Blades of dragons

di MattMalefor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** 18 ***
Capitolo 3: *** The call ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


La verità sulle origini della vita è sempre stata avvolta da mille e mille misteri, al giorno d’oggi molte persone hanno avuto modo di sostenere le loro tesi, affermando che la nascita dell’esistenza ebbe luogo grazie a forze sovrannaturali o semplicemente giustificate dalla forza della scienza.
L’universo è sempre esistito? O prima di esso vi era qualcosa ?E chi ha deciso che tutto dovesse  cominciare? E come?
Come detto prima, in un epoca come la nostra si potrebbe dare la responsabilità alla volontà di un Dio assoluto o ad un evento fisico che ebbe luogo nel nulla, ma altre leggende sostengono una teoria diversa, un’altra storia, se così si può dire, che venne raccontata in un passato ormai arcaico, disperdendosi nei meandri del tempo, affievolendosi fino a scomparire del tutto.
Un tempo questa Leggenda era presa per verità assoluta, ma con il passare dei secoli, l’umanità sviluppò un atteggiamento restio e poco disponibile anche solo a sfiorare l’idea che l’universo stesso prese vita da quella che, tutt’oggi, è riconosciuta come una creatura delle fiabe, screditata, sminuita ad una semplicissima icona della fantasia. è comprensibile, tutto sommato, forse anche voi potreste non crederci, ma io ve la racconterò ugualmente, vi rivelerò quello che voi avete sempre inconsciamente ignorato, la Leggenda un tempo verità e vi assicuro, cari amici, che lo è tutt’ora e che questa è solo la prima parte di una Storia ancora più grande.
Immaginate un immenso mare di nulla, esatto, che sia come volete, totalmente nero o bianco, non fa differenza. Immaginate che sia esteso, infinito, privo di un limite vero e proprio e che da qualche parte, all’interno del nulla, stia dormendo, galleggiando nell’etere, una sola entità, anch’essa smisuratamente grande, abbastanza da poter essere vista da qualsiasi parte dell’infinità che avete immaginato.
Come è quest’entità? Volete saperlo, vero? Bhe, dimenticate quella fantasiosa icona della quale vi ho parlato vagamente prima e prendete seriamente le parole che sto per raccontarvi, perché nel nulla sconfinato, dormiva Galassia, l’Antico Creatore che teneva dentro di sé il segreto dell’esistenza stessa.  Una creatura lunga e slanciata, dal corpo di un colore indistinto, forse blu, forse nero, forse dorato o scarlatto e puntellato di piccole luci, come se dentro la creatura vi brillassero quelle che tutt’oggi noi definiamo stelle. Si dice che avesse immense ali, maestose e sublimi, chiuse  ad avviluppare il suo corpo rannicchiato e dormiente, una lunga coda cosparsa di astri e mistiche nebulose  dai colori glaciali.
Avete capito bene, si tratta di un Drago, ma non un drago qualsiasi, assolutamente no. Un Drago con la D maiuscola, nonché origine di ogni cosa.
In realtà, sono sconosciuti anche i motivi per i quali Galassia decise di svegliarsi, nessuno ha mai potuto spiegare perché quest’entità diede vita all’esistenza, spalancando le ali e colmando ogni cosa nell’immensità profonda del vuoto.
Il tempo, lo spazio, l’universo, tutto, ogni cosa ebbe vita da quel momento, Galassia si dissolse e anche i Pianeti presero vita nello spazio siderale.
Ed è qui che arriviamo alla nostra adorata Terra, non vi rivelerò dettagli che andranno a scoprirsi nel corso del racconto, ma sappiate che tutto ciò che leggerete più avanti ha molto più a che vedere con la Leggenda di quanto potreste pensare cominciando a leggere.
Vi fiderete di me? Ma certo che lo farete, sono sicuro che lo farete, dopotutto, ora siamo amici…vero?
Spero di si e spero tanto che farete affidamento alla vostra curiosità, perché questa che segue, è la storia di un ragazzo, uno come tanti, che va incontro al suo destino, dolce o amaro che sia e, esattamente come voi, scoprirà la verità su tutto ciò che lo circonda.
-Cordiali saluti, il Drago Bianco.

