Gli occhi del Diavolo

di Ortensia_
(/viewuser.php?uid=124384)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Autore: Neu Preussen
Titolo: Gli occhi del Diavolo
Tipologia: yaoi; het
Generi: introspettivo; sentimentale; un pochino di angst (?)
Avvertimenti: AU; tematiche delicate; character!death (con un po' di splatter)
Note: //
Nda: lo ammetto: mi piace fare le cose in grande e probabilmente verrò picchiata per questo! ;3;
Siccome ritengo Mayuzumi un personaggio molto interessante, forse uno dei personaggi secondari meglio caratterizzati psicologicamente, ho deciso di scrivere questa centric su di lui. Ho questa headcanon di Mayuzumi come scrittore asociale che si rifugia in mondi di carta ed era un'idea che mi ronzava in testa da un po' di tempo, quindi ho deciso di approfittarne!
Spero soltanto di aver rispettato il più possibile l'IC, ugh.
E sicuramente dopo averla letta mi riterrai ufficialmente pazza.
Ah, una domanda! Una volta che mi avrai dato il permesso di pubblicarla, dovrò pubblicare tutti i capitoli in una volta oppure cominciare dal primo e pubblicarli a poco a poco?
Essendo un contest non ho idea di come debba fare! D:




Gli occhi del Diavolo





Capitolo I


‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



«Mayuzumi-san?» cinguetta serafica e si avvicina con estrema lentezza, alzo gli occhi verso di lei e mi soffermo in particolare sulle dita esili e pallide delle mani, sul libro che stringe e tiene premuto sul ventre.
Le mie labbra fremono d'impazienza, abbasso di nuovo lo sguardo e resto in silenzio.
«Mayuzumi-san, mia figlia adora i suoi libri!» annuncia entusiasta e mi porge il libro.
«L'ora degli autografi è finita, sono spiacente.» batto la punta della penna sulla carta e la guardo ancora una volta. Mi rendo conto soltanto adesso che è molto giovane e molto bella, ha una luce particolare negli occhi e un grande sorriso, come se stesse già pregustando la gioia della figlia una volta che le avrà restituito il libro con il mio autografo.
«Come si chiama sua figlia?» forse posso fare uno strappo alla regola. Per i bambini lo faccio sempre.
«Kyouko.» risponde immediatamente e amplia il sorriso.
Afferro il libro e prima di aprirlo do un'occhiata alla copertina, riconosco immediatamente che si tratta del mio secondo romanzo: La collina d'inverno.
Ho cominciato a scrivere a dodici anni, ho pubblicato il mio primo romanzo a diciassette e questo a diciannove, seguito da altri tre best seller. Adesso ho ventotto anni.
Faccio un rapido calcolo e mi sorprendo come sempre di scoprire che ormai scrivo da più di dieci anni, che il mio ingresso nel mondo della letteratura è avvenuto tanto tempo fa e che non sono più riuscito ad uscirne.
«Tenga.» concludo la dedica con la mia firma, chiudo il libro e lo restituisco alla donna: sono sempre troppo clemente con chi ha dei bambini, forse perché so cosa voglia dire rifugiarsi fin da piccoli nei mondi fatti di carta, forse perché è stata proprio mia madre a farmi amare la letteratura e le sono profondamente grato per questo.
«La ringrazio di cuore, Mayuzumi-san.» china il capo con un gesto di riverenza e si congeda, sfiorando ancora una volta le mie orecchie con la sua voce languida. Non riesco a risponderle e la guardo andare via, seguo il movimento lento delle sue anche, quello che per un istante mi pare lo stesso moto ondeggiante delle barche ferme nella baia.
Sono rimasto di nuovo solo.
Il silenzio ammanta la navata centrale della libreria e anche quelle laterali, chiudo gli occhi e inspiro profondamente: di cosa parlerà il mio prossimo romanzo? È ridicolo: ho firmato libri tutta la mattina ben conscio del mio successo, eppure non ho ancora uno straccio di idee per una nuova storia.
Torno a guardare la strada nella speranza di scorgere qualcosa di straordinario che possa ispirarmi, ma si sta facendo tardi e devo lasciare il posto ad uno scrittore emergente che arriverà a momenti.
Sospiro flebilmente e piego con estrema delicatezza la pila di fogli al centro della scrivania, li sistemo nel borsone assieme alla penna e mi alzo, dirigendomi in fretta all'uscita.
«Ikeda-san? Ti ringrazio.» chiamo la proprietaria della libreria e lei fa capolino dalla navata laterale. «È stato un piacere, Chihiro.» mi sorride e io ricambio: Ikeda-san è una delle poche persone con cui parlo volentieri e con le quali ho piacere di passare del tempo, era una grande amica di mia madre e mi conosce da quando ero piccolo, tutti i libri che ho letto fino ad ora li ho acquistati nella sua libreria.
«Ti saluto.» pronuncio con estrema calma mentre indosso il cappotto e lei risponde al mio congedo con un gesto energico della mano.
Appena metto piede fuori dalla libreria sento i muscoli delle braccia e del torace contrarsi, rattrappirsi, l'aria fredda mi sferza le guance e allora cerco rifugio al di là del bavero spesso del cappotto. Casa mia dista soltanto una decina di minuti da qui ed è ridicolo pensare che io l'abbia scelta soltanto perché si trova vicino alla libreria – il posto che frequento di più – e che quindi ci siano poche possibilità di incontrare qualcuno e di dover scambiare con lui qualche parola, ma è proprio questo il motivo.
Fuoco a mezzanotte.
La collina d'inverno.
Glicine.
Araba fenice.
Il canto delle sirene.

Ripeto mentalmente i titoli di tutti i miei romanzi, alla disperata ricerca di un elemento che possa essermi di ispirazione per il prossimo.
Detesto i momenti di blocco, detesto l'idea che un potenziale come il mio venga limitato dalla mancanza di idee.
È uno di quei momenti in cui tutto quello che penso mi pare terribilmente banale, noioso, in cui sembra che tutto sia già stato messo per iscritto.
Mia madre diceva sempre che i limiti li creiamo noi, aveva profonda fiducia nel genere umano ed era convinta che la volontà e la costanza fossero sufficienti per ottenere qualsiasi cosa: una visione affascinante, ma decisamente ingenua a parer mio.
Io sono una persona e in quanto tale ho dei limiti.
Io sono uno scrittore e in quanto tale sarò giudicato per quello scrivo.
Il Giappone è cambiato, il tempo in cui gli imperatori erano considerati esseri divini e i miei connazionali adoravano alcuni individui a prescindere dal loro operato è finito con la “Dichiarazione della natura umana dell'imperatore”, all'epoca di Hirohito.
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro. E cosa rimarrà di me? Un foglio di carta e una penna.
Le persone si ricorderanno di me quando sarò morto? Probabilmente no, io sono soltanto uno scrittore e anche se in questo momento sono molto apprezzato dalla critica non ho mai fatto nulla di così memorabile.
Io non sono perfetto, ma posso scrivere di una persona perfetta.
Sento un fremito percuotermi il petto, le labbra tremano e le palpebre si sollevano un poco di più. All'improvviso non mi importa più dell'aria fredda che mi brucia gli occhi, né dei pedoni che sbarrano la strada e limitano la mia velocità: voglio tornare a casa, ho un'idea e devo assolutamente scrivere, devo assolutamente creare il mio personaggio perfetto, devo dar vita all'imperatore. Anzi: imperatore, con la i maiuscola.
Un passo a destra, uno a sinistra, mi fermo un istante e sospiro spazientito, osservo meglio il crocchio di capelli brizzolati davanti a me finché non trovo uno spiraglio e finalmente riesco a superare la lentissima muraglia.
Sento di riuscire a trattenere a stento tutte le idee che mi scorrono davanti agli occhi e mi martellano la testa, ma allo stesso tempo sono profondamente rilassato, e questo perché la mia iniziale congettura sta cominciando a prendere una forma concreta nel mio immaginario ed è qualcosa di meraviglioso quando accade, è come se nutrissi un minuscolo embrione con le mie conoscenze, i miei ricordi, la mia esperienza e la mia fantasia ed è come se questo crescesse dentro di me e si preparasse a sbaragliare la concorrenza e a lasciare i miei lettori senza fiato.
Percorro gli ultimi metri che mi separano dal portone con le mani in tasca, alla disperata ricerca delle chiavi, mi avvento contro la serratura e varcata la soglia corro a chiamare l'ascensore.
Lui ha gli occhi rossi.
O forse dovrei optare per un colore naturale? No, perché dovrei? Ho scritto di sirene con gli occhi viola, posso scrivere anche di un imperatore con gli occhi rossi – dopotutto io stesso presento una colorazione innaturale per quanto riguarda i miei capelli –.
L'ascensore sta scendendo, è ormai questione di secondi, ma batto ugualmente la punta del piede a terra e sfrego i polpastrelli della mano sinistra contro il palmo, impaziente.
No, lui ha soltanto un occhio rosso, l'altro è … giallo?
Chiudo gli occhi per un istante e cerco di visualizzare i suoi occhi, ma le ante dell'ascensore si spalancano di fronte a me e perdo rovinosamente la concentrazione.
Entro immediatamente nell'ascensore e premo il pulsante su cui campeggia il numero quattro, chiudo di nuovo gli occhi e ascolto il flebile strofinio delle ante che si chiudono, poi, avvolto dal silenzio, ripenso ai suoi occhi e li trovo ardenti e vividi nell'oscurità cucita sotto le mie palpebre.
Dopo un breve e concitato scontro con la serratura della porta riesco finalmente ad entrare in casa, lascio il borsone a terra, mi tolgo il cappotto e lo getto sul divano, mi fiondo in camera e decido che resterò lì per almeno un'ora – il mio stomaco e la mia vescica possono aspettare, lui no –.
Immetto la password nel computer, apro un nuovo documento e comincio scrivere.
Non parlo del Giappone, ma descrivo un luogo molto simile, ci sono templi e pagode e cenere sui tetti rossi, alberi di ciliegio carichi di fiori – non voglio parlare della loro caducità e della loro associazione con la morte, ma desidero utilizzarli come metafora di bellezza estrema, veicolare, con la loro immagine, quella del mio imperatore –.
Il primo capitolo è introduttivo, stendo una descrizione dettagliata dell'ambiente e dell'epoca storica e soltanto alla fine comincio a parlare del mio imperatore senza nome.


― A destra un rubino, a sinistra un topazio. I suoi occhi erano gemme incastonate nel viso magro e bianco di un teschio, consumato dalla sua stessa bellezza armoniosa e selvatica.
I capelli erano color del sangue, le dita affusolate artigli nodosi stretti attorno all'orbe bianco che gli aveva lasciato sua madre.
Era l'uomo perfetto, eccelleva in ogni campo e non aveva compiuto mai alcun errore, era l'imperatore di una remota terra d'oriente, rispettato e temuto da ogni suddito, amato da poche donne in cerca di un animo carismatico che potesse riempire il loro, miseramente arido, odiato da tutti gli altri sovrani che, comparati a lui, avevano assistito all'inevitabile offuscamento della loro immagine.
Da qualche tempo era in cerca di moglie e aveva cominciato a rendersi conto che la perfezione aveva un prezzo. Non c'era donna del regno che fosse degna di lui, per cui i sovrani di alcune terre lontane gli avevano offerto le loro figlie nella speranza di celebrare un matrimonio che potesse portare loro ricchezza e prestigio, ma neppure le giovani principesse erano riuscite a conquistare il suo cuore.
Era l'unico essere perfetto sulla terra e aveva cominciato ad incappare nell'idea che sarebbe rimasto solo per il resto della vita, che nessuna donna sarebbe riuscita ad abbattere il suo cuore di pietra e ricostruirlo da capo, nuovo e migliore. Nessuna donna sarebbe mai riuscita a colmare il vuoto lasciato dalla morte prematura di sua madre. ―




Rileggo l'ultima parte e anche se non sono pienamente soddisfatto mi convinco che per ora può andar bene: magari la correggerò questa sera, oppure a lavoro finito. Meglio che vada in bagno adesso: la mia vescica si è stufata di aspettare.


