gaffe. “Non saprei” rispose, ritrovandosi a desiderare un cilicio per potersi punire come si deve. Ma che diamine stava facendo? E per fortuna che non doveva fare l’impacciato!

Nikka parve scocciarsi, lo fulminò con uno sguardo e si alzò “Vado a prendere qualche cosa da bere, vuoi qualche cosa?” sbottò come se non fosse neanche una domanda.

“Una coca cola?” azzardò.

La faccia che fece Nikka fu davvero indescrivibile mentre spariva tra la folla alla ricerca del bar.

Era sempre peggio! Come poteva essere così idiota? Ma perché diamine era astemio?  Forse vedere zio Michele ubriacarsi tutti i Natali lo aveva scandalizzato, ma non poteva andare avanti così! Una gaffe dopo l’altra , forse avrebbe potuto fare un po’ il figo tenendo dello spumante nel bicchiere e senza berlo.  E probabilmente avrebbe dovuto fare il cavaliere ed andare lui a prendere da bere invece di mandarci Nikka.

Da una parte e dall’altra si vide accerchiato da Milly e Vanessa, le amiche succubi di Nikka.

“Allora da cosa sei vestito?” chiese Milly facendo la sensuale, anche se il risultato era una foca monaca spiaggiata che cercava di imitare una gatta. Mei deglutì chiedendosi perché diamine si era ritrovato in quella situazione.

“Ehm… da vampiro…” rispose guardando disperato la mano di Milly che passava sul suo petto.

“Già, da vampiro idiota! Non vedi che ha i canini e il sangue che gli cola dalla bocca?” strillò isterica Vanessa spostando con un colpetto la mano di Milly per metterci poi la sua.

Mei nel frattempo si guardava in giro sperando nell’arrivo di Superman, o di Joyce vestito da Superman, o della provvidenza divina, o di qualsiasi altra cosa letale che lo salvasse da quelle due.

Nikka del canto suo non accennava a tornare, si era seduta al banco e aveva chiesto un cuba libre appoggiando la testa alle mani. Quando glielo avevano portato si era messa a giocherellare con il limone dopo averne buttato giù metà in un sol colpo. “Diamine quanto è stupido..” aveva sbuffato.

Che cavolo ci doveva fare con quel ragazzo? Insomma quando l’aveva visto aveva pensato che potesse essere come lei, assomigliarle insomma. Essere un uomo di mondo che veste bene , è intelligente e piace alle ragazze. Non ne aveva mai incontrati che riuscissero ad avere tutte e tre quelle qualità e le era sembrato che con Mei si potesse fare un buon lavoro. Ma dopo che Pallotti lo aveva picchiato si era rovinato tutto. E poi quel Mei non era proprio uno che riuscisse a essere un attimino meno ingessato. La soluzione a qui pensieri nefasti fu  scolarsi l’altra metà del bicchiere e ordinare del martini.

Sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla e si voltò lentamente, già un po’ annebbiata dall’alcol.

“Sei bellissima sta sera…” disse con voce bassa il ragazzone vestito fa giocatore di football americano che era apparso alle sue spalle.

“Io sono sempre bellissima, Pallotti… e ora sparisci” bofonchiò con voce strascicata.

“Ma Nikka… ho prenotato il servizio limousine solo per noi due…” , disse cercando di comprarsela almeno così, era mezza ubriaca e non sarebbe stato difficile infinocchiarla.  Nikka scese barcollante dello sgabello con il quarto martini stretto in mano. “Mai e poi mai…rimarrò da sola con te… vacci pure da solo sulla tua limousine” sentenziò annebbiata.

“Nikka verresti a ballare con me?” chiese un ragazzo vestito da quello che poteva essere topolino, ma anche un contadino che si è messo il vestito buono per la messa della domenica. Nikka fece un sorriso e si lanciò tra le braccia del ragazzo “Sono tutta tua! Andiamo a ballare!!” urlò.

Pallotti sbatté un pugno sul tavolo scocciato e si guardò intorno irritato. Poi vide qualche cosa che gli rallegrò la serata e ordino un paio di cocktail.

Ottenuti questi si avvicinò velocemente verso il centro del suo interesse.

“Verresti in un posto tranquillo con me?” domandò gentile porgendo uno dei due bicchieri. Rachele rispose con un sorriso e fece toccare i due bicchieri, che se non fossero stati di plastica avrebbero fatto cin cin . “Va bene” disse “andiamo dove vuoi”.

Nel frattempo Mei si era trovato a sgranare il rosario sperando che Nikka tornasse e si portasse via quelle due assatanate. Milly lo abbracciava da destra e Vanessa a sinistra gli era quasi completamente in braccio, con il naso a pochi centimetri dal suo. Gli avevano chiesto tutto quello che si potesse chiedere a una persona, a quanti anni aveva perso il primo dentino e che numero di scarpe portava!

Ci sarebbe voluto un miracolo per salvarlo, anche perché Vanessa sembrava davvero intenzionata a baciarlo. Strizzò gli occhi. Cercando di allontanarsi un po’ dalla ragazza bionda che si stava avvicinando a occhi chiusi, ottenendo soltanto di affondare nella spalla cicciotta di Milly.

L’angelo  dell’apocalisse lo salvò dicendo “ Baldi giovani! Cosa si fa qui? Vi posso rubare un attimo il vampiro?”.  Mei guardò in alto e vide in piedi dietro al divanetto dove stava seduto lui un Joyce allegro con una Guinnes in mano. Gli Irlandesi non amano smentirsi.

“Certo Joyce arrivo subito” rispose il ragazzo alzandosi e liberandosi della presa delle due sanguisughe , come se il divano stesse andando a fuoco. E si allontanò quasi correndo.

“Mi hai salvato la vita” ansimò.

“Non ho mai visto delle odalische così brutte” su il laconico commento di Joyce. “Hai perso la tua bella?”domandò poi. Mei fece un’espressione arricciata, se si può dire, perché più che altro era decisamente indefinibile.

“E’ andata a prendere da bere e non è più tornata, mi sa che ho fatto qualche cosa di stupido” ammise.

“Forse hai fatto qualche cosa di stupido, ma è tornata da te…” fece l’amico.

“Cosa?” replicò Mei prima di sentirsi tirato per il mantello di raso. “Mei!” esclamò Nikka prima di abbracciarlo calorosamente, mentre Joyce veniva inghiottito dalla folla.

“Che bello vederti! Ti avevo perso!!” esclamò alzando la testa per guardarlo, era davvero molto più bassa. Una ragazza in miniatura. Non come sua sorella che era quasi alta quanto lui.

Avrebbe voluto precisae che era lei a essere sparita , ma era palese che non fosse del tutto lucida.

“Lo sai che ho baciato Alberto Lombardi? Bacia benissimo” cantilenò contenta senza volerne sapere di slacciare le braccia dalla sua vita.  Come al solito lui non sapeva cosa rispondere “ehm… mi fa piacere, sono contento per te…” fece imbarazzato.

Lei sorrise annebbiata e gli fece una carezza sulla guancia. “Sei davvero un ragazzo  dolce…” disse nei fumi dell’alcol prima di rispondere ad Alberto che la chiamava “Arrivo!”. Lo salutò con la mano e sparì per l’ennesima volta.

Mei sbuffò. E così quell’idiota era riuscito ad arraffarsi Nikka. Beh, gli stava bene, così avrebbe imparato a non fare il nerd. Uscì in giardino , dove non c’era quasi nessuno, a parte qualche coppietta imboscata. E quelli che si avviavano a casa.

 

 

Stavo guardando il falò quando arrivò Mei. “Che roba è che brucia?” chiese con un insolito sprint passandosi la mano tra i capelli.

“Oh, nulla di ché… i vestiti di Pallotti… o guarda lì ci sono anche le mutande..” . Mio fratello mi guardò perplesso. Io alzai le spalle divertita “Nessuno prende in giro i Pavesi, e soprattutto : nessuno mi usa come seconda scelta!!” sentenziai.

“E come avresti fatto a rubarglieli?” chiese sbigottito. Gli strizzai l’occhio “Joyce docet” fu la semplice risposta.

“Andiamo a casa?” chiese con aria un po’ triste. Annuii serenamente, essermi vendicata su Pallotti mi aveva riempito di allegria.  Mei non sembrava del mio stesso umore a giudicare dallo sguardo truce e dalle mani nelle tasche, ma supposi fosse per colpa di Nikka. 

Stava per avviarsi a piedi quando lo trattenni. “Oh no, sta sera si torna a casa in limousine” annunciai.

“Limousine?” ripeté lui perplesso. Sorrisi “Già, l’aveva prenotata Pallotti, ma dato che adesso se ne sta andando in giro nudo come il sedere di un macaco non ne avrà bisogno. E poi Joyce conosce l’autista, gli sta insegnando il gaelico!” dissi aprendo la portiera della lussuosa vettura e infilandomici. Mio fratello mi seguì guardingo.

Feci un cenno con la testa “Quello è Ambrogio, l’autista come quello della pubblicità dei cioccolatini” spiegai , mentre Joyce cercava di convincerlo a scarrozzarlo a suo piacimento.

“Dai Ambrogio! Cosa ti costa venirmi a prendere a scuola qualche volta! Io ti sto insegnando il gaelico! Lo sai che se non impari Eddy non ti servirà mai una birra!” diceva.

Ridacchiai, e finalmente l’auto partì, con un Joyce lanciato in un’ardua impresa, un Mei abbattuto e una me intenta a godersi i suoi dieci minuti di nobiltà.

 “Ambrogio? C’è dello spumante? Che razza di limousine è senza spumante?”

 

 

 

Eccomi tornata con il dodicesimo capitolo. Ringrazio davvero Niggle e Lidiuz93 che hanno commentato il capitolo 11… è davvero bello sapere che a qualcuno piace la mia storia! Spero che anche questo capitolo vi piaccia! Se volete lasciatemi un commento , mi darebbe la carica per il prossimo!! E spero che dopo l’orale riuscirò ad aggiornare in modo un pochino più regolare!!

 

Baci Aki_Penn

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Nudisti Per Caso ***


I miei venti metri quadrati

Tredicesimo Capitolo

Nudisti per caso

 

 

 

I miei tacchi facevano il solito rumore ritmico , mentre salivo le scale , imprecai, perché cavolo c’era sempre l’ascensore rotto?

Arrivai al sesto piano, e mi chinai a sollevare un poco lo zerbino con su scritto a lettere sbiadite “Welcome”. Come sempre sotto vi trovai le chiavi. In famiglia erano soliti  lasciarle lì, sapevo anche che il loro vicino le teneva dentro il vaso dei gerani , mentre quelli dell’interno 8 in un incavo del corrimano.

A essere abituali ospiti si imparavano un sacco di cose.

Infilai la chiave nella toppa, la girai piano in modo da limitare il rumore e la spinsi sollevandola un poco, perché non cigolasse. Quella maledetta porta era un catorcio, un ladro avrebbe potuto aprirla anche senza sapere dove erano le chiavi.

Avanzai nella stanza vuota. La casa di Joyce assomigliava alla mia, ma i muri dell’atrio non c’erano, e il salotto e la cucina erano uniti in un’unica sala. Piegai la testa da una parte, osservando il corridoio che finiva in bagno, la cui porta era socchiusa e potevo intravedere il telo plastico della doccia. C’erano delle paperelle gialle. Feci due passi facendo appositamente rumore coi tacchi e aspettai, non ci volle molto perché una porta sulla sinistra si aprisse, e con mia grande sorpresa ne uscì una testa blu, che decisamente non apparteneva a Joyce.

La ragazza , magra, bassa e decisamente in mutande mi salutò intimorita, mentre Joyce la seguì a ruota chiudendosi dietro la porta.

“ Oh, la megera blu è venuta a trovarmi” esclamò per nulla imbarazzato per il fatto che avessi interrotto qualche cosa.

“Ah, vedo che hai delle storie con le mie oche blu!” sibilai socchiudendo gli occhi, e forse nel tono misi un po’ di cattiveria.

“Beh, quella mi pare una sola, e tra l’altro si chiama Sofia” continuò tranquillo avanzando verso di me, mentre la mia oca blu recuperava i vestiti che aveva lasciato sulla sedia della cucina.

“Cosa vuoi che me ne freghi di come si chiama” sbottai con un sorriso, come se lei non fosse lì. Joyce fece una smorfia, era sempre più gentile di me con le persone.

“Rachele” pigolò la mia oca blu alle mie spalle “sabato sera andiamo al Luxury  e mi chiedevo se volessi…” non la lasciai finire e mi voltai un attimo per dirle “Non se ne parla, non esco con voi” commentai, tornando subito a guardare degli occhi Joyce che mi ricambiava con un ghigno mefistofelico stampato in faccia.

“Ho bisogno di un decespugliatore” annunciai. Joyce aggrottò le sopracciglia. “Che diamine ti serve un decespugliatore?” sbottò lui ancora in mutande.

“Non mi pare di averti chiesto cosa fai con le mie oche” lo rimbeccai io. Joyce sbuffò, e io sorrisi.

Un quarto d’ora dopo avevo ottenuto il decespugliatore.

 

 

Le pettegole della scuola già alla prima ora avevano intercettato la nuova coppia. Chi alla festa in maschera non si era accorto di nulla, di sicuro era stato informato dalle pettegole.

Le pettegole erano ormai un’istituzione. Davano i voti al vestiario delle ragazze, e di sicuro la prediletta era Nikka, che aveva spodestato Rachele dopo che quest’ultima si era tinta i capelli, spettegolavano per i corridoi, ed erano a conoscenza di pettegolezzi di ogni genere.

In realtà, per capire che Nikka e Alberto avevano una storia non c’era bisogno di essere dei pettegoli provetti, infatti chiunque aveva potuto vederli mentre si sbaciucchiavano appassionatamente sulla scalinata della scuola.

Mei era arrivato presto e si era infilato subito in classe, perciò non assistette all’arrivo della ragazza e del suo pseudo principe azzurro. Almeno quel tipo non era Pallotti. Aveva un cervello sotto il cappello da mafioso e i capelli ricci. Sospirò senza pensarci tanto e si mise a ripassare la lezione per non trovarsi impreparato a un’eventuale compito a sorpresa. Non che ce ne fossero mai stati, ma Mei era un tipo previdente.

Nel mentre Pallotti si aggirava per i corridoi alla ricerca dell’azzurra Rachele. Come aveva potuto farsela scappare alla festa? Non era Nikka, ma era davvero carina, e già che aveva perso la regina fashion della scuola non poteva farsi soffiare sotto il naso anche l’enigmatica ragazza blu. Ovviamente i suoi pensieri erano molto più semplici, probabilmente Pallotti non conosceva neanche il significato della parola enigmatico.

La trovò che tirava tranquillamente calci al distributore delle bibite perché le aveva rubato venti centesimi.

“Rachele!” esclamò concitato il biondo correndole incontro, Rachele alzò lo sguardo dal suo avversario meccanico e gli sorrise.

“Senti, mi spiace davvero tanto per l’altra sera, ma un idiota mi ha rubato i vestiti e la limousine che avevo noleggiato!” disse sperando che la ragazza credette alle sue scuse, che dette così sembravano davvero assurde.

“Tranquillo… già lo so…” disse in tono dolce , poi aggiunse sibillina “sono stata io… e comunque i vestiti te li ho bruciati…”. Sorrise ancora e girò i tacchi, e la macchinetta delle bibite sputò venti centesimi, che finirono ai piedi di un Pallotti inebetito , mentre guardava Rachele andarsene via per il corridoio.

La classe di Mei si riempì in fretta e prima che la professoressa della prima ora arrivasse le sua compagne trovarono il tempo per una profusione di chiacchiere davvero impressionante.

Isabella Gigli aveva comprato un nuovo rossetto Chanel e l’aveva pagato una fortuna. Aveva risparmiato per tre mesi la sua paghetta senza andare in giro per discoteche e pub il sabato sera per poterselo comprare. Le sue amiche erano decisamente entusiaste e si esibivano in plateali e teatrali complimenti. Mei cercò di non farci caso e continuò a concentrarsi sugli esercizi sui logaritmi. I logaritmi erano decisamente più simpatici di Isabella Gigli e delle sue amiche, che ovviamente non erano le uniche a fare rumore, infatti dall’altra parte della classe c’era chi diceva che il rossetto le faceva delle labbra orrende, qualcuno si azzardò a dire che sembravano rifatte e se si fosse  messa due gommoni in faccia nessuno avrebbe notato la differenza.

Mei cercò ancora una volta di isolarsi per non sentire quelle chiacchiere inutili, ma la sua attenzione fu attirata da un nome pronunciato da una delle pettegole “Nikka”.

A quel punto era ufficiale, i logaritmi erano passati in secondo piano.

“… si è messa con quel tipo… tu che ne pensi? Ha un cappello da mafioso, e ha un’aria così trasandata!” aveva detto una ragazza incredibilmente pallida, la cui bianchezza nivea era accentuata dal capelli corvini e lisci che le incorniciavano il viso.

“Ma è un look particolare! Ne abbiamo discusso anche la settimana scorsa… Alberto tiene molto al suo aspetto, non uscirebbe mai vestito a caso, è un abbigliamento perfettamente studiato! E a me non dispiace … Nikka a fatto veramente un buon colpo…” commentò una ragazza coi capelli più tendenti all’arancione che al rosso e degli occhiali molto spessi.

“Hai sentito? Vuole organizzare una festa per il suo compleanno nella villa di campagna di lui… pare che i Lombardi stiano economicamente bene… secondo te Nikka l’ha adocchiato per questo? non mi stupirei conoscendola…” sospirò la mora avvicinando il viso a quello dell’amica, per rendere più privata la loro conversazione.

“Credo che glil’abbia chiesto lui…  insomma si sa che Nikka è un animale da party, era sicuramente la persona più indicata per organizzargliela… di sicuro saprà cosa fare… credo che dovremmo recuperare un invito…le feste in villa sono sempre le più divertenti… ti ricordi quando hanno beccato quel Joyce Cumoli in atteggiamenti ambigui con una suora? O quando Pallotti ha spaccato il naso a un tipo perché aveva finito lo spumante? E la Pavesi ha usato uno sparaneve contro Millie? Le feste in villa sono davvero le migliori…” constatò con aria sognante mentre Mei sgranava gli occhi sbigottito. Suore? Sparaneve? Che cavolo di abitudini perverse avevano Joyce e Rachele ?

Non fece in tempo a perdersi nei suoi pensieri perché sentì il cellulare vibrargli nella tasca, lo estrasse scoprendo un messaggio non letto, sul display illuminato stava scritto a chiare lettere  Nikka.

“Mei! Vieni nella camera oscura, ho una proposta che non puoi rifiutare!!” , Mei si immaginò un tono civettuolo e allegro, ma comunque alzandosi si preoccupò di trovare una testa di opossum sul banco al suo ritorno. E poi, da quando a scuola c’era una camera oscura?

Si alzò perplesso dando un’occhiata all’orologio di metallo con le lancette fosforescenti che si sarebbero viste anche al buio.

Mancava un quarto d’ora all’inizio delle lezioni, e probabilmente le chiacchiere con Nikka, o le minacce, non si sarebbero protratte abbastanza per fargli perdere l’inizio della lezione di matematica.

Il problema si presentava però in altra forma: dove diamine era la camera oscura?

Si alzò , mentre le pettegole lo squadravano discretamente, da quando aveva cominciato a farsi vedere in giro con Nikka anche loro si erano accorte della sua esistenza.

Prima di inoltrarsi nel corridoio ci infilò la testa sospettoso, chiedendosi dove fosse l’aula adibita alla fotografia, poi si decise a uscire, arrendendosi a dover chiedere informazioni come un turista.

Come si fa a essere turisti di una scuola superiore?

Cominciò a incamminarsi speranzoso verso la presidenza, e incrociò un sedere infilato nell’armadietto degli inservienti, se così si può dire. Dall’armadietto emerse un busto e una testa blu.

Non ci mise molto a capire che quella non era sua sorella. Era decisamente più bassa, il portamento era molto meno da Rachele , il sedere era vagamente piatto e i pantaloncini erano decisamente commerciali, sua madre non avrebbe mai confezionato una cosa del genere.

E quindi chi era?

La risposta arrivò in fretta, quando la ragazzina, parecchi centimetri più in basso andrò a sbattere arretrando contro il suo petto. Mei fece un paio di passi indietro per riprendere l’equilibrio perduto.

Lei si voltò per scusarsi e gli sorrise. “Mei” esclamò allegra. Non che lui la conoscesse, ma suppose che fosse una delle oche blu di sua sorella.

“stavo cercando un decespugliatore… credo che tua sorella ne avesse bisogno…e ho anche idea di non stargli particolarmente simpatica dallo sguardo che mi ha rivolto sta mattina quando ci siamo viste a casa di Joyce” disse più parlando a sé stessa che a Mei, poi si ricordò di averlo davanti e aggiunse “comunque io sono Sofia molto piacere di conoscerti!” esclamò gioviale dinanzi ad un attonito Mei.

Lui fece un sorriso tirato, poi decise di approfittarne “Sai per caso dov’è la camera buia? Nikka mi ha detto che dovevamo vederci lì” .

“Nikka?” chiese storcendo la bocca con disapprovazione, era un’oca blu in fondo, e l’esercito di Rachele odiava per natura Nikka e le sue guardie del corpo. Detta in termini bellici.

“Rachele non protesta se la vedo” si affrettò a mentire con un sorriso. Non che pretendesse l’approvazione di sua sorella per fare qualche cosa, ma aveva bisogno di sapere dove diamine fosse la stanza buia prima che suonasse la campana di inizio lezione, e se avesse dovuto fare da se avrebbe fatto notte.

Sofia sembrò convincersi, e gli fece un sorrisetto “ beh, se entri nella stanza delle fotocopiatrici è subito a sinistra” spiegò indicando un punto dietro di lui. Si voltò chiedendosi da quando in qua a scuola c’era anche una stanza delle fotocopiatrici, e infatti pochi metri più indietro stava una porta in vetro con attaccato un foglio sul quale troneggiava la scritta “Fotocopie”.

Si rivoltò verso la ragazza per ringraziare, ma quella era già sparita. Sbatté le palpebre perplesso, sicuramente quel modo di sparire l’aveva imparato da sua sorella. In realtà non si ricordava una precisa sparizione furtiva di Rachele, ma fu sicuro che quella fosse una sua prerogativa.

Deciso ad arrivare a destinazione aprì sicuro la porta incriminata, e richiudendola sobbalzò nel vedere Joyce seduto su una fotocopiatrice a braghe calate che leggeva il quotidiano. Il ragazzo sobbalzò a sua volta e abbassò il giornale per guardarlo negli occhi.

“Tu non mi hai visto mentre mi fotocopiavo il sedere, ok?” fece minaccioso socchiudendo un occhio. Mei annuì perplesso, poi gli sovvenne quello che aveva sentito poco prima dalle pettegole “Joyce! Sei andato a letto con una suora!?!” fece aggrottando  le sopracciglia.

Joyce alzò le spalle, sorrise e alzò gli occhi al cielo in modo malinconico “Quasi, ci hanno interrotti… poi ovviamente lei ha sciolto i voti.. ah… è stato un paio di anni fa durante una festa in villa, le feste in villa sono sempre le migliori…” fece con fare malinconico, ma Mei lo fermò prima che potesse continuare.

“Va bene va bene…” fece sottolineando le sue parole con un movimento deciso della mano, che somigliava tanto allo STOP di un vigile.

“Ah, già che sei qui, sai per caso cosa ci vuol fare tua sorella con un decespugliatore?” chiese tranquillamente ricominciando a leggere il giornale che aveva appoggiato sulle ginocchia.

“Senti, gli affari di mia sorella non li so, ne ho abbastanza di decespugliatori suore e sparaneve!” esclamò Mei scocciato, ma Joyce parve illuminarsi alla parola sparaneve.

“Oh, la sai anche tu la storia dello sparaneve? Oh, quella volta tua sorella fu fantastica, mi pare fosse per le vacanze di natale ed eravamo a...”

“Non lo voglio sapere! Torna a fotocopiarti il sedere! Io vado da Nikka!!” disse esasperato quasi urlando.

“Bye bye Darling…” lo salutò tranquillamente affondando il naso nella rubrica di sport.

La porta indicata dall’oca blu di sua sorella era a sinistra, Mei abbassò la maniglia che scoccò e annunciò la sua presenza, un filò di luce si distese sul pavimento della stanza, ma appena l’uscio si richiuse tutto piombò nell’oscurità, Mei, istintivamente cercò con la mano l’interruttore ma venne fermato da un’esclamazione un po’ stridula, che Mei riconobbe subito provenire dalla bocca di Nikka “Ehi, non ci provare, non vorrai mica rovinarmi il lavoro vero?” .

Qualche cosa si accese a poca distanza dalle sue ciglia , un accendino, che gli rivelò la presenza di una vicinissima Nikka. “Se aspetti un attimo ti abituerai alla luce fioca… razza di impaziente” ridacchiò , spegnendo l’accendino e rimettendoselo in tasca.

Mei sbatté un po’ le palpebre aspettando che i suoi occhi si abituassero alla penombra.

“Non sapevo che ti interessassi alla fotografia…” disse poi appoggiandosi stancamente al muro.

“Che foto sono?”. Nel buio gli parve di vederla alzare le spalle “Sono foto mie…” rispose sventolandone una e appendendola al filo. Egocentrica, pensò una parte di cervello poco importante, del ragazzo.

“Ti chiederai perché ti ho cercato” cominciò lei pratica.

“Più che altro mi sono chiesto perché mai in questo posto…” disse Mei cui la camera buia da fotografo faceva venire in mente qualche cosa di hard o horror. Insomma qualche cosa che cominciasse con l’H.

Nikka lo liquidò con un gesto della mano “Oh, no, è solo perché sono molto impegnata… allora volevo dirti che ho intenzione di organizzare una festa per il compleanno di Alberto” Mei annuì mentre cominciava a vedere con più chiarezza la sagoma della ragazza nel buio. Ma non capiva  cosa centrasse in quella storia lui.

“Ho intenzione di esporti…” continuò tranquilla appendendo foto. Mei alzò un sopracciglio nel buio. “Cioè?” chiese decisamente perplesso.

“Allora… nel caso non l’avessi capito, credo che tu abbia del potenziale… insomma, sei un bel ragazzo, pulito (e lo dico perché molte persone che conosco possono tranquillamente passare una settimana senza lavarsi i denti) , educato e ben vestito. L’unica cosa che ti manca è un po’ di sprint… e credo che dovrò esporti alla festa di Alberto per farti conoscere un po’ di ragazze…” terminò incrociando le braccia e guardandolo.

“Non mi interessa conoscere della ragazze!” sbottò, più perché si sentiva un idiota a farsi trattare così, che per il fatto che fosse vero.

“Oh, ma insomma!!” fece lei guardandolo nel buio e avvicinandosi di qualche passo. “Perché diamine non ti dai una mossa? Non ci credo che non vorresti avere una ragazza, o un’accompagnatrice, o una lucciola, o una baby sitter,o un qualsiasi altro essere femminile accanto!”

Mei si schiacciò contro il muro, reggere lo sguardo della ragazza al buio era decisamente più semplice.

“Cos’è che non ti va bene nell’avere una vita sociale e avere successo con le ragazze?”

“Non capisco perché ci tieni tanto…” sibilò piano e rilassando i muscoli, mentre tornava ad abbassare i talloni che aveva alzato per appiattirsi ancora di più contro la parete.

Gli sembrò di averla fregata, ma lei si stava semplicemente fregando il mento in modo poco femminile e chic, ma tanto finché era al buio con un Mei decisamente digiuno di rudimenti sociali non le poteva succedere nulla.

“Hai mai sentito parlare di D’annunzio? Si studia al quinto anno…” cominciò lentamente. Mei annuì, e lei vide i suoi capelli muoversi e frusciare nella penombra, perciò continuò a spiegare.

“Belle donne, levrieri, lusso… voleva che la sua vita fosse un’opera d’arte” disse.

“Infatti è scappato in Francia rincorso dai creditori…” si affrettò ad aggiungere. Nikka soffocò una risatina spenta.

“Non mi pare di starmi indebitando, a parte con mia madre… in effetti l’altro giorno le ho chiesto duecento euro per fare acquisti in profumeria, non ha gradito. Ma comunque voglio che sia tu la mia opera d’arte. Sei una buona base”.

Mei sbatté un po’ le palpebre. “Che diamine stai dicendo?”

Nikka sbuffò scocciata, Mei si ostinava a non capire o a far finta di non capire. “Leonardo aveva la Gioconda, io ho te, solo che non ti dipingo… Potresti essere il mio levriero” finì con aria saccente, e sembrava davvero che fosse la sua ultima parola.

Mei rimase un attimo in silenzio, mentre si diceva che quella ragazza era fuori come un balcone, poi alla fine parlò lentamente “ Leonardo e D’annunzio? Non credi di puntare un po’ in alto… paragonarsi a…” lei non lo fece finire e lo precedette “Lo so… ma chi se ne importa se pensi che sia assurdo. Sarai il mio levriero?”chiese infine.

“Niente museruola?” si informò subito. “Promesso” rispose alzando il mignolo e aspettandolo che Mei ci agganciasse il suo. Lui rimase a guardarlo nella penombra.

“Devi attaccarci il tuo…” sospirò rassegnata dal fatto che Mei fosse sempre e comunque fuori dal mondo.

“Oh” sussultò lui eseguendo. Nikka lo strinse e si alzò sulle punte cercando di guardarlo meglio negli occhi.

“Allora , verrai alla festa di Alberto, e ci andremo con lo stesso giubbotto , va bene? Andiamo a comprarlo oggi…” disse tutto in una volta senza respirare.

“Un attimo…Alberto…” non riuscì a finire perché Nikka sapeva già la domanda e aveva anche già la risposta.

“No, non è come Pallotti. Sa che siamo amici. Il mio nuovo fidanzato è un signore. Stai tranquillo” spiegò stringendo la mascella.

“Ok” disse infine lui. Lei sorrise “Perfetto… esci prima tu, io ti seguo”.

Mei aprì una fessura e uscì sgusciando come un’anguilla. Guadagnò in due passi la porta che dava sul corridoio e a malapena sentì Joyce che da sopra la fotocopiatrice lo salutava.

Si chiuse la porta di vetro alle spalle, e nello stesso istante sentì uno strillo di donna seguito da un tonfo.

“Oddio Nikka!!” sentì dire a Joyce mentre probabilmente raspava nel suo quotidiano ai piedi della fotocopiatrice.

Oddio lo dico io! Ma che schifo! Rimettiti i pantaloni… ma insomma che schifo cosa stavi facendo??” . Ridacchiò, non aveva pensato ad avvertire Joyce dell’imminente arrivo di Nikka.

“E’ così orribile senza pantaloni…?” chiese sorridendo tra sé e sé.

“Beh,..” cominciò a rispondere pensierosa Sofia che era riapparsa accanto a lui. Mei sobbalzò e saltò qualche passo più in là sbraitando “Era una domanda retorica… non volevo una risposta! Torna a cercare il tuo decespugliatore!!”.

Poi girò i tacchi e andò verso la sua classe, per poco non avrebbe perso l’inizio della lezione. Sofia alzò le spalle e se ne tornò a girare a vuoto per i corridoi. Certe persone in quella scuola sembravano lì per caso. Come se fossero turisti, in giro per le aule e i bagni come se fossero in vacanza. Magari sul tetto in periodo di esami allestivano una spiaggia per nudisti.

Sei ore di scuola passarono in fretta, e come al solito la mensa era affollata, la signora Pavesi aveva provveduto a rifornire i suoi pargoli di gustosi panini.

Joyce si lasciò cadere di fronte a Rachele che mangiava silenziosamente il suo pranzo cercando di ignorare le oche blu che straparlavano vicino a lei.

Il ragazzo impellicciato scartò il suo pranzo comprato al bar e lo addentò mentre le ragazze blu continuavano a ciarlare. Sembrava che entrambi – Joyce e Rachele – non seguissero i discorsi, parlavano di trucchi, ragazzi, capelli, ceretta, e loro rimanevano con gli occhi puntati sul cibo, come se fossero da soli. Solo Joyce a volte alzava gli occhi per dare un’occhiata ai capelli blu della sua amica. Sofia lo aveva visto un paio di volte farlo. Sguardi a lei invece non gliene riservava mai. Deglutì e tornò al chiacchiericcio delle sue due amiche coi capelli turchini.

“Allora? Quest’estate si va a Maiorca?” saltò su una delle due amiche di Sofia, riprendendosi in un attimo l’attenzione di quest’ultima che per un secondo aveva vacillato per colpa del bizzarro Joyce.

Sofia sorrise. “Direi che Maiorca sia perfetta per il viaggio di maturità… relax e divertimento, ci è andata l’anno scorso mia sorella, ha detto che è una bellissima isola!” aveva detto in tono leggero.

“Ah ha! Perfetto!” trillò la sua amica, che tra tutte sembrava essere la più organizzata, e infatti tirò fuori da chissà dove un atlante che descriveva nei minimi dettagli tutte le isole del Mediterraneo. Lo aprì con lentezza e come per magia trovò subito la pagina giusta, per poi puntarci il dito e urlare “Maiorca!!”.

Rachele alzò discretamente lo sguardo dal suo panino per puntarlo sull’oca con atlante. Joyce seguì il suo sguardo fino a posarsi sulla ragazza che aveva portato la cartina e portava un fiocchetto rosa sulla testa. Gli venne quasi da ridere. Quelle tre ragazze cercavano di imitare la sua cara Rachele, ma sarebbe stato ovvio anche per lo sprovedutissimo Mei che un affare del genere sua sorella non l’avrebbe mai indossato.

“Però cosa facciamo? Ci andiamo solo noi tre? Dovremmo pure trovare una quarta ragazza!” disse d’un tratto l’altra ragazza.

Lo sguardo di Rachele si fece meno discreto e le sopracciglia si alzarono, mentre Joyce passava gli occhi dalle oche a lei. Ghignò, come per dire “e adesso vediamo cosa succede”.

“Certo che no!” rispose la ragazza col fiocco rosa, che probabilmente era una specie di capo “Chiederò a mia cugina Ilaria di venire con noi, lei fa il quinto anno, al liceo scientifico in via Mazzini”.

Rachele non volle sentire altro, si alzò e se ne andò senza finire il pranzo, che finì dritto dritto con stizza nel bidone. Joyce fece un sorrisetto, poi seguì il suo esempio dicendo “Gente io vado a fare la pipì” . Le oche blu lo salutarono con aria sognante, e lui andò a svuotarsi tranquillamente la vescica.

 

 

Rachele conosceva tutto della casa di Joyce, e poteva entrare quando voleva. Joyce del canto suo solitamente schifava la porta di casa Pavesi, prediligendo la finestra del bagno, ma quel giorno non aveva troppa voglia di arrampicarsi su per la grondaia e si ritrovò a forzare la porta con la tessera sanitaria. Lo aveva visto fare in un film. Ovviamente nel film il protagonista usava la carta di credito, ma dato che in famiglia di carte di credito non ve ne era nemmeno l’ombra aveva dovuto accontentarsi.

Avrebbe potuto sì, usare il campanello, e farsi aprire come facevano tutte le persone normali, ma trovava che il citofono facesse un rumore più che mai molesto, e poi era impersonale. Se sentivi che ti stavano scassinando la porta non poteva essere altri che lui. Anche perché un ladro di buon senso non avrebbe mai derubato casa Pavesi.

Alla fine dopo aver lambiccato un paio di minuti, la porta si schiuse e Joyce penetrò silenziosamente nell’appartamento chiudendosi l’uscio alle spalle.

Piegò la testa da una parte vedendo la turchina Rachele che guardava sconsolata il tavolo della cucina coperto di polvere bianca. La stessa polvere che le imbrattava anche buona parte del viso.

Joyce sbatté un poco le palpebre e aspetto  che lo insultasse. Lo insultava talmente spesso che era diventata un’abitudine. Ma rimase lì sconsolata a guardare la polvere sul suo tavolo.

“Che è successo?” chiese tranquillo avanzando qualche passo in cucina.

“Le oche blu vanno a Maiorca…senza di me” pigolò.

“E a te dispiace” finì lui.  “No” disse lei senza neanche sforzarsi di mentire in modo convincente.

“E questa cosa ti distrugge così tanto da darti alla droga?” chiese.

“No, idiota, è farina, stavo cercando di cucinare una millefoglie” l’aveva insultato e gli aveva regalato uno sguardo carico d’odio. Bene, era tornata la Rachele di sempre, si stava riprendendo.

“Ma non sei capace… beh, se vuoi mia sorella Jane è una cuoca spettacolare, mica come te” disse con un sorriso che alludeva chiaramente al disastro che si era creato in cucina.

“Di solito cucina mia madre” ribatté la ragazza blu alzandosi. “Scusami io non ho una madre amorevole come la tua… se fosse per mio padre mangeremmo pizza surgelata e pollo fritto da asporto tutti i giorni!”disse poi aggiunse “Tuo fratello?”

“Con Nikka” rispose scocciata lei mentre chiudeva la porta, diretta all’appartamento dell’amico.

“E questo non aiuta l’umore…”

“Già… ma fammi un favore, la prossima volta suona il campanello” disse, sapendo che avrebbe di nuovo usato la tessera sanitaria.

 

 

Se c’era una persona che conosceva tutti i negozi della città, quella persona era sicuramente Nikka. Mei non l’aveva mai vista raggiante come quel giorno, mentre la sua sciarpa lilla di tulle le svolazzava dietro. Non condivideva l’emozione, ma lo divertiva vederla così raggiante.

“Credo che gli spolverini siano chic, non trovi?” chiese a un certo punto felice guardando una vetrina.

Mei piegò la testa da una parte, e alzò le spalle. Boh, sì, erano carini… forse… ma in realtà non gliene fregava niente. Quella ragazza sarebbe andata d’accordo a chiacchierare con sua madre, che sapeva riconoscere il  cachemir e sapeva cos’erano le parigine.

“Penso che come cappotto per entrambi non sarebbe male…” disse guardando la vetrina con aria pensierosa.

Mei studiò la minuscola figura dell’amica, avvolta in un mongomeri  verde bottiglia, e una borsa di coccodrillo di un verde simile.

Una volta sua madre , quando ancora pensava di poter insegnare qualche cosa di stile al figlio, gli aveva raccontato che il verde aveva un sacco di sfumature. Certo ogni colore aveva delle sfumature, ma il verde ne aveva più di tutti gli altri, e tra di loro erano solite non abbinarsi al meglio. Però, secondo il suo modesto occhio profano, i suoi verdi si abbinavano bene tra loro. Gli venne da sorridere.

“Che c’è?” sbottò Nikka che si sentiva derisa. Mei sbatté le palpebre impaurito “Niente niente…”

“Non ti piace?” chiese alzando gli occhi al cielo.

Mei alzò le spalle. “Sinceramente?” . Lei annuì muovendo un po’ la borsetta di coccodrillo. “Non ho idea di che cosa tua stia dicendo” non poteva credere di averle risposto così, e si diede dello scemo, perché non stava zitto.

Nikka  rimase basita.

Mei avrebbe voluto fustigarsi, la prima ragazza che gli rivolgeva la parola, prima si lasciava trucidare, poi le diceva che non la ascoltava minimamente.

Ma alla fine lei sorrise.

“Almeno sei sincero… te ne frega qualche cosa di questo giubbotto?”

Mei alzò le spalle “Dei vestiti me ne è sempre fregato poco. Ma se Leonardo pensa che la sua Gioconda abbia bisogno di un giubbotto… beh…” .

Nikka sembrò contenta della sua risposta “Nikka pensa che per lei e Mei questo cappotto sia indispensabile!”.

Mei annuì “Bene… cappotto sia” .

Una volta entrati Nikka si fermò a civettare con il commesso.

Se sei ricco mandi il tuo Alfredo, o Ambrogio o Girolamo , a comprare quello che ti piace, ma se in casa si vive in due con uno stipendio da impiegato statale, difficilmente si può lasciare la mancia, come potrebbe fare il maggiordomo Alfredo. Bensì si civetta col commesso nella speranza che poi ti faccia lo sconto.

Mei aveva guardato intensamente il manichino su cui stava il giubbotto che aveva conquistato Nikka. Guardò la cintura, il colore beige chiaro, tutte le cuciture il modo, quasi frapposo, in cui cadeva sulle gambe del manichino.

Nikka gli trotterellò felice accanto “Allora cosa ne pensi?”

“Non è da donna?” chiese perplesso.

“No, è unisex, ma gli uomini non se lo mettono quasi mai perché la maggior parte sono privi di senso dello stile” . Non che la cosa lo convincesse molto … aggiunse poi “Non fa tanto maniaco dei giardinetti?”

“No, per essere un maniaco ti ci vorrebbe un impermeabile giallo e degli occhiali a goccia. Se eviti di mettertelo senza nulla sotto risolverai in fretta la situazione”

Mei alzò le spalle “O la và o la spacca”

 

Più tardi poco prima di cena qualcuno suonò alla porta. La signora Pavesi e i suoi figli si guardarono, e poi guardarono la porta. Chi poteva essere? O meglio, chi poteva suonare?

Non suonava più nessuno alla loro porta. La signora del terzo piano, quella coi dodici gatti  era solita bussare, Joyce entrava dalla finestra, la portinaia aveva la chiave e la spagnola che si doveva sposare invece iniziava a urlare prima ancora di essere arrivata al pianerottolo dei Pavesi.

Rachele alzò le spalle “Vado io!”disse stancamente.

Aprì la porta e sbatté le palpebre, stupita di trovarsi un’oca blu davanti. L’aveva riconosciuta, era quella che sia chiamava Sofia.

“Mi chiedevo se volessi venire a Maiorca con noi” chiese con un sorriso e senza preamboli. Rachele la guardò incerta, probabilmente Sofia non l’aveva mai vista, così, decisamente spiazzata.

“Certo che no, io non rimpiazzo nessuna cugina!” aveva sbottato, ma si vedeva che non era ben sicura di quello che stava succedendo, sbatté la porta per chiuderla, e si inciampò nell’aria  finendo a sedere sul pavimento.

La signora Pavesi fece capolino dalla cucina “Tutto a posto cara?”. Rachele alzò le spalle.

“Diciamo che sono viva” rispose abbacchiata. Non ci capiva più niente, prima impazziva per togliersi di mezzo le oche blu, poi non la invitavano in vacanza e impazziva, poi la invitavano e impazziva lo stesso. Non si capiva più.

Dall’altra parte della porta un’allibitissima Sofia se ne stava in piedi sullo zerbino. Si voltò lentamente verso la sommità della rampa delle scale, dove stava seduto un ridanciano Joyce. Si era messo lì perché Rachele non lo vedesse, quando avrebbe aperto la porta.

“ehm…” lei non sapeva cosa dire, cosa si poteva dire dopo che una senza quasi motivo ti sbatteva la porta in faccia urlando?

Joyce scese lentamente le scale che li separavano dicendo “Le ha fatto piacere… davvero…”

“Quindi verrà a Maiorca con noi?” domandò lei continuando a non capire, quando ormai lui le era arrivato affianco.

“Certo che no… ma le ha fatto piacere che voi glielo abbiate chiesto… ti va un panino?”

In casa Pavesi la situazione tra le due donne di casa si era pressappoco congelata, mentre Mei faceva la spola tra bagno e camera da letto, mentre si faceva la barba.

Rachele era rimasta a sedere a gambe incrociate davanti alla porta con aria spaesata, mentre sua madre sulla soglia della cucina la guardava con aria preoccupata.

D’un tratto la ragazza parve svegliarsi, e si voltò di scatto per parlare con sua madre che sobbalzò “Mi insegni a cucinare la millefoglie?” chiese di botto. Gli occhi della signora Pavesi si illuminarono “Tesoro, hai intenzione di darti all’arte culinaria…?”

Rachele boccheggiò “Non proprio mamma… ma se la vuoi vedere sotto questo aspetto sei liberissima”

 

Mei si era ritrovato a correre come un idiota, come aveva fatto a perdere così tanto tempo a scegliere cosa mettersi per la festa in villa del ragazzo di Nikka, e di non aver scelto niente?

Era uscito nudo, solo con il giubbotto e le mutande, e per di più era anche in ritardo. E come avrebbe spiegato a Nikka che nell’indecisione aveva optato per il nudismo?

Era diventato pazzo forse? Non era mai stato un ragazzo avventato, il Mei dell’anno prima non sarebbe mai uscito nudo. Il Mei dell’anno prima non sarebbe nemmeno uscito, ma quelli erano altri problemi. E a quel punto, mentre correva alla fontana dei giardinetti, dove si erano dati appuntamento, doveva anche inventarsi una scusa plausibile per il suo arrivo decisamente spoglio. Gli avevo rubato i vestiti? Era andato a fuoco l’armadio?