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Capitolo 2
*** 18 ***


                                                                                 1



Non aveva la minima intenzione di scrivere alcunché della lezione di Filosofia che la professoressa stava tenendo con tutto quello zelo. Sbuffava ogni volta che l’insegnante si fermava per prendere una pausa di riflessione o per respirare, la lezione si stava dimostrando pedante e logorroica, non che vi fosse qualcosa di nuovo, in realtà. Per Tyler era difficile trovare qualcosa con cui divertirsi.
Afferrò più volte la matita per scarabocchiare qualcosa sul libro, per poi riposarla sul banco con un gesto svogliato della mano. Non ce la faceva proprio, l’ultima ora di lezione sembrava essere la più letale e lenta di tutte e la fortuna di una posizione strategica nell’ultimo banco, nascosto dalla vista dell’autorità grazie a trincee di zaini e compagni di classe, si rivelò praticamente nulla in confronto al lento scorrere del tempo, trascinato con forza dalle parole soporifere della professoressa che percorreva la linea della lavagna lungo la parete, per poi tornare indietro facendo accompagnare la spiegazione solo dal rumore del suo tacco. L’unico dettaglio che gli dava la percezione di essere in un mondo vero e proprio e che il tempo non fosse brinato, era quello delle nuvole che oltrepassavano il sole, generando graduali momenti d’ombra che avvolgevano la compagine della scuola come in un freddo abbraccio.
Doveva farcela, doveva resistere fino al trillare della campanella che, per quanto apparisse vicino ai sentori da carcerato di Tyler, qualcosa di estremamente fastidioso gli dava l’idea che l’attesa si sarebbe prolungata in maniera quasi struggente, ferma, eterna.
Si portò le mani a sfregare il volto con fare assonnato, ancora una volta le parole dell’insegnante tornarono su concetti già spiegati, il che fece cascare le braccia a Tyler, il quale si afflosciò debolmente sul banco facendo cozzare la fronte contro il braccio piegato. Senza cambiare posizione, si portò una mano alla tasca del chiodo di pelle e ne trasse fuori il telefonino per controllare l’ora. Mancava un quarto d’ora a l’una. Tyler strabuzzò gli occhi incredulo. Ancora quindici terrificanti, infiniti, minuti di lezione lo separavano dal riappropriarsi della propria libertà, per godersi la bellissima giornata di sole che sembrava chiamarlo con fare tentatore. Non era solito che ad ottobre vi fossero giornate così soleggiate e tiepide, non era certo ai livelli della  Primavera, ma a Tyler bastò ugualmente, perché quel giorno, finalmente, compiva diciotto anni e nulla era più delizioso della prospettiva di poter finalmente essere il capo di sé stesso, senza dover far pesare la responsabilità della tutoria a sua madre, potendo firmare le giustificazioni da solo e rispondendo lui stesso dei suoi errori.
Sotto certi punti di vista, Tyler era abbastanza maturo, sapeva  avvalorarsi dei suoi errori, non mentiva mai e diceva quello che pensava con una non modesta schiettezza.
Posò il telefonino sul banco davanti a lui, mettendolo in modo che potesse essere sempre sotto i suoi occhi azzurri che saettavano frequentemente sullo schermo per poter riacciuffare l’ora, scoprendola un po’ più avanti ad ogni sguardo che lanciava.
Passarono i primi cinque minuti  e Tyler sentì la noia corrodergli la mente, voltare lo sguardo verso la finestra chiusa non gli serviva ad altro che alimentare l’impeto della sua tortura, osservando la volta celeste con lo sguardo di un cane che assiste alla cena dei padroni senza riuscire a propiziarsi qualche sfizioso trancio di carne.  
Che noia, voglio morire, pensò sarcasticamente il ragazzo portandosi le dita alle tempie, massaggiandole dolcemente quando qualcosa  attrasse la sua attenzione.
Lo schermo del cellulare venne  oltrepassato da un bagliore soffuso, per poi attenuarsi nuovamente, tornando  all’ombrosa semioscurità del blocco. Tyler afferrò il dispositivo e fece scorrere il dito sul messaggio, quando lesse il nome del mittente, al suo cuore mancò un battito.
Era Cassandra.

Hei testone! Oggi è il tuo compleanno e, so che non ti piace festeggiare, ma sappi che non accetterò rifiuti. Vediamoci all’uscita della scuola appena suona e ti spiegherò quello che ho in mente. Baci.

A Tyler quel messaggio strappò un sorrisetto spontaneo, che si dissolse faticosamente dal suo volto marchiato dalla noia, la quale venne affievolita dal pensiero che Cassandra si era preoccupata per lui e aveva in  mente qualcosa per la sua festa di compleanno.
In realtà Tyler odiava festeggiare il proprio compleanno. Non ha mai sopportato l’idea di un giorno- o anche solo un periodo di tempo dalle due alle quattro ore- in cui tutti si concentravano su di lui e facevano di tutto per farlo stare bene.  Non gli piaceva stare al centro dell’attenzione, era un carattere molto schivo, il suo. Per quanto la maggior parte delle ragazze della scuola lo trovassero attraente o figo, lui non si prendeva mai i meriti di nulla e manteneva il silenzio per quanto più gli era possibile.
Tuttavia, qualcosa cambiò. La prospettiva di una festa organizzata da Cassandra diede una svolta particolare al suo umore e alla sua concezione della cosa, forse perché quello che faceva Cassandra per Tyler era semplicemente perfetto? Si, assolutamente si.
Tyler era sicuro dei sentimenti che provava per Cassandra, la conosceva da tantissimo tempo e la sua passione per lei era sempre stata una delle poche certezze nella sua vita, malgrado se la fosse sempre tenuta per sé, rivelandolo solo a Killian, il suo migliore amico.
Tyler rilesse il messaggio più e più volte, immaginandosi quelle stesse parole uscire dalle labbra carnose e rosee di Cassandra, unendosi all’aria per renderla melodiosa e dolce come il miele, esattamente come lui la percepiva. Tyler ci teneva alla sua facciata da cattivo ragazzo e non avrebbe mai rivelato a nessuno tutti i dettagli della sua assuefazione per la ragazza, nemmeno a Killian. Tuttavia, la sua mano si era automaticamente stretta al telefono e il suo sguardo si era perso tra le righe digitali di quel semplice e corto messaggio, mentre il sorrisetto inebetito continuava ad increspargli le labbra dalla morbida lineatura.

