Arriveremo alla Fine di Tutto

di Abigail_Cherry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***



Capitolo 1
*** Uno ***


 

Uno

 

È difficile vivere in un mondo in cui ti senti diversa. Anzi, in cui sei diversa.

Però, in un certo senso, senti di stare facendo la cosa giusta, anche se gli altri continueranno a guardarti male.

“Stecchino” mi chiamano gli altri, accompagnati da un sorriso maligno.

Li odio.

Cerco di ignorarli, anche se quell'offesa mi rimane ogni volta, marchiata sul cuore, quel cuore ormai fin troppo stufo di essere torturato.

Mi sono detta: “Non mi importa. Non voglio essere come loro. So che starei meglio socialmente, ma mi importa più la mia salute.” questo pensiero lo porto dentro da dieci lunghi anni, dal giorno in cui mia madre cominciò ad aver bisogno della sedia a rotelle automatica per muoversi. Ho pianto per giorni. Il fatto che mia madre non avrebbe più potuto camminare significava non poter più giocare insieme, passeggiare sulla spiaggia o su un semplice prato... mi manca.

Adesso mia madre pesa 213 kg, ed è per colpa del suo peso che non cammina più.

<< Sorellina! >> mi chiama Gustave, mio fratello maggiore. Ha ventitré anni, pesa 130 kg e frequenta l'università online. Una volta, ho letto, i ragazzi frequentavano la scuola fuori casa. Ora, invece, si frequenta online, volendo si potrebbe non uscire mai di casa, molti lo fanno.

<< Muoviti o farai tardi! >> continua Gustave.

<< Arrivo! Dammi solo un minuto! >> rispondo, ma le mie parole devono sembrare confuse, dato che stringo una spazzola fra i denti, con le mani impegnate a sorreggere i capelli per farmi una coda decente.

Sento dei passi avvicinarsi alla porta della mia camera. Mi tolgo la spazzola dai denti e urlo: << Non entrare! >> ma, ovviamente, Gustave entra lo stesso, squadrandomi da capo a piedi.

<< Un minuto?! >> esclama << Sei ancora in mutande! >>.

<< Zitto! >> gli urlo, afferro uno di miei pupazzi e glielo lancio addosso. Lui dopo un'istante ride. << Piuttosto... >> continuo, senza neanche cercare di coprirmi quei due stuzzichini che ho come gambe, perché tanto non attrarrebbero neanche l'uomo più disperato. Prendo due gonne di colore diverso e gliele faccio vedere << ...rosso o verde? >>.

<< Mmm... verde. >> mi risponde lui.

Sorrido. << Vada per il verde, allora. >> indosso la calzamaglia, poi la gonna ed infine le scarpe << Sono pronta! >> annuncio, dopo essermi sistemata con cura la camicia.

<< Bene, andiamo! >> dice Gustave. Mi afferra un polso e mi trascina fuori casa.

Oggi sarà una giornata orribile.

Vorrei che papà fosse qui con me. Da quando è morto, una parte di me è morta con lui. Non mi sono ancora ripresa del tutto. Dannato diabete!

Gustave mi conduce fino alla macchina e mi fa accomodare sul sedile posteriore, lui si siede davanti al posto di guida, con mia madre affianco.

Cercano tutti di sembrare felici in questa giornata, so che lo fanno per me. Sappiamo tutti fin troppo bene che mi succederà qualcosa di terribile oggi. Ma la cosa che ci terrorizza più di tutte è che non sappiamo cosa sia questo “qualcosa”. Tuttavia, non mi pento della mia decisione. Sono fiera di non essere normale, di essere sottopeso, ho deciso di essere brutta per vivere più a lungo. Non ci vedo niente di sbagliato.

Dopo circa venti minuti arriviamo all'edificio. “Controllo peso” c'è scritto sopra a grandi lettere. Scendiamo tutti dalla macchina, dopo aver aiutato mamma a sistemarsi sulla sedia a rotelle, e ci avviamo verso l'interno dell'edificio.

Appena entrati, una persona in divisa, seduta alla propria scrivania, ci ferma. << Buon pomeriggio, signori. >> ci dice.

<< Buon pomeriggio. >> rispondiamo in coro noi tre.

<< Siete qui per il controllo peso? >>.

<< Sì. >> risponde mia madre con uno spillo di tristezza nella voce. Poi fa un gesto con la mano per indicarmi << Mia figlia, Charlotte Mason. >>.

L'uomo mi dà una veloce occhiata, poi digita qualcosa sul suo computer. << Eccoti qui. >> dice poi. << Charlotte Mason, nata a Greenwich il 18 Marzo 2082, diciotto anni, finiti da poco gli studi e...oh. >> l'uomo in divisa si blocca un attimo << Mi dispiace. Sei la prima del giorno che... scusa, non dovrei, non sono affari miei. >> si schiarisce la voce, prende un pezzo di carta, ci scrive sopra e poi me lo porge << Sei il numero 328. Adesso saluta la tua famiglia, poi vai dritto, svolta a destra e poi di nuovo a destra. Capirai di essere arrivata quando vedrai dei ragazzi più o meno della tua età , siediti con loro ed aspetta che chiamino il tuo numero. >> esita un attimo prima di aggiungere: << Buona fortuna, Charlotte. >>, poi torna a guardare il suo computer.

Mi giro verso mia madre e mio fratello ed osservo i loro volti tristi. I miei occhi vengono appannati da un velo di lacrime.

Mi abbasso su mia madre e le stampo un bacio sulla fronte << Ti voglio bene, mamma. >> le sussurro. Lei mi stringe in un abbraccio ed inizia a piangere, io riesco a trattenermi appena, ma con mio fratello sarà più dura.

Mi giro verso di lui e restiamo a fissarci qualche istante, poi ci stringiamo in un forte abbraccio. Si avverte la tristezza, l'amore, la malinconia.

<< In bocca al lupo, stecchino. >> mi dice, strofinando una mano sulla mia schiena.

Sorrido. Quando è lui a chiamarmi così non mi sento neanche lontanamente offesa, è un gesto d'affetto, un nostro piccolo gioco. Solo nostro. Mio e di Gustave.

<< Crepi il lupo! >> gli rispondo, e dopo quella frase scoppio in lacrime.

Che cosa succederà una volta che avrò attraversato quei corridoi?

Voglio delle risposte, ma allo stesso tempo ho paura di saperle. Ma, belle o brutte che siano, tra poco le avrò.

Saluto la mia famiglia avendo nel cuore il sentore che non li rivedrò mai più. Mi allontano velocemente, prima che la tristezza mi avvolga tra i suoi pungenti petali.

Addio.

 

Quando, un paio di settimane fa, ricevetti la lettera a casa, non ci scrissero che cosa avremmo dovuto affrontare. Diceva solo: “Charlotte Mason ha compiuto ormai diciotto anni, perciò le abbiamo fissato l'appuntamento per il controllo peso il 21 Giugno 2100. Nel caso sua figlia non potesse presentarsi perché malata, mandare un'e-mail all'indirizzo sottostante e le invieremo una seconda lettera con una diversa data. Nel caso la signorina Mason non dovesse presentarsi senza giustifica alcuna, saranno presi provvedimenti. Cordiali saluti, il vostro presidente Marchand.” ma quei famosi “provvedimenti” nessuno sa che cosa siano in realtà.

Ed eccomi qui, seduta, in attesa che venga chiamato il mio numero, assieme a quattro altri ragazzi.

Noto subito che sono l'unica preoccupata, tre giocano coi loro cellulari, uno ascolta musica, io gioco nervosamente con le dita.

Chiamano il mio numero.

Dopo qualche attimo di esitazione, mi alzo in piedi sistemando le pieghe della gonna e della camicia. Respiro profondamente, le mani sudate, mi avvio verso la porta e la apro.

