Legami spezzati

di SaraSnow23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un salto nel vuoto ***
Capitolo 2: *** Purple Crush ***
Capitolo 3: *** Don't let it be love (because it hurts a lot) ***



Capitolo 1
*** Un salto nel vuoto ***


[Nota: il racconto si svolge durante la permanenza di Gambit nella Nuovissima X-Factor, squadra di supereroi mutanti ingaggiata dalla Serval Industries. Nello stesso periodo, Rogue e Wolverine militano sia negli X-Men che nei Vendicatori, e il mutante canadese è anche preside della Jean Grey School]

“SEI UN IDIOTA, LEBEAU!”
Rogue cercava con scarso successo di  impedire che la gonna strappata le si sollevasse oltre le ginocchia. Come se evitare di mostrare le mutande al proprio ex fosse di massima priorità quando stai precipitando a velocità accelerata da un grattacielo di cinquanta piani.
“Ma tu non sapevi volare una volta?” chiese lui di rimando, più preoccupato dell’imminente impatto con il suolo che delle cosce nude di Rogue. Lei lo fulminò con lo sguardo e incrociò le braccia con aria pericolosamente ostile, lasciando perdere per un attimo la gonna, che svolazzò verso l’alto rivelando una raffinata lingerie di pizzo nero.
“Quello era secoli fa, Gambit. Quando avevo assorbito i poteri e la personalità di Miss Marvel.”
“Ah, già.” Merde. Nessuno dei due sapeva volare, sarebbero morti spiaccicati sul marciapiede come due piccioni. Due piccioni terribilmente stupidi.
“Da quando indossi biancheria di pizzo? È lui che ti regala le cose di Victoria’s Secret?”
Rogue si trattenne dal prenderlo a pugni su quel suo strafottente muso francese soltanto perché il cajun si manteneva sapientemente fuori dalla sua portata.
“Non sono affari tuoi! Stava andando tutto benissimo, prima che arrivassi tu e quel pazzo mafioso decidesse di far saltare in aria il ristorante perché tu gli devi dei soldi!”
“Non gli devo dei soldi, ce l’ha con me perché ho aiutato Joelle a—“
“Ah Janelle…” Rogue roteò gli occhi verdi “Mi ero quasi dimenticata di quella là.”
“Joelle” la corresse lui.
“Come ti pare. Un’altra delle tue brillanti idee.”
“Che tu, tra parentesi, avresti potuto evitare di spifferare a Logan.”
Rogue aggrottò la fronte, ora sinceramente preoccupata. “Ho dovuto farlo, Gambit. È lui il preside, mio e anche tuo. Avevo paura che ti fossi messo nei guai, e avevo ragione.”
“Lo stesso vale per me, cherie. Temevo che ti stessi cacciando nei guai con quel tizio.”
“Beh, ora nei guai ci sono di sicuro!” il tono di Rogue tornò ad essere acido come un limone “Per colpa tua!”
Erano entrambi nei guai, se non si affrettavano a trovare una soluzione. Con i capelli castani che gli sferzavano il viso, Gambit guardò in basso, verso la strada che si avvicinava sempre di più. Un brivido di paura mista ad adrenalina percorse tutto il suo essere. Doveva fare qualcosa, non poteva permettere che Rogue morisse per colpa sua.


