Bravade

di Audrey98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Senza temere il vento e la vertigine. ***
Capitolo 2: *** Dal vivo. ***



Capitolo 1
*** Senza temere il vento e la vertigine. ***


 
Senza temere il vento e la vertigine
 
Mi sporsi leggermente dal bordo della paratia. Sopra il ponte di Bercy, il vento continuava a far sbandare leggermente il mio corpo, quasi volesse dirmi di non farlo. Ma non c’era ragione per cui io non dovessi. Sotto di me, la Senna scorreva veloce trasportata dal vento di Settembre, e riuscivo a vedere le increspature sul pelo dell’acqua. Sembrava che l’impatto sarebbe stato letale, ma anche se fossi sopravvissuta per un po’, c’ero abituata. Dopotutto, era sempre stato così, era come affogare, solo che vedevo gli altri respirare intorno a me. E quando urlavo, nessuno sentiva.
Ero pronta a farlo. I miei muscoli erano tesi, tutte le cellule del mio corpo tendevano a quello, volevano quello. Non so perché continuavo ad aspettare, ma il mio corpo diceva “Presto, fallo, metti fine a questa tortura, dai”. Aspetto. Guardo il fiume. Le mie scarpe. Respiro, profondamente. Ero pronta.

Probabilmente, chiunque ci sia lassù, decise che questa non era la fine che dovevo fare. Sentii come la mia vita fosse stata presa per la collottola e tirata su d’improvviso; respiravo. Sentivo la vita dentro e intorno a me, come mai l’avevo sentita prima. O forse non era una sensazione amplificata, era una sensazione completamente nuova. Forse non ero mai stata veramente viva.

Ma non è questo quello che conta. Ciò di cui voglio raccontarvi è la causa di tutto ciò. La coda del mio occhio sinistro intravide qualcosa. A qualche metro da me, distante pochi passi sulla paratia, stava una ragazza; aveva i capelli neri color dell’ardesia. Fu come se la sua visione mi avesse scosso dal torpore piatto della mia vita; all’improvviso mi resi conto di dove fossi e di cosa stessi facendo.
Ebbi paura. Barcollai. La ringhiera, scivolosa dalla pioggia del pomeriggio passato, non mi diede appoggio. Scivolai inesorabilmente verso il vuoto, ma fortunatamente trovai un appiglio per le dita. Stavo per perdere ciò che avevo appena trovato, e che avevo desiderato per così lungo tempo: la vita.

I miei piedi penzolavano verso il fiume, il mio braccio destro non avrebbe resistito a lungo. Non ero mai stata una tipa particolarmente sportiva. Forse se fossi stata più allenata avrei saputo cavarmela da sola, riflettei. Che razza di pensieri mi venivano, in un momento come quello?!

Ma, per la seconda volta nello stesso giorno, qualcosa mi salvò, qualcosa mi tirò su. Per un braccio, stavolta.

Alzai lo sguardo verso il cielo, e quello che vidi fu il volto di lei. Con l’altra mano afferrò il mio braccio sinistro e tirò con tutta se stessa. Non sapevo perché lo stesse facendo, né per quale casualità fosse lì, su quello stesso ponte di Parigi, in quello stesso minuto. Sapevo solo che volevo sopravvivere.
L’altra mia mano riuscì ad appendersi al ferro della paratia, e a quel punto era fatta. Ebbi bisogno solo di un’ultima spinta per cadere goffamente addosso a ciò che sembrava un morbido materasso. Ma era lei.

Mi spostò con delicatezza di fianco a lei e si accasciò su un lato. Feci per alzarmi nell’intento di darle una mano, ma un fortissima fitta colse la mia caviglia sinistra; evidentemente si era slogata mentre scivolavo giù dalla paratia.
“Stai … stai bene?” le chiesi.
“Sicuramente meglio di te”, disse, mentre si alzava e si avvicinava a me. Le tesi le mani, che lei afferrò tirandomi su. Io gemetti.
“Che disastro” sussurrò, “La caviglia è andata”. Si mise il mio braccio destro intorno alle spalle, si diresse verso il Boulevard Auriol e scendemmo nel metrò.
 
