Escape From The House Le disavventure di Antonio

di Xebfwalrk
(/viewuser.php?uid=774710)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ballo di Fine Ottobre ***
Capitolo 2: *** Presenze ***



Capitolo 1
*** Il ballo di Fine Ottobre ***


 
 



 





 

rmai erano due settimane che mi stressavano con quella storia della festa.
Mi avevano obbligato persino a comprare un costume. Scelsi il vampiro, per lo meno qualcosa di classico.
Alla fine arrivò la fatidica notte e Michael mi venne a prendere con l'utilitaria di sua madre.
«Buona sera» disse prendendomi in giro.
«Buona sera un corno! Forza andiamo, prima finisce meglio è per tutti.»
Partimmo sfrecciando come razzi, Michael non aveva una guida prudente.
In dieci minuti fummo dalla parte opposta del paese.
«Ehi! Non calarti troppo nella parte» mi sfotté, vedendo il pallore provocato dalla velocità assurda.
Lo mandai a quel paese, mostrandogli il dito medio.
«Hanno fatto economia sugli addobbi, sono gli stessi di sei anni fa, ti ricordi quando ancora studiavamo?»
«Non credevo che i tempi della scuola li ricordassi»
«Come potrei dimenticare quegli anni felici»
Michael mi prese sotto braccio e ci addentrammo nell'edificio. Erano anni che non entravo nella scuola del pese. Nulla era cambiato.
Alcuni giovani stavano sistemando le ultime cose.
«Ma siamo i primi!» gridai demoralizzato.
«Hai detto tu, "Prima arriviamo prima finisce"»
«Ma nemmeno i primi!»
«Ormai siamo qua, prendiamo da bere?»
«Vuoi ubriacarti alle nove di sera?»
«Un drink, puritano idiota, solo un drink!»
Mentre ci dirigevamo al tavolo con le bevande un boato improvviso irruppe nella palestra.
«Occristo!» gridai a bocca aperta «Cosa diavolo era? M'è venuto un mezzo infarto!» il cuore mi batteva all’impazzata.
«Scusate! Mi è scivolata la mano» la voce venne dagli altoparlanti. Spostai lo sguardo al palco: poco sotto, accostato a sinistra, c'era un DJ indaffarato.
«Stupido essere.» commentai caustico «Hai sentito che botto?»
«Antò, non ti crucciare. Non far uscire il tuo io interiore acido e depresso, vai contro i diritti dell'umanità!»
Guardai il mio amico a occhi stretti «E tu sei un infantile»
«Cinico!»
Michael mi mise un braccio sulle spalle. «Bevi, vampiro cinico» mi mise il bicchiere sulle labbra e lo inclinò. Succo di frutta e Vodka.
Poco a poco la musica partì: prima un po' di commerciale e poi, dopo un'ora circa, cominciarono ad abbassarsi le luci e il genere cambiò. Dal palco illuminato un ragazzo tozzo annunciò l'inizio della festa.
Iniziarono le urla registrate, seguite da note sinistre.
«Questo schifo scadente è nuovo, Michael, trovi?»
«Trovati una studentella, ci vediamo a chiusura alla macchina» Michael mi batté sulla spalla una paio di volte e corse a importunare le ragazzine ocheggianti.
Optai per un altro drink, cercando di far mente locale e ricordare il resto della gente che doveva venire. Gli ex studenti, notai, non si erano ancora fatti vivi.
I liceali si strusciavano come anaconda in calore: non si potevano vedere. Sembravano colpiti tutti da un attacco epilettico convulsivo di gruppo.
La noia stava per prendere il sopravvento quando guardai l'orologio. Era passato a malapena un quarto d'ora ed ero già al terzo drink alcolico.
Sbuffai. Ero stufo di quella pagliacciata. Non mi piacque l’anno del diploma, e neppure l’anno prima se devo dirla tutta, ma mi avevano comunque obbligato a venire a questa stramaledetta festa indetta per l’ubriachezza legalizzata e il sesso libero.
Bevvi alla goccia quel mezzo bicchiere e presi tre focaccine salate, quindi passai a bere il succo senza Vodka.
Uno zombie mi pestò un piede e uno scheletro mi tirò una gomitata nel costato.
«Fate attenzione! Subumani!»
Qualcuno mi prese per i fianchi e si strusciò laidamente contro la mia schiena. «Ma che diavolo fai!» mi voltai e fui tra le braccia di un licantropo, il suo costume era molto realistico e mi fece venire la pelle d'oca.