- 3 ore prima -

“Dicono che tu sia una sorta di esperto, Gambit”
L’ufficio di vetro dell’amministratore delegato della Serval Industries era inondato dalla luce calda e arancione del tramonto. Harrison Snow si guardava allo specchio nell’apparentemente arduo tentativo di allacciarsi il nodo della cravatta. Gambit se ne stava in piedi, con le mani incrociate dietro la schiena, in attesa che il capo gli spiegasse perché lo avesse fatto chiamare. Da solo.
“Una specie di Don Juan, maestro d’amore…” continuò Snow, degnandosi finalmente di voltarsi a guardarlo. “Per questo ho bisogno del tuo parere personale. E della tua discrezione, naturalmente.”
L’uomo andò verso la scrivania, aprì uno dei cassetti metallici e ne estrasse due scatolette di velluto. Le dispose ordinatamente sul ripiano di mogano e le aprì una alla volta. Gli occhi scarlatti di Gambit si accesero di interesse quando videro il contenuto. Due paia di orecchini in diamanti purissimi, leggermente diversi l’uno dall’altro, ma entrambi di incommensurabile valore. Il cajun si avvicinò, piegandosi in avanti per osservarli meglio. I diamanti scomposero la luce in miriadi di frammenti che si riflettevano sul suo volto abbronzato.
“Scegli, mr Lebeau.”
Gambit alzò gli occhi sul suo capo. “Volete farmi un regalo, mr Snow?”
Snow accennò un sorriso. “No, Gambit. Non sono per te. Mi serve sapere quale paio regaleresti alla tua ragazza.”
Gambit si grattò il mento con fare pensoso. “La signora Snow è di gusti difficili, mh?”
Di nuovo le labbra sottili del signor Snow si incresparono in un sorriso accondiscendete. Il genere di sorriso che un adulto fa in risposta alle osservazioni infantili di un bambino.
“Non … non sono per mia moglie, Gambit. Per questo richiedo la tua più completa discrezione e professionalità”
La signora Snow in questione in quel preciso momento era comodamente seduta su un volo di prima classe verso Londra, completamente ignara degli orecchini che suo marito voleva regalare ad una delle sue numerose amanti.
“Capisco” rispose Gambit, guardandosi bene dal fare anche solo mezza delle svariate battute piccanti che gli erano immediatamente balzate in testa. “Sceglierei questi, signore” Indicò gli orecchini alla sua sinistra. Harrison si limitò ad annuire e ritirare entrambe le scatole.
“Molto bene. Ti ringrazio, Gambit. Devo vederla stasera e voglio che sia tutto perfetto” diede un’occhiata veloce all’orologio “Anzi, dovrebbe essere quasi arrivata … Farò meglio a sbrigarmi. Buona serata, Lebeau.”
Gambit salutò e uscì dall’ufficio, ansioso di togliersi l’aderente tutina gialla da supereroe aziendale che Lorna gli aveva appioppato. Era comoda, in verità, e fasciava perfettamente il suo fisico atletico, ma era drammaticamente priva di tasche. E Gambit come diavolo faceva a nascondere le infinite carte da gioco che usava come armi? Per questo indossava una giacca di pelle marrone chiaro sopra la tuta. Anche perché gli stava dannatamente bene.
Raggiunse l’ascensore, ma lo trovò occupato, dunque aspettò pazientemente, appoggiato al muro del corridoio. Le porte metalliche si aprirono con un allegro “tin!” quando l’ascensore raggiunse il piano, rivelando un paio di tacchi vertiginosamente alti, accompagnati da due gambe perfette rivelate dal profondo spacco di un elegante vestito verde scuro. L’istinto maschile di Gambit fu subito all’erta e gli impose di staccarsi dal muro, raddrizzarsi e sfoderare uno dei suoi smaglianti sorrisi per accogliere come si deve la nuova arrivata.
Bonsoir, Mademoiselle… Rogue?!”
Per un attimo la ragazza ricambiò il suo sguardo stupito, poi si ricompose, scostandosi i capelli dalla spalla nuda con fare da gran donna. “Ciao, Remy. È bello vederti vivo, vestito e senza soldati federali alle calcagna.” Gambit si costrinse a smetterla di fissarla come un’apparizione e le rivolse un sorriso sincero. “Grazie, faccio del mio meglio. È bello vedere te, Roguey. Mon Dieu, non ti vedevo indossare una gonna da… beh, da un casino di tempo! Stai benissimo.”
Un velo di rossore fece capolino sulle sue guance, ma Rogue fu brava a tenerlo a bada, socchiudendo le ciglia e sorridendo enigmatica. “Ti ringrazio…Ma tu che cosa ci fai qua dentro?” Remy aprì un poco la giacca, mostrando il logo della Serval Industries sul pettorale sinistro della divisa. “Io qua ci lavoro, chère. Wolverine ha detto che se non la smettevo con i furti mi avrebbe cacciato dalla scuola. Così mi sono trovato un lavoro vero, o qualcosa del genere.” Rogue sembrò colpita e insieme preoccupata dalla notizia “Sono contenta che tu ti tenga lontano dai guai” disse e tagliò corto “Ora devi scusarmi, ma ho un appuntamento. Stammi bene, cajun.”
“Un appuntamento?” a Gambit bastò poco per dedurre ciò che già temeva.
“Non fare il geloso, Remy. Non stiamo più insieme da un po’.” Commentò lei, allontanandosi lungo il corridoio, lasciandolo da solo in compagnia di una scia intensa di profumo.

