Questo
capitolo è ambientato nell'infanzia di Jonathan; piccolo
spoiler del terzo libro.
CAPITOLO
2
Un
dolore lancinante al polso, come mille aghi che si spezzavano nelle
ossa, mi piegai dal dolore con il respiro spezzato.
“Sei
debole.” pronunciò queste parole con lo sguardo irritato
e la mandibola serrata in una smorfia.
Per un
attimo mi sembrò combattuto tra l'idea di sgridarmi
ulteriormente o di aiutarmi.
Lasciai
che i capelli chiari mi cadessero sugli occhi per creare una barriera
tra me e mio padre.
“Alzati.”
“Mi
fa male.”
“Hai
solo preso una storta.”
Mi misi
dritto, impassibile, senza tralasciare alcuna emozione, anche se non
ricordo avessi provato nulla in particolare.
“Per
oggi basta.” sentenziò avvicinandosi a me e prendendomi
delicatamente una mano per poi tirare fuori lo stilo e farmi un
iratze sul polso.
Il
bruciore e il formicolio della runa sulla pelle mi riscossero dal
torpore in cui ero caduto non appena mio padre mi aveva toccato il
braccio.
Ogni
volta era come se forze mi abbandonassero, sentivo qualcosa gonfiarsi
nel petto, gli occhi bruciare...cose che non capivo e che forse sono
quello che tutti chiamano sentimenti.
Io
non provavo alcuna emozione, o almeno nessuna che valesse la pena di
essere provata: come la felicità, l'affetto o l'amore.
Sapevo
identificare la paura o l'angoscia: avevano sintomi comuni.
Per
esempio: se mi tremavano le mani o sentivo il mio corpo irrigidirsi e
il respiro farsi affannato, sapevo che quella era paura.
Un
mostro con sangue di demone: così mi aveva definito mio padre,
così ha pensato mia madre abbandonandomi.
“Devo
andare via nel pomeriggio, tornerò stasera.” disse mio
padre sorridendomi.
Nella
mia testa sapevo che invece sarebbe andato dall'altro ragazzo nella
villa accanto.
L'altro
Jonathan, l'altro me, l'altro me migliore di me.
Sentivo
il rombo del sangue nelle orecchie quando pensavo a lui, credo che
fosse odio.
Guardai
mio padre senza lasciar trapelare nulla: “Va bene.”
Corrugò
le sopracciglia alla mia risposta: ogni tanto la mia indifferenza lo
inquietava.
Il
fatto è che non mi cambiava niente che lui fosse in casa o
meno: non mi aveva mai letto una fiaba, non aveva mai riso con me,
non mi aveva mai raccontato una bugia per attutire la realtà.
Non
potevo sentirne davvero la mancanza.
Mi
sedetti sul davanzale della finestra e lo guardai sparire nell'aria
grigia del parco.
Ora
so che fu la curiosità a spingermi a seguirlo: infilai, la
giacca di pelle nera, allacciai in fretta gli stivali con le dita
intorpidite e mi chiusi con un tonfo la porta alle spalle.
L'aria
umida mi penetrò nei polmoni e l'erba mi bagnò l'orlo
dei jeans.
Seguii
mio padre a distanza fino a che non giungemmo davanti ad una villa
rustica con un grande prato attorno.
Aspettai
che entrasse prima di avvicinarmi a mia volta all'edificio.
Una
finestra era aperta.
Con
un balzo salii sul davanzale e sperando che nessuno sentisse i
battiti del mio cuore, scivolai dietro la tenda.
La
prima impressione che ebbi fu quella di vedere una famiglia: mio
padre non gli si rivolgeva così bruscamente come con me, e
quel ragazzetto angelico lo adorava, a discapito della ostentata
freddezza di mio padre.
Parlarono.
Io non avevo mai davvero tenuto con lui alcuna conversazione che non
riguardasse armi o demoni con lui.
Non
potevo sopportare oltre quella tortura, sgusciai fuori
silenziosamente come ero entrato e corsi via.
Corsi
senza mai fermarmi fino a casa e dopo essermi chiuso la porta alle
spalle mi accasciai privo di forze a terra.
Tremori
e versi strozzati mi riscuotevano la gabbia toracica e dopo un po'
vidi delle chiazze più scure formarsi sulla maglietta.
Mi
toccai le guance: erano bagnate.
Avevo
sette anni e non ricordavo l'ultima volta che avevo pianto, ma decisi
subito che era un'emozione che non mi piaceva.
Da
quel momento il Jonathan della casa accanto impregnò i miei
pensieri: volevo superarlo in tutto, essere migliore di lui, fare sì
che mio padre volesse più bene a me, che regalasse a me un
falco, che accarezzasse i miei di capelli, che desse a me un bacio
sulla fronte.
L'altro
Jonathan era semplicemente perfetto, era come se sapessi in partenza
che non l'avrei superato.
Era
bellissimo e perfetto.
*
* *
qualche
anno dopo
Mi
svegliai di soprassalto con i capelli appiccicati alla fronte e il
cuore che mi martellava nel petto.
La
stanza era ancora immersa nelle ombre della notte, ma riuscivo a
vedere il profilo dei mobili e degli oggetti mescolati alle ombre.
Mio
padre mi aveva descritto ciò che avrei dovuto fare con gli
occhi che luccicavano e sentivo l'eccitazione nella sua voce mentre
mi parlava.
Ero
fiero del compito affidatomi: significava che lui aveva fiducia in
me.
Avrei
dovuto prendere il posto di un ragazzo di nome Sebastian e
distruggere le difese di Idris.
Sentivo
l'adrenalina scorrermi nelle vene per questo piano apparentemente
suicida, mancavano poche ore alla partenza non avrei certo potuto
passarle dormendo.
Poche
ore e la mia vita sarebbe cambiata, non sapevo se avrei più
messo piede in quella casa.
L'idea
di rischiare la vita mi era pressoché indifferente, mio padre
teneva più di me a tenermi vivo, lui non avrebbe mai voluto
sprecare un tale esperimento.
Io
però lo sentivo tutte le mattine, tutte le ore, che c'era
qualcosa di sbagliato che mi soffocava, ero stanco di sentirmi una
larva.
Poi
mio padre pronunciò un nome tra quello delle persone che avrei
dovuto incontrare: Jonathan.
Ed
eccolo di nuovo che appare dal nulla e mi pugnala alle spalle; ma è
una pugnalata calda che dallo stomaco manda brividi in tutto il
corpo, non è una sensazione brutta.
Improvvisamente
non mi sentii più così solo.
Scossi
la testa per riscuotermi: non mi ero mai sentito così stupido
in vita mia.
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