«Scusa, pensavo fossi un'altra persona» si giustificò sommariamente prima di andare ad abbracciare un altro vampiro. I due si baciarono, dal licantropo uscì una ragazza dalla pelle mulatta e i capelli ebano.
«Tanto vi lascerete» commentai privo di emozione.
Scorsi Michael appartarsi con un paio di ragazzette.
«Che stupido» borbottai «Ti caccerai sicuramente in qualche guaio»
Non ne potevo più di quella festa piena di ragazzini con l'ormone a mille. Sfracellai il mio mezzo bicchiere sul tavolo, bagnando la tovaglia nera e arancione scadente, e uscii da quella palestra male arredata spintonando chi si opponeva al mio passaggio, brutalmente.
All’aperto sospirai, l’aria era gradevolmente fresca per l’autunno incombente.
Fui in breve alla macchina di Michael che era parcheggiata quasi davanti all'entrata.
Ero lì, la brezza che mi scompigliava i capelli e il vestito da vampiro sempre ben stirato. Tenevo le braccia incrociate sul petto, in attesa di un segno dal celo, dalla strada o da qualsiasi parte, purché rendesse quella festa meno noiosa.
Attesi almeno trenta minuti quindi decisi di tornare a casa a piedi. «Basta, questa è una pagliacciata!» mi voltai imbronciato.
E improvvisamente ero a terra, non sentivo nulla. Le macchine erano tutte illuminate da una luce arancione.
Arrivarono le urla, qualcosa mi colpì al piede.
Con tanta fatica mi misi carponi, poi mi appoggia con la schiena alla ruota di una macchina.
L'edificio, la scuola, era in fiamme. Ragazzi travestiti correvano come sciagurati in tutte le direzioni.
Trovai la forza di mettermi in piedi. Arrivarono i pompieri e le ambulanze, portarono fuori i primi feriti: giovani zombie reali, urlanti o svenuti, ragazzine tramortite con ferite sanguinolente finte e calse a rete squarciate.
Sentii qualcuno che diceva di una bomba vicino all'entrata.
Avevo scampato la morte per un pelo, forse. Mi tirai un pizzico per sentire se ero veramente vivo o, dato il momento particolare di Halloween, fossi diventato davvero un fantasma. Il dolore mi fece storcere il naso.
Cominciai a camminare a passo malfermo; cercavo Michael, ma non lo vedevo da nessuna parte. Indeciso su come comportarmi decisi di prendere la strada di casa. Sembravo un morto vivente, zoppicavo leggermente e mi doleva il ginocchio destro. Quando voltai in una strada meno trafficata, dove sentivo nuovamente il fresco dell'autunno sulle guance e il ronzio nelle orecchie per l'esplosione, mi fermai sul muro di una casa per prendere fiato. Avevo gli occhi appannati, li strusciai con la manica del vestito. Ripresi a camminare alla meglio, svoltai in più e più isolati fino ad una strada con i lampioni spenti. Dal fondo delle vie precedenti udii le ruote di un auto sgommare. Mi voltai e vidi una macchina che si avvicinava. Un’utilitaria. Mi sporsi verso la carreggiata e alzai il pollice per fare da autostoppista.
«Michael?» domandai al finestrino semiaperto.
La portiera posteriore si aprì all'improvviso e qualcuno mi trascinò dentro.
Mani mantenevano ferme gambe e braccia mentre mi veniva infilato un sacco in testa. Cercai di urlare, ma ricevetti un pugno nello stomaco come ammonimento.
Il terrore mi pervase: mi stavano rapendo ed ero appena scampato alla morte!
Cercai di dimenarmi ma mi colpirono ancora, qualcuno si avvicinò al mio orecchio, non capii chi fosse «Stai fermo o ti ammazzo»
La sua voce era bassa e minacciosa, rimasi tranquillo.
Non riuscii a calcolare il tempo di viaggio, ma ad un certo punto la macchina si fermò. Mi sollevarono di peso.
Cercai di fuggire, dimenandomi come un pesce, scalciando come un cavallo, ma mi colpirono ancora.
Mi sballottarono e infine mi buttarono a terra.
Caddi di pancia e il dolore fu immediato. Ero legato adesso, sentivo qualcosa che mi teneva ferme le braccia e le gambe. Poi mi tapparono gli occhi e la bocca: cercai di non aprirla ma alla fine cedetti. Ricevetti un'ultima pugno in dono e fui solo, tramortito e legato.
Lentamente calò la benda, la polvere vorticava in una lama di luce di luna che entrava dalla finestra. Per il resto, non vedevo nulla.
 