Vengo accolta dal sorriso di una donna in camice bianco che, appena mi vede, si rattrista per un istante, tornando poco dopo sfavillante << Charlotte Mason, giusto? >> mi chiede. Annuisco e mi avvicino a lei. << Io sono Miriam. >> continua << Ti spiegherò brevemente cosa succederà adesso. >> fa un respiro. Io, invece, trattengo il mio. << Adesso dovresti spogliarti e salire su quella bilancia. A seconda del tuo peso, dopo esserti rivestita, andrai a destra... >> ed indica un'arcata con margine rosso sulla destra della stanza << ...o a sinistra. >> e ne indica un'altra azzurra sulla sinistra della stanza << Domande? >>.

<< S-sì... perché devo spogliarmi? Insomma... indosso solo un paio di cose leggere. >> dico, giocherellando con l'orlo della mia gonna. Quanto sono imbarazzata!

<< Temo proprio di sì, Charlotte, è la procedura. Che io sappia, nascosto sotto i vestiti potresti avere un peso che ti aumenterebbe il risultato della bilancia. >>.

<< Capisco. >>.

Così, esitante, comincio a spogliarmi davanti a quella perfetta sconosciuta. La gonna, la calzamaglia, le scarpe, la camicia e la biancheria... tutto finisce sull'attaccapanni. Mi avvicino lentamente alla bilancia e la fisso come se fosse la mia peggiore nemica.

<< Quando vuoi. >> mi dice la dottoressa.

Faccio un respiro profondo, poi salgo sulla bilancia, nuda e vulnerabile. I miei piedi avvertono il gelido metallo ed un brivido mi fa vibrare tutto il corpo. Guardo il mio peso aumentare ed aumentare fino a fermarsi, purtroppo troppo presto.

La bilancia segna 55 kg.

Segno che non ho passato il test.

 

<< 55 kg. >> legge la dottoressa con una punta di amarezza << Rivestiti. >> si gira verso il suo computer e comincia a digitare qualcosa.

Mi dirigo verso i miei vestiti e li raccolgo, rivestendomi poco alla volta.

<< Inviata. >> fa la dottoressa.

<< Cosa? >> chiedo, allacciandomi l'ultimo bottone della camicia.

<< L'e-mail. >>.

<< L'e-mail? >>.

<< Sì. Ora, vai a sinistra. >> dice, indicandomi l'arcata azzurra.

<< D-dove mi porterà? >> chiedo, con il cuore che mi batte all'impazzata.

<< Tu... segui solo il corridoio, poi ti saranno date altre istruzioni. Fai tutto ciò che ti diranno e non ci saranno ripercussioni, chiaro? >>.

Annuisco, incapace di pronunciare nessuna parola, e mi avvio verso l'arcata azzurra. Prima di varcare la soglia, sento la voce della dottoressa che mi dice: << Buona fortuna, Charlotte. >>.

È la seconda persona che oggi me lo dice.

Ciò che succederà dovrà essere davvero orrendo. Non mi hanno semplicemente detto “Buona fortuna”, ma hanno usato il mio nome. Il mio nome! Come se si sentissero vicini a me.

Percorro lo stretto ed umido corridoio, illuminato solo da poche lampade fioche, che mettono tutto in penombra.

Continuo a camminare, ripensando a quante innumerevoli volte la mia famiglia mi abbia cercato di dissuadere dal restare sottopeso, sapevano che altrimenti non sarebbe finita bene... e lo sapevo anch'io. Ma l'ho fatto lo stesso. Non volevo ritrovarmi morta già a cinquant'anni per colpa di un infarto. Non mi importa se in questo modo sarò brutta e non accettata, perché io voglio vivere più a lungo possibile.

<< Signorina Charlotte Mason. >> sento dire da una voce meccanica.

Un androide.

Da quando sono nata ci sono sempre stati. Sono abituata alla loro presenza, si occupano di compiere i lavori più faticosi. Ad esempio: consegnano la spesa, la posta, fanno le pulizia in casa, a volte curano anche i bambini. Ovviamente tutto a pagamento, solo i più ricchi se ne possono permettere uno personale.

<< Sono io. >> affermo.

<< Da questa parte. >> mi indica con un gesto di seguirlo ed io eseguo.

Camminiamo ancora qualche secondo prima di arrivare ad una porta. L'androide la apre e vedo finalmente la luce del sole.

Sono uscita.

Non faccio in tempo ad esprimere la mia gioia che l'androide mi afferra il braccio, trascinandomi fino ad un furgone col portellone aperto.

Mi aiuta a salire e poi chiude il portellone, lasciandomi al buio.

Respiro affannosamente, paralizzata dalla paura.

Devo pensare, riflettere, ma questo ambiente buio e ristretto mi soffoca. Batto più volte le mani sulle pareti, urlando, ma nessuno sembra sentirmi.

Dopo vari e disperati minuti di tentativi, mi raggomitolo in un angolo e dondolo avanti ed indietro, cercando di ristabilire il controllo del mio respiro.

Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro.

Continuo così per svariati minuti prima di riuscire a calmarmi.

Ora riesco a pensare.

Facciamo il punto della situazione: sono chiusa dentro un furgone sola ed al buio, nessuno sembra sentirmi urlare ed il furgone non è in moto. Cosa posso fare?

La risposta mi appare lampeggiante davanti agli occhi subito dopo: ho il cellulare.

Lo tiro fuori dalla tasca della gonna e lo accendo.

Digito subito il numero di Gustave. Avvicino il telefono all'orecchio ed aspetto, ma la chiamata non ha mai inizio. Guardo lo schermo del cellulare. ASSENZA DI SEGNALE. Lampeggia insistente sul display. Irritata, lancio quell'inutile aggeggio a terra. Poi mi sdraio e chiudo gli occhi, tentando di prendere sonno.

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Capitolo 2
*** Due ***


Due

 

Non so se siano passati minuti o ore quando vengo svegliata dal rumore del motore del camion che si accende.

Mi siedo, ancora ad occhi socchiusi, analizzando confusa le informazioni che arrivano dall'esterno: c'è della luce, adesso, una piccola lampadina che riesce ad illuminare buona parte del camion. Mi guardo attorno fino a trovare il cellulare e guardo l'ora. 21:30. Ho dormito ben cinque ore!

<< Dove mi state portando? >> urlo, sicurissima del fatto che possano sentirmi.

Ma nessuno mi risponde.

Decido che posso solo aspettare che qualcosa accada, così resto seduta, immobile, e dopo parecchi minuti, comincio anche a canticchiare qualche stupida canzone per ammazzare il tempo.

Alla terza strofa della quinta canzone il camion si ferma e l'androide di prima apre il portellone.

Mi costringo a muovere le gambe. Mi alzo e scendo dal furgone con un piccolo salto. L'androide mi costringe a seguirlo finché non entriamo in un edificio scuro, o forse è solo la notte che lo riflette così.

L'interno dell'edificio somiglia quasi ad un ospedale: le pareti sono azzurre e bianche ed il pavimento è a piastrelle chiare, solo... non ci sono finestre.

Percorriamo un paio di corridoi poi ci fermiamo davanti ad una porta, affiancata da molte altre lungo il corridoio. << Questa è la sua stanza. La prego di consegnarmi i suoi effetti personali. >> dice il robot, tendendo una mano a palmo aperto. Gli consegno il cellulare e le chiavi di casa (non ho altro con me) e lui mi costringe ad entrare nella mia nuova camera. << La sveglia sarà domani mattina alle dieci. >> continua lui. << Indossi i vestiti che troverà sul suo letto prima di presentarsi a colazione, che sarà servita alle dieci e mezza in mensa. Dalle 22:00 fino alle 10:00 la sua stanza sarà chiusa a chiave e non le sarà permesso uscire dalla stanza, mentre dalle 10:00 alle 22:00 potrà andare dove vuole, ovviamente senza uscire dalla struttura e nei limiti a lei concessi. Domande? >>.

<< No. >> rispondo, scuotendo leggermente la testa.

<< Molto bene. Le auguro una rilassante nottata, signorina Charlotte. >>.