No, non esistevano scuse plausibili, o lontanamente intelligenti. Era un emerito idiota , e se lo ripeté per l’ennesima volta quando scorse Nikka in lontananza che lo aspettava accanto agli zampilli della fontana.

Rallentò la corsa, proprio frenando davanti a lei, che gli sorrideva raggiante, truccata perfettamente, col viso incorniciato da due lunghi ed eleganti orecchini d’argento.

Come avrebbe fatto a dire a una perfezionista simile che era arrivato fin lì decisamente nudo? Tra l’altro iniziava a sentire un discreto freschino, dato che ormai Natale era alle porte.

“Buona sera Mei” disse con voce vellutata allungando il collo per dargli un bacio sulla guancia.  

Mei si sentì avvolgere dal profumo delicato di Nikka.

Deglutì, intorpidito dal profumo. “Nikka devo dirti una cosa…” pronunciò faticosamente quando lei gli prese le mani per condurlo chissà dove.

Lei si fermò e gli strinse ancora le mani tra le sue, che erano freddissime. “Anche io e…”

“Sono nudo, non sapevo che vestiti mettermi e sono venuto in mutande” sbottò infine. Nikka lo guardò per qualche secondo sbattendo le palpebre perplessa.

Mei fu sicuro che stesse per esplodere.  Ma alla fine lei sorrise e rise perfino, in un moto irrefrenabile. Appoggiò la fronte al suo braccio, poi finalmente quando ebbe ripreso fiato e riuscì a guardarlo senza ridere troppo disse “Anche io, sono in mutande…!!” poi ricominciò a ridere senza sosta, a lui scappò un sorriso.

E così anche alle impeccabili come Nikka e Rachele succedevano cose strane, la prima che usciva di casa nuda, la seconda che crollava davanti all’invito di una ragazzina blu.

“Non ci posso credere! Siamo due disadattati!! Ora si che siamo dei maniaci dei giardinetti!!” esclamò come se non avesse mai riso così tanto in vita sua.

“E adesso?” chiese Mei con un sorriso un po’ preoccupato”Andiamo alla festa?”

Lei lo guardò alzando le sopracciglia “E cosa facciamo? Non ci togliamo il giubbotto per tutta la serata?”. Mei alzò le spalle dubbioso.

“Io dico che è meglio un bel posto all’aperto dove non sia disdicevole non togliersi il giubbotto!!” esclamò con Mei che si trovava assolutamente d’accordo.

E così Nikka disertò la festa di compleanno del suo nuovo ragazzo per andare a prendere un gelato alla baracchina dei gelati al parco, in compagnia del nerd, pseudo opera d’arte Mei.

Quando tornò a casa stava ancora ridacchiando, anche se aveva un freddo cane. Era stato buffo, Nikka gli aveva raccontato un sacco di cose su Chanel e colleghi, e lui non aveva capito assolutamente nulla, ma era comunque contento come una Pasqua. Andò dritto in bagno intenzionato a farsi una doccia calda, ma si trovò un po’ spiazzato, e fece un salto all’indietro quando vide sua sorella seduta per terra accanto al gabinetto. Lei lo guardò dal pavimento e gli sorrise “Ben tornato fratellino”

“Tutto a posto?” chiese lui perplesso. Sapeva della spiccata simpatia che sua sorella provava per gli alcolici , ma non l’aveva mai vista post vomitata. E di sicuro in quel momento non si sentiva in gran forma.

Si sedette come lei, con le spalle appoggiate alle piastrelle del muro e i piedi allungati lungo il pavimento, in modo che solo il water li dividesse.

“Sono andata a consegnare una torta a una ragazza blu… amo essere scortese, ma forse a volte esagero. Poi sono andata a bere in giro…”.

Mei sospirò guardandola, poi disse “Questi vestiti non li ha fatti mamma, vero?” indicando contemporaneamente ciò che indossava la sorella.

No, decisamente il top era troppo succinto per essere opera di mamma. Aveva quello e delle bretelle dorate, mentre in testa portava un cerchietto con un fiore nero. Di sicuro l’abbigliamento era ricercato, ma non erano cose di competenza della signora Pavesi.

Rachele alzò le spalle “Joyce” disse con semplicità senza guardarlo e muovendo un po’ la lattina che teneva ancora in mano.

“Joyce si mette quella roba?” Mei sapeva che l’amico irlandese aveva idee strane in quanto ad abbigliamento, ma non poteva certo immaginarselo conciato così.

“NO, SUA SORELLA!!” sbraitò subito Rachele. Mei si tranquillizzò, non fece in tempo a mettersi seduto per bene che sua sorella gli mise davanti la birra.

“La metti via? Non mi va che la mamma la trovi in giro domani mattina”.

Mei la guardò per un attimo poi trangugiò ciò che era rimasto nella lattina, per non aver nemmeno il tempo di mandarlo giù prima di sputarlo schifato nel water. Rachele si mise a ridere sguaiatamente rischiando di tirare una testata al gabinetto.

“Rimarrai astemio tutta la vita?”

Mei alzò le spalle “Temo di sì”. Rachele diede un’occhiata alla Gioconda con gli occhi censurati con lo scotch.

“Sai che dicono che la Gioconda del Louvre non sia la vera Gioconda? O meglio, quella che davvero ossessionò Leonardo è una donna più giovane, in un dipinto incompleto, ed è conservato da un collezionista anglosassone…”

Mei annuì in attesa che sua sorella dicesse qualche cosa d’altro, e infatti “Credo che sia ora di andare. Devo svelare altri misteri, buona notte stupido opossum” disse alzandosi barcollante e sparendo in corridoio.

 

 

Non stavo dormendo, come al solito, ma ero in un beato dormiveglia, con la guancia schiacciata contro il materasso e i capelli sulla faccia, quando la porta si aprì lentamente facendo entrare un filo di luce che mi illuminò la schiena.

“Che ci fai qui?” chiese Joyce tranquillo chiudendo la porta ed eliminando il filo luminoso.

“Non mi andava di dormire a casa mia” biascicai con la bocca storta per la posizione. Joyce alzò le spalle si tolse l’odioso pellicciotto arancione e si lasciò cadere a braccia aperte sul letto come un crocifisso instabile.

“Dimmi una cosa” dissi dopo un po’ di silenzio, lui muggì un assenso.

“Chi cavolo è Darcy?” sbottai tenendomi su la testa su una mano. Lui si girò stancamente verso di me.

“Mia sorella” disse per poi ricadere come in coma sul cuscino.

“No” sentenziai altera “Tu hai due sorelle, e si chiamano Jane ed Emily, come Jane Austen e Emily Dickinson” spiegai saccente.

Joyce ridacchiò “Te lo ricordi… no, Darcy è la figlia di mia madre, ha tredici anni. L’apparecchio per i denti , gli occhiali, le lentiggini e vive nella verde Irlanda”

“Darcy è un nome da uomo” dissi come per trovare per forza qualche cosa che non va per forza.

“E’ unisex…” ribadì lui. Sospirai.

 “Buonanotte idiota” dissi girandomi dalla mia parte del letto.

“Buonanotte stronza” rispose lui facendo lo stesso.

 

 

 

Grazie mille a chi ha letto e commentato, spero di non deludervi con questo nuovo capitolo, forse è un po’ troppo lungo, ma volevo metterci anche un po’ di paranoie by Rachele.

 

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Capitolo 14
*** Criminal ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Quattordicesimo

Criminal

 

 

 

 

Venni a sapere giorni dopo che Sofia, la mia oca blu , che se la spassava con Joyce, era finita col piede nella torta che le avevo lasciato sullo zerbino, mentre usciva di casa per andare a scuola.

Non mi arrabbiai. Forse la mia torta di scuse faceva schifo, forse era un veleno. Forse mi ero risparmiata l’ergastolo e la morte prematura di una ragazza sulla coscienza.

Una mattina qualunque di qualche giorno dopo decisi che era ora di andare a dar fastidio a Joyce. Nonostante mi fossi svegliata nel cuore della notte lo avevo risparmiato, non gli avevo telefonato nemmeno una volta.

Cominciava a fare freddo, uscii in strada mettendomi la sciarpa di lana simil-Chanel, che mia madre aveva sferruzzato a maglia per tutta la settimana, continuava a non piacerle e a rifarla, finché alla fine a forza di modifiche non assomigliava più neanche lontanamente a quella prodotta dalla nota casa di moda.

Ero abbastanza felice, ormai era natale, mancavano meno di due settimane, il che voleva dire che mancava meno di un mese al mio compleanno.

Ero indecisa se essere felice o meno del raggiungimento della maggiore età. Avrei potuto prendere la patente, ma allo stesso tempo avrei potuto essere anche perseguibile penalmente. Niente più sparaneve. E forse avrei dovuto anche rinunciare ai gavettoni di aranciata a pioggia, su Nikka.

No, sui gavettoni potevo ancora contare, non erano reato. Sparavo.

Non ci misi molto ad arrivare davanti alla porta di casa Cumoli, mi piegai e presi la chiave da sotto lo zerbino e la infilai nella toppa.

 

 

La porta di casa Cumoli si aprì svelandone un’impacchetta Rachele ostinatamente contraria al freddo invernale. Jane alzò appena la testa dal libro su cui stava studiando, per vederla. Ma la ragazza blu non le diede grande attenzione, bensì notò molto meglio Joyce e la sua oca Sofia che si stavano sbaciucchiando appassionatamente appoggiati allo stipite della stanza da letto di Joyce.

Non ci misero  molto ad accorgersi di lei, probabilmente la sua presenza era stata svelata da una folata d’aria particolarmente gelida.

Sofia si voltò a guardarla rivolgendole un sorriso raggiante, nell’ultimo periodo non la trattava neanche troppo male, rispetto ai vecchi standard di antipatia e tortura verso le oche blu.

Anche Joyce le rivolse un sorriso, ma non era raggiante , non era sibillino, sembrava più un ghigno.

Rachele che nel frattempo era riuscita a togliersi la giacca senza che nessuno se ne accorgesse si avvicinò con passo deciso trovandosi alla fine a dividerli, poi guardo Sofia le sorrise e disse “Niente di personale”.

Poi prese Joyce per il colletto della camicia (insolitamente sobria) e si alzò sulle punte per dargli un bacio. Senza allontanarsi ne fare alcunché che potesse permettere a Sofia di sbalordirsi ulteriormente o dire qualche cosa , roteò sulla punta di un piede, e se lo portò via, mentre Joyce per nulla perplesso si chiuse la porta alle spalle. Ed entrambi sparirono in meno di venti secondi.

Sofia si ritrovò nuovamente perplessa con una porta sbattuta davanti senza aver nulla da dire.

Jane del canto suo non aveva dato granché peso alla scena , aveva invece continuato a studiare il suo libro grosso come un elenco telefonico, sottolineandolo con una matita quasi spuntata.

Dopo un po’ che Sofia stava lì impalata senza sapere cosa fare la ragazza alzò la testa e si abbassò gli occhiali da lettura per guardarla meglio.

“Era seria quando diceva che non era nulla di personale… non ce l’ha con te perché vai con Joyce” sbuffò con un modo di fare strano, quasi divertito, prima di tornare a dare attenzione al suo tomo.

“Ma se…” cominciò la ragazza blu.

Jane fu più veloce, più brava più esperta, insomma conosceva nei minimi particolari la situazione.

“Se ce l’hai con lei è un altro conto. Ma ti assicuro che non ne caveresti in ragno dal buco. Forse se lo merita, forse no. Chi lo sà…”

Sofia rimase come al solito stupita, non erano solo quei due a essere strani, anche la sorella di Joyce non scherzava. Era magra, non molto alta e con due lunghe trecce corvine che le ricadevano sul petto, aveva un’aria studiosamente trasandata e la matita in bocca mentre guardava con interesse il suo libro.

Sofia raspò un poco nella borsa e vi estrasse un bigliettino colorato che poi mise tra il viso di Jane e la sua lettura.

“Cos’è?” chiese lei sobbalzando, senza neanche darsi il tempo di leggere.

“E’ una festa. Nikka l’ha chiamata Criminal. Mi sembra carina, mi chiedevo se tu ed Emily voleste venire” disse con aria un po’ intimorita e dolce. Jane ridacchiò, era così carina che avrebbe voluto adottarla.

“Potremmo venire, che roba è?” si informò.

“E’ una specie di festa in tema guardie e ladri… gli inviti li ho avuti da Millie” concluse con una smorfia, a volte per divertirsi bisognava ascendere a patti col nemico.

Jane si grattò il mento “Credo che a Emily potrebbe piacere. È il suo genere di follia, crede sempre di poter adescare un qualche ricco milionario americano a queste feste in simil maschera. Non ho mai avuto il cuore di dirle che è seriamente improbabile… credo ci saremo”

Sofia si dondolò ancora sui piedi, e la ragazza non disse nulla immaginando che fosse lei a voler parlare a qual punto.

“Avrei voluto chiedere anche a Rachele… ma non credo che voglia venire a una festa di Nikka… o almeno non venirci con l’invito. Di solito si imbosca a quanto ne so” disse senza guardarla, e roteando gli occhi da un ragno in uno spigolo al barattolo che conteneva le erbe per le tisane.

Jane alzò le spalle “Glielo chiedo io, mi deve un favore, qualche giorno fa si è trangugiata una mia intera millefoglie che mi ero preparata per colazione, e mi è toccato mangiare un toast coi sottaceti. Perbacco che schifo! Chissà chi è che li compra quei cosi odiosi che impestano il frigo, sono davvero…”

Sofia lasciò la ragazza con le trecce al suo monologo contro i sottaceti, e uscì silenziosamente senza essere notata.

 

Mei si grattò la tempia, entrando nel parco cittadino camminando un po’ storto. Quella maschera gli dava fastidio, tra l’altro gli cadeva sempre sugli occhi e non vedeva più nulla. Si sentiva un po’ spaesato c’era un capannello di gente che attorniava un bar in vimini e beveva alcolici, non vide nessuno che conoscesse, a parte una ragazza pallida che era in classe con lui, ma con cui non parlava mai. Di Joyce, Rachele, Nikka , Vanessa, Millie e delle oche blu neanche l’ombra.

Non capiva in che razza di festa fosse capitato. Il parco era pieno e c’era un sacco di gente che si muoveva sul prato o si imboscava dietro ai cespugli.

Conosceva quel posto, suo padre ce lo portava sempre da piccolo.

Decise di andarsi a sedere. Non è che avesse molto da fare in quel momento, anche perché probabilmente se al bar ambulante avesse chiesto un’aranciata si sarebbe fatto ridere dietro. Si andò a mettere su un muretto in mattoni rossi per gran parte coperto di edera, e un po’ rovinato dal tempo, doveva essere vecchio. Suo padre aveva detto che c’era già quando lui era piccolo. Probabilmente l’avevano costruito poco dopo la seconda guerra mondiale.

Rimase seduto guardandosi in giro. Si appoggiò con le braccia al bordo dietro del muretto dondolandosi un po’ guardando in alto, le gambe erano un poco piegate. Era buffo, poco prima si sentiva troppo alto per passare inosservato. Non si era mai chiesto come aveva fatto a passare inosservato a così tanta gente dall’alto del suo metro e ottantacinque.

E infatti quella sera non successe, non aveva ancora iniziato a sentire freddo al sedere che una ragazza bionda tinta ancheggiò verso di lui.

“Ciao” disse con aria gentile, tenendo le gambe strette e piegandosi un po’ da una parte come se fosse una bambina.  “Posso sedermi ?” chiese gentile stringendo il bicchiere usa e getta che aveva in mano.

Mei sembrò perplesso per la domanda e ci mise qualche secondo a realizzare la situazione “Oh, sì … certo,puoi sederti” aveva risposto infine, alla ragazza che portava un cappello blu molto simile a quello delle forze dell’ordine.

Mei tornò a farsi i fatti suoi. Alzò nuovamente gli occhi alla ricerca dell’orsa maggiore. In realtà in astronomia non era ferratissimo. Cioè, se si parlava di teoria si era grandemente informato in uno dei suoi interminabili pomeriggi di solitudine, ma se bisognava cercare stelle realmente in cielo la situazione si faceva leggermente più complicata.

Era ancora perso nel disquisire tra astronomia teorica e pratica che la ragazza bionda parlò di nuovo.

“Come ti chiami?” . Probabilmente non aveva alcuna intenzione di sedersi soltanto come aveva innocentemente pensato Mei.

“Mei” rispose lui stupito, navigava ancora dei meandri dell’innocenza nei quali l’arte dell’abbordaggio era ancora sconosciuta.

Lei sorrise, non era una di quelle ragazze fatali e intraprendenti, e non era neanche Nikka. Mei in un momento di pura adolescenza pensò che forse quella ragazza potesse essere alla sua portata.

“Io sono Elena” disse lei con un sorriso “Non ti ho mai visto, sei della scuola?” chiese nel disperato tentativo di fare conversazione.

“Me lo dicono spesso. Comunque sì, sono della scuola” rispose lui con un sorriso dolce. Forse avrebbe anche potuto parlarci con quella ragazza.

“E’ strano”  continuò lei, come per dire che Mei non era uno che poteva passare inosservato.

E a lui fece infinitamente piacere.

“Perché è strano?” chiese. Se la ragazza voleva fare conversazione allora avrebbero fatto conversazione.

Elena ebbe un sussulto, probabilmente pensò di essersi messa ai ferri corti da sola.

 “Beh, ecco perché mi sembra che tu non sia una persona che passa inosservata”blaterò senza chiarire nessun quesito. Mei ridacchiò.

“Vuoi?”  chiese lei cercando di spostare l’attenzione dalla sua risposta al bicchiere che teneva in mano.

“Oh, no grazie” declinò lui con un sorriso tirato. Al 99,9% era possibile che il contenuto del bicchiere fosse alcolico.

“Non ti piace la vodka alla pesca?” chiese lei guardando dentro al bicchiere come per controllare che non ci fosse un insetto morto.

“Non simpatizzo” affermò annuendo, e la maschera gli cascò un poco. Lei annuì, e lui preferì non specificare che non simpatizzava per nulla di lontanamente alcolico. Non gli stavano neanche tanto simpatici i babà.

“Allora tu da chi verrai acchiappato a mezza notte?” chiese lei ritrovando l’entusiasmo. Mei la guardò stralunato.  Chi è che doveva acchiappare chi?

Si avvicinò un poco al viso della ragazza e disse piano “Eh?”

Elena lo guardò perplessa poi rise. “Non hai mai giocato a guardie e ladri?”

Mei boccheggiò, a dire il vero no, ma sapeva che era un gioco per bambini ed era consapevole del fatto di avere una maschera in volto. Come ladro non era credibile, ma come cliché non era male. Anche se forse una maschera del genere faceva più Zorro. Ma preferì non raccontare tutto alla ragazza bionda che gli stava davanti.

Fece una risatina che avrebbe dovuto essere disinvolta ma che probabilmente non lo fu e disse “Certo che lo so che cos’è, i poliziotti inseguono i ladri no?”. Elena sembro rincuorata. Fece un sospiro, si era avvicinata al ragazzo mai visto perché le sembrava carino, ma era un pochino strano. A partire dal fatto che non aveva fatto una piega quando lei gli aveva chiesto di sedersi accanto a lui. O almeno, l’aveva bellamente ignorata. E si era rimesso col naso all’insù a guardare chissà cosa, e a quel punto sembrava cadere dalle nuvole mentre parlavano di guardie e ladri.

Era ovvio che non era un gioco per bambini , ma una scusa idiota per imboscarsi. Si chiese se non fosse meglio desistere, e andare dal più volgare Palotti , lui almeno aveva i piedi per terra, e poi tempo prima avevano avuto una specie di storia più o meno.

“Quindi, chi vuoi che ti acchiappi?” continuò.

“Beh” fece una pausa che a Elena sembrò maliziosa, ma era solo un momento di indecisione “Non lo so” aggiunse avvicinandosi un po’.

“Potrei acchiapparti io se vuoi” disse lei mordendosi un po’ le labbra. Una spia rossa si accese nel suo cervello. Bene, probabilmente quello era uno dei momenti che Nikka stava da tempo aspettando. La sua entrata in società! Con tanto di flirt con … con… ah sì, Elena.

Mei strizzò gli occhi e disse un po’ titubante “Se vuoi” . Elena sorrise e si alzò lentamente.

“Allora a dopo , Mei” fece lanciandogli un bacio. Mei fece un sorrisetto un po’ teso e la salutò con la mano.

E adesso che doveva fare? No era sicuro di quello che stava provando. Era impaccio, era esaltazione.

Quando quella ragazza gli aveva chiesto se poteva sedersi accanto a lui, lui non aveva certo pensato che ci volesse provare con lui… e invece…

Era la prima volta che una ragazza ci provava con lui. A parte Vanessa e Millie vestite da odalische che non erano proprio il massimo. E Nikka che lo aveva baciato, ma non era esattamente la stessa cosa. Per lei era più un oggetto. 

E indiscutibilmente a lui piaceva da morire.

Oh, e che cavolo! L’aveva detto ad alta voce, finalmente. Anzi, pensato ad alta voce. Sospirò. Forse sarebbe stato decisamente più felice se quell’Elena fosse stata l’imperscrutabile ed esaltata Nikka.

Sospirò e mise le mani a coppa per poi appoggiarci il mento. E sbuffò quando la sua maschera difettosa gli scivolò sul naso.

Si chiese cosa poteva fare con quella ragazza. Sicuramente Nikka avrebbe apprezzato la sua prima conquista. Conquista? Forse non era proprio una conquista , dato che aveva fatto tutto da sola. Forse avrebbe solo dovuto lasciar andare gli ormoni e stare tranquillo, ma decisamente non era il suo campo. Essere baldanzoso era più una caratteristica intrinseca di Joyce. Ecco, si chiese cosa avrebbe fatto Joyce al suo posto. E proprio in quel momento passò un impellicciato e mascherato Joyce che tubava con una ragazza blu. Più bassa di sua sorella, con i pantaloni da centro commerciale e il sedere un po’ piatto. E decisamente meno ostile nei confronti dell’impellicciato. Storse il naso, mentre i due si imboscavano dietro a un cespuglio. Mei sbatté qualche volta le palpebre e resistette all’impulso di seguirli, pensando che probabilmente avevano da fare cose private. Si alzò e si avviò nel buio del parco con l’intento di perdersi.

Sofia trascinò Joyce dentro il cespuglio tirandolo per i bordi del pellicciotto arancione e gli stampò un bacio sulle labbra, mentre lui l’abbracciava e la stringeva a sé.

Le passò una mano tra i capelli, era bellissimo quel blu elettrico. Gli venne da ridere pensando che indirettamente l’aveva scelto lui.

Sofia si alzò sulle punte passandogli le labbra sugli occhi, Joyce scese lentamente sedendosi sul prato invernale, con la ragazza blu in braccio.

Aveva la schiena bollente, tutto il contrario delle sue mani. Era decisamente freddo, ormai era Natale. Sofia gli diede un altro bacio a palpebre serrate, Joyce seguì il suo esempio, a occhi chiusi era tutto molto meglio era come se non fossero lì, era come se non fosse lei.

Ma probabilmente lei non la pensava così, perché si allontanò abbastanza da poterlo guardare bene, e Joyce si sentì costretto a seguire il suo esempio.

Lei, ancora seduta sulle sue gambe lo guardava con aria stralunata. E disse quello che lui non avrebbe mai voluto sentirsi chiedere.

“Tu mi ami?”. Joyce sentì il respiro fermarsi a metà della trachea, e tornare su. Si può vomitare un respiro? Evidentemente sì. Forse fece una smorfia, involontaria, senza accorgersene. Non aveva intenzione di ferirla, ma neanche di prenderla in giro.

“Sei sicura di volerlo sapere?” domandò infine guardingo. Sofia sapeva già la risposta alla sua domanda. Ma come si suol dire , la speranza è l’ultima a morire. Bene, e allora che la speranza era morata cosa rimaneva da fare?

Joyce vide lo sguardo di Sofia incupirsi ed abbassasi, mentre appoggiava la testa alla sua spalla. Il cappello da guardia scivolò stancamente per terra sul terriccio. Joyce le guardò i capelli, dato che erano l’unica cosa visibile dalla sua posizione. Sospirò, in un sol colpo aveva fatto star male una ragazza e perso uno dei suoi passatempi migliori. Dondolò un po’ il ginocchio mentre Sofia rimaneva immobile seduta in braccio a lui, con il viso sprofondato nel suo petto.

Si sentiva maledettamente in colpa. E a qual punto rimaneva solo una cosa da fare : ricucire i tagli, senza stringere troppo.

“Sofia…” sussurrò “ti va un panino? Ce ne andiamo di qui e facciamo una passeggiata…”.

Sofia si raddrizzò e lo guardò asciugandosi lacrime immaginarie. Poi annuì.

Furono visti pochi minuti dopo dalla mandria di guardie in attesa dello scoccare della mezzanotte, dirigersi verso il centro storico, mano nella mano.

La ragazza del bar guardava perplessa quel capannello di ragazzi con i capelli da poliziotto. Non le era ben chiaro il senso di quella pagliacciata, in particolare a gestire i giochi c’era una ragazza tonda e mora decisamente poco attraente che rispondeva al nome leziosissimo di Millie.

Alzò le spalle e si disse che se si divertivano così potevano fare, l’importante era che la pagassero.

Nikka aveva distribuito cappellini e mascherine tutto il giorno. La sua festa Criminal doveva essere un colpo di genio, e invece perché era così tesa. Si mordicchiò le unghie. Non era una cosa affatto elegante, si disse, ma era decisamente nervosa. Aveva dato la tua mascherina a Mei? E lui era venuto? Si era trovato un ragazza? Si era già imboscato con qualcuna?

No, conoscendo Mei sicuramente no.

Chissà se qualcuno l’aveva puntato. Qualcuno a parte Vanessa che era esaltatissima all’idea di partecipare. No, Vanessa era una ladra, era già sparita.

Scorse lo sguardo sulla folle di liceali, e scorse Pallotti inguaiato da guardia. L’aveva fatto apposta, in modo che non potesse provarci con lei in modo legale. Non avrebbe potuto palpeggiarla con la scusa di doverla acchiappare in quanto ladra.

Il premio in palio per chi portava alla base più ladri era un walkman. La base era costituita da una scocciatissima Millie con megafono incorporato, che si ritrovò finalmente a fare il conto alla rovescia.

Nikka si guardò ancora in giro. Joyce non c’era , l’aveva visto allontanarsi con una delle oche blu, (forse non era gay allora) ma la cosa non le interessava granché. Se conosceva bene Rachele Pavesi si era accaparrata una maschera da ladra, e in qual momento se ne andava in giro per il parco fumando. Le sorelle Cumoli cinguettavano allegramente tra la folla mentre Millie urlava dieci.

C’erano le pettegole con i loro cappellini da guardie, quella sera sarebbe stata ghiotta di pettegolezzi, ne erano sicure.

sette…

C’era anche una ragazza bionda con le sue amiche che chiacchierava riguardo a un tipo timido, con cui quella sera aveva una specie di appuntamento combinato. Si chiamava Elena se non si sbagliava.

Cinque…

Spuntò dal nulla Alberto. “Nikka, anche tu sei qui? Allora come faccio ad acchiapparti se sei una guardia anche tu?”. Nikka gli diede un bacio accanto alle labbra.

“Mi sa che ho sbagliato! Con tutte queste maschere e cappelli” fece una risatina maliziosa.

Tre…

“Ci vediamo dietro al vecchio bar” gli sussurrò all’orecchio facendolo sorridere. Alberto la prese per mano e le sorrise strizzandole l’occhio, mentre si allontanava nella folla.

Due…

Alberto sparì e Nikka rimase sola nel caos con tutti che spingevano come se fosse stata una corsa alle olimpiadi.

Uno…

Nikka si sistemò il cappello sulla testa chiedendosi ancora dove si fosse cacciato Mei. Come ladro di sicuro non era un granché.

“Via!” decretò Millie decisamente mal disposta dal fatto di non poter partecipare, nessuno si interessò al suo disappunto e tutti partirono e corsero a perdersi per il parco, Nikka s’incamminò lentamente verso il bar.  Vanessa correva facendo urletti eccitati per attirare l’attenzione. Ovviamente tutti la evitarono come la peste.

Si chiedeva perché diamine organizzava quelle feste. Tanto lei non aveva bisogno di tutto quello per trovare un ragazzo, o un passatempo per una sera. Bastava che lo volesse e si trovava qualcuno. Anche quando non lo cercava,  come era successo ad esempio con Alberto. Le era capitato tra capo e collo senza che lo avesse chiesto.

Ed era simpatico, si certo. Era un signore. Aveva classe. Era intelligente.  E allora perché era scocciata?

Non ebbe il tempo di rispondersi, perché qualche cosa la trascinò dietro una vecchia colonna degli anni cinquanta. Nikka finì addosso ad Alberto che l’aveva tirata ed entrambi finirono per terra. Alberto si mise a ridere e le stampò un bacio sulle labbra.

Non molto più lontano un ragazzo biondo e smilzo aveva acchiappato una ragazza blu vestita di nero. Lei sorrideva mentre si sedevano sul davanzale di pietra che dava sulla fontana. La notte era illuminata, ma loro le davano la schiena.

“Come ti chiami?” aveva chiesto lui che non era sicuro di averla già vista a scuola. Rachele sorrise ancora stringendo la bottiglia di vodka per il collo.

“Cosa ti importa?” chiese lei avvicinando il volto mascherato a quello del ragazzo “Ti basti che ho portato da bere”.

Il biondo sorrise e la strinse a sé. Oh, quella doveva essere sicuramente la Pavesi, i capelli blu ce li avevano anche altre ragazze a scuola, ma quella era sicuramente lei. Anche se non la conosceva personalmente aveva una certa fama a scuola.

Ridacchiò. Voleva dire che quella sera avrebbe potuto godere delle grazie della Pavesi. Altro che quell’impellicciato che girava con lei, ma gli piacevano gli uomini!

Poi Rachele gli diede un bacio, e lui decise che pensare a Joyce era una perdita di tempo, finché era in simile compagnia.

Poco più sotto stava Mei perplesso, che camminava avanti e indietro vicino alla fontana. Non aveva neanche notato sua sorella indaffarata in faccende poco raccomandate dalla Sacra Rota.

Che doveva fare? La sua presenza lì sembrava una presa in giro! E chi se ne fregava se Nikka voleva che lui avesse successo con le ragazze. Non era sicuro di voler baciare o fare altro con quella ragazza. Era carina, sì era decisamente carina, ma non è che gliene fregasse granché.

Si sentiva un po’ come quelle ragazzine che aspettano il principe azzurro, e non come il ragazzo sfigato che non aspetta LA ragazza, ma una ragazza, una qualunque.

Lui avrebbe potuto benissimo accontentarsi di una ragazza carina qualunque. Insomma, non gli sembrava che Joyce e Pallotti si facessero tanti problemi a scegliersi la ragazza con cui spassarsela una sera!!

I suoi pensieri furono interrotti da un “Preso!” e da due dita puntate sulla nuca che dovevano stare a sostituire una pistola. Di tutta la risposta la sua mascherina cedette e gli cadde sul naso.

“Girati lentamente con le mani in alto!” ordinò lei ridacchiando. Mei accecato dalla sua stessa maschera alzò le braccia e sbuffò stancamente prima di voltarsi verso di lei.

Lei scoppiò a ridere più forte di prima e gli spostò la maschera mettendogliela sulla testa, per poterlo vedere meglio.

Mise le labbra a cuore e piegò la testa mentre Mei che non aveva idea di che stato d’animo avere rimaneva fermo a mani in alto.

Elena sembrò pensierosa “Sei carino anche senza maschera” fu il verdetto. Ecco, cosa si dice a una ragazza che ti fa un complimento? Bisogna scherzarci su? Bisognava ricambiare? Nikka non glielo aveva mai detto.

“Grazie” disse infine con un mezzo sorriso. Mei avrebbe solo detto grazie. E Mei non era decisamente Nikka. Ed era solo colpa di Nikka se ora era lì con una tipa mai vista che non aveva l’aria di voler fare una chiacchierata.

“Hai preso qualche cosa da bere?” chiese lei. Mei alzò le spalle e abbassò le mani. “No”

“Tu non ami bere, vero?” concluse lei prendendolo per mano, mentre insieme si avviavano del parco.

“Mi accontento dell’acqua…” rispose lui guardandola dall’alto. Era decisamente più bassa di lui, non bassa come Nikka, ma di sicuro più bassa di Rachele.

Era surreale, non aveva mai avuto un inconto ravvicinato del genere con una donna che non fosse stata sua sorella, sua madre o Nikka.

Elena chiacchierava, stava quasi parlando da sola, mentre Mei si era perso nei suoi pensieri, era indeciso. Cosa fare? Scappare? Parlare con lei? Non sembrava avere bisogno di lui per mandare avanti la conversazione.

Mei le strinse la mano, l’avvicinò a sé e le diede un bacio, chiudendo gli occhi e senza respirare, tirandosela di forza addosso.  Elena scambiò il tutto per un impeto di passione, e non per il sacrificio clinico che si fa prendendo una medicina.

Per Mei fu più o meno così. Non poteva essere così orribile baciare una ragazza che non fosse Nikka. Era la prova nel nove, così alla fine decise anche di respirare, e le cose andarono meglio. Non era nulla di esaltante, ma non era neanche così terribile. Più che altro la sensazione fu di calore umido. Non di più , non di meno.

Elena gli sorrideva addosso e lo abbracciava. E forse era andato tutto bene.

Altrettanto bene non era andato per qualcun altro, che appena all’inizio della serata se ne stava già tornando a casa, anche perché fuori non c’era più molto da fare.

“Sai” disse Joyce dopo un po’ di tempo che camminavano per mano in un vicoletto poco illuminato “tu lo potresti trovare un ragazzo che ti ama…”

 Sofia alzò gli occhi dalle scarpe, dove erano puntati “… e che non ti usa…”aggiunse alzando un sopracciglio, alludendo a sé stesso.  Sofia capì benissimo l’allusione, salendo i tre gradini che sopraelevavano l’entrata del suo condominio dalla strada.

“Se solo evitassi di cercare di emulare qualcun altro. Per esempio con dei capelli blu”continuò, facendola sussultare. Le faceva male, ma sapeva che non lo stava facendo per cattiveria e che era tristemente vero, che lui l’aveva usata, che lei emulava Rachele e che entrambe erano cose stupide.

Non ebbe nulla di ribattere quindi disse semplicemente “Grazie per il panino”.

Joyce sorrise avviandosi per la stradina male illuminata “E’ stato un piacere cara…”.

La ragazzina blu rovistò nella borsa e ne estrasse la chiave di casa, poi gli venne in mente qualche cosa e si rigirò a guardare l’amico arancione. Ormai era quasi arrivato alla fine della strada.

“Joyce!”

Il ragazzo interessato si voltò verso di lei perplesso, non si aspettava che avesse qualche cosa da dirgli ancora, forse voleva insultarlo per averla usata, e per essersi esplicitamente imboscato con Rachele davanti ai suoi occhi, e invece “Spiegami come va tra te e Rachele” chiese. Joyce sbatté le palpebre stupito per la domanda che di certo non si aspettava gli porgessero. Non gliela aveva mai posta nessuno, così finì per rispondere nell’unico modo possibile “Va esattamente come hai visto questa mattina”

Sofia fece una smorfia “E’ una cosa un po’ confusa” ammise. Joyce incredibilmente serio rispose soltanto “Infatti è esattamente così” .

Le regalò un ultimo sorriso poi girò definitivamente i tacchi diretto al parchetto cittadino.

Quando arrivò il walkman era già stato vinto da un tizio brufoloso che non era riuscito ad acchiappare nessun altro che Vanessa, e non aveva perso tempo ad imboscarsi con lei. Erano l’unica coppia ritornata, gli altri erano indaffarati in altre faccende, evidentemente.

“Ma questo non è veramente un gioco a premi!” strillava Vanessa disperata “Le coppiette dovrebbero imboscarsi!!”

“Non mi imboscherei con te neanche se mi pagassero!” rispose lui, che probabilmente non era un gentiluomo.

Joyce passò avanti ridacchiando, lasciando Millie a separarli, mentre Vanessa cercava di picchiare il tipo brufoloso.

Vide Nikka e Alberto sbaciucchiarsi dietro a una colonna del vecchio bar, entrambi con il cappello da guardia in testa. Alla faccia delle regole, anche le guardie si divertivano!

Ridacchiò passando avanti e si inciampò prontamente in qualche cosa che poi si dimostrò essere un groviglio indistinto tra sua sorella Jane e un tizio con gli occhiali che non aveva mai visto.

“Hai visto Emily?” chiese Joyce completamente a suo agio. Di solito la situazione avveniva al contrario, ma in famiglia non si preoccupavano molto di certe cose.

“Sarà andata a cercarsi un marito ricco!” sbottò Jane sperando che suo fratello la lasciasse in pace.

“Niente di più facile” ribadì lui andandosene e lasciandoli soli.

Poco lontano da lì Elena non  voleva saperne di lasciar andare Mei, a lui non dispiaceva la situazione, non è che si fosse abituato, ma non è che gli facesse del tutto schifo. Si sentiva una persona normale, era contento , erano baci disinteressati.

Ecco, e se quell’Elena si fosse presa sentimentalmente? Non ci aveva pensato! E adesso  che fare? Ancora panico ed ansia immotivata mentre Elena lo stringeva sempre più forte.

Poi la libertà arrivò più che inaspettata. Elena fece un sorrisetto.

“Scusa è poco romantico… ma devo andare in bagno…” ammise tra il malizioso e il vergognoso.

Mei non trovò nulla di malizioso nei bisogni fisiologici, ma comunque sorrise e le indicò la strada più breve per  arrivare al bagno pubblico. Elena si staccò da lui e sparì nel buio dopo avergli fatto promettere che sarebbe rimasto lì immobile.

Mei si appoggiò al muro pieno di muschio che gli stava alle spalle. Sospirò. Non aveva idea di quello che avrebbe dovuto fare. Si chiese perché non si poteva comportare come tutti, senza pensare per una volta alle conseguenze. Era ovvio che tutto ciò fosse impraticabile. Ed era davvero buio, e tra l’altro la mascherina continuava a cadergli sul naso.

Non passò molto tempo che sentì uno scalpitio, Elena era già tornata?

Ma non fece in tempo a fare niente perché un altro bacio lo azzittì definitivamente. Si sentì stringere, mentre la ragazza (sì, sì era una ragazza!!) lo tirava giù al suo livello, era troppo alto per lei, da in piedi.

e… beh… ci mise un po’, ma il profumo era inconfondibile. Nikka, Nikka,Nikka,Nikka,Nikka… !!

Se fino ad allora era stato amorfo, probabilmente gli venne un accidente e gli sembrò che gli avessero rovesciato addosso qualche cosa di estremamente bollente.

“Nikka?” disse senza fiato. E lei si stacco da lui allontanandosi di diversi passi,con lo scatto di chi ha appena visto un fantasma.

“MEI!” disse lei.

“NIKKA!!” ripeté lui.

“Ma tu non sei Alberto!” strillò. Mei si guardò in giro come a dire al pubblico: l’avete visto tutti! Io non ho fatto niente! È  colpa sua!!

“AH…ah…” Nikka era evidentemente imbarazzata “Ero andata a cercare Alberto, che era andato a prendere da bere, la maschera e i buio… mi sono confusa, pensavo che fossi Alberto!”.

Mei aveva il fiatone e Nikka gli occhi sbarrati.

“Facciamo finta che non sia successo nulla!” fece con voce più stridula del solito, Mei non la vide mentre se ne andava perché gli cadde di nuovo la maschera da ladro sugli occhi.

Joyce, che si stava elegantemente svuotando la vescica dietro a cespuglio di bacche secco, sbadigliò e al termine della scena ebbe solo da dire, non visto un giustificatissimo “Mah”.

Non ebbe il tempo di dire altro  anche perché  qualche cosa di non troppo pesante, ma anche non troppo leggero gli finì addosso ed entrambi caddero per terra tra i rami secchi e il terriccio, entrambi urlando come due indemoniati.

“Maniaco!” urlò Elena che si era trovata a stare seduta sulla sua schiena, e a colpirlo con la borsetta.

“Non ti vergogni a girare nudo il un parco pubblico?!!”

“Ma io stavo facendo la pipì!” piagnucolava il povero irlandese tra i rovi e il terriccio.

Dopo un po’ di sputi, pugni e calci finalmente la ragazza bionda si decise a lasciare agonizzante Joyce nel suo cespuglio e a tornare dal suo ladro.

Il suo ladro però non sembrava stare molto bene, dato che quando lei si avvicinò per dargli un altro bacio lui si scansò bruscamente, blaterando scuse idiote sul fatto che dovesse assolutamente andare a casa.

Aveva lasciato il gas aperto, il nonno chiuso in cantina, la mamma addormentata sulla pentola a pressione, il gatto che si voleva mangiare il canarino.

E scappò così praticamente di corsa con quella stupida mascherina da ladro in tasca.

Elena lasciò cadere la borsa per terra e si disse che avrebbe dovuto abbordare Pallotti che era di sicuro una persona molto più rozza ma anche più normale.

Si voltò presa dall’impulso di menar le mani, ma Joyce se l’era già data a gambe fiutando il pericolo.

 

 

Ero da sola a guardare la luna piena quando sentii dei passi che si avvicinavano alla mia panchina.

Appoggiai la bottiglia di vodka vuota accanto a me.

Joyce si lasciò cadere stancamente vicino a me con le mani in tasca.  “Hai fatto baldoria sta sera?” chiese occhieggiando la bottiglia. Grugnii. “Bah, un idiota se l’è scolata tutta e poi si è addormentato!”

Joyce fece una risatina “Allora non sono l’unico ad essere andato in bianco sta sera!!”

Non lo guardai e mi concentrai sulla luna , che da quasi piena illuminava quasi a giorno il parco.

Ormai tutti se ne erano andati a casa, o in una camera a ore, ma comunque a tergiversare nel prato erano rimasti in pochi a parte noi.

“Sai, credo che a Nikka piaccia tuo fratello…” disse poi Joyce. Irrigidii la mascella e assottigliai gli occhi, rimanendo senza guardarlo. “E credo che anche a Mei non dispiaccia Nikka”

Infine sbuffai e mi decisi a guardarlo in faccia “Le cattive notizie non vengono mai da sole eh?”

Joyce sembrò divertito e alzò le spalle.

Mi alzai “ Andiamo a casa che domani devo andare a sistemare il gabinetto della Spagnola!”. Mi seguì trotterellando allegro, mentre io mi toglievo la maschera e me la mettevo in tasca.

 

 

 

 

Ed eccoci giunti al quattordicesimo capitolo!!! Ringrazio tantissimo le quattordici persone che hanno inserito la storia tra i preferiti, e le otto che l’hanno messa tra le seguite. Infine ovviamente anche chi ha commentato:Suni(Beh, che si sposino non credo, magari però qualche cosa d’altro…e per Nikka stai tranquilla nessuno mi ha ancora detto che gli sta simpatica!!), Lidiuz93(Oh, ti ringrazio per la tua perseveranza, i tuoi commenti sono sempre puntualissimi.. *.*),DiraReal (*.* grazie mille!! E’ bello sentirselo dire!!) e Novembre( Mei è un po’ pirla, ma poi prima o poi ce la farà a concludere qualche cosa!!! Speriamo!!).

Faccio notare una cosa: tempo fa avevo detto che Mei e Rachele erano nati lo stesso anno ma non erano gemelli. La questione dell’età in questa storia però non mi ha dato pace, quindi ho deciso che Rachele è nata nel gennaio dell’anno dopo rispetto a Mei. Quindi ha un anno in meno di tutti gli altri, ma ha fatto la primina, quindi anche se ha diciassette anni è al quinto anno di superiori come tutti gli altri personaggi! E’ per questo che in questo capitolo dice che a gennaio arriverà alla maggiore età!!

Grazie a tutti per avermi sopportato, vi devo avvisare, come ho scritto sulla mia pagina, che sono molto impegnata con una storia inedita a quattro mani e come se non bastasse mi è anche venuto male a una mano, quindi gli aggiornamenti andranno un po’ a rilento! Prometto che mi impegnerò!!

 

Un Bacio a tutti!! AKi_Penn

 

 

 

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Capitolo 15
*** L'amnesia del Puzzle ***


(Vi avverto prima di cominciare che questo capitolo è assolutamente inutile, avrei potuto saltarlo,ma volevo scriverlo, è stato complicato e forse non è neanche venuto un granché. Ho idea che le parti allegre siano tristi e quelle tristi troppo leggere. Di solito non scrivo cose malinconiche, non mi piace, ma temo che questo capitolo sia così. Spero che possiate apprezzarlo lo stesso. Vi lascio alla lettura. I ringraziamenti sono in fondo)

 

 

I miei venti metri quadrati

Capitolo Quindicesino

L’amnesia del Puzzle

 

 

 

Mio padre ha sempre detto una cosa starna, che riguardava i ricordi della vita. Secondo lui la vita di ogni persona è come un puzzle personale di ricordi.