Sedute sulle panchine arancioni di quel labirinto a forma di tubo, prendevamo fiato. Un respiro, due, tre.
Quando i polmoni furono soddisfatti e le anime ritrovarono la pace, le tesi la mano:
“Piacere, mi chiamo Amélie”. Lei, scostatasi i capelli corvini da davanti agli occhi, rispose:
“Piacere, Roxane”.
“Che bel nome!” Esclamai. Penso che la rappresentasse alla perfezione. Si presentava come un nome profondo e importante, e al solo pensarlo mi dava una sensazione di pace… di sicurezza.

“Anche il tuo non è male, sai?” Ci mettemmo a ridere. Risatine sconnesse, ancora frastornate da quello che era accaduto una manciata di minuti prima. Sembrava tutto così surreale. Come se quegli istanti fossero racchiusi in una bolla di sapone. Non mi sembrava di averli realmente vissuti... Eppure.

“Grazie per … insomma, per prima. Ora so che non era la cosa giusta da fare”.
“Beh, in un certo senso, anche tu hai salvato me. Grazie.” Mi abbracciò. Un profumo di cannella mi investì non appena mi si avvicinò … sapeva di casa.
Si risedette. Frugò nella tasca, ne tirò fuori un pacchetto di sigarette e si mise a fumarne una.
“Vuoi ?” Non ero solita fumare, anzi avevo provato pochissime volte da alcuni amici, ma non avevo mai preso il vizio.
“Sì, grazie”, accettai. Me la accese. Non smisi più di fumare da quel giorno.

Mentre aspettavamo la metrò , fumavamo guardando il muro davanti a noi, senza pensare a niente. Lei aveva i gomiti appoggiati sulle cosce, era protesa in avanti, mentre io mi appoggiavo allo schienale.
Indossava un giacchetto nero di pelle e un paio di jeans chiari a vita alta. Era molto magra e i folti capelli incorniciavano un viso esile e scarno, ma bello. Non di una bellezza sconvolgente, ma di una bellezza accompagnata da carisma.
“Dove vivi?” mi chiese, riscuotendomi dai miei pensieri.
“Vicino a Les Gobelins”.
“Ah, io totalmente all’opposto, vicino alla Bastiglia.”
“Beh, possiamo prendere insieme la 6 fino a Place D’Italie.” Dissi, guardando la cartina della metrò appesa al muro. Ero stranamente felice di poter passare del tempo in più con lei. Normalmente, odiavo la compagnia di tutti.
“Volentieri”. Sorrise, mentre schiacciava la sigaretta sotto la scarpa. Udimmo la metrò arrivare in lontananza. Gettai anch’io la mia e mi avvicinai alla linea gialla, seguendo lei.

Trovammo posto vicine, il vagone era quasi deserto.
Stavamo una di fronte all’altra, ginocchia contro ginocchia. Solo in quel momento mi resi conto della bellezza del suo viso: non aveva il mare negli occhi, ma forse era meglio così: avrei rischiato di caderci ogni volta e di perdermici, e chissà quando la mia anima sarebbe riaffiorata fuori da quell’abisso, respirando affannosamente senza trovare uno scoglio dove riposare.
No, capite, non aveva il mare negli occhi, ma di un color nocciola, occhi che avevano e hanno ancora un che di languido e dolcissimo; anche se hanno sfumature di nero, quegli occhi erano amache immerse nel bosco dove io avrei risposato distendendomi nella mezzaluna tra l’iride e la pupilla. Ancora oggi, guardandoli, mi provocano la stessa sensazione.

Non avrà avuto il mare negli occhi, ma era fatta di legno, le sue iridi lo dimostravano; appena sotto la pelle era avvolta da uno strato di legno bianco, striato di spaccature; lei teneva tutto dentro, non diceva mai niente, non si lamentava mai, e il legno assorbiva i colpi, uno dopo l’altro.
Ma il legno non è indistruttibile. Dopo un certo numero di colpi, si spacca. Capii il perché della sua presenza; le spaccature erano troppe: avevano fatto andare il legno in pezzi, le schegge le si erano conficcate nell’anima, e quel dolore era decisamente troppo da sopportare.
 