Ho riletto un paio di volte il primo capitolo e l'ho perfezionato. Domani comincerò il secondo capitolo, ma immagino che la stesura richiederà molto più tempo di quello che ho impiegato per il primo.
Sono le ventitré passate e le mie palpebre pesano terribilmente, si abbassano e si risollevano in continuazione perché, non mi so spiegare il motivo, mi ostino ad osservare il soffitto, la sottile crepa illuminata dalla luce del lampione oltre le tapparelle – dovrei abbassarle, ma ho troppo sonno, la mia testa e le mie braccia pesano tonnellate e mi tengono inchiodato al materasso –.
Chiudo gli occhi, penso ai tetti rossi della pagoda ricoperti di cenere, ai lunghi e lisci capelli neri delle donne che hanno provato ad abbattere il cuore di pietra dell'imperatore e alla pelle di bronzo delle principesse provenienti da terre lontane. Addirittura mi torna in mente il sorriso della donna che questa mattina mi ha chiesto l'autografo per sua figlia, il movimento placido delle sue anche, proprio come quello delle barche cullate dai flutti fragorosi del mare.
Vedo gli occhi dell'imperatore, ardono e sfavillano di nuovo nell'oscurità cucita sotto le mie palpebre.
Non ha ancora un nome.
Qualcosa di freddo mi sfiora la guancia, scende rapido fino all'angolo delle labbra e sento un sussurro caldo all'orecchio.
All'improvviso la testa e le braccia non mi sembrano poi così pesanti e mi metto a sedere, toccandomi il viso e guardandomi intorno.
Devo dormire, sono così stanco che adesso sento anche le voci.
Deglutisco appena, mi inumidisco le labbra con la lingua e afferrò le lenzuola, ma il mio dito sfiora qualcosa di freddo e allora chino il capo per guardare.
Trattengo il fiato e aggrotto la fronte, afferrò un petalo fra le dita con estrema attenzione e lo sistemo nel palmo della mano sinistra: un fiore di ciliegio? Come ci è arrivato nel mio letto un fiore di ciliegio?
All'improvviso, però, riesco a ritrovare nella mia testa il ricordo del sussurro di poco fa e perdo completamente interesse per il fiore di ciliegio sul palmo della mia mano.
«Akashi …» pronuncio piano, presto attenzione al suono: sì, è questo che ho sentito.
«Akashi Seijuurou.»




L'angolino invisibile dell'autrice:

Nelle note autrice sopra (?) ho riportato ciò che ho inviato via mail a colei che ha indetto il concorso, mentre qui voglio ritagliarmi un piccolo spazio dove rivolgermi ai lettori.
Ho il vizio di complicarmi la vita e ho deciso di partecipare al contest provando qualcosa di nuovo, in prima persona. Inoltre ho voluto provare a scrivere qualcosa sulla scrittura stessa, quindi è molto importante per me che questo lavoro venga letto, perché credo sia la prima fanfiction seria e “matura” in cui mi cimento.
Chiunque voglia recensire sarà ben accolto, che il suo giudizio sia buono o meno. Sono molto felice di poter condividere questo lavoro, è la prima fanfiction che sono riuscita a terminare in meno di un mese ed è basata su un personaggio che amo moltissimo ma che nel fandom è abbastanza ignorato, quindi mi auguro che con questi dieci capitoli (sì, sono dieci capitoli e cercherò di aggiornare regolarmente!) possiate riservargli un occhio di riguardo!
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



A dodici anni mi sono reso conto che leggere non mi bastava più, quelli erano mondi altrui, io avevo bisogno di crearne uno mio.
Dubito che abbia iniziato a scrivere per amore dell'attività stessa, è un sentimento che è sopraggiunto molto dopo, quando ha cominciato a fruttarmi i primi riconoscimenti.
Ammetto di essermi comportato da egoista nei confronti della scrittura, di averla utilizzata per rifugiarmi in mondi fittizi dove non potessi essere trovato e di aver iniziato a considerarla come una passione, oltre che ad un nascondiglio, soltanto quando ho pubblicato il mio primo libro, ma ancora oggi, a distanza di anni, il motivo primario per cui scrivo resta questo: pur essendo una perfetta riproduzione delle persone reali, i personaggi di carta non fanno male.
Non lo faccio per soldi, non lo faccio per regalare delle emozioni ai lettori o a me stesso.
Sono una persona statica, non mi piace il cambiamento, non mi piacciono i viaggi, non mi piace parlare con gli altri. La scrittura mi ha fruttato molti soldi e non so che farmene. La scrittura mi ha dato notorietà e ammirazione, ma anche di questo non so che farmene.
Non voglio i soldi, non voglio l'amore delle persone. Tutto quello che voglio è poter vivere in un mondo dove le persone non possano farmi del male, ma so che pretendere questo dalla realtà è da pazzi, per cui ho deciso di crearmelo da solo.
I miei primi due romanzi parlavano di omicidi misteriosi, ma con Glicine ho cambiato genere e a poco a poco sono approdato alla dimensione fantastica, ai miti e alle leggende. Avevo bisogno di allontanarmi il più possibile dalla realtà.
Batto il polpastrello dell'indice sulla tastiera fredda e sospiro sommessamente: è tipico di me lasciarmi andare allo sconforto già al secondo capitolo, ho paura di non riuscire a rendere il mio mondo fittizio abbastanza solido come quelli dei miei romanzi precedenti, ho paura che si riveli così fragile da non riuscire a stare in piedi e crollare, temo che possa abbandonarmi da un momento all'altro.
Rivolgo il mio sguardo al fiore di ciliegio accanto al mouse, resto in silenzio e mi lascio scappare un sorriso: non so da dove sia venuto, non so come sia finito nel mio letto, ma voglio interpretarlo come un segno, un frammento di ciò che ho scritto ieri e che, in qualche modo, è riuscito a balzare fuori e a prendere forma concreta in questo mondo grigio e triste.
Il mio imperatore si chiama Akashi Seijuurou e ha qualcosa in comune con me: sua madre è la sola donna che abbia mai amato in tutta la vita, anzi la sola persona, ma lei è morta molto giovane e lo ha lasciato solo con i capricci e le isterie di suo padre.
Seijuurou è una persona molto delicata e sulla sua fragilità ha costruito la perfezione assoluta, ha cominciato ad accumulare successi prima per volere di suo padre, poi per pura assuefazione di vittoria e per cercare di nascondere il volto di sua madre sotto un mucchio di trionfi.
La morte prematura della madre è il suo unico cruccio, l'unico, minuscolo ostacolo che lo separa dalla perfezione ultraterrena ed eterna.
Midorima Shintarou, uno dei suoi più fedeli servitori, gli ha spiegato che l'unico modo per superare il trauma è trovare una sposa degna di lui, qualcuna che possa colmare il vuoto lasciato da sua madre, ma a questo punto del romanzo è già stato spiegato che nessuna donna è riuscita a conquistarlo, per cui subentra un secondo valletto. Un secondo valletto che potrebbe essere importante ai fini della storia ma a cui non so dare un nome, ed è questo il motivo che mi costringere a smettere di scrivere e a fermarmi a riflettere per qualche istante.
Akashi.
Midorima.
C'è qualcosa in questi nomi.
Aka.
Midori.

Rosso e verde. I colori.
Voglio aggiungere il blu e il giallo, e anche il viola, ma prima il nero.


― Non poteva accettare l'idea che fosse già tutto perduto, che avrebbe dovuto rinunciare a quella forma di perfezione tanto desiderata soltanto perché non era riuscito a trovare una sposa degna del suo nome.
«Mi rifiuto, Shintarou.» aveva una voce soave, ma particolarmente tagliente.
«Akashi-sama, non esisterà mai una donna in grado di sostituire la venerabile imperatrice.»
Gli occhi dell'imperatore scintillarono, il labbro superiore fece pressione su quello inferiore e la cassa toracica tremò in uno spasmo di impazienza.
«Akashi-sama?» una voce flebile, decisamente più morbida di quella del primo servitore, ruppe il silenzio e attirò l'attenzione dell'imperatore.
«Qual è il motivo che ti ha spinto ad interrompere la nostra conversazione, Tetsuya?» lo scrutò, parlò piano, la sua voce era una nenia velenosa che per un istante bloccò il respiro al giovane valletto.
Kuroko Tetsuya era uno dei suoi più fidati servitori, quello per cui Akashi nutriva maggior rispetto e ammirazione, tuttavia pretendeva da lui la stessa ubbidienza e la stessa riverenza che esigeva dagli altri e non amava essere interrotto – ma Tetsuya era una persona intelligente e, soprattutto, ciò che diceva non era mai fuori luogo, quindi doveva esserci una buona ragione se aveva ritenuto necessario troncare la sua conversazione con Shintarou –.
«Le chiedo perdono, Akashi-sama, ma recentemente ho appreso qualcosa che potrebbe estinguere i suoi affanni.»
L'imperatore spalancò gli occhi e tese il busto in avanti, separando la schiena dal morbido schienale di velluto rosso.
«Ti ascolto, Tetsuya.»
Il valletto si fermò di fronte a lui e si inchinò in segno di ringraziamento, riprendendo a parlare pochi istanti dopo.
«Ho trovato un antico testo nella seconda biblioteca imperiale, conteneva una profezia.» Tetsuya aveva il compito di leggere e tradurre ogni codice ed ogni manoscritto che non fosse stato ancora decifrato, per cui conosceva gran parte dei testi presenti nella prima biblioteca imperiale e parte di quelli della seconda, che aveva cominciato ad esplorare da pochi mesi.
«Parlava dell'uomo perfetto, Akashi-sama. Raccontava che lei si sarebbe messo alla ricerca di una giovane sposa per colmare la mancanza di sua madre, ma che, tuttavia, non sarebbe mai riuscito a trovare una donna degna della sua perfezione.»
«Questo lo sappiamo già, Tetsuya.»
«C'era qualcos'altro, Akashi-sama. C'è una seconda opzione.»
L'imperatore si alzò dal suo trono e scese la scalinata che lo separava dai suoi servitori, eccitato all'idea che ci fosse una seconda possibilità per raggiungere la perfezione eterna.
«Deve uccidere cinque mostri leggendari, Akashi-sama.»
Seijuurou si fermò a pochi centimetri da Tetsuya e sorrise.
«Elencami questi mostri leggendari, Tetsuya.»
Tetsuya restò a guardarlo per un attimo, poi riabbassò lo sguardo e si morse il labbro inferiore, vittima di un cattivo presagio.
«Il Drago Rosso di Ethyl, la Fenice delle Terre Fredde, il Cerbero che vive sotto la Cascata di Sheji, la Sirena del Lago Mihn e l'Idra delle Montagne Bianche.»
L'imperatore restò in silenzio, immobile. Batté le palpebre e fece marcia indietro, si sedette di nuovo sul trono e si rivolse ai due servitori.
«Shintarou, a te affido il Cerbero. Tetsuya, a te la Sirena. Dite a Daiki di prepararsi per affrontare la Fenice, a Ryouta di partire per Ethyl e ad Atsushi di indossare vestiti pesanti per quando sarà arrivato alle Montagne Bianche.» ―