I pezzi mancanti sono i momenti in cui si dorme, è un po’ come se il puzzle di ognuno abbia perso dei pezzi.

Quando ero piccola perdevo sempre tutti i pezzi dei miei puzzle, non sono mai riuscita a finirne uno. A Mei invece piacevano, e riusciva a finirli. L’ho sempre invidiato per questo.

Bizzarramente quando è morto mio padre e io ho cominciato a soffrire di insonnia ho iniziato ad apprezzarli di più.

Il mio puzzle non ha molti pezzi mancanti.

 

 

Sabato, 13 Luglio 1996

 

La signora Pavesi teneva stretti i suoi figli al petto tanto quasi da strozzarli. Rachele torceva il naso e sembrava intenzionata a tirarle un morso da un momento all’altro. Mini Mei tratteneva il fiato e si stringeva al braccio cicciotto della madre.

“Mei, per carità! Cos’è questo trabiccolo!” strillava guardando l’acqua chiara sotto di sé.

“Si chiama moscone, tesoro… e non si ribalterà” rispose pacato Mei senior da dietro i suoi occhiali dalla montatura leggera.

“Ma se uno dei bambini cade in acqua come facciamo?” strillò preoccupata lei seduta sul sedile di legno con in braccio i figli.

“Tesoro, credo che il pericolo più imminente per Mini Mei e Rachele sia lo strangolamento” commentò tranquillamente suo marito remando stancamente stando in piedi in equilibrio sul moscone bianco che si stagliava sull’acqua limpida.

“Strangolamento?” chiese la signora Pavesi con voce stridula.

Mattia Pavesi fece un cenno con la testa che gli smosse il ciuffo, indicando i due pargoli ormai fucsia.

La signora Pavesi  li guardò entrambi e li lasciò come se bruciassero. I due caddero per terra come due pere corte.

Mei senior sorrise mentre Mini Mei si passava la manina tra i capelli, Rachele sbuffava e sua moglie si guardava in giro preoccupata.

Alzò la testa per godersi al meglio il sole. Non gli capitava spesso di andare al mare, ma pareva che sua moglie ci tenesse davvero a fare un fine settimana marittimo ogni tanto.

Non amava andare al litorale, ma un moscone e una maglietta potevano essere un buon compromesso per far felice sua moglie. Che alla fin fine si era dimostrata più ansiosa che mai.

La signora Pavesi si sistemò qualche capello sfuggito alla sua crocchia. Rachele si alzò e corse da suo fratello ondeggiando e causando le enormi preoccupazioni di sua madre.

“Rachele! Rachele tesoro non correre” strillò mentre Mattia guardava tranquillamente gli scogli grigi respirando tutta la salsedine che poteva.

Si chiese quanto dovesse pesare uno di quei massi, storse la bocca impegnandosi a immaginarsi quanti quintali potessero essere a occhio.

Rachele saltò addosso al fratello. “Preso!!” urlò mentre lui finiva con la guancia schiacciata al moscone dal peso della sorella.

Mei senior aveva deciso che per quella mattina aveva remano abbastanza e non si scompose granché quando sua moglie finì in acqua nel tentativo di salvare, da non si sa quale pericolo, i due figli.

Rachele e Mini Mei si raddrizzarono per guardare meglio loro madre annaspare nell’acqua disperata.

“Oddio, oddio, Mei aiutami! Annego! Annego!” strillò sguazzando e schizzando tutti i suoi famigliari, dei quali solo Mini Mei si asciugò la faccia, gli altri due rimasero impassibili.

Mei senior tirò fuori dalla tasca dei bermuda gialli a righe un pacchetto di sigarette e se ne accese una ignorando la moglie che invocava il suo aiuto.

“Mei, oddio! Oddio Mei! Aiuto!!” strillava disperata annaspando.

Pavesi senior sbuffò fumo prima di rivolgersi pacatamente alla consorte.

“Tesoro, se ti fermassi un attimo ti accorgeresti che c’è mezzo metro d’acqua ed è impossibile annegare”.

La signora Pavesi appoggiò le mani al fondo sabbioso e sbatté qualche volta le palpebre.

“Ehm… già… non me ne ero accorta” disse alzandosi imbarazzata e scrollandosi la sabbia di dosso.

“Tesoro ti serve una vacanza dalla vacanza… le ferie non ti fanno bene” fece tranquillamente suo marito ricominciando a remare dopo che la moglie era risalita.

I pargoli si misero a sedere coi piedi a mollo nell’acqua e quando Rachele fece cadere suo fratello in mare la signora Pavesi quasi non se ne accorse, tornarono a prenderlo venti minuti dopo.

“Mei quando smetterai di fumare?”

“Quando morirò, e ho intenzione di non andarmene tanto presto. Quindi credo che dovrai abituarti al fumo passivo,Tesoro”

 

Lunedì, 15 Dicembre 1997

 

Mini Mei fissò lo schermo del computer ultimo modello che suo padre aveva comprato. Si avvicinò per vederlo da vicino, e poi si allontanò per avere una visione più completa, c’era evidentemente qualche cosa che lo turbava. Si grattò il mento dondolando i piedi che non toccavano per terra dall’alto della sedia a rotelline del padre.

“Papà?” cinguettò voltandosi verso il padre che fumava con la testa fuori dalla finestra.  Mattia Pavesi sussultò e si voltò verso il figlio più silenzioso, spense la sigaretta nella piantina sul davanzale e si avvicinò a lui.

Gli sembrava già di sentire la voce di sua moglie “Me le uccidi tutte le mie piantine con le tue accidenti di sigarette! Dovresti smetterla di fumare!”. Ridacchiò sotto i baffi e si interessò a Mini Mei che lo guardava dal basso.

“Hai messo una password?” chiese increspando le labbra e aggrottando le sopracciglia. Mei alzò le spalle.

“In internet ci sono un sacco di cose che i bambini non dovrebbero vedere. Potrai andare in internet quando riuscirai a scavalcare le password” spiegò suo padre con il ciuffo indisciplinato e gli occhiali leggeri che gli scivolavano.

Mini Mei sbatté le palpebre un paio di volte perplesso. Mei sorrise e lo lasciò solo col computer.

Era uno delle sue filosofie, se sei in grado di raggiungerlo sei anche in grado di usarlo al meglio.

Si fermò a guardare la sua secondogenita che invece giocava con una specie di grosso topo di peluche.

“A te non piacciono i computer?” chiese anche se la bimba non gli dava la ben che minima attenzione.

“No, a me piacciono gli opossum, vado a inseguirli al parco a volte” rispose senza degnarlo di uno sguardo e facendo deambulare il suo peluche sulla cassettiera.

Mei storse il naso “Tesoro, in Europa non ci sono opossum, quelli che rincorri tu sono ghiri” spiegò dolcemente.

Rachele gli cacciò un’occhiataccia e strinse la mano sul suo peluche.

“No, sono opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

Rachele si voltò verso il suo cesto dei giochi e ne estrasse una pistola ad acqua colorata “Opossum” disse decisa puntando l’arma di plastica contro il padre.

Mei piegò la testa da una parte “Lo sai che mi hai convinto, credo anche io che siano opossum, tesoro”.

Rachele sorrise e cacciò il suo giocattolo in un angolo continuando a divertirsi col peluche. Si voltò a guardare il suo grande dato che la figlia lo ignorava bellamente.

“Mini Mei, lascia perdere quel computer e vai a giocare con qualche cosa d’altro, non ci puoi riuscire”disse prima di vedere l’intestazione Google.

Sbatté le palpebre e lo guardò sottecchi abbassandosi un po’ gli occhiali.

“Ho preso il tuo portatile, l’ho configurato, l’ho attaccato a questo computer e sono entrato” spiegò lui semplicemente alzando le spalle.

Mei fece un sospiro e l’unica cosa che riuscì a dire “Tesoro?! I nostri figli stanno prendendo il potere!”

 

 

Sabato,10 ottobre 1998

 

Rachele e Mini Mei erano seduti nel retro dell’auto famigliare che i signori Pavesi avevano comprato quando si erano sposati, e che ormai era passata di moda.

La signora Pavesi appoggiò la sua borsa nel sedile del passeggero accanto al suo. Aspettando che un fuoristrada si spostasse da dietro la sua vettura per poter fare retromarcia e uscire in fretta dal parcheggio dell’ospedale.

“Allora, bambini” cominciò con la voce che le tremava “il Papà non c’è più, d’ora in poi saremo solo noi tre” concluse con un singulto.

“Puoi dirlo che è crepato, lo riusciamo a capire” disse seria Rachele serrando la mascella subito dopo.

Sua madre ebbe un singulto e non si voltò a guardare i figli mentre faceva finta di cercare qualche cosa nella borsa.

“Rachele Tesoro… forse è la mamma che non riesce a dirlo…” rispose con voce tremante.

Rachele si appoggiò alla spalla del fratello piangendo silenziosamente. Mini Mei storse la bocca poi alzò la testa e disse semplicemente “Mamma, andiamo a casa?”

La signora Pavesi sospirò e mise in moto l’auto.

 

Lunedì, 12 ottobre 1998

 

Mini Mei trovava che i funerali fossero inutili, soprattutto perché la metà delle persone che erano in chiesa non credevano in Dio. Suo padre compreso. Suo padre non credeva nemmeno nella vita dopo la morte, tanto valeva seppellirlo subito. Ma alla fine erano finiti tutti in chiesa ad ascoltare un vecchio prete parlare di lui anche se non lo conosceva.

Quando finalmente erano riusciti a uscire sua sorella Rachele gli aveva lasciato andare la mano e aveva continuato a camminare da sola per evitare tutte le condoglianze e gli abbracci. Mini Mei avrebbe giurato di aver sentito un paio di vecchietti intrattenersi parlando di prostata e problemi alla sciatica.

Sua madre non aveva versato neanche una lacrima, ma aveva respirato forte tutto il tempo. Mini Mei con una mano teneva sua sorella, con l’altra scrostava la vernice della panca su cui era seduto per vedere cosa c’era sotto. Aveva pianto prima, e non voleva ascoltare quello che dicevano, e i canti erano così lugubri. La panca era molto più interessante.

Ma finalmente erano usciti.

Rachele che stava quasi correndo via, seguendo sua madre che teneva per mano suo fratello si sentì chiamare.

“Rachele?” si voltò facendo la ruota coi capelli castano scuro. Un ragazzino della sua età con i piedi tenuti all’indentro, in una posizione innaturale, e il capo reclinato da una parte le restituì lo sguardo.

Più o meno era alto come lei, era magrolino, con i capelli e gli occhi scuri, la pelle era ambrata e il ciuffo di capelli gli cadeva fastidiosamente in mezzo alla fronte.

In tutto quel nero, era colorato, maglietta viola, giubbino giallo, pantaloncini verde pisello che gli arrivavano sopra al ginocchio. Un piccolo arlecchino con le scarpe impolverate.

“Cosa ci fai tu qui? Oggi non vengo a cacciare gli opossum” disse lei scorbutica, con la gola che le bruciava per aver pianto fino a poco prima.

Joyce notò perfettamente gli occhi gonfi e il naso arrossato, ma non disse nulla.

“Ero venuto…a salutarti… ho saputo…” era maledettamente complicato da dire e lui si torceva le mani in grembo.

“Come l’hai saputo?” chiese la bambina seria e immobile come una statua di cera. Joyce sobbalzò.

“C’era scritto sul necrologio” spiegò. Rachele arricciò il naso.

“Tu leggi i necrologi?” chiese perplessa. Joyce si strinse nelle spalle “Non io, mia sorella Emily… dice che sta cercando un ereditiere… non chiedermi cos’è perché non lo so”.

Rachele increspò un poco la bocca, non era un sorriso, ma non era neanche una statua di sale.

“Lo andrai a trovare?” chiese il bambino. Rachele fece una smorfia “Tanto è morto…”

Joyce si strinse nelle spalle “Non lo so, nei fil americani fanno così!”. Lei lo guardò per un lungo secondo.

Sospirò prima di girarsi “Ci vediamo al parco per cacciare gli opossum” disse prendendo subito a correre verso sua madre.

 

Domenica, 15 novembre 1998

 

La prima volta che Rachele approdò a casa Cumoli suonò il campanello. Le prime persone che vide furono due ragazzine che non conosceva. Una era più alta, Emily, dodici anni, quattro in più di Joyce, aveva il nome della Dickinson, chiunque fosse questa Dickinson di cui lui parlava, aveva i capelli lunghi fino alle spalle e un cerchietto azzurro, crescendo se li sarebbe tagliati inesorabilmente a caschetto e avrebbe sostituito l’azzurro con un immancabile rosso.

L’altra era più piccola, Jane, un anno in meno di Joyce, sette anni, come lei. Portava i capelli cortissimi quasi da sembrare un maschio, crescendo, in modo inversamente proporzionale a quelli di sua sorella li aveva fatti crescere all’inverosimile, tanto da avere due grosse trecce che le arrivavano quasi al sedere.

Entrambe avevano i capelli e gli occhi scuri come loro fratello, chissà che non fosse disdicevole per degli Irlandesi essere mori, probabilmente avevano preso dal loro occhialuto padre che Rachele intravide passare da una camera all’altra con un salto felino venuto male e delle pantofole scozzesi.

All’epoca Abigail Cumoli se ne era tornata in Irlanda da un pezzo e faceva poche visite.

Le due non si presentarono, ma parlarono in coro, come se si fossero preparate la scena, seppe dopo che era venuta così per caso “Tu devi essere quella che chiama di notte. Nostro padre ha comprato un cellulare a Joyce, così d’ora in poi potrai chiamare a lui senza svegliare anche noi”

“Ok” rispose Rachele vagamente intimorita dal bizzarro corteo di benvenuto. E per quel giorno fu l’unica cosa che si dissero.

 

Martedì, 2 gennaio 2001

 

Joyce dondolò i piedi seduto su uno sgabello in vimini vicino alla vetrata del salone. La casa della mamma era molto più bella di quella che aveva in Italia, ma in Irlanda pioveva sempre, ed era sempre più freddo.

In particolare fuori, oltre il vetro e la veranda piena di vasi con fiori finti, pioveva a dirotto.

Sua madre amava i fiori, e non poteva sopportare di non averli d’inverno per colpa delle temperature rigide.

Darcy correva per casa come una pazza rincorrendo un minuscolo cagnolino. Suo fratello non avrebbe saputo dire di che razza era, forse era un incrocio.

Darcy era riccia, coi capelli castano chiaro e degli occhiali tondi e infrangibili saldati alla nuca con un elastico giallo di gomma.

Joyce si grattò la pancia coperta da una maglietta con sopra scritto My best friend is a leprechaun.

Era una stupida maglietta per turisti, ma sua madre l’aveva comprata perché in aeroporto gli avevano perso la valigia.

Darcy aveva cinque anni, ed era estremamente rumorosa, sua madre invece era in cucina a smuovere pentole.

Non è che cucinasse, smuoveva e basta. Ne uscì con passo stanco, la sigaretta in mano e guardò suo figlio appoggiata allo stipite della porta.

“Sei proprio carino Joyce, è un  peccato che tu viva in Italia”disse, e in quel momento , sotto ai capelli rossi, a Joyce sembrò estremamente vecchia.  Sorrise “Grazie”. Poi si voltò a guardare sua sorella che tirava la coda al cane che del canto suo guaiva disperato.

“Darcy è un nome da maschio” proferì senza un nesso con la conversazione precedente. Sua madre alzò le spalle “No, è sia maschile che femminile”.

Joyce storse la bocca “E’ uno scrittore?” chiese conoscendo le propensioni letterarie della genitrice.

Sua madre si guardò intorno con aria sognante “No, è un personaggio della Austen” spiegò.

“Quella di Jane?” sua madre annuì.

“Posso farmi un tatuaggio?”

“Quando sarai maggiorenne tesoro” rispose sua madre con aria sognante come al solito, andando a raccogliere la piccola Darcy che era caduta per terra e si era messa a frignare.

 

Lunedì, 16 luglio 2001

 

Era appostata da un secolo dietro quello stupido cespuglio. Le facevano male le gambe, in quella scomodissima posizione.

E la tempera blu che quell’idiota di Joyce le aveva ribaltato in testa si era seccata, appiccicando i capelli tra loro.

Ma non le importava granché, era appostata lì da dopo pranzo, un opossum sarebbe uscito prima o poi e  lei sarebbe stata lì con la sua macchina fotografica.

Diede un’occhiata alla bottiglia d’aranciata che aveva appoggiato li accanto e a un suo ciuffo particolarmente appiccicato di blu.

Ci contava che l’opossum uscisse, e infatti, un musino baffuto spuntò dal un cespuglio poco lontano da lei. Aprì gli occhi il più possibile, come per vedere più particolari possibili.

Ma il musino scomparve come era arrivato, e al suo posto arrivarono un paio di scarpette di vernice nera. La proprietaria urlava ai quattro venti, “A Marilena piace Andrea!!” strillava la padrona delle scarpe, una ragazza coi capelli castano chiaro.

“Stai zitta! Stai zitta Nicoletta!!” strillava disperata la ragazzina mora che la inseguiva ormai paonazza in volto. La sua amica castana invece rideva rumorosamente.

Rachele si alzò dal cespuglio smuovendolo e facendo saltare in aria parecchie foglie, come se fosse esploso qualche cosa.

“Che cavolo stai facendo! Spaventi gli opossum con quella voce da cornacchia!!” strillò adirata puntandole il dito contro.

“Parlerò con te quando avrai un colore di capelli lontanamente normale!” le rispose strafottente con un ghigno che a Rachele non piacque per nulla.

Fu così che le finì addosso tutto il contenuto della bottiglietta di aranciata, inaugurando i famosi gavettoni al succo. E iniziò l’odio vicendevole. 

 

 

Venerdì, 24 agosto 2001

 

Rachele si passò la lingua sulle labbra e si riavviò i capelli dietro l’orecchio prima di afferrare il biscotto che troneggiava in cima al suo gelato e usarlo come cucchiaino.

Cioccolato e fior di latte. Non capiva come certe persone potessero prendere i gusti di gelato alla frutta, le parevano una bestemmia. Fu con disprezzo misto schifo che si voltò alla sua sinistra per guardare il gelato dell’amico di colore rosa/giallo, ovvero fragola e limone. Joyce dal punto di vista dei gelati bestemmiava spesso. Una volta aveva preso il gusto fico e mango. Era incredibile quello che riuscivano a inventarsi i gelatai, una volta in una gelateria del centro storico aveva trovato il gusto millefoglie. Alla gelateria del parco c’era anche il gusto formaggio e fichi, né lei né Joyce avevano avuto il coraggio di assaggiarlo. Era invece il cavallo di battaglia di Emily, la sorella di Joyce, Emily piena di braccialetti colorati, Emily che legge i necrologi, Emily che segue gli andamenti della borsa, Emily che ha quindici anni e sogna di farsi mantenere da un miliardario.

“Mia sorella si è portata un tipo strano a casa ieri, dai capelli sembrava un gallo, e ha cacciato mia sorella Jane dalla camera, così lei si è lamentata tutto il pomeriggio” raccontò lui intento in una dura lotta col gelato, buona parte della fragola franò sull’erba.

“E si baciavano?” chiese Rachele con un’aria saccente che Joyce non interpretò subito.

“Sì che si baciavano! Ma non come tu hai baciato al campo estivo quell’idiota di Pollini, dico un bacio vero!” sbraitò Joyce facendo girare diversi vecchietti intenti a giocare a bocce.

“Senti, la pianti di parlare di Pollini? Ti ricordo che tu hai dato un bacio a quella … cosa… la Facchini, le mancano le piastrelle! Secondo me non è neanche capace di baciare qualcuno!” lo rimbeccò stizzita.

“Ah perché tu sei meglio?” sbottò Joyce strafottente.

 Rachele gli stampò un bacio sulla bocca a labbra e occhi serrati, e per poco non gli diede una testata. Del canto suo Joyce fece cadere un po’ di gelato al limone, tanto per bilanciare la precedente perdita di fragola.

“Cavolo che schifo! Come fai a mangiare quella roba!” sbottò lei pulendosi la bocca col braccio.

“Sei tu che mi hai baciato!” la rimbeccò lui un po’ stizzito “E poi quello non era un bacio, questo è un bacio!” continuò prendendola per le spalle.

Rachele trattenne il respiro e gli strinse il braccio , mentre più in basso gli tirava un calcio negli stinchi.

“Oddio che schifo! La lingua tienila nella tua di bocca! Per la miseria, mi è sembrato di baciare una lumaca!” strillò lei attirando l’attenzione delle vecchiette che facevano la maglia. D’inverno se ne stavano dalla parrucchiera a parlare di tumori, incidenti e altre simpatiche disgrazie, ma d’estate per il caldo  erano costrette a rifugiarsi al parco, e anche i bisticci di due ragazzini che non avevano ancora cominciato le medie potevano essere interessanti.

“Hai cominciato tu!” la rimbeccò lui. Fu colpito da un’infradito e il suo gelato finì definitivamente per terra.

 

Domenica, 23 novembre 2003

 

Il signor Michelini voleva che lui tagliasse l’erba, gli avrebbe dato dei soldi, che di certo non avrebbero guastato, poteva comparsi un videogioco. Sì, sicuramente li avrebbe impiegati così.

Ma prima doveva riuscire a modificare quell’affettatrice a cui aveva appena smontato la copertura.

Il signor Michelini gli aveva fornito una specie di falce, ma ci avrebbe messo un secolo per tagliare tutto il prato con quell’arnese, e non aveva trovato nulla di più simile a un tagliaerba di quell’affettatrice lasciata affianco al bidone.

Non era nuovissima, ma funzionava ancora. Se la rigirò tra le mani e spinse l’accensione per vedere se partiva.

L’affettatrice cominciò a ronzare, seguita a ruota da un dolore incredibile alla mano destra.

Mei fu percorso da un brivido, si guardò la mano destra ricoperta di un innaturale liquido rosso. Fu scosso da un altro brivido quando si rese conto che mancava qualche cosa. Perché diamine non aveva più la prima falange del medio? E fu a quel punto che cominciò a sentire davvero male.

Più tardi Rachele attraversò con passo stanco mezzo ospedale prima di trovare sua madre che parlava con un medico sulla porta di un ambulatorio. Non si fece notare e vi si infilò dentro.

All’interno era tutto bianco quasi in maniera accecante, l’unica nota scura era suo fratello seduto sul lettino bianco, che indossava un giubbotto scozzese dai toni scuri, creato da sua madre ovviamente.

La guardò con aria colpevole dondolando le gambe.

“Allora adesso sei senza un dito?” chiese increspando le labbra. Mei fece un sorriso e mostrò la mano bendata e macchiata di liquido scuro.

“Me l’hanno riattaccato” spiegò contento “Il medico dice che dato che mi sono tagliato solo la prima falange c’è una buona possibilità che torni esattamente come prima”

“Te l’hanno riattaccato?” ripeté Rachele perplessa, e da quando si riattaccavano le dita?

“Beh, sì, è una cosa relativamente semplice, ma ho dovuto ritrovare il pezzo di dito che mi era saltato via, metterlo in un sacco impermeabile e chiuderlo bene per poi sistemarlo in un sacco con del ghiaccio per conservarlo” illustrò. Sua sorella si accigliò “E tu come diavolo lo sai?”

Mei alzò le spalle “Rudimenti di medicina”

Rachele alzò gli occhi al cielo “E io do la caccia agli opossum, mah”

Mei deglutì e le puntò contro il dito fasciato di fresco “A riprova di ciò che è successo: non giocherellare mai con le affettatrici e non buttare mai del sodio nell’acqua”proferì.

“Che c’entra il sodio con fatto che il tuo dito è schizzato via?” sbottò Rachele. Mei alzò le spalle “Rudimenti di chimica?” chiese incerto. Sua sorella sospirò.

 

Martedì, 27 gennaio 2004

 

“Joyce si sta facendo la doccia” disse Emily strascicando la voce.

Rachele era entrata in casa Cumoli usando la chiave che in famiglia erano soliti tenere sotto lo zerbino, e si era stravaccata sul divano salutando stancamente Emily intenta ad analizzare un giornale che titolava Come diventare ricchi.

Inizialmente la ragazza aveva fatto finta di non badare granché alla nuova venuta, ma poi sottecchi aveva iniziato a spiarla con aria beffarda, e tutte le volte che incrociava il suo sguardo si fingeva nuovamente interessata alla sua lettura.

“Diamine Emily, che c’è?”sbottò infine Rachele. Emily si strinse nelle spalle e guardò il soffitto, poi le pentole e infine lei. Rachele sbiancò e sbraitò visibilmente imbarazzata “Te lo ha detto? Te lo ha detto?”.

Emily soffocò una risatina nel maglione mentre Rachele diventava paonazza e distoglieva lo sguardo. “Non pensavo che vi dicesse certe cose!”sbuffò Rachele.

La ragazza seduta al tavolo alzò le spalle mentre i suoi capelli a caschetto e la frangia cortissima rimanevano immobili come fatti di marmo “Ma infatti non ce le dice” proferì sibillina “ o almeno non di sua volontà. Io e Jane abbiamo un’insana passione per la tortura” spiegò tranquilla sfogliando il suo giornale, più per scena che per reale interesse agli articoli. Aveva trovato un argomento molto più divertente.

“Allora come è andata?” chiese sogghignando.

“Da schifo”ammise Rachele un po’ scocciata. Emily ridacchiò. “La prima volta fa sempre schifo”disse.

“Non era la prima volta!” soffio stizzita.

“Se lo racconti a mia nonna Ealga che è arteriosclerotica e si ostina a chiamarmi Abigail come mia madre, magari ti crede!” continuò Emily tranquilla.

Rachele mise il muso. “Joyce ha detto che è stato per scommessa…” cominciò a dire lasciando in sospeso la frase.

“Già, diceva che l’aveva già fatto ma non gli credevo” ammise la ragazzina. Emily annuì fintamente fingendosi ammirata.

“Magari fate delle scommesse che almeno uno dei due può vincere” concluse rimettendosi a leggere il suo giornale economico.

 

Martedì, 29 marzo 2005

 

“Un etto in meno, un etto in meno, solo un etto in meno ti prego, ti prego” diceva sottovoce Nikka in mutande chiusa in bagno, come se fosse una preghiera.

La bilancia se ne stava minacciosa e bianca davanti a lei pallina e infreddolita, coi piedi nudi sulle piastrelle fredde.

“Nicoletta, per la miseria! Esci da quel bagno! Hai intenzione di piantare le tende li dentro e dormire nella vasca?”urlò con poco garbo sua madre oltre la porta sottile. Nikka si attaccò alla porta a aprendola un poco; tanto per far spuntare un occhio.

“Ho quasi fatto mamma, cosa c’è?”sussurrò.

“Damine Nicoletta! Cosa hai fatto ai tuoi bei capelli? Che colorino insulso è questo?”sbraitò sua madre, una donna decisamente rustica, per così dire.

“E’ un colore carino mamma! Mi facevano schifo quegli stupidi capelli castano topo! E poi pensa se avessi come figlia la Pavesi, una volta l’ho vista con della tempera blu in testa!” sbottò scocciata dall’opinione di sua madre.

“Ah, comunque sbrigati,devi andare a scuola a pagare la gita scolastica, mica vi mandano a Vienna gratis! Me li ha dati tuo padre, ogni tanto si ricorda che ha una figlia, quell’idiota!” disse appioppando alla figlia una mazzetta di banconote e girando i tacchi.

“Sempre con quella SE-RE-NI-TY!” sputò il nome come se fosse veleno.

“Si chiama Selena, mamma, non Serenity” disse, a lei non stava poi così antipatica la nuova fidanzata di suo padre. Sua madre sbuffò e scomparve in cucina.

Nikka diede un’ultima occhiata alla sua acerrima nemica, la bilancia e poi uscì in punta di piedi chiudendosi la porta del bagno alle spalle.

Non ci mise molto a vestirsi e non si truccò molto. Uscì salutando sua madre con un gesto frettoloso e stringendosi al petto la borsa. Fuori faceva un freddo invernale, nonostante fosse marzo e ormai dovesse iniziare la primavera il clima non accennava a volersi riscaldare.

Camminò decisa verso la scuola , passi veloci e furtivi, avere tutti quei soldi addosso la metteva in agitazione.

Schivò un venditore ambulante, un hippie che distribuiva abbracci, e liquidò in fretta un’amica di sua madre che aveva tutta l’aria di volersi fermare a parlare con lei. Tirò dritto finché la strada non svoltò a destra, e anche lì per un secondo stava per continuare a camminare, ma una forza quasi sovrumana la costrinse a fermarsi e a fare retromarcia.

Questa forza sovrumana era lucente, trasparente e piena di meraviglie. Questa forza era comunemente chiamata Chanel.

Nikka si attaccò al vetro, quasi spiaccicandoci il naso contro. Gli occhi le si erano aperti a dismisura.

Era tutto così bello, così lucente, e così  dannatamente costoso.

Un vestito a frappe se ne stava stentoreo nel bel mezzo della vetrina circondato da luci intensissime. Più a destra una borsa trapuntata, una fantastica borsa con il manico  a catenella. Nikka deglutì, quanto avrebbe voluto quella borsa…

Guardò il prezzo, esorbitante, tutta via l’importo esatto che avrebbe dovuto pagare per la gita, deglutì ancora. Non poteva spendere i soldi che suo padre gli aveva dato per la gita, in una borsa, no non poteva affatto. Sta di fatto che entrò lo stesso.

 

Sabato, 23 dicembre 2005

 

Mei si mordicchiava l’unghia del pollice mentre leggeva l’esercizio di matematica. Aveva capito benissimo come risolverlo, ma voleva vedere se per caso c’erano altri modi per farlo. Rachele leggeva un giornale di moda lasciato sul divano da sua madre. E la signora Pavesi girava tranquillamente il cucina con grembiule e guanti da forno, intenta a preparare i primi piatti di Natale. Da quando Mei e Rachele avessero memoria il Natale si era sempre festeggiato a casa loro, e tutti i parenti, in trasferta venivano a casa Pavesi.

Tuttavia nessun membro della famiglia si era accorto che in cucina c’erano due frigoriferi.

O meglio, Rachele si era accorta che qualche cosa era cambiato, Ma non aveva avuto la pazienza di farci caso. Era come i giochi delle differenze sull’enigmistica, una cosa tremendamente noiosa.

Fu traumatico quando la signora Pavesi aprì il congelatore del frigorifero sbagliato, e da questo non uscì ghiaccio, bensì fuoco!

Ci fu una vampata, qualche capello bruciato e un urlo disperato della mamma. Rachele sobbalzò e fece cadere il giornale e Mei alzò la testa dalla sua matematica sgranando gli occhi.

“Mamma?” chiese basito.

Sua madre atterrita si era appiattita sul pavimento, mentre il portello del frego si era richiuso da solo. Aveva il fiatone come se avesse fatto una gran corsa, e qualche capello bruciacchiato.

“MEI!” strillò disperata “Cos’è quella diavoleria? Volevi uccidermi?”

Mei a bocca aperta per lo stupore boccheggiò, che fosse colpa sua era ovvio, Rachele non sarebbe mai stata capace di mettere in piedi un arnese del genere.

“Mamma, non pensavo… non pensavo che avrebbe avuto un effetto del genere… volevo collegarlo via etere col pc!”cercò di scusarsi.

La signora Pavesi ansimò ancora seduta per terra con gli occhi fuori dalle orbite.

Per un mese buono tutte le volte che doveva aprire il frigo si metteva una maschera da saldatore per precauzione. Non era un bel vedere, e a Natale tutti i parenti rimasero perplessi.

 

Lunedì, 16 gennaio 2006

 

Rachele si accese una sigaretta con lo zippo, seduta sui gradini davanti alla porta del condominio, poteva fumare, sua madre era appena uscita a fare la spesa, e non sarebbe tornata prima di un’ora, perciò poteva fumare quanto le pareva senza essere vista. Joyce sarebbe arrivato a momenti per portarla non aveva capito dove, con quello stupido lambrettino raccattato nel garage del vicino.

La signora Pavesi riapparse all’improvviso,dato che aveva scordato la lista della spesa, Rachele non fece in tempo a nascondere le prove del misfatto, anche perché rimase completamente impietrita con la bionda in bocca.

Le due si guardarono, sua madre a bocca aperta, lei a bocca serrata.

“Rachele!” esclamò sua madre “Tu, tuo padre ci ha messo così tanto per smettere e.. e..”non era vero, suo padre aveva fatto finta di smettere, poi ci aveva rinunciato ed aveva ricominciato a fumare in pubblico, ma questo la signora Pavesi non lo sapeva.

Furono interrotte dalla signora Michelini che uscì rumorosamente dalla porta d’ingresso senza accorgersi minimamente della tensione che si era creata.

“Oh, signora Pavesi, scusi se la disturbo, ma sa avrei bisogno di una mano con il water, mi si è di nuovo otturato. Chiederei a mio marito, ma purtroppo è a Madrid per lavoro, mi chiedevo se quel suo parente così simpatico che viene sempre a trovarla per Natale mi potesse aiutare”, lo zio Michele, che a ogni Natale si ubriacava follemente.

La signora Pavesi fece un sorriso amabile e le indicò Rachele “Sono sicura che Rachele vorrà darle una mano gratuitamente”.

Rachele fece un sorriso tirato di circostanza.

 

Mercoledì, 20 agosto 2008

 

Faceva un gran caldo, Joyce era tornato dalla fresca Irlanda, e insieme lui e l’irascibile Rachele se ne era andato al parco a mangiare il gelato. Lei non l’avrebbe mai ammesso, ma forse un po’ le era mancato.

Da quando era piccola i gusti di Rachele in quanto a gelato non erano granché cambiati, Joyce invece nell’ultimo periodo optava per gusti dai colori imbarazzanti quali puffo e chewin gum. Il cui sapore tra l’altro era tristemente simile.

“Sei imbarazzante mentre mangi quella roba. Anzi, tu sei sempre imbarazzante, con quella collana di fiori simil hawaiani e quella stupida utilitaria verde Irlanda” sbottò non per vero odio ma per abitudine.

Joyce non parve affatto offeso, ma ribatté dicendo “Sai cosa sarebbe imbarazzante? Se ti schiacciassi il gelato sui capelli” disse civettuolo.

“Non ne avresti il coraggio!” sentenziò lei altera. Joyce ridacchiò “E tu non avresti il coraggio di tingerti i capelli di blu elettrico” la provocò.

La ragazza si incupì e allungò la mano verso di lui “Scommettiamo?”

Joyce sorrise e l’afferrò “Scommettiamo”

Sapeva benissimo che Rachele l’avrebbe fatto, solo, gli piacevano i capelli blu.

 

Venerdì, 18 dicembre 2008

 

“Oh, sì, tu non hai idea di quanto sia bello il vestito che ho fatto per la spagnola che abita nel nostro palazzo, Rachele dice che ci sono troppi fiori, ma lei mi è sembrata molto soddisfatta!” esclamò contenta la signora Pavesi fumando e passeggiando tranquillamente davanti alla lapide del marito.

“Sono sicura che il matrimonio sarà un successone, e poi lei è una così cara ragazza!!” sospirò guardando distrattamente le lettere incise sul marmo.

“Oh, e non dire a Rachele che fumo quando sono con te” si interruppe per ridere “sai quando l’ho beccata a fumare le ho fatto pulire tutti i cessi del condominio” altra risata sguaiata e un po’ forzata. Nel silenzio risuonava solo la sua voce.

Fece un sospiro “Mi manchi Mei, mi manchi tanto”. Spense la sigaretta in un portacenere che aveva poggiato sulla lapide. Era convinta che a lui non desse fastidio il fumo, e forse lo faceva sentire ancora un po’ vivo. Si strinse nel cappotto e se ne andò mentre dalla foto Mattia Pavesi guardava il vuoto del cimitero.

Mattia Pavesi 1959 – 1998 La moglie e i figli lo piangono inconsolabili.

Avrebbero voluto scrivere qualche cosa di diverso, qualche cosa di solo suo. Ma non gli era venuto fuori nulla, e il marmista aveva fatto di testa sua.

 

Bussai alla porta che conoscevo tanto bene, e questa si aprì rivelando un Joyce in mutande.

“TI va di andare al cimitero?” chiesi cupa. Lui fece una faccia strana “Credo di essere ancora troppo giovane per morire” ironizzò lui con un risolino.

Voltai i tacchi senza dire nulla, miravo alla fine del corridoio e alla porta d’uscita di casa Cumoli,ci sarei andata da sola.

Joyce sobbalzò e starnazzò un “Vengo, vengo, lo so che vuoi andare a vedere tuo padre! Ma io proprio non capisco, non ci va mai nessuno al cimitero, solo nei film americani c’è la gente che parla con le lapidi!”

Si infilò al volo una maglia e mentre saltellava giù per la tromba delle scale si mise i pantaloni. La portinaia che stava pulendo le scale gli squadrò anche il sedere prima che riuscisse a coprirselo con i calzoni. Lui non ci fece caso.

Camminammo in silenzio per il cimitero, lui mi seguiva a poca distanza. Per una volta nella vita si era vestito come una persona normale. Forse almeno ai morti portava un po’ di rispetto.

“Oh! Un Opossum!” sussurrò quando fummo ormai davanti alla tomba di mio padre, non mi voltai ma dissi “Non è un opossum, è un ghiro, gli opossum non ci sono in Europa”

Joyce si accigliò “Quindi noi fino ad adesso…” non finì la frase, la completai io al posto suo “…abbiamo cacciato ghiri, esattamente. Me lo ha detto mio padre”.

Joyce fece una smorfia “Ci hai fregato anche sta volta vecchio volpone!”  commentò rivolto alla lapide.

Spostai un portacenere che se ne stava sulla lapide di mio padre.

“Diamine! Chi cavolo è che fuma qui?!” sbottai scocciata.

“Magari è tua madre” blaterò Joyce senza il minimo di senso.

“Non dire cavolate, mia madre non fumerebbe mai!” proferii io.

A volte mi manca …papà…

 

 

Eccoci arrivati a fine capitolo, spero che vi possa essere piaciuto anche se è un po’ diverso dal solito ed un po’ malinconico. Ringrazio moltissimo tutte le persone che sul forum hanno risposto alle mie molteplici domande(opossum, dita mozzate e chimica) aiutandomi a scrivere un capitolo verosimile.

Passando in dettaglio Mini Mei che sorpassa le password per quanto piccolo credo che non sia una cosa così straordinaria. Ho sentito di un bambino che aveva fatto una cosa del genere più o meno a sei anni.

Il capitolo è stato scritto principalmente perché volevo un po’ infilare il signor Pavesi, che nell’ultimo periodo ho preso in simpatia, e pensare che all’inizio non gli avevo neppure inventato una faccia.

Inoltre anche per raccontare un po’ il rapporto tra Joyce e Rachele.

Ci sarebbero stati un sacco di altri aneddoti, ma non volevo appesantire troppo il racconto, che già mi è sembrato pesante così.

Ringrazio infine chi ha messo la storia tra i preferiti e i seguiti e ovviamente chi ha commentato:DarkViolet92(Grazie!!), The Corpse Bride ( beh, direi che avevi più o meno indovinato…^.^ mi fa piacere sapere che segui ancora la mia storia, i tuoi commenti sono sempre piacevolissimi), DiraReal (hai detto una cosa bellissima, mi piacerebbe tantissimo pubblicare *.*grazie mille davvero!) e Melisanna (Grazie mille! All’inizio l’idea era SOLO parlare di estetica, ma poi ho perso la retta via e siamo finiti qui!! )

Grazie ancora a tutti e al prossimo capitolo, non so quanto ci metterò a scriverlo, perché a scrivere questo mi sono più o meno distrutta una mano!! Devo smetterla di scrivere solo con la mano destra cavolo!!!XD

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** L'alleanza delle Pettegole ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Sedicesimo

L’alleanza delle Pettegole

 

 

Sbocconcellavo la mia brioche tenendola stretta con la punta delle dita, nascosta da un cappello fiorato con foggia da pittore, e un paio di grandi occhiali con gli strass. La maglia che indossavo, che gli si gonfiava all’altezza delle spalle mi arrivava fino a metà delle mani, il che era l’ideale per riscaldarsi nelle giornate d’inverno prenatalizie come quella.

“Sei imbarazzante con quel gilet zebrato Joyce” civettai più allegra del solito.

“Sai cos’è imbarazzante, Rachele?” ribatté Joyce piccato “il fatto di esserci seduti accanto al tavolo di Nikka e tuo fratello per poterne origliare i discorsi!”

Alzai le spalle con aria sognante, per poi incupirmi “Joyce, c’è una delle mie oche blu che ha i capelli castani, ne sai qualche cosa?” domandai perentoria.

“No” rispose Joyce con l’aria più colpevole del mondo. Feci un sospiro “Farò finta di crederci” ribattei. Alla fin fine mi interessava fino ad un certo punto dei capelli delle mie oche, e tornai a dare ascolto a Nikka poco più in là.

 

 

“Ho lasciato Alberto” proferì tranquillamente Nikka strappando la bustina del suo dolcificante. Mei era un po’ perplesso, neanche una parola su quello che era successo al Criminal, come se non fosse mai accaduto.

Era un dettaglio imbarazzante? Bene, Nikka lo cancellava.

“Quella roba è cancerogena” disse lui alludendo al dolcificante. Nikka alzò le spalle “Sempre meglio che ingrassare”.

Mei avrebbe voluto ribattere ma lasciò perdere, calandosi sul suo cappuccino e guardandola sottecchi.

Qualche tavolo più in là le sorelle Cumoli sorseggiavano silenziose l’una un tea, l’altra un cappuccino con latte di soia.

Emily scorreva veloce tra le righe del suo giornale economico, quando fu colpita da qualche cosa alla sua sinistra. Picchiettò con l’indice l’avambraccio della sorella invitandola a guardare nella sua stessa direzione.

“Jane? Quello che Joyce ha addosso, non è il tuo lupino?”.

Jane alzò un sopracciglio e storse la bocca orribilmente. “Me lo slarga!”urlò con un’evidente crisi di nervi.

Emily non fece molto caso alla sorella che in un nano secondo fu su Joyce prendendolo a borsate in testa. Rachele che con quel trambusto non riusciva più a seguire i discorsi fatti al tavolo accanto si alzò gli occhiali e guardò la ragazza col caschetto che le sorrise amabile, per poi alzare il suo tea in aria come per brindare e infilarci dentro il naso sospirando “Fortuna che domani è già Natale”.

Rachele appoggiò il gomito sul tavolo e morsicò l’asta degli occhiali da sole pensierosa, del tutto dimentica dei due fratelli che se le stavano dando di santa ragione dall’altra parte del tavolo. Alla fine, come trovando la soluzione, alzò le spalle con un sorriso e se ne andò senza pagare, ci avrebbe pensato Joyce.

Emily trangugiò il fondo del suo tea e si infilò in fretta la giacca seguendo l’esempio della ragazza blu, non si sarebbe di certo trovata un marito miliardario stando seduta al bar a bere il tea.

Del canto loro Mei e Nikka sembravano imperturbabili, se non fosse stato per una fugace e critica occhiata della ragazza, in direzione dei fratelli Cumoli, si sarebbe detto che i due non avessero notato nessun movimento sospetto.

Ma comunque il tutto non li turbò granché, dato che Mei continuò a zuccherare il suo cappuccino, e Nikka continuò a bere il proprio prontamente dolcificato.

Il ragazzo scribacchiò qualche cosa su un foglio illeggibile, più per le abbreviazioni che per la scrittura, che era precisa e tondeggiante, e si sarebbe adattata di più a una donna.

“Bene Mei” esordì tranquillamente con fare organizzato senza guardarlo , e sfogliando un giornale che parlava di trucchi e ricostruzione delle unghie “Sta sera ci sarà una festa, l’ultima festa dell’anno che organizzerò… si sa no, Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi no?” disse buttando lì un detto che le era venuto in mente sul momento, par dare effetto organizzazione. Era indecisa, cosa fare all’università? Scienze della comunicazione? Ingegneria manageriale? O moda? Ci avrebbe pensato ad agosto, dopo l’esame di maturità.

“Ma non c’è anche capodanno?” chiese mestamente Mei, per quanto ne sapesse, anche se lui l’aveva sempre passato con sua madre e parentela(con tanto di zio Michele già ubriaco un’ora prima della mezzanotte)la maggior parte dei ragazzi usciva a festeggiare con gli amici.

Nikka sospirò con aria di chi ripete la stessa cosa per l’ennesima volta “Mei, la festa di Capodanno la organizzerà il Luxury…” disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Tornò a rimescolare il dolcificante nella tua tazzina, mentre Mei beveva e la guardava sottecchi. Accanto a loro i fratelli Cumuli continuavano a sbraitare come due animali feriti e a darsele di santa ragione. Anche il barista era accorso preoccupato cercando di fermare i due e prendendo Jane per le spalle.