La campanella trillò acutamente, mitragliando il suo continuo suono perforante lungo i corridoi dell’istituto, dando il via libera ad una calca interminabile di studenti affamati che si ammassarono all’unisono nella stretta via che percorreva i piani della scuola.
Tyler afferrò lo zaino con noncuranza, se lo mise su una spalla e si gettò fuori dalla classe con una rapidità fulminea. Cominciò a farsi spazio tra gli studenti  sgomitando e spingendo, anche se la sua particolare altezza, sul metro e ottantasette, gli dava un’ampia visibilità e molti dei ragazzi si spostavano prima per farlo passare.
Tyler sapeva di far paura a molti, forse per il suo sguardo spesso un po’ truce, accentuato dal tocco lieve di occhiaie che risaltavano l’azzurro cristallino dei suoi occhi, forse lo stile metallaro, sempre fornito di chiodo e anfibi, o la sua camminata ondulatoria, spavalda e sicura di sé, che gestiva tutto quel fervore da maschio alfa grazie all’andamento delle spalle.
Prima di arrivare all’uscita, Tyler si diede un’occhiata nel vetro opaco della reception, dove la sua immagine si rifletteva perfettamente in una sua copia un po’ più ombrosa.
Quel giorno aveva deciso di tenere i capelli castano scuro all’indietro, sotto all’inseparabile chiodo, una t-shirt bianca aderente e jeans scuri con una catenella che pendeva dalla cintola sinistra, i quali orli venivano raggomitolati  e infilati all’interno del collo dei Dr.Martens malamente allacciati.
Si sorrise, sperando di riuscire a salutare Cassandra in maniera decente e non sembrando un ebete che era appena uscito da due ore di pedante filosofia.
“Che stai facendo?”
Una voce fece accelerare il battito di Tyler, il quale spalancò gli occhi e notò che alla sinistra della sua immagine riflessa nello specchio ne era apparsa un’altra, decisamente più bassa di lui.
Si voltò senza accorgersi del lieve rossore che era andato a tingergli le guance e cercò di assumere un’aria indifferente, scrollando le spalle e facendo tintinnare le molteplici catenelle che gli pendevano dallo zaino.
Era Cassandra  e stava sorridendo con aria di dolce scherno. I capelli puliti e castani che le ricadevano dolcemente sulle spalle, incorniciandole il viso ovale e dai tratti edulcorati. Una piccola frangetta le sfiorava appena gli occhi verdi foresta, così intensi e profondi che Tyler temeva di incrociarli e perdersi al loro interno.
“Allora?” Domandò, portandosi le braccia al petto, tendendo la gamba destra di lato e esponendo il fianco sinistro, assumendo un’aria da falsa sospetta.
“Sei un Narciso. Non te la sentire solo perché hai diciotto anni.”
Disse lei scherzando, dandogli un buffetto sul braccio e sorridendogli di nuovo. A Tyler scappò una risatina sarcastica. Certo, sapeva di potersi concedere determinate cose, ma sicuro non si vantava come altri ragazzi spocchiosi e inutilmente palestrati.
“Non sono un Narciso è che…”
Non sapeva cosa dire, non le avrebbe sicuramente detto che si stava guardando per non poter fare brutta figura con lei, ma lo sguardo della ragazza fece intuire a Tyler che si stava giustificando inutilmente, anche perché lei dopo, scoppiò a ridere.
“Andiamo Ty.”
Disse, lasciandolo spiazzato e afferrandolo per un braccio. I due uscirono dall’atrio della scuola e si ritrovarono nell’ampia  entrata esterna che fungeva da sosta per chi fosse arrivato prima dell’ora designata per l’ingresso.
Cassandra indicò un puntò indefinito alla destra della zona davanti a loro, dove una rampa di scale scendeva giù, fino al cortile adibito alla ricreazione.
Due figure li stavano attendendo. Un ragazzo e una ragazza. Quando Cassandra li indicò, la ragazza  si alzò rapidamente con movenze frettolose, afferrando con veemenza il braccio dell’amico, decisamente più alto di lei, per trascinarlo nel punto in cui si sarebbero presto incontrati.
“Cassy!”
Esclamò  lei correndo ad abbracciarla come se non si vedessero da una vita. Tyler alzò gli occhi al cielo, non sopportava i modi teatrali ed esagerati di Sonya, sempre così affabile in un modo che la faceva sembrare falsa, aveva sempre avuto quell’impressione di lei, ma molto meno del ragazzo  davanti a lui, Will.
Sonya  era bassetta, con capelli rosso scuro che teneva sempre chiusi in una coda di cavallo. Il volto pienotto e il corpo paffutello, i grossi occhi chiari che osservavano ogni cosa con fare curioso da dietro le lenti degli occhiali dalla spessa montatura nera.  Aveva sempre l’aria di una che ha costantemente qualcosa da dire e raccontare, probabilmente su fatti che non la concernevano affatto e che Cassandra, gentile come era, ascoltava solamente per via della sua morigerata bontà.
Will, invece, era alto più o meno come Tyler e aveva capelli mossi e scuri, color dell’ebano. Ricci scarmigliati gli ricadevano da un lato del volto allungato e pallido, sfiorandogli gli occhi color nocciola, spesso inespressivi o assenti.
“Hey Will, come va?”
Chiese Tyler con nonchalance, senza guardarlo, mentre si accendeva rapidamente una sigaretta per distendere i nervi, dato che Sonya aveva cominciato a sparare a raffica con tono petulante e acuto su come fosse andata la sua giornata. Will annuì con un gesto silenzioso del capo, non gli piaceva molto parlare, ma spesso, quando lo faceva, sapeva essere cordiale e simpatico. A Tyler non dispiaceva quel ragazzo, solo, non sembrava essere molto bravo ad approcciare con gli altri.
“Bella.”
Disse solamente, aspirando una buona dose di fumo, inalando e riempiendosene i  polmoni, mentre la nicotina si disperdeva fino al cervello, rilassandolo. Dopodiché buttò fuori socchiudendo gli occhi, generando dalle sue labbra una serie di morbide spirali cineree, che andarono a condensarsi nell’aria per poi sparire.
“Che stiamo aspettando?”
Sbraitò Sonya afferrando affettuosamente – anche troppo- Tyler e Will per le braccia e stringendoli a sé. Pose quella domanda  come se sapesse già la risposta più probabile, ma non volesse affatto che qualcuno osasse proferirla, tuttavia, Cassandra era come nel suo mondo e non vi diede peso, osservando l’ora nel telefono con aria preoccupata.
“Alice e Killian, sono…”
“Andati via.”