Il trillo del telefono è assordante, alle mie orecchie risulta così amplificato perché, molto probabilmente, mi sono abituato al silenzio di casa, al battere famigliare delle dita sulla tastiera e a come immagino le voci dei miei personaggi che, a tratti, riescono addirittura a sovrapporsi e sovrastare i suoni assordanti che provengono dalla strada.
Faccio un po' di fatica ad abbandonare la stesura del secondo capitolo – soprattutto perché sono quasi alla fine – e rispondo al telefono.
«Mayuzumi-san?»
Riconosco subito la voce vagamente roca del mio editore e rimango senza fiato.
«Sono Yamada Akinori, forse mi sbaglio ma io e lei non dovevamo vederci per parlare della seconda edizione di Fuoco a mezzanotte
Mi sento uno stupido: come ho fatto a dimenticare una cosa così importante? Yamada-san ha deciso di concedermi un po' del suo tempo un paio di settimane fa e io ho appena buttato via un'occasione preziosa. Questo romanzo mi sta risucchiando l'anima, ho il brutto vizio di lasciarmi trasportare fin dalle prime righe e di dimenticarmi che il mondo fuori dalla mia porta va avanti.
Mi alzo immediatamente e rivolgo un'occhiata nervosa allo schermo del computer, rafforzo la stretta attorno alla cornetta del telefono e trattengo un sospiro.
«Non l'ho dimenticato, Yamada-san.» mento, non posso fare altrimenti «ho avuto un contrattempo.»
Che cosa devo fare? Vorrei continuare a scrivere e rimandare questo incontro, ma è probabile che l'occasione di avere un appuntamento con Yamada-san si ripresenterà fra diverse settimane.
«Ha ancora un po' di tempo? Cerco di raggiungerla il prima possibile.» forse è meglio fare una pausa, dopotutto sono ore che scrivo, ho passato tutto il pomeriggio a parlare dei servitori dell'imperatore, del loro passato, del perché si trovano lì e delle loro reazioni alla notizia che ad ognuno di loro è stato assegnato un mostro leggendario da uccidere.
«Cerca di essere qui entro le diciassette.»
Guardo l'orologio: sono quasi le sedici.
«La ringrazio, a fra poco.»
«A fra poco.» gli lascio appena il tempo di farmi eco, poi ripongo la cornetta, salvo il documento e spengo il computer: devo sbrigarmi, sarebbe impossibile parlare esaustivamente di una possibile seconda edizione in soli venti o trenta minuti. Un po' mi dispiace interrompere la stesura del secondo capitolo quando manca così poco per finirlo, ma forse è meglio così: riprenderò una volta tornato a casa, a mente lucida, e magari riuscirò a sfruttare la serata per correggere e perfezionare tutto quello che ho scritto oggi.
Mi dirigo alla porta, infilo il cappotto con un paio di gesti rapidi e imbraccio il borsone, poi esco e imbocco le scale dell'appartamento in tutta fretta.


Quaranta minuti sono stati sufficienti.
Ho in serbo qualche modifica per Fuoco a mezzanotte e Yamada-san ha accolto con entusiasmo tutte le mie idee, quindi la seconda edizione si farà, ma soltanto dopo che avrò concluso il romanzo su Akashi – dopotutto non ci metterò molto a terminarlo se continuo con questo ritmo –.
Sono le diciassette passate e io cammino lentamente, questa volta mi godo con piacere il marciapiede mezzo vuoto e cerco di resistere alle punture che l'aria gelida mi lascia sulle guance digrignando i denti.
All'improvviso qualcosa transita davanti ai miei piedi e mi taglia la strada.
Mi fermo, trattengo il fiato e seguo quel movimento leggiadro con espressione confusa.
So benissimo che non ci sono alberi in questa zona e che quelli che si trovano nel parco vicino alla metropolitana non sono di ciliegio, tuttavia alzo gli occhi al cielo e li cerco, trovando soltanto le nuvole scure e turgide di pioggia.
Torno ad osservare il fiore e una folata di vento lo spinge ad almeno un metro di distanza dai miei piedi, allora mi dimentico di tutti e lo raggiungo, mi chino a terra e lo afferro.
Ha la stessa consistenza di quello che ho trovato ieri sera nel mio letto, lo so perché è una consistenza diversa dai fiori di ciliegio che ho toccato finora, questi hanno petali più vellutati e resistenti, e poi sono di un rosa veramente delicato e piacevolmente luminoso.
Alcuni pedoni mi passano accanto rapidi, è come se non mi vedessero, eppure ho la sensazione di avere gli occhi di qualcuno puntati addosso.
Chiudo le dita attorno al fiore senza fare pressione e sollevo il viso.
Il mio cuore salta un battito, i miei occhi e le mie labbra si spalancano: è un kimono di pura seta bianca punteggiata di trame d'oro e d'argento quello che vedo, ma è una visione che scompare non appena sbatto le palpebre.
Rimango chinato a terra, serro le labbra e gli occhi e mi massaggio la radice del naso con le dita della mano destra: sono troppo stanco, dovrei tornare a casa e mettermi a letto. Ecco: la stanchezza è un limite, perché per colpa sua terminerò il romanzo fra breve, ma non in tempi così ristretti come potrei fare se fossi perfetto.
Sospiro profondamente: l'idea di tornare a casa, cenare e mettermi a letto senza concludere nulla mi rende particolarmente nervoso. Non mi importa niente della mia salute fisica, ho bisogno di scrivere per coccolare il mio animo e sentirmi parte di qualcosa, anche se questo qualcosa è un mondo immaginario.
Quando riapro gli occhi, il kimono di seta bianca è di nuovo lì, tuttavia non ho tempo di alzare lo sguardo, perché un fiore di ciliegio proveniente dall'alto cade proprio davanti a me. Quando lo afferro e lo sistemo insieme all'altro fra le dita della mano sinistra, il kimono di seta bianca scompare.
Spalanco le dita della mano sinistra per assicurarmi che i fiori siano reali, ed è così.
Mi alzo piano, riprendo a camminare ancora più lentamente rispetto a prima, confuso e alla disperata ricerca del kimono bianco.
Dopo aver attraversato la strada, un colore particolare attira la mia attenzione e il mio cuore salta di nuovo un battito.
I capelli erano color del sangue.
Ricordo alcune parole del primo capitolo e cerco di riprendere fiato: questa volta si tratta di una visione nitida e precisa, c'è qualcuno a pochi metri da me che ha lo stesso colore di capelli del mio imperatore.
Accelero il passo e scorgo un movimento lento e ondeggiante, quello di un kimono bianco.
Capelli così rossi sono facili da individuare fra quelli neri degli altri passanti.
Un kimono bianco è facile da individuare fra gli abiti all'occidentale di colore scuro indossati dalla maggior parte delle persone.
È così facile da individuare, eppure lo perdo di nuovo di vista.
Accelero il passo senza rendermene conto e mi fermo soltanto quando, giunto al punto in cui l'ho scorto prima, trovo altri tre fiori di ciliegio.
Sto forse impazzendo?
Sento di doverli raccogliere, sento che sono importanti, e allora mi chino di nuovo e ho modo di scorgere l'obi rosso e dorato.
Sorpasso alcuni passanti e giungo ad un bivio: la strada di fronte a me è vuota, per cui svolto a sinistra.
C'è un altro fiore di ciliegio e un vicolo cieco. Un vicolo cieco che non c'è mai stato.
Forse sto impazzendo sul serio.
Sospiro spazientito e mi chino a raccogliere il fiore, ed ecco che un paio di zouri di fibra intrecciata con lacci bianchi e il bordo del kimono di seta, dove si intrecciano finissimi decori in argento e in oro, compaiono davanti ai miei occhi.
«Ce ne hai messo di tempo, Chihiro.»
Mi sento morire.
La sua voce è soave, ma particolarmente tagliente, proprio come l'ho descritta nel secondo capitolo.
Ho il terrore di alzare gli occhi e di non trovare nessuno, scoprire che si tratta davvero di una visione provocata dalla stanchezza.
«Perché non mi guardi?»
Già, perché non lo guardo? Perché lui non può essere reale, ecco perché.
«Come conosci il mio nome?» deglutisco appena, mi ostino a guardare l'intreccio preciso della fibra e dei lacci bianchi dei suoi sandali.
«Come potrei non conoscerlo? Avanti, guardami.» la sua voce non è più così soave, è un coltello che sferza con forza l'aria, una lama sospesa sulla mia testa.
Resto in silenzio e sollevo lo sguardo, lui mi scruta e accenna un sorriso.
Ha i lineamenti fini, un viso armonioso, gli occhi felini, uno rosso e uno giallo. È lo stesso viso che ho immaginato e descritto nel mio romanzo, anzi è molto più bello.
Lui è bellissimo, ma non—
«Stai pensando che io non posso esistere, non è vero?» riesce ad incalzarmi con poche parole e io resto imbambolato, non posso credere che sia proprio di fronte a me.
«Alzati.» me lo ordina come se fossi uno dei suoi servitori. Non mi piace il tono di voce che usa, l'espressione con cui mi fissa, ma sono estasiato dalla sua bellezza e per questo faccio ciò che mi dice senza opporre alcuna resistenza.
Non dice più nulla e continua a guardarmi, poi amplia appena il sorriso e mi sfiora la guancia con un rapido tocco delle dita.
Non mi piace essere toccato, ma questa carezza non mi infastidisce, anzi mi fa capire che lui è reale e mi lascia completamente senza fiato.
Vorrei dire qualcosa, ma lui mi zittisce porgendomi un fiore di ciliegio.
Che diavolo significa? Questi fiori mi hanno già stufato.
Afferro il fiore e torno a guardarlo, ma lui è scomparso.
«Akashi ...» pronuncio il suo nome a fior di labbra, ma non ricevo alcuna risposta in cambio. Sono rimasto di nuovo solo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Dopo quel che mi è successo – ma l'ho visto davvero? L'ho incontrato davvero? – ho pensato di fare una pausa, ma è durata giusto il tempo della cena.
Ho scritto tutta la notte, terminando il secondo capitolo e cominciando il terzo.
Ho deciso che dedicherò un capitolo ad ognuno dei servitori, anche se non mi piace l'idea di dover lasciare da parte Akashi voglio parlare anche degli altri personaggi, dopotutto hanno un mostro leggendario da affrontare e non sarebbe giusto dedicare loro solo poche pagine.
Sento la testa incredibilmente pesante, ho bisogno di chiudere gli occhi e fermarmi un istante.
Respiro profondamente: è come se fossi rimasto in apnea da quando ho ricominciato a scrivere fino ad adesso.
Scosto le mani dalla tastiera, mi massaggio le tempie con le dita e apro gli occhi, guardo i fiori di ciliegio e mi soffermo su quello che ho trovato nel mio letto: non dovrebbe essere già appassito? Forse non ho immaginato soltanto Akashi, forse anche questi fiori sono frutto di una mia fantasticheria.
Ne sfioro uno con la punta di un dito, percepisco la consistenza morbida e fresca del petalo sulla pelle, lo vedo muoversi appena, sospinto dalla pressione che esercito col mio tocco.
Forse farei meglio a prendere questi fiori e buttarli via, ma sento che sarebbe un grosso errore se lo facessi. Vengono da Akashi, li terrò finché non saranno appassiti e sbriciolati dal tempo.
Sospiro sommessamente e rivolgo la mia attenzione alla pagina scritta per metà che campeggia sullo schermo del computer, sollevo lentamente la mano e mi sfioro la guancia per un istante, lì dove Akashi mi ha toccato.
Ho sentito realmente le sue dita sulla mia guancia, il suo tocco placido, morbido e freddo. Lo voglio vedere di nuovo, ora, e sarebbe possibile solo se fosse frutto della mia immaginazione.
«Akashi Seijuurou.» continuo a toccarmi la guancia e pronuncio il suo nome: mi piace il suo suono, è elegante e forte proprio come lui, ripeterlo mi fa sentire meglio, è una sorta di scossa che dà energia al mio corpo e mi ricorda che lui esiste, e forse non solo all'interno del mio romanzo.
Akashi Seijuurou.
Diventerà il mio mantra.
Rileggo le ultime parole scritte e poi mi alzo dalla sedia, mi sollevo in punta di piedi, inarco la schiena e tendo le braccia, mi sgranchisco le ossa e ne approfitto per chiudere di nuovo gli occhi, trattenendo a fatica uno sbadiglio: sono stanco, ma un tè caldo sarà sufficiente per farmi recuperare qualche energia e mi permetterà di tirare avanti per almeno un altro paio d'ore.