“Mi lasci! Sono in missione per conto di Dio! Mi sta slargando la maglia!!” urlò lei fuori di sé.

Nikka lanciò un’altra occhiata schifata “Questa famiglia Cumoli è davvero blasfema” brontolò tra sé sorseggiando il suo cappuccino.

“Allora cosa hai organizzato per sta sera?” chiese Mei spostando l’attenzione della ragazza dai due litiganti a sé stesso.

Nikka increspò le labbra e alzò gli occhi al cielo con uno schiocco di lingua pensieroso.

“Ho parlato con Ilaria Gandolfi, hai presente?” chiese lanciandogli un’occhiata complice “Quella che si è fatta una sesta di reggiseno in plastica” aggiunse. Mei annuì, non aveva idea di chi fosse, ma non gli andava di interrompere.

“Ha una casetta subito fuori città… e i suoi sono momentaneamente via per lavoro…quindi… è tutta per noi”spiegò.

“Tu non fai mai feste a casa tua perché non è abbastanza grande o perché tua madre è sempre in città?” domandò Mei per pura e innocente curiosità. Nikka ghignò “Non faccio mai feste nel mio appartamento perché non voglio essere io quella a cui ruberanno il televisore e vomiteranno sul tappeto persiano ereditato dalla nonna” illustrò con amabile cattiveria. Mei si nascose dietro la sua tazzina ormai vuota, facendo finta di bere.

“Comunque dicevo, ci sarà un catering di tutto rispetto e ovviamente fiumi di alcol, lo so che è inutile dirtelo perché sei astemio, ma è lo stesso, dovresti provarlo un po’ di spumante ogni tanto sai? Poi manderò Vanessa e Millie a comprare delle lucine da esterno da mettere su quel cipresso così triste che c’è in giardino” illustrò massaggiandosi il mento.

“Come mai non ci vai tu? Non preferisci fare le cose di persona?” chiese Mei, che per quanto aveva capito, Nikka era una persona che voleva avere le cose sottocontrollo.

“Perché ho cose molto più importanti da fare, come per esempio comprare un vestito per sta sera!” trillò “Cosa ne pensi del raso?” aggiunse poi.

“Scivoloso?” rispose Mei dubbioso. Nikka non fece realmente caso alla risposta e cinguettò “E raso sia!” . Mei si guardò in giro, si chiese dove Nikka trovasse i soldi per i vestiti e anche per le feste.

“E chi pagherà tutta questa roba?” chiese lui perplesso. Nikka alzò le spalle “Ovviamente la Gandolfi, ha i soldi, che li usi no?” sbuffò innervosita dall’inutile domanda “E se te lo stai chiedendo, sì, tua sorella e Joyce si imbucheranno alla festa come fanno a tutte le feste. Sempre che Joyce sopravviva!” aggiunse infine dando un’occhiata sbieca alla sua destra. I fratelli Cumoli avevano smesso di picchiarsi e Jane aveva finalmente recuperato il suo amato lupino, lasciando il fratello mezzo nudo e con qualche manciata di capelli in meno.  

“Almeno non hai più quella pettinatura da nerd giapponese!” esclamò lei uscendo a passo di marcia. Il barista perplesso guardò il giovane seduto sul pavimento. “Nerd giapponese?”

Joyce alzò le spalle “Lasci perdere”.

“Comunque” ricominciò Nikka “parliamo di cose serie: sta sera ti troverai una ragazza! Intesi?”.

Mei annuì. “Mi è parso di capire che te ne eri trovata una al Criminal, Elena mi pare…” continuò pensierosa “E poi cosa è successo?”chiese.

Tu mi hai baciato idiota! Avrebbe voluto rispondere lui, ma pensò che fosse meglio  ripiegare su “Mi è venuto un mal di stomaco lancinante e fulminante, sono dovuto correre a casa subito”mentì annuendo per aggiungere gravità al racconto.

“Hai ancora dei problemi intestinali?” domandò Nikka guardinga. Mei alzò le mani in segno di resa “No, no, tutto sottocontrollo!” assicurò lui calmando le acque.

“Bene, non voglio dissenterie la vigilia di Natale!” ordinò perentoria. Mei annuì con fare militaresco.

“Torniamo a noi” trillò ancora lei incrociando le dita tra loro e protendendosi in avanti sul tavolo “Mettiamoci d’accordo…cosa fai?” chiese cospiratoria. Mei sbatté le palpebre perplesso e fece una smorfia dubbioso avvicinando il viso a sua volta a quello della ragazza “Cosa farò quando?”

Nikka sbuffò spazientita “Per rimorchiare una ragazza!”. Mei cadde dal pero.

“Ehm… ci parlo?” provò con l’espressione dell’interrogato che non ha studiato e tenta il tutto e per tutto.

Nikka sospirò e alzò gli occhi al cielo “Allora ascoltami bene Mei, non te lo ripeterò” fece lei stancamente, lui annuì compito.

“Devi cercare un contatto visivo ok? Scegli la ragazza che ti piace e la guardi, aspettando che lei ti noti in qualche modo. Poi ti avvicini cautamente, con fare tranquillo , non troppo deciso, come se fossi lì per caso. Non sei il maniaco dei giardinetti venuto a mostrare i gioielli di famiglia insomma!” esclamò in uno slancio vitale.

“Non c’è pericolo” commentò Mei pensando che mai se ne sarebbe andato in giro a mostrare i genitali agli estranei.

Vebbè, dicevamo, ti avvicini e trovi qualche cosa di stupido da dirle ok? Non di veramente stupido, non ti sognare di metterti a parlare delle tue troie e…

Trojan Hourse” corresse Mei tranquillamente. Nikka lo ignorò “Qualche cosa che ti permetta di attaccare discorso insomma! Poi continua il discorso, non credo sia il tuo caso, ma non parlare troppo di te, falle delle domande, le ragazze adorano parlare e credere che l’uomo le ascolti”, Mei si domandò se anche Nikka si crogiolasse nella sua attenzione.

“Poi dille qualche cosa che sembri un complimento ma che non lo sia del tutto del tipo : ma che begli occhi, assomigliano a quelli di una civetta!

“Le civette sono carine” ribatté Mei dubbioso sul senso della frase.

“Sono animali orribili, andrebbero sterminati tutti secondo me” commentò drastica senza il minimo cruccio. Mei del canto suo sentì lo stomaco chiudersi, come se fosse lui la civetta in procinto di essere sterminata.

“Offrile da bere… non è che ci voglia un gran sforzo, tanto è gratis, e dopo un po’ allontanati, ma controlla che ti guardi. Ti guarderà di sicuro se fai come dico io. E poi non sei male, e questo aiuta notevolmente!”. Mei annuì scolastico, ci mancava solo che lei gli chiedesse anche di prendere appunti.

“Se vedi che lei ti guarda ogni tanto torna e casualmente inizia dirigerti in un posto appartato e magari dille qualche cosa di carino… non smielato per piacere, non perché non adeschi, ma perché lo trovo ributtante!” sbottò facendo una smorfia.

“Non credo di essere un tipo smielato, piuttosto sto zitto” sussurrò mesto lui.

“Ringraziamo il cielo allora!” sentenziò lei sbattendo il pugno sul tavolo. “E poi, quando arriva il momento giusto la baci… ma solo con le labbra, non saltarle addosso stile assatanato”sbraitò.

“Ti sembro il tipo?” ribatté Mei un po’ offeso.

“Non si sa mai, meglio dirlo una volta in più che una in meno!”sentenziò lei tranquilla. “Poi ti stacchi e la guardi, e le dai un secondo bacio… e lì allora ci puoi mettere più impegno se ti va…” disse lei rimanendo sul vago.

A fine serata le chiedi se vuole un passaggio a casa… che automobile hai?” chiese diplomatica.

“Mia madre ha un’utilitaria, ma io non ho la patente” ammise deglutendo.

“Bah!” sbottò lei irritata “Ma che razza di uomo è uno senza patente… vabbè, puoi chiederle se vuole prendere il taxi con te…

“Joyce conosce uno del servizio limousine…” azzardò più per informazione che per vera intenzione di ripiegare sul lusso.

“Mi pare eccessivo” commentò lei sottecchi.

Lo fissò “E’ tutto chiaro?” domandò. Mei alzò le spalle dubbioso “Direi di sì”

Nikka sorrise “Bene, la seduta è tolta! Ci vediamo domani sera alla festa, ti metterò l’invito con l’indirizzo sotto la porta, il caffè lo offro io” e fu così che si alzò si accese una sigaretta e se ne andò spavalda a passo veloce, da folletto.

Si appoggiò al bancone esibendo una carta di credito dorata, era tutta scena, dentro non c’erano più di una cinquantina di euro ma non aveva importanza.

“Pago due cappuccini” disse con aria di superiorità, ma la barista non parve darle grande importanza, stava infatti allungando il collo per vedere meglio fuori dal negozio.

“Che c’è?” chiese la ragazza infastidita mentre la donna prendeva la carta di credito e la passava nel macchinino apposito.

“Carino il tuo amico” fece distrattamente con un sorriso, Nikka sbiancò e guardò fuori , dove Mei l’aspettava con le mani in tasca dando le spalle alla vetrina.

La ragazza si voltò di nuovo a guardare la barista con le sopracciglia aggrottate e la bocca semi aperta.

“Ha anche un bel sedere” commentò allegra. “Ma…ma avrai cinquant’anni che diamine!” sbottò stizzita riprendendosi la carta di credito e andandosene mentre la barista le urlava dietro “Ne ho quarantanove!”

Nikka piombò accanto a Mei cercando di coprirgli il sedere col giubbotto “Copriti santo cielo” disse perentoria.

“Ma che c’è!” brontolò lui preso di sorpresa rischiando di sbilanciarsi da una parte.

Più tardi Mei si sedette guardingo al tavolo del pranzo, mentre Rachele dall’altra parte della tavola leggeva un giornale di moda di sua madre e la signora Pavesi lambiccava allegramente cantando tra le pentole.

La porta si aprì e ne entrò un provato e un po’ spelacchiato Joyce. Con una rapida occhiata Rachele ebbe modo di accorgersi che aveva di nuovo rubato il lupino alla sorella.

Ciao Joyce caro!” esclamò la signora Pavesi alzando per un attimo gli occhi dalla padella.

“Buon giorno signora!” rispose lui un po’ stanco andando a sedersi tra Mei e Rachele al tavolo quadrato della cucina.

“Da quando entri dalla porta e non più dalla finestra del bagno?” chiese la ragazza senza dargli tanta attenzione.

“Da quando sono entrato dalla finestra e tua madre è uscita dalla doccia, lei ha urlato, io ho urlato, lei ha urlato di nuovo e io sono caduto sul gazebo del signor Michelini”spiegò concitato.

“Deve essere stato imbarazzante” fu il commento distratto della ragazza per nulla impietosita.

“Non hai idea di che male mi facciano le costole” disse massaggiandosi la schiena rivolto a Mei, che gli regalò un sorriso solidale.

“Mi chiedevo se per caso andaste alla festa che Nikka organizzerà per domani sera” azzardò Mei guardingo mentre la signora Pavesi approdava in tavola con una pentola piena di spaghetti, sulla quale Rachele e Joyce si buttarono famelici. Mei aspettò educatamente il suo turno senza accapigliarsi e rigirandosi la forchetta nella mano destra

“Ovviamente no” disse tranquillamente sua sorella mentre inforcava una mano a Joyce che del canto suo reprimeva un grido stridulo, tutto sotto gli occhi distratti della signora Pavesi che sorrideva agli angeli.

“Non dico andarci con l’invito, intendo imboscarvi…”sottolineo Mei sporgendosi un po’ in avanti verso la pentola. Sua sorella parve pensarci “Beh, se la metti in questo modo…” disse lasciando la frase vaga,mentre arrotolava gli spaghetti alla forchetta.

“Beh, sì, credo che potremmo imboscarci…ma forse porteremo un paio di amici…perché?” domandò infine guardinga.

“Mi serve un passaggio, a quanto ho capito la festa non è vicinissima” spiegò semplicemente.

“Oh” disse solo. Scambio di sguardi tra i fratelli, la signora Pavesi si serviva dalla pentola e Joyce si studiava la mano colpita.

“A tuo rischio e  pericolo, ci andiamo con l’auto di Joyce, verde Irlanda con un enorme trifoglio disegnato sul tettuccio, l’apoteosi del trash… ci rimetteresti la reputazione” proferì tranquilla.

“Sei sempre a lamentarti! Che diamine ha la mia auto che non va! Dato che tu non hai la patente non dovresti lamentarti, è una vita che ti scarrozzo io ovunque!” sbottò Joyce colpito nel vivo.

“Da una vita? Ma se hai la patente da due mesi!”ribatté lei.

“Due mesi e venti giorni!”

“E hai già ridotto l’automobile come un carro di carnevale!!”sentenziò la ragazza blu sottolineando il tutto con una seconda forchettata. Mei alzò le spalle e si servì lasciandoli litigare in pace.

 

 

Era ormai arrivata sera mentre il signor Giovanni Cumoli si accingeva a sistemare tutti i numeri di un nuovo fumetto giapponese sullo scaffale. Lui preferiva quelli vecchi, invece nell’ultimo periodo venivano sempre fuori cose strane, i robot da guerra non erano più quelli di una volta, le storie d’amore non erano più quelle di una volta, le storie hard non erano più quelle di una volta e nemmeno i disegni erano più quelli di una volta, era decisamente cambiato il mondo, e ormai non c’era più la venerazione per i fumetti che c’era una volta, qualche studente di giapponese aspirante mangaka, Enrico, il tipo con gli occhiali, lui voleva trasferirsi in Giappone dopo la laurea, qualche vecchio amante di Tex, una certa Elena che leggeva gli shojo e un tizio biondo e grosso con l’aria da troglodita, com’è che lo chiamavano? Pallotti? Che a suo parere non sapeva neanche leggere i fumetti per il verso giusto e comprava quelli hard solo per le figure.

Il signor Cumoli di sicuro aveva passione, era un uomo minuto con un pizzetto radicato al mento fino dalla gioventù, si era sempre chiesto come aveva fatto a venirgli fuori un marcantonio di figlio se lui era un scricciolo, e sua moglie pure, ex moglie poi.

Abigail ogni tanto gli mancava, le telefonava, e lei gli rispondeva in inglese, avevano parlato in inglese per anni, poi lei aveva deciso di tornarsene in Irlanda e di sposare uno stupido Irlandese. Maledetti Irlandesi.

Si passò la mano tra i capelli e sospirò, ormai era Natale, non sentiva molto l’atmosfera in negozio, l’unica cosa vagamente natalizia era uno stupido albero di natale elettronico e ballerino che ogni tanto cantava con un vocione impressionante Jingle Bells.

Lo scampanellio della porta lo ridestò dai suoi pensieri sulla gioventù bruciata, alzò la testa ed allungò il collo per vedere in controluce chi era entrato. Una donna bassa e grassottella, coi capelli raccolti in una crocchia e il vestito di lanetta con le frappe fece il suo ingresso stancamente, si fermò a metà del negozio e salutò “Giovanni… buona sera… pensi che sia possibile impedire al tuo figlio di andare in giro con quell’orribile gilet zebrato? È un pugno nell’occhio, addirittura peggio del pellicciotto arancione, oserei dire che minacci l’ordine pubblico… e poi dovrebbe smetterla anche di arrampicarsi sulle grondaie, rischia di farsi male…” spiegò tranquillamente compunta la signora Pavesi stringendo la pochette.

Il signor Cumoli sospirò “Nonostante sia d’accordo in pieno , soprattutto per quanto riguarda le grondaie , ma dubito sia possibile convincerlo…Arabella, piuttosto, credi che sia una richiesta possibile chiedere a tua figlia di smetterla di telefonare a Joyce di notte? A volte me lo trovo addormentato sul water…” fece lui appoggiandosi con le mani al bancone.

Arabella Pavesi sospirò “Sai che non smetterà mai di svegliarlo…”.

Ennesimo sospiro genitoriale sconsolato.

“E’ sempre un piacere chiacchierare con te , Giovanni caro, come sta Abigail?” domandò infine mentre si accingeva a uscire ed aveva già un piede oltre l’uscio.

“Abbiamo divorziato prima che ci conoscessimo… Mattia?” rispose lui tranquillo.

La signora Pavesi alzò le spalle “Morto, come al solito” disse con semplicità e uscì tirandosi dietro la porta che del canto suo fece risuonare lo scaccia pensieri.

Il signor Cumoli alzò gli occhi al cielo e si chiese come mai nessuno dei suoi figli amasse i fumetti.

Gioventù bruciata.

 

La sera della vigilia di Natale non ci mise molto ad arrivare, c’era chi la passava in famiglia e chi decideva di uscire. Mei aveva deciso di uscire, lasciando sua madre, zio Michele e altre decine di parenti a festeggiare in cucina.

Era pronto da circa venti minuti, quando decise di azzardarsi a farlo notare a Joyce e Rachele che si accapigliavano in corridoio.

“Forse faresti meglio ad andare in autobus, temo che qui ne avremo ancora per molto, e poi dobbiamo passare a prendere un amico” spiegò Joyce immobilizzando entrambe le braccia alla ragazza che del canto suo gli assestò un calcio. Mei uscì di casa scocciato con l’immagine di un Joyce dolorante, una Rachele in vestaglia,e uno zio Michele già un po’ brillo.

Scese le scale con le mani in tasca, trotterellando veloce e deciso. Ci avrebbe messo un secolo ad arrivare in quel maledetto posto, gli autobus, la sera, erano notoriamente più rari.

Si era messo le scarpe da ginnastica in vernice, sua madre le aveva pagate un occhio della testa, ma a suo dire erano bellissime, aveva risparmiato sul resto dei vestiti, i jeans erano immacolati (“Quanto odio gli strappi nei pantaloni , Mei caro, non li ho mai potuti soffrire, neanche quando andavano di moda, suvvia, anche zia Elda che ha il Parkinson saprebbe dare una rastrellata a un vestito e farci quegli sbraghi inutili. E poi ti viene freddo alle ginocchia!!” era solita dire la signora Pavesi).

La giacca era quella di pelle, l’unico capo di abbigliamento che gli piaceva, del resto non gliene fregava granché. Se ne fregava già abbastanza sua madre.

Come previsto il viaggio sull’autobus vuoto non fu breve, mentre nell’abitacolo c’era luce e fuori regnava il buio, sempre più spesso man mano che si avviavano verso la più estrema periferia.

Scese insieme al conducente che si voleva fumare una sigaretta, al capolinea, e augurò buon lavoro a quest’ultimo che lo ricambiò con un sorriso e gli indicò la strada giusta per la via che stava cercando. Non ci mise molto a trovarla, la musica era sparata a palla, e da una casa vicina giungevano diverse lamentele.

Era una villetta unifamiliare, distribuita su un unico piano, col tetto spiovente e le pareti intonacate di ruvido bianco. Individuò subito l’albero che Nikka aveva puntato e illuminato a dovere con delle lucine natalizie. Entrò con le spalle un po’ curve, le mani in tasca e lo sguardo un po’ truce.

Non era come la sua prima festa, forse dopo tute le angherie di Nikka e i baci di Elena era un pochino più rilassato, ma ciò non voleva dire che fosse diventato il re della scioltezza.

Entrò dalla porta principale, dalla quale sgorgavano giovani festanti con bicchieri di plastica pieni di spumante, dentro sembrava che tutti saltassero, qualcuno aveva rovesciato un vaso di murano, che giaceva a terra in mille pezzi. Sua madre ne aveva uno simile, si immaginò cosa sarebbe potuto succedere se lui o Rachele avessero organizzato una festa a casa loro cosa avrebbe potuto dire sua madre. Probabilmente la sua risposta sarebbe stata un infarto.

Riconobbe tra la folla qualche volto, qualcuno era in classe con lui qualcuno lo conosceva solo di vista.

Le pettegole se ne stavano appollaiate su una panchina in ferro battuto posizionata in giardino, e con le loro bevande analcoliche si dilettavano a dare un voto al vestiario di chi incautamente passava loro davanti.

Elena se ne stava abbracciata a un tizio, vicino alla porta che conduceva in cucina, e non avevano l’aria di voler chiacchierare.

Mei si faceva largo mestamente tra la folla cercando di non colpire e di non venire colpito da nessuno. Fu quando si girò indietro quasi ad accertarsi che la porta da cui era entrato fosse ancora aperta per facilitargli la fuga, che si sentì tirare per il colletto.

Mei!” trillò Nikka visibilmente alticcia e con un vestito di raso terribilmente corto. Mei deglutì.

“Non mi sono messa la biancheria!!” strillò civettuola stampandogli un bacio sulla guancia con un’insospettabile potenza e sparendo subito dopo nella folla lasciandolo basito.

Da dietro Nikka, con la sua sparizione, apparvero Vanessa e Millie che con la determinazione  di due bulldozer lo presero una per un braccio, e l’altra per l’altro spingendolo indietro.

“Vieni con noi Mei!” dissero melliflue, e probabilmente le loro intenzioni erano delle migliori, ma tutto quello che fece Mei fu stamparsi in faccia un’espressione di puro terrore. Si distolse dalla sua funesta sorte alzando gli occhi e vedendo una Rachele dallo sguardo serio scendere dalle scale del soppalco. Il vestito che portava non era uno di quelli fatti da sua madre, sembrava lo stesse redarguendo per la compagnia, come darle torto! Oppure semplicemente era un questa volta te la cavi da solo.

La guardò scorrendo le spalle e il praccio proteso mollemente indietro ad afferrare le dita di Joyce per trascinarselo dietro, quest’ultimo alzò un pollice in segno di solidarietà e gli regalò un sorriso a trentadue denti. Mei fece un sorrisetto, che subito svanì quando Millie si strusciò contro di lui col sedere.

A pochi centimetri da lui passò sua sorella che scesa era arrivata fino al fulcro della festa, e lo fissò come se non lo conoscesse.

“Buona fortuna!” bisbigliò Joyce forse per non farsi sentire dalla ragazza blu che gli teneva le dita tra le sue senza stringere, ma riuscendo comunque a non perderlo mai.

E così come era sparita Nikka, sparirono anche loro nella folla danzante. A volte si chiedeva che razza di rapporto avessero quei due.

“Ti va di bere qualche cosa Mei?” chiese Vanessa avvicinandosi a lui cercando di fare la sensuale, cosa che non le venne molto bene. Era imbalsamata in un vestito interamente coperto di lustrini che le si attorcigliava addosso come edera. Del canto suo Millie con un vestito di lustrini più coprente sembrava una di quelle palle di specchi che si trovano in discoteca.

Mei, che fino ad allora si era fatto trascinare si risistemò sforzando di distendere tutti i suoi centottanta centimetri di altezza per darsi un minimo di tono. Si schiarì la voce ed elegantemente sciolse l’abbraccio delle due. “Ragazze scusatemi io devo andare…” doveva andare dove?dove poteva andare per liberarsi di quelle due piovre appiccicaticce e sbaciucchiose? “ …in bagno” terminò con l’unica stanza della casa che gli venne in mente.

“Veniamo con te” dissero in coro sbattendo le ciglia e guardandolo in mielose.

“Da solo” disse tra i denti in po’ irritato lasciandole lì e fuggendo tra la folla. Forse aveva bisogno di stare da solo, forse aveva bisogno davvero di andare in bagno.

Analizzò velocemente i pro e i contro di quella situazione, non era in un locale, quindi i bagni non erano segnalati da neon o altro, era in una casa e quindi lo spazio da esplorare era decisamente minore, escluse il soppalco supponendo che non potesse essere lì.

Ci mise meno di quanto pensasse, il bagno era dietro una porta bianca che si mimetizzava con il muro bianco, dalla quale usciva uno spiraglio di luce elettrica, spinse lievemente la porta con le dita, mentre una ragazza castana con un drink in mano lo spintonava per passare nello stretto corridoio. Mei soffocò un’imprecazione e mantenne l’equilibrio, non sopportava essere spintonato, e quelle feste erano un ricettacolo di spintoni.

Si fece avanti ed entrò nel bagno, che pur essendo di una casa grande non era certo una piazza d’armi.

Rimase sorpreso di trovare due ragazzi in mutande che si sbaciucchiavano sdraiati dentro la vasca, del tutto incuranti del suo ingresso. Mei si guardò in giro perplesso, poi si schiarì la voce per farsi notare. Il ragazzo, che indossava degli occhiali da sole si voltò verso di lui con aria scocciata e chiese “Saresti?”

Mei fece una smorfia “Io sono Mei” rispose con un sorrisetto irritato “e avrei bisogno del bagno”.

Anche la ragazza che era con lui, una biondina decisamente troppo magra e dall’aria sciupata lo guardò storto mentre il suo ragazzo rispondeva “Allora Nei, usalo se ti serve” per poi ricominciare a baciarla.

Mei!” corresse rendendosi poi conto che a quei due non poteva fregargliene di meno di come si chiamava e aggiunse “da solo. Avrei bisogno del bagno da solo!”

Il ragazzo con gli occhiali sbuffò e si accinse a uscire dalla vasca seguito dalla biondina “Non riesci proprio a farla se c’è qualcuno?” brontolò sbuffando, ma poi uscì dal gabinetto mentre la bionda gli cacciava un’occhiata risentita.

Mei corse alla porta e la chiuse a chiave, poi si sedette sul bordo della vasca.

Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Cosa fare? Ci voleva un po’ di cultura zen in quel momento, gli sarebbe stata utile, se non si sbagliava aveva sentito Joyce dire che Jane alle medie per un paio di mesi aveva fatto yoga. Si chiese se yoga e zen si somigliassero.

I suoi pensieri furono interrotti da dei rumori provenienti dalla finestra. Fuori c’era una ragazza alticcia che dava baci al vetro per indirizzarli a lui con le mani e le labbra spiaccicate contro la finestra.  Gli sorrise. Mei si alzò e tirò giù la tapparella chiudendola fuori. Si sentì un Ti amo ragazzo col giubbotto di pelle e un tonfo, segno che la ragazza era caduta per terra tra le piante sotto la finestra. Mei si risedette sul bordo della vasca incrociando gambe e braccia risentito. E che diamine!

Dove era andato a infognarsi anche quella volta!?! Nikka era ubriaca persa e andava a dire ai quattro venti che non si era messa le mutande, Rachele faceva finta di non conoscerlo, Joyce alzava i pollici e due arpie imbellettate gli si lanciavano contro, quella serata era iniziata nel peggior modo possibile.

Erano davvero migliori i tempi in cui stava a casa al computer o a spiare sua madre mentre ballava con Mister Manichino.  Era venuto lì per cosa? Perché Nikka giocava a fare D’annunzio, e a lui cosa diamine veniva in tasca? Una tizia che lo baciava attraverso il vetro?

Diamine lui era venuto lì per Nikka, a lui piaceva Nikka, non le sue stupide amiche di lustrini, e ne anche la tipa che baciava la finestra. Mise le mani a conca e ci appoggiò la testa. Doveva trovarsi una ragazza come diceva Nikka? Doveva proprio farlo? Per poi trovarsi in una vasca in occhiali da sole anni settanta e mutande?

Forse doveva provare a bere un poco, ma che diamine lo spumante gli faceva schifo, per non parlare della birra. Quella roba che aveva bevuto dalla lattina di sua sorella, davanti al gabinetto. Sospirò e si mise a guardare i sanitari, a studiarli e passarci le mani sopra.

Il coperchio del water era di quelli decorati, nello specifico da girasoli e sassolini gialli e arancioni.

Il tappo del lavandino era un poco incrostato dal calcare, ma per il resto era tutto impeccabile, in alto a destra il talco e diversi profumi chic.

Che fare uscire ed andare a casa, o rimanere a poltrire in un bagno. Da fuori bussarono “Allora incontinente,  hai finito? Rivogliamo la vasca!” sbottò poco garbato quello che probabilmente era il ragazzo con gli occhiali da sole.

Mei si alzò irritato e con poca cura girò la chiave ed aprì la porta. Diede un’occhiataccia al ragazzo e se ne andò a passo di mancia, mentre quest’ultimo commentava “Era ora!”.

In un nano secondo aveva deciso che nessuna delle due ipotesi prese in considerazione in precedenza era giusta. Se Nikka voleva che si trovasse una ragazza se la sarebbe trovata. Puntò al tavolo delle vivande e si verso in un bicchiere un liquore a caso. Sospirò e lo mandò giù tutto in una volta, cosa che gli fece fare una smorfia di disgusto, mentre sentiva la gola prendergli fuoco. Respirò forte e guardò il lampadario luminoso. Si passò le mani sulla faccia provato e prese un'altra bottiglia a caso riempiendosi il bicchiere fino all’orlo. Buttò giù anche quello come se fosse una medicina, mentre sentiva già lo stomaco  che si ribellava e un accenno della cena a tornare su da dove era venuta.

Chiuse gli occhi e si strinse nelle spalle. Se doveva trovare qualcuna doveva bere, non è che ci fossero molti altri metodi, se l’alcol ti faceva sentire leggero allora era quello che gli serviva, ma più che altro si sentiva nauseato.

Si guardò in giro, gente che ballava saltellando sul posto, gente seduta per terra, in cucina si intravedevano due che si sbaciucchiavano in modo poco decente sdraiati sulla lavastoviglie. Un tavolino sfondato e qualcuno che ballava sulle poltrone, il pavimento era bagnato di liquidi sconosciuti.

Si chiese chi potesse essere quella pazza di Ilaria Gandolfi, disposta ad accettare quella guerra tra le sue mura gli sfuggì un pensiero sussurrato “Ma chi diavolo permetterebbe che si facesse questo in casa propria?” sbottò con ancora il bicchiere in mano.

“Oh, lei” cinguettarono alle sue spalle, istintivamente si girò e parecchi centimetri più in passo trovò una piccoletta con l’occhio vispo e i capelli dal taglio sbarazzino, che lo guardava con occhi vivaci e molto truccati. Mei la guardò, poi si voltò a guardare la ragazza che gli era stata indicata.

Era sdraiata, piaggiata più che altro, sopra un divano bianco e macchiato dall’aria costosa, a pancia in giù profondamente addormentata con la bocca un po’ aperta e una lattina di birra in mano. Aveva i capelli tinti di un rosso fuoco e per quello che si poteva vedere un seno quasi imbarazzante. Gli sembrava di aver sentito Nikka parlare di sesta di silicone, ma non era sicuro di ricordarlo per bene.

Si voltò di nuovo verso la ragazza bassa che aveva parlato “Non ha una bella cera eh?” fece, lei ghignò “Affatto, e domani mattina quando si accorgerà in che stato è ridotta la sua casa sarà ancora peggio”.

Mei annuì e buttò giù faticosamente un altro bicchiere di qualche cosa di non ben descritto. Sarebbe stato male se lo sentiva, già iniziava a sentir girare la testa, e per di più temeva di aver mischiato troppi alcolici diversi. La ragazza sorrise e si versò del gin, poi lo guardò alzando il bicchiere di plastica “Alla goccia?” chiese.

 Mei si disse che rispondere no grazie, sto già male, non sarebbe stata una gran mossa a quanto gli aveva detto Nikka , quindi si affrettò a riempirsi il bicchiere e a brindare. Sentì tutto il liquido scendergli in gola e strinargliela, non beveva così velocemente neanche l’acqua, figurarsi il gin che effetto doveva fare.

La ragazza era piccola, non come Nikka, ma era diversi centimetri in meno di lui, doveva essere più piccola, non era all’ultimo anno per quello che ne sapeva.

“Devo supporre che tu non sia un suo amico…”fece lei allegra versandosi un altro bicchiere, Mei esibì il suo vuoto fingendo indifferenza.

Pensò a quello che gli aveva detto Nikka, domande “Come ti chiami?” era una domanda stupida, ma almeno non era strana, insomma, il nome bisognava saperlo no?

“Alsazia” ammise con un sorrisetto strano e dondolandosi come una ragazza del coro.

“Geografico” commentò Mei annuendo. Lei sorrise “I più simpatici mi soprannominano Sazia”continuò tranquilla.

“Davvero simpatico” continuò lui senza sapere cosa dire “E tu?” chiese lei.

Mei

“E’ più stupido del mio” ridacchiò. “Oh, è un soprannome, mi chiamo Federico in realtà”. Alsazia annuì “Carino”. Mei annuì imbarazzato senza sapere cosa dire, lei invece sembrava assolutamente a suo agio senza nessun problema a trangugiarsi un altro bicchiere alcolico.

Chebegliocchiassomiglianoaquellidiunacivetta” disse tutto d’un fiato, senza lasciar capire nulla, gli sembrava una tattica estremamente idiota.

“Eh?” chiese lei. “Niente” si affrettò ad aggiungere lui “è l’alcol che parla, non sono io” spiegò rigido.

Lei rise ignara della macchinazione che vi stava dietro “Che buffo!” se non altro tutto quell’alcol non la rendeva troppo perspicace. “Altro brindisi?”

Mei fece un sospiro stanco di chi sta per fare un grande sacrificio. “Vada per il brindisi!”

Poco lontano sedute su una panchina tre ragazze erano intente in ben altri affari “Santo cielo! Che vestito si è messa la millefoglie? Sembra una mongolfiera glitterata! E neanche la sua amica vestita uguale è un granché! Io darei a entrambe un tre come voto sul vestiario”sentenziò irritata una ragazza coi capelli lunghi e mori, in contrasto con la pelle del viso a dir poco cadaverica.

“Io direi anche tre meno!” rincarò la dose la sua amica con occhiali spessi e capelli quasi arancioni.

“Io darei un quattro, ma solo perché il vestito è di marca” commentò Emily seduta tra le due.

“Sì, sai forse hai ragione” disse la mora , poi guardò Emily incuriosita “ma scusami tanto, tu chi sei? Non ti ho mai visto a scuola” domandò accorgendosi solo allora che aveva passato tutta la sera a parlare con una sconosciuta.

“Oh”Emily si ripropose in un gesto civettuolo e disse “Io non sono più alle superiori, sono la sorella di Joyce non so se avete presente? Faccio economia finanziaria all’università”spiegò con un sorriso.

“Chiunque conosce Joyce, come dire… si è fatto notare… e poi lo so che sei sua sorella ma quel pellicciotto è davvero orribile, gli darei un due!”

“Oh, io gli darei meno uno! Lo so che è orrendo! E non è nemmeno di marca!”sentenziò Emily visualizzando il vestiario del fratello mentalmente.

“Un altro drink?” chiese la rossa, o meglio, l’arancione a Emily, notando il bicchiere vuoto dell’amica.

“Oh, no grazie, sono astemia, se non rimango lucida come faccio a trovarmi un miliardario?” spiegò gentilmente mentre la sua interlocutrice rimaneva a bocca aperta e guardava l’amica.

“Ma, ma… è quello che pensiamo anche noi, come fai a raggiungere gli intenti, come trovarsi un miliardario o carpire tutti i pettegolezzi se non rimani lucida!”, ci fu un abbraccio generale, e sbocciò così un nuovo inaspettato amore.

“Potresti venirci a trovare in mensa nelle pause pranzo! ci sono un sacco di pettegolezzi che ti interesserebbero tantissimo!” esclamò la ragazza diafana al settimo cielo.

“C’è qualche ragazzo ricco?” si informò subito Emily. La ragazza mora ci pensò “Mah, in realtà a parte Lombardi non mi viene in mente nessuno, ma credo che la ragazza che ha dato questa festa abbia un fratello!” disse pensierosa. Emily sorrise “Ottimo!”

“Tornando a noi” esclamò la rossa rimettendo l’attenzione delle amiche dove doveva stare ovvero al pettegolezzo “Anche questa sera Isabella Gigli ha tradito il suo ragazzo, e lui continua a non credere che lei sia una ragazza dai facili costumi, intanto gli sta crescendo una foresta amazzonica di corna sulla testa…” disse.

“Oh, poverino! È ricco?” si lasciò commuovere Emily. La rossa occhialuta la liquidò con una mano, come per dire lascia perdere è povero in canna.

“E tra l’altro, chi diamine erano quei due che sono passati prima? Lei con gli occhiali da sole di notte,i capelli talmente ossigenati da sembrare bianchi, ubriaca fradicia prima di entrare, e lui con quella pettinatura da ananas e una granita in dicembre?” chiese.

“Non ne ho idea, rispose l’amica, dici che ci sia dietro uno scandalo? Comunque alla maglietta rosa del ragazzo darei un quattro e mezzo…

“Indaghiamo” esclamò la rossa convinta.

Poco distante Joyce e Rachele uscivano dal garage di famiglia e lo richiudevano tranquillamente.

“Cosa ci manca?” chiese lei tranquilla , mentre lui estraeva un foglio dalla tasca dei jeans , su cui stava scritta una lista “Allora, fare una foto a Isabella Gigli mentre bacia un altro e mandarla al suo ragazzo,fatto, se non crede alle pettegole  crederà alle foto, fare i baffi col pennarello indelebile a Livio Urbini mentre dorme, fatto, chiudere in bagno quell’idiota di Elena … perché hai dovuto aggiungere idiota, ce l’hai con lei perché è andata con tuo fratello?” , Rachele grugnì in risposta, “Vabbé, comunque fatto anche quello, tagliare i capelli a Luca Ghini , fatto, è pronto per arruolarsi, dovevi vedere com’era carino, poi…hai davvero scritto bucare le tette alla Gandolfi? Ma non si può!” esclamò Joyce perplesso.

“Sono di silicone!” ribatté lei stizzita. “Ma non puoi lo stesso!” replicò lui. Rachele sbuffò di fronte all’evidenza.

“Allora andiamo a casa, recupera Eddy , io ti aspetto in auto”disse andandosene con andatura un poco barcollante. Non andò molto lontano perché Joyce si appoggiò a lei ed entrambi finirono contro il muro.

“Spostati , mi schiacci” disse stancamente, una delle poche volte che era così fiacca che le era difficile pure essere brusca con Joyce, cosa che invece normalmente le veniva abbastanza bene. Pensava che si sarebbe spostato, ma non si mosse di un millimetro. Fece forza con la mano perché si allontanasse, ma non ebbe l’effetto sperato “Spostati Joyce” chiese senza guardarlo in faccia.

Si rese conto che non avevano più otto anni e che tutte le volte che lei lo picchiava era solo perché lui glielo permetteva. Deglutì e alzò lo sguardo “Mi lasci andare?”. Per tutta risposta lui appoggiò le labbra sulle sue, Rachele spostò di poco il viso.

“Voglio andare a casa Joyce, non mi baciare” disse , mentre lui si decideva spostarsi, lui le lanciò uno sguardo strano “Posso dormire da te sta sera?”domandò in un sussurro.

“Neanche per sogno” rispose lei riacquistata la solita strafottenza “E vai a recuperare Eddy, sta per piovere”.

Joyce la guardò mentre si allontanava, poi riaprì il portellone del garage e vi entrò lasciandolo aperto.

Alsazia si era alzata sulle punte e gli aveva stampato un bacio scherzoso sulle labbra, avevano parlato, e forse era sembrato anche divertente, merito dell’alcol, anche se aveva la bruttissima sensazione di dover rimettere da un momento all’altro.

“Vieni di là?” chiese lei con un sorrisetto complice, lui sorrise a sua volta, era carina, era carina e voleva imboscarsi con lei “In garage?”

“In garage” confermò lui mentre lei lo prendeva per mano e lo conduceva via tra la ressa.

Hello Mei”esclamarono da dietro di lui, si girò e vide un vecchio Eddy con la sigaretta in bocca e una birra in mano che gli faceva l’occhiolino. Mei non rispose e spinse via Alsazia verso il garage.

“Conosci quel vecchio?” chiese lei perplessa.  “No” si affrettò a rispondere lui, con l’aria più colpevole del mondo. Alsazia ridacchiò, credendogli, la birra fa notoriamente miracoli.

Ridacchiò, mentre nel buio del retro si inciampò nei gradini che portavano in garage, Mei la prese al volo, sorprendendo più di tutti se stesso per i suoi riflessi.

“Perché ti chiamano Mei?”chiese lei quando furono completamente al buio. Si risparmiò di dire che era il soprannome di suo padre e che lui l’aveva ereditato alla sua morte, portare il nome di un morto forse non era troppo sexy.

“E’ il nome del primo programma per pc che ha progettato mio padre”spiegò. “Figo, quindi tuo padre è una specie di hacker?” domandò allegra.

“Più o meno”rispose un po’ incerto. Era, era un hacker. “E tu perché Alsazia?”

Lei alzò le spalle nel buio “Credo che piacesse a mia madre” rispose con semplicità, prima di tirarselo addosso, Mei pensò a quello che gli aveva detto Nikka… bacio con le labbra… ma poi pensò che non gliene fregava niente di quello che avrebbe detto Nikka in quel momento, forse era l’alcol, forse lei era carina, e non aveva alcuna intenzione di cascare nella romanticheria. E a Mei andava bene così. Piegò un po’ le ginocchia ed entrambi si appoggiarono a uno scaffale pieno di cianfrusaglie tipiche da garage.

Sentì la sua mano infilarsi tra i capelli e chiuse gli occhi mentre si baciavano, non ci volle molto per capire che ciò che stonava in tutto quello era una fastidiosa luce elettrica che si era accesa proprio sopra la loro testa.

Mei si scostò da Alsazia e guardò alle sue spalle mentre lui arricciava il naso infastidita e lo tirava per il collo del giubbotto in pelle.

Mei!” esclamò Nikka sulla cima dei tre gradini sui quali Alsazia si era inciampata poco prima, sembrava decisamente più sobria di quando l’aveva vista alla sua entrata alla festa, e teneva stretto per la cravatta un ragazzo che poteva sembrare un cagnolino da passeggio.

Nikka lo guardava sbalordita con la bocca lievemente aperta e le sopracciglia aggrottate, forse lui era un po’ sporco di rossetto, ma non era nulla di così disdicevole, non stava mostrando i gioielli di famiglia a nessuno e non aveva neanche un impermeabile giallo.

Nikka si avvicinò sempre con la stessa espressione in bilico sulle zeppe da dodici centimetri almeno e le mani sui fianchi, mentre il ragazzo con la cravatta rimaneva impalato sulla porta perplesso.

“Che cavolo fai?” esclamò mollandogli uno schiaffo sulla guancia.

Fece più male, così inaspettato.

“Cosa c’è che non va?” strillò stizzito coprendosi la parte lesa con una mano. Alsazia l’aveva mollato e guardava la vicenda con gli occhi sgranati senza capire.

Nikka pestò i piedì e scappò fuori mentre la lampadina del garage si fulminava con un crepitio. Fuori nel frattempo aveva cominciato a piovere a dirotto.

Mei fece uno scatto e la raggiunse sotto la pioggia afferrandola per un braccio e lasciando Alsazia da sola al buio insieme all’uomo di Nikka.

“Che diamine fai?” urlò ancora mentre la pioggia lo bagnava completamente.

“Ho fatto quello che volevi tu! Mi sono trovato una ragazza! Non è abbastanza carina per te? Vuoi scegliermela tu?” rincarò strafottente e arrabbiato.

 “Sei un’idiota! Sei davvero un’idiota!”strillò lei di rimando con le lacrime agli occhi. Poco lontano le pettegole ed Emily riparate sotto un ombrello viola a pois non si perdevano una parola.

Il trucco di lei si stava iniziando a sciogliere, lasciandole due grosse scie nere sulle guance. Mei allungò le mani fino al suo viso con l’intento di toglierlo del tutto, ma il risultato fu di peggiorare le cose, facendo un orrendo mischione tra mascara e fondotinta.

“Non sei così bella senza trucco… e poi sembri finta, ti sciogli quando piove” disse andandosene. Pochi metri più in là, al margine del giardino rimise tutto quello che aveva mangiato e tutto l’alcol che aveva bevuto, un po’ per l’inesperienza, un po’ per la rabbia.

“Se non fosse stato per il rigurgito finale sarebbe stata una sorprendente uscita di scena!” esclamò allegra la mora, le altre due annuirono per poi dare la loro attenzione a Pallotti che correva nudo per il giardino ubriaco fradicio.

 

“Perché cavolo hai un’auto verde Irlanda? Fa schifo” sentenziai con la mano tesa fuori a bagnarsi con la pioggia.

“Penso che prima di criticare il verde della mia auto dovresti pensare ai tuoi capelli blu!” ribatté Joyce.

“Ah sì? Vogliamo parlare allora del tuo pellicciotto arancione?” continuai.

“Su ragazzi! È inutile prendersela coi colori!” disse dal posto dietro il vecchio Eddy cercando di fare da paciere.

“Zitto tu!” dicemmo in coro io e Joyce. Il vecchio Eddy sbuffò.

“Non ci vengo più alle feste con voi, la prossima volta rimango a casa a litigare con mia moglie!”blaterò mentre Joyce si fermava per farlo scendere all’Irish.

“Siamo arrivati Eddy” disse con un sorriso. Lui scese bestemmiando poco cortesemente. Joyce ripartì in mezzo alla pioggia più fitta.