 
 
Questa storia partecipa al concorso a turni Escape From The House indetto da Raleeshahn e Gnrlove
 
Questa è un’opera di fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio.
Qualunque somiglianza con luoghi, fatti o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Presenze ***


 
 



 


«iuto!»
Stavo gridando, credo; sentivo a malapena il suono della mia voce.
La stoffa che avevo nella bocca era imbevuta di saliva, sentivo un rivolo che mi colava sulla gola scoperta.
Ero legato, le gambe piegate sulla schiena, i piedi e le mani legati insieme, sentivo la suola delle mie scarpe con i polpastrelli.
Mi sorreggevo con lo sterno, cominciava a dolermi tutto ma insistevo a chiedere aiuto, non riuscivo a distendermi. La sciarpa, doveva essere la mia sciarpa: la consistenza era soffice non quella di una corda; mi teneva la testa sollevata, la gola completamente esposta, deglutivo a fatica, quasi sentivo il pomo d’Adamo che si muoveva frenetico.
Sentii un tonfo alla mia destra.
«Aiuto!» gracchiai ancora.
Un ombra mi passò davanti, gli occhi bianchi e luminosi. Brividi mi percorsero da capo a piedi. Chiusi gli occhi con forza dicendomi che era un brutto sogno. Mi sentii toccare.
Cominciai a gridare come un matto, lentamente misi a fuoco.
Un uomo, il volto in ombra, spalle larghe, un braccio coperto da stoffa fino al gomito, poi ricoperto di peli folti e scuri. Brandiva un coltello. Lo stava avvicinando alla sciarpa nuova, gridai più forte di prima. Quello si ritrasse, sentii la sua mano ruvida sulla mia guancia. Delicatamente spostò la sciarpa  dalla bocca.
Passai veloce la lingua sulle labbra, umettandole.
«Cosa fai con quel coltello! È cashmere!» strillai isterico «Qualche stronzo mi ha legato mani e piedi con la mia sciarpa. Per piacere, cerca di scioglierla senza rovinarla, l’ho pagata molto» lo supplicai irritato.
Sentii che cominciò a smuovere il tessuto prima delicatamente, poi in maniera più rude. Mi sfiorò un paio di volte il sedere ma non vi detti peso, sicuramente non lo fece di proposito.
«Grazie.» Gli dissi dopo poco «Mi chiamo Antonio Marell» Gli dissi sedendomi.
«Endzo Mavouie.» Si strofinò le mani «Sai dove siamo?» La sua voce era roca e profonda, non sembrava molto tranquillo ma nemmeno terrorizzato, come del resto ero io.
«Non ne ho idea. Ero ad una festa in paese, poi  è scoppiato il finimondo» Mi interruppi ricordando «…E qualcuno mi ha tirato un colpo in testa, ed eccomi qui» al ricordo mi tastai la tempia, fu doloroso ma necessario per rendere reale il ricordo ancora una volta.
Lo vidi imitarmi toccandosi la faccia e esprimere il suo dolore.
A quanto pare anche lui non era qui di  sua volontà.
Cadde un silenzio improvviso,  un’atmosfera di inquietudine si fece largo nella stanza.
«Cosa è stato» squittii preso dal ricordo degli occhi bianchi lucenti.
Al piano superiore si sentirono passi concitati e pesanti seguiti da una cascata di polvere, un freddo improvviso si fece largo nelle mie ossa.
Mentre eravamo presi a guardare la polvere cadere la finestra alle nostre spalle vibrò e si aprì di schianto, un brivido mi corse rapido lungo la schiena.
Un vento gelido mosse le tende mangiate dal sole, sbatterono violentemente;  la povere vorticò e prese sembianze di una persona per qualche istante. Poi tutto cessò: il vento si acquietò subito, la polvere parve immobile.
Un altro tonfo sopra di noi. La strana sensazione di essere osservato mi prese allo stomaco, mi feci forza, irrigiditi i muscoli del torace.
«Mio Dio! Dobbiamo andarcene subito di qua!» Sussurrai senza fiato, per lo sforzo di non gridare.
«Fuggiamo dalla finestra» Propose Endzo, una luce di ottimismo lampeggiava nei suoi occhi.
Mi prese per un braccio, stringendo il polso al limite della violenza e mi trascinò con lui fino alla finestra.