Il suono del campanello squarcia bruscamente il mio sonno, mi metto immediatamente a sedere e mi afferro il viso fra le mani, sfrego il dorso contro gli occhi chiusi e affondo le dita nei capelli, cerco di riordinarli alla bene meglio.
All'improvviso mi ricordo che è mercoledì e il suono del campanello non mi appare così strano, so addirittura chi c'è dietro la mia porta. A questo punto posso anche smetterla di cercare di rendermi presentabile.
Mi alzo dal letto, cerco di eliminare le pieghe che il peso del mio corpo ha lasciato sul materasso e mi dirigo in fretta alla porta, aprendola immediatamente.
«Buongiorno!» il solito tono di voce alto e forte, il solito sorriso cortese.
«Ciao.» lo saluto a voce bassa e mi faccio da parte, richiudendo la porta soltanto dopo che il mio ospite varca la soglia.
Questo è Ogiwara Shigehiro e ci vediamo ogni mercoledì mattina per discutere dei nostri progetti letterari. Ci siamo conosciuti da piccoli, ma lui ha cominciato a scrivere soltanto un paio di anni fa e quindi siamo un po' come l'allievo e il maestro.
È l'unico coetaneo con cui parlo e che frequento regolarmente, ma ha un carattere così diverso dal mio che non riesco davvero a considerarlo un mio amico.
Assomiglia molto a mia madre, si ostina ad avere sempre grandi aspettative e speranze, sorride alla vita come se si aspettasse una benedizione in cambio, ma non ha ancora capito che viviamo in una realtà triste, una realtà in cui tutti sono soli.
Non mi piacciono le persone ottimiste e ingenue come Ogiwara, affatto, ma so di per certo che lui è una brava persona e lo conosco da tanto tempo, per cui non ho problemi a riceverlo a casa mia una volta alla settimana e a renderlo partecipe delle mie idee – ogni tanto uno scrittore ha bisogno di essere elogiato, ha bisogno che gli altri lo rassicurino, quindi la sua presenza in casa mia non può essere altro che gradita –.
Ogiwara si ferma e mi rivolge un'occhiata silenziosa, io cerco immediatamente di sfuggire al suo sguardo curioso, soprattutto perché sembra sul punto di dirmi qualcosa che sicuramente non mi piacerà.
«Sembri molto stanco, Mayuzumi.»
Ecco, appunto.
È già capitato che mi abbia costretto a lasciare da parte la stesura dei miei romanzi per qualche giorno di riposo o che abbia insistito per portarmi a prendere un po' di aria fresca, ma questa volta l'apprensione se la può anche ficcare in quel posto, io devo assolutamente finire di scrivere il terzo capitolo.
«No, sto bene.» mormoro una bugia.
«Hai già cominciato un nuovo romanzo?» si dirige in cucina ancor prima di me – ormai fa come se fosse a casa sua – e io indugio un istante.
Non so spiegarmi le ragioni ma improvvisamente l'idea di raccontare del mio nuovo romanzo ad Ogiwara non mi sembra più così allettante, soprattutto dal momento in cui ho incontrato la copia sputata del mio protagonista in un vicolo cieco mai esistito.
«A dire il vero sto solo prendendo in considerazione alcune idee, ma pare proprio che l'ispirazione non voglia palesarsi.» mento ancora e distendo le labbra in un'espressione di sollievo quando Ogiwara resta in silenzio e si siede a tavola con estrema calma.
«Che vuoi?» questa è la “domanda di rito” che gli faccio ogni volta che lui si siede al mio tavolo, ma ormai non serve più, perché conosco già la risposta.
«Cioccolata calda.» ho già il barattolo del cacao fra le mani quando mi risponde.
«Devi avere molte idee per esserti ridotto così.» mi mordo il labbro quando lo sento tirare nuovamente in ballo il mio aspetto «avremo un bel po' di cose di cui parlare, oggi!»
«Veramente no.» mi affretto a rispondere e continuo non appena, sbirciandolo con la coda dell'occhio, scorgo il suo sguardo stranito.
«Sono idee molto stupide, non voglio parlarne.»
«Non importa.» Ogiwara si stringe nelle spalle e io traggo un sospiro di sollievo: questa è una delle cose che mi piacciono di lui, non cerca mai di costringermi a fare o dire qualcosa che non voglio.
«Piuttosto, come sta andando il tuo romanzo?» preferisco cambiare discorso e approfitto di un momento di silenzio.
La fiammella blu divora il fondo della scodella e la cioccolata comincia a rassodarsi e a porre resistenza al passaggio circolare del cucchiaio, io insisto e finisco per ignorare completamente Ogiwara.
«Credo di essere a metà! Stavo pensando che potrei fare una revisione, per vedere come appare nel complesso.»
Ogiwara ha scritto soltanto un romanzo fino ad adesso e ora è alle prese con qualcosa di nuovo, non è uno scrittore molto conosciuto ma semplicemente il mio “apprendista”.
«Forse dovresti.» mormoro e spengo il fuoco «la revisione ti sarà sicuramente utile per quando dovrai scrivere l'ultima metà.»
«Sì, lo penso anche io.» con la coda dell'occhio mi sembra di vederlo annuire energicamente, ma comunque non ci faccio caso e verso la cioccolata calda nella tazza, porgendogliela in fretta.
«Il titolo lo hai ancora deciso?» chiedo.
Ogiwara mugugna sonoramente: ha sempre avuto problemi con i titoli, anche quando doveva preparare temi e saggi a scuola.
«Sai, non credo riuscirò a trovare un titolo decente, sarebbe meglio se la leggessi anche tu, sicuramente mi sapresti dare un buon consiglio.»
Vorrei dirgli di non fidarsi così tanto delle persone, di non far leggere mai a nessuno in anteprima ciò che scrive se non vuole rischiare che le idee gli vengano rubate, ma io non sono così disperato dall'estorcere trame altrui, per cui lo lascio libero di parlare e sfogarsi.
«E penso che farò morire Yoko.»
Sollevo lo sguardo e gli rivolgo un'occhiata stupita: credo che la sua prima pubblicazione sia dovuta in parte alla fortuna, in parte a me, ma ormai ero dell'idea che avesse acquisito un po' di esperienza e che non avesse più bisogno di consigli simili.
«Priveresti la storia di un grande potenziale. Dai pochi capitoli che ho avuto modo di leggere, mi è parso di capire che Yoko è uno dei personaggi meglio caratterizzati e dove si riscontra un approfondimento psicologico maggiore, in più è molto apprezzabile rispetto alle altre due protagoniste.»
Ogiwara mi segue senza togliermi gli occhi di dosso, è come una spugna impaziente di assorbire la mia esperienza. Mi lusinga e mi infastidisce allo stesso tempo.
«Se è funzionale alla trama e non puoi proprio farne a meno d'accordo, ma se è semplicemente per far piangere i lettori non ucciderla a metà, uccidila alla fine. Se fai morire una delle protagoniste a metà, per giunta quella che occupa la maggior parte delle pagine, i lettori potrebbero perdere interesse e non riuscire ad arrivare fino alla fine.» a meno che il suo stile di scrittura non sia così entusiasmante da meritare di essere letto anche quando tutto sembra perduto e i personaggi migliori muoiono, ma io lo so che non è così. Ogiwara è una bella persona, ma il suo stile di scrittura è scarso e mediocre, per questo deve stare molto attento a quello che fa e alle decisioni che prende.
«Terrò in considerazione quel che mi hai detto, ti ringrazio.»
Un'altra cosa bella di Ogiwara è la modestia: sa di avere poca esperienza ed è sempre disposto ad ascoltare – e molto spesso a mettere in pratica – i miei consigli, non ha mai considerato le sue idee migliori delle mie e non ha mai preteso di sbaragliare la concorrenza per competere con me.
«Hai altro da chiedermi?» pronuncio con estrema calma, ma muovo nervosamente le gambe sotto al tavolo: ora che mi ha svegliato non vedo l'ora di ricominciare a scrivere.
«No, a dire il vero pensavo che anche tu avessi qualcosa da dire.» accenna un sorriso e io nego con un lento movimento del capo.
Non voglio parlarne con lui, non voglio parlarne con nessuno.
Non conosco la ragione, ma so che tutto ciò che sto scrivendo ora deve restare segreto, deve rimanere mio fino a che non verrà pubblicato.
«Mayuzumi, martedì prossimo partirò per Kyoto e starò via una settimana, quindi ti dispiacerebbe se venissi lunedì? Ti porterò gli ultimi capitoli che ho scritto.»
Si alza e capisco che è arrivata l'ora di riaccompagnarlo alla porta.
«Nessun disturbo.» borbotto sommessamente e questa volta sono io il primo ad uscire dalla cucina e il primo a giungere all'ingresso.
«Mi raccomando, riposa.»
Annuisco appena, ma a dire il vero non so neppure che cosa mi ha detto, la mia testa è già altrove, mi trovo nei pressi della grotta lavica di Ethyl, lì dove dorme il Drago Rosso.
«Dovresti andare in vacanza.»
«Non mi serve una vacanza.» faccio eco e apro la porta, lui varca la soglia e si volta ancora un istante verso di me.
«Allora ci vediamo lunedì.»
«A lunedì, ciao.»
Aspetto di vederlo imboccare le scale e poi chiudo la porta, resto fermo in corridoio per un istante e prendo una grande boccata d'aria: finalmente posso tornare a scrivere.
Ho appena varcato la soglia di camera mia quando il suono assordante del campanello squarcia nuovamente il silenzio.
«Merda.» brontolo nervosamente e torno indietro di corsa, con passo pesante: quell'idiota di Ogiwara deve aver dimenticato di dirmi qualcosa.
Apro la porta e fermo appena in tempo l'imprecazione che mi sta per uscire di bocca.
«Buongiorno.» mi sorride «qualcosa non va, Chihiro? Sembri nervoso.»
«Akashi ...» mi mordo il labbro inferiore e distolgo lo sguardo: non sono sicuro di poterlo chiamare così e i suoi occhi mi mettono a disagio, sembrano quelli di un serpente, sembrano scavarmi dentro ogni volta che incontrano i miei.
«Posso entrare?»
Traggo un sospiro di sollievo: pare che “Akashi” vada bene.
Non dico nulla e gli faccio spazio, lo guardo entrare e poi richiudo la porta, ben conscio di dover nuovamente rinunciare alla stesura del terzo capitolo.
«Come hai fatto a trovarmi?» forse è una domanda stupida, ma io non so niente di lui e lui sembra sapere tutto di me.
«Io so molte cose, Chihiro.» parla con calma, si guarda intorno esattamente come potrebbe fare una persona normale che entra in una casa sconosciuta.
Lui non può essere reale.
Volta lentamente il viso, guarda oltre la sua spalla e accenna un sorriso vagamente divertito.
«Io esisto davvero, Chihiro.»
Sembra quasi che sappia tutto ciò che penso, e la cosa non mi piace per niente.
«Non ricordi? Ti ho toccato e tu mi hai sentito.»
Non so più che cosa fare, che cosa dire, che cosa pensare. Forse dovrei semplicemente accettare la sua presenza e comportarmi come se fosse una persona normale, forse dovrei smetterla di avere paura e di sentirmi, allo stesso tempo, così attratto dai suoi occhi.
«Dovresti far entrare un po' di luce.»
Spalanco appena gli occhi e resto a guardarlo mentre indugia verso camera mia.
All'improvviso la luce illumina il corridoio e mi graffia con ferocia le pupille, Akashi torna indietro e i suoi occhi, trafitti da un raggio di sole, mi paiono di un colore ancora più intenso, come se nelle sue iridi fossero stati iniettati sangue e oro liquido.
«Non pranzi?» lui continua a parlarmi, ma io sono incantato sulle pupille sottili come cune di spillo, verticali come quelle di un gatto. Se credessi nell'esistenza del Diavolo, sono sicuro che i suoi occhi sarebbero questi.
«Che ore sono?» mi sento incredibilmente stupido. Completamente in balia dei suoi occhi.
«Sono quasi le tredici.»
Sì, forse dovrei pranzare, ma ultimamente sono così tanto impegnato nella scrittura che mangio soltanto quando sento di averne assolutamente bisogno. E poi non mi posso mettere di preparare il pranzo se lui è qui, a meno che …
«Vuoi … pranzare?» non è possibile che quello che nel mio libro ricopre il ruolo dell'imperatore e dell'uomo perfetto voglia pranzare con me, ma ha un modo di parlare diverso rispetto al romanzo e oggi non indossa il kimono bianco, ha abiti all'occidentale esattamente come i miei.
«Sono fonte di disturbo?»
«No.» e questa volta sono sincero.
Inspiro appena e muovo i primi passi in direzione della cucina, poi mi volto verso di lui e attiro la sua attenzione con un piccolo cenno della mano.
«Seguimi.»