Sonya non le fece terminare la frase e lasciò andare la presa su Tyler e Will, i quali restarono molto vicini mentre lei si avvicinava a Cassandra con ampie falcate.
“Hanno detto che ci raggiungeranno sta sera a casa tua.”
Disse rapidamente, muovendo le labbra ad una velocità tale, che Tyler si stupì del fatto che non si mangiasse mai nemmeno una parola. Will annuì, come a voler supportare l’amica.
“Allora, che si fa?”
Domandò Tyler allontanandosi dall’amico, curioso di sapere quale fosse il programma per la sua serata speciale.
Cassandra gli scoccò un’occhiata maligna e lui alzò gli occhi al cielo, esibendo un mezzo sorriso falsamente spazientito.
“Non mi dire che è una sorpresa.”
“Oh si, lo è eccome. Tu vedi solo di presentarti a casa mia alle sette e guai a te se ritardi anche oggi.”
Scandì lei, puntellandogli un indice accusatorio sullo sterno.
“Si, si…va bene…”
Bofonchiò lui, aspirando ancora un po’ di fumo dalla sigaretta. Cassandra si allontanò disgustata, schivando gli effluvi di fumo che roteavano minacciosamente nell’aria.
“Odio quando fumi! Quella roba è fottutamente cancerogena! Sia per te, che per la natura!”
Tyler alzò nuovamente gli occhi al cielo, sbuffando fumo dalle narici, puntando il suo sguardo su quello di Cassandra, ogni tanto si permetteva di farlo, soprattutto quando lei si infastidiva o infuriava, era bellissima quando si arrabbiava. Qualcosa di mistico le brillava negli occhi con intensa foga e i suoi tratti del viso, sempre rimarcati dalla dolcezza del suo sorriso, assumevano una connotazione più dura, perentoria e questo lo faceva impazzire.
Una folata di vento fece rinvenire il ragazzo, il quale prese nuovamente memoria della bella giornata che finalmente sembrava accoglierlo a  braccia aperte. Il passaggio del vento fece spostare le nuvole verso sinistra e le interminabili braccia dorate del sole presero ad investire completamente l’edificio scolastico, ormai quasi vuoto, rimbalzando anche sui bellissimi capelli di Cassandra, sparsi nell’aria a causa della forza che questa aveva impresso  per cacciare i nembi ombrosi.
Era una visione a dir poco angelica: naturalezza, luce, spontaneità e innocenza. Tyler sapeva di non essere un ragazzo completamente bravo, aveva anche lui i suoi demoni ovviamente, cose che stagnavano nel profondo della sua anima e che teneva soltanto per sé. In qualche modo sentiva che questi lati ombrosi gli impedissero di ottenere un ricambio di sentimenti da parte di Cassandra, che lo rendessero poco degno della sua bellezza angelica. Ma in realtà c’era anche il fatto che avevano stretto amicizia da moltissimo tempo e  che il loro legame era diventato quasi indissolubile. Un quasi, naturalmente causato dal fatto che Tyler non poteva sapere se Cassandra lo ricambiasse o meno e sarebbe bastato un solo passo per saperlo, scoprendo finalmente tutte le carte, ma mettendo anche a serio rischio la loro amicizia e tutto quello che avevano costruito assieme.
Purtroppo l’attimo magico passò, quando Sonya frappose il suo tondeggiante faccino tra lui e Cassandra, facendo sobbalzare Tyler per lo spavento mentre Cassandra cercava di domare distrattamente la propria chioma  castana, senza essersi apparentemente accorta del fatto che lui si fosse nuovamente perso a contemplarla nella sua idilliaca bellezza.
“Allora hai capito!? Alle sette eh!”
Sbottò lei e  quando il suono acuto e perforante della sua voce gli raggiunse i timpani, per poco non le spense la cicca sul naso.
“Si, grazie Sonya.”
Asserì, sforzandosi di essere gentile,  allargando un sorriso così forzato che persino i suoi occhi tentavano di far scintillare la veridicità  del suo fastidio, come se questa fosse spinta dalle guance tirate a causa dell’inarcamento forzato delle labbra. Quella ragazza aveva la dote di essere sempre nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, ma Tyler tentò di non darvi peso.
“Lo terrò saldamente a mente.”