“A cosa devo la guida pacata di sta sera?” domandai tranquilla allungando le gambe sotto il cruscotto. Joyce alzò le spalle con un sorrisetto saputo “Ho superato la fase ultra velocità che si ha, appena presa la patente…”rispose navigato.

“Allora tra un po’ passeremo alle curve con il freno a mano suppongo”lo punzecchiai.

“Può darsi” rispose lui sereno tirando il freno a mano per curvare a tutta velocità e parcheggiarsi davanti al portone di casa mia. “Pensavo di darmi al rally sai” continuò.

“Sarebbe carino, così la smetteresti di far rischiare la vita a me in strada” ribattei non troppo arrabbiata ma neanche troppo contenta della mossa da stuntman.

Non scesi subito rimasi un attimo in silenzio a pensare, poi proferii senza guardarlo “Vuoi salire allora?”

Fammici pensare” rispose lui con aria mefistofelica. Sbuffai “Sali idiota!” mi slacciai la cintura e scesi. Joyce aveva a mo’ di sciarpa una fune di lucine natalizie prese da chissà dove.

“Cereali?” chiesi quando entrammo in casa bagnati fradici. Lui annuì “Però li voglio con la birra” alzai le spalle, che ci facesse quello che voleva con quello stomaco che si ritrovava.

Aveva appena afferrato il cibo quando la porta si aprì con un botto rivelando un arrabbiatissimo Mei.

“Che è successo?” chiesi brusca, non più del solito, ma brusca.

“Nikka mi ha tirato una sberla e devo vomitare” disse senza guardarmi  e puntando direttamente al gabinetto nel quale si chiuse.

Alzai le spalle “Potere alle donne” proferii tranquilla decidendo di annegare pure io i cerali nel dolce liquido ambrato, come insegnava Joyce. Ero già brilla, ma andava bene così.

“Ci ubriachiamo?” chiese lui.

“Io sono già ubriaca” risposi tranquillamente “E se ci mettessimo anche dei marshmellon oltre ai cereali e la birra, come sarebbe?”

 

 

Ebbene sì un nuovo capitolo. Avevo un sacco di commenti da fare su quello che ho scritto, ma sono le 11 e 15 e non connetto più tanto bene, unica curiosità per chi ha letto Il Potere delle Pesche, la coppia che a un certo punto criticano le pettegole sono Delfina (occhiali da sole anche di notte) e Marco (granita e chioma idiota), piccolo cameo che mi sono permessa, mi piace pensare che i miei personaggi si possano sfiorare anche da una storia all’altra. Ah, poi ho voluto introdurre il signor Cumoli, è inutile, ma li avevate già conosciuti tutti, e ho voluto presentare anche l’ultimo genitore. Infine, premettendo che non amo indirizzare l’immaginazione di chi legge con foto eccetera, per chi si vuole fare un po’ di fatti miei la festa me la immagino come quella del video musicale di The Middle dei Jimmy eat world, però con la gente vestita. Mi piace anche la canzone tra le altre cose! La parte che mi piace di più del video sono i due che si baciano nel frigorifero, mi fanno morire dal ridere, ci sono anche in questa festa, non ne ho parlato ma me li sono immaginati!!

Grazie mille a chi ha commentato, TheDuck(molto piacere di conoscerti! In realtà a me D’annunzio non fa impazzire ma l’ho portato all’esame di maturità perché trovo che si distingua da tutti gli altri… XDè l’unico per cui provo antipatia, gli altri non mi trasmettono nulla, e venni linciata!!per Joyce e Rachele chissà…),Novembre(sul 27 gennaio sono rimasta parecchio in dubbio sul mettere la lemon o meno, ma sono parecchio imbarazzabile e non ce l’avrei fatta, ma se ti interessa più che altro è consistita in insulti e gomitate!!) e DarkViolet92(grazie mille per il sostegno, sono felice che tu abbia apprezzato il mio capitoletto dedicato al signor Pavesi!!).

Grazie ancora a chi ha messo la storia tra le seguite e preferite, ovviamente anche a chi ha letto, spero vi possa piacere anche questo! buona notte (si adesso vado a letto!!)

 

 

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Capitolo 17
*** Turchino Natale ***


 

I miei venti metri quadrati

Capitolo Diciassettesimo

Turchino Natale

 

 

Rimasi a guardare le ciglia scure di Joyce a pochi centimetri dal mio viso. Aveva gli occhi scuri, i capelli scuri, la pelle scura e nonostante ciò aveva il coraggio di definirsi Irlandese!

I capelli erano scomposti sul cuscino, non avevano quella strana forma che era solito dargli lui, a cresta storta così da dare impressione di aver appena preso un colpo di vento.

Da addormentato poteva sembrare a occhio profano quasi innocuo, con le labbra leggermente aperte e il respiro leggero. Gli passai un dito sulle sopracciglia scure. Erano strane folte ma sottili, spostai il dito lisciandolo fino ad arrivare agli zigomi pronunciati, forse un po’ troppo. Gli mancava un dente. Non che si vedesse, ma quando glielo avevano tolto, alle medie, perché si era cariato aveva rotto le scatole a tutti perché si sentiva menomato.  Sempre meglio che essere evirato” aveva commentato sua sorella Emily sprezzante mentre era alla ricerca di un fidanzato ricco, analizzando i conti in tasca di vari banchieri degli USA. Al tempo non sapeva cosa voleva dire, lo scoprì tempo dopo, e si disse d’accordo con sua sorella.

Passai un dito sul lato della bocca e sul mento. Non aveva molta barba, ma a quanto pareva gli stava spuntando quella nuova, avrebbe dovuto raderla, il mento era un po’ ispido, mi morsi il labbro e gli passai il dito sul collo, pomo d’Adamo, da piccolo non lo aveva, e se avessi fatto più attenzione avrei scoperto che era spuntato anche a mio fratello. Le clavicole erano sporgenti, ci passai sopra il dito seguendone il contorno, e proseguii sulla spalla.

Joyce non era un culturista, né un palestrato, né simili, ma non era come suo padre, che era un piccolo scricciolo appassionato di fumetti, non si sapeva da chi avesse preso, dato che superava sia me che suo padre di tutta la testa. Forse era un po’ sproporzionato, con le spalle troppo larghe rispetto al resto del corpo, da dove erano spuntate? Chissà, da dove erano spuntati tutti gli altri muscoli… pensai che Joyce era carino…era carino si, non era un brutto ragazzo…oggettivamente certo, non che mi piacesse è ovvio. Però era carino… no, non è vero, Joyce non era carino, era un idiota, e per sottolineare il mio pensiero gli tirai una sberla in faccia puntellandomi con un gomito sul materasso.

Lui sobbalzò mezzo sveglio mezzo no, un po’ per il male, un po’ per il ciocco.

“Oddio, chi sono? Dove sono? Non ho rubato io i cervi del Re!” blaterò prima di mettersi a sedere e voltarsi a guardarmi perplesso. Fece un sospiro. “Ah, sei tu Rachele!”

“Che ci fai nel mio letto?” sbottai con una smorfia. Lui si accigliò e mi lanciò uno sguardo eloquente.

“Di nuovo?” strillai irritata tirandogli un calcio che lo fece cadere per terra portandosi dietro buona parte della coperta.

“Questa volta non ho fatto niente è tutta colpa tuaaa…ah!” finì per terra con uno strillo vagamente femminile.

Alzai gli occhi al cielo. E così era arrivato anche Natale.

 

Poco dopo, con un livido sul sedere dovuto alla caduta dal letto ,Joyce si presentò in mutande nella cucina dei Pavesi, dove la signora spignattava tortellini e dolci natalizi.

“Buongiorno signora!” esclamò allegro lui. Arabella Pavesi lo gratificò con un sorriso, per nulla perplessa nel vederlo in mutande, girava spesso per casa loro in quelle condizioni.

“Mio padre le manda un panettone” disse appoggiandone uno avvolto da una scatola blu, comprato al supermercato. Il signor Cumoli era tristemente noto per essere una frana ai fornelli.

“Oh, Joyce caro, ringrazialo tanto, tuo padre è davvero un tesoro. Tua madre viene in Italia per Natale?”chiese tranquilla tornando alle sue cibarie.

Joyce scosse la testa “No, ma forse verrà insieme a mia sorella Darcy per Capodanno” spiegò. La signora Pavesi annuì e sorrise amabile pur non avendo mai sentito nominare nessuna sorella Darcy in vita sua.

“Mamma” mugugnò Rachele ancora assonnata facendo il suo ingresso in cucina in camicia da notte.

“Dov’è Mei?” domandò appoggiandosi stancamente allo stipite della porta, mentre Joyce decisamente più sveglio si girò verso di lei.

“Oh, è ancora a letto, pare che ieri sera abbia fatto più tardi del solito. Spero che non si sia ammalato con tutta quella pioggia. L’avete riportato a casa voi in auto vero?” chiese tranquilla.

“Certo” mentì Rachele senza esprimere alcuna emozione, poi si rimise in equilibrio su entrambe le gambe e si avviò verso la stanza con la catenella da cesso, camminando a piedi nudi sul pavimento freddo.

“Sai ho idea che ieri sera sia successo un po’ di casino tra tuo fratello e Nikka…oltre la sberla, pare che abbiano litigato” disse Joyce con aria preoccupato.

“Perché dici?” chiese lei bussando alla porta del fratello con aria indifferente.

“Me lo ha detto Emily… ho idea che sia entrato in un circolo… un club… una setta… forse satanica…” spiegò lui con tono sempre più drammatico. Il circolo delle pettegole incuteva timore un po’ a tutti.

Rachele incurante non sentendo risposta aprì la porta sbattendola. La tapparella era alzata e Mei era sdraiato sul letto con gli occhi a mezz’asta e un pigiama a righe bianche e azzurrine.

“Che diamine hai fatto?” chiese brusca sedendosi di botto sul suo letto mentre Joyce si appoggiava allo stipite della porta rimanendo in disparte.

Mei mugugnò scocciato, era evidente che non gli andava di parlare, ma sapeva che sua sorella era irremovibile.

“Ho litigato con Nikka… mi ha fatto una storia infinita sul fatto che dovevo trovarmi una ragazza e quando alla festa me la sono trovata si è arrabbiata e mi ha tirato uno schiaffo. Quasi mi fa ancora male…” disse voltando il viso dall’altra parte con aria triste.

Rachele si voltò a guardare l’amico che era rimasto a guardare, lui alzò le sopracciglia in modo eloquente.

“Tu non capisci cosa dicono le donne, figurati se capisci quello che pensano!”disse rassegnata. Sospirò.

“Su, ripigliati, oggi è Natale” disse alzandosi. “Ho lo stomaco a pezzi… e ho ancora voglia di vomitare”disse con un singulto faticoso.

Rachele gli assestò una pacca amichevole sulla cassa toracica “Tranquillo, la prima  volta capita a tutti! Ma non temere i tortellini sono un toccasana!” disse tranquillamente uscendo un po’ sbilenca seguita a ruota da un Joyce ancora mezzo nudo che gli regalò un sorriso raggiante a trentun denti.

 

 

Rachele mosse un po’ il cucchiaio nel brodo appoggiando il volto annoiato al pugno. Zio Michele era già ubriaco prima di iniziare a mangiare e diceva idiozie a tutto andare, mentre sua moglie, una sclerotica bionda dall’aria consumata gli urlava dietro suscitando l’ilarità della tavolata. A parte quella di Mei, che rigirava depresso il cucchiaio nel brodo come la sorella, di Rachele scocciata e di loro cugina Lisa che imbarazzata nascondeva il viso scialbo dietro ai lunghi capelli biondi ereditati dalla madre.

La signora Pavesi si apprestava a tirare fuori le scaloppine ai funghi, il cotechino, le verdure grigliate, il tacchino, l’insalata russa, i ravioli al vapore, il set di ghiaccioli all’anice, le castagne, i cachi, la pasta al forno, le cotolette , le costolette d’agnello, e zio Michele tra i fumi dell’alcol giurava di aver visto anche una colomba pasquale.

La noia imbarazzata e ilare del pranzo venne interrotta dal suono del campanello.  I padroni di casa aguzzarono subito le orecchie. È inutile dire che non suonava più nessuno a casa loro, e la cosa gettò nel panico la famiglia, che rimase ferma a guardare la porta finché Rachele non si alzò annunciando “Vado io”.

Sua madre le aveva confezionato un vestito turchino,vaporoso con la gonna di tulle che con Natale non ci stava a dire proprio nulla. Insomma , non si era mai sentito parlare di un turchino Natale!

Afferrò la cornetta del citofono svogliatamente “Chi è?” chiese diplomatica.

Ci fu un sospiro “Sono Nikka, c’è Mei?”

Rachele si guardò in giro guardinga e si morse l’interno delle guance pensierosa, poi riagganciò. Si voltò facendo finta di nulla con l’intenzione di tornare a tavola ma si trovò suo fratello a sbarrarle la strada con uno sguardo supplichevole dipinto in volto.

Rachele storse la bocca e poi fu costretta a dire controvoglia “E’ lei” e poi tornò al tavolo assestandogli una spallata.

Mei la guardò andare verso la cucina ancheggiando nel suo vestito turchino. Sospirò e si chiese cosa fare. Poi con un gesto repentino afferrò la giacca di pelle e uscì. Rachele sospirò e chiuse gli occhi quando sentii il botto della porta.

Mei si fermò alla fine delle scale per guardare oltre la porta a vetri. Nikka lo guardava dall’altra parte. Lui deglutì e uscì all’aperto, una sferzata di vento gli investì il viso.

Respirò l’aria gelida mentre lei lo fissava dal basso, immobile senza sbattere le palpebre.

Indossava un cappotto lungo in panno color giallo canarino, come l’auto d’epoca, ristrutturata che le stava dietro.

“Ti va di parlare, o non sono abbastanza bella per te?” chiese tra il gelido e il supplichevole.

Mei deglutì, sentendo un groppo in gola, al ricordo di quello che aveva detto la sera prima.

“No, …sì…sì che sei abbastanza bella per me” blaterò. Nikka si guardò in giro e poi si mise degli occhiali enormi.

“Dai, sali in auto, facciamo un giro” disse avviandosi verso la minuscola e antiquata vettura. Mei annuì e la seguì a testa bassa andando a sedersi al posto del passeggero.

L’auto era piccola, e vecchia, trent’anni almeno, ma aveva l’aria di essere stata messa  nuovo, c’era un girasole sul cruscotto. Si domandò se si fosse vestita di giallo per essere in tinta con la sua vettura.

Nikka partì sgasando.

“Allora Mei, capisco, abbiamo avuto dei problemi, mi sono già scusata per  i logaritmi, è stato un colpo basso imboscarmi con quel troglodita di Pallotti mentre tu facevi  i compiti, e so anche che ti sei ammalato quando ti ho costretto a fare il bagno nei ghiaccioli, ma speravo che queste cose si fossero un po’ insabbiate” fece con voce diplomatica e sicura, non era più indecisa come prima, parlava a raffica, e guidava veloce, curve a gomito e sgasate, erano ormai usciti dalla città, intorno a loro campi invernali e assolati.

Da quando Mei era nato non si ricordava un anno in cui a Natale non fosse stato bel tempo.

“Beh, dai, in questi mesi mi hai conosciuta, sono una ragazza molto intraprendente, e a volte forse mi faccio trasportare… spero che potrai capire…” disse tutto con voce così concitata e stridula che Mei si preoccupò per qualche secondo che non le potesse causare un’embolia o qualche cosa di altrettanto antipatico.

Ma alla fine sfrecciando ancora per un ultimo tornante decise di fermarsi in una piazzola di ghiaia. C’era qualche ciuffo d’erba spelacchiato e un solo fiore, Mei non avrebbe saputo dire di cosa.

Scese e una ventata d’aria fredda gli fece chiudere gli occhi, mentre la portiera dell’auto si serrava con un botto.

Anche Nikka scese, aveva finito di parlare, anzi no, si era interrotta per avanzare silenziosamente verso di lui, coi piedini intrappolati in un paio di ballerine gialle come il cappotto lungo, che lasciava appena uscire l’orlo della gonna marrone. Non fece rumore avvicinandosi a lui che guardava la città dall’alto. Se non fosse stato per l’orribile cappa di smog si sarebbe vista in tutto il suo splendore medievale.

Lo raggiunse a piccoli passi mettendosi di fianco a lui coi piedi vicini.

Rimasero in silenzio un altro poco, poi Nikka parve riaccendersi, come se qualcuno avesse premuto un bottone.

“Beh, e poi per l’altra sera… forse ho un po’ esagerato col gin, ed è per questo che mi sono un po’ esaltata, sono felice che tu sia riuscito a trovarti una ragazza, ma ti dirò, la trovo un po’ sciatta, non potresti puntare un po’ più in alto, come hai detto che si chiama?” trillò con voce acuta.

“Non te l’ho detto” rispose lui in un sussurro “Alsazia, si chiama Alsazia” spiegò.

Nikka fece una faccia schifata “E che cavolo di nome è?”sbottò.

Mei alzò le spalle “E’ geografico”, Nikka probabilmente non lo sentì e continuò a parlare “E poi forse hai fatto troppo in fretta ad abbordarla!”continuò imperterrita gesticolando senza guardarlo, come se fosse troppo impegnata a fissare la cappa di smog.

“Hai fatto tutte le tappe che ti avevo detto?” trillò.

“E tu col tipo che stavi tirando per la cravatta?” chiese. Non era arrabbiato, non sembrava neanche triste, ne saputo, era solo una semplice constatazione. Una constatazione che mandò in buca Nikka.

“Oh… io e… e Coso ci conosciamo da un sacco di tempo!” disse annuendo ed enfatizzando la parola sacco.

“Non sai neanche come si chiama” disse con tristezza apatica. Si morsicò l’interno della guancia, ma guarda come si era ridotto, a essere geloso di una streghetta esaltata ed egocentrica che non lo vedeva come altro se non come il suo cagnolino. I levrieri di D’Annunzio. Avevano sicuramente più lussuosa dignità.

“Oh, no, lo chiamo Coso, perché mi piace chiamarlo così, sai a volte affibbio soprannomi,per esempio Millie! Non si chiama Millie, è l’abbreviazione di Millefoglie, che è il suo cognome!”continuò a spiegare senza il minimo imbarazzo.

“Alsazia è simpatica” disse poi lui, e Nikka si azzittì definitivamente. Sospirò e guardando la città coperta dallo smog si avviò verso il guardrail per poi sedercisi sopra. Mei la seguì facendo lo stesso, non si guardavano, e Nikka tirava piccoli calci alla ghiaia facendola scivolare a valle.

Da lontano si udì il suono di una sirena di ambulanza.

“Verso le tre del giorno di Natale il pronto soccorso si riempie, perché la gente mangia troppo…” disse lui guardandosi le scarpe.

“Sei cinico” disse lei sottovoce. Mei alzò le spalle “Non è vero, è che conto le ambulanze… e a Natale verso le tre c’è l’impennata… Coso è simpatico?” chiese infine con lo stesso tono piatto.

“No, è un idiota” disse amaramente lei “Torniamo a casa?”. Mei annuì ed entrambi entrarono silenziosamente in auto.

L’unico rumore che accompagnò il viaggio verso casa era il rombo del motore, ci misero più tempo che all’andata, la guida di Nikka era decisamente più calma e fluida.

Si fermò quasi in mezzo alla strada, senza curarsi di parcheggiare al meglio, la città sembrava deserta, se non fosse stata per qualche canto natalizio e qualche fastidioso abete meccanico e parlante che urlava Merry Christmas. Scesero entrambi, Mei avrebbe giurato che lei se ne sarebbe andata e invece lo seguì fino alla porta di casa , si voltò perplesso a guardarla prima di salire. Lei rispondeva al suo sguardo trenta centimetri più in basso, e andò a sedersi sullo scalino in cemento che separava la porta d’ingresso dal marciapiede, la gonna le si alzò un poco, mostrando una modesta porzione di calze candide.

Il ragazzo rimase con un piede sul gradino e la mano appoggiata al bottone del citofono,indeciso se salire o rimanere lì con lei.

Sembrava decisa a rimanere lì seduta, anche se lui fosse salito.

Fece un passo indietro e si accoccolò accanto a lei.

“Mi odi?” chiese lei triste. Mei prese un profondo respiro “A volte sì” ammise infine senza avere il coraggio di guardarla.

“E’ per lo schiaffo? E’ perché ti tratto come se fossi di mia proprietà? E’ perché parlo sempre di vestiti?” chiese con la voce un po’ piagnucolante. Mei sospirò senza sapere cosa dire, e Nikka deglutì incerta quando si accorse dell’ombra scura che aveva sulla guancia.

Non pensava che lo schiaffo che gli aveva assestato la sera prima fosse stato così forte, gli era venuto il livido.

Fu in quel momento che una faccia tonda con un concio spuntò orizzontalmente dalla porta d’ingresso.

“Oh, ragazzi siete qui!” esclamò allegra la signora Pavesi. Entrambi si voltarono verso la donna, della quale dalla porta sbucava solo la testa. La testa fu seguita da un corpo rotondo  saltellante che a piccoli passi si posizionò gioviale davanti ai due mostrando una torta ricoperta di cioccolato.

“Ragazzi se volete salire stiamo per aprire il panettone del signor Cumoli! E intanto vi ho portato giù la torta Sacher!” esclamò raggiante.

“Non importa mamma, stavo giusto salendo e..” disse Mei accennando ad alzarsi prima che sua madre gli appioppasse il vassoio fuggendo civettuola con un gran sfarfallare di grembiule giallo con tanto di mucche ricamate al punto croce.

“No, no, cari” risatina genitoriale infantile “ non volevo interrompervi! Io torno su, unitevi pure a noi se vi va!” e fuggì su per le scale lasciando che la porta dell’atrio sbattesse.

Mei si appoggiò al vetro con la testa sospirando.

“Credi che potremmo essere amici lo stesso?” domandò lei con una smorfia scettica. Mei si alzo e le depositò la torta in grembo.

“Non lo so” sussurrò infine prima di infilansi nella porta e augurare “Buon Natale Nikka…”. E anche lui come sua madre sparì lasciandola sola con la torta.

Il primo impulso fu di gettarla a terra malamente, ma poi ci infilò il pugno afferrandone un gran pezzo e se lo mise in bocca con rabbia.

Mei salì le scale di corsa, non perché fosse felice, ma voleva scappare dalla strada dove era stato fino a un minuto prima. Sua madre aveva lasciato la porta socchiusa, e sul pavimento del pianerottolo, in palladiana si faceva largo un rivolo di luce. Spinse piano la porta ed entrò senza far rumore, dalla cucina arrivavano gli schiamazzi di zio Michele ubriaco che cercava di brindare con tutti schizzando vino rosso ovunque.

Seduta sul divano con le gambe raggomitolate sotto al sedere e il vestito vaporoso che occupava praticamente tutto il residuo sofà, Rachele assisteva alla vita famigliare con noia apatica. Sembrò avere un guizzo quando vide entrare Mei furtivo, nella penombra dell’ingresso. Si alzò in piedi di scatto, guardandolo negli occhi e annunciando “Buon Natale a tutti, io vado” con scarsa vivacità.

“Tesoro, portati dietro questi, per ringraziare il signor Cumoli del panettone!” cinguettò la signora Pavesi quasi sdraiandosi sul tavolo per porgere alla figlia un piatto. Rachele annuì e lo afferrò, quando si incrociarono Mei non aveva ancora messo piede in cucina. Gli lanciò un’occhiata, non era di rimprovero, era di curiosità, e con gli occhi sgranati a guardarlo si avviò  verso la porta d’ingresso , si voltò solo quando zio Michele si accorse del nipote e gli si lanciò addosso a peso morto.

Mei, sei tornato! Sentivi la nostra mancanza vecchio briccone!”, Mei ridacchiò un po’ imbarazzato cercando di scollarselo di dosso.

“Su, su zio, sono stato via solo mezz’ora!”cercò di liquidare.

“No, mi sei mancato Mini Mei!” piagnucolò suo zio abbracciandolo. Sua figlia Lisa, in sincronia con sua moglie si coprì la faccia con le mani per non vedere la scena.

Rachele fu invece silenziosamente inghiottita dal buio della tromba delle scale, quando la porta si chiuse definitivamente dietro di lei.

 

Rimasi per qualche secondo ferma immobile sul gradino che separava la porta del mio condominio dal marciapiede, a guardare Nikka che mangiava con le mani la sacher di mia madre.

Alzò la testa per guardarmi, credo che non volesse essere vista così, tutta sporca di cioccolato. Dedussi che la parte forte della discussione per una volta fosse stato mio fratello.

Poi, parte forte, era tutto da vedere, ma a Nikka non era andata bene a giudicare da come si stava strafogando di torta.

Mi fece quasi pena per un attimo. Alzai le sopracciglia e mi avviai verso casa di Joyce, non mi ero nemmeno messa il giubbotto, e la temperatura non era di gradimento ne alle mie spalle, ne alle mie gambe. Volevo sbrigarmi a fare quei due passi che mi separavano da casa Cumoli, ma nonostante questo dissi “Attenta, non hai idea di quante calorie contiene quell’affare…”.

Lei fece fatica a non rispondere, e rimase lì, seduta sul gradino, con l’ultima fetta di torta ancora in mano.

“TI auguro un turchino Natale” proferii accennando al mio vestito decisamente fuori luogo.

Non lo so di preciso perché non mi girai, ma credo che sfracellò il dolce sull’asfalto e scappò via in auto.

La porta dell’appartamento dei Cumoli mi fu aperto da Emily che non mi fece vedere altro che la sua faccia, tenendomi all’oscuro di ciò che si celava all’interno, per dire “Non guardare la cravatta di Joyce, potresti pentirtene. O almeno se la guardi non descriverla a tua madre, credo che potrebbe avere seriamente uno shock anafilattico” disse con voce grave “Ah, comunque buon Natale” augurò prima di schiudere l’uscio rivelandomi un Joyce coi pollici alzati seduto sul divano.

“A tuo rischio e pericolo” aggiunse Emily mentre io rispondevo che c’ero ormai abituata, non poteva esserci nulla di peggio del pellicciotto arancione.

“CHE DIAMINE E’ QUELLA ROBA?”sbraitai appoggiando il piatto sul tavolo per non farlo cadere, e indicando con aria omicida la cravatta di Joyce.

“Io la trovo natalizia” mi rimbeccò lui. Oltre a quella volta credo di non aver mai visto una cravatta con le lucine colorate. C’era raffigurato un abete illuminato da tante piccole lampadine intermittetenti, come se fosse stato vero.

Jane mi passò un bicchiere di spumante “Bevi, che è meglio! Ci ha messo così tanto ad ubriacarsi quest’anno zio Michele?

Alzai le spalle mentre ingoiavo lo spumante “No, era ubriaco prima di cominciare a mangiare, ho dovuto aspettare Mei”spiegai. Il signor Cumoli guardò furtivo sotto il tovagliolo che copriva il piatto che mia madre mi aveva fatto portare.

“Ma sono dei ravioli al vapore?” chiese perplesso, sua figlia Jane gli tirò una gomitata “Zitto e non lamentarti, che il prossimo ano potrebbe arrivarci un cocomero!!”

Io andai a tagliare la cravatta di Joyce, con l’approvazione dell’intera famiglia Cumoli.

Turchino Natale a tutti.

 

 

Non sono molto contenta di questo capitolo, è anche più corto di molti altri, ma spero che possiate gradirlo, ringrazio tantissimo chi ha commentato lo scorso! Le risposte ai commenti sono un po’ frettolose scusatemi, avrei voluto dedicarci più tempo, ma è tardi e domani devo alzarmi per andare al lavoro.. uffa!!

Melisanna_: che c’è di male nella bigamia infondo? Sono felice che ti piaccia Nikka, sei una delle poche che me lo ha detto! Spero che il capitolo ti sia piaciuto!

The Corpse Bride: Eh, si Marco e Delfina mi mancavano! Beh, per lo spinoff… sinceramente non ho ancora capito se sono gelosa o meno dei miei personaggi.. O.o ma credo che ne sarei lusingata! Anche perché sicuramente sarai più brava di me con la tragedia (abbiamo constatato che devo lasciare perdere io!!XD). in pratica anche se può non capirsi era un !!^.^credo che Joyce e Rachele stiano diventando fin troppo teneri! Non staremo esagerando?XD e si, forse Rachele assomiglia a Effy, però Effy non ha un Joyce da tirannizzare come vuole. È un peccato!

Nikka a qualche problema alimentare, ma è solo a livello mentale, nel senso è sempre a dieta, ma non è magra da preoccuparsi!! ^.^ te ne sei accorta cavolo!! ^.^

DarkViolet92: Nikka è in contraddizione, gli piace Mei, ma non lo vuole ammettere, e quindi quando lo vede con una ragazza d’impulso si arrabbia. È una cosa stupida in effetti, ma credo che di gente intelligente in questa storia che ne sia poca!!

TheDuck: come vedi qui sta degenerando un po’ tutto! La dichiarazione non c’è, ma il casino sì… prima o poi concluderanno qualche cosa tranquilla!!

Turchino Natale a tutti! (eh sì, sono un po’ in anticipo!). comunque nello scorso capitolo nella parte narrata da Rachele ho aggiunto due righe inutili, se qualcuno non avesse nulla da fare può andare a darci un’occhiata! Forse scriverò alla fine un capitolo sui signori Pavesi, mi piacciono come personaggi… ma chissà…

Volevo dire qualche cosa d’altro ma non me lo ricordo, spero che il capitolo non faccia troppo schifo!!

Alla prossima!!

Aki_Penn

 

 

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Capitolo 18
*** Preludio Plenilunio Pediluvio ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Diciottesimo

Preludio Plenilunio Pediluvio

 

 

Fin sobbalzò quando il cellulare che aveva appoggiato sul tavolino basso iniziò a vibrare, e appoggiando i piedi per terra lo afferrò e rispose.

Fin era un cretino. Il fatto che a volte gli avessero fatto gestire gli eventi modaioli del Luxury gli aveva dato fortemente alla testa.

“Pronto?” disse perplesso.

“Fin?” ribatterono dall’altra parte, “C’è qui una tipa che …ehi!” il ragazzo al telefono si interruppe per un attimo per bisticciare con qualcuno che evidentemente lo stava insultando “Sì, sì diamine te lo sto chiamando!” sbottò arrabbiato il ragazzo.

“Ti ho detto che voglio salire!” rispose una voce alterata di donna dall’altra parte, anche se sapeva di averla già sentita non avrebbe intuito subito a chi apparteneva. Prese una boccata di fumo dalla sigaretta e proferì “Allora?”

“Ah! C’è qui una tipa…”ricominciò il ragazzino dall’altra parte.

“Nikka” precisò lei. A Fin scappò un sorriso, allora era Nikka, probabilmente in qual momento stava battendo il piede e prendendo a borsate il suo amico, e poco importava il fatto che fosse un sedicenne senegalese alto il doppio di lei. A dire il vero era anche molto più alto di lui. Di Fin.

Quell’ultimo pensiero lo turbò un attimo. Non faccio fatica ad ammettere che quel tortellino coi capelli imputriditi dal gel non era esattamente un lampione della luce per quanto riguardava l’altezza. Al massimo poteva uguagliare un lampione in lucentezza usando quegli stupidi orecchini a diamantino che aveva su entrambi i lobi, e che io detestavo cordialmente. Perfino Joyce era lievemente turbato dalla cosa, il ché è tutto dire.

Certe cose possono permettersele solo i rapper americani.

“Vuole salire, dice che è urgente” concluse il ragazzino senegalese, che stava insieme a un gruppo di altri tre o quattro ragazzini a far finta di fare i bodyguards . Ovviamente l’unico con la stazza però, era lui.

“Falla salire” disse con annoiato tono superiore. Il ragazzino al piano di sotto gli fece l’imitazione non visto dal diretto interessato e aprì la porta di lamiera che palesò una scaletta angusta, anch’essa di lamiera.

“Sempre chic dalle vostre parti Libara” commentò lei sprezzante guardando il ragazzino. Quando gli ebbe dato le spalle Libara fece il verso pure a lei e chiuse la porta in lamiera sbattendola.

 

Nikka sbuffò salendo le scale ripide e scricchiolanti. Teneva la borsetta in vernice appesa nell’incavo del gomito ed ancheggiava, neanche dovesse farsi vedere da qualcuno, era sola. Spinse la porta a grata, chiusa con un paio di assi di legno ed entrò nell’ufficio di Fin. Se quella cosa poteva essere definita ufficio. Il realtà l’unico ad usare quell’epiteto era lui.

Nikka si sedette “Questo posto fa sempre più schifo, Fin… dovresti disinfestarlo, secondo me è pieno di topi e simili…” rabbrividì. Fin fece una smorfia “Sei venuta qui per vedermi o per insultare il mio ufficio?” sbottò lui spegnendo un mozzicone nel portacenere.

“Topaia, più che ufficio” commentò Nikka appoggiando la borsa lucida sulle gambe.

“Su, su, cosa vuoi? Avrai bisogno di qualche cosa se ti sei arrampicata fin dentro la pancia della balena” fece lui con fare malizioso. Nikka fece una smorfia.

“Smettila con queste frasi idiote, siamo solo nel retro del Luxury… non nel parco di Collodi… comunque si, non vengo in questo postaccio a fare visite di piacere… al massimo potrebbero essere di dispiacere e…”

“Va bene, va bene ho capito, diamine!” sbottò lui a un certo punto interrompendola dato che accennava a tirare per le lunghe con gli insulti.

 “Vieni al dunque! Che cavolo vuoi?” chiese poco cortese.

“Organizzare la festa di capodanno” disse sibillina rovesciando la testa da una parte.

Fin fece una smorfia “Ti rendi conto che oggi è il trentun dicembre?” fece con aria strafottente.

“Ti rendi conto che oggi è il trentun di dicembre e tu non hai ancora organizzato nulla?” ribatté lei perfida.

Fin si morsicò l’interno delle guance.

“non è vero” disse con voce poco sicura. Nikka se ne accorse “A no? e dove sono gli inviti? Dove sono gli annunci sul sito della discoteca? E al grande capo che ti ha affidato la festa cosa hai detto? Ammettilo che non hai avuto uno straccio di idea!!” gongolò lei mentre il viso di lui si imporporava. Deglutì per poi sbraitare sbattendo il pugno sul tavolo “Ma che cavolo vuoi? Dei soldi? La gloria?” sbottò.

“Gloria? Credi davvero che si abbia gloria a organizzare le feste del Luxury?” si interruppe per ridere sprezzante. “Non voglio neanche i soldi, voglio solo divertirmi un po’ ad organizzarla, e perché no, umiliarti un pochino…”

Fin alzò gli occhi al cielo e sospirò. “Deduco quindi che tu abbia un’idea”

Nikka sorrise sempre più compiaciuta. “Beh… ho qualche cosa in mente…”

Fin fece una smorfia. Gli scocciava quella situazione. Nikka poteva essere carina ed elegante quanto voleva, ma era una strega sclerotica. Aveva sentito parlare di cose strane che riguardavano levrieri e un certo Gabriele D’annunzio, che sospettava essere il suo perverso fidanzato.

“Oh, piantala, non vorrai mica che il padrone del Luxury scopra che il ragazzo a cui ha affidato gli eventi non è in grado di combinare nulla per la festa di Capodanno!!” fece lei ammiccante. Fin non le piaceva, era un idiota, e forse non sapeva neanche chi fosse D’annunzio.

Sbatté gli occhi civettuola “Allora Fin? Festa speciale per lo staff del Luxury?”

Fin sbuffò molto rumorosamente e sputò sul pavimento. Nikka si impegnò a non rabbrividire troppo.

“E va bene cavolo! Pensaci tu!” decise infine messo alle strette. Nikka sorrise e si alzò.

“Ottimo!” esclamò allegra per poi aggiungere quando già era sulla porta “Ci vediamo Sera-Fin-o” e scappò giù per le scale.

Fin sbuffò e biascicò “Strega” prima di sputare di nuovo a terra e prendere il cellulare per chiamare Libara, da cui era separato solo da un paio di rampe di scale.

“Libara?” disse stancamente ma col sorriso sulle labbra, mentre l’amico rispondeva scocciato rischiando di far cadere il marsupio dal quale aveva estratto il cellulare.

“Che vuoi Fin? Sono qua sotto, puoi scendere o urlare dalla finestra invece che telefonarmi!”

“Smettila di rompermi le scatole! Comunque ho parlato con quella strega di Nikka, ci pensa lei a organizzare la festa, noi possiamo goderci le vacanze di Natale in pace!”

Nikka gli passò accanto con un sorrisino. Libara sospirò e chiuse la conversazione con un ciao poco entusiasta. Trovava che Fin fosse estremamente stupido. Oltre che estremamente unto.

“Cos’è quel ghigno soddisfatto? Sei contenta di aver umiliato un po’ Fin? Beh, ci hai anche conferito la libera uscita” fece serio guardando l’indisponente ragazza.

Nikka fece un sorrisetto mefistofelico e inclinò la testa da una parte “No, l’ho conferita solo a Fin la libera uscita, voi venite con me a comprare quello che serve! E siete fortunati, dato che chiederò a Millie di contattare il catering! Ma servono un sacco di altre cose! E soprattutto delle lucine colorate, dato che qualche idiota ha rubato quelle che avevamo comprato per la festa a casa della Gandolfi!!” e così  dicendo si avviò verso l’uscita del cortiletto lasciando Libara decisamente contrariato.

“Su su, gente” intimò agli altri ragazzetti che fumavano e giocavano a carte sulle scale “Si va al supermercato!”

 

 

“What’s happend?” sbraitò Joyce irritato, seduto a gambe incrociate su una sedia della cucina. “Come sarebbe a dire che…” si interruppe un attimo smettendo anche di muoversi per un secondo. Rachele fumava tranquilla dall’altra parte del tavolo senza curarsi di fissarlo troppo. Fece un sorrisetto prendendo una boccata di fumo, mentre il piedino dondolava sotto al tavolo.

“Daddy? What..what…Mom? che cavolo vuol dire che non vieni? E che cavolo c’entra Papà? Daddy!”urlò girandosi a guardare il corridoio sul quale si affacciavano le camere. Non ricevette alcuna risposta.

“Io, io...he … you are…” balbettò un po’ incerto sotto lo sguardo attento di Rachele. Emily lavava i piatti indisturbata ignorando il baccano del fratello, Jane era immersa nella lettura del suo libro di economia aziendale ed era altrettanto disinteressata a Joyce.

“Come sarebbe? Non puoi, non puoi! Adesso…Oh! Fuck!” sbottò e riattaccò il telefono in faccia a sua madre.

Rachele increspò le labbra con aria saccente senza distogliere un attimo lo sguardo dal ragazzo.

“Fammi indovinare… la mamma non viene perché ha litigato con papà al telefono…”  disse Emily senza neanche voltarsi e continuando a dare più importanza al lavello, rispetto a tutto il resto.

“Già” sbuffò Joyce appoggiando il cellulare sul tavolo.

“Millefoglie?” chiese Jane che la considerava un’ottima cura per ogni malumore.

“No, devo andare all’aeroporto per prendere Darcy”

“Oh beh, almeno Darcy viene, si vede che la mamma ha capito che se lei litiga con papà non c’è bisogno di tenere in Irlanda anche lei”commentò Emily tranquilla.

Joyce non l’ascoltò “Rachele vieni con me in aeroporto?” chiese.

Lei alzò gli occhi al cielo e si fece attendere “Solo se Jane mi prepara una millefoglie.. tutta per me”

Dopo dieci minuti erano all’aeroporto  con un cartello di cartone su cui stava scritto “Darcy Swift”.

“Spiegami Joyce… non sapresti riconoscere tua sorella, e hai bisogno di un cartello?” domandò acida.

“No, ma nei film fanno così… mi sembrava figo” rispose lui allungando il collo per vedere se arrivava qualcuno. Rachele alzò gli occhi al cielo rassegnata.

“Comunque” continuò il ragazzo prendendo un po’ di serietà “non fare parola a mia sorella del tatuaggio con su scritto il suo nome”.

Lei alzò le spalle “tranquillo, cosa vuoi che me ne freghi nel tuo stupido tatuaggio”.

Non ci volle molto perché all’orizzonte apparisse una figurina dai capelli scuri e lunghi, occhiali da vista enormi e un mucchio di lentiggini che si mordicchiava le labbra e si portava dietro un piccolo trolley.

La figura era accompagnata da un uomo decisamente più alto, con i capelli lunghi raccolti in una coda, la barba incolta e completamente vestito di nero. Era sulla cinquantina ed aveva degli occhi estremamente vivi e brillanti. Per un secondo Rachele pensò fosse un barbone appena uscito da un cassonetto. Ma osservando meglio si rese conto, che decisamente non poteva essere così.

L’uomo dagli occhi brillanti si avvicinò a loro insieme alla ragazzina che Rachele suppose fosse Darcy Swift.

Lei fece una smorfia mostrando il luccichio argenteo dell’apparecchio ortodontico, ma Joyce non dava attenzione a lei, bensì al tipo in nero, con sguardo perplesso. Rachele sbatté le palpebre e guardò l’amico.

L’uomo si mise di fronte e lui e fece un sorriso al di sotto la barba nera, in silenzio.

“Zio Rufus! Tu cosa ci fai qui?”esclamò lui. L’uomo coi capelli lunghi gli appoggiò paternamente e con eccessiva verve una mano sulla spalla, tanto che Joyce barcollò un attimo.

“Ho saputo che si era liberato un posto sull’aereo e ho deciso di accompagnare io la piccola Darcy nel suo capodanno italiano, e poi una viaggio gratis non si rifiuta … e poi sai, il primo marito di tua sorella non si scorda mai, e anche i primi nipoti mi mancano. Anche se sono deplorevolmente italiani. Ma che diamine ti sei messo addosso?hai deciso di cambiare sponda e così hai scuoiato un orso arancione ?” blaterò ininterrottamente senza fermarsi con una grammatica perfetta e un accento pessimo.

“E’ il solito zio Rufus” rispose lui colpito nel vivo stringendosi nel pellicciotto “E’ andato bene il viaggio?” chiese poi.

“Oh, beh sì, abbiamo avuto qualche problema con lo scalo a Milano, ma…” fece allegro.

“Sì, se fosse stato per lui saremmo finiti a Mandalay”commentò Darcy con voce piatta ricordando a tutti della sua presenza.

“E dove diamine sarebbe Mandalay, scusa?” esclamò zio Rufus che in geografia non era mai andato molto forte.

“In Burma” rispose Darcy stancamente. Rachele si disse che sicuramente se lo avessero chiesto a suo fratello Mei, lui avrebbe saputo rispondere altrettanto esattamente.

“Wow” fece suo zio decisamente disinteressato tornando a dare udienza a Joyce.

“Joyce che diamine, come cavolo hai fatto a diventare così? Tuo padre è uno scricciolo! Prendi degli steroidi? Oppure Abigail gli ha fatto le corna… mi sembra la cosa più probabile, è sempre stata una dai facili costumi…” raccontò allegro perdendosi nelle sue parole.

“Zio Rufus, piantala è mia madre!” sbottò offeso. Rufus gli appioppò la pacca della comprensione dicendo, “Fidati caro nipote, la conosco meglio io di te”

Rachele e Darcy erano rimaste a fare da spettatrici a quell’increscioso spettacolo. La prima perplessa, la seconda annoiata.

Poi Rachele decise che era ora di prendere la situazione in mano, si giro versò Darcy e disse “Tuo fratello si è tatuato il tuo nome sul sedere”

Darcy fece una smorfia schifata.

“Avevi detto che te ne saresti stata zitta!” esclamò mentre Rufus alle sue spalle se la rideva di gusto.

Rachele alzò le spalle e con naturalezza spiegò “Beh, se mio fratello si tatuasse il mio nome sul sedere vorrei saperlo, per poterlo linciare. Insomma, che disonore sarebbe se Mei si scrivesse Rachele sul deretano” si giustificò come se fosse in missione per Dio.

Joyce guardò sua sorella che svariati centimetri più in basso se ne stava con le sopracciglia alzate e proferì “io non mi farei mai scrivere Joyce sul sedere! E che cavolo!”proferì con la sua proverbiale calma.

“Neanche io” commentò Rufus per rincarare la dose, e non perché fosse necessario nel discorso.

“E non è la cosa peggiore! Dovresti vedere il piercing” continuò Rachele impietosa.

Darcy chiuse gli occhi “Ti prego non dirmi dove l’ha fatto…” disse con accento inglese.

Rachele sorrise e si chinò un poco porgendole il piatto su cui stava la millefoglie.

“Questa Jane l’ha fatta per me, ma se ne vuoi una fetta te la do volentieri” disse.

Darcy la guardò perplessa come per vedere se scherzava. Rachele alzò le spalle e la ragazzina allungò la mano per prenderne un pezzo.

“Io sono Rachele” disse con un tono che non era solita usare.