«Tornerò a trovarti.» resta fermo sulla porta e tende la mano chiusa a pugno verso di me.
Resto in silenzio e tendo la mano spalancata, vedo il suo pugno adagiarsi sul mio palmo e mi soffermo per un istante sulla sua pelle, ancora fredda ma decisamente meno rispetto a ieri.
Il pugno di Akashi si incastra perfettamente nel mio palmo, ho quasi la tentazione di avvolgerlo con le dita, ma resisto.
Si scosta, fa un paio di passi indietro e quando rivolgo i miei occhi al fiore realizzo che quando li rialzerò lui non ci sarà più.
«Ti ringrazio per il pranzo.» ma non è così. Akashi sembra molto più reale di ieri, è davanti a me che mi sorride educatamente.
«Non c'è di che ...» mormoro e lo guardo percorrere il pianerottolo con estrema calma, chiudo la porta lentamente e cerco di riordinare le idee.
Lui esiste davvero.
Lui è un mio coetaneo che vive qui a Tokyo e gestisce una delle multinazionali del padre. È come se fosse l'immagine del mio imperatore traslata nella realtà.
Sono rimasto di nuovo solo e questa volta sento l'amaro in bocca, mi dispiace che Akashi se ne sia andato così presto.
Resto fermo all'ingresso per un po', forse perché mi aspetto di essere interrotto un'altra volta dal suono del campanello, ma c'è di nuovo un grande silenzio, sono chiuso in una bolla oltre le cui spesse pareti non trapassa alcun suono.
Finalmente posso tornare a scrivere, così mi fiondo al computer e ricomincio a digitare, il documento viene colmato da una valanga di parole: l'incontro con Akashi mi ha ispirato.


― Ryouta schiuse le labbra in un sospiro sommesso, il fiato tremò e stridette a contatto col vapore bollente. Sentiva il viso tirare, graffiato dalle lingue di calore.
La casacca bagnata di sudore era divenuta la sua seconda pelle, i capelli avevano perso il colore lucente, incupiti dalla cenere.
Il drago sfiatò e Ryouta affondò la spada nel terreno, aggrappandosi all'elsa per non essere spazzato via.
Il suo respiro era così caldo che per un attimo credette di essere circondato dal fuoco, non riusciva più a respirare.
Tetsuya gli aveva detto di stare molto attento, gli aveva spiegato che con il Drago Rosso di Ethyl servivano velocità e astuzia, una strategia ben precisa, per cui Ryouta aveva chiesto all'imperatore il permesso di portare con sé alcuni servitori di grado inferiore da usare come esca.
Usare alcuni servitori come muro di carne era un metodo contestabile, ma l'imperatore era disposto a tutti pur di raggiungere la perfezione e gli aveva detto di portare con sé tutti gli uomini che voleva.
Ryouta era rimasto in disparte e aveva osservato il combattimento, ne aveva approfittato per carpire più informazioni possibili sul drago e osservare le sue mosse.
Ryouta era uno dei cinque servitori migliori dell'imperatore per la sua abilità di mutare forma: poteva trasformarsi in qualunque creatura avesse visto con i propri occhi e ne assumeva le abilità. Quando le fauci del drago si chiusero sull'ultimo crocchio di servitori, Ryouta lasciò la spada e balzò in avanti, sentì una grande forza pervadere le braccia e le gambe, la gola ardere e la schiena strapparsi.
All'improvviso la terra non fu più sotto ai piedi e tutto divenne molto più grande, si avventò sul Drago Rosso e gli squarciò il fianco con gli artigli, sbatté le ali con forza e sentì il fuoco pervadergli la bocca.
Il Drago Rosso fu più veloce e affondò i denti aguzzi nella carne, Ryouta si sentì percuotere da una scossa di dolore acuto e pur non avendo ancora una completa confidenza con il suo corpo di drago capì che l'altro doveva avergli frantumato la spalla.
Ryouta cercò di volare più in alto e colpì il Drago Rosso con un respiro di fuoco, ma la creatura leggendaria conosceva meglio di lui i segreti dei draghi, la grotta lavica in cui stavano combattendo e, soprattutto, aveva una conoscenza millenaria sulla profezia dell'uomo perfetto, sapeva che un giorno avrebbero reclamato la sua testa e quelle di altre quattro creature leggendarie. In passato aveva già avuto modo di scontrarsi con altri soldati capaci di tramutarsi in drago e sapeva perfettamente come sconfiggerli, aveva l'esperienza dalla sua parte.
Ryouta apparteneva ad un'antica famiglia di guerrieri che avevano sviluppato una particolare abilità legata all'osservazione, la loro forza stava nei loro occhi.
Il Drago Rosso sputò una grossa quantità di fuoco, ma le scaglie dorate di Ryouta resistettero all'urto e gli diedero modo di avventarsi una seconda volta sul nemico.
Ryouta affondò i denti aguzzi nel collo del Drago Rosso, che strepitò rabbiosamente e cominciò a dimenarsi finché non riuscì a liberarsi e a squarciare il volto dell'altro.
Ryouta sentì le forze venire meno e non riuscì più a vedere, all'improvviso avvertì la durezza della terra contro le ginocchia e un urlo umano si sprigionò dalla sua bocca.
Si chinò su se stesso e continuò a urlare, le dita arrancarono sulle braccia nude e le ginocchia raschiarono ancora contro la terra dura.
Era nudo, sentiva il viso bruciare e la bocca continuamente invasa dal gusto metallico del sangue.
«I … i miei occhi ...» aveva la voce deformata dal dolore e dalla paura, dal terrore di aver perso per sempre la sua abilità.
Il danno che il Drago Rosso aveva fatto al suo corpo umano era disastroso e irreparabile.
Ryouta ebbe soltanto il tempo di sentire il fiato caldo del drago sulla sua pelle. I denti aguzzi lo infilzarono e lo strinsero con forza, e dentro la bocca della creatura esalò il suo ultimo respiro. ―

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Ogiwara ha ragione: sono terribilmente stanco, mi sembra di avere dei macigni che pesano sulle palpebre e le tirano sempre più giù, ma non ho intenzione di fermarmi. Riposerò una volta finito il romanzo, ora non c'è tempo.
Sono una persona piuttosto tranquilla, preferisco restare in disparte piuttosto che omologarmi agli altri, ma non sono remissivo e non mi piace quando le persone si prendono troppa confidenza con me, quando mi dicono cosa dovrei o non dovrei fare.
Conosco i miei limiti e so che riuscirò a resistere ancora un po'. Sarò io a decidere quando fermarmi.
«Ucciderai anche Daiki?»
La sua voce è un soffio leggero che mi carezza l'orecchio, mi sento attraversare da un brivido e le mie dita si pietrificano.
Akashi è qui già da un'ora e sembra non volersene andare, ma non è un problema: ho scoperto che la sua è l'unica presenza che non mi infastidisce mentre scrivo.
«Lo dovresti sapere meglio di me, no?» mi volto di tre quarti e lo guardo, lui accenna un sorriso e resta seduto ai piedi del letto.
Nemmeno io sono sicuro delle mie parole: Akashi sa che ho ucciso Ryouta perché gliel'ho raccontato, e gli ho anche detto che nel capitolo che sto scrivendo si parla di un certo “Aomine Daiki”, quindi la sua domanda è più che lecita, potrebbe avermela fatta chiunque, eppure continuo a credere che lui non sia solo una trasposizione del mio imperatore nella realtà moderna, ma che si tratti di lui in carne ed ossa e che quindi sappia già come devono andare le cose, che me lo abbia chiesto soltanto per rompere il silenzio.
Forse si annoia. Chiunque si annoierebbe a stare chiuso in una stanza con uno scrittore in piena attività, a pensarci bene.
«Chihiro?»
«Mhn?» riprendo a scrivere, ben conscio di avere i suoi occhi di Diavolo puntati addosso.
«Tu giocavi a basket, vero?»
«Sì, ma è passato tanto tempo dall'ultima volta.» gli rispondo immediatamente e continuo a scrivere: è incredibile come sia facile separare ciò che dico da ciò che penso, è come se ci fossero due me così distinti che neanche rischiano di sfiorarsi: uno risponde ad Akashi e l'altro descrive il clima tetro delle Terre Fredde.
«In che posizione?» lo sento alzarsi, scorgo la sua figura alla finestra.
«Ala grande.» rispondo con aria disinteressata e rileggo l'ultima riga, la cancello e ricomincio a scriverla in un modo completamente nuovo.
«Mio padre non voleva che giocassi a basket, è stata mia madre a convincerlo.» sbuffo e cancello di nuovo l'ultima riga «a dire il vero mio padre non voleva neppure che facessi lo scrittore.»
«Anche mio padre non voleva che giocassi a basket ed è stata mia madre a convincerlo.»
Lo guardo sorpreso e distolgo la mia attenzione da lui solo per un istante, quando solleva le tapparelle e la luce invade la stanza, colpendomi in pieno viso e ferendomi gli occhi: sembra proprio che non gli piaccia stare al buio, al contrario di me.
«In che posizione giocavi?»
«Playmaker, ero il capitano.»
Perché la cosa non mi stupisce?
«Come mai non giochi più?»
Lo guardo ancora per un istante, poi rivolgo la mia attenzione allo schermo del computer e mi lascio sfuggire un sorriso impercettibile.
«Scrivere mi piace di più.» faccio una piccola pausa e do una rapida occhiata allo spazio bianco lasciato dall'ultima frase che ho cancellato «e tu? Perché hai smesso?»
«Avrei continuato se mia madre non fosse morta. Da allora mio padre non me lo ha più permesso.»
Non ho idea di quando la madre di Akashi sia morta, ma so di per certo che doveva volerle molto bene: mi basta incrociare il suo sguardo per un istante, vedere la malinconia che brucia nei suoi occhi e li guida lontano, oltre il vetro della finestra, alla disperata ricerca di qualcosa. Di che cosa?
Per la prima volta da quando ho iniziato la stesura di questo romanzo, sento di voler smettere di scrivere per dedicarmi a qualcos'altro. A qualcun altro.
«Usciamo?»
È la prima volta che do più importanza alla realtà che al mio mondo di carta, ma non mi piace vedere l'espressione di Akashi mutare in peggio in un modo tanto repentino. Non sono bravo in questo cose, non me ne intendo di “rapporti umani”, ma prendere un po' d'aria fresca farà bene ad entrambi.
«Sei sicuro? E il tuo romanzo?»
«Il capitolo è a buon punto, posso fare una pausa.»
Akashi si stacca dalla finestra e si avvicina a me con passo felpato, mi adagia le mani sulle spalle e resta in silenzio per qualche istante.
«Va bene, ma lascia che sia io a decidere dove andare.»
Ha sicuramente molta più esperienza di me per quanto riguarda Tokyo; pur essendo nato qui ho sempre vissuto facendo la spola da casa a scuola e ora da casa alla libreria o da casa all'ufficio dell'editore, solo da piccolo facevo lunghe passeggiate per le strade con mia madre, ma sono ricordi sbiaditi di cui rimangono soltanto le briciole.
«D'accordo.» inspiro e chiudo gli occhi, mi soffermo sulle sue dita esili eppure incredibilmente forti. Le uniche dita dalle quali mi lascerei toccare per sempre.