Angolo dell'autore:
Allora, tanto per iniziare, salve a tutti: chiedo scusa in anticipo se i capitoli non saranno particolarmente lunghi, ma sto cercando di concretizzare qualcosa e per non generare sbalzi di lunghezze tra i capitoli, mi sono imposto una determinata dimensione che, a parer mio, è abbastanza... abbordabile(?)

Detto questo, spero che l'inizio sia quantomeno guardabile e spero anche di non essermi perso degli errori (o orrori) per strada ^_^/

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Capitolo 3
*** The call ***


                                                                                   2




L’abitazione di Tyler risiedeva in un armonioso quartiere di case,  distanti una buona mezz’oretta di viaggio dal centro città.  Le case erano tutte minimo a due piani e le mura che le formavano  avevano tutte tonalità di colori caldi o  semplicemente bianche, anche se il colore più comune era quello dei mattoni che ricoprivano le facciate principali.
Erano tutte munite di un piccolo garage e un giardino che circondava la struttura, separando  ogni abitazione con delle staccionate di legno.
Il quartiere di Tyler, in realtà, era più una sottospecie di enorme viale che conduceva alla periferia più remota, oltre una fitta foresta che stava ai piedi delle alte montagne che delimitavano in lontananza il confine del paese.
Era stata sua madre a decidere di spostarsi dal centro per andare a vivere in quel quartiere, come se i vari colori delle case l’avessero in qualche modo convinta con la loro aria accogliente e cordiale. In realtà la decisione di trasferirsi era stata presa anche perché la donna era convinta che il centro città fosse un luogo che istigava ad una certa violenza e apatia sociale, perché non tutti si conoscevano tra di loro e non tutti potevano fare amicizia, come invece accadeva nel quartiere dove i sorrisi dei vicini erano all’ordine del giorno, così come le orecchie tese del primo passante, per ascoltare i fatti altrui e spifferarli in giro.
Tyler condusse la propria auto lungo l’ampio viale,una mano sul volante e l’altra a pendere fuori dal finestrino con la sigaretta accesa stretta tra l’indice e il medio, scorrendo lentamente sulla strada vuota  e asfaltata, oltrepassando quella serie infinita di edifici tutti uguali.
Le strutture delle case avevano una sorta di schema che prevedeva una base in legno, con un piccolo ballatoio che dava sul giardino, dove spesso i vecchi sostavano per leggere o risposarsi all’aria aperta. Poi, un grosso blocco che poteva essere di qualsiasi materiale che riuscisse a sostenere la frequente pioggia autunnale e il vento primaverile e a seguire un classico tetto a mansarda, dove spesso e volentieri fuoriusciva un piccolo caminetto, adoperato solo durante le giornate più fredde dell’inverno.
Proseguì terminando il primo isolato,  la quale fine sembrava essere volutamente segnata dalla presenza di un palo telegrafico totalmente distrutto. Ogni volta che lo vedeva, Tyler si sentiva meno in ansia perché stava a significare che casa era finalmente vicina.
Non sopportava scorrere in auto sotto agli occhi dei vicini, erano sempre tutti pronti a salutarlo o a fermarlo per chiacchierare, anche se si trovava nella sua vecchia e fidata vettura dalla cromatura scarlatta ormai sbiadita dal tempo e ogni tanto un po’ traballante.  Anche se lo fermavano, lui non mancava mai di essere gentile o quantomeno cercava di non dare a vedere quanto gli importasse poco stare lì ad ascoltare i problemi delle vecchiette che hanno smarrito i loro maledettissimi gatti, i quali avevano semplicemente preso la decisione di vivere una vita solitaria, piuttosto che fare da fulcro di attenzioni per vecchiette piene di rimorsi e set di tazzine da caffè.
Per fortuna, però, al suo ritorno nessuno oltrepassò il marciapiede per fermarsi con lui parlare, dopotutto aveva già fatto il pieno quella stessa mattina e già se lo aspettava; figurarsi se al giorno del suo diciottesimo compleanno, i suoi adorabili vicini non si  prendevano la briga di elargirgli enormi sorrisi radiosi e tentativi di regali con vecchi vestiti di nipoti o figli ormai troppo grandi per indossarli e lui doveva ringraziarli, ringraziarli profondamente e sorridere, sorridere e sorridere ancora.
Tyler odiava l’ipocrisia e non sopportava l’idea di dover mettere una maschera, ma sapeva che in certi casi era giusto così. Per il quieto vivere suo e di sua madre, quantomeno, perché semmai fosse stato scortese con qualcuno dei vicini, sicuramente l’intero quartiere lo avrebbe saputo nel giro di un paio d’ore.