Eravamo lì:  davanti alla finestra, in procinto di uscire. Endzo allungò la mano verso il telaio quando una figura scura ci saltò davanti. Si sentirono grida disumane e occhi gialli luminosi ci fissarono.
Urlai a pieni polmoni, mi sembrava i vibrare come un telefono, tanto che i peli del mio corpo si muovevano. Scappai a sinistra, l’altro a destra.
Scattai tanto in fretta che mi scontrati contro la porta, rapido l'aprii e entrai, massaggiandomi il naso.
Finii in una sala ampia, il pavimento  con grandi mattonelle quadrate tutte opache dalla sporcizia.
Dopo qualche passo notai che  la stanza era piena di finestre chiuse, le tende si muovevano lentamente, una paura improvvisa mi artigliò la bocca dello stomaco.
Cercai di soffocare i brividi, era solo una stanza sporca.
Mi spostai al centro della stanza, suoni ovattati raggiunsero le mie orecchie.
Guardai in tutte le direzioni sono i miei passi pensai.
Feci per voltarmi e sentii passi strascicati: a tempo di musica, lenti e costati, gli angoli si fecero più bui, un freddo gelido calò nella stanza.
Gridai senza sapere neppure il perché e fuggii da dove ero entrato.
Un lampo improvviso e mi trovai alle spalle di un uomo.
Una camicia a quadi squallida che nascondeva larghe spalle possenti. Mi avvicinai con circospezione, incerto sulla sua identità.
Gli toccai una spalla; sentii il suo brivido sui polpastrelli. Qualcosa gli cadde dalla mani con un tonfo soffocato.
«Diavolo! Ma cosa fai?» sbraitò, una volta che mi mise a fuoco; un coltello puntato al mio petto.
«Hai visto l’ombra anche te?» domandai, ignorando l'arma e alludendo alla finestra di poco prima.
«È suggestione, calmiamoci» vidi Endzo che si chinò per raccogliere l’oggetto che gli era caduto.
Rimase chinato a lungo, osservavo come l'indumento aderiva forzatamente al suo corpo qualcuno deve mettersi a dieta  pensai nell'attesa. Guardò davanti a se. Sugli scalini della sala erano sedute due bambole di porcellana, due maschi, una assomigliava terribilmente al mio amico, l'atra aveva capelli lunghi fino alle spalle, camicia e pantalone scuro e per completare una sciarpa bianca, rabbrividii.
«Andiamocene» Disse Endzo, la voce spezzata.
Indietreggiammo cautamente, alle nostre spalle la porta d'ingresso suggeriva una via di fuga. Non persi di vista un secondo le bambole.
Continuai a indietreggiare finché non sentii con il sedere il duro del legno, mi raddrizzai.
Quasi contemporaneamente ci voltammo e provammo ad aprire la porta. Quella non si mosse, pareva chiusa a chiave.
Uno scricchiolio dalla scala, ci voltammo: le bambole si erano spostate, erano vicine e in piedi, avevano fatto un paio di passi nella nostra direzione.
«Antonio? Le bambole…»
«Si muovono? Sarà uno stupido scherzo» risposi incrociando le braccia sul petto «Esci, ti abbiamo scoperto!» sbraitai, gesticolando.
La porta vibrò, sembrava dovesse esplodere. Preso alla sprovvista sobbalzai, saltai le bambole e salii i primi gradini.
Osservai per qualche secondo la situazione, vidi lo sguardo di Endzo: gli occhi di fuori dalle orbite, poi il suo urlo agghiacciante e la fuga, rapido come un velociraptor. Non attesi altro e salii la scala due gradini alla volta.
In cima alla scala mi trovai un corridoio. Lungo e stretto, tante porte chiuse si affacciavano inquietanti.
Sentii un tonfo dietro di me.
Rabbrividii all’istante e cominciai a camminare.
Dopo pochi passi si fece tutto più buio. Un lampo improvviso.
Vidi un ragazzo spaventato in smoking e sciarpa bianca. Urlai per il mio riflesso nello specchio, non mi ero accorto di essermi girato verso il muro. Un altro flash di luce e alle mie spalle vidi una figura grigia e agonizzante.