Sollevo lo sguardo e contemplo il cielo terso, l'azzurro intenso che si specchia nel grosso specchio d'acqua che squarcia la terra e separa la nostra sponda da quella opposta, distante di almeno una ventina di metri.
Abbiamo lasciato Shinjuku e siamo arrivati a Bunkyou, al Parco Rikugien.
Non ricordo di essere mai stato qui, mia madre preferiva passeggiare lungo le strade e stare a contatto con le persone, adorava l'architettura e l'arte moderna in generale e sembrava avere una particolare predilezione per la tecnologia, al contrario di me che non sono mai stato attratto dal mondo esterno e, soprattutto, da quello umano. Ovviamente, se mi chiedessero di scegliere se passare il pomeriggio in un parco o se trascorrerlo di fronte ad un edificio colorato e dalle forme discutibili, sceglierei il parco: è molto più tranquillo, molto più rilassante, e la luce del sole ravviva talmente tanto i colori delle foglie e le scaglie d'acqua che un artista potrebbe perfino sceglierlo come luogo da raffigurare o da cui trarre ispirazione.
«Mia madre adorava questo parco.»
Akashi ha ancora quella nota di malinconia nello sguardo, osserva con attenzione l'acqua del lago e intreccia le dita ad un ciuffo d'erba.
«Credo di avere ancora alcuni dei suoi disegni.»
«Mhn?» aggrotto appena la fronte e anche io mi decido a sfiorare l'erba fredda con la mano «disegnava?»
«Era una ritrattista, ma solo per passione.» Akashi accenna un sorriso, ma è tirato, sembra afflitto.
Vedo le sue dita stringersi attorno ad un sassolino e riporto le mie fra le ginocchia, imprigionate e schiacciate.
«Mio padre non voleva che lavorasse, in più l'arte era un mondo completamente estraneo al suo e quindi mia madre ha coltivato la sua passione in privato. Io ero uno dei pochi a cui mostrava i suoi disegni e i suoi ritratti.»
Lo osservo in silenzio: lui almeno ha ereditato qualcosa da uno dei genitori, io non ho né la passione della finanza come mio padre né quella per l'architettura come mia madre – sono sempre stato così diverso da loro che ho pensato spesso di essere stato adottato o di essermi addirittura generato da me, poi guardavo i capelli di mia madre e mi arrendevo all'evidenza –.
Mia madre non mi ha lasciato nulla di lei, se non questa strana colorazione di capelli, e non so ancora se esserle grato per questo o se odiarla. Akashi, almeno, sembra conoscere perfettamente i sentimenti che nutre nei confronti della donna che lo ha cresciuto.
Il tonfo sordo a pochi metri dalle mie orecchie mi coglie alla sprovvista: sobbalzo e guardo l'acqua del lago tremare, il riflesso del cielo spezzarsi. Il sassolino non è più fra le dita di Akashi, ormai sarà già giunto al fondale, insieme a tanti altri.
Un sassolino che si omologa a tanti altri sassolini, proprio come un granello di sabbia sulla spiaggia o una goccia di pioggia durante un diluvio. Esattamente come me, Mayuzumi Chihiro, e le altre persone che abitano a Tokyo.
L'omologazione è così radicata che neppure i pochi che paiono distinguersi sono diversi o unici per davvero. È un mondo monotono, le persone sono tutte uguali – a parte Akashi –.
Lui sembra un pesce fuor d'acqua, lui è la pietra che brilla nell'oscurità del fondale, la conchiglia sulla spiaggia, il raggio di sole che squarcia il muro di pioggia.
Mi piacerebbe essere come lui, potermi distinguere.
«Si sta facendo tardi.»
Lo guardo alzarsi e, dopo qualche istante di esitazione, faccio lo stesso.
«Chihiro.» mi chiama e io so già che devo porgergli la mano, è un gesto istintivo per il quale mi maledico: da quando sono così remissivo? Da quando dipendo dalla voce di una persona?
«Grazie.» mi guarda e mi sorride, mi sfiora il palmo della mano con le dita e vi adagia un fiore di ciliegio.


― Daiki cominciava a sentirsi in colpa per aver respinto Tetsuya in quel modo, ma sapeva già tutto il necessario, non aveva bisogno di consigli su come uccidere la Fenice delle Terre Fredde e raccomandazioni su come uscirne vivo.
Sua madre gli aveva raccontato molte leggende riguardo le creature del regno e anche sulla Fenice: era un mostro feroce e solitario in grado di controllare il ghiaccio e il fuoco, si diceva che nessuno fosse riuscito a fare ritorno dalle Terre Fredde ad eccezione di un giovane stalliere che aveva assistito all'uccisione della Fenice da parte del sue re e poi alla resurrezione della creatura e al suo trionfo sul sovrano.
Quella che Daiki stringeva fra le mani era la spada di Hahn, forgiata mille anni prima da uno dei più grandi fabbri del regno e realizzata con un raro materiale capace di infliggere danni irreparabili alla Fenice. Uccidere la creatura con la spada di Hahn significava eliminarla per sempre, senza darle la possibilità di rinascere.
Daiki affondò lo stivale logoro nella neve finché non avvertì la terra dura e cava vibrare a contatto con la punta del piede; la Fenice contorse il lungo collo e strepitò, spalancò il becco aquilino e gli occhi infernali.
Daiki increspò le labbra in un ghigno e sollevò la spada, la puntò verso la Fenice e la guardò brillare: non vedeva l'ora di scontrarsi con quella creatura infernale, non vedeva l'ora di mettersi alla prova e adempiere al compito affidatogli dall'imperatore, dimostrando ancora una vota di essere il più valente dei suoi servitori.
Nonostante le Terre Fredde fossero molto più lontane della Cascata di Sheji e del Lago Mihn, lui avrebbe fatto ritorno molto prima di Tetsuya e Shintarou; l'unico che poteva dargli filo da torcere, a dire il vero, era Ryouta: erano in costante competizione e Daiki lo conosceva bene, sapeva quanto potesse essere testardo e che non avrebbe gettato la spugna tanto facilmente. Anzi, probabilmente il Drago Rosso era già morto, dopotutto Ryouta aveva una particolarità eccezionale e ne traeva sempre grandi vantaggi, mentre lui poteva contare soltanto su una spada e su quello che molti dei suoi sottoposti avevano definito “stile senza forma”.
Daiki era conosciuto per la sua velocità impressionante, per il fatto che i suoi movimenti fossero così sciolti e rapidi da far sembrare che il suo corpo fosse estraneo alle leggi della fisica.
Non aveva portato nessuno con sé: preferiva lavorare da solo, detestava l'idea di doversi coordinare con altri soldati e, in alcuni casi, darsi un freno per arginare il più possibile un pericolo che avrebbe potuto nuocere a tutti coloro che non possedevano lo “stile senza forma”.
«Ehi, mi sono stufato di aspettare! Pensi di scendere?» Daiki ghignò e roteò la spada; la Fenice, appollaiata sul promontorio ghiacciato, batté le ali e strepitò una seconda volta.
Daiki non aveva alcuna intenzione di scalare il promontorio, soprattutto dopo la lunga marcia attraverso le lande desolate ricoperte di neve e ghiaccio.
Dopo qualche istante, la Fenice si mosse e sbatté le ali con forza, atterrando di fronte a lui. Daiki scattò immediatamente in avanti e colpì le grosse zampe rugose e raggrinzite della Fenice, che reagì prontamente ma finì per conficcare la punta ricurva del becco nella neve.
Gli occhi della creatura seguirono i movimenti veloci di Daiki e quando lo vide nuovamente pronto a colpire si alzò in volo, gettandosi in picchiata su di lui pochi istanti dopo. Daiki si gettò a terra ed evitò gli artigli della creatura, sollevò in fretta il viso e cercò di non badare ai freddi granelli di neve incastrate fra le ciglia.
La Fenice spalancò il becco, ma Daiki rotolò sul fianco e si coprì il volto, evitando il getto di fuoco di circa un metro.
«Maledizione!» ringhiò e affondò la punta della spada nella neve, cercò di sorreggersi e rialzarsi e nel mentre notò che, nel punto in cui il getto di fuoco della Fenice aveva colpito la neve, questa si era sciolta, rivelando non terra, ma ghiaccio.
Spalancò gli occhi, incredulo, e sfuggì al getto di fuoco della Fenice ancora una volta, digrignando i denti non appena vide altro ghiaccio sotto la neve appena sciolta: il promontorio su cui stava appollaiata la creatura era circondato da un profondo canale ghiacciato, doveva tornare il prima possibile nel punto in cui aveva avvertito la terra a contatto con la punta dello stivale.
Daiki corse verso la Fenice e si insinuò fra le sue zampe, colpendole ancora con la spada.
La Fenice gracchiò e calpestò la neve, si alzò di nuovo in volo e colpì il ghiaccio che, nonostante lo spessore, si crepò immediatamente sotto il suo peso.
Strepitò di nuovo e innalzò un muro di ghiaccio con il proprio respiro freddo, e Daiki si ritrovò imprigionato e confuso per un istante. Un istante che alla creatura bastò per stringere nel becco il braccio destro del nemico, strappandoglielo insieme alla spada di Hahn.
Daiki rimase senza respiro e guardò con orrore il flutto copioso di sangue macchiare la neve, mosse esagitatamente le dita della mano sinistra e si voltò in cerca della spada, ma gli artigli della Fenice lo imprigionarono e dopo qualche istante fu gettato con violenza contro la parete dura e fredda del promontorio, precipitando infine nell'acqua ghiacciata.
Le dita di Daiki arrancarono debolmente sul ghiaccio, arrossate e doloranti, rese quasi insensibili dal freddo; l'acqua gelida gli tolse il respiro e si tinse di rosso; l'odore di sangue lo fece quasi vomitare. Sprofondò nel buio, l'acqua si insinuò nella bocca e il corpo divenne improvvisamente rigido.
Vide le piume lucenti della Fenice brillare un'ultima volta, una scintilla d'oro estasiare i suoi occhi stanchi del buio e del freddo nel fondo del canale: la sua tacita sfida con Ryouta era finita. ―