“Fumare danneggia l’organismo umano, Gambit. Non dovresti farlo.”
Appoggiato alla ringhiera del balcone della sua stanza nel palazzo della Serval, Remy osservava imbronciato il traffico cittadino scorrere lento molti metri sotto di lui.
“Lo so, Danger, sto cercando di smettere” rispose, lanciando di sotto il mozzicone di sigaretta. La robot si sentì in dovere di aggiungere altre osservazioni irritanti e tremendamente vere con la sua piatta voce metallica.“I livelli di orexina nel tuo sangue sono stranamente bassi. Qualcosa ti infastidisce?”
“Sono preoccupato, Danger.” Giù in strada vide Rogue uscire a braccetto con Harrison Snow e salire a bordo di una berlina scura, elegante, ma non troppo di lusso per non attirare l’attenzione.
“È un peccato che tu non possa trasformarti in un elicottero, cherie.”
Se Danger avesse avuto delle sopracciglia, le avrebbe senz’altro sollevate per mostrare il proprio stupore. “Mi stai chiedendo di farti da mezzo di trasporto aereo, Gambit?”
Il giovane sorrise e le diede un buffetto sulla spalla metallica. “No, una moto aziendale andrà benissimo. Tu mandami l’indirizzo del ristorante che Snow ha prenotato per stasera. Lo so che hai accesso a tutti i suoi dati, dunque fallo. Dopotutto mi devi un favore!”
La robot aprì la bocca per replicare, ma il mutante era già schizzato via, diretto al fornitissimo garage dell’azienda.
L’Epicure si trovava al cinquantesimo piano di un grattacielo in pieno centro, serviva la cucina più ricercata della città, aveva sempre musica dal vivo ed era circondato da un’ampia terrazza, dove gli avventori uscivano per ammirare lo spettacolo notturno delle luci cittadine.
Una pessima scelta, mon ami. Pensò Gambit, mentre raggiungeva l’ultimo piano del palazzo. Rogue detesta i locali troppo eleganti. Le aveva già mandato tre sms, ma lei si ostinava a non rispondere, perciò decise di chiamarla direttamente.
“Che c’è?!” la voce di Rogue interruppe a metà il quinto squillo.
“Vieni sulla terrazza, cherie. Ti prego”
“Ommioddio, sei qui?!”
“Per favore, solo cinque minuti …Altrimenti vengo dentro” aggiunse con un sogghigno. La finta minaccia sortì il suo effetto, perché Rogue, dopo un soffocato “fanculo!”, comparve sulla terrazza del ristorante.
“Che diavolo vuoi, Remy?” domandò, sistemandosi una ciocca bianca dietro l’orecchio.
“Quello è un uomo sposato, lo sai, Anne? Che ti è preso di uscire con gente come lui?”
Rogue sbuffò, distogliendo lo sguardo. “La parte dell’ex fidanzato geloso non ti si addice, Remy. Tornatene a casa e smettila di cercare di rovinarmi la serata.”
Ma Gambit era di tutto altro parere. “Questa storia non mi piace. Questo posto, lui” con la mano indicò l’interno del ristorante “che cosa c’entrano con te? Maledizione, Rogue, se la fa con la sua segretaria, li ho visti!”
La ragazza sembrava sempre più irritata dal suo comportamento e lanciava occhiate preoccupate verso la sala, per assicurarsi che Harrison non avesse notato che lei era lì con un uomo invece di essere in bagno come aveva detto. Si morse il labbro inferiore e finalmente si decise a guardare il cajun negli occhi. Erano sempre stati così dannatamente belli?
“Senti, Remy, ne parliamo in un altro momento, ok? Ora devo tornare da lui prima che—oh cazzo!”
Gambit si voltò, giusto in tempo per notare l’enorme elicottero che si avvicinava pericolosamente al tetto del palazzo. Sembrava un velivolo militare piuttosto ben armato, dal lato aperto due uomini reggevano quello che aveva tutta l’aria di essere un bazooka.
“All’inferno, Lebeau!” urlò uno di essi, prima di premere il grilletto e fare fuoco. Remy fu rapido ad afferrare Rogue per la vita, facendole da scudo con il proprio corpo.  Il proiettile esplose a pochi metri da loro con un colpo tremendo. Investiti dalla potente onda d’urto, furono entrambi sbalzati oltre il parapetto, mentre la terrazza si infrangeva in un nugolo di schegge. Gambit trattenne il fiato, sentendo il vuoto attorno a sé e le raffiche di vento sferzare sempre più forti. Udì Rogue urlare qualcosa, ma non riuscì a distinguere le parole. Dal tono di voce, però, intuì che non era un complimento. Aprì gli occhi, giusto in tempo per vedere se stesso e Rogue precipitare inesorabilmente verso terra.