Quando Tyler arrivò a casa, compiendo in una volta sola i tre gradini che portavano al ballatoio di legno, la quale tettoia scura era sostenuta da piccole colonne striminzite e dalle forme arzigogolate, si chiuse la porta alle spalle e non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca per salutare la madre, che la donna gli fu subito addosso.
Era una donna bassa e tarchiata, indubbiamente molto più bassa del figlio. I capelli neri e scarmigliati le ricadevano sul volto sporco di farina come le mani, aveva occhi azzurri esattamente come il figlio, tratti induriti dalla stanchezza di un lavoro che ti porta via le energie, seppur dal profitto indispensabile. Malgrado i segni della stanchezza, lo sguardo della donna sembrava essere acceso da un ilare fervore e il sorriso stampato sulle labbra rosse ricordava a Tyler che sua madre era ogni giorno sempre  più vicina a diventare come i suoi maledettissimi vicini, più che ad un essere umano.
“Buon giorno mio piccolo festeggiato!”
Esclamò ilare la donna, andando ad avvolgere il busto del figlio in un abbraccio tritura costole. Tyler ebbe un singulto profondo e portò debolmente una mano sulla spalla della madre, accarezzandola.
“Sono tornata presto oggi!”
Disse la donna allontanandosi, esibendo un sorriso a trentadue denti, mentre Tyler si spazzava via la farina dal chiodo e dallo zaino.
“Lo vedo.”
Commentò sarcastico lui, liberandosi del giubbotto e lasciando afflosciare lo zaino sul parquet.
“Ti ho preparato una torta da portare da Cassandra questa sera!”
Aggiunse saltellando in modo gaio, sembrava veramente più entusiasta del figlio riguardo al festeggiamento del compleanno e sprizzava energia da tutti i pori.
Tyler spalancò gli occhi incredulo mentre affiggeva con noncuranza il giubbotto sul appendiabiti di legno.
“E tu come fai a saperlo?”
Disse, seguendo la madre in cucina percorrendo uno stretto corridoio che si interrompeva sull’immenso salone bianco, a destra e a sinistra portava al piano di sopra tramite delle scale di legno dal lucido corrimano, prima di continuare lungo la cucina, che stava proprio oltre al muro che delimitava la fine del salone.
La cucina era avvolta da una cappa di farina e Tyler dovette stringere gli occhi per distinguere la figura bassa della madre che armeggiava con gli utensili nel lavandino. L’unica cosa che fendeva quello svolazzante biancore erano la luce a neon che scintillava ronzando nella lampadina del soffitto e il bagliore emanato dal forno, che sembrava distendere ovunque  nella stanza un delizioso e caldo profumo di cioccolata.
“Beh, l’ho sentita ieri sera per telefono, mentre tu eri di sopra a studiare con Killian.”
Tyler inarcò le sopracciglia facendosi sfuggire un sorrisetto divertito. Studiare non era esattamente il passatempo adottato da lui e il suo amico, ma era meglio che sua madre non lo sapesse.
La donna tornò alla carica uscendo dalla fuliggine farinosa, aveva le mani bagnate e una fascetta che le portava all’indietro i capelli scuri, lasciandole la fronte libera, madida di sudore.
Sorrise.
“Come è andata a scuola?”
“Al solito.”
“Hai visto Cassandra? Come stava?”

Tyler sollevò gli occhi al cielo, spazientito da tutte quelle domande.
“Perché mi fai tutte queste domande su di lei?”
Domandò cercando con lo sguardo oltre alle spalle della madre, per vedere se vi era qualcosa di sfizioso per pranzo, anche se l’odore di cioccolato e la condensa, gli aveva fatto immaginare che il tempo di sua madre non fu relativamente sufficiente per fare sia la torta che il pranzo.
“Oh!  scusa se voglio sapere come sta’ la futura compagna di mio figlio.”
Disse lei, ridestando Tyler dai suoi pensieri di lupo affamato. Il ragazzo scosse il capo e guardò la madre con sguardo totalmente alieno. La sua cotta per Cassandra era qualcosa che aveva tenuto interamente per sé,  solo a Killian aveva accennato qualcosa, senza ovviamente dare dettagliate spiegazioni riguardo a quanto lo facesse sentire completo il solo poterla veder sorridere.
“Non guardarmi con quella faccia da stoccafisso! Una madre certe cose le sente!”
Aggiunse con una risatina maliziosa, dando una lieve pacca sulla spalla di Tyler, che non disse nulla per evitare fare in modo che la conversazione si concludesse il prima possibile.
“Vieni, ti ho tenuto da parte qualcosa per pranzo.”
Margery, sua madre, girò i tacchi, assicurandosi la sua più totale attenzione. Era evidente che anche lei non voleva fare leva sul discorso, tanto era certa di avere ragione.
Tyler la seguì a ruota, lei gli chiese di aprire una finestra e lui obbedì, allungandosi verso le ante in vetro alle spalle del tavolo da pranzo, quando le spalancò, l’aria esterna parve risucchiare completamente la cappa di fumo e farina sollevata dall’operato della donna, liberando i dettagli della cucina ora più nitidi.
Le pareti erano decorate da  carte da parati color panna, le piastrelle del pavimento erano di un beige chiaro e si intelaiavano tra loro formando una scacchiera obliqua a lisca di pesce.
Tyler sentì il venticello esterno oltrepassare le finestre, facendo ondeggiare le piccole tende arancioni affisse alle ante in legno verniciate di bianco. Il fresco contrapposto alla lieve calura della cucina lo fece sentir meglio, ma mai quanto il piatto di carne mista che gli presentò Margery quando si sedette. Afferrò rapidamente forchetta e coltello e cominciò ad ingozzarsi senza dire una parola, mentre sua madre ripuliva rapidamente il lavandino da tutte le stoviglie sporche.