 

Dite pure quello che volete, ma i vestiti che sono obbligata ad indossare sono davvero tristi: un camice azzurro, composto da pantaloni con elastico e una maglietta a maniche corte, entrambi larghi e leggeri, mutandine bianche taglia “XXS” (che, una volta mi hanno detto, corrispondeva ad una “S”), niente reggiseno (ma decido di tenere il mio perché altrimenti mi sentirei terribilmente a disagio) e delle scarpe bianche di tela.

Mi guardo alla specchio storcendo la bocca. Okay, non sarà il massimo ma devo ammettere che questo completo non mi sta particolarmente male.

Non so che ore siano esattamente, ma lo capisco dallo scattare della serratura della porta: le 10:00. Posso uscire.

Appena mi avvicino alla porta quella si apre e oltrepasso la soglia per poi ritrovarmi in un corridoio affollato da numerosi ragazzi.

Allora non sono sola...

Osservo la massa che cammina in una sola direzione: maschi, femmine, camici azzurri, verdi, viola e la maggior parte sottopeso.

Continuo a guardarli ancora qualche secondo prima di cominciare a correre, ma dalla parte opposta alla loro.

Passano svariati minuti prima che io trovi un corridoio vuoto. A quel punto mi fermo, di nuovo sola. Devo trovare un'uscita, ci sarà da qualche parte!

Cammino velocemente, annaspando, mentre guardo le poche indicazioni sui muri, ma nessuna indica l'uscita. Svolto l'ennesimo angolo, ma a qual punto mi ritrovo davanti ad un androide.

Merda.

<< Signorina Charlotte. >> dice, facendomi un veloce scanner del corpo e modulando una voce sorpresa. << Deve essersi persa. >>

Non rispondo.

<< Mi segua, l'accompagno in mensa. >> continua.

Appena l'androide mi si avvicina, veloce gli assesto una ginocchiata in ciò che dovrebbe essere lo stomaco per gli umani, rendendomi conto subito dopo di aver commesso una stupidaggine.

Pessima, pessima idea.

Cado a terra dolorante, stringendo il ginocchio tra le mani. Come ho fatto a non pensare che gli androidi sono fatti di metallo e che, soprattutto, non possono sentire dolore?

<< Questo verrà tenuto in conto. >> dice l'androide, mi solleva da terra come se fossi la cosa più leggera del mondo e mi appoggia sulla sua spalla, serrandomi le gambe con un braccio. Poi comincia a camminare.

Cerco di dimenarmi, ma la sua spalla dura che preme contro il mio stomaco mi impedisce quasi di respirare, e sento il mio sangue che continua a pulsare nel ginocchio che ha colpito l'androide. Non so cosa voglia dire con quella frase, ma non mi dice niente di buono.

Mi trasporta in quel modo più che imbarazzante per qualche minuto finché non arriviamo davanti alla sala mensa.

L'androide mi poggia non troppo delicatamente a terra, il ginocchio mi fa ancora un po' male, ma ora riesco a camminare. Mi guardo attorno e vedo ameno duecento ragazzi seduti immobili ed in silenzio su vari tavoli e decido di sedermi, un po' zoppicante, al primo posto libero che trovo.

<< Che cosa stiamo aspettando? >> chiedo alla persona di fronte a me, vestita con un camice viola. Il ragazzo si sporge verso sinistra per guardare oltre me, poi alza un braccio e con l'indice indica qualcosa. << Lei. >> dice poi, ed abbassa la mano.

Mi giro e vedo una donna in uniforme grigia che si avvicina al centro della stanza. Poi si ferma, e riesco a notare un microfono appeso al suo orecchio. Dovrà dire qualcosa?

<< Ben ritrovati, ragazzi. >> dice in tono serio, ma nessuno risponde. << Come ogni mattina, chiedo che i ragazzi chiamati mi seguano. >> c'è un attimo di pausa in cui la donna tira fuori dalla tasca un foglio piegato in quattro e lo apre. << Natalie Dummer. >> una ragazza bionda, esile, con il camice azzurro si alza e cammina a sguardo basso verso la donna che, intanto, continua a pronunciare nomi. << Eric Siser. Ashley Contain, Laureen Mich. >> continua ancora per una decina di nomi, con tutti i ragazzi che, lentamente, si ammassano vicino alla donna. << Bene. Buona colazione, ragazzi. >> dice lei, poi fa un gesto con la mano. << Voi, invece, seguitemi! >> comincia a camminare verso l'uscita della mensa mentre i ragazzi nominati la seguono titubanti e spaventati.

Poi le porte della mensa si chiudono.

E la donna sparisce, assieme a quella ventina di ragazzi.

 

Degli androidi vestiti da camerieri ci portano una marea di piatti con un sacco di cibo invitante: uova, bacon, brioches, salsicce, cioccolato... di tutto.

Resto a fissare il cibo dubbiosa sul da farsi per parecchi minuti, abbastanza da attirare l'attenzione del ragazzo col camice viola di fronte a me.

<< Dovresti mangiare. >> osserva, con sguardo quasi annoiato, ma rivolto altrove.

Guardo il viso di lui, poi il suo piatto. È vuoto. << Anche tu. >> rispondo secca.

L'angolo della bocca del ragazzo ha un guizzo, e finalmente comincia a guardarmi in volto. << Il mio era solo un consiglio. “Mangia e non ti succederà niente”, praticamente è questa la loro regola principale. Se sai leggere tra le righe. >>

<< Loro chi? >> chiedo. << Chi era quella donna e dove ha portato quei ragazzi? Mi faranno del male? Rivedrò la mia famiglia? È... è possibile? >>.

<< Ehi, ehi, ehi! >> mi interrompe il ragazzo parlando a voce più alta. << Fai troppe domande, azzurra. >>.

<< Azzurra? Non mi chiamo “Azzurra”! >> faccio, confusa.

<< Vediamo se ci arrivi. >> il ragazzo, gomiti sul tavolo, unisce le mani e ci appoggia il mento.

Capisco subito dopo. Mi sento così stupida a non aver capito subito a cosa si riferisse! << Il camice! >> esclamo.

<< Esatto. >> prende il suo bicchiere e ne beve il contenuto arancione. Aranciata?

<< Quindi tu saresti... un viola? >>.

<< Capisci al volo le cose, eh? >> scherza, forse un po' seccato. Ma da cosa, poi? Lo annoio?

<< Allora... chi sarebbe la donna di prima vestita di grigio? >> chiedo.

<< Aghata Leener. Qui è lei che comanda, amministra tutto ciò che succede qui dentro. Non farla arrabbiare o Dio solo sa che cosa sarebbe capace di fare. >>.

<< Tu ne sai qualcosa? >> chiedo.

Lui si ferma un attimo, stupito dalla domanda. Mi osserva nei dettagli, come se volesse mettere a nudo i miei pensieri. Vedo, anzi, sento i suoi occhi scrutare insistenti nei miei. Forse ho toccato un punto dolente, sono stata indelicata.

<< Stai fuori dai guai. Chiaro? >> dice in tono duro, fermo, ma in un certo senso stanco. Si passa una mano sulla faccia, poi si alza dalla sedia e si avvia verso l'uscita.

Resto qualche secondo immobile, stupita dal comportamento del ragazzo vestito di viola. Poi, le mie gambe si muovono da sole:

Mi alzo anch'io.

E corro dietro di lui.

 

<< Aspetta! >> gli urlo, raggiungendolo nel corridoio appena fuori dalla mensa. << Mi devi ancora spiegare molte cose! >>.

<< Io non devo spiegarti un bel niente. Non sono la tua guida. >> mi risponde in tono duro, tanto che ci resto un po' male.

<< Per favore! >> lo supplico.

<< Cercherò di ripetertelo molto lentamente, in modo che tu possa capirlo meglio: Non. Sono. La. Tua. Guida! >> dice, quasi furioso, poi se ne va via di nuovo, lasciandomi sola.

Resto immobile, ripetendo mille volte quella frase nella mia testa.

Non sono la tua guida.

È buffo. Lo conosco da neanche quindici minuti eppure pensavo di essermi trovata un amico. Che stupida.