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Capitolo 2
*** Purple Crush ***


Gambit non sapeva volare, ma aveva i riflessi e le capacità necessarie per tirare fuori entrambi vivi da quella scomoda situazione. Afferrò Rogue con un braccio, mentre con l’altro estraeva il bastone retrattile che portava assicurato ad una fibbia dietro la schiena. Sentì Rogue irrigidire i muscoli e stringersi a lui con tutte le forze. I lunghi anni in cui avevano combattuto fianco a fianco rendevano facile a entrambi intuire i movimenti l’uno dell’altra e agire di conseguenza. Gambit conficcò il bastone nel muro del palazzo, caricandolo di sfrigolante energia cinetica perché penetrasse a fondo e facesse da freno alla caduta. Scintille fucsia sprizzarono tutt’intorno insieme a vetri e calcinacci, mentre la loro discesa progressivamente rallentava.
Remy percepì i muscoli del braccio tirarsi fino allo spasmo, le ossa della spalla incrinarsi, ma non cedette. Nella loro caduta incontrarono l’ampia finestra di vetro di un ufficio che si infranse in mille pezzi al passaggio del bastone carico di energia. Con un colpo di reni, Gambit spedì entrambi all’interno della stanza. Chiuse gli occhi e strinse Rogue a sé, mentre cadevano sul pavimento in finto legno, rotolando fino al muro opposto.
“Stai bene, petite? Potresti solo…?”  
Rogue si affrettò a togliersi da sopra di lui e a controllare, seduta sul pavimento ingombro di detriti, di non avere niente di rotto.
“Non fraintendermi, non è che mi dispiacesse averti sopra di me, ma eri appoggiata proprio sul mio braccio e— ”
La ragazza inarcò un sopracciglio con aria scettica. “Non mi pare il momento per questo genere di battute, sugah” eppure non riuscì a trattenere un sorriso, che tuttavia svanì subito non appena notò il sangue spandersi sulla divisa di lui. “Mio Dio, Remy, sei ferito!”
 Il suo braccio destro, quello che aveva retto il peso di entrambi durante la caduta, penzolava inerme dalla sua spalla, in una posizione piuttosto innaturale. La giacca e la divisa erano strappate in più punti, da cui scorrevano lenti rivoletti di sangue. “Non riesco a muoverlo” osservò “ma ho sempre l’altro braccio. Insieme possiamo ancora dare una bella lezione a quei tizi.”
L’adrenalina contribuiva a tenere a bada il dolore, ma non sarebbe durata ancora a lungo: dovevano agire in fretta. “Avanti, prendi un po’ del mio potere…” Gambit infilò la mano sinistra tra i suoi capelli, le afferrò la nuca e avvicinò il proprio viso al suo per baciarla su una guancia. Ma Rogue non attivò i suoi poteri, né ricambiò quel bacio trasformandolo in qualcosa di più, non fece assolutamente nulla. Non aveva voglia di ritrovarsi con la testa affollata dei pensieri di Gambit. Lui l’aveva già scombussolata abbastanza, non c’era bisogno di cedergli altro terreno. Ora che aveva finalmente la completa padronanza dei propri poteri, Rogue temeva ancora di perdere il controllo e ritrovarsi al punto di partenza. Con la psiche divisa tra le mille identità assorbite e il corpo escluso da ogni genere di contatto fisico diretto. E se c’era qualcuno a questo mondo in grado di farle perdere il controllo –nel bene e nel male- quello era Remy Lebeau, detto Gambit.
“No, Remy …” Lui la guardò perplesso, forse anche un po’ deluso, ma lei non cedette. “Devo tornare da lui. E tu non puoi combattere in queste condizioni.”
Il rumore sferzante delle pale di un elicottero che fendevano l’aria interruppe per la seconda volta la loro conversazione. Gambit si alzò e andò a recuperare il bastone, che nell’atterraggio era volato qualche metro più in là.
“È buffo, sai?” commentò, posizionandosi davanti allo squarcio nel muro che fino a poco prima era una finestra. “Quando stiamo insieme, non posso toccarti, e quando potrei toccarti, in realtà non posso perché non stiamo più insieme. Comincio a credere che tu lo faccia apposta.”
Quando l’elicottero comparve nel suo campo visivo, Gambit era già pronto, il bastone che crepitava di luce purpurea nella sua mano sinistra. Lo scagliò con quanta forza aveva in corpo e quello tagliò l’aria, veloce come un proiettile, preciso come un giavellotto. Andò a infilarsi con rigore chirurgico tra le pale del velivolo ed esplose in un tripudio di scintillanti sfumature rosate. L’elicottero ruotò più volte su stesso e precipitò verso terra avvolto da una nube di fumo nero.
 