La bocca dello stomaco si fece fredda, mi venne la nausea, mi voltai, non riuscivo a gridare o a emettere qualunque suono. Paralizzato mi aspettai di morire, ancora.
Una luce flebile illuminò ancora la stanza, davanti a me una porta socchiusa, ma niente mostri. Dentro si sentiva come un carillon che suonava una melodia inquietante, saltando di quando in quando, qualche nota. Stava rallentando, la carica doveva essere quasi esaurita. Entrai esitante.
Sentii come uno strascichio alle mise spalle. Mi voltai convinto che ci fosse qualcuno.
«Chi è là?» Strillai, i nervi a fior di pelle.
Nessuna risposta. Abbassai gli occhi, la bambola era seduta sullo stipite della porta.
«Stupida bambola, ma cosa vuoi da me?» domandai al giocattolo «Chi è il simpatico che mi porta a presso questo ammasso di porcellana?» domandai scocciato, alla casa.
Uno scricchiolio alle mie spalle mi fece ruotare come un gatto. Poi sentii un suono che mi fece gelare il sangue nelle vene:
«Io sono qui per te! Non temere sarà breve.»
Avevo la bocca aperta, tremavo come se la temperatura fosse sotto zero e fossi nudo. Guardai bambola.
«Basta! Basta! Basta!» Presi la bambola.
Dopo pochi istanti sentii le mani bruciare. Poi venne un dolore insopportabile.
Caddi a terra, la bambola incollata alle mie mani, poi mentre la guardavo, ruotò la testa.
La pittura sul suo volto mutò da uno sguardo annoiato ad un sorriso esaltato. Ero sempre più stanco, il dolore si stava affievolendo, il fuoco era passato al gelo, non sentivo più le mani.
La bambola cominciò a diventare più grande, una fessura si disegnò lungo la linea del sorriso. Denti bianchi splendenti si fecero strada nella luce tenue.
La porcellana si faceva sempre meno dura, i capelli sempre più reali.
Alzai lo sguardo, la figura grigia fu ancora sulla soglia della porta, non riuscii a far altro che a guardarla, tornò la nausea, la bambola ruotò la testa di centottanta gradi e strillò forte.
Le pareti tremarono e la bambola si liberò dalla mia presa.
La presenza grigia se ne andò.
La bambolo adesso camminava verso di me. Ero in preda a convulsioni, non sentivo più le mani.
Osservai per la prima volta la stanza in cui mi trovavo, era una stanza per i giochi per bambini, una culla mi restituiva lo sguardo da un angolo, l’afferrai e con una forza sconosciuta la usai per imprigionare quell’orrore. Mi sedetti sopra la sua prigione a cercare di prendere fiato.
Avevo la vista offuscata, la porta della stanza era chiusa. La bambola sotto di me cercava di uscire.
Un tonfo alla porta la fece aprire, una mannaia era conficcata nel legno. Una scritta scura e luccicante recitava:
“USAMI”
Confuso mi alzai, nell’istante in cui il mio peso abbandonò la gabbia di fortuna la bambola, ormai alta settanta centimetri, si liberò. Afferrai la mannaia e provai a estrarla, non veniva.
«Non lo fare, io ti voglio bene» La bambola parlò muovendo la bocca in maniera errata. Allungò la mano verso di me e cominciò a camminare lentamente.
Afferrai la mannaia con maggiore presa e con una serie di strattoni la tirai fuori dalla porta. Presi un secondo la mira e la calai sul cranio della bambola. Contemporaneamente quella mi afferrò per il busto. Gli fui davanti, in ginocchio. I suoi occhi mi guardavano increduli. Una crepa si aprì dalla sua fronte fino al mento.
Qualche secondo di stallo, nulla accadeva, ci guardavamo negli occhi, poi esplose.
Urlai e mi tenni la testa tra le ginocchia. Vomitai violentemente. Mi rannicchiai in un angolo e smisi di pensare. Sentii le mie convinzioni sgretolarsi.
 
 
 
 
Questa storia partecipa al concorso a turni Escape From The House indetto da Raleeshahn e Gnrlove
 
Questa è un’opera di fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio.
Qualunque somiglianza con luoghi, fatti o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2989023