“Io sono Darcy, ma suppongo che tu già lo sappiassisappissi…sappia…”rispose lei.

“Già” finì Rachele e insieme si avviarono verso l’auto seguendo Rufus e Joyce.

“Avete qualche idea per sta sera?” chiese Darcy sbocconcellando la torta e tirandosi dietro il trolley.

La ragazza blu la guardò sorpresa “Non pretenderai mica che passi il capodanno in compagnia di gente simile” rispose lei interpretando lo sguardo della ragazza e accennando a zio Rufus.

Rachele alzò le spalle. “In effetti… come darti torto”

 

Quando a casa Cumoli suonò il telefono  fu Emily a rispondere “Buongiorno sono Mei, volevo parlare con Rachele, è in casa?” dissero dall’altro capo del filo in tono da call center.

“Oh, Mei… sono Emily. Rachele è andata all’aeroporto  con Joyce, credo che saranno di ritorno tra poco, le devo dire qualche cosa?” spiegò allegra dimentica dei piatti ancora nel lavello.

“Oh” fece Mei preso alla sprovvista. “no, non è importante…è che volevo chiederle qualche cosa per sta sera… è san Silvestro… e beh, volevo fare qualche cosa anche io…” spiegò non molto a suo agio.

Emily sorrise alla cornetta “Credo che lo staff del Luxury organizzi una festa…potresti andarci con una ragazza… ne conosci qualcuno che potrebbe interessarti?” chiese senza peli sulla lingua.

“Ehm” non gli sembrava il caso di inoltrare discorsi del genere con Emily, ma alla fine ammise “Beh, ne conosco una carina.. ma non ho il suo numero di cellulare, non saprei come chiederglielo…”

Emily fece una smorfia pensierosa “Come si chiama? Magari potrei conoscerla…” poi le si accese una lucina nel cervello ed esclamò “Non sarà mica la ragazza della festa della vigilia! Quella che stavi baciando prima che Nikka facesse il suo numero!”

“Ehm, beh ecco ehm, sì…si chiama Alsazia” disse incerto.

“Oh, che nome del cavolo” commentò.

“Geografico” sussurrò Mei mesto dall’altra parte del filo. Emily ci pensò un attimo “Aspetta un secondo, chiedo a Monica, lei lo saprà di sicuro, rimani in linea”

Mei la sentì trafficare col cellulare, ci fu qualche secondo di silenzio e poi in lontananza ricominciò a parlare “Monica? Ciao sono Emily, devo assolutamente chiederti un favore…come Edoardo Billi ha fatto le corna alla sua ragazza con la Gigli? Oddio santo! Ma la gigli con quel rossetto rosso sembra che porti in faccia due canotti, potrebbe vincere alle gare di canottaggio sulle rapide… e lei lo sa? Che lui le fa le corna? Sì? Sì? Non ci posso credere… e lui?”

Mei si schiarì la voce “Emily?”

Emily rinsavì “Ehm, si scusa Monica, dopo finisci di spiegarmi ora devo chiederti un favore: hai presente Alsazia? Si quella piccoletta con gli occhi troppo truccati che è sempre in giro con le scarpe da ginnastica…già, un nome orrendo”

“Geografico” disse Mei tra sé e sé.

“mi serve il suo numero di telefono, ce l’hai?” attimo di silenzio “sì…33847…si…si… come? Oh sì…ah sì, hai presente Mei, si, il fratello della Pavesi, si quello che è stato picchiato da Pallotti perché è andato a letto con Nikka… sì”

“Non sono andato a letto con Nikka!” sbottò Mei.

“Zitto tu! No, Monica non dicevo con te! Oh, si la vuole invitare a una festa sta sera…oh, certo che sta sera dobbiamo andare alla festa dello staff del Luxury, ci saranno tutti… ci saranno sicuramente anche Edoardo Billi e la sua fidanzata voglio proprio vedere se la Gigli avrà il coraggio di presentarsi…”

“Emily…” cantilenò Mei stancamente. “Oh, scusami Monica…ti richiamo più tardi e te lo dico, tranquilla”. Emily riattaccò.

“Bene eccoti il numero, comunque dopo che le hai telefonato devi dirmi se ci viene alla festa con te, perché devo dirlo a Monica! Prendi da scrivere che te lo detto!”

Mei sospirò, ovviamente non avrebbe richiamato.

 

 

“Nicoletta? Noi usciamo, chiudi tu tutte le tapparelle!” strillò sua madre dalla porta. Nikka si mise sulle labbra il rossetto color rosa pesca sistemandoselo ai lati con il mignolo.

“Arrivo! Aspettami!” esclamò di rimando, spegnendo le luci al neon dello specchio del bagno.

La signora Marianna in piedi sullo zerbino sbuffò intabarrata nella sua pelliccia di volpe argentata. Si era messa i guanti di seta e una collana fatta di grosse pietre nere e lucide. Il trucco era fin troppo pesante, i capelli sistemati di fresco dalla parrucchiera e i tacchi troppo alti per quanto potessero sopportare i suoi piedi di mamma single da troppo tempo. Ma per il nuovo fidanzato trentenne si faceva anche quello.

Lui se ne stava con la sua pelle abbronzata i suoi ricci scuri e i suoi trent’anni dentro a un completo gessato un po’ troppo appariscente. Affianco a una donna che cercava inutilmente di essere più giovane. O almeno sembrarlo.

Nikka tirata a lucido, con l’aria giovanilmente allegra, che Marianna attribuiva all’età più che all’obbligo morale che sua figlia si dava attraversò il corridoio battendo i tacchi a spillo sulla palladiana che non le era mai piaciuta e sistemandosi il colletto del cappotto beige uscì sul pianerottolo prendendo contro al fidanzato di sua madre.

“Ci sono, ci sono, buon san Silvestro mamma, buon san Silvestro tizio cubano”.

“Sia chiama Cesar! Ed è il mio fidanzato da tre mesi razza di figlia irrispettosa! E hai chiuso le finestre per l’amor del cielo che siamo in ritardo per il cenone?” strillò.

“No, mamma fallo tu! Io sono già scesa!” rispose lei dal pianerottolo di sotto.

“Oh, per la miseria!” sbottò la signora Marianna sbattendo un tacco per terra “Con suo padre e quell’oca della sua Se-re-ni-ty non fa così! Non ti preoccupare caro, prima a o poi imparerà come ti chiami! Ora scusami…ma dobbiamo tornare dentro a chiudere le tapparelle di cui mia figlia si è fregata altamente” e con un sospiro lo portò in casa. Cesar silenzioso la seguì.

 

A casa Cumoli in quello stesso momento regnava il caos.

“Rufus? Vuoi uscire dal bagno? Io dovrei fare la pipì!” sbottò il signor Cumoli bussando per l’ennesima volta.

“Rilassati Jhonny! Vai a chiedere se i vicini ti prestano la toilette. Io sto facendo il bagno”rispose Rufus tranquillo da dentro.

“Sfrattato da casa mia? Adesso non posso nemmeno più nemmeno usare il MIO bagno?! E non mi chiamare mai più Jhonny per la miseria!!”

Suo figlio passò gattonando dietro di lui studiando il pavimento con molta attenzione.

“Papà hai visto le chiavi della macchina?”chiese.

“Bah, guarda in frigo, di solito Emily sbaglia cassetto e le infila lì…e non guidare se hai bevuto!” si raccomandò in un eccesso di paternità.

“tranquillo al massimo faccio guidare Darcy” rispose scherzando. Il signor Cumoli si incupì e lanciò uno sguardo scrutatore a Darcy che  glielo rispedì da dietro agli occhiali tondi “Senza offesa, ma non mi va di stare con voi vecchi, perciò vado con loro” spiegò cristallina.

“Vecchi a chi? Io e Jhonny siamo giovani dentro!” urlarono da dentro al bagno.

“Basta chiamarmi Jhonny per carità!ed esci da quella maledetta vasca!”

Rachele aspettava accanto alla porta già col cappotto addosso e scrutava la casa con uno sguardo un po’ umido e stancamente famigliare. Dondolava un po’ il piede da una parte, se avesse continuato per molto avrebbe rotto il tacco della scarpa blu.

Aveva un vestito dello stesso colore, che sua madre aveva deciso di cucine apposta per capodanno. Aveva un’aria un po’ stropicciata, effetto che la signora Pavesi aveva voluto , ma sua figlia non aveva idea di come l’avesse ottenuta.

Rachele guardò Joyce con il busto per metà dentro al frigorifero, ignorando Emily e Jane che facevano trambusto per casa. La faceva ridere, Joyce. Quando non lo faceva apposta.

“Trovate!” esclamò gioioso innalzando con un gesto vittorioso le chiavi incrostate di ghiaccio e rialzandosi da terra.

Salterellò fino a trovarsi davanti a Rachele. “Siamo pronti!” esclamò mostrando le chiavi gelide. Lei fece un sorrisetto strano e lo studiò da capo a piedi. Aveva dei jeans, color jeans, una felpa nera con le rifiniture dorate e una maglietta con su scritto NY ♥s ME.

Lei ridacchiò “Sei quasi sobrio sta sera” sussurrò mordendosi il labbro divertita.

In fretta Joyce afferrò degli occhiali a forma di numero 2009, con gli zeri da mettere sugli occhi e li inforcò.

Rachele  sospirò “Accidenti a me e alla mia boccaccia”si disse, e se fosse stata il personaggio di uno dei fumetti che vendeva il signor Cumoli le sarebbe apparsa una gocciolina sulla testa.

“Suvvia, è capodanno!”si giustificò Joyce. Rachele aprì la porta e proferì “Andiamo”, la prole irlandese la seguì diretta a prendere possesso dell’auto verde.

 

 

Nikka si era messa un vestito rosa, con delle frappe sulla gonna e un fiocco che si legava in vita, i tacchi color rosa antico sprofondavano nell’erba, mentre lei imprecava cercando di connettere gli ultimi apparecchi elettrici dentro una polverosa centralina.

“Quegli idioti dei tuoi amici hanno comprato delle luci di natale normali, non da esterno! Diamine!” sbraitò all’indirizzo di Fin che fumava tranquillamente poco più in là.

“Suvvia, che cosa vuoi che cambi scusa?” fece lui tranquillo.

“Non resistono all’acqua razza di stupido! Cavolo! Non dovevo mandarci Libara e i suoi amichetti! E tu non me la puoi dare una mano?” sbottò a chinino con i tacchi che affondavano del terriccio.

“Sei una donna così indipendente, non hai bisogno del mio aiuto… e poi non pioverà tranquilla!” fece lui sbuffando fumo.

Lei si pulì le mani strofinandole tra loro schifata da tutta la polvere che c’era dentro la centralina e diede un’occhiata al suo interlocutore. “Bah” e tirò un calciò all’anta di metallo per chiuderla.

“Fortunatamente al catering ci ha pensato Millie!” disse avviandosi con passo militaresco verso l’entrata del Luxury dove era già partita la musica e le luci psichedeliche imperversavano copiose su centinaia di corpi e volti.

“Non dovresti essere così nervosa, ti verranno le rughe!” commentò Fin, Nikka lo mandò a quel paese tra i denti, mentre lui rimaneva all’aperto a finire di fumare la sua sigaretta.

Fu più o meno in quel momento che Mei e Alsazia arrivarono al Luxury.

“E scusa ancora per come è finita la serata della vigilia” disse Mei mentre procedevano verso l’entrata. Lei gli aveva preso la mano vari isolati prima, ma lui aveva fatto finta di non essersene accorto.

“Figurati, è stata una serata strana per tutti!” rispose lei comprensiva. Mei si morse il labbro e la guardò dall’alto. Non si era vestita da sera, aveva dei jeans sdruciti e una maglietta, ma era carina lo stesso.

Di certo Nikka una cosa del genere non l’avrebbe potuta sopportare, lei che si metteva a lucido anche solo per andare a buttare l’immondizia. Sospirò, perché stava comparando Nikka ad Alsazia? Scrollò la testa come per scrollare anche i pensieri “Che c’è?” chiese lei divertita vedendo in quel movimento quello che fanno i cani quando si scrollano l’acqua.

Mei fece un sorriso tirato.

“Niente, entriamo?” disse tutto d’un fiato facendo un sorriso e pensando che lei era carina anche senza bisogno di tutti i vestiti di Nikka, il suo trucco e le sue accortezze folli.

Joyce e Rachele intanto se ne stavano seduti su un divanetto bianco, lei sorseggiava stancamente il suo cocktail con le gambe accavallate, lui a mezzo metro guardava perso nei suoi pensieri la palla di specchi e se ne stava seduto sul bordo del divanetto con le gambe divaricate. Ignorandosi reciprocamente, e occupandosi solo della propria apatica chinesfera. Non troppo lontani, non troppo vicini.

“Mi sto annoiando” proferì infine lei con lo sguardo un po’ annebbiato. Fu come se qualcuno avesse dato un pizzicotto a Joyce, che tornò precipitosamente al mondo reale.

“Vado a fare due chiacchiere con il deejay” disse alzandosi e sparendo tra la folla. Rachele fece una smorfia, non era sicura di voler sapere cosa sarebbe andato a combinare.

Fu una sorpresa poco piacevole per entrambe quando Nikka e Rachele si trovarono sedute affianco. Quando la ragazza in rosa si era accomodata esausta sul divanetto non aveva notato la Pavesi.

Rachele grugnì e tornò ad affondare il naso nel suo bicchiere.

“C’è qualche cosa da bere lì?” chiese rigida. La ragazza blu si girò lentamente a guardarla in faccia, poi si allungò e le passò una bottiglia di spumante.

“Non mi dirai che è una brutta serata?” chiese strafottente.

Il sorriso che Nikka le mostrò probabilmente fu il plastico della sua immensa collezione di sorrisi finti.

 “No, è perfetta Pavesi, tu fatti i fatti tuoi” disse attaccandosi allo spumate.

Rachele fece una risatina strafottente.

Entrambe alzarono la testa dalle loro bevande quando la musica dal battere continuo passò ai toni revival di qualche cosa d’altro.

“Pavesi?” chiese Nikka guardando in alto verso la consolle “Non è quello che penso vero?” continuò sperando di aver preso un abbaglio.

“Se stai pensando al Gioca Jouer, sì è esattamente quello”. Nikka si lasciò andare sullo schienale del divanetto, poi prese coscienza della situazione e decise che era ora di strangolare il deejay. Si alzò come una furia e sparì tra la folla attonita proprio mentre Joyce riappariva e allungava la mano verso Rachele.

“Che diamine è questa roba?” gli fece lei indisponente. Lui annuì allegro “Roba decisamente più divertente di prima” rispose mostrando tutti i denti che possedeva e con una mano la tirò in piedi per poi trascinarla in mezzo alla pista.

“Non mi va di ballare questa roba!” sbottò. Joyce sapeva che non era vero mentre in lontananza vedeva un tizio con la cravatta leopardata salutare, nuotare e fare il macho.

“Pensavo che queste cose fossero rilegate nella zone revival” disse Darcy con un bicchiere di succo di frutta in mano, parlando tra sé e sé.

“SI dice relegate, non rilegate. I libri si rilegano” spiegò un ragazzo dalla pelle scura , infinitamente alto , spuntando dal nulla. Darcy alzò le spalle “Buono a sapersi, comunque io sono Darcy”.

“Libara, piacere”

La folla non si era ancora resa conto di ciò che era cambiato, e Nikka non era ancora riuscita ad arrampicarsi fino alla consolle in modo da mettere fine alla vita del DJ che le luci si spensero lasciando per un secondo la folla immobile e silenziosa.

Joyce afferrò Rachele e la strinse a sé, lei gli tirò una gomitata. Poi un po’ di ragazze si misero a urlare e varie imprecazioni più o meno educate salirono al cielo.

Nikka ci mise un po’ a capire cosa era successo. In piedi aggrappata alla ringhiera della scala strinse i pugni fino a che le nocche non diventarono bianche. Fuori si sentiva un prepotente rumore di pioggia che batteva sui vetri, sul tetto, sull’asfalto.

“Cavolo!” sbottò nel buio. “Fin! Sta piovendo!” sapeva che il ragazzo era lì, l’aveva visto prima che le luci psichedeliche si spegnessero.

“Sì sono qui” fece lui afferrando una cosa di cavallo che poi si rivelò essere di una ragazza che stava ballando fino a poco prima affianco a lui.

“Oh, scusa, pensavo fossi Nikka”

“Diamine” imprecò lei irritata e abituandosi al buio lo afferrò per il polso e lo strascinò giù per le scale nel turbinio di folla urlante.

“Cosa credi che sia successo?” chiese lui con voce un po’ alticcia.

“Si è messo a piovere. Le lucine di natale non erano d’accordo, e hanno fatto saltare la luce di tutto l’edificio!” spiegò lei rassegnata.

Quando la luce si spense Mei era appoggiato al muro intento a baciare Alsazia, e si sentiva contento, senza troppi pensieri, lei si mise a ridere quando la luce si spense e si strinse un altro po’ a lui. Non si sentì uno stupido. Nikka di solito lo faceva sentire un idiota. Alsazia sembrava apprezzarlo, non lo stava prendendo in giro. Gli stampò un altro bacio sulle labbra e disse “Ti va di fare una passeggiata al buio per le viscere del Luxury?”

 

Poco più tardi mentre Nikka imprecava sotto la pioggia riparata solo da un ombrello giallo Rachele seguiva Joyce  qualche passo più indietro. Lui procedeva per i corridoi bui facendosi luce, per quel che poteva con un accendino di plastica arancione.

“Non posso credere di essermi dimenticato di Darcy! e con sto buio non la troveremo mai! Non dovevo perderla d’occhio! Sono un idiota!” si disse preoccupato. Dietro di sé era rassicurante sentire i tacchi di Rachele che sbattevano sul pavimento. Lei era silenziosa, e per tutto quel tempo non aveva detto niente, mentre lui aveva continuato a lamentarsi e a preoccuparsi per sua sorella.

Sentì il tacchettio aumentare e in pochi secondi si trovò Rachele affianco, più bassa di lui di tutta la testa.

Fece un sospiro prima di cominciare “Senti Joyce, Darcy ha tredici anni non quattro, e ha un cellulare, non credi che se avesse avuto bisogno ti avrebbe telefonato?” fece con aria un po’ strafottente.

Lui storse le labbra, in effetti, Darcy probabilmente se la stava cavando anche meglio di lui. Rachele aveva ragione.

 Aggrottò le sopracciglia e le stampò un bacio veloce sulle labbra.

Lei lo guardò con aria omicida, Joyce si disse che forse quello non era proprio il momento più adatto per darle un bacio. Forse aveva bevuto un po’ ed era indisposta verso gentilezze di ogni tipo, e con ogni probabilità si sarebbe beccato un calcio negli stinchi a momenti. Rimasero a guardarsi negli occhi per qualche secondo. Poi indipendentemente da tutte le aspettative, Rachele gli passò un braccio dietro al collo e lo strattonò alla sua altezza baciandolo. Joyce mollò per terra l’accendino dicendosi che infondo tutta quella luce non gli serviva e che sicuramente sua sorella Darcy se la sarebbe cavata benissimo da sola. Le passò le braccia dietro la schiena e la strinse sollevandola un poco da terra dove già lei arrivava solo con le punte dei piedi. Lei gli prese il labbro tra i denti e Joyce si chinò in avanti per appoggiarsi al muro. Ma il muro si aprì ed entrambi caddero rovinosamente a terra con un tonfo sordo e un urlo di Rachele.

“Ahia! Joyce! Quanto cavolo pesi?” sbraitò. “Non è colpa mia!” sentenziò lui cercando di spostarsi. “Evidentemente quella a cui ci siamo appoggiati era una porta e non un muro…” disse. Lei si mise a sedere e si massaggiò la testa.

“Questo posto è lurido, che roba è?” chiese riconoscendo la forma di un divano e di un tavolinetto, fuse con la polvere che si era alzata dal pavimento dopo la loro caduta.

“Direi il ripostiglio-ufficio di Fin” azzardò Joyce pensieroso. Rachele si alzò per poi andare a sedersi sul divano tirandosi le ginocchia al petto. “Quanto manca a mezzanotte?”

Joyce guardò il suo orologio con le lancette fosforescenti.

“Un quarto d’ora”. Si fissarono, per quanto possibile, al buio, lui seduto per terra lei sul divano.

“Credo che sia ora di andare a recuperare uno spumante! Ne ho visto uno vicino a Pallotti, non farà storie per darmelo!” sentenziò e si alzò disordinatamente raccattando l’accendino da terra, poi corse fuori.

 

Un paio di piani più sotto Libara seduto sui ripiani della cucina guardava insistentemente la luce di emergenza verde.

“E così tu sei  Irlandese eh?” chiese. Darcy annuì.

“E quindi non sei della nostra scuola” continuò.

“Direi proprio di no, dato che ho tredici anni e abito a Gallway… sono due ore e mezza di volo… sarebbe scomodo…” fece lei annuendo sarcastica.

“Vuoi mangiare qualche cosa? Qui c’è il frigo, non credo già tutto avariato, anche se è saltata la luxialucia..luce!” disse saltando giù dal bancone e dirigendosi al frigorifero. Libara fece un sorrisetto “C’è solo ananas surgelata e dell’uva… credo…”disse lui.

“Vada per l’ananas allora” disse procedendo a tentoni nel frigo.

 

Mei non aveva capito bene come erano finiti lì dentro, e in realtà non aveva nemmeno capito dentro dove fossero finiti, l’unica cosa che riusciva a capire era che nel buio Alsazia lo stava baciando e abbracciando, che continuava a sbattere il fianco sugli spigoli, che non aveva la più pallida idea di quanto mancasse a mezzanotte e che non gliene fregava nulla. L’unica cosa a cui pensava era a non voler far passare quella sensazione.

Era lei? Era il fatto che avesse di nuovo bevuto e che proprio l’alcol non lo reggeva? Non avrebbe saputo dirlo.

 

La signora Pavesi estrasse dal frigorifero di casa Cumoli lo spumante, a suo dire troppo freddo faceva male alla digestione, quindi era meglio estrarlo un po’ prima di mezzanotte quando sarebbe stata ora di berlo.

Probabilmente suo fratello Michele non la pensava così, e nemmeno zio Rufus che già mezzi brilli si avventarono su Arabella e la sua bottiglia. Ci fu un po’ di baruffa e i due rincorsero la poveretta per tutta la casa per conquistare l’agognata bevanda, finché lei non si chiuse in bagno.

Si sedette sul bordo della vasca e sospirò, come gli era venuto in mente di passare il capodanno con loro, non era meglio andare a guardare un film con la zitella del terzo piano come al solito?, ma il signor Cumoli aveva insistito. E in effetti poteva capirlo, passare una serata con quei due già ubriachi alle dieci di sera era sicuramente faticoso.

Rufus e Michele erano stati compagni d’università, che probabilmente avevano frequentato per sbaglio. E dall’ora non erano cambiati molto. Si accigliò e si chiese come faceva suo fratello ad aver trovato una moglie. E oltretutto si era anche riprodotto.

La selezione naturale era sicuramente ingiusta.

Il signor Cumoli scrollò una bottiglia di liquore. “L’avete già finito? Ma come è possibile?”

 

Joyce aveva recuperato una bottiglia di spumante, ora la cosa difficile era ritrovare la strada per andare da Rachele. Arricciò il naso, doveva andare a destra o a sinistra? Alzò le spalle e andò a destra, con la bottiglia da una parte e l’accendino dall’altra. Si chiese se avrebbe resistito, o il gas sarebbe finito prima che la luce facesse la sua ricomparsa.

Poi si ritrovò a illuminare due ragazzi troppo intenti a sbaciucchiarsi per notarlo, fu solo quando si schiarì la voce un paio di volte che si accorsero di lui.

Lei non aveva i capelli blu, ma lui si ricordava di lei, lui sorrise e Sofia fece lo stesso “Su, su ragazzi! Almeno imboscatevi come fanno tutti. Sono quasi convinto che da queste parti ci sia un bagno!”

Fu allora che tutti e tre furono illuminati da un fascio di luce bianca.

“Enrico Rigatti insieme a una delle oche blu! Non me l’aspettavo…Monica hai visto Pallotti sta sera? Dici che si è trovato qualcuna?”disse una voce familiare. Joyce si coprì gli occhi col braccio.

“Emily, per piacere!”sbuffò.

“Joyce non ti ci mettere anche tu, sta sera sono di cattivo umore perché con sto buio non vedo se ci sono uomini abbastanza ricchi da meritarsi di essere amati da me!” e così come era apparsa sparì portandosi via la luce e lasciandoli al buio. Joyce riprese a mano l’accendino che aveva spento ed illuminò i due ragazzi che ancora abbracciati guardavano perplessi il punto in cui Emily e la sua luminosità erano sparite.

“Ragazzi… odio chiedere informazioni ma… avete idea di dove sia il ripostufficio di Fin?”

 

Nikka batteva i tacchi sul tombino su cui stava in piedi, l’unico punto dove non potesse sprofondare nell’erba.

“Allora? Razza di zotico? Hai concluso qualche cosa?” sbottò proteggendo se stessa e Fin dall’acqua con un ombrello giallo mezzo rotto. “Su, su dolcezza, non ti arrabbiare troppo, che poi ti  vengono le rughe! Comunque mi servirebbe la cassetta degli attrezzi, non è che l’andresti a prendere?” chiese sibillino. Nikka fece un smorfia “Va bene, dov’è?” sbottò di malavoglia.

“Nel ripostiglio, quello del corridoio vicino alla parete di specchi, è la terza porta a destra, al piano terra…dato che sei così accondiscendente potresti darmi anche un bacio prima di andare a prendere gli attrezzi”. Nikka lo fulminò con lo sguardo, poi gli sbatté in testa l’ombrello e si diresse verso il Luxury con fare militaresco.

 

La signora Pavesi guardò l’orologio dorato che portava al polso. Dieci secondi a mezzanotte, sarebbe potuta uscire a quel punto. Fissò la porta bianca del bagno e sospirò alzandosi dalla vasca, poi fece un sospiro e girò la chiave nella toppa.

Si ritrovò davanti zio Rufus e zio Michele in posizione d’attacco. “Mancano dieci secondi a mezzanotte che cavolo! Non fate i bambini!”. Probabilmente i due non erano d’accordo perché le piombarono addosso puntando la bottiglia di spumante. “Giovanni aiuto! Aiuto, cavolo!” strillò soccombendo.

Nove.

Nikka avanzava veloce per i corridoi vuoti nel retro del Luxury, e le veniva da piangere, a mezzanotte del giorno di San Silvestro girava da sola come un idiota per un corridoio buio con una torcia in mano. Che cavolo ne era stato del suo eterno divertimento, della sua vita fatta per il bello. Chi se ne fregava se poi non si divertiva davvero, era bello il fatto che fosse bello. E in quel momento, alla festa più attesa dell’anno era sola, senza un ragazzo, senza dello spumante, senza degli amici e senza Millie e Vanessa che la idolatrassero. Che ne era stato di Nikka e la sua vita lucente? Tirò su col naso sperando che la matita per occhi non si fosse sbavata.

Otto.

Joyce sorrise quando finalmente ritrovò la porta scorrevole che chiudeva l’ufficio di Fin. La aprì fino a metà con la mano che teneva l’accendino. Non sopportava le porte scorrevoli, faceva sempre fatica ad aprirle.

 Rachele che seduta sul divanetto orrido di Fin , si era tolta le scarpe si alzò e gli si mise davanti. Joyce gioviale alzò la bottiglia di spumante che aveva recuperato. “Si brinda?” chiese. Lei gli passo una mano sulla guancia e gli diede un bacio. Joyce decretò che no, non si sarebbe brindato, appoggiò distrattamente la bottiglia sul tavolino basso e lasciò scivolare per terra l’accendino mentre l’abbracciava e le passava le mani tra i capelli e sul vestito blu. Il blu era sicuramente il colore più bello a parer suo.

Sette.

Mei appoggiò le labbra sulla fronte della ragazza che al buio le stava davanti, lei lo stava abbracciando forte e sentiva le sue mani sulla schiena, mentre i suoi capelli gli finivano in faccia. Era minuscola e aveva un buon profumo, non avrebbe saputo dire di che marca, Nikka di sicuro l’avrebbe riconosciuto. Avvertì un brivido fastidioso, che scacciò subito, e diede la colpa del freddo che sentiva al fatto che Alsazia gli avesse deliberatamente tolto la maglietta.

Sei.

Libara guardò Darcy trafficare dei cassetti della cucina alla ricerca di qualche cosa di contundente con cui squartare l’ananas. Darcy non era bellissima, era saccente, e parlava un po’ sgrammaticato. Aveva gli occhiali, l’apparecchio per i denti, e i capelli fin troppo lisci. Ma lui la trovava carina, e si stava divertendo, avrebbe dovuto andare a visitare l’Irlanda, che fosse davvero così bella?

Guardò l’orologio.

Cinque.

Fin sbuffò a chinino davanti alla centralina elettrica, coperto solo da un ombrello giallo mezzo rotto. Era quello il suo meraviglioso capodanno? Sospirò e si accese una sigaretta alla belle meglio tenendo l’ombrello tra la spalla e il collo. E in tutto questo Nikka neanche ci stava. Si chiese se avesse qualche altro ragazzo in quel periodo, e pensò che era strano non averla vista ubriaca e aggranfiata a qualche energumeno proprio il giorno della festa di capodanno. Alzò le spalle e si disse che forse era meglio non aver concluso nulla quella sera con lei, Nikka aveva la fama della schizzata.

Quattro.

“Io ti dico che sono le undici meno quattro secondi, mica è ancora mezzanotte!” blaterò al buio Vanessa cercando di togliere la bottiglia dalle mani si Millie.

“E io ti dico che il tuo orologio è paurosamente indietro! È quasi mezzanotte! E se non molli la bottiglia non stapperemo in tempo!” sbottò lei di rimando.

Tre.

“Piuttosto ragazze” disse qualcuno illuminandole con un fascio di luce senza che loro potessero vederla in volto.

“Si brinda con lo spumante, mica col gin! Come fate a fare il botto?” domandò Emily pratica seguita dalle sue pettegole. Millie e Vanessa aggrappate entrambe alla stessa bottiglia la guardarono perplesse.

“Comunque per dire la verità ormai è mezzanotte, e noi brinderemo con voi”decretò solo perché non aveva trovato né un marito ricco né una bottiglia con cui brindare.

Due.

Marianna sorrise stringendo con una mano il calice dello spumante e con l’altra il gomito di Cesar che con lo stesso sorriso mostrava i denti bianchi.

La sala in cui si trovavano era enorme e addobbata a festa. Se Marianna avesse conosciuto davvero sua figlia avrebbe detto che somigliava alla sua mano, quella che l’aveva decorata. Sul palco una donna di mezza età ben tenuta, o solo rifatta, strillava un conto alla rovescia inguaiata in un vestito di lustrini argentati.

Cesar guardò i drappi lucenti e le palline dorate appese ovunque e poi guardò i capelli biondi della sua compagna. E pensò che non vi era differenza. Sorrise e alzò il bicchiere.

Uno.

A mezzanotte in punto sul canale nazionale la presentatrice urlò un Buon anno che riempì l’aria. Partirono tappi di spumante, verso il soffitto, verso il cielo, verso gli occhi di alcuni sfortunati astanti. L’ospedale cittadino segnalò quattro ricoveri causati da tappi di spumante finiti negli occhi.

E il signor Michelini, nominato con voto unanime all’assemblea di condominio come incaricato ai fuochi artificiali di san Silvestro imprecò a lungo perché non voleva smettere di piovere.

 

Arabella guardò Giovanni negli occhi con aria rassegnata. “Non sono riusciti ad aspettare dieci secondi…” sbottò scocciata. Il signor Cumoli alzò le spalle “Non sarà la fine del mondo infondo…” e alzò il calice pieno di succo di frutta, dato che lo spumante se lo erano scolato tutto gli altri due “Buon anno Arabella”

“Buon anno Giovanni” i bicchieri tintinnarono scontrandosi.

Mei e Alsazia non sentirono tintinnare i bicchieri, non sentirono i petardi lanciati da qualcuno in un bagno poco distante, ma sentirono la porta aprirsi e videro un fascio di luce illuminarli.

Si scostarono l’una dall’altra, e guardarono il nuovo venuto. O meglio, la nuova venuta, nel buio visualizzarono la sagoma rosa antico di Nikka che teneva in mano la torcia.

Nikka li guardò, li vedeva meglio di quanto loro potessero vedere lei. Si morsicò l’interno delle guance, costringendosi a non dare intonazione alla voce.

“Stavo cercando la cassetta degli attrezzi, questo è lo sgabuzzino” disse piatta. Fece un respiro profondo e si voltò verso il mobile senza ante, in metallo, alla ricerca di qualche cosa da  portare a Fin. Contrasse le mascelle e si sforzò di non chiudere gli occhi per non far scendere tutta l’acqua salata che aveva intrappolata sotto le palpebre.

Trovò una cassetta metallica abbastanza pesante, non era sicura che fosse quella giusta, ma non voleva rimanere lì un momento di più. L’afferrò e si alzò rigida, poi prima di uscire volse ancora il volto verso i due che erano rimasti immobili a guardarla.

“Fate come se io non fossi mai passata”proferì seria, con fatica uscì tirandosi dietro la cassetta e chiuse la porta con un calcio.

Si avviò quasi correndo verso il giardino e quando fu finalmente fuori si lasciò bagnare dalla pioggia e lasciò cadere per terra sul vialetto la valigetta degli attrezzi, per poi andare a piangere, senza meta e senza idee al bordo del marciapiede.

Si sentiva un’idiota. Mei era un idiota. Era un maledetto secchione che non era in grado di combinare nulla. E presto anche quella tizia  dal nome assurdo se ne sarebbe accorta, che oltre i suoi bei vestiti c’era solo uno stupido intelligentone del tutto incapace di condurre una relazione interpersonale. Un adorabile idiota dai bei vestiti. Tirò su con naso, tanto nessuno l’avrebbe vista, e per una volta non gliene sarebbe neanche importato.

Un tizio si sporse da un finestrino e la guardò. “Ehi tu? Tutto a posto?” urlò, avvicinando la limousine che guidava, a dove Nikka stava appollaiata.

Nikka annuì cercando di asciugarsi le lacrime che si mischiavano con la pioggia.

“Sicura? Se vuoi ti do uno strappo a casa… tanto mi hanno pagato in anticipo… comunque io sono Alfredo, piacere di conoscerti”.

Nikka fece una specie di sorriso. “Nikka… grazie” piagnucolò salendo sul posto davanti della limousine accanto all’autista.

In quel momento un energumeno biondo attraversò il prato  correndo all’impazzata “No, quella limousine è mia! L’ho prenotata io!”urlò come indemoniato.

Ma l’auto di lusso era già partita. E invece verso di lui si faceva strada con aria decisamente arrabbiata una ragazza che gli tirò una sberla sulla guancia chiara “Mi avevi detto che avevi prenotato una limousine per me! Ma a quanto vedo era solo una scusa per adescare! Brutto pezzente!”urlò.

“Fiorellino! Ma io l’avevo prenotata, ma me l’hanno rubata e.. e...”cercò di giustificarsi impacciato.

Ma la ragazza era troppo arrabbiata per ascoltarlo e cominciò a parlare con un tono di voce così acuto da fare quasi l’effetto delle unghie sulla lavagna.

“Non mi farò prendere in giro oltre!” e come era apparsa se ne sparì di nuovo all’interno del Luxury .

Pallotti si lasciò cadere per terra arreso “E’ la seconda volta… e che cavolo però…”piagnucolò.

Nel ripostiglio intanto tutto era tornato buio e Alsazia avvicinò Mei a sé passandogli la mano sulla schiena. Lui appoggiò di nuovo le labbra sulle sue, come se nessuno gli avesse interrotti.

Ma c’era freddo. “Tu non hai freddo?” chiese spaurito guardando il soffitto a occhi sgranati. “Non dire sciocchezze, il riscaldamento è al massimo” lo rimbeccò lei ridanciana ricominciando a baciarlo.

Mei deglutì, lui aveva freddo. Ma non era freddo vero, aveva i brividi. Pensò per un secondo al vestito rosa che aveva appena visto. Si sentì soffocare nel freddo con le labbra premute su quelle della ragazza.  Si allontanò di un passo, e lei per poco non perse l’equilibrio.

“non posso.. non posso… con te”spuntò quasi in preda al panico. “Mi spiace” disse infine senza sapere realmente come comportarsi e aprendo la porta fuggì lasciandola perplessa e senza maglia in una ripostiglio buio.

Le luci in corridoio si accesero. E la porta dello sgabuzzino si riaprì illuminandolo.

“Scusa , ho scordato la maglietta” disse Mei, e sparì come era apparso.

Alsazia era sempre più stupita ed attonita, non era nemmeno riuscita a dire qualche cosa. Quel ragazzo era fuori come un balcone per mettersi a fuggire così. Ma non ebbe ulteriore tempo per pensarci perché la luce dello sgabuzzino si accese e un paio di figure maschili apparvero dal nulla.

“Oh, c’era qualcun altro!”esclamò un tizio piuttosto anonimo coi capelli castani. Lui e il ragazzo alla sua sinistra si guardarono.

“Tu non hai visto niente” aggiunse poi rivolto ad Alsazia “Vorrei che certe cose rimanessero personali…” ed entrambi se ne andarono.

 

Mei corse senza meta per un po’, salì e scese scale a caso, senza avere idea di dove stesse andando., finché non incappò in una porta aperta e illuminata, dentro la quale di sfuggita gli parve di vedere due figure conosciute. Tornò indietro per capire cosa il suo subconscio aveva registrato che invece la sua ragione non era riuscita ad afferrare, e si affacciò in quello che lui non sapeva essere lo studio di Fin. Anche perché non aveva la più pallida idea di chi fosse questo Fin.

La scena che gli si presentò davanti fu forse la più sorprendente della sua vita, o comunque l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettato di vedere. Joyce e Rachele seduti sopra un divano orrendo, che si baciavano.

Joyce e Rachele che si insultavano sempre, non si sopportavano, si facevano le peggiori angherie, Joyce e sua sorella, che si baciavano.

“Ehi!” esclamò senza nemmeno rendersi conto di averlo fatto. Entrambi si voltarono verso di lui, per nulla preoccupati.

“Ehi, Opossum…” disse sua sorella con aria assonnata.

“Voi…voi…” cominciò senza saper veramente proseguire la frase.

“Oh, siate tutti qui…” disse una voce dall’accento un po’ stano, mentre una testa bruna si sporgeva nella stanzetta.

“Darcy!” esclamò suo fratello vedendola arrivare mano nella mano con un ragazzo dalla pelle color ebano. Si disse che anche se non era andato a cercarla, lei se l’era cavata benissimo. Darcy alzò le sopracciglia a mo’ di saluto. Libara preferì rimanere in disparte.

“Come è andata la serata Mei?” chiese Joyce stancamente sistemandosi meglio sul divano.

“Male!” sbottò deciso. “Ho baciato Alsazia, ma poi è apparsa Nikka e…e credo di essere impazzito” spiegò con fare poco comprensibile.

“Potrebbe essere un preludio, sta notte è anche la luna piana” sentenziò la piccola Irlandese.

“Darcy? hai idea di cosa voglia dire preludio?” domandò Joyce perplesso.

“Assolutamente no” rispose lei sibillina.

“Credo che sia ora di tornare a casa…” decretò Rachele che fino ad allora se ne era rimasta con le palpebre pesanti seduta sul divano senza dire nulla.

“Certo” rispose Mei con un sorriso tirato che probabilmente somigliava a uno di quelli plastici di Nikka. “Ma prima vorrei parlare con Joyce…in privato”.

Joyce si indicò stupito. Mei annuì con aria sarcastica, non c’erano molti altri Joyce in quella stanza.

I due si sistemarono nel corridoio che era tornato buio, illuminati dalla luce che usciva dall’ufficio di Fin.

“Allora?” chiese Joyce.

“Allora cosa? Sei mio amico! Come ti salta in mente di sbaciucchiarti così mia sorella? Promettimi che non succederà mai più!” sbottò Mei in un eccesso di fratellanza. Per un secondo sentì tutti gli obblighi di fratello maggiore che aveva ignorato per anni.

Joyce soppresse una risatina e alzò le sopracciglia. Mei si irrigidì “mi stai dicendo che non è la prima volta?” chiese con un sussurro senza voler davvero sapere la risposta.

Joyce soppresse un sorrisetto e alzò le spalle.

“Oh, mio Dio, da quanto va avanti questa storia, su dimmelo…rapido e indolore”. Joyce fece una smorfia, parve pensarci “Se la prendiamo alla larga direi la prima volta che mi ha insultato” spiegò pensieroso.

“Cioè?”

“Quando mi sono presentato e lei mi ha detto che nome del cavolo è Joyce?... avevamo otto anni…circa, se la prendiamo per il fine invece è da quando abbiamo tredici anni…”

Mei deglutì, meno divertito di quanto pareva l’amico irlandese in quel momento.

“Joyce quando compi diciannove anni?”

“A marzo…”

“Quindi sono sei anni che va avanti questa storia e io non mi sono accorto di nulla?” chiese mesto più a se stesso che a Joyce. Lui alzò le spalle “Rilassati Mei, fino a due mesi fa non sapevi nemmeno che io esistessi! Dovresti uscire un po’ più spesso dai tuoi paradisiaci venti metri quadrati…”

Mei sospirò “Ho proprio bisogno di andare a casa”.

 

Cesar avvicinò una fetta di millefoglie a Nikka che stava seduta immobile e composta, con gli occhi allagati, al tavolo della cucina. La guardava dall’alto, si era tolto la giacca e mostrava la camicia a righe, con le maniche tirate su. Era perplesso, e in un certo senso anche preoccupato, per quella ragazzina impertinente che in tre mesi non si era neanche sforzata di imparare il suo nome.

Nikka non si era mai preoccupata di guardarlo per bene.

Era il fidanzato di sua madre, perciò non veniva considerato uomo, lo vedeva come una creatura asessuata. Come sono tutti i genitori, anche se Cesar a fare il genitore non avrebbe neanche dovuto provarci.

“Vuoi del tea?” chiese piano come avendo paura di fare rumore. Senza avvicinarsi, rimanendo educatamente vicino al bollitore per l’acqua, con la sigaretta appesa distrattamente alle labbra.

Nikka scosse la testa, Cesar non avrebbe saputo dire dove stava guardando in quel momento, di certo non lui. “No, grazie…e non mangio neanche” piagnucolò riferendosi al dolce che lui le aveva allungato.

Cesar lo guardò silenziosamente, come vedendoci dentro un fallimento. Non capiva perché proprio non riusciva a fare nulla per piacere a quella ragazza.

“Cos’è successo sta sera?” chiese il più dolcemente possibile, mentre il timer del bollitore squillava argenteo.

Lei alzò le spalle continuando a non guardarlo, i suoi occhi erano fissi alla finestra, al cupo diluvio che continuava a imperversare sulla città.

Eppure sui colli,dove aveva passato tutta la sua serata, non pioveva, aveva pensato Cesar. Ma dove c’era Nikka pioveva davvero a dirotto, anche sulle sue guance. Silenziosi due rigagnoli scioglievano il fondotinta.

“Marianna mi ha detto che Serenity, la fidanzata di tuo padre ti sta simpatica…”cominciò, non avrebbe dovuto, e si odiò, probabilmente Nikka in quel momento stava male per chissà cosa,magari Paris Hilton era uscita senza abbinare al meglio i suoi accessori, o aveva scoperto che anche il tofu faceva ingrassare, o che il fondatore della Luis Vitton era morto da  un millennio... o qualche cosa d’altro che a lui sarebbe sembrato idiota.

Ma non ce l’aveva fatta, aveva dovuto tirare fuori quell’argomento. Era la prima volta che lui e Nikka rimanevano da soli, Marianna era a fare la doccia.

Si era messo coi gomiti sul tavolo e la guardava fisso. Nikka si decise a guardarlo, e pensò che era un bell’uomo. Come aveva fatto ad adescarlo, sua madre? Chissà…

I muscoli erano tirati e i ricci scuri gli ricadevano sulla fronte, con un’espressione estremamente ispirata.

“Selena” disse lei semplicemente. Cesar aggrottò la fronte senza capire.

“Selena, la fidanzata di mio padre si chiama Selena, non Serenity come crede la mamma…”spiegò lasciandolo interdetto per qualche secondo.

Lui s’incupì e si voltò verso la finestra “Il suo nome lo sai…” mugugnò.

“Tu ti chiami Cesar…” continuò lei con un sorrisetto umido.

Cesar la guardò sottecchi “L’hai imparato?” chiese perplesso. Nikka sospirò “L’ho sempre saputo” spiegò alzando le spalle.

“E Serenity?”

“Selena non ha l’ambizione di rimpiazzare mia madre” spiegò lei con calma, stava cominciando a sorridere.