I vigili del fuoco erano intervenuti per spegnere l’incendio causato dal colpo di bazooka e portare al sicuro gli avventori. Avvolta in una calda coperta di lana, Rogue sorseggiava il tè offertole dai pompieri e in compagnia di Harrison Snow osservava alcuni supereroi occuparsi degli attentatori.
“È la mia squadra di supereroi aziendali” le disse Snow con un certo orgoglio. “Stanno facendo un ottimo lavoro.” Polaris aveva impedito che l’elicottero abbattuto da Gambit si schiantasse al suolo, causando danni irreparabili, mentre Quicksilver si occupava di portare al sicuro i civili.
“Perché non ti unisci a loro?” chiese, guardandola di sottecchi. “È un posto di lavoro eccellente per un mutante, e l’assicurazione sanitaria è inclusa.”
Rogue pensò che unirsi ad una squadra che comprendeva il suo ex, i figli del suo ex, una robot che –a quanto si diceva- aveva una cotta per il suo ex, un altro robot innamorato della robot e il ragazzo inquietante con il potere di dubbia utilità di interpretare le lingue fosse un’idea a dir poco suicida.
“Se entrassi a far parte della tua squadra, questo farebbe di te il mio capo. E io non sono il tipo di ragazza che esce con il suo capo.” Rispose lei, con un elegante sorriso di superiorità. Harry parve soddisfatto da quella risposta. Appoggiò una mano sul suo viso, accarezzandole i capelli.
“E che tipo di ragazza sei, allora?”
“Oh, ti piacerebbe molto saperlo.”
Fu lui a baciarla, afferrandole i fianchi, riempiendosi la bocca del sapore dolciastro di quel tè troppo zuccherato. Rogue lasciò cadere a terra la tazza di carta ormai vuota e si abbandonò al bacio, aggrappandosi alla giacca fresca di sartoria di Harrison Snow.
 