Forse è troppo violento? Questo maledetto romanzo sta prendendo una piega troppo sanguinolenta, non è ciò a cui ho abituato i miei lettori: forse dovrei modificarlo, forse dovrei addirittura cancellare gli ultimi due capitoli.
Sospiro profondamente e chiudo gli occhi, mi massaggio le palpebre con un lento movimento circolare dei polpastrelli e poi le risollevo lentamente, soffermandomi sui fiori di ciliegio adagiati sulla mia scrivania: ancora non appassiscono, è come se fossero attaccati ad un ramo di un albero vivo e vegeto, come se si nutrissero da soli.
Che cosa ne devo fare degli ultimi capitoli? No, per ora vanno bene, magari li ricontrollerò e apporterò qualche modifica a storia conclusa.
Sospiro sommessamente e spengo il computer, mi butto a peso morto sul letto e chiudo gli occhi: anche per oggi ho finito di scrivere, anche per oggi sono rimasto di nuovo solo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Deglutisco, la gola è secca e brucia a contatto con la saliva calda. Non riesco ancora a capacitarmi del sogno che ho fatto, ma sembrava così reale che sento ancora la morbida seta contro il mio viso, e vedo ancora i suoi occhi di Diavolo che mi pregano in silenzio di continuare, avverto la pelle liscia e rovente delle cosce bianche sotto le mie mani e le sue labbra calde sulle mie.
Com'è possibile che abbia sognato qualcosa di simile? I personaggi di carta sono e saranno per sempre personaggi di carta, è insulso che io abbia fatto un sogno del genere e che per la stessa ragione mi sia svegliato con il battito cardiaco a mille, la gola completamente secca e il basso ventre percosso da una costante pulsazione.
Sfiato sommessamente e deglutisco di nuovo, con meno fatica di prima, poi mi afferro il viso fra le mani e adagio la fronte contro le ginocchia, spalanco le labbra in cerca d'aria.
Ho voglia di vedere Akashi, ma dopo aver fatto questo sogno so che non riuscirei più a guardarlo nello stesso modo, quindi mi auguro che oggi abbia da fare e non possa venire a trovarmi.
E poi perché ho sognato l'Akashi con il kimono? Preferisco lui, all'Akashi reale? A dire il vero non so neppure se quello che definisco “reale” lo sia veramente.
Sono sveglio da due minuti e ho già mal di testa.
Appena mia madre venne a conoscenza del fatto che avevo cominciato a scrivere, ne parlò con un amico, un vecchio scrittore morto giusto un paio di anni fa. Ricordo che questo scrittore, che forse di cognome faceva Kasayama, mi incitò a continuare e, allo stesso tempo, mi mise in guardia dalla scrittura, mi disse che molto spesso era inevitabile affezionarsi ai personaggi e avere alcune preferenze, modificare la trama a causa dell'affetto spropositato che si poteva nutrire nei confronti dei protagonisti, tanto da discostarla nettamente dall'idea originale.
Non gli avevo creduto. Anzi, forse un pochino, ma avevo respinto immediatamente la sua idea: non avevo intenzione di affezionarmi ai miei personaggi, non volevo che la mia vita dipendesse dalla mia immaginazione e, soprattutto, avevo paura di sentire quel “vuoto” di cui Kasayama mi aveva parlato, un senso di inettitudine e malinconia che inebetiva ogni scrittore al termine di un libro a cui fosse particolarmente affezionato.
Non ho mai provato affetto verso i miei personaggi, non mi sono mai sentito “vuoto” dopo aver concluso un libro, – non mi è successo nemmeno con Fuoco a mezzanotte, che è stato il mio primo romanzo –, quindi mi chiedo che senso abbia sognare Akashi, come sia possibile che dopo aver scritto solo quattro capitoli sia riuscito a stabilire un legame così forte.
Adagio una mano al centro dello sterno e prendo fiato: il battito cardiaco si è stabilizzato, non è più un martello pneumatico che tenta di trafiggermi il petto dall'interno. La gola e la bocca non sono più secche, le labbra sono piacevolmente umettate e il basso ventre è ormai svincolato dalla concupiscenza onirica.
Mi auguro che non succeda più, perché, per quanto possa essere bello, sono perfettamente consapevole che non è reale.
Premo ancora la fronte contro le ginocchia, intrecciò le dita ai capelli e, superato l'ostacolo delle mie gambe, sbircio il copri materasso sgualcito, sciupato dal mio corpo durante la notte: è ora che mi alzi e vada a fare colazione, così potrò cominciare a lavorare al quinto capitolo, anche se i miei occhi sono terribilmente pesanti e la testa mi fa un male terribile.


― Shintarou rafforzò la stretta sull'amuleto di ossidiana verde e chiuse gli occhi, prese fiato, ripeté mentalmente che niente sarebbe andato storto, perché così avevano predetto gli astri. Lavorando come ricercatore scientifico per l'imperatore, Shintarou si era appassionato alle stelle e ai pianeti lontani, passava intere nottate ad osservare lo spazio attraverso telescopi e altri strumenti di tecnologia avanzata e aveva cominciato a studiare alcuni manuali, aveva cercato e trovato ogni costellazione che gli interessasse e aveva iniziato a credere che le stelle potessero comunicare qualcosa ad ogni essere umano presente sulla terra.
La sera prima della sua partenza, le stelle gli avevano assicurato che sarebbe andato tutto bene, al contrario di Tetsuya che aveva cominciato a dimostrarsi molto apprensivo e fin troppo preoccupato per l'incolumità di tutti loro.
L'idea di affrontare il Cerbero lo spaventava, ma dopo aver scalato la parete rocciosa a pochi metri dalla Cascata di Sheji ed essersi spinto sotto di essa una volta individuato il punto in cui la pietra si apriva, non aveva alcuna intenzione di arrendersi: avrebbe dato il massimo.
Shintarou infilò l'amuleto in tasca e imbracciò il fucile: era il miglior cecchino del regno, possedeva una mira ed una precisione invidiabili.
Due teste avevano gli occhi chiusi, l'altra due grosse gemme vermiglie spalancate, i denti affilati digrignati, il collo ritto verso di lui: proprio come aveva letto nei libri, si trattava di una grossa creatura a tre teste simile ad un cane, gli occhi di sangue, il pelo ispido e scuro come quello di un cinghiale. Una testa sorvegliava l'entrata della grotta e le altre due dormivano, le uniche occasioni in cui tutte e tre restavano sveglie erano la caccia e il combattimento per respingere visitatori indesiderati come lui.
Shintarou rafforzò la stretta sul fucile e prese la mira, premendo quasi immediatamente il grilletto.
Il Cerbero spalancò le fauci e latrò, ma la sua testa stramazzò a terra ancor prima che le altre due si svegliassero.
Come migliore cecchino del regno, Shintarou poteva permettersi le munizioni più prestigiose: proiettili così duri e affilati da poter perforare anche una montagna e che, una volta conficcati nella carne del nemico, si spezzavano a metà e rilasciavano un veleno letale.
Le altre due teste si svegliarono e Shintarou fece qualche passo indietro, cercando di prendere la mira una seconda volta – un solo proiettile non poteva bastare per abbattere una creatura così maestosa, doveva riservarne almeno uno per ogni testa –.
Ancor prima che riuscisse a premere il grilletto, il Cerbero lo colpì con una zampata rabbiosa e Shintarou si ritrovò con la faccia a terra ed un forte dolore al centro della schiena, quindi, incapace di valutare il suo stato e le possibilità di successo qualora avesse cercato di alzarsi in piedi, decise di restare coricato e imbracciò nuovamente il fucile, premendo il grilletto.
Il proiettile perforò uno dei quattro occhi della creatura ed una poltiglia verde e viscosa cominciò a riversarsi a terra, tuttavia la testa appena colpita restò viva e il Cerbero sollevò di nuovo una delle zampe e spalancò le fauci.
Shintarou rotolò sul fianco e conficcò la punta del fucile a terra per farsi da sostegno, così si alzò di nuovo in piedi e si preparò a sparare una terza volta, mirando al centro della testa che non aveva ancora subito danni.
Quando avvertì lo scatto del grilletto ma nessuna pallottola uscì dalla canna per colpire il Cerbero, Shintarou ebbe un sussulto e si ritrasse in fretta, alla ricerca di un punto riparato.
Un'altra zampata lo colpì in pieno e lo sbatté contro la parete della grotta.
Shintarou cadde sulle ginocchia e tossì, sputò il sangue che gli aveva invaso la bocca e afferrò di nuovo il fucile, premendo il grilletto più volte, ma senza risultati: l'urto iniziale doveva aver danneggiato l'arma.
Shintarou cercò di alzarsi in piedi, ma un dolore lancinante alla schiena lo costrinse a trascinarsi sulle gambe, almeno finché le due teste non gli si piazzarono davanti e spalancarono le fauci, avventandosi su di lui e riducendolo a brandelli in pochi istanti. ―




Akashi non si è presentato e il telefono non ha squillato, mi sono completamente isolato e ho dimenticato i rumori della strada, per cui ho scritto tutto il giorno e l'ho fatto senza sosta – se si escludono tutte le volte che mi sono alzato per andare al bagno e i dieci minuti passati in cucina a preparare un panino –.
Le palpebre bruciano e le tempie pulsano, mi sembra di essere reduce di una sbronza e per un istante il dolore è così forte da farmi pensare che nella mia testa stia nascendo un nuovo Inferno.
Sospiro sommessamente e mi prendo il viso fra le mani, mi sfrego gli occhi, ma le palpebre restano dolorose e pesanti, e allora mi alzo lentamente e indugio un poco al centro della mia camera, rivolgo un'occhiata lenta e disinteressata ai piedi del letto e poi all'uscita, verso la quale decido di dirigermi con estrema calma.
Quello di cui ho bisogno è una doccia. Una doccia lunga. E mi servirebbe fredda, peccato che non riuscirei a rilassarmi.
Una volta varcata la soglia del bagno chiudo gli occhi e procedo a tentoni, scosto l'anta zigrinata della doccia e mi tolgo la camicia con estrema lentezza, i pantaloni e i boxer con un po' più di velocità, perché il fiato del freddo sulla mia schiena mi fa quasi battere i denti e non vedo l'ora di sentire l'acqua calda che mi scorre sulla pelle.
Contorco le dita dei piedi e serro i denti a causa della ceramica fredda, afferro immediatamente il pomello dell'acqua calda e lo giro con un gesto rapido, quasi nervoso, mi lascio scappare un sospiro tremante non appena le gocce fredde mi colpiscono le gambe e uno compiaciuto quando le sento divenire a poco a poco chiaramente più calde.
Chiudo gli occhi e focalizzo la mia attenzione sull'acqua calda che si insinua fra i capelli e scivola lungo le braccia e i miei fianchi.
Ho intenzione di tenere gli occhi chiusi per un po' e di dimenticarmi, per almeno una decina di minuti – visto che non credo di poter fare di meglio – di Akashi e del mio romanzo.
«Chihiro?» la sua voce tagliante è un soffio gelido che frusta con violenza il mio orecchio, un alito di fuoco che disintegra il frammento di pelle fra le mie scapole.
«Chihiro?»
Sono forse stupido? Mi sono ripromesso di smetterla di pensare ad Akashi almeno per una decina di minuti, ma continuo a sentire la sua voce che mi chiama.
Sento una mano calda aderire al mio fianco e mi irrigidisco, vengo percosso da un brivido che mi elettrizza la schiena, le gambe e le braccia.
Come posso sentirlo?
Spalanco gli occhi e mi volto in fretta.
«Akashi …?» mormoro, cerco di dire qualcos'altro, ma le parole muoiono in gola. Come ha fatto ad entrare in casa mia? A dire il vero non mi importa, quello che ora attira la mia attenzione è il suo corpo nudo di fronte al mio, i suoi fianchi magri e la pelle pallida imperlata di piccole gocce trasparenti, il viso affilato carezzato dalle volute di vapore tiepido.
Akashi mi sorride e mi sfiora il viso con un tocco rapido e delicato delle dita, proprio come la prima volta che ci siamo incontrati.
Nel momento in cui le sue dita si scostano dalla mia guancia, un fiore di ciliegio cade ai nostri piedi, nell'acqua, vortica freneticamente e viene risucchiato quasi immediatamente dallo scarico.
«Chihiro, guardami.»
Sollevo lentamente lo sguardo e trattengo il respiro quando le sue dita mi sfiorano nuovamente la guancia, mi ritiro appena quando sento le sue labbra morbide posarsi sulle mie.
La doccia è stretta e io non posso scappare, e questo mi permette di fare due più due: perché respingerlo, se è proprio questo ciò che voglio? Per paura? Per questo strano sentimento che mi ha scacciato dalla realtà e mi ha esiliato in mondi di carta?
Gli accarezzo i fianchi con la punta delle dita, lo afferro per le anche e sento un fremito nel basso ventre non appena le sue labbra si schiudono contro le mie.
Ricordo i suoi occhi, il loro colore, la loro forma: sono proprio gli occhi del Diavolo, ormai ne sono certo.
Insinuo la punta della lingua fra le sue labbra, ma il gusto dolciastro e metallico del sangue mi fa indugiare.
Spalanco gli occhi, sento un bruciore lancinante al centro della schiena e stringo la presa. La presa sul nulla.
Spengo in fretta l'acqua e adagiò la schiena scottata alla parete fredda della doccia, in cerca di refrigerio; mi afferro il viso fra le mani, ansante, eccitato e nervoso.
Akashi non c'è, non è mai entrato nella mia doccia. Sono rimasto di nuovo solo.
Non posso provare qualcosa di simile per un personaggio che io stesso ho creato, tutto questo finirà per rovinarmi la vita. Dovrei distruggerlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