Offesa e confusa, torno in sala mensa, risedendomi al posto che avevo lasciato vuoto, e guardo gli altri ragazzi mangiare. Effettivamente, sento un certo languorino... ma non me la sento di mangiare.

Cerco di parlare con gli altri ragazzi che mi siedono accanto, ma puntualmente mi ignorano. Nella stanza c'è un silenzio di tomba. Si sente giusto il ticchettare delle forchette sui piatti. Niente di più.

Forse... è vietato parlare? Ma se fosse così perché il ragazzo vestito di viola mi avrebbe parlato? Non lo so. Ho troppi pensieri che mi offuscano la mente, in più l'essere completamente ignorata mi rende sempre più nervosa.

D'un tratto sento il battito cardiaco accelerato, la fronte sudata, la vista appannata... Mi alzo di scatto dalla sedia ed esco dalla sala mensa. Ho bisogno di un luogo aperto, dove io possa respirare.

Ci risiamo. Odio quando succede. Fin da piccola soffro di claustrofobia e attacchi di panico, e spesso mi capita di sentirmi mancare, anche se, rispetto a qualche anno fa, ho imparato a gestire meglio la cosa. Però, a volte, gli attacchi possono essere troppo forti da reggere.

Cammino per i corridoi in cerca di un giardino, una finestra, qualsiasi cosa serva a d'armi un po' d'aria fresca, ma mi imbatto in un altro androide. Diamine! Quanti ce ne sono?!

<< Signorina Mason. >> dice lui, dopo aver eseguito rapido il suo solito scanner.

<< Ho... bisogno di prendere aria. Mi... mi lasci uscire. >> dico con affanno, mentre la figura dell'androide diventa sempre più sfocata e irregolare.

<< Non posso. È mio preciso dovere non lasciare uscire nessuno. >> risponde.

Sento le ginocchia che cominciano a cedermi. Mi aggrappo disperatamente alle braccia dell'androide, continuando a scendere finché non mi ritrovo con le ginocchia al pavimento.

Poi cado a terra.

Rimango cosciente ancora per qualche secondo.

Poi, tutto attorno a me diventa buio.

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Capitolo 3
*** Tre ***


Tre

Mi sveglio nella mia stanza e mi accorgo di essere stesa sul letto a pancia in su.
La prima cosa che vedo una volta aperto gli occhi è il soffitto. Non l'avevo notato ieri. È composto da tanti pannelli che vanno a formare l'immagine di un cielo con tanto di nuvole bianche. A guardarlo mi sento un po' meglio. Sembra quasi un cielo vero.
Sento un leggero venticello che mi solleva lievemente i capelli e mi giro: qualcuno ha messo un piccolo ventilatore sul mio comodino ed affianco ha aggiunto anche dei sacchetti di carta.
Mi alzo dal letto e sfioro quei sacchetti color marrone. Ho subito realizzato una certezza: mi vogliono viva.
Comincio a camminare per la camera senza un vero e proprio motivo, ho solo bisogno di muovermi. Analizzo la stanza in ogni particolare ma non tocco niente, finché non vedo un foglio appeso con un pezzo di scotch alla porta. Lo stacco dalla porta, mi siede sul letto e comincio a leggere:
 
“Alla signorina Charlotte Mason.
 
Sicuramente sarà confusa da questa situazione, e questa lettera serve proprio a spiegare il perché di questo trasferimento.
Come lei ben saprà, il nostro governo è molto rigido sulla legge n°5, ovvero il fatto che sia obbligatorio avere un certo peso (nel suo caso 80kg), e lei non ha superato la prova peso dei diciotto anni, quindi è stata trasferita in questa struttura per rimediare. Le stiamo offrendo una seconda chance.
Il camice a lei assegnato è l'azzurro poichè il suo peso varia dai 50kg ai 59kg. Se arriverà  pesare dai 60kg ai 69kg allora le verrà assegnato un camice blu, dai 70kg ai 79kg camice viola, dagli 80kg agli 89kg camice verde, dai 90kg ai 99kg camice bianco e dai 100kg in poi camice rosso.
Se, una volta arrivata al camice verde, bianco o rosso, riuscirà a mantenere quel peso senza dimagrire per un mese, potrà tornare a casa. Attenzione, però: dovrà aver raggiunto questo obiettivo entro due anni o saremo costretti a prendere provvedimenti estremi.
Buona fortuna.
Vanessa Crescence
Segretaria del Presidente M."
 
Giro il foglio, scoprendo altre scritte:
 
"Divieti per i camici:
 
1) Non è permesso correre per i corridoi.
2) Non è permesso intralciare le autorità.
3) Non è permesso avere rapporti amichevoli o sessuali con altre persone, i camici non dovranno mai parlare tra di loro.
4) Non è permesso sottrarsi alle punizioni senza un'autorizzazione scritta.
5) Cercare di ribattere o contestare le parole delle persone più autorevoli porterà solo a spiacevoli conseguenze.
6) Non è permesso scambiarsi i vestiti con gli altri camici.
7) Non è permesso truccare la prova peso settimanale o cercare di saltarla.
8) Non è permesso contattare parenti o amici in nessun modo.
9) Non è permesso nuocere la salute di nessuno, le conseguenze sarebbero immediate.
10) Non è permesso insultare in alcun modo il Presidente M.
 
Ogni trasgressione delle dieci regole porterà le proprie conseguenze."
 