- la mattina dopo -
 
“I Vendicatori ci spiano.”
Benchè fosse mattina presto, i membri di X-Factor erano già tutti svegli e quasi operativi. Quasi perché in realtà si attardavano ancora assonnati nella cucina comune, quando il presidente Snow fece il suo trionfale ingresso salutandoli con quell’improbabile frase. Per poco Pietro non fece cadere la tazza di caffè che stava bevendo. Cazzo, mi hanno scoperto! Eppure sono stato attento …Sarà stato quell’idiota di Havok a far saltare la copertura. Lorna ha fatto bene a mollarlo.
Pensò, guardandosi intorno, in attesa che fosse qualcun altro a parlare per primo.
“E noi abbiamo qualcosa da nascondere?” domandò Gambit, con aria angelica. Era seduto a torso nudo sul divano, con Danger che si prodigava per cambiargli la fasciatura e medicarlo a dovere. Le sue attenzioni un po’ lo imbarazzavano, ma cercava di ripetersi che lei era un robot –una fottuta Stanza del Pericolo!- non poteva davvero provare attrazione per lui.
Harrison sembrò non notare la sua ironia. “Non so che diavolo creda di trovare Capitan America ficcando il naso nei nostri affari, ma in ogni caso noi siamo pronti a rispondergli. Anzi, voi siete pronti.”
L’intera squadra –mutante e robotica- si scambiò occhiate preoccupate.
“State suggerendo di andare contro i Vendicatori?” si azzardò a chiedere Lorna, lasciando definitivamente perdere il quotidiano che stava leggendo.
Il presidente parve divertito da quella domanda. “Ovviamente no, Polaris. Quello che voglio è che voi diate una dimostrazione di quello che facciamo alla Serval.” La drammatica pausa a effetto sembrò dilatarsi all’infinito nel silenzio della cucina. “Siamo specializzati nell’aiutare la gente!”
Dal perplesso mutismo che seguì, era chiaro che nessuno di loro aveva ancora capito dove diavolo volesse andar a parare con quel discorso, perciò Snow continuò: “Una settimana fa l’ennesimo uragano ha devastato la costa orientale: voglio che voi andiate laggiù a dare una mano agli sfollati. Fate buon uso dei vostri poteri e sorridete alle telecamere, Cap gradirà molto questo spettacolo. Il vostro aereo parte tra un’ora, siate puntali.”
Fece per uscire, ma si fermò sulla porta. “Ah, Gambit… la prossima volta che finisco nel mirino della mafia perché tu hai pestato i piedi a qualche boss ti sbatto fuori dalla squadra. Per oggi comunque puoi rimanere qua a riposare, con quella ferita servi a poco. Vedi di non combinare altri casini.”
Gambit pensò che se doveva vederlo fare lo stronzo con Rogue poteva anche licenziarsi subito, ma si limitò ad annuire obbediente.
“Uuh, qualcuno si è svegliato con il piede sbagliato…” commentò Lorna, dopo che Snow se n’era andato.
“Resta il fatto che non ha risposto alla mia domanda.” Disse Remy, rivestendosi ora che Danger aveva finito con le bende. “Forse ha davvero qualcosa da nascondere.”

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Capitolo 3
*** Don't let it be love (because it hurts a lot) ***


[Nota: se volete farvi del male -e se shippate Rogue e Gambit è perchè vi piace il dolore- leggete con la consapevolezza che Rogue muore (infilzata) sulle pagine di Uncanny Avengers 14 (ambientato dunque idealmente dopo X-Factor). In ogni caso, non disperate: nessun mutante resta morto molto a lungo.]



Avere Capitan America e Wolverine che la rimproveravano in stereofonia era un’esperienza che Rogue si sarebbe volentieri risparmiata. Ma mandare a puttane una missione apparentemente semplice richiedeva evidentemente questo tipo di umiliazione. Sedurre un giovane e ambizioso imprenditore inglese per scoprire se lui e la sua azienda sbucata dal nulla nascondessero qualche orrido segreto doveva essere un lavoro facile e pulito. Lei invece aveva rovinato tutto come una recluta alle prime armi. Non solo aveva mandato all’aria la copertura, ma aveva anche compromesso ogni ulteriore tentativo di indagine. Ora che Snow sapeva che i Vendicatori lo tenevano d’occhio non avrebbe sgarrato di una virgola.
Quando lui aveva provato a baciarla, Rogue aveva inavvertitamente attivato il proprio potere, iniziando a scavare nella sua mente alla ricerca di qualche segreto scottante. Lui se ne accorse subito e, con grande sorpresa di Rogue, reagì elevando potenti difese psichiche, che la chiusero definitivamente fuori dalla sua coscienza.
Aveva reagito d’istinto, dopotutto non era colpa sua se i suoi poteri erano legati a filo doppio con la sua sfera emotiva –almeno questa era la versione che Rogue aveva riferito ai suoi superiori, guardandosi bene dal menzionare il fatto che c’era anche un certo cajun di mezzo. Ma Wolverine naturalmente sapeva –lui sapeva sempre tutto – e non aveva esitato a tirare in ballo Gambit, cercando di addossare a lui gran parte della colpa, con l’unico risultato di far apparire Rogue una ragazzina in balia di una cotta agli occhi di Cap.
Forse Wanda aveva ragione, Rogue non era fatta per quel genere di missioni raffinate. Era fatta per prendere calci qualche supertizio e incassare botte, cercando di sopravvivere il più a lungo possibile.
Alla fine, Wolverine la obbligò a prendersi due giorni liberi, con la raccomandazione di tenersi lontana dai guai. Raccomandazione che Rogue ovviamente ignorò.
 