Tyler finì di mangiare abbastanza in fretta e non appena ebbe bevuto una buona dose d’acqua, si fiondò in camera sua al piano di sopra, percorrendo gli scalini a due a due.
Doveva scegliere qualcosa da mettersi,  anche se né lui né Cassandra erano tipi da giacca e cravatta o abito nero, però voleva avere qualcosa di più particolare da mettere, il che si limitava alla scelta di una maglietta in particolare, dato che non si  sarebbe liberato del chiodo e questo Cassandra lo sapeva molto bene.
Raggiunse il corridoio alla fine delle scale. Un piccolo corridoio cosparso di mensole e tavolini accatastati al muro si dilungava da camera di sua madre a camera sua,  la porta del secondo bagno era proprio  nel muro affianco alla fine delle scale, e la camera di Tyler era preceduta da una portafinestra lunga e slanciata, che prendeva tutto lo spazio della parete.
Tyler entrò in camera sua e fu lieto di scoprire che sua madre non vi aveva messo minimamente becco; il solito disordine maschile regnava incontrastato in quei  dieci metri quadri. Le pareti tappezzate di poster delle band di Metal più famose dalle rock star meno in auge, fino ad arrivare alle locandine dei suoi film preferiti. Un letto a due piazze era disteso davanti all’entrata, le coperte bianche arrotolate in un confusionale cumulo di caotici lembi. Davanti al letto, una sedia e una scrivania sopra la quale torreggiava una piccola libreria sospesa con tutta la sua raccolta di romanzi Fantasy e drammatici, affianco ai fumetti di tutte le tipologie: manga, Marvel, DC e quant’altro.
Le persiane erano semichiuse davanti alle finestre aperte e una flebile luce grigiastra filtrava dalle fessure sinuose e strette, lasciando la camera nella fitta penombra che incorniciava il disordine generato dalle cianfrusaglie, dando al tutto un carattere quasi apocalittico, come se in quella stanza vi fosse appena stata un’epica battaglia.
Tyler spalancò le persiane della finestra sopra al letto e l’immensa luce della giornata lo accolse inondandolo come un fiume in piena, gettando la sua ombra alle sue spalle, lungo il pavimento cosparso di fumetti. Assaporò l’aria esterna avvertendo un senso di libertà magnifico.
Finalmente aveva diciotto anni, non smetteva più di ripeterselo e il fatto che Cassandra avesse pensato di organizzare una festa per lui rendeva il festeggiamento a dir poco splendidamente sopportabile.
Si perse ad osservare le nuvole lontane che sfioravano gli apici delle montagne oltre la foresta con il loro manto candido.  Le braccia conserte sul cornicione in legno delle finestre, le gambe incrociate coi piedi appena fuori dal letto.
 Gli servivano quei momenti di riflessione, lo aiutavano a mettere in ordine le idee-  piuttosto che la stanza-. la sconfinata distesa azzurra era completamente uniforme, almeno finché non arrivava a toccare le montagne frastagliate che pendevano fino alla fitta foresta, la quale andava a perdersi dalla vista di Tyler, nascosta dietro i molteplici ammassamenti di case.
Tyler si ritrasse subito non appena avvertì il telefonino vibrare nella tasca dei jeans, fece una smorfia delusa estraendolo, osservando che il mittente della chiamata non fosse Cassandra.
Una parte di lui sperava sempre che fosse lei alla cornetta ogni volta che il suo telefono vibrava, adorava quando era lei a pensarlo, ma non era il tipo da farsi strane illusioni o cominciare ad assillare qualcuno solo per sentirla, lui amava quando le cose operavano per un corso imperscrutabile, per la volontà di qualcosa di più grande.
Osservò il display e notò che il numero era sconosciuto, non era Killian e tantomeno Sonya (e fu grato di quest’ultima constatazione), dal prefisso sembrava che la composizione formasse un numero estero. Aggrottò le sopracciglia e rispose.
“Pronto?”
Disse, quasi fosse più  una domanda che un’affermazione. Quando la persona dall’altra parte del telefono rispose, Tyler sentì un forte nodo stringergli la gola.
“Ciao figliolo.”
Era una voce calda, baritonale, profonda. Non l’aveva mai dimenticata e per nessun motivo al mondo l’avrebbe scordata in futuro. Era suo padre.
Tyler rimase quasi boccheggiante, in un misto di stupore e rabbia che cominciò a scombussolargli la testa. Voleva urlargli di tutto per aver abbandonato lui e sua madre quando le cose si erano messe male con i soldi, voleva buttargli il telefono in faccia e per un attimo, il terribile impulso di scaraventare l’arnese fuori dalla finestra gli oltrepassò la mente in un lampo di dissennata ira, ma quando suo padre riprese a parlare, tutto venne vanificato.
“Ti ho chiamato per farti gli auguri, Tyler. Sei un vero uomo ormai.”
Ancora una volta Tyler rimase senza fiato. Per un attimo avrebbe voluto ringraziarlo e dirgli che in realtà gli mancava da morire. Erano anni che non lo vedeva e che non sentiva la sua voce, anni che non avvertiva l’affetto e il calore di un padre, che non praticava quelle attività Padre-Figlio, come andare a vedere le partite di Baseball, pescare o bere una birra assieme davanti alla TV. Niente di tutto questo gli era stato concesso, perché gli unici ricordi di suo padre si limitavano ad un “ Mi dispiace” prima che l’uomo varcasse la soglia di casa, lasciando sua moglie in lacrime e un ragazzino che dovette crescere troppo in fretta per aiutare sua madre a non varcare il profondo baratro della depressione.
“Hai una bella faccia tosta, lo sai? Non me ne faccio un cazzo dei tuoi auguri!”
Esclamò furioso, lieto che fosse stata la rabbia a prendere il controllo delle parole; voleva che sapesse quanto male gli aveva fatto, voleva che sentisse il rancore e l’astio che gli aveva lasciato.
“Lo so, Tyler, lo so. Ma un giorno capirai…la mamma come sta’? Ti prendi cura di lei?”
“Molto meglio di quanto abbia fatto tu.”