Resto immobile a fissare il foglio.
"Conseguenze". Continuavano a ripetere questa parola. Cosa potranno mai essere?
Ho una strana morsa al cuore. Ho paura.
Appoggio tremante il foglio sulla scrivania della mia stanza e guardo l'orologio sulla parete. 14:12. Probabilmente hanno già servito il pranzo in mensa ma, adesso che ci penso, è da ieri pomeriggio che non mangio e il mio stomaco sta cominciando a lamentarsi.
Mi alzo dal letto, vado verso la porta, quella si apre ed io esco dalla stanza. Senza tutti i ragazzi di stamattina (ora ne vedo solo una decina in giro) riesco a notare che sul pavimento sono state tracciate delle linee di diverso colore cognuna con su scritto qualcosa: la rossa è la mensa, la blu è il bagno, la verde la sala comune ed arancione le camere da letto.
Seguo la linea blu e dopo pochi minuti mi ritrovo in mensa. C'è un tavolo lungo pieno di piatti strabordanti di cibo e macchinette per bevanda zuccherate, da nessuna parte vedo l'acqua.
Appena il profumo di quel cibo così invitante riesce ad arrivare alle mie narici il mio stomaco comincia a brontolare ed in men che non si dica mi ritrovo seduta allo stesso posto in cui ero seduta ieri con una cocciolata e tre fette di torta a farmi compagnia.
Aggiungo quattro bustine di zucchero alla cioccolata e mentre aspetto che si raffreddi addento un pezzo di torta al limone.
Le mie papille gustative fanno un doppio salto mortale. Mmmh! È buonissima! Assaggio anche un pezzo della torta al cioccolato e subito ho la stessa reazione. Non so cosa metta il cuoco nell'impasto ma non finirei mai di mangiare.
Sto sorseggiando la cioccolata quando vedo che dei ragazzi antrano in mensa in gruppo. Li riconosco! Sono i ragazzi che questa mattina quella donna... come si chiamava? Aghata... Liger? Lime? Vabbè, lei, ha portato via con sè.
I ragazzi non si parlano: non sono in buona forma. C'è un ragazzo che trema, un altro con il corpo completamente rosso e una ragazza che non riesce a camminare molto bene. Che gli è capitato?
Guardo i ragazzi avvicinarsi al buffet, prendere un po' di cibo e sedersi al tavolo più vicino per mangiare. Una ragazza col camice azzurro si siede al mio tavolo ma non osa guardarmi in faccia.
<< Ehm... Natalie! >> dico. << Tu sei Natalie, giusto? >>.
Lei prende una forchettata di pasta dal suo piatto ed annuisce a fatica.
<< Che cosa è successo? >> le chiedo.
Lei mastica il boccone e deglutisce come se ciò che stesse mangiando fossero spine, ma non risponde.
<< Se me lo dici ti potrei aiutare. >> tento di nuovo, speranzosa.
Natalie finalmente mi guarda, ma il suo sguardo non è triste, piuttosto pieno d'ira. Lascia cadere la sua forchetta sul piatto ed appoggia le mani sul tavolo. << Stai zitta! >> mi sussurra, annche se so che in realtà vorrebbe urlare. << Sono già stata punita una volta e non mi va proprio di ripetere l'esperienza! >>.
Resto basita per qualche istante, immobile. Poi mi sento avvampare: finisco velocemente cioccolata e torta ed esco di fretta dalla mensa, offesa come non mai dal comportamente di Natalie.
Vorrei urlare, piangere, ma non ci riesco. Il mio corpo non sembra più ubbedirmi. Decido di seguire la linea verde per andare in aula comune, qualunque cosa sia, e pochi minuti dopo mi trovo davanti ad un'enorme stanza con videogiochi da una sola persona, dei tiri a freccette, mezzo tavolo da ping-pong rivolto verso il muro e dei tavoli di legno con quattro sedie, due mazzi di carte e quelli che sembrano dei puzzle per ogni tavolo.
Dentro alla stanza ci sono circa una cinquantina di ragazzi silenziosi, impegnati a giocare a giochi in cui saranno sempre soli. È abbastanza triste, nessuno sembra davvero divertirsi.
Sinceramente non capisco perchè in questo posto sia vietato avere degli amici. Che cosa cambiaerebbe? Renderebbe solo più allegro questo posto.
Mi siedo ad uno dei tavoli vuoti e allungo subito la mano verso la scatola di un puzzle. È da quando ero piccola che non ne faccio uno. Rovescio i pezzi del puzzle sul tavolo e comincio ad unire i pezzi.
Sono così concentrata che quasi non mi accorgo che qualcuno si è seduto al mio tavolo.
Alzo lo sguardo: capelli riccioli e scuri, maschio, magro, camice viola... è il ragazzo della mensa!
Mi osserva attentamente mentre io continuo col mio puzzle. Gli lancio un'occhiata di sfida, poi torno tranquillamente ad unire i pezzi. Ora sono ancora più infuriata. Dopo Natalie... ci mancava solo lui!
Interseco pezzo per pezzo, immagine per immagine, fondendo colori e bordi finchè non finisco.
Incrocio le braccia al petto e mi lascio cadere sullo schienale della sedia con uno sbuffo.
Gli occhi del ragazzo saettano a destra e a sinistra del puzzle finchè non si fermano sui miei. << Sono senza parole. >> dice lui, calmo. << Un puzzle da duecento pezzi completato in poco meno di un quarto d'ora. È... >> si sfrega la nuca con una mano. << ...incredibile. Io impiego quasi il doppio del tempo e mi hanno sempre detto che ero incredibilmente veloce. Come ci riesci? >>.
<< Io... in realtà non faccio i puzzle da quando era bambina. Avevo solo bisogno di qualcosa da mettere in ordine. Ero... davvero infuriata. >> sfioro il puzzle completato con la punta delle dita. Ripenso a come quasto ragazzo mi ha trattata e a come mi sta trattando adesso. Ripenso alle sue dure parole. Non sono la tua guida. Perchè adesso è gentile con me? Come mai questo cambiamento?
<< E con chi? Non ci sono tante persone con cui puoi litigare qui dentro... >> dice.
<< Ho cercato di aiutare una ragazza e lei mi ha risposto male, tutto qui. >>.
<< Succede spesso qui. Sono rari i camici che infrangono le regole per parlare, quindi quando lo fanno hanno paura di essere scoperti e rispondono male. >>.
<< Tu però no. Non hai paura delle conseguenze? >>.
<< E tu? >> mi guarda per qualche secondo, in silenzio. Corruga la fronte, come se qualcosa non gli tornasse. << Indossi il reggiseno, no? >>.
C'è un attimo in cui non rispondo, assimilo bene quelle parole inaspettate, permettendo così alle mie guance di andare in fiamme. Mi copro istintivamente il petto con le braccia. << C-cosa? I-io... >> le mie parole non riescono a comporre una risposta. Che cosa c'entra?!
<< Non mi sembra una domanda difficile. >> fa lui con tono altezzoso.
<< P-perchè dovrebbe interessarti? >> rispondo.
<< Perchè questa reazione così... >> si interrompe e ricomincia ad osservarmi cercando una risposta al mio comportamento, poi sembra capire e comincia a ridere, cercando di contenere il volume della voce. << Scusa, scusa. >> dice dopo essersi calmato. << Mi sa che hai frainteso. Non volevo risultare un povero pervertito idiota che cerca solo una ragazza da infastidire tutto il giorno. Giuro che non ho pensato neanche un secondo allo sfondo sessuale che poteva avere quella domanda. Ti sembrerà strano ma era solo una domanda che ho fatto per verificare se ciò che avevo notato fosse vero. Non volevo farti imbarazzare o cose simili. Scusa. >>.
<< Oh. >> allontano le braccia dal petto riappoggiandole lentamente sul tavolo. Mi schiarisco la voce, ancora più imbarazzata. Mi sento così stupida. Ma cosa mi viene in mente? Sicuramente lui è un ragazzo di quelli intellettuali, intelligenti, è ovvio che è solo curioso! << Hai un ottimo senso dell'osservazione. >>.
<< Quindi... è un sì? >>.
<< Sì. >>.
<< E lo indossi anche se sai che è contro alle regole? >>
<< Mi sento più a mio agio. >>.
<< Mmm... capisco. >> fa una piccola pausa. << Peccato. >>.
<< Anche questa è un'affermazione intelligente che non ho capito? >> ridacchio. Ora mi sento più tranquilla sapendo che il ragazzo in viola non pensa a... beh... quelle cose.
<< No. >> si alza in piedi dalla sedia. << No, quella affermazione era completamente a sfondo sessuale. >> mi rivolge un sorriso malizioso, poi si gira e se ne va.
Okay, forse non è vero che non ci pensa.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


Quattro


Dio! Come lo odio! Cominciamo a parlare e quando siamo nel pieno della conversazione... puf! Se ne va! Ed ovviamente le sue ultime parole sono antipatiche.

Per cercare di tranquillizzarmi, compongo ancora due o tre puzzle, ma non riesco comunque ad allontanare dalla mente l'immagine di quel ragazzo... che poi, come cavolo si chiama? Non ho neanche pensato di chiederglielo. Che stupida che sono! Mi sento così patetica!

Unisco l'ultimo pezzo del quarto puzzle e la figura di un'alunna in uniforme scolastica che scribacchia sul suo quaderno, sorridente, sembra prendere vita.

Per qualche motivo, mi scopro a guardare malinconica quell'immagine. Fino a qualche giorno fa, ero a casa mia, andavo a scuola, avevo contatti con altre persone. Ora è tutto finito.

Non so se riuscirò mai a tornare alla mia vita. Sul foglio in camera mia c'era scritto che una volta raggiunto il peso forma sarei potuta tornare a casa, ma non ho mai visto ne sentito di nessuno che sia ritornato una volta dopo aver oltrepassato l'arcata azzurra. Eppure, qualcuno dovrebbe avercela fatta, non è un'impresa impossibile, giusto?

Non posso sopportare più la vista di quella ragazza sorridente sul puzzle. Mi alzo dalla sedia e me ne vado.

<<>>

Il giorno dopo, a colazione, mi siedo allo stesso tavolo di ieri, aspettando che arrivi la donna, quella "Aghata", per chiamare i ragazzi,così posso cominciare a fare colazione.

Non vedo il ragazzo con il camice viola da nessuna parte, ma non me ne preoccupo. Meglio così, dopotutto.

Dalla porta finalmente entra Aghata e comincia a leggere i nomi dal suo foglio.

Per qualche ragione, la sua presenza mi rende inquieta anche se non ho fatto niente, quindi non ci sarebbe nessuno motivo per chiamarmi.