Trovò Gambit in un fumoso pub irlandese e quando lo vide si sentì una stupida ad essersi preoccupata per lui. Anche con un braccio rotto e una spalla lussata, Remy riusciva a giocare a carte, barare e sedurre un paio ragazze piuttosto carine. Troppo carine. Rogue, che si era a malapena truccata, si ritrovò ad esitare sulla soglia, prima di trovare finalmente il coraggio di entrare.
“Posso rubarti cinque minuti, sugah?”
Senza distogliere gli occhi dal tavolo da gioco, Gambit cambiò due carte e rilanciò la posta prima di risponderle. “Sei venuta a ricambiarmi il favore, cherie?”
Rogue si costrinse ad essere tollerante. Dopotutto era lì per cercare di chiarire le cose. “Esatto. Oggi tocca a me rovinarti la serata.”
Gambit sospirò, sussurrò qualcosa alla biondina, che sorrise e scivolò giù dalle sue ginocchia. Mollò le carte e i soldi –per fortuna la partita era appena cominciata, così non era un grosso bottino quello a cui rinunciava – e seguì Rogue al bancone.
“Come hai fatto a trovarmi? Mi stai facendo pedinare?”
Rogue sorrise dietro il bicchiere di scotch che aveva ordinato per sé e per lui. “Ho i miei metodi. Come va la ferita?”
Gambit mosse appena il braccio fasciato. “Danger si è premurata di curarmi. Hank deve averle caricato un upgrade in medicina, perché ha fatto un ottimo lavoro. Anche se ho come l’impressione che l’abbia fatto più che altro perché non vedeva l’ora di spogliarmi …”
“ Come quelle due sedute al tuo tavolo?”
Per tutta risposta, Gambit bevve un lungo sorso di whisky. “Perché sei qui, Rogue?”
La ragazza sospirò, lasciando vagare lo sguardo sul pavimento lercio del locale, come se la risposta si celasse in mezzo alla sporcizia.
“Sono qui per darti una spiegazione riguardo a ieri sera.”
Gambit continuò a fingersi profondamente interessato al proprio drink. “Non mi devi nessuna spiegazione, chère. Come hai detto tu, non stiamo più insieme.”
“Sono venuta a chiederti scusa, Remy Lebeau!” la pazienza di Rogue si stava esaurendo in tempo record “Potresti almeno degnarti di guardarmi in faccia!”
A quel punto, Gambit ritenne saggio un cambio di rotta e le rivolse la sua completa attenzione. Sotto il suo sguardo rosso cupo, Rogue arrossì ancora prima di confessare. “…Io … non stavo veramente con Harrison, uscivo con lui perché ero in missione per conto dei Vendicatori.”
“Non sapevo che andare a letto con un ricco imprenditore fosse considerato una missione per salvare il mondo.” Replicò lui impietoso.
Rogue avvampò. “Non ci sono andata a letto!” esclamò, a voce un po’ troppo alta per un argomento del genere. “Dovevo solo guadagnarmi la sua fiducia per scoprire se nascondeva qualcosa.”
 Se la notizia lo aveva messo di buonumore, Gambit non lo diede a vedere.
 “E quale terribile segreto hai scoperto?” si limitò a osservare in tono sarcastico.
“Niente, perché quando ho provato ad entrare nella sua mente, lui è riuscito a bloccarmi. Ma quante persone normali sono addestrate a respingere un attacco psichico? È chiaro che ha qualcosa da nascondere. Dovresti scegliere con più attenzione i tuoi datori di lavoro, Remy.”
Gambit sollevò un sopracciglio, per nulla impressionato da quelle confessioni.
“E tu dovresti smetterla di uscire con affascinanti ricconi bugiardi e dongiovanni incalliti.”
Questa volta toccò a lei sogghignare. “Ma così ti autoescludi, sugah.”
Touchè.
Nell’imbarazzato silenzio che scese tra di loro, Rogue si ritrovò a fissare il proprio bicchiere ancora pieno, chiedendosi perché mai l’avesse ordinato, dato che chiaramente non aveva bisogno di spinte esterne per parlare troppo e dire cose di cui poi si sarebbe  pentita.
Gambit, invece, sembrava apprezzare l’alcol anche troppo. Svuotò il bicchiere e si alzò dallo sgabello. “Hai ragione, cherie. La strada per la mia redenzione è ancora lunga, non dovresti perdere il tuo tempo con me.”
Fece per andarsene, ma Rogue fu veloce a piazzarsi davanti a lui per tagliargli la fuga.