“Insomma.. Come sei arrivata fin lì ?” chiese curiosa, distraendomi dal mio torpore.
“Stavo per rientrare a casa. Ma non ne avevo affatto voglia e così ho fatto due passi”.
“Due passi?! È abbastanza lontano!” esclamò.
“Hai ragione.” Risi. “Ho il passo veloce, di solito.” A volte senza rendermene conto arrivavo al fiume. 
“… quanti anni hai?”, mi chiese. 
“Sedici … tu? ” Ormai da un pezzo, sarebbe stato il mio compleanno nel giro di tre settimane.
“Io diciassette compiuti da poco …” Sorrisi. Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti, fissando la notte fuori dai finestrini e il vagone semideserto, tranne che per un pendolare con la valigetta e un ragazzo con le cuffie.
 
Place D’Italie. Place D’Italie.” Gracchiava il ripetitore nel vagone. Scendemmo, e ci ritrovammo davanti alle due uscite 5 e 7, rispettivamente sua e mia.
“Beh.. spero di sentirti ancora” dissi io stupendomi delle mie stesse parole. Da quando sei così socievole?!
“Certo. Molto volentieri. Ci scambiamo i numeri?”
“Ecco.” Mentre le dettavo il mio numero, un’altra metrò arrivava e ripartiva e in men che non si dica vedevo la sua esile figura allontanarsi da me. Ma, subito prima di imboccare la galleria che l’avrebbe portata a casa, si girò e mi sorrise. Rimase lì due secondi, giusto il tempo che le sorridessi di rimando, e scomparì.
 
Presi la 7, e scesa al Les Gobelins, mi avviai verso casa. Le strade erano vuote e mi avviai verso Boulevard Saint – Marcel con un sorriso da ebete stampato sul volto, di cui mi resi conto solo molto dopo, guardandomi allo specchio del bagno.
Era mezzanotte e mezza quando rientrai a casa. Mia madre lavorava in un giornale, faceva sempre tardi la sera, e per fortuna non era ancora rientrata.

Mi servii un pezzo di torta avanzato in frigo, e mi chiusi in camera. Mettendomi il pigiama, pensavo.
Ero appena stata salvata da una completa sconosciuta mentre stavo per fare la cosa probabilmente più stupida della mia vita in una ventosa notte di settembre. Spazzolino, dentifricio. Una delle cose più strane che mi siano capitate in tutta la mia vita, direi. Oggi sarà un giorno che non dimenticherò facilmente. Scrivania, forchetta, piattino.
Mi ero rannicchiata sulla sedia, mentre nel frattempo mangiavo. Avevo il vizio di mangiare anche dopo essermi lavata i denti, se avevo fame. Le torte erano il cavallo di battaglia della mamma. Qualsiasi tipo, dal cioccolato alle mele, dalla panna allo yogurt. E faceva tutto rigorosamente in casa, eccetto per gli ingredienti base. Uno delle poche cose che le riuscivano bene, glielo concedo: praticamente irresistibili.

Il giorno dopo avrei avuto scuola, e non avevo la benché minima forza di affrontare un’altra settimana.. mi aspettavano una marea di compiti, verifiche e interrogazioni, e non credevo di essere psicologicamente pronta. Finii per confidare nella “vita nova” che gli eventi di quella sera mi avevano dato. 

Provai a infilarmi sotto le coperte e, dopo aver letto tre pagine di “Cuore”, l’ultimo libro che ci aveva dato la professoressa di letteratura, sentii gli occhi pesanti, misi il segnalibro, posai il tomo a terra e spensi la luce. Ero talmente stanca che in pochi minuti crollai in un sonno profondo, senza sogni né sicurezze. 

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Capitolo 2
*** Dal vivo. ***


“I lived a lot of different lives.

I’ve been different people, many times.”

Dal vivo.