<< Charlotte Mason. >> chiama la donna.

Alzo la testa, rivelando un volto a metà tra il scioccato ed il confuso, poi resto immobile. Sembra quasi che il mio cuore si sia fermato. Perché ha chiamato il mio nome?

In qualche modo, con le gambe tremanti, riesco ad alzarmi e sento gli occhi di tutti puntati su di me. Sento le lacrime che spingono per uscire, ma le trattengo.

Ho paura.

Mentre cammino verso la donna con lo sguardo di ghiaccio, incrocio finalmente il volto del ragazzo vestito di viola.

Mi fissa con uno sguardo indecifrabile. Muove le labbra in silenzio, vuole comunicarmi qualcosa. "Fatti forza" penso abbia detto. Gli rivolgo un sorriso triste, poi seguo Aghata fuori dalla mensa assieme ad altri sei ragazzi.

Svoltiamo in diversi corridoi prima di arrivare ad un enorme ascensore che ci fa salire al quinto piano.
Quando le porte dell'ascensore si aprono, non ci sono corridoi da attraversare o porte da aprire. C'è solo una stanza con pavimento, soffitto e pareti completamente bianche. Sparsi in giro ci sono parecchi androidi in attesa di ordini, ognuno affianco ad un oggetto: ci sono tre vasche, due pali con delle corde, un forno a legna acceso e molti altri inquietanti strumenti che non capisco a cosa servano.
I miei occhi saettano da una parte all'altra della stanza, terrorizzati.

Penso di aver capito dove mi trovo, ma non ci voglio credere.
Sono in una stanza delle torture.

<<>>

<< Il camice azzurro Charlotte Mason faccia un passo avanti. >> ordina Aghata, di cui ancora non ricordo il cognome.

Eseguo l'ordine. << Sono io. >> dico.

<< Non ti ho detto di parlare. >> mi fulmina, poi un androide le porta una cartella con dei fogli e la donna li sfoglia qualche secondo. << Sei qui per due motivi: il primo è che sei nuova e devi essere marchiata, il secondo è che hai aggredito un androide, l'altro giorno. >>.

<< Ero nel panico! >> urlo. << Non pensavo neanche a ciò che stavo facendo! E poi, alla fine l'androide non si è neanche ammaccato. >>.

<< Ti ho detto di tacere! Stai al tuo posto, camice! >>.

Mi zittisco di nuovo.

<< La punizione per le tue azioni saranno cinque frustate, e se proverai ad obiettare, aumenteranno. Ma cominciamo con la marchiatura. Androide AC4, prepara il ferro. >>.

L'androide vicino al forno a legna prende in mano una stecca di ferro con all'estremità un cerchio e comincia a scaldarlo sul fuoco.

Il mio cuore batte a mille: non sono mai stata così tanto terrorizzata in vita mia.

<< Togliti la maglietta e siediti sulla sedia davanti al forno. >>.

Ma resto ferma. Non oso fare niente. Ho capito cosa mi toccherà fare. Non voglio, non sarò io di mia volontà a sedermi su quella dannata sedia.

Mi giro e corro verso l'ascensore, cerco il pulsante per aprirlo, ma mi accorgo poco dopo che si apre solo con un tesserino. Non so cosa fare.

<< Ridicola. >> dice Aghata. << Adroide 5HB, legala alla sedia. >>.

Vedo l'androide venire verso di me, provo a scappare, ma lui era già vicino e ci mette due secondi ad immobilizzarmi. << No! Ti prego! >> urlo, disperata.

L'androide mi porta di forza alla sedia, mi toglie la maglietta e mi immobilizza legandomi le braccia dietro la schiena e le gambe a quelle della sedia, con l'aiuto di un altro androide.

<< Camice, indossi un reggiseno. >> fa notare Aghata. << Questa è un'ulteriore infrazione delle regole. >>.

Ho la gola secca e la fronte sudata.

<< Due frustate in più. >> conclude Aghata.

Il primo androide mi taglia con una forbice le spalline e il balconcino del reggiseno, rendendolo inutilizzabile, poi me lo toglie, lasciandomi a petto nudo.

Ora, oltre alla paura ed il terrore, provo anche un enorme imbarazzo a stare in questo stato davanti ai sei ragazzi.

Vedo Aghata prendere la stecca incandescente dalle mani dell'androide ed avvicinarsi a me. << Se ti muovi sarà peggio. >> mi dice. << Prova a pensare a qualcos'altro. >> sorride, e pochi secondi dopo, il ferro rovente viene appoggiato appena sopra il mio seno sinistro.

Urlo, imploro, cerco di liberarmi dalle corde, ma non ci riesco. Sento l'odore della pelle che brucia, sento il ferro sprofondare nelle mie carni ma non riesco a guardare, tengo gli occhi chiusi e continuo a piangere. Quando finirà?

Aghata toglie il ferro rovente dalla mia pelle con un ghigno insopportabile. Penso che se non ci fossero le corde a tenermi ferma, sarei caduta a terra.

Ho il fiato pesante per quanto ho urlato e le lacrime non smettono di scorrere. D'improvviso, mi sento stanca. Voglio riposare, ma sono costretta da due androidi ad alzarmi ed a camminare - o, dovrei dire, essere trascinata - fino ad arrivare ad un palo, dove vengo legata di nuovo ai polsi e sono costretta a stare in piedi.

<< Quante, signora? >> chiede l'androide con la frusta ad Aghata.

<< Sette. >> risponde lei. << Comincia pure, io intanto vado a preparare il prossimo. >> risponde lei.

Non riesco a pensare a stento resto in piedi. Il mio petto sta esplodendo dal dolore, ed i miei occhi vorrebbero tanto chiudersi. Fisso con sguardo vuoto, ad occhi socchiusi, un punto della stanza.

Arriveranno le frustate. Arriverà il dolore... non sono pronta.

Non sono...

Sento la durezza della frusta, accompagnata da un forte schiocco, colpirmi la parte bassa della schiena.

Urlo, più per lo spavento che per il dolore, che arriva pochi secondi dopo assieme alle mie lacrime.

Un'altra frustata, poi un'altra ancora. Questa volta sento il sangue scorrere sulla mia schiena, le ferite che pulsano, e riesco quasi ad immaginare il pavimento e l'androide sporchi degli schizzi del mio sangue.

Le mie gambe cedono. Non riesco più a stare in piedi. Non ce la faccio.

Arriva la quarta frustata, che mi colpisce in mezzo alle scapole. Riesco a percepire la paura dei ragazzi che mi guardano come se mi stesse toccando.

<< Alzati! >> urla Aghata.

Io resto immobile. Non capisco niente, non riesco a muovermi, a pensare...

<< Sei sorda?! >> urla Aghata, avvicinandosi a me. << Alzati! Subito! >>.

<< No! >> urlo, senza neanche accorgermene. << Ho passato diciotto anni della mia vita a mangiare poco per vivere una vita sana, libera. Ma se comincio ad ubbidire ad una persona come Lei solo per paura, tutto ciò per cui ho lavorato non sarà servito a niente! Perché non sarei libera, mi sentirei un burattino, un oggetto senza vita. Mi sentirei morta. Quindi, no! Non mi alzerò in piedi! >>.

<< Taci! >> Aghata strappa la frusta dalle mani dell'androide e la fa scoccare esattamente sopra alla frustata precedente, provocandomi molto più dolore di quelle date in precedenza.

Grido dal dolore, ma non mi arrendo. << C'è un girone dell'inferno apposta per quelle come Lei, Aghata! >>.

Arriva un'altra frustata, seguita da un altro mio grido. << Quanti ragazzi ha torturato? >> continuo. << Cinquanta? Cento? Duecento? Tutto questo non rimarrà impunito! >>.

Arriva l'ultima frustata e sento ormai la schiena aperta in due.

Sento il rumore della frusta insanguinata toccare terra.

<< Persone come Lei mi fanno solo schifo! >> dico.

Sento Aghata ridere. << Androide CN6, niente kit medico per la ragazza. Mettetele la maglietta e riportatela davanti alla sua camera. >>.