“Sono libera di perdere il mio tempo con chi voglio. Ti prego, Remy…” appoggiò una mano sul suo petto, all’altezza del cuore. Batteva forte e vivo, anche se lui a volte fingeva di non averlo.
“Fammi credere di apparire ancora irresistibile ai tuoi occhi …”
Si alzò in punta di piedi e lo baciò. Il breve attimo di stupore in cui lui esitò prima di ricambiare il bacio le parve eterno. Poi Gambit dischiuse le labbra, rispondendo con veemenza, mentre la sua mano indugiava sui contorni sinuosi del corpo di lei. Rogue si aggrappò a lui, fremente di desiderio finché …
“Aaaaah! Cazzo, Rogue… !”
La ragazza sgranò gli occhi verdi e si staccò da lui. “Scusami, non volevo attivare i miei poteri… stai bene?”
Lui parve un po’ imbarazzato da quella reazione molto poco virile che si era lasciato sfuggire.
“I tuoi poteri non c’entrano... è che dovresti evitare di appoggiarti al mio braccio, almeno per le prossime due settimane.”
 “Oh” fece lei, visibilmente sollevata. “Per un attimo ho temuto di aver di nuovo perso il controllo. Quante storie per un braccio rotto, mi hai fatto venire un colpo!”
Gambit continuava a massaggiarsi la spalla dolorante. “Sì, beh se tu non ci fossi atterrata sopra, probabilmente avrei evitato una frattura scomposta.”
Rogue incrociò le braccia. “Stai dicendo che è colpa mia?”
“Sto dicendo che il tuo dolce peso non ha aiutato.”
Le guance di lei assunsero un preoccupante colorito rosato. “Stai perdendo punti, Lebeau. Un’altra parola e la frattura scomposta sarà l’ultima delle tue preoccupazioni.”
Gambit sogghignò, compiaciuto nel vederla abbassare le difese di fronte alle sue provocazioni.
“Perché invece non riprendi con i tuoi goffi tentativi di sedurmi?”
“Goffi?” Rogue sbatté le ciglia sconcertata. “Mi sembra che ti abbiano fatto cedere abbastanza in fretta, cajun.”
Questa volta fu Gambit ad avvicinarsi per primo. Le accarezzò il viso e si prese il tempo di ammirarla con i suoi profondi occhi scarlatti.
“Non potrei mai resisterti.” mormorò. “Neanche tra cent’anni. Ma so che averti per una notte soltanto non mi basterebbe.”
Rogue esitò, non era quella la risposta che si aspettava. “E se non avessi nient’altro da offrirti?”
Una ruga di preoccupazione fece capolino tra le sopracciglia scure del ragazzo. Perché quelle parole suonavano tanto come un addio? “Che cosa vuoi dire, Rogue? C’è sempre stato molto di più tra di noi.”
“Lo so… non si tratta di questo. È che mi sei mancato, Remy. Ma non voglio che tu–”
La baciò prima che avesse il tempo di concludere la frase, perché sapeva bene che ciò che avrebbe detto dopo non gli sarebbe piaciuto. Rogue, dal canto suo, decise che non ci sarebbe stato nulla di male nel rimandare il suo discorso di un altro po’. Gambit aveva argomentazioni piuttosto convincenti per spingerla ad agire in questo senso. Meglio ingannarsi per qualche ora, far finta che lui non avesse più i suoi torbidi segreti, che lei fosse una ragazza normale. Rogue si era ripromessa di mantenere un briciolo di razionalità, ma risultava difficile pensare stretta tra le braccia di Gambit, con le sue mani che, avide e sfacciate, agognavano ogni suo lembo di pelle scoperta. Si era quasi dimenticata quanto fosse bello poterlo toccare.
 
Quando, nel buio di una stanza d’albergo, si ritrovarono nudi l’uno sull’altra, a cercare con urgente desiderio risposte a domande mai dette, ebbero entrambi una fugace consapevolezza del perché le loro esistenze continuassero a inseguirsi e a separarsi costantemente.
Lo capirono, per il breve tempo di un respiro, ma nessuno dei due osò dar voce a quella fragile consapevolezza. Come se temessero di pronunciare la parola sbagliata e infrangere così l’incantesimo.
Nel silenzio complice di quella notte,  si dissero senza parlare tutto ciò che entrambi non avrebbero mai avuto il coraggio di dirsi. Che si sarebbero sempre appartenuti, nonostante tutto.
 
- FINE-

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