 

Ogni mattina andavo a scuola in bicicletta. Non andare a scuola a piedi mi permetteva di alzarmi venti minuti dopo, cosa che, considerata la mia quantità media di ore di sonno, non era affatto disprezzabile. Al fondo di Rue Monge, però, c’era un piccolo e adorabile Starbucks, in cui amavo fare colazione e così, a volte, rinunciavo ai miei venti minuti per un muffin ai mirtilli e un caffè latte caldo al caramello. Avevo provato tante combinazioni, ma ero finita con l’eleggere quella come colazione migliore per iniziare una giornata di scuola, soprattutto considerato il pungente freddo parigino. 

Ad ogni modo, quella mattina mi svegliai con una forte emicrania. Non sapevo il motivo, ma immaginai a causa  della notte passata, durante la quale mi ero svegliata più volte e avevo avuto sogni agitati e convulsi, tanto quanto gli eventi della serata precedente. Mi tirai su a fatica, spegnendo la sveglia che continuava a pigolare come un pulcino isterico.

Percorsi Rue Monge con gli occhi semichiusi, a causa del vento che mi soffiava il suo freddo in pieno volto.

 Lasciata la bici fuori dallo Starbucks, entrai intirizzita e subito mi sentii meglio per il calore che emanava quel posto. Togliendomi i guanti e una cuffia dall’orecchio, mi avvicinai al bancone. C’erano due o tre persone davanti a me, così mi misi in coda, aspettando il mio turno. Controllando il cellulare, non mi accorsi neanche che, dietro al bancone, stava una ragazza esile, coi capelli corvini raccolti in una coda di cavallo e la carnagione pallida. Serviva i clienti con savoir-faire, come se facesse quel lavoro da tempo e avesse molta dimestichezza.

“Ciao, Amélie”. Sentì una voce chiamarmi da dietro al bancone. Alzai gli occhi e capì che quella ragazza che mi salutava, con una voce frammista tra la sorpresa e la felicità, era Roxane. 

“C- Ciao”, le risposi. Percepivo una sfumatura d'inquietudine nella sua voce, come se si stesse sforzando di non pensare, senza però troppo successo, alla sera precedente. Leggevo nei lineamenti del suo volto un accenno di curiosità, di voglia di parlarne. Ma, forse per mancanza di tempo, forse perchè non voleva sembrare troppo invadente, evitò l'argomento quella mattina. 

 Non l’avevo mai vista prima lì, specialmente nelle vesti di commessa, e la cosa mi lasciò alquanto interdetta. Le domande nacquero nella mia mente come funghi dopo una notte di pioggia.  Da quanto tempo lavorava lì? Se lavorava lì da molto tempo, come mai non l’avevo riconosciuta la sera prima? E se non io, come mai lei stessa non mi aveva fatto notare che mi vedeva tutte le mattine al cafè?

Probabilmente lei afferrò il mio spaesamento, perché, dopo che avevo sillabato l’ordine e pagato alla cassa, venne a sedersi al mio tavolo, dove sorseggiavo, forse un po’ troppo velocemente, il mio caffè latte.

“Non mi aspettavo di trovarti qui.” Le dissi, dopo alcuni secondi di silenzio che erano dovuti più alla mia lingua bruciata che all'imbarazzo. 

“Potrei dirti la stessa cosa.” rispose lei, puntuale nella sua ironia tanto affilata quanto piacevole.

Scoprii che lavorava lì stagionalmente, ma solo di pomeriggio, perché al mattino andava a scuola. Scoprii anche che le avevano chiesto di coprire un turno di mattina, e lei, non avendo lezione, aveva accettato. Ecco che aveva risposto a tutte le mie domande. Risposi alle sue dicendole che andavo sempre lì a fare colazione, ma non passavo mai di pomeriggio, perché studiavo a casa, o in biblioteca, e che la sera per la maggior parte delle volte ordinavo sushi al giapponese che stava sotto casa mia.

Scoprii anche qual’era la sua bevanda preferita, che odiava doversi legare i capelli e indossare quel ridicolo cappellino che faceva parte della divisa dei dipendenti, che però i colleghi erano tutti giovani e simpatici. Lei scoprii che amavo i muffin al mirtillo, che andavo a scuola al Lavoiser, e rise vedendo la mia espressione quando al nominarlo mi accorsi che ero in ritardo. Afferrai lo zaino.