<<>>

Sono a terra, davanti alla porta della mia camera, la porta è aperta ma io non riesco a muovermi, ogni volta che ci provo sento le ferite sulla schiena riaprirsi. La mia maglietta è piena di sangue incrostato che si attacca dolorosamente alle ferite e il sangue non smette di sgorgare.

Nel corridoio ci sono parecchie persone che mi passano e mi guardano con compassione, ma non si fermano ad aiutarmi, neanche quando provo a chiedergli aiuto.

Ad un certo punto, un ragazzo inciampa, facendo cadere il piatto pieno di brioches che si spargono tutte a terra. Lo guardo mentre lentamente rimette sul piatto il cibo. Quanto vorrei mangiare qualcosa...

<< Azzurra, alzati. >> gli sento dire.

E solo in quel momento noto quei capelli riccioli e scuri, quegli occhi curiosi e quel dannato camice viola. << S-sei tu! >> dico, affaticata. Per la prima volta, sono davvero felice di vederlo.

<< Ci sono telecamere in ogni corridoio ed in ogni stanza, ma non nella mia. Ora, non posso aiutarti o registrerebbero tutto e mi caccerei nei guai. Ma se riesci a camminare fino alla mia stanza, posso medicarti le ferite e lasciarti riposare, ho il mio kit medico da parte.

<< N-non voglio la tua pietà. >> poi mi sforzo di sbuffare. << Mister "Non sono la tua guida". >>.

<< Non mi sembra che tu abbia altra scelta. >> finisce di raccogliere le brioches e si alza. << Stanza numero 221. >> poi se ne va, come se non avessimo mai cominciato a parlare.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Cinque
 
Non voglio andare in camera sua, non voglio. Ma, d'altronde, sarò costretta a farlo, se non voglio morire dissanguata o, peggio, per un'infezione.
Appoggio lentamente le mani al muro, cercando di muovere il meno possibile il busto, ma mi provoca ugualmente male alla schiena, così resto immobile finchè il mio corpo non si abitua alla posizione, poi mi muovo di nuovo. Continuo così finchè non riesco ad alzarmi in piedi.
Ora sono nervosa. Devo fare il primo passo. Il peggio è passato, ma se cadessi, dovrei rialzarmi di nuovo, rivivendo il peggio.
Con una mano attaccata al muro, mi costringo a muovere il primo passo. Fa male, e per poco non cado, ma resisto e, passo dopo passo, tenendo d'occhio i numeri delle stanze, arrivo alla stanza del ragazzo vestito di viola.
Mi avvicino alla porta e quella si apre da sola. A quel punto, vedo il ragazzo riccioluto venire verso di me e prendermi una mano per portarmi al letto.
<< Tutto bene? >> mi chiede.
<< Tu che dici? Sono stata frustata e marchiata, come mi dovrei sentire?! >>.
<< Bastava solo dire no. >> ribatte, poi mi accarezza la testa. << Sei stata brava, in corridoio. >>.
<< G-grazie. Ma non mi hai nemmeno vista. Facevo pena. >>.
<< Non importa. Sei arrivata, giusto? A proposito, sarà meglio vedere queste ferite. >> delicatamente, mi prende l'orlo della maglietta e mi scopre la schiena. Poi resta un attimo in silenzio ad osservare le ferite. << Sette frustate? Ma perchè? Pensavo ti avessero chiamata solo per il marchio. >> mi abbassa la maglietta. << Invece hai tutti i vestiti insanguinati. >> sospira. << Ti aiuto a togliere il camice, così lo lavo e ti posso medicare.
Mi prende l'orlo della maglietta ma gli spingo via le mani. << N-non voglio... >> dico, imbarazzata.
Lui resta un attimo confuso, poi capisce e sorride dolcemente. << Non sono i primi e spero non saranno gli ultimi seni che vedrò. Siceramente, al momento sono più preoccupato per le tue ferite, e da sola non riuscirai a toglierti il camice. >> mi prende la mano che lo aveva fermato poco prima e la stringe. << So quello che stai passando. Ti prego, fatti aiutare. >>.
Tra i singhiozzi, stringo forte la sua mano << Okay. >>.
Lui mi lascia la mano e, delicatamente, mi sfila la maglietta.
Incrocio le braccia sul petto per coprirmi. Se avessi un corpo normale, non penso sarebbe un grande problema stare senza maglietta, invece ho i seni piccoli, la pancia piatta senza neanche un po' di grasso.
Sono così brutta...
Il ragazzo mi accarezza la testa. << Va tutto bene, azzurra. >> mi sorride e comincia a dirigersi veso il bagno. << Mettitti sul letto a pancia in giù mentre metto in ammollo il camice. >>.
Ubbidisco e poco dopo il ragazzo torna con il kit medico in mano. Lo appoggia a terra affianco al letto e lo apre, prende del cotone e ci sparge sopra del disinfettante. << Brucerà un po'. >>.
Non rispondo, un po' spaventata. Non ho visto le mie ferite, non so quanto possano essere profonde o quanto potrà fare male essere madicata.
Appena il ragazzo appoggia il cotone sulla mia schiena, un gemito mi sfugge dalla bocca. Stringo le lenzuola tra i miei pugni per sopportare il dolore.
C'è un attimo di silenzio in cui nessuno sa cosa dire.
<< Mi chiamo Dylan, comunque. >> mi dice poi, penso cerchi di distrarmi dal dolore.
<< Charlotte. >> rispondo tra i gemiti.
<< Un nome francese... sei di Parigi? >>.
<< No. >> rispondo. << Sono di Greenwich. >>.
<< Io sono di Londra. Non abitiamo poi così lontano. >> ridacchia.
C'è un altro attimo di silenzio.
<< Quindi... >> comincio. << Come mai in camera tua non ci sono telecamere? >>.
Dylan sorride. << Ma ci sono. Sono solo riuscito a fregare quelli che controllano le telecamere. Non è stato così difficile. Ma non so quanto durerà. >>.
<< Spiegati. >>.
<< Ho pensato al fatto che ogni giorno qui dentro è sempre uguale. Quindi ho chiesto che mi fosse data una videocassetta con una scusa innocente poi... >>.
<< Stop. Come? Loro ti possono... dare degli oggetti? >>.
<< Ogni settimana, ti sottopongono alla prova peso. E se sei aumentato di almeno mezzo chilo, allora ti premiano, altrimenti... >>.
<< Cosa? >>.
<< Altrimenti ti puniscono. >>.
<< E... a te è mai capitato? >>.
<< Possiamo non parlarne, per favore? >> sospira.
<< Scusami. Non volevo... >> mi schiarisco la voce. << Dopo che ti sei fatto dare la cassetta che hai fatto? >>.
<< Mentre creavo una piccola interferenza, ho inserito la cassetta nella videocamera e ho registrato un'intera giornata. E dopo mi è bastato far riprodurre quella registrazione in continuazione, ogni giorno. Ho fatto la stessa cosa con la videocamera che riprendeva l'entrata della mia stanza. Così non sapranno mai chi entra e chi esce dalla mia stanza. >>.
<< Ahi! >> esclamo, Dylan ha premuto troppo su una ferita.
<< Scusa... >> dice lui cambiando il pezzo di cotone insanguinato con uno nuovo.
<< Comunque è stata una grande idea! Mi hai stupito. Io non penso che ci sarei mai arrivata. >>.
<< Oh, io penso di sì. Non sei così stupida come credi. >>.
Sorrido.
<< A proposito, >> continua lui. << tornando al discorso di prima, come mai ti hanno frustata? >>.
<< Oh... beh, potrebbe darsi che io abbia accidentalmente "aggredito" un adroide. >> rispondo.
<< Azzurra! >> fa lui con tono di falso rimprovero. << Non si fa! Non sai che la nostra cara Aghata Leener adora gli androidi? >> ecco come si chiamava! << Gira anche la voce che abbia una relazione amorosa con uno di loro. Forse proprio perchè nessun uomo è mai riuscito a sopportarla. >>.
Rido, anche se mi provoca un po' di dolore, e Dylan assieme a me.
<< Non penasavo che un umano ed un androide potessero... >> faccio.
<< Infatti no. Ma se hai abbastanza soldi da poterne "modificare" uno... >>.
Arrossisco leggermente. << Mentre... con "gira voce", cosa intendi? Insomma, qui nessuno parla con nessuno. >>.
<< Pensaci, Charlotte, noi due parliamo. Ma sei davvero convinta che tra tutti questi camici siamo gli unici due? Basta conoscere le persone giuste. >>.
<< E tu le conosci? >>.
<< Fatto! >> mi interrompe. << Ma non abbiamo ancora finito. Mettiti seduta, ti disinfetto velocemente quel cavolo di marchio e ti fascio le ferite. >>.
<< Mi metto a sedere lentamente, stando attenta a non farmi troppo male, mentre Dylan cambia per l'ennesima volta il cotone. Poi si gira di nuovo verso di me ed appoggia il cotone sul marchio, appena sopra il mio seno. Non riesco a guardarlo in viso per l'imbarazzo.
<< Perchè mi hanno marchiato? >> chiedo.
<< Lo fanno con tutti appena entrano in questo... posto. >> la sua voce fa trasparire un grande disprezzo. << Penso che lo facciano per torturarci psicologicamente, per farci capire che siamo di proprietà del presidente, che lui può fare ciò che vuole con noi. Che la nostra vita gli appartiene. >> butta via il cotone e prende la fasciatura. << Ho bisogno che ti alzi in piedi. >>.
Io eseguo e lui continua il discorso. << Ma io non sono d'accordo. >> comincia a fasciarmi girandomi velocemente attorno partendo da sotto le ascelle. << Il presidente è solo un dittatore. >>.
<< Quindi... hanno marchiato anche te? >>.
Si fferma un attimo. << Sì. >> dice freddamente, poi ricomincia a fasciarmi il busto finchè non finisce. Taglia la fasciatura in eccesso e la incolla al resto sul mio corpo con una qualche sostanza. Adesso ho il busto quasi del tutto fasciato.
Dylan ora ha un'altro sguardo. Ripone gli strumenti nella cassetta del kit medico e si posiziona di fronte a me. Con uno scatto rabbioso si abbassa il collo della maglietta del camice, mostrando il marchio.
È molto più vecchio del mio e il viso del presidente stampato sulla pelle ha una croce a "x" che sembra essersi fatto da solo.
In quel momento, mi sembra di comprenderlo. Comprendo la rabbia, il dolore, la frustazione... lo guardo un attimo, poi apro le braccia ed affondo la testa nel suo petto. Lui rimane sorpreso e non si muove.
<< Non penso che io sia stata la prima a cui tu abbia prestato aiuto, ma penso che nonotante questo nessuno abbia mai pensato... che tu fossi il primo a soffrire. >> dico, quasi sussurrando. << Volevo che spessi che ti sono vicina, qualsiasi cosa tu abbia bisogno. >>.
Lui ricambia l'abbraccio, facendo attenzione a non farmi male. << Ora stenditi e riposa. >> dice, il suo tono di voce è tornato dolce. << Aspettiamo che si asciughi il camice, poi puoi andare. >>.
Mi stacco da lui e mi infilo sotto le calde coperte, appoggiando la testa sopra al profumato cuscino.
Poi mi addormento come se niente fosse successo.
Grazie, Dylan.
 