Rispose con una freddezza che lo lasciò quasi spiazzato, era sicuro che avrebbe proseguito sulla linea della collera, sfogando tutti quegli anni di soppresso risentimento che avevano stagnato in lui fino a macerare nell’odio più puro. Invece no. Fu algida apatia a intonare le sue parole e in qualche modo si sentì ugualmente soddisfatto.
Un lungo e imbarazzante silenzio si distese tra i due, ma Tyler sapeva che suo padre non aveva riattaccato, sentiva i suoi respiri grevi e profondi, come se stesse cercando di trattenere qualcosa.
“Dovete andarvene di li.”
Disse l’uomo di punto in bianco. Tyler cadde letteralmente dalle nuvole e spalancò gli occhi. Avvertì un peso insolito gravargli sulle spalle, mentre la profondità delle parole di quella frase presero a vorticargli rapidamente nella testa, come se dentro di essa si fosse appena scatenato un ciclone.
Tyler provò a parlare, ma la confusione  sembrava occludergli ogni via di risposta. Fece per aprire bocca quando la sua mente fu abbastanza in ordine, ma suo padre lo intercedette.
“Ti voglio bene Tyler. Addio.”
E il rumore del centralino cominciò ad assediare l’orecchio del ragazzo, afflitto dallo sgomento, dall’impossibilità di quell’assurda chiamata. Che suo padre avesse perso il senno? Cosa diamine voleva? Era sicuramente una situazione fuori dal comune, non aveva la più pallida idea di come gli era saltato in mente di piombare nuovamente nella sua vita con una telefonata simile, come un fulmine a ciel sereno.
Tyler allontanò il telefono, osservandolo con aria stranita. Si concesse un profondo respiro prima di sedersi sul bordo del letto a riflettere, per decidere se fosse il caso di avvisare sua madre, o quantomeno di prendere in considerazione il bieco avvertimento che suo padre gli aveva elargito.
No. Non se la sarebbe cavata così. Dopo anni che non si faceva sentire o vedere, credeva di poter rispuntare dal nulla ed elargire frasi senza alcun senso?  Decise di gettare il telefono lungo il letto, risparmiando all’innocente aggeggio elettronico un volo oltre la finestra e contro l’asfalto del vicinato. Si portò le braccia dietro al capo mentre distendeva il busto sul materasso morbido.
Puntò lo sguardo sul soffitto illuminato dalla luce esterna e per un attimo pensò che tutta la giornata era andata a farsi benedire, se non fosse stato per Cassandra, molto probabilmente sarebbe andata così, ma decise di cancellare quell’evento per il bene di tutti, sua madre si sarebbe risparmiata una buona dose di stress e, Tyler ne era sicuro, di pianto, una volta assicuratasi di essere sola.
Sapeva che anche lei risentiva molto della mancanza di suo marito, per quanto tentasse di essere felice, una parte di lei se n’era andata quella notte di  molti anni prima e quella certezza aveva sempre stimolato Tyler a stare affianco a sua madre ogni giorno sempre di più, non per cose sciocche come – Essere l’uomo di casa- ma per essere il figlio che Margery meritava.
Forse prendeva troppo rigidamente le responsabilità della vita, forse non riusciva a non farsi carico dei problemi dei più deboli, soprattutto se si trattava di persone a lui care, ma non poteva farci nulla, era fatto così.
 

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