“Ci rivedremo?” La guardai con occhi che esprimevano paura e desiderio. Non saprei dire desiderio di cosa esattamente, ma di  certo di qualcosa che comprendesse lei.

 “Sì”. Ne era certa. Il come, non saprei dirlo.

 

Uscii dal café e, rimontata in sella alla bici, raggiunsi il Lycèè Lavoiser, la mia scuola.

Rischiavo ad ogni curva di sfracellarmi al suolo, ma l’insegnante della prima ora non era tipa da tollerare i ritardatari, e dovevo ingraziarmela , o se non altro, non mettermela contro, essendo la professoressa di latino.

Non ero particolarmente portata per lo studio. Diciamo che rientravo nella media. Studiavamo materie classiche come il Latino, avevamo un ora in più di Francese, in quanto materia d’indirizzo, e Filosofia. Non sapevo cosa avrei fatto nella vita. Odiavo quando qualcuno  diceva: “Oh, sì, io sono sicuro che andrò a fare…” questo, questo e quell’altro: mi davano fastidio. Non si può certo dire che l’idea della totale incertezza di ciò che sarebbe accaduto mi confortasse, ma a volte mi piaceva lasciarmi trasportare dagli eventi, senza pensare. La capacità di pensare può essere frustrante a volte. Il pensiero continua a girare e rigirare su cose impossibili, su “e se fosse stato” o su “come sarebbe se”.

 Fatto sta, non avevo ancora deciso cosa fare dopo il liceo. Non pretendevo niente di che dalla vita, un piccolo appartamento pieno di libri, un lavoro che mi sarebbe potuto piacere, uno stipendio che mi avesse permesso di fare dei viaggi qualche volta.

Corsi per il corridoio. Era deserto, ad eccezione dei pochi strafottenti  che si attardavano a fumare nei corridoi.

 

La professoressa non mi fece entrare. Dovetti aspettare la campanella successiva.

Avevo ancora il fiatone quando, mollando lo zaino per terra, mi accasciai contro il muro. Ero struccata, assetata, e avevo già sonno. Fissai la finestra scorrevole davanti a me. Non c’era nessun altro nel corridoio, quindi mi avvicinai per rinfrescarmi. Aprii la finestra e fui accarezzata da un refolo di vento autunnale. Preferivo la primavera, però i primi giorni d’autunno erano ancora caldi e avvolgenti, e a scuola si faceva poco e niente. Passavo le giornate a guardare la TV o a leggere libri di poesie. Mi piacevano molto di più della prosa, non so spiegare perché. In seguito avrei cambiato opinione.

Sentii qualcosa che premeva contro la mia spalla destra. Mi girai, e vidi un ragazzo magro, alto, e con un accenno di barba.

“Hey. Sbattuta fuori anche tu?” chiese, con quel fare da sbruffone che mi dava sui nervi.

“No, sono solo arrivata in ritardo.” borbottai di rimando. Non mi piaceva essere presa per una di quei deficienti.

“Capito. Favorisci?” mi allungò il suo pacco di Camel.

“Grazie.” Dissi, accettando e facendogliela accendere. Nonostante non appoggiassi il loro atteggiamento a scuola, non rifiutavo mai una sigaretta, specialmente dopo una serata come quella precedente.

Mi sporsi anch’io dalla finestra. Il vento era di un freddo pungente, ma mi piaceva e, oltre a noi due, non c’era nessun’altro nel corridoio. Guardai gli alberi nel cortile ondeggiare e le foglie morte cadere per un po’. Sentivo una sorta di stordimento, come se fossi in cerca di qualcosa che continuava a sfuggirmi, e la mia esistenza fosse divenuta un continuo vagare.

“Come ti chiami?” chiese distraendomi dai miei pensieri.

“Amèlie… tu?”

“Bel nome. Andrè.” Era un bel nome anche il suo. Non ne conoscevo molti, ma erano sempre persone interessanti. Feci per dirglielo, quando la campanella suonò.

“Ci vediamo in giro.” disse facendo un cenno col capo. E si defilò.

Aspettai che la prof uscisse e collassai sul banco, già sfinita per le poche cose che erano successe quella mattina.

 

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