“Neanche io ho l’ambizione di rimpiazzare tua madre! Cioè, tuo padre…”Sbottò contrariato.

“Volevo chiedere a tua madre di venire a vivere con me…ma immagino che a questo punto…” sospirò quasi dicendolo solo a sé stesso.

Si fece silenzio. E Cesar rimescolò per diversi minuti a occhi bassi il suo tea.

Poi si risvegliò “Che cosa ti è successo? Ha chiuso il tuo rivenditore preferito di Chanel?” chiese con un sorriso. Anche Nikka sorrise “No, è un ragazzo” disse con un po’ di amarezza.

“E’ stato poco gentile con te?” domandò Cesar interessato.

Nikka alzò le spalle senza guardarlo “O forse io sono stata poco gentile con lui…”

Cesar annuì come sapendo come ci si sentiva. Forse ci era passato anche lui con qualche ragazza. Anni prima.

“Sigaretta?” chiese porgendogliene una straniera di quella che fumava lui.

“Io non fumo!”esclamò lei fingendosi scandalizzata. Cesar fece una smorfia e alzò le sopracciglia “Su, non prendermi in giro, non sono mica tua madre!!”

“non posso! C’è mia madre in casa!” esclamò. Cesar alzò le spalle “Si sta facendo la doccia ne avrà ancora per venti minuti buoni!” disse tranquillamente.

Nikka lo guardò circospetta poi prese la sigaretta e se l’accese mentre lui beveva il suo tea.

Si fece nuovamente silenzio poi Nikka proferì seria e distaccata“Se vuoi venire ad abitare con noi, per me va bene, ma non azzardarti a lasciare alzata la ciambella del water, è una cosa che odio. Mio padre lo fa sempre…”.

Cesar sorrise.

 

Quando arrivammo a casa Cumoli Joyce stava chiedendo a Libara perché cavolo ci avesse seguito fino a casa. E Libara diceva che essendo salito in auto con noi, e non essendosi Joyce fermato a casa sua non poteva lanciarsi dall’auto in corsa.

Oltre la porta trovammo l’immagine più ridicola che abbia mai visto in tutta la mia vita, ovvero quattro cinquantenni , tra cui due ubriachi fradici che facevano il pediluvio in compagnia.

Mia madre mi guardò “Non ho mai passato un San Silvestro più stressante!”

“E tu avresti cinquantenni?” commentò Darcy osservando lo zio, mentre Libara la guardava con aria sognante.

Emily era al telefono “Oh sì, e hai visto la Rinaldi che ballava mezza nuda sul cubo ancora prima che saltasse la luce?...cosa?...Oddio, davvero, non ci posso credere! Il ragazzo della Gigli è gay? Ecco perché non gliene frega niente se lei gli fa le corna! E chi è che te l’ha detto? Alsazia che gli ha beccati nello sgabuzzino? Già che nome orrendo!”.

Mei fece una smorfia “Geografico” commentò.

E tutti andarono a letto.

 

 

 

 

Salve a tutti, come potete ben vedere non sono morta, mi scuso tantissimo davvero per il ritardo nell’aggiornare, ma l’ispirazione era andata in vacanza, c’erano tanti film, anime e telefilm che bramavano di essere visti da me, il lavoro mi ha decisamente distrutto le ossa, sono stata malata, mi è venuta l’ansia per praticamente qualsiasi cosa, compreso il fatto di non riuscire ad aggiornare, e per di più questo capitolo mi ha seriamente dato del filo da torcere, tant’è vero che non mi convince neanche ora. Temo di non essere ancora entrata nell’ordine di idee che non sto scrivendo la sceneggiatura di un film, perciò non posso saltare così da una scena all’altra, spero che tutto ciò non faccia troppo schifo. Se avete qualche consiglio su come sistemare al meglio quello che ho scritto accetto molto volentieri le proposte! Perché così proprio non mi convince!!

Probabilmente molti di voi mi odieranno perché in questo capitolo ci sono personaggi nuovi assolutamente inutili che avrei potuto bellamente risparmiarvi, beh, credo che se ho questa passione perversa sia colpa di Harry Potter, mi è sempre piaciuto come la Rowling abbia creato un suo universo, anche se poi i personaggi non me li ricordavo tutti. Ma comunque per tranquillizzarvi vi dico che potete benissimo dimenticarveli tanto non rispunteranno più, al massimo Cesar potrebbe fare una capatina veloce, ma non è detto!

Altra nota assolutamente inutile, a Joyce ho affibbiato una maglia con su scritto NY Ys ME  perché questa estate l’avevo vista addosso a un tipo e mi aveva fatto ridere perché mi sembrava tanto una presa in giro a I Y NY , ma non ho idea di che cosa sia…magari ha un significato nascosto di cui non sono a conoscenza! XD

Se trovate la grammatica errata nei discorsi di Darcy sappiate che è fatto apposta, nel caso non abbiate capito ^.^

Ma ora passiamo alle cose serie, ovvero ai ringraziamenti, prima di tutto ringrazio chi ha letto in silenzio, chi ha messo la storia tra i preferiti ,chi tra le seguite e ovviamente chi ha commentato!

 

The Corpse Bride: Oooh… io adoro le atmosfere natalizie innevate…ma decisamente i Pavesi non sono tipi da perdersi in Babbi e renne… è un peccato! Tornando a Nikka, purtroppo so che l’anoressia non è solo un problema fisico, ma soprattutto mentale. Diciamo che ho snobbato questo fatto perché  è infilato nel  contesto della sua follia del bello e del fatto che tutto ciò che le sta intorno debba essere perfetto, non so se mi spiego O.o

In questo capitolo Joyce e Rachele sono un po’ troppo sbaciucchiosi forse, ma se avessi potuto raccontarlo senza allungare inutilmente il capitolo e annoiando tutti , avrei scritto come nel tragitto in auto per andare a casa si sarebbero insultati come al solito. Insomma il momento di tenerezza è durato poco come al solito! E beh, riguardo al fatto che Joyce si fa fare tutto, questo è perché lui sa che lei gli vuole bene anche se probabilmente lei non lo ammetterà mai, Mei e Nikka invece non si sono ancora capiti per niente!!XD

E a questo punto devo darti una bruttissima notizia, il Luxury non esiste… ma Luxury mi pareva un nome abbastanza tarazzo per andare bene a una discoteca! Il motivo per cui lo ritrovi ovunque è perché ambientando tutte le mie storie a Bologna mi piace creare collegamenti!^.^ Spero che questo capitolo ti sia piaciuto!!

 

DarkViolet92: Sono felice che tu abbia apprezzato, a me non sembrava un granché, mi tiri su di morale!! ^.^

 

Melisanna_: Eh sì, a Joyce piacciano le tradizioni, se non fosse per lui nessuno si ricorderebbe del Natale!

Non ti preoccupare Nikka non morirà, ne cadrà troppo in depressione, anche se da questo capitolo potrebbe sembrare!! E sì, hai ragione, gli orrori ortografici ci sono, e sono dovuti soprattutto a errori di battitura, che si potrebbero tranquillamente sistemare con un’attenta rilettura, ma purtroppo sono tremendamente distratta!! Ma dato che me lo hai fatto notare mi sono impegnata al massimo nella revisione di questo capitolo, e non dovrebbero essercene, se ne trovi e me li segnali sarò felice di correggerli immediatamente!!^.^

 

The Duck: Si ammettiamolo, un po’ se lo meritava! Ma adesso ci stanno male entrambi… due furboni! ^.^ grazie mille per aver letto, spero che anche questo capitolo ti possa piacere!!

 

Un bacio a tutti e al prossimo capitolo, sperando di scriverlo in meno tempo!!

 

 

 

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Capitolo 19
*** La Supriorità dello Struzzo ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Diciannovesimo

La Superiorità dello struzzo

 

Ho sempre odiato il mio compleanno. E non perché non mi piacciano i regali, ma semplicemente perché nascere il 7 gennaio, notoriamente primo giorno di scuola dopo le vacanze di Natale, è davvero deprimente.

Da sempre avevo deciso che quando fossi andata a lavorare, il giorno del mio compleanno avrei preso le ferie.

Ogni anno, a farmi preoccupare però era Joyce, con le sue idee troppo vistose. Come neon di auguri fuori dalla finestra e altre trovate abbastanza trash.

Fui rincuorata quando alzandomi dal letto e andando in cucina l’unica cosa che vidi fu uno striscione con vari fili dorati come quelli che si mettono sull’albero di natale, con su scritto “Auguri Stronza Blu”.

Sospirai. Nulla di eccessivamente trash. Alzai le spalle e mi sedetti al tavolo della colazione.

“Tesoro, prima è passato Joyce…” disse mia madre.

“Sì, lo supponevo mamma” risposi infilando il naso nella tazza del latte.

“Tanti Auguri Tesoro”

“Grazie mamma”.

Tanti auguri a me, e alla mia maggiore età.

 

Quando Rachele mise piede nel cortile della scuola fu accolta da un’inaspettata mole di auguri e congratulazioni per i diciotto anni. Lei non si impegnò nemmeno a sorridere.

Sbottò qualche grazie scocciato. Come faceva tutta quella gente a sapere che era il suo compleanno?

Joyce si era perfino risparmiato manifestazioni nazionali e balletti imbarazzanti.

Sbuffò e si incamminò verso la sua aula mentre  in qua e in là qualcuno la fermava per farle gli auguri.

Deviò verso il bagno per stare da sola fino al suono della campanella quando in classe ci sarebbe stata la professoressa e nessuno avrebbe potuto abbracciarla con troppa enfasi. Tutte quelle manifestazioni di affetto le facevano venire il diabete.

Fu allora che lo vide: un foglio attaccato alla porta del bagno con il nastro adesivo con scritto Se incontri questa ragazza falle gli auguri, e sotto una sua foto in bianco e nero, presa da troppo vicino, e con un’espressione abbastanza idiota, tra lo stupito e l’arrabbiato.

“Joyce!”urlò voltandosi verso il corridoio alla ricerca del colpevole.

Joyce in fondo al suddetto drizzò le orecchie, individuando immediatamente Rachele che con un’espressione orribile lo fissava dall’altra parte del androne.

Batté la mano sulla spalla del ragazzo con cui stava chiacchierando, con aria paterna e disse “Mi piace molto la tua cravatta leopardata, ma temo che la mia amica abbia trovato una cosina che non le garba, quindi credo sia meglio che ora mi defili immediatamente, è stato un piacere parlare con te”. E così dicendo iniziò a correre  seguito da Rachele che lo insultava in malo modo. Passarono davanti a Mei che arrivava in quel momento e cercò di chiederle chi mai avesse riempito di volantini con la sua faccia, la scuola. Ma lei lo ignorò, allora lui alzò le spalle e si ficcò il volantino in tasca accartocciandolo, poi si diresse verso la propria classe senza farsi altre domande.

 

Joyce se ne stava appoggiato al muro ricoperto da piastrelle di ceramica del bagno delle ragazze quando Nikka entrò per risistemarsi il trucco.

Si fermò a metà della stanzetta dove stavano i lavandini per guardarlo perplessa.

Lui se ne stava con aria assente con la guancia appoggiata alla parete fredda e non l’aveva vista entrare.

“Beh?” fece lei. Lui sussultò e la guardò, in bilico su degli stivali col tacco, anche se fuori la neve aveva gelato costituendo un pericolo per tutti - Millie e la sua amica equina avevano rischiato la morte parecchie volte per venire a scuola quella mattina -  lei ricambiò lo sguardo, stringendo il mascara.

“Che ci fai qui?”chiese rinunciando a truccarsi.

“Mi nascondo da Rachele, credo voglia uccidermi” rispose lui stancamente, stava saltando le lezioni per eclissarsi.

“E ti nascondi nel bagno delle ragazze?” domandò perplessa.

“Beh, perché se mi cerca nella toilette dei maschi non mi trova”spiegò senza staccarsi dalle piastrelle.

Nikka alzò le spalle “Non è così sicuro date le tue evidenti ambiguità sessuali” disse alludendo al suo pellicciotto.  Joyce accennò un sorrisetto ma non ribatté.

“Come sta Mei? Non lo vedo da capodanno, sta ancora con quella tipa dal nome idiota?” chiese tutto d’un fiato con aria di chi si informa sugli ultimi pettegolezzi.

“Boh, direi bene…a capodanno era un po’ scosso. Ma se vuoi sapere qualche cosa di più preciso dovresti chiedere a mia sorella. Lei sicuramente lo saprà…” disse sedendosi per terra.

“Perché vuoi sapere di Mei?” domandò poi assottigliando gli occhi. Nikka gli aveva dato le spalle e si era messa a truccarsi “Te l’ho detto Joyce, è da un po’ che non lo vedo… era così, per sapere” spiegò con snervante naturalezza. Joyce alzò le sopracciglia poco convinto e lasciò che le gambe si allungassero sul pavimento, appoggiando la testa alla parete.

“Sai Nikka, credo che se gli chiedessi di prendere un caffè, oggi pomeriggio, lui non rifiuterebbe” disse con voce un po’ lasciva.

“Perché dovrei chiederglielo?” trillò Nikka passandosi il pennellino sulle ciglia “E poi oggi pomeriggio mi passa a prendere Cesar in auto”spiegò con semplicità.

Joyce alzò le sopracciglia stupito e ripeté “Cesar?” ma non fece in tempo ad aggiungere altro perché la porta del bagno si aprì rivelando lo stesso ragazzo con la cravatta leopardata che quella mattina stava amabilmente chiacchierando con lui.

“Credo che la tua amica stia arrivando e sembra anche piuttosto arrabbiata…”. Joyce ringraziò e si catapultò dentro un gabinetto, salì sul water per raggiungere la finestra e ne uscì.

Rachele entrò spingendo via il povero ragazzo mezzo leopardato e  urlando “JOYCE!” poi guardò Nikka che stava mettendo via i suoi cosmetici. “Dove è andato?” domandò.

Nikka silenziosa le indicò la finestra e la ragazza blu partì alla carica.

 

Essere distratti ogni tanto è una cosa che può capitare a ogni alunno, anche al più solerte, questo la professoressa Virgili lo capiva bene, ma la terza volta che Isabella Gigli rovesciò il caffè per terra iniziò a sospettare che fosse un modo per avere una scusa per uscire in corridoio a farsi i fatti propri. Quindi decretò che sarebbe andato il signor Federico Pavesi a prendere lo spazzone nell’armadietto del bidello per pulire il lago nero che si era formato sotto il banco della Gigli.

Mei si alzò di mala voglia, primo perché l’incauta professoressa l’aveva chiamato Federico, e la cosa non lo entusiasmava per nulla. Nessuno lo chiamava così, quasi non si ricordava quale fosse il suo nome vero, e quando qualcuno glielo ricordava si indisponeva.

Per di più doveva perdere tempo di lezione per ripulire i disastri pilotati della Gigli, quando era l’unico veramente interessato alla spiegazione.

Si incamminò per il corridoio vuoto verso l’armadietto blu del bidello, alto e stretto e completamente ripulito dalle scritte amorose dei ragazzi. Mei sapeva che sarebbe durato poco, ma il bidello ci sperava sempre che rimanesse lindo, almeno per una settimana.

Quando lo aprì senza tanti complimenti dentro non vi trovò lo spazzone, bensì Joyce sistemato in una posizione degna di un contorsionista.

“Che ci fai tu qui?” domandò accigliandosi. Joyce gli fece segno di fare silenzio. “Abbassa la voce, mi sto nascondendo da tua sorella!”disse lui con aria cospiratoria.

“E’ per i volantini? Li hai fatti tu, vero?” chiese lui tranquillo appoggiandosi allo sportello, come se parlare a uno che fa il contorsionista dentro a un armadio fosse la cosa più normale del mondo.

“Già, li ha scoperti…tra l’altro oggi ha anche gli anfibi con la punta rinforzata,causa neve…” disse con tristezza. Mei fece una smorfia pensando alla punta rinforzata che non doveva essere delicata.

Annuì, poi cambiò discorso “Come sta Nikka? Sai è da Capodanno che non la vedo…” cominciò come se l’argomento fosse stato scelto a caso.

Joyce sospirò e alzò gli occhi che aveva abbassato, per guardarlo. Ebbe una fastidiosa sensazione di déjà vu.

Fece una smorfia. Se prima era convinto che le piacesse Mei, ora c’era quel Cesar sputato dal nulla. Poteva essere un passatempo come Pallotti, o quell’altro tipo col cappello da mafioso, ma non poteva saperlo.

“Direi bene, si stava truccando l’ultima volta che l’ho vista…mi ha chiesto di te, e io le ho detto che se voleva poteva chiederti di prendere un caffè oggi pomeriggio” spiegò, Mei arrossì un poco, ma rimase immobile ad ascoltarlo.

“Ma lei ha detto che la veniva a prendere un certo Cesar.. che non ho idea di chi sia…” disse con un velo di stanchezza alla fine.

Mei sembrò risvegliarsi , ma Joyce fece lo stesso aguzzando le orecchie. “Senti rumore di passi, Mei?” chiese circospetto. Mei allungò il collo oltre lo sportello per vedere chi arrivava.

“ANFIBI RINFORZATI!!” urlò Joyce in un impeto che faceva tanto comandante in guerra e con uno scatto chiuse l’anta, per poco a Mei non venne portato via un orecchio.  Un secondo dopo si trovò spinto un metro più in là da sua sorella che aveva preso a tirare calci all’armadietto del bidello gridando “Prima o poi dovrai uscire da lì!”.

A quel punto Mei decretò fosse meglio defilarsi.

Passò il resto della lezione senza ascoltare e a guardare con aria svanita la lavagna. Chi era questo Cesar?

Joyce era riuscito a esaltarlo e smontarlo in meno di dieci secondi. All’uscita si fermò sul portone, intasando il traffico degli studenti, che gli assestarono parecchie gomitate e imprecazioni.

Nikka era arrivata in fondo al vialetto che il bidello aveva ripulito dalla neve, e stava parlando con un tizio dalla carnagione scusa, aveva un aria sud americana, e non era molto alto. Lo vide scendere dall’auto di corsa rischiando di scivolare sul ghiaccio con le scarpe di vernice per aprirle la portiera dell’auto lucida.

Sentì un groppo allo stomaco. E così quello era sicuramente il Cesar di cui parlava Joyce. Nikka riusciva proprio a stare da sola per molto. Allora cosa aveva visto la sera di capodanno per cui aveva lasciato Alsazia al suo destino?

 

Cesar pochi metri più in là scese dall’auto imprecando. “Nikka devo venirti ad aprire la portiera per farti salire?” sbottò rischiando di finire col sedere per terra.

“Non vorrai mica che metta il tacco in quel cumolo di neve vero?” ribatté lei antipatica.

“Te lo apro solo perché ho fretta, se tra dieci minuti non sono di nuovo al lavoro mi licenziano! E sarà colpa tua! Non potevi metterti degli anfibi?” continuò lui aprendole la famosa portiera e tornando dal lato del guidatore, rischiando nuovamente la vita sul ghiaccio.

“Secondo te io mi metto quelle schifezze? E poi non rompere le scatole, neanche tu te li sei messi!” replicò salendo mentre lui chiudeva la sua portiera e accendeva il riscaldamento.

“Ma io lavoro, Nikka! Devo andare sempre vestito di tutto punto, non posso fare un brutto effetto sui clienti!” spiegò lui. Nikka alzò le spalle “Cesar, non sei un avvocato, sei un barista, le scarpe rimangono dietro al bancone” fece notare saccente.

Cesar si incupì e partì pronunciando insulti a mezza bocca, e a Nikka parve di sentirgli dire mi tocca fare anche il babysitter, cosa si fa per amore di una donna!

 

Mei non aveva bene idea di cosa avrebbe fatto. Ma si trovò davanti a casa di Nikka, senza quasi volerlo. Le avrebbe chiesto di uscire a prendere un caffè, se lei ne aveva voglia. Magari un giorno in cui non ci fosse stata la neve. Magari avrebbe lasciato in fretta quel Cesar. Insomma, era un vecchio rispetto a lei. Forse aveva perfino trent’anni. Dodici in più di lei.

Sospirò e spinse l’indice sul campanello. Trattenne il fiato, finché la porta si aprì, non del tutto, perché era bloccata dal chiavistello. Vide l’occhio di Nikka in quello spiraglio, la vide fare una smorfia e dire “Ciao Mei, aspetta un attimo…MAMMA? CHI CAVOLO HA MESSO IL CHIAVISTELLO?”

La porta si chiuse e si riaprì come di dovere. Nikka era in tuta da casa con l’aria stanca e disinteressata che aveva la prima volta che si erano visti. Solo che quella volta stava fumando ed aveva un turbante. Gli aveva detto che non doveva dire in giro che fumava, se no sua madre lo avrebbe scoperto, e sarebbero stati cavoli amari per tutti.

“Che c’è?” chiese scocciata, “stavo appendendo un quadro insieme a Cesar”spiegò.

Mei sentì nuovamente il groppo che aveva sentito quella mattina quando aveva visto quel tipo riccio aprirle la portiera dell’auto. E i propositi di invitarla a uscire gli morirono in bocca.

“Oh, niente” disse mettendo il pilota automatico “ero passato a salutare! Non è che avessi qualche cosa da dire, ma sai che nel 2012  apriranno il primo hotel orbitante? I visitatori vedranno sorgere il sole quindici volte ogni ventiquattro ore, e faranno il giro della terra ogni ottantotto minuti…” disse poi bloccandosi, aggiunse poi “Tutti i posti sono già stati prenotati sai…

Dall’interno dell’appartamento si sentì un urlo soffocato e delle imprecazioni in spagnolo.

Nikka lo guardò perplessa “Grazie per l’infarinatura di cultura generale, ora vado ad attaccare il quadro” annunciò iniziando a chiudere la porta. Mei la fermò con la mano e dicendo “Aspetta”.

Mei pregò che gli venisse in mente qualche cosa di intelligente da dire, Nikka pregò lo stesso.

Rimase un secondo col fiato sospeso poi disse “Lo sai che uno struzzo corre più veloce di un leopardo?”

Nikka fece un sorrisetto tirato, che dimostrava tutta la sua insofferenza e lo salutò chiudendolo fuori.

Mei non desiderò mai più così tanto in tutta la sua vita di essere incenerito da un fulmine. Gli struzzi, gli struzzi!

Dall’altra parte della porta Nikka si appoggiò al muro con la schiena sospirando abbattuta.

“Allora era lui? Ti ha chiesto di uscire?” domandò Cesar con aria sofferente, seduto al tavolo della cucina.

“No, mi ha parlato di hotel orbitanti e struzzi…” sospirò lasciandosi scivolare per terra con aria rammaricata.

“E’ un idiota!” sbottò Cesar. Nikka alzò le spalle malinconica, “No… è solo un po’nerd…” lo scusò.

Cesar sbuffò “Bene, adesso che abbiamo appurato che il tuo amichetto è un incapace, che ne dici di andare a prendermi del ghiaccio, che ho scagliato il chiodo e mi sono martellato un dito?

 

 

Joyce era riuscito ad evitarmi per tutto il giorno, ma era ovvio che prima o poi sarebbe dovuto tornare a casa. Anche quando l’avevo bloccato dentro l’armadietto del bidello era stato salvato in extremis da quel suo amico con la cravatta leopardata, che mi aveva portata via di peso.

Entrai a casa Cumoli e rimasi sulla soglia per qualche secondo a guardare Joyce che se ne stava seduto sul divano con dei pantaloncini, un papillon e un cappellino da festa, tutti e tre rossi e paillettati.

Mi liberai degli anfibi con un calcio. Mia madre aveva cercato di rifilarmi delle scarpe col tacco, che a dir suo erano più carine, io le avevo di sì, e poi ero uscita vestita come un eschimese.

Joyce invece era imbarazzante. Con un ghigno idiota e una millefoglie in braccio.

Non mi tolsi il pile enorme che avevo scovato infondo all’armadio (probabilmente era di mio padre, non credo che Mei avesse la facoltà di decidere qualche cosa sul vestiario, mentre mio padre aveva sempre detto chiaro e tondo alla mamma quanto non gliene fregasse nulla dei suoi straccetti colorati)e mi lasciai cadere sul divano di casa Cumoli.

“Sono tutti fuori” disse Joyce con ari angelica. Io gli stappai il farfallino e lo cacciai alle mie spalle. Lui fece una smorfia e mi massaggiò il collo. “E non fare quella faccia. L’ho fatto per te. Ti metti queste cose e poi ti lamenti se la gente pensa che tu sia gay!

Joyce sbuffò poco convinto, poi accennò alla torta che aveva appoggiata sulle ginocchia. C’era una candela fatta a forma di numero diciotto. Bianca , coi contorni rossi.  Fissai la fiamma per qualche secondo senza dire nulla, poi soffiai, la spensi e la tolsi.

“Lo sai Joyce che mi devo vendicare per oggi, vero?”chiesi raggomitolandomi meglio nella mia enorme felpa di pile.

In effetti lo sospettavo” proferì lui un attimo prima che la millefoglie gli si schiantasse in faccia.

Lo vidi stringere gli occhi mentre la panna e la pastella gli scivolavano sul viso, sul petto e sulle gambe.

“Buon compleanno Rachele” pronunciò poi mentre cercava di togliersi la torta dalla faccia con le mani.

“Buon non compleanno Joyce” replicai io prima di allungarmi e appoggiare le labbra sulle sue.

 

 

 

E vai col sipario che cala su Rachele e Joyce… eheheh ( interpretate pure la mia risatina come volete).

Aggiornamento super veloce (per i miei standard ovviamente) è un po’ corto, e non succede poi molto, a parte che Mei e Nikka come al solito non si capiscono. Mi sa che in questo caso Mei è più pirla del solito. È troppo pirla anche per sé stesso… bah…. E Cesar, avevo promesso che si sarebbe visto poco… ma non  ho resistito… mi ci sono affezionata!

Forse avrei dovuto postare oggi il capitolo di Natale, ma almeno cui c’è la neve, spero che sia abbastanza natalizio!!!

Ma passiamo ai ringraziamenti meritatissimi, a tutti quelli che leggono, a chi ha la storia tra le seguite e le preferite!!

 The Corpse Bride: Davvero hai pensato a Daria? O.O anche io ci ho pensato! Allora è proprio uguale cavolo! Non l’ho fatto apposta, ma dopo un po’ che la usavo ho notato un po’ di somiglianza… sarà l’inconscio? A proposito di personaggi che somigliano ad altri, tra l’altro ho cercato di immaginarmi Effy coi capelli blu, e mi fa uno strano effetto O.O

Per quanto riguarda Joyce, a volte il caro stupisce anche me per come riesce a conciarsi, lo zio ha ragione!XD

E Nikka sembra non farcela proprio più a stare con qualcuno, tanto che adesso gira con quella povera anima del fidanzato di sua madre!! Ti ringrazio davvero tanto per il tuo commento, non sai quanto mi fai piacere! ^.^

DarkViolet92: ^.^ grazie mille per il tuo sostegno morale, spero che il capitolo ti sia piaciuto anche se è un po’ corto!!

Melisanna_: O.O davvero ti piace Emily? Oh, sono davvero felice, mi diverto tanto a manovrarla, è per quello che rompe sempre le balle ed è ovunque!! Mi fa anche piacere che apprezzi i personaggi secondari…di solito sono la parte che preferisco nelle storie…sia da leggere che da scrivere… l’unico problema che a un certo punto diventano troppi, e ho paura che non si capisca più nulla!!XD

Lucy Light:  Benvenuta (che forse sarebbe più adatto da dire a uno che entra in un ristorante più a qualcuno che lascia un commento a una tua storia…mmh ma lasciamo perdere, il web è immensamente complicato ç__ç)

Comunque ti assicuro che anche a me starebbe antipatica Nikka se la incrociassi per strada XD insomma, una che sceglie le sue compagnie per i vestiti mi farebbe venire l’ansia, se un giorno mia madre sbaglia il lavaggio in lavatrice e mette il rosso insieme ai bianchi, e mi trovo tutto rosa? Con che coraggio mi presento?O.O Mi sa che mi sono allargata e sto delirando, quindi è meglio se smetto di scrivere! Sono una cosa, curiosità sul tuo nick: è la fidanzata di Percy in Harry Potter? O.o

TheDuck: Oh, che bello sapere che il conto alla rovescia non è così male, mi preoccupava un sacco, non riuscivo ad essere obbiettiva sul risultato!! Beh, per Joyce e Rachele, non ci sono tanto perché i protagonisti sono Nikka e Mei… ma mi piacciono più loro, quindi faccio fatica pure io a stiparli nel loro angolo di narratrice e personaggio secondario!! e loro che si allargano! Infatti anche qui si sono presi tutto l’inizio e la fine del capitolo! Megalomani!

Uno dei motivi perché Alsazia è stata malamente cacciata è il suo nome. Lo odio! Facevo fatica a scrivere i pezzi dove c’era lei che faceva qualche cosa! Ma cosa avevo fumato quando l’ho chiamata così???

 

 

Dato che sono in ferie spero di poter aggiornare il prima possibile, sempre che sopravviva all’abbuffata di Natale e alla trasferta a Firenze in occasione della gara di lancio del cacio (si avete letto bene, ho scritto lancio del cacio…-.-).E per concludere un bacio e un Buon Natale a tutti!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** Per chi non sa ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Ventesimo

Per chi non sa

 

James Augustine Aloysius Joyce era nato a Rathgar ,un elegante sobborgo di Dublino, il 2 febbraio 1882 e divenne poeta e scrittore. L’avevo letto su Wikipedia.

Joyce Judd Cumoli era nato a Gallway, in Irlanda, il 13 marzo 1990, e non era né un poeta , né uno scrittore. Sicuramente.

Joyce era sempre stato un tipo allegro. Forse era per quello che riusciva a trovarsi delle ragazze, nonostante il suo abbigliamento improbabile.

Forse era per quello che quella mattina era nel bagno delle ragazze a scambiarsi effusioni con una tizia del terzo anno. Io non avrei saputo nemmeno dire come si chiamasse, Joyce non l’aveva scoperto, quel nome, certo più di due giorni prima. E in quel momento la stava baciando a occhi chiusi. Forse per far finta che si trattasse di qualcun altro.

Appoggiati al termosifone, ad arrostirsi il sedere.

 

Nikka fece un ingresso plateale, del tutto ignorato dai due, troppo impegnati a baciarsi per badare a una persona qualunque che entrasse nel bagno per rifarsi il trucco. Ma Nikka non era famosa per essere una persona alla quale piacesse l’epiteto qualunque.

“Ma allora non sei gay!” esclamò indicandolo. A quel punto entrambi i ragazzi furono costretti, loro malgrado, a dare attenzione alla nuova venuta.

Joyce alzò le sopracciglia “E’ una cosa che hai detto tu, mica io” commentò senza togliere le mani dai fianchi della ragazza castana che stava baciando fino a un secondo prima.

“Sai che cercavo proprio te, volevo parlarti” disse poi la ragazza piantando gli occhi color nocciola, in quelli scuri di lui.

La ragazza avvinghiata a Joyce si indicò col pollice. “No, cara, cercavo Joyce” spiegò Nikka con fare fintamente mieloso. Joyce schioccò la lingua scocciato con aria di attesa.

“In privato” puntualizzò, poi si voltò verso la ragazza castana “niente di personale, te lo rubo solo un minuto” continuò sorridente. La ragazza annuì poco convinta ed entrambi la guardarono uscire in silenzio. Appena la porta si chiuse Joyce si sedette sul termosifone facendo forza sulle braccia.

“Te le scegli sempre tonte? Così le puoi lasciare in fretta?” domandò.

Joyce alzò le spalle “Mi annoio velocemente… e comunque non mi sembrava tonta” commentò lui.

“Sicuramente dopo quel discorso così approfondito lo saprai meglio di me” lo canzonò Nikka. Joyce non parve turbato e piegò la testa da una parte arrivando subito al dunque “Di che volevi parlarmi?”

Nikka rimase zitta un secondo masticandosi l’interno delle guance. Sembrava indecisa. Joyce attese in religioso silenzio. Sapeva che se avesse parlato per farle fretta il suo discorso sarebbe stato distorto, e Nikka non avrebbe detto quello che realmente avrebbe voluto dire. Quindi aspettò.

“Mi sento un’idiota a chiederlo a te” sbottò infine guardandolo come se fosse colpa sua. Di Joyce.

“Allora non chiedermelo” rispose lui alzando le spalle. “Grazie” ribatté lei scocciata accennando ad andarsene.

“Aspetta” disse afferrandola per il maglioncino “stavo scherzando”. Nikka si voltò nuovamente a guardarlo con aria imbronciata e le braccia incrociate sul seno.

“E’ che non so a chi altro chiederlo… se no non lo chiederei certo a te” ricominciò.

“Sono lusingato” ribatté lui.

“Mei parla mai di me?” chiese infine con lo sguardo lucido e supplichevole. Si stava vergognando come una ladra, e Joyce sembrava sul punto di mettersi a ridere così tanto da cadere dal termosifone.

“Boh…” Joyce alzò le spalle “Ogni tanto… ma non so Mei, non è un chiacchierone” continuò con aria un po’ maliziosa, sapeva che Nikka si sarebbe indispettita.

“Sai credo di star diventando pazza…” sospirò appoggiandosi ad un lavandino.

Joyce alzò le sopracciglia in cerca di spiegazioni. “Insomma, è stupido che passi il mio tempo a pensare a uno come Mei… dato che potrei avere chiunque…” disse a testa bassa. Joyce stava per complimentarsi per la modestia, ma Nikka continuò a parlare imperterrita, come se avesse avuto un’idea geniale.

“Forse dovrei ricominciare a uscire con dei ragazzi…ultimamente non esco con nessuno!” esclamò.

“E Cesar?” domandò Joyce.

“E che c’entra Cesar adesso scusa?” sbottò infastidita, come se Joyce avesse interrotto lo scorrere delle idee geniali parlando di Cesar.

“Oppure potrei baciare qualcuno… potrei baciare te, ad esempio”  disse come se la risposta fosse stata sotto il suo naso fino a quel momento. Joyce s’incupì, non aveva alcuna intenzione di farsi malamente coinvolgere in quella storia.

“Ma potresti anche non farlo!” ribatté lui. Nikka alzò le spalle “Ma tanto sei gay, cosa te ne frega?”chiese.

“Non avevi appena decretato di no?” ribadì Joyce.

Nikka sbuffò “Basta lamentarsi!” sbottò dimostrando che la decisione era stata presa.

“Questi cavolo di esperimenti li vai a fare a casa tu…”, ma Nikka fu più veloce di lui e gli piantò le labbra addosso.

Per un secondo si guardarono negli occhi, da vicino. Entrambi con le sopracciglia aggrottate, un po’ scocciati da quella situazione. Fu durante quel nano secondo, che la porta si aprì nuovamente rivelando una alquanto stupita Rachele, che li guardava a braccia incrociate, e con la testa piegata un poco da una parte.

“Oh, Rachele …” disse Joyce fioco, con gli occhi sgranati. Nikka si riappoggiò al lavandino pensierosa.

“Buon giorno” fece lei in tono strano. Fece un sorrisetto e uscì dicendo “Scusate, non volevo interrompere nulla”. Joyce non perse tempo a cacciare un’occhiataccia a Nikka, e si mise a rincorrere Rachele che a passo veloce si dirigeva verso il bar della scuola.

“Rachele?” sospirò senza fiato. Rachele lo guardò con un sorriso “Sì, Joyce?” fece lei.

“Senti, io…, lei…, noi… ehm…” balbettò incerto, gesticolando.

Rachele gli appoggiò una mano sul petto e sorrise “Scusami, devo andare dalle oche blu… ci si vede ok?” e con discreta e pacata eleganza si avviò verso il tavolo dove se ne stavano due ragazze dai capelli turchini e una castana. Joyce neanche le guardò, non notò nemmeno Sofia che lo salutava.

Deglutì senza fiato, rimanendo a guardare Rachele che gli dava la schiena.

 

 

Più tardi quel pomeriggio Nikka se ne stava davanti allo schermo luminoso del computer che Mei aveva aggiustato quando si erano visti la prima volta.

La schermata era aperta sulla chat, e lei continuava a fissare insistentemente l’immobile account di Mei. Sperando che decidesse di aprire quella finestrella arancione per parlare con lei. Ma Mei non faceva nulla, rimaneva lì immobile. Fece una smorfia. Si era truccata al meglio per stare lì a guardare il suo nome. Era stupido. Mei non la poteva vedere attraverso il pc, ma si era sistemata lo stesso. Non l’aveva fatto coscientemente.

Si fregò gli occhi con le mani, e poi si ritrovò a studiare i tasti. La parola Invio, su uno di questi era quasi scomparsa. Ma si riconosceva lo stesso, per la sua particolare forma a L rovesciata. Si era sempre chiesta perché avesse quella forma.

Sospirò e si decise a cliccare due volte sull’account di Mei. Poi trattenne il fiato.

 

Nikka scrive : Ciao

 

Deglutì e chiuse gli occhi “Ti prego, ti prego ti prego” disse tra sé intrecciando le dita.

Quando li riaprì una finestrella si era illuminata di arancione. Trattenne il respiro e guardò meglio.

 

Cesar scrive : Allora? Il tuo cervellone si è fatto sentire?

 

Nikka sbatté il pugno sul piano della scrivania “Cesar, che cavolo!” sbottò.

 

Nikka scrive : Che cavolo Cesar! Fatti i fatti tuoi! E vai a lavorare invece di rubare lo stipendio chattando con me! E poi cosa direbbe mia madre se sapessi che passi le tue giornate in chat?

 

Cesar scrive : Direi niente, dato che ci siamo conosciuti così…

 

Nikka si accigliò. Chattare con un trentenne dall’alto dei cinquant’anni di sua madre la faceva sembrare tanto una vecchia disperata. E lei nemmeno sapeva che sua madre sapesse accendere il computer. Figurati destreggiarsi in una chat.

 

Cesar scrive : Devo andare, mi hanno ordinato un cappuccino. Vai fuori a compare il latte che è finito!

 

Nikka tamburellò le dita sul tavolo e sbuffando si alzò per andarsi a preparare una camomilla, dato che con l’attuale umore ne aveva decisamente bisogno.

Quando tornò rimase sulla soglia con la tazza in mano a guardare circospetta lo schermo. C’era una finestrella arancione. Rimase a fissarla da lontano. Non voleva scoprire di nuovo Cesar dietro allo schermo. Si mordicchiò l’interno delle guance per un po’ , poi finalmente si decise a cliccare sulla finestrella dimenticando in un angolo la camomilla.

 

Mini_Mei scrive : Ciao Nikka

 

Nikka sorrise tra sé. Almeno aveva risposto.

 

Cesar scrive : Mi raccomando il latte!

 

Nikka scrive : Basta Cesar!

 

Mini_Mei scrive : Sono Mei, non Cesar…

 

Nikka scrive : Oh, scusa, devo aver sbagliato finestra!

 

Nikka chiuse la conversazione con Cesar in un impeto di rabbia. Stupido cubano! Ci mancava solo che Mei se la prendesse perché l’aveva chiamato Cesar. Si tirò una sberla in fronte per la stizza.

Mei dall’altra parte del video si morsicò il labbro.

E così Joyce aveva capito bene… c’era un certo Cesar… probabilmente il suo nuovo ragazzo. Sicuramente quello che aveva visto farla salire in auto. Sospirò abbacchiato, lui neanche ce l’aveva la patente. E poi con gli struzzi!

Come si poteva essere così idioti da mettersi a parlare di struzzi?

Si domandò cosa volesse a quel punto Nikka… forse aiuto per i compiti di matematica? Come la prima volta con Pallotti.

Si era illuso per qualche nano secondo che a Nikka potesse interessare qualche cosa di lui. Ma sicuramente non era così, lo chiamava anche col nome sbagliato…

 

Nikka scrive : Come stai?

 

Mini_Mei scrive : Bene, grazie… e tu?

 

Non sapeva che altro scrivere, a parte un bene e tu?... aveva paura di straparlare ancora di struzzi e hotel, e la sua reputazione non poteva sopportare ancora oltre una cosa del genere.

 

Nikka scrive : Non c’è male grazie…

 

Nikka rimase a fissare lo schermo senza sapere cosa scrivere. Cosa poteva dirgli? Lei che di solito sapeva sempre come intrattenere le persone, si trovava senza parole. Le veniva solo in mente che quella mattina per amore della scienza aveva dato un bacio a Joyce, ma non era la discussione migliore da intraprendere in quel momento. Anche perché l’esperimento aveva fallito miseramente.

Forse era colpa di Joyce, che vestiva decisamente ambiguo e… no, non era colpa di Joyce…

Sospirò.

 

 Cesar scrive : Allora sei ancora lì? Vai a prendere il latte, se no cosa                    beviamo domani mattina per colazione?

 

Nikka sbuffò.

 

Mini_Mei scrive : Allora tu e Cesar avete attaccato il quadro ieri sera?

 

Nikka scrive : Oh, sì, Cesar ci ha rimesso un dito ma ce l’abbiamo fatta. Anche se ha dovuto intervenire mia madre.

 

Mei fece un sospiro. Questo Cesar lo conosceva anche sua madre. Fantastico! Allora era proprio ufficiale. Neanche Alberto era stato presentato. Si domandò per un secondo se Marianna lo approvasse.

Si sicuramente lo approvava. L’aveva visto. Sembrava educato, pulito… ed era decisamente di bell’aspetto, aveva dovuto ammettere. Appoggiò la fronte sulla tastiera.

 

Mini_Mei scrive : tyyyyyyyyf

 

Nikka scrive: eh?

 

Mini_Mei scrive : Niente… ho appoggiato la testa sulla tastiera.

 

Mei si mise le mani nei capelli e arrossì nella solitudine della sua stanza. Come se non sembrasse abbastanza strambo senza fare queste cavolate.

Nikka del canto suo aggrottò le sopracciglia chiedendosi quando sarebbero finite la stranezze di quel ragazzo.

 

Nikka scrive : Senti Mei… ti sembrerò un po’ scontata

 

Mei lesse aspettando che finisse la frase, sul fondo della finestrella troneggiava la scritta Nikka sta scrivendo un messaggio.

 

Nikka scrive : Mi chiedevo se volessi venire a una festa domani sera… ci andiamo io Vanessa e Millie... se vuoi puoi portare qualcuno… non so… Joyce

 

Nikka prese coraggio e aggiunse

 

Nikka scrive : se vuoi anche tua sorella, se ti fa piacere…

 

Se per avere Mei si sarebbe dovuta sorbire l’indisponente Rachele l’avrebbe fatto.

In quel momento le orecchie di Mei furono rapite dalla voce di sua madre che veniva dalla cucina “Mei, tesoro? Hai visto tua sorella? Non è ancora tornata da scuola… sai se è successo qualche cosa?”

“No, non so niente… sarà con Joyce! Come al solito!” urlò di rimando, tornando subito a dare attenzione allo schermo.

 

Mini_Mei scrive : Va bene… non credo che ci sarà bisogno di chiamare mia sorella comunque… posso portare il mio portatile?

 

Nikka scrive : Come preferisci

 

Mini_Mei scrive : Allora a domani sera… ma dove devo andare?

 

Nikka scrive: Al giardino di Venere… è una festa chic…

 

Mini_Mei scrive : Va bene… ci vediamo

 

Nikka chiuse la conversazione con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. Quando riabbassò lo sguardo sullo schermo c’era di nuovo una finestrella arancione.

 

Cesar scrive : Sul serio! C’è bisogno del latte Nicoletta! Come faccio io domani se no?

 

Nikka scrive : MA LAVORI IN UN BAR! La colazione non dovrebbe essere un problema! Comunque adesso esco.

 

Fu così che Nikka uscì, si comprò un vestito nuovo , scordandosi di acquistare il latte per il povero Cesar.

 

Più o meno mentre Mei e Nikka scambiavano chiacchiere imbarazzate tramite il web, Rachele se ne stava seduta per terra appoggiata agli armadietti della palestra, con gli occhi fissi nel vuoto. Non si accorse neanche di un ragazzo coi capelli per aria che le si avvicinava, strisciando di schiena contro gli scaffali.

Lo notò solo quando il ginocchio si appoggiò alla sua spalla. Fu allora che lei alzò la testa a guardarlo in faccia.

Era il ragazzo che il giorno del suo compleanno stava chiacchierando con Joyce, e per l’occasione indossava ancora l’indecente cravatta leopardata che aveva quella volta. L’afferrò, allungando il braccio e costringendolo a sedersi accanto a lei.

Lui sbatté il deretano sul pavimento perplesso, poi si voltò a guardarla sorridente.

Lei lo teneva ancora stretto per la cravatta e lo guardava fisso negli occhi, con un’espressione che avrebbe intimorito chiunque.

“Dici che Joyce mi voglia bene?” chiese poi. Il ragazzo leopardato fece un sorrisetto e allungò la mano per accarezzarle il viso.