<<>> 
 
Quando mi sveglio, non ho idea di che ore siano, ho solo un gran dolore alla testa e alla schiena. Mi sforzo di mettermi seduta e solo a quel punto sento dell'acqua scorrere. Dylan si starà facendo una doccia. Direi che l'ho già disturbato abbastanza. Guardo l'orologio. 9:33. Manca ancora una mezz'ora prima che la porta si apra, poi prenderò il mio camice e me ne andrò.
Sento l'acqua chiudersi e poco dopo Dylan esce dal bagno con un asciugamano legato in vita ed uno appeso al collo. << Oh, ti sei svegliata. >> dice.
Solo allora mi rendo conto di aver passato tutta la notte nella stanza di Dylan. Arrossisco. << Quanto ho dormito? >> chiedo.
<< Quasi venti ore. >>.
<< Ma... dovevi svegliarmi! Ero sul tuo letto... tu dove hai dormito? >>.
<< Lì. >> Dylan indica con un cenno della testa un cuscino e delle coperte sistemate sul pavimento.
<< Ma... adesso mi sento così in colpa! Perchè non mi hai mandata via? >>.
<< Come ti ho detto, so quello che hai passato, volevo solo essere gentile. >> prende uno dei tanti camici viola dal suo armadio assieme ad un paio di boxer bianchi. Chissà se anche io ho della biancheria e dei camici nella mia stanza... ora che ci penso, non ho mai guardato dentro nessun mobile. << Vado a vestirmi. >> entra in bagno e chiude la porta.
Ho uno strano senso di colpa che mi sta aggredendo lo stomaco. Continuo a fargli tornare in mente ricordi terribili con le mie domande, anche se non lo faccio apposta. Dylan è un po' un mistero. Non lo conosco quasi per niente e quando provo a chiedergli qualcosa su di lui, ci gira attorno o non mi risponde.
Poi, il televisore si accende.
Per un momento, non si vede nulla, solo una schermata bianca, poi il volto del presidente colora lo schermo. << Buongiorno, camici. >> dice.
Guardo lo schermo, esterrefatta. << Dylan... Dylan! >> urlo.
Lui apre la porta del bagno. Si è vestito ma i suoi riccioli sono ancora bagnati. << Non urlare! Qualcuno potrebbe sentirti! >>.
<< L-la TV... giuro che non l'ho toccata! >>.
<< Ah. >> dice lui. << Non preoccuparti, lo fanno ogni settimana. >>.
<< ... non dovete preoccuparvi. >> sta dicendo il presidente. << Questra struttura vi sta offrendo una seconda possibilità, per vivere una vita normale. Per essere belli d'aspetto ed in pace con voi stessi. >>.
<< Perchè? >> chiedo, riferendomi alla frase di Dylan.
<< Hai presente il discorso che ti ho fatto a proposito della "tortura psicologica"? È più o meno lo stesso discorso, solo che questa è più: "manipolazione". Se in un momento in cui sei emotivamente scosso continui a sentire lo stesso discorso, alla fine ci crederai. >> c'è un momento di pausa. << Io non me lo sono permesso. >>.
<< ... se non farete niente di male al nostro sistema di governo... >> continua il presidente. << ... lui non ne farà a voi. >> sorride.
Le parole del presidente continuano a rieccheggiarmi nelle orecchie, sul mio volto è stampata un'espressione di terrore. Ma lui continua a sorridere, sapendo benissimo quanto sarà incommensurabile il dolore che provocherà ai ragazzi. A me. A Dylan.
<< Spegni la TV, ti prego. >> dico. Non posso sopportare il ghigno del presidente.
<< Non posso. >> risponde lui, mordendosi la punta del pollice. << Quando proiettano un annuncio del presidente non si può fare niente. Sei costretto ad ascoltare, anche perchè sanno che sei per forza in camera tua a quest'ora. >>.
<< ... voglio che sappiate che ci teniamo a voi. Tutto ciò che facciamo è per il vostro bene. >> il presidente sfoggia il suo più largo sorriso. << Vi auguro una splendida settimana. >>.
La televisione si spegne esattamente alle dieci, quando la serratura della porta si apre.
Posso finalmente uscire, ma le mie gambe non si muovono. Sono ancora troppo scossa.
<< Stai bene? >> mi chiede Dylan.
Le mie gambe, le braccia, tutto il mio corpo trema, chiede aiuto. Mi costringo a sorridere. << Sì. Tutto bene. >> dico. << Ora dovrei andare. Ci vediamo. >>.
E senza aspettare una risposta, vado in bagno, prendo il mio camice ed esco veloce dalla stanza di Dylan.

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