“Joyce non lo so, ma io te ne vorrei se…” non fece in tempo a finire la frase perché lei lo stava guardando come si guarda un indemoniato, e aveva lasciato andare la cravatta.

“Evapora” decretò, il ragazzo incravattato non se lo fece ripetere due volte e fuggì a gambe levate.

Rachele sospirò e appoggiò rumorosamente la testa all’armadietto di metallo.

“Uffa”

 

La mattina dopo Joyce si svegliò infreddolito, per poi scoprire che era in mutande sopra al materasso. Niente pigiama, niente lenzuola, niente trapunta, in gennaio. Si  mise a sedere  e appoggiò i piedi per terra, perplesso.

Era sicuro che al momento di andare a letto ci fosse tutto. Aggrottò le sopracciglia e decretò che prima di riflettere ancora era meglio andare in bagno a lavarsi la faccia. Dopo essersi risciacquati si ragiona sempre molto meglio.

Andò in bagno, e si lavò la faccia, per una volta non c’era ressa, solitamente c’era da fare a botte, tra lui, Emily, Jane e loro padre.

Mentre si asciugava sentì dei rumori provenire dalla serratura, si allungò a cercare di aprire la porta, che rimase irrimediabilmente chiusa. La sforzò un po’, strattonando il pomello in qua e in là.

Andò avanti per un po’ a litigarci, per poi arrendersi all’evidenza, era irrimediabilmente chiusa.

 Sbuffò e occhieggiò di malavoglia la finestra. Non era la prima volta che passava sui cornicioni o si arrampicava su per le grondaie, ma di solito non era in mutande in pieno gennaio.

Ma a quanto pareva nessuno al di fuori della toilette gli stava dando udienza, per cui rimaneva l’unica scelta possibile quella di uscire dalla finestra. Salì sul davanzale e passò sul cornicione, faceva un freddo bestiale, e in qua e in là c’era ancora un po’ di neve.

Arrivato davanti alla finestra della cucina, qualche metro più in là, bussò e una Jane perplessa venne ad aprirgli.

“Che ci fai sul cornicione?” domandò con una padella in mano.

“Sono rimasto chiuso in bagno, e mi sono sparite le lenzuola… sta mattina c’è qualche cosa di strano…” disse guardingo entrando in casa.

Jane alzò le spalle “E’ passata Rachele prima, l’hai vista? Ti stava stirando una maglietta…” Joyce la guardò perplessa, per poi passare lo sguardo al piano da stiro, dove c’era una sua maglietta arancione, una delle sue preferite tra l’altro, con il ferro appoggiato sopra.

Rimase a fissarlo per qualche secondo con un terribile presentimento. Lo alzò rivelando un buco a forma di ferro. Sbatté le palpebre e lo spense mettendolo al suo posto.

Andò in dispensa, per poi scoprire che i suoi biscotti preferiti erano spariti. Guardò Jane sapendo già la risposta alla domanda che le stava per porle “Li hai mangiati tu?”

Lei scosse la testa “No, Rachele ha detto che aveva fame…”

Poi aggiunse “Hai visto il mio pellicciotto arancione?”

Jane scosse la testa. E lui si catapultò fuori correndo all’impazzata verso la scuola. E infatti, come aveva supposto quando non aveva trovato il pellicciotto, la trovò nel giardino della scuola, a chinino con il suddetto pellicciotto in mano, intenta a cercare di far funzionare un accendino mezzo scarico.

“Rachele!” strillò rischiando di non riuscire a frenare in tempo e finirle addosso.

Lei alzò la testa contrariata.

“Vuoi dare fuoco al mio pellicciotto?” sbraitò. Rachele glielo lanciò addosso con disprezzo. “No, l’accendino non funziona…”

Joyce in maglietta e jeans lo afferrò con lo sguardo lucido.

“Rachele” piagnucolò.

“Lasciami stare!” sbottò lei andandosene. Joyce la rincorse prendendola per il polso.

“Rachele per piacere…” cercò di dire.

“Mollami o ti mordo, e sai che lo faccio!” proruppe perentoria. Joyce la lasciò andare.

Si ritrovò a pestare i piedi “Cavolo!” sbraitò senza sapere cosa fare.

Era tutta colpa di Nikka. Tutta colpa di quella stupida esaltata che si divertiva a giocare con Mei e D’annunzio, e probabilmente non gliene fregava nulla di rovinare la vita anche a lui!

 

 

Quel pomeriggio Joyce era a casa Pavesi. In realtà non sapeva che fare con Rachele, ma era tanta l’abitudine a stare in quell’appartamento, che gli sarebbe sembrato strano non andarci. Così si era ritrovato in camera, con Mei, che trafficava con il PC.

Joyce sospirò. “E così Nikka ti ha baciato…”disse il ragazzo, che sembrava non dargli udienza, ma in realtà era attentissimo.

“Sì, ma senti, non è colpa mia, io non la volevo baciare e…” continuò imbarazzato. Mei alzò le spalle.

“Immagino, credo che Nikka si diverta a dispensare baci. Non ce l’ho con te…”.

Joyce si morse il labbro, forse Mei non era la persona più giusta per parlare di quella faccenda, ma ormai che era lì …

“Il problema a questo punto, mi pare di capire che sia mia sorella…” continuò cliccando qualche cosa sullo schermo, mentre le sue dita passavano veloci sulla tastiera.

“Già” ammise Joyce abbattuto appoggiando la testa allo stipite della porta.

“E se permetti, io non ho ancora capito che razza di rapporto avete tu e Rachele, che cavolo! Come se non sapesse che hai avuto anche delle altre ragazze!” disse.

Joyce alzò le spalle. “Tua sorella non è così sicura come sembra… e Nikka la manda in crisi. La odia credo… non saprei dirti perché…comunque non gli interessa cosa faccio con le altre ragazze. Il problema è che se avessi una storia con Nikka passerei dall’altra parte…”

A quel punto Mei si voltò a guardarlo “Permettimi di chiederti una cosa: cosa cavolo siete tu e Rachele?” disse accigliato.

“Amici?” azzardò Joyce con poca convinzione.

“Gli amici NON si sbaciucchiano!” decretò Mei senza dare alito a eventuali repliche. Joyce alzò le spalle.

 

Nikka rimase un poco a guardare il display del cellulare. Poi prese coraggio, digitò il numero e avvicinò il cellulare all’orecchio.

Dopo due squilli mise giù senza aspettare che qualcuno rispondesse. E nascose il cellulare in tasca. Respirò profondamente con le labbra serrate e lo sguardo fisso sulla porta chiusa della sua camera.

Si appoggiò stancamente al muro dietro di lei. E sbuffò.

Insomma, probabilmente aveva detto un sacco di cose più imbarazzanti, nella sua vita, quale doveva essere il problema di dire a Mei, che, le piaciucchiava?

Sì, doveva vederlo quella sera, ma aveva pensato che dirlo al telefono sarebbe stato meno imbarazzante, poteva anche aspettare che lui capisse, ma temeva che di quel passo, aspettando che Mei intuisse e che addirittura prendesse l’iniziativa si sarebbero arrivati tranquillamente alla prossima era glaciale.

Fece l’ennesimo sospiro ed estrasse il cellulare dalla tasca dove l’aveva riposto, digitò il numero e lo appoggiò all’orecchio.

Uno, due, tre squilli a vuoto, Nikka dovette fare violenza su sé stessa per non riattaccare, quando dall’altra parte venne un Pronto un po’ distorto dalla linea.

“Pronto? Ciao Mei… no, non dire niente, sono Nikka…senti, volevo dirti che mi dispiace tanto per tutto quello che è successo. Per Pallotti, per il bagno nei ghiaccioli, e tutto il resto. Mi spiace averti spinto a provarci con una e poi essermi arrabbiata quando ti ho visto con Alsazia, che razza di nome poi, ti prego non dire che è geografico, perché è solo ridicolo! E mi dispiace per essere così fissata con i vestiti, e aver cercato di trasformarti nella mia opera d’arte, dato che di certo mio non puoi essere, tu sei tu, e i vestiti li fa tua madre… e l’altro giorno, quando sei venuto a parlarmi di struzzi e hotel nello spazio forse avrei dovuto ascoltarti, probabilmente preferivo ascoltarti piuttosto che attaccare il quadro con Cesar… sicuramente preferivo ascoltarti… e lo so che sono strana, ma tutto questo casino credo di averlo fatto perché mi piaci…” poi ripeté in un sussurro come per essere sicura di averlo detto “mi piaci Mei…”

Deglutì senza fiato, un po’ per quello che aveva detto, un po’ perché non aveva respirato neanche un attimo. Per un secondo pensò che Mei avesse riattaccato, ma poi parlò, a bassa voce.

“Ehm, Nikka… sono Joyce, Mei è andato in bagno…” disse guardingo.

Nikka rimase per qualche secondo con la bocca spalancata e il desiderio di urlare che andava su e giù per la gola.

“JOYCE!” riuscì infine.

“Devo dire a Mei che hai detto che gli piaci?” domandò lui un po’ spaesato.

“N-no! diamine Joyce! Non ti azzardare a dirgli nulla!” urlò in preda alla collera e interrompendo la conversazione buttò il cellulare per terra, e poi si fece cadere sul letto.

Fatta sfortuna. Si era dichiarata a Joyce…

In quel momento in un’altra casa Mei uscì dal bagno.

“Chi ha chiamato?” chiese tranquillo chiudendo la porta e occhieggiando Joyce che col suo telefono in mano aveva l’aria di uno che è appena uscito dalla lavatrice.

Per un secondo Joyce pensò a dirgli di Nikka, ma alla fine giunse alla conclusione che meno si metteva in mezzo, meglio era… già c’erano dei problemi con Rachele , non voleva averne anche con Mei e Nikka.

“Un tizio che vendeva aspirapolvere” mentì alla fine. Mei annuì un po’ perplesso, ma non fece domande ulteriori sulla faccenda, invece continuò su un altro binario “Allora con Rachele? Come hai intenzione di fare? Sta sera c’è una festa… probabilmente ci andrà…”

Joyce alzò le spalle.

“Sinceramente non ne ho idea…”

“Io ci andrò, secondo me dovresti venirci anche tu…” sussurrò con un sorriso.

 

Più tardi, quando Joyce era tornato a casa sua e Rachele era tornata all’ovile, Mei si preparava per uscire, andando in giro per casa allacciandosi la camicia bianca.

“Tesoro, mettiti questo!” trillò allegra lanciandogli un foulard.

Rachele guardava la scena seduta sul ciglio del divano intenta a fumare con aria scocciata e vagamente depressa.

“Ma tu guarda, io sto in casa e il mio fratellino nerd va a una festa chic…”biascicò triste. La signora Pavesi che stava preparando la torta di riso non le badò , e Mei era già sulla porta che si infilava la giacca, con la custodia del PC trattenuta tra le ginocchia, il cellulare in bocca, mentre raddrizzava il coletto.

“Ci vai col portatile alla festa?” chiese con voce strascicata prendendo una boccata di fumo.

Mei annuì e si mise il cellulare in tasca uscendo.

Rachele sospirò tenendo la sigaretta ferma tra le dita, e guardando sua madre che col grembiule addosso canticchiava serena una canzone idiota su una lavandaia.

Sbuffò, e prese il telefonino, non poteva stare a casa il sabato sera.

Il telefono suonò a vuoto per qualche secondo, poi dall’altra parte risposero.

“Ciao Pallotti… sono Rachele, no, non mettere giù…” si accigliò “no, non voglio farti attaccare al cancello da Joyce sta volta…no… ho solo bisogno di qualcuno con cui andare alla festa che c’è a Il Giardino di venere… no, non ti bacio, scordatelo, al massimo posso decidere di darti la mano” poi precisò “se mi ubriaco…”

 

 

Il sole stava tramontando quando Mei e Joyce arrivarono al giardino di Venere, Joyce non era neanche messo la giacca, era ovvio che non gli interessasse entrare. Se ne stava fermo a guardare la fila di chi aspettava che fosse il suo turno per accedere alla festa, con le mani in tasca, e gli occhi alla ricerca di Rachele. Mei sorrideva amabile con le dita strette alla tracolla del porta PC.

“E’ lì… con Pallotti” disse in un sussurro Joyce mordendosi il labbro inferiore. Mei annuì “Già…allora cosa aspetti ad andarci?”

Lui alzò le spalle incerto “Non so…tu cosa stai aspettando?”

“Che ti decidi a fare qualche cosa, così posso cercare Nikka…” spiegò Mei tranquillo.

“Quindi ti sto rovinando la serata?” concluse.

“Non ancora, è presto…” poi gli diede una spintarella “Sbrigati, tra poco cominceranno a  entrare e ti assicuro che con quella pelliccia addosso non ci penseranno due volte a lasciarti fuori”  disse allegro.

“Mi sembri Nikka, lo sai?” Mei rise, mentre Joyce si avviava verso la ragazza blu.

Pallotti gli dava le spalle, e Rachele lo stava guardando con l’espressione più annoiata del suo repertorio, espressione che cambiò un poco quando vide Joyce avvicinarsi a loro. Pallotti non capì subito il cambiamento di Rachele, finché non si decise a girarsi scorgendo l’irlandese.

Joyce gli lanciò un’occhiataccia e minacciò “Se non sparisci immediatamente ti crocifiggo al cancello!”. Il ragazzo biondo se la diede a gambe.

Joyce in un altro momento si sarebbe complimentato per il terrore che riusciva a incutere in una mente semplice come quella di Pallotti, ma in quel momento era più il terrore che Rachele incuteva in lui.

“Rachele” azzardò.

“Che cavolo vuoi?” sbottò arrabbiata. Joyce sentì la rabbia schiantarglisi in faccia. Chiuse gli occhi per un secondo, e quando li riaprì lei era ancora lì che mostrava i denti guardandolo dal basso.

“Che cosa devo fare..?” chiese.

Rachele aveva l’aria di uno che stava per esplodere “Che cosa devi fare? Che cosa devi fare?” ripeté con la voce che saliva al cielo sempre più acuta.

Lui non ebbe realmente il tempo di registrare cosa stava facendo, perché non si accorse di star avvicinando vertiginosamente Rachele a sé e di stampargli un bacio sulle labbra.

Si accorse invece subito del dolore che gli procurò il cozzare del suo zigomo con il palmo della mano di lei.

“IDIOTA!” sputò lei , per poi girare i tacchi e correre via. Joyce si lanciò immediatamente al suo inseguimento.

Fu allora che Mei decise di aver guardato abbastanza e che forse era già in ritardo per la festa.

Quando entrò si stupì. Era abituato al Luxury e a tutti gli inutili fronzoli pacchiani che riservava alle sue feste.

Il posto dove Nikka l’aveva portato quella sera era davvero chic. Era tutto di un rosa chiaro, con tanti tavolini tondi, posate brillanti, lampadari che traboccavano gocce di cristallo. Sbatté le palpebre compiacendosi che non ci fosse ressa, e che nessuno stesse ballando in modo sguaiato. Intercettò in fretta Nikka, con le sue inseparabili amiche.

Fissò per un secondo il vestito di seta grigia che avvolgeva Nikka. E il contrasto coi lustrini di Millie e della loro amica equina. Si disse che probabilmente lei aveva avuto qualche cosa da dire. Gli venne quasi da ridere.

Nikka sorrise nel vederlo e non disse nulla. Ovviamente la pace ovattata non durò molto, perché le due pailettate gli piombarono addosso immediatamente abbracciandolo civettuole.

Nikka sorrise anche allora.

Mei si disse che era strano, le ragazze ballarono un poco lasciandolo al tavolo col suo rassicurante pc. Lo strascinarono il pista dopo un po’, e lui riuscì a scappare. E Nikka commentò il vestito della Gandolfi che così stellato, la faceva sembrare un cioccolatino.

Non era esattamente come stare con Joyce, o con Rachele o con sua madre, ma si disse che non era male, che non gliene fregava nulla del vestito della Gandolfi, che non era obbligato a baciare nessuno, che poteva rifiutare lo spumante se non voleva. Era una specie di calma chic. Gli veniva da sorridere. Forse aveva sbagliato a prendere Nikka. Forse avrebbero potuto essere amici. Si disse che si, così poteva andare, e probabilmente ora che si era messa con Cesar le cose sarebbero migliorate anche per lui.

 

Quando Mei tornò a casa sorrideva come un idiota. Sul momento non vi badai. Anche io sorridevo come un’idiota.

Anche se ero stravaccata sul divano, con Joyce che mi dormiva sulla pancia non mi ero nemmeno tolta le scarpe.

“Che hai da ridacchiare tu?” dissi a bassa voce per non svegliare Joyce. Mei mi lanciò un altro sorriso e se ne andò in camera sua.

Sospirai e appoggiai la testa al bracciolo del divano. “Buona notte Rachele” dissi tra me.

 

E così siamo arrivati al ventesimo e penultimo capitolo. Lo dico adesso così nel prossimo non ci sarà la sorpresina!

Come al solito il capitolo non mi convince granché, ma da un po’ a questa parte mi succede sempre, e non so come sistemarlo, quindi ho deciso di postarlo così…ç__ç

 

Ovviamente ringrazio moltissimo tutti quelli che leggono, in particolare TheDuck,(Grazie!!^.^) Lucy Light (quella è la candela che c’è di solito sulle mie torte di compleanno!!XD comunque Joyce va in giro conciato così per dare modo agli altri personaggi di insultarlo malamente!!)e DarkViolet92 (Ma più che gli auguri Rachele non sopporta la maggior parte dei rapporti umani soprattutto se sono “di massa”…XD )

 

Ancora grazie a tutti e Buon 2010!

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** Guerre Culinarie ***


I miei venti metri quadrati

Capitolo Ventunesimo

Guerre Culinarie

 

Quando mi svegliai quella mattina mi chiesi se la trapunta di Joyce rappresentasse la bandiera dell’Italia sbiadita, o quella dell’Irlanda. Poi pensai che in realtà me ne fregava ben poco, alzai le spalle e svegliai Joyce con uno scappellotto.

Joyce che dormiva accanto a me, con indosso un pigiama stupido, sobbalzò.

“Sia mai che tu riesca a svegliarmi in modo un po’ più carino… e poi che cavolo! E’ domenica! Perché dobbiamo svegliaci presto anche di domenica?”sbraitò sull’orlo di una crisi di nervi mattutina.

Alzai le spalle “Perché soffro di insonnia”.

Joyce mugugnò qualche cosa nascondendosi sotto la trapunta tricolore.

 

Nikka guardò i biscotti che la signora Pavesi aveva appoggiato sulla scrivania con circospezione. Mei sorrise, gli occhi languidi con cui la ragazza ammirava le leccornie di sua madre lo facevano divertire.

Probabilmente in quel momento nel suo cervello era in corso una battaglia. O forse sulle sue spalle erano apparsi un angioletto ed un diavoletto tentatore.

Probabilmente Nikka era a dieta più o meno da quando era venuta al mondo, ma sua madre in cucina ci sapeva davvero fare, tanto da far vacillare anche la più solerte esteta del quartiere.

Nikka distolse gli occhi dai dolci per non venirne tentata oltre. Era appollaiata sul ciglio del letto un po’ a disagio, neanche si era tolta la giacca.

“Tutto a posto?” domandò ridanciano. Nikka strizzò gli occhi e annuì.

Mei appoggiò la testa al muro pensando che a pensare a Nikka come amica si stava bene.

“Allora come va con Cesar?” chiese con un sorriso come per dimostrare a sé stesso che gli era del tutto passata la cotta per Nikka, e che era arrivato alla saggia conclusione che l’amicizia tra loro due potesse essere l’unica scelta sensata.

“Oh, non c’è male…all’inizio l’avevo giudicato male. Invece mi trovo molto bene, è simpatico, intelligente e ha un accento un po’ buffo” spiegò annuendo tranquilla.

“E poi è anche di bell’aspetto” aggiunse. Mei sentì lo stomaco contrarsi e aggrottò le sopracciglia costringendosi a pensare che sicuramente Nikka e Cesar insieme stavano benissimo, e lui poteva essere un perfetto migliore amico.

Infatti direi che mi ci sto affezionando, non mi era mai capitato prima” disse con lo sguardo un po’ perso.

Non che da dopo il divorzio sua madre avesse avuto tanti uomini intorno, in realtà oltre a Cesar c’era stato solo Ezio, una talpa cretina e balbuziente. Alzò gli occhi dicendo tra sé e sé che era una fortuna che fosse arrivato uno come Cesar, un altro Ezio non l’avrebbe sopportato. 

“Quanti anni ha?” chiese poi ostentando la più totale indifferenza.

Nikka non notò nulla nella sua espressione, forse perché considerava l’argomento completamente neutro.

“Trentadue” rispose lei svelta con un sorriso. “Una bella differenza…tredici anni” commentò a denti stretti.

Nikka annuì allegra, non pensava che Mei si ricordasse esattamente l’età di sua madre.

Poi a Mei parve che lei cambiasse discorso e si distese “Tua madre non ha mai pensato di … non so… trovarsi un altro uomo…rifarsi una vita?” chiese curiosa.

Mei alzò le spalle e guardò il lampadario, con il collo piegato in una posa un po’ innaturale.

“Lei ama ancora mio padre… a volte vede Giovanni Cumoli…ma sono amici, anche il padre di Joyce ama ancora la sua ex moglie”spiegò con semplicità.

Nikka si avvicinò un po’ a lui con fare strano e con aria un po’ maliziosa appoggiò il mento alla sua spalla. Mei deglutì, dicendosi che era stupido agitarsi. Intanto però gli stava venendo la tachicardia.

“Lo sai che c’è una certa percentuale dei ragazzi che hanno perso il padre in tenera età che diventano gay?” disse. Si allontanò di nuovo, e il cuore di Mei riprese il suo andamento regolare, ridacchiò.

“Quando è morto mio padre avevo già superato la fase anale…” fu la risposta divertita. Nikka fece una faccia strana.

Mei rise “Non sai cos’è?” chiese, e la risposta la sapeva già.

“No, e non lo voglio neanche sapere!” esclamò drastica facendolo ridere ancora.

“E da dove ti saltano fuori certe cose scusa?” sbottò appoggiandosi al muro.

“Nozioni sparse di psicologia… ho letto qualche libro…” disse con fare dolce. Nikka pensò che avrebbe voluto dargli un bacio. Era carino quando era saccente, era carino quando era impacciato… insomma era sempre carino… sospirò.

Mei guardò l’ora “Devo andare a dire alla spagnola che Rachele ha la febbre e non può andare a sturarle il water” disse senza sentirsi più di tanto idiota.

“Ha preso l’influenza?” chiese Nikka alzandosi dal letto.

“No, se l’è svignata con Joyce… come al solito”rispose Mei, Nikka alzò gli occhi al cielo e aprì la porta “Dopo anni, quei due non gli ho ancora capiti…

“Fa te, io ho scoperto che andava a letto insieme due settimane fa…” commentò prendendo il giubbotto.

“Ed è tua sorella” aggiunse infine lei attraversando il corridoio con un andatura un poco dondolante sui tacchi alti.

Mei si sistemò il colletto della giacca abbassando i capo, e finendo a guardare i tacchi di legno di Nikka che battevano sul pavimento di palladiana.

Li vide fermarsi sulla soglia della cucina e anche lui si arrestò, appena in tempo per non andarle addosso.

“Mamma, Cesar…” disse soltanto con voce tranquilla avviandosi verso il tavolo.

Mei alzò lo sguardo su sua madre che se ne stava in piedi affianco al fornello con una teiera in mano, seduti al tavolo, entrambi col busto ritorto a guardarli se ne stavano Marianna coi suoi ricci biondi tinti e il suo naso a punta, e un uomo sulla trentina dalla carnagione scura.

Il cervello di Mei ci mise poco ad analizzare quella figura a lui quasi sconosciuta.

Capelli scuri e mossi, pelle altrettanto scusa, occhi neanche a parlarne, scuri.

Bello. Si disse. Davvero bello, cavolo.

Portava una camicia a righine azzurre e delle scarpe in vernice nera, tra le mani una tazza di tea fumante.

“Tu sei Cesar?” chiese con un’aria un po’ strafottente che decisamente non gli apparteneva.

Cesar annuì voltandosi meglio nella sua direzione. Sorrise e allungò la mano per dire piacere, ma Mei la ignorò.

“Beh, non credi che tredici anni di differenza siano troppi per una coppia?” sbottò.

Cesar arrossì vagamente imbarazzato, deglutì e si passò la mano nervosamente tra i capelli ricci.

Nikka lo guardò perplessa, e la signora Marianna si accigliò, le stava dando della vecchia? Lei che si truccava sempre bene per essere al livello del suo nuovo fidanzato?

“Beh, sì… in effetti tredici anni non sono pochi… ma pensa che c’è gente che anche con vent’anni di differenza si sposa… e sono felici comunque, siamo entrambi grandi e vaccinati e…” cominciò a blaterare imbarazzato.

“Nikka non ha neanche vent’anni! Anche se è maggiorenne non mi sembra poi così grande!” continuò accigliato.

“Beh…” fece Cesar sempre più imbarazzato da quella situazione.

Dopo che sua madre l’aveva insultato dicendo che stava con una come Marianna solo perché mirava alla pensione pensava di aver visto tutto. E invece il quasi fidanzatino della sua quasi figliastra gli stava facendo la predica per non si sapeva quale motivo!!

“Conosco gente risposata che ha figli ben più piccoli di Nikka, credo che alla sua età sia abbastanza grande per capire…” ancora una volta Mei lo interruppe.

“Che cavolo centrano i figli… credo che tu sia troppo grande per stare con Nikka, e basta…” disse infine con un’occhiataccia sprezzante.

Marianna, Cesar e la signora Pavesi con la teiera ancora in mano lo guardarono perplessi, più o meno nello stesso istante in cui una gomitata di Nikka gli atterrava tra le costole.

Mei si inarcò un poco verso sinistra e fece una smorfia di dolore.

“Cesar sta con mia madre non con me!” disse tra i denti in un sussurro udibilissimo.

Mei si raddrizzò con uno scatto e si guardò in giro imbarazzato per poi adocchiare nervosamente l’orologio senza guardarlo e dire in una recita palese “Oh, cavolo… come è tardi!”. Pausa teatrale “Devo andare dalla spagnola. Ci si vede” salutò scattando fuori dalla porta con un fruscio.

I rimanenti quattro si guardarono vicendevolmente negli occhi, perplessi, finché Nikka non sfoderò uno dei suoi sorrisi plastici e disse calorosa “Arabella! Si dice che i tuoi biscotti siano i più buoni del quartiere! Non è che li potrei assaggiare?”

Per una situazione del genere poteva anche fare uno strappo alla perenne dieta.

Arabella ci mise un attimo a realizzare cosa le era stato chiesto “Oh, sì, sì Nicoletta, arrivano subito!”

La signora Pavesi appoggiò sul tavolo della cucina un vassoio stracolmo di biscotti e tutti ci si buttarono a capofitto.

“Mangiamo, che è meglio” disse qualcuno, e tutti si trovarono d’accordo.

 

 

 

“Cosa hai detto che non deve mai andare in contatto con l’acqua?” chiese distrattamente Rachele il giorno dopo mentre passavano per il corridoio della scuola.

“Eh?” fece Mei preso alla sprovvista.

Rachele sbuffò “Ti ricordi quando ti si mozzato il dito? Mi hai raccontato che lo mai messo nel ghiaccio eccetera eccetera, e poi ti sei messo a parlare di chimica  e hai detto che c’è un qualche cosa che non va mai messo nell’acqua” spiegò.

“Il sodio… il sodio non va messo nell’acqua… perché?” chiese Mei perplesso. Rachele alzò le spalle. Probabilmente suo fratello avrebbe insistito se non avesse visto una coda di cavallo rossiccia all’inizio del corridoio e non avesse sentito per questo il bisogno di nascondersi nella stanza delle fotocopiatrici.

Si dileguò così con un “Non fare cose di cui potresti pentirti!” e sparì inghiottito da una porta.

Rachele si diresse al laboratorio di chimica. C’era stata qualche volta i primi due anni di superiori, ma non si ricordava praticamente nulla, a parte il fatto che il professore di laboratorio non era un brutto uomo, e che si scordava sempre in modo poco professionale di chiudere a chiave l’armadietto che conteneva tutte le sostanze.

Rachele rimase a guardare per un secondo l’armadietto dalle ante in vetro, prima di individuare la boccetta che portava la scritta a biro sodio.

La prese con uno scatto e se la infilò nella borsa a tracolla, uscendo non vista con incredibile nonchalance.

Estrasse il cellulare e digitò un numero che conosceva a memoria, quello che componeva più spesso “Joyce?”

Mhm?” muggirono dall’altra parte, probabilmente stava mangiando.

“Ci vediamo tra un quarto d’ora al laghetto” comandò perentoria.

“Ma stavo mangiando!” biascicò contrariato. “E chi se ne frega Joyce!” sbottò lei interrompendo la chiamata.

Si diresse a passo di marcia verso il laghetto del giardino. Che in realtà era una pozzanghera immensa che dopo ogni acquazzone si formava e stava lì per giorni.

Passò di gran carriera davanti al bagno delle ragazze, e qualche passo dopo si inchiodò e tornò indietro, appoggiandosi pensierosa allo stipite della porta.

Si chiese se per caso fosse davvero così pericoloso quel sodio che aveva preso. Se l’avesse lanciato nella pozzanghera dove stava Joyce sarebbe stato così letale?

Si morse il labbro. Aveva letto in un racconto di uno scherzo simile… ma più che altro vi erano effetti pirotecnici, e non c’entrava il sodio… era.. non si ricordava.

Strinse il contenitore tra le mani ed entrò nel gabinetto.

Prese un pezzo di carta igienica e svitò il tappo del contenitore in vetro. Iniziò a battere il dito sul vetro inclinando la boccetta per farne scendere un po’.

Guardò un po’ i granelli bianchi sulla carta igienica e richiuse la boccetta che rimise nella borsa. Uscì dal gabinetto lasciando la porta aperta in modo da poter vedere bene la tazza del water e si andò a mettere dietro al muro che separava i gabinetti dalla stanza dei lavandini.

Si morse il labbro e con un lancio deciso buttò la carta igienica che conteneva il sodio nella tazza e si nascose dietro al muro.

Ci fu un boato e Rachele rimase immobile atterrita appoggiata al muro freddo senza avere il coraggio di guardare cosa fosse successo. Le veniva quasi da piangere. Aveva quasi ammazzato Joyce.

Partì l’allarme antincendio e cominciò a piovere sul bagnato, l’acqua proveniente dalle tubature le era arrivata fino ai piedi.

Deglutì e si fece coraggio, si sporse a guardare oltre il muro, il bagno era sventrato e dove prima c’era un water a quel punto c’era un buco dal quale sgorgava acqua a fiotti e cocci bianchi in ogni dove.

Deglutì decidendo nel modo più lucido possibile di fuggire prima che qualcuno si rendesse conto che l’effetto molotov lo dovevano tutto alla sua smania nel fare il piccolo chimico.

Corse fuori sui pavimenti bagnati, verso il giardino, dove Joyce l’aspettava alla pozzanghera.

Le veniva da piangere e non era sicura che l’acqua che le bagnava la faccia fosse dovuta all’impianto antincendio o alle lacrime.

Joyce si vide arrivare incontro una Rachele blu e fradicia, in corsa frenetica.

“Rachele?” chiese lui perplesso vedendo che non accennava a rallentare. Non pensò nemmeno a scansarsi e quando Rachele gli arrivò addosso di prepotenza dandogli un bacio caddero entrambi nella pozzanghera.

Joyce si tirò un po’ su con il giubbotto e i pantaloni inzuppati, e una Rachele seduta addosso altrettanto zuppa, che non accennava ad aprire gli occhi e guardarlo o semplicemente a darsi una calmata e smetterla di baciarlo e toccargli la faccia.

Le appoggiò una mano sul petto e l’allontanò deciso ma senza strattoni.

“A cosa devo tutto questo casino?”chiese circospetto guardandola sottecchi.

“Ho rischiato di ammazzarti” disse lei col fiatone. Joyce annuì pensieroso.

“Poco male, non mi sono accorto di nulla…” commentò. Non ebbe tempo di dire altro perché Rachele gli riprese la faccia la tre mani e ricominciò a baciarlo.

Joyce decretò di non essere particolarmente interessato a impedirglielo.

Mei uscendo dalla scuola per via del violento acquazzone elettronico notò un po’ di movimento dentro la pozzanghera, ma non ebbe modo di indagare oltre perché vedendo uscire anche Nikka che imprecava perché le si stava sciogliendo il trucco, decise fosse meglio filarsela e si nascose in un cespuglio.

Si accucciò per terra tra le foglie e guardò tra i rami, prima di accorgersi di non essere solo.

“Emily!” esclamò “Stai cercando un marito ricco nascosta in un cespuglio?”chiese.

 “A cercare un marito ricco ci vado nel pomeriggio, al momento sto cercando pettegolezzi” spiegò lei sistemandosi la frangetta.

“E credi di trovarli stando qui?”

Mei alzò le sopracciglia e sbuffò rimettendosi a guardare oltre i rami, Emily riportò subito su di sé l’attenzione del ragazzo “Non permetto a uno finito qui per nascondersi da Nikka perché ha scambiato il suo patrigno per il suo fidanzato di non credere nelle mie doti investigative!”

“Come diamine lo sai?!” sbottò lui inarcando le sopracciglia scure e folte.

Emily alzò le spalle “Tu mi sottovaluti e allora… comunque dovresti ringraziarmi, non ho detto a Monica di questa cosa…”aggiunse senza guardarlo.

“Grazie” fece Mei sincero, voleva evitare che la cosa si sapesse in giro, era già abbastanza imbarazzante il fatto che fosse successo. E avere un’alleata come Emily non poteva che giovare.

“E… se vuoi che continui a non dirlo mi devi dare cinquanta euro” disse tranquilla allungando la mano aperta nella sua direzione.

“E’ un sordido ricatto!” sbraitò arrabbiato mettendo mano al portafoglio.

“No, è solo la dura legge del mercato” si scagionò Emily sibillina.

 

Il giorno dopo Mei era ancora intento a sfuggire a Nikka che invece gli telefonava e

andava a cercarlo in aula. Nel mentre la scuola sembrava invasa da una mandria di astronauti, che a un’attenta osservazione sarebbero risultati essere gli idraulici intenti a sistemare il bagno distrutto dalla bomba di sodio.

Comunque nonostante tutti gli sforzi di Mei arrivò il momento di andare a mensa e lì certo non avrebbe potuto evitarla. Rimase per qualche secondo indeciso sul da farsi.

Il piano era semplice: arraffare un po’ di pasta e una bistecca e poi fuggire non visto a gambe levate, in modo da restare il meno possibile in un luogo vasto come la mensa.

Avanzò qualche passo fino ad arrivare alla fila davanti al cuoco che distribuiva pugni di pasta prendendoli con le pinze.

Il cuoco muggì in direzione di Mei “Pomodoro o tonno?”

“Tonno, tonno” rispose lui sperando che si sbrigasse a mettergli la manciata di spaghetti al tonno nel piatto in modo da poter fuggire il prima possibile.

Passò avanti ed arraffò una bistecca, quando finalmente pensò di essere vicino alla salvezza e già stava per imboccare la porta e uscire si sentì afferrare per la camicia all’altezza del fianco. Si irrigidì girandosi lentamente.

Una ragazzina piccola e castana seguita da due coi capelli blu gli sorrise “Ciao Mei! Vieni a mangiare con noi?” domandò Sofia.

Mei rimase per qualche secondo a guardarla indeciso su cosa rispondere, poi sconnesso cominciò a indicare la porta dicendo “Guarda, io proprio dovrei andare e…

Ma Sofia lo strattonò un poco verso un tavolo ancora libero “Eddai Mei, non farti pregare, non vorrai mica andare da quella bisbetica di Nikka invece che stare con noi!” esclamò allegra trascinandoselo dietro.

Mei si sedette al tavolo di malavoglia.

“A dire il vero è proprio ciò che cercavo di evitare”disse lui.

“Oh, bene vedo che stai imparando!” esclamò lei allegra sedendosi davanti a lui.

“La mamma mi ha raccontato che hai fatto il tuo numero” sussurrò aspra Rachele sedendosi, non vista, accanto a lui.

Suo fratello si passò una mano sul viso “Ti prego non ricordarmelo!”disse disperatamente.

La ragazza blu alzò le spalle e prese una forchettata dei suoi spaghetti al pomodoro e olive.

Esattamente in quel momento Mei vide Nikka dall’altra parte della sala, e lo stesso fece lei. Si guardarono negli occhi per qualche secondo.

Nikka aprì la bocca come per dire qualche cosa. Mei fece una smorfia, sentendosi braccato.

Successe tutto troppo velocemente, forse solo Rachele alzando gli occhi riuscì a seguire i movimenti di tutti.

Nikka salì sulla sedia su cui stava seduta fino a un secondo prima.

Mei rubò un’oliva al piatto di sua sorella.

Nikka salì in piedi sul tavolo.

Mei lanciò l’oliva in faccia all’oca blu che gli stava accanto.

Nikka urlò al di sopra del frastuono generale “Mei!”

L’oca si voltò verso Mei accigliata e lui le indicò Millie dall’altra parte della sala “E’ stata lei!” disse a bassa voce.

L’oca accigliata si alzò in piedi e urlò “Maledetta baldracca!” il piatto dell’oca partì in direzione dell’ignara Millie che non si era accorta di nulla, ma deviò colpendo Isabella Gigli, che arrabbiata ricambiò cercando di lanciarle addosso la sua insalata, che però colpì in pieno volto Pallotti, che si vendicò spiaccicando in faccia al vicino la sua millefoglie. Non per un motivo. Solo per sfogare la rabbia.

Mei!” urlò di nuovo Nikka, mentre per la mensa volava cibo di tutti i generi.

Monica si beccò in faccia un piatto di spaghetti al tonno e distraendosi da Nikka iniziò anch’ella a partecipare alla rissa culinaria ignorando gli ultimi pettegolezzi.

Mei…smettila di evitarmi, perché pensavi che stessi con Cesar! Smettila di evitarmi perché sono stata una stronza e mi piacevi solo per i tuoi vestiti! Smettila di evitarmi perché ho cercato di farti fare da opera d’arte! Smettila di evitarmi perché tua sorella mi odia… perché ti sto rincorrendo io adesso… e ti assicuro che non l’ho mai fatto con nessuno. Non ho mai rincorso nessuno! Che cosa devo fare per farmi volere bene, Mei? Non è colpa mia se non posso fare a meno di notare che il top di Millie è orrendo, non è colpa mia se credo che sia giusto non mangiare , e non è colpa mia se non riesco a fare a meno di pensare che bisogna sempre far finta di essere perfetti.

Ma ti assicuro che mi piaci Mei. Mi piaci perché sei carino, e saresti carino anche con un sacco della spazzatura addosso, e sei intelligente, anche se non vai in giro a far sentire gli altri degli idioti, mi piace perché fai le cose con il cuore, mi piace perché quando parli di solito lo fai a sproposito  e perché sei sempre e comunque un pesce fuor d’acqua.

Ti ho trascinato in questo casino perché mi piaci, ti ho fatto baciare Alsazia perché mi piaci, ti ho fatto provare il frac perché mi piaci, ti ho fatto fare il bagno nei ghiaccioli perché mi piaci,mi sono mangiata un’intera torta sacher perché mi piaci, ho fatto amicizia con Cesar perché mi piaci, sto urlando come una pazza perché mi piaci…”  scese dal tavolo e gli andò incontro. Mei si era alzato ma era rimasto fermo immobile accanto alla sua sedia.

Nikka gli arrivò davanti e lo guardò negli occhi “Lo so che sono paranoica… ma è perché mi piaci Mei

Lei gli prese le mani e le strinse, Mei respirò guardandola fisso negli occhi con le labbra leggermente aperte senza sapere cosa fare.

“Non so cosa dire…”sussurrò infine.

“Dire non so, ma per alleviare un po’ l’umiliazione di avere urlato che mi piaci ai quattro venti potresti piegare un po’ le ginocchia e baciarmi” consigliò perentoria.

“Oh sì” disse lui come se non gli fosse neanche venuto in mente di fare una cosa simile fino a che Nikka non glielo aveva consigliato.

Rachele sospirò e prese in mano una delle poche millefoglie sopravvissute al massacro e se ne andò pensando che se fosse rimasta lì ancora qualche secondo con tutto quell’irsuto romanticismo le sarebbe venuto il diabete.

Subito dopo il suo abbandono della sala, Mei e Nikka vennero colpiti da una torta.

Lei si allontanò da lui per iniziare a imprecare contro chi le aveva rovinato il vestito.

“Me la paghi tu la lavanderia!!Mei la teneva per mano e ridacchiava tutto sporco di panna.

Sua sorella intanto se ne andava via per il corridoio desolato mangiando la millefoglie, mentre dalla mensa venivano urli e grida di guerra.

Le suole degli stivali battevano facendo un rumore ritmico sul pavimento.

Si fermò un secondo e notò che i passi continuavano e si facevano più veloci. Non fece in tempo a girarsi che un urlo le riempì le orecchie “La millefoglie è mia stronza blu!”

“Col cavolo, stupido impellicciato!” urlò lei di rimando. E come al solito finì con calci sugli stinchi, morsi ai gomiti e panna ovunque.

 

 

 

E così fortunatamente, o sfortunatamente dal mio punto di vista, Mei e Nikka riuscirono bene o male a mettersi insieme. Una coppia che lasciava un po’ perplessi, ma  dopo un po’ si faceva anche l’abitudine a vedere lui parlare di microcosmi e follie matematiche, e lei illustrare tutte le varie tonalità degli ombretti satinati che aveva comprato quel giorno.

Monica si mangiò le mani per mesi per non essere riuscita ad ascoltare la proverbiale dichiarazione che Nikka aveva fatto a Mei.

Mio fratello passò la maturità col massimo dei voti, come era ovvio, e andò a iscriversi immediatamente alla facoltà di matematica. Nikka se la cavò con un discreto settantacinque e Joyce con un rubatissimo ottantadue.

C’è chi sospetta che sia andato a letto con la presidentessa della commissione.

Io invece venni malamente bocciata con un cinque in condotta, non capii mai come avevano fatto a capire che ero stata io a far esplodere il bagno…

E tra me e Joyce? Come potrebbe andare tra me è Joyce? Andiamo a caccia di opossum.  Cosa posso farci. Lui è un idiota impellicciato!

 

Fine

 

 

 

 

E così siamo arrivati alla fine…O.O… questa storia mi ha accompagnato per così tanto tempo che mi sembra strano.

Spero che la fine vi sia piaciuta. So che magari molti si aspettavano una fine diversa per Joyce e Rachele, ma secondo me doveva finire così, insomma, ce li vedete questi due che si sbaciucchiano e vanno al cinema per mano? Credo che morirebbero nell’impresa. Cioè, Rachele morirebbe, Joyce ce la farebbe benissimo, lui è abbastanza sano di mente anche se non sembra XD

 

Comunque devo ringraziare tutti per l’incredibile sostegno che mi avete dato durante più di un anno! Grazie davvero di cuore senza di voi non sarei arrivata in fondo, grazie a chi ma messo la storia tra i preferiti e chi tra le seguite. Ma soprattutto grazie a chi ha commentato!

Nello specifico:

DarkViolet92: Oh beh di solito sì, ma Rachele ha uno strano rapporto con il prossimo! Spero davvero che questo ultimo capitolo ti sia piaciuto!!^.^

The Corpse Bride: Rachele cambia idea molto velocemente, e Joyce è molto convincente, quindi ha fatto presto a farsi perdonare… anche se non ho descritto la scena XD spero davvero che questo capitolo non abbia rovinato le tue aspettative! ^.^ grazie mille davvero per il tuo sostegno, non sai quanto mi fanno piacere i tuoi commenti!

The Duck: e così siamo giunti al termine,non odiarmi per Joyce e Rachele , ma a parere mio più insieme di così non ce la possono fare! Comunque no, Nikka non si era dichiarata, Mei era contento perché era convinto di essere arrivato alla giusta conclusione, cioè che Nikka fosse perfetta come sua migliore amica. Deduzione errata ovviamente…^.^

Pazzascatenata89: sono felice che il capitolo scorso ti sia piaciuto, spero che ti sia piaciuto anche questo! e beh, sì Nikka è una stronza complessata, quindi nonostante all’inizio la odiassero tutti alla fine si fa voler bene. ^.^

 

 

Avevo in mente un sacco di cose da scrivere in fondo a questo capitolo, ma me le sono scordate tutte…l’unica che mi ricordo è che alla fine Marianna e Cesar si sposano anche se non ho fatto in tempo a scriverlo. Come? Non ve ne fregava niente di loro? Vabbè, io ve lo dico lo stesso!!!

Beh allora dato che non mi ricordo più come volevo dire mi rimane solo da ringraziarvi ancora di cuore!^.^

 

Aki_Penn

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