― Tetsuya aveva cercato di parlare con l'imperatore e di farlo ragionare, ma ripetergli la profezia per filo e per segno e spiegargli le conseguenze che avrebbe potuto comportare scagliare i suoi migliori servitori contro quelle creature leggendarie non era servito a persuaderlo dalle sue intenzioni. Quando l'imperatore decideva di fare qualcosa, non c'era modo che potesse rimangiarsi la parola o fare retromarcia, e in quel caso, purtroppo, un simile atteggiamento avrebbe comportato una perdita, un prezzo da pagare decisamente troppo alto.
Tetsuya aveva passato un giorno intero a far visita agli altri servitori per metterli in guardia del pericolo, ma tutti, ad esclusione di Ryouta, lo avevano respinto o non gli avevano dato ascolto, troppo tesi all'idea di scontrarsi con bestie feroci venute al mondo mille o duemila anni prima di loro.
Era partito con un'ora di ritardo rispetto a tutti gli altri: l'idea che le loro strade si sarebbero divise in quel modo e per sempre gli aveva dato il voltastomaco, così era rimasto chiuso nella sua stanza a vomitare e a cercare disperatamente una soluzione che potesse permettere agli altri quattro di tornare indietro sani e salvi. Soluzione che, mancando la lucidità ed essendo troppo forte la paura, non era riuscito a trovare.
Era partito anche lui, conscio del proprio destino. Lasciandosi alle spalle i tetti ricoperti di cenere delle pagode, non aveva fatto altro che augurarsi che almeno uno degli altri quattro ne uscisse vivo.
Tetsuya si era documentato a fondo sulla Sirena del Lago Mihn, ma non aveva trovato neppure un testo che riportasse una descrizione analoga ad un altro, anzi si diceva che quella creatura apparisse agli occhi di ognuno in modo differente, che spesso assumesse le sembianze di una persona cara al malcapitato. Si diceva anche che, nonostante la sua peculiarità fosse conosciuta, tutti cadessero nella sua trappola mortale.
Normalmente l'imperatore non avrebbe mai ritenuto degno di un incarico simile un servitore gracile come lui, ma Tetsuya aveva un dono particolare, un dono che aveva ereditato dalla madre, ultima Heerenyt vivente che lo aveva dato alla luce dopo essersi accoppiata con un umano.
Gli Heerenyt erano creature molto gracili, avevano grandi occhi e la pelle diafana, vivevano presso i fiumi ed erano conosciute per la loro gentilezza – che di fatto le aveva condannate nella Terza Guerra Imperiale –, ma soprattutto per un'abilità speciale che nessun altro essere vivente possedeva: l'invisibilità.
Tetsuya aveva ereditato proprio il dono dell'invisibilità da sua madre, un dono che lasciava alcuni residui anche quando non lo utilizzava, visto che a corte era conosciuto più che altro per la sua scarsa presenza.
Tetsuya aveva eliminato ogni traccia del proprio corpo già ad un chilometro dal Lago Mihn e una volta arrivato si era appostato sulla riva, aveva sistemato il proprio arco sulle gambe incrociate e aveva aspettato pazientemente. ―




Chiudo gli occhi e stringo la radice del naso fra pollice e indice, mi mordo il labbro inferiore ed inspiro profondamente.
Mi sembra di sentire la voce di Ogiwara che mi prega di smetterla, di prendermi un giorno di riposo, ma è un'eventualità a cui non voglio pensare. Non mi è mai capitato di avere così tanta fretta nel terminare un romanzo e ne ignoro il motivo, so semplicemente che voglio arrivare alla fine, voglio tornare a scrivere del mio imperatore e osservare gli effetti che le ultime parole della mia storia avranno sulla realtà.
Afferro il bicchiere e lo porto alla bocca, bevo la poca acqua rimasta al suo interno e dopo averlo riposto prendo una grossa boccata d'aria, poi ricomincio a scrivere, torno ad immergermi nel mio mondo, dove il battere dei tasti riecheggia lontano e dove le immagini sospese e confuse prendono vita, dove le radici crescono forti e sane e la carta si macchia di parole.


― Tetsuya schiuse le labbra e sollevò il proprio sguardo verso di lui, mormorò qualcosa di confuso e cercò di alzarsi, ma sentì le energie venire meno e restò inchiodato alla riva polverosa.
«Tetsuya, sei ancora qui?»
«Akashi-sama.» quando riuscì a pronunciare il suo nome cercò di alzarsi un'altra volta, ma fallì ancora.
«Ryouta, Daiki, Shintarou e Atsushi hanno già portato a termine la missione, manchi solo tu. Non farmi aspettare, Tetsuya.» Akashi gli porse la mano «ho atteso abbastanza, per me è arrivata l'ora di raggiungere la perfezione assoluta di cui si parla tanto nei libri.»
«Le chiedo perdono, Akashi-sama.» Tetsuya sfiatò sommessamente e restò a guardarlo per qualche istante, poi rivolse la propria attenzione alla sua mano e la afferrò con estrema cautela, come se stesse accarezzando il sottilissimo stelo di un fiore unico al mondo.
Le dita dell'imperatore si strinsero con forza attorno alla sua mano, come gli artigli di un rapace rabbioso e affamato.
Cominciò a mancargli il respiro, come se le dita dell'imperatore fossero strette attorno al suo collo; spalancò la bocca e cercò di respirare, ma l'acqua fredda scivolò in fondo alla sua gola e si insinuò sotto le sue palpebre.
Tetsuya si dimenò e cercò di serrare le labbra, ma non poté fare nulla contro la forza dell'acqua.
Aprì gli occhi solo per un istante, vide lunghi capelli rossi ondeggiare, squame variopinte brillare, colpite dai sottili raggi del sole che bucavano la superficie e si immergevano nel lago, fin quasi a toccare il fondo.
Le palpebre diventarono improvvisamente pesanti, il petto sussultò e il corpo fu percosso da un brivido, le braccia restarono protese verso la superficie e il corpo sprofondò, sempre più giù.
«Non farmi aspettare, Tetsuya.» la voce melliflua di una donna fu l'ultima cosa che sentì. ―




Nelle rare volte in cui decido di fare una passeggiata, esco di sera. Si incontrano meno persone e c'è molto silenzio, si riflette meglio.
Devo scrivere ancora un capitolo e poi, finalmente, potrò tornare a parlare del mio imperatore, potrò demolire il suo mito. Volevo scrivere dell'uomo perfetto, ma gli ultimi eventi mi hanno spinto a prendere in considerazione una svolta diversa da quella che avevo immaginato quando ho iniziato il romanzo.
Voglio capire chi è davvero Akashi, se è solo uno scherzo della mia immaginazione o se esiste davvero. Alcune volte penso che sia reale, altre volte mi rendo conto che è soltanto il riflesso della mia volontà, del desiderio che ho, fin da piccolo, di portare in vita ciò che scrivo e trovare il mio posto in una società diversa da questa, in una società in cui non si possa ferire e non si possa essere feriti. Come posso pretendere una cosa simile, se perdo la testa per qualcuno che forse è soltanto il frutto della mia immaginazione? A volte penso che un mondo senza emozioni sarebbe migliore di questo, ma io per primo non posso fare a meno di innamorarmi. Io voglio innamorarmi, nonostante la paura del rifiuto, nonostante la paura di non ricevere amore, nonostante la paura dell'esclusione. Io, che voglio un mondo senza emozioni, sentirei prima di tutti la mancanza dell'amore, e soffrirei. Io non avrò mai ciò che voglio, perché mi chiamo Mayuzumi Chihiro e sono soltanto una macchia sulla terra, come lo era mia madre, come lo era mio padre. Io sono uno dei tanti, non c'è nulla di speciale in me, niente di bello, niente che sia degno di essere ricordato.
Mi fermo di colpo e cerco di mettere a fuoco la figura immobile di fronte alla saracinesca abbassata della libreria.
«Akashi?» sussurro a fior di labbra e mi avvicino a passo rapido, lui si volta verso di me e non muta espressione, aspetta che lo abbia raggiunto per parlare.
«Comprerò il tuo libro.»
Resto in silenzio e schiudo le labbra per riprendere il fiato di cui la sua vista mi ha privato: la luce artificiale dei lampioni lo rende ancora più terrificante e meraviglioso del solito.
«Akashi, posso farti una domanda?» non so cosa mi gira per la testa, ma voglio scavare fino in fondo alla questione, voglio capire come è possibile che lui sia qui al mio fianco.
«Da dove vieni?»
Akashi sbatte lentamente le palpebre e volta il viso di tre quarti, lentamente.
«Cosa ti preoccupa, Chihiro?»
Aggrotto la fronte e affondo il canino nel labbro inferiore: detesto che ogni volta sfugga alle mie domande, che faccia di tutto pur di eludere la mia curiosità.
«Chi sei?» la mia voce risuona tagliente, non piace neppure a me, ma non ho potuto evitarlo: il suo comportamento mi innervosisce.
«Sono Akashi Seijuurou.» mi risponde con tutta la calma del mondo e io sfiato nervosamente, barcollo e mi volto per un istante ad osservare il marciapiede vuoto.
«Non mi sai dire altro?» voglio che mi dica che non è frutto della mia immaginazione, voglio che mi baci, ma questa volta per davvero.
«Non sono frutto della tua immaginazione, Chihiro.»
Torno a guardarlo, incapace di dire altro.
«Ma non ti bacerò.»
Lui conosce ogni mio pensiero, anche il più intimo. Siamo da capo: lui sa tutto di me e io non so niente di lui, ed è qualcosa che mi fa infuriare.
«Piuttosto, come procede il romanzo?»
«Bene.» rispondo velocemente, offeso dal fatto che lui possa leggermi dentro ogni volta che vuole e io non riesca a capire nulla di lui.
«A quale capitolo sei arrivato?»
«Sesto. Ne scrivo uno al giorno.»
«Che cosa scriverai nel capitolo di domani?» mi chiede con estrema calma, nonostante la mia voce rassomigli sempre di più ad un ringhio rabbioso.
«Di Murasakibara e dell'Idra.»
«E l'imperatore?»
«Di lui parlerò nell'ottavo capitolo.»
«Lunedì, quindi.» sorride «mi dispiace, Chihiro, ma non posso trattenermi ancora. Domani non ci incontreremo.»
Mi stringo nelle spalle e muovo la testa in un cenno di assenso, volto il viso verso di lui soltanto quando sento le sue dita sfiorarmi il dorso della mano.
Spalanco la mano e aspetto che Akashi vi adagi il fiore di ciliegio al centro, lo guardo in silenzio, le labbra contratte in una smorfia: un giorno capirò anche il significato di questi fiori e il motivo per cui non appassiscono mai.
«Prima della fine del romanzo avrai la scrivania ricoperta di fiori di ciliegio.»
Non rispondo, sono troppo concentrato a resistere alla tentazione di afferrargli la mano e intrecciare le mie dita alle sue.
Lui può provare qualcosa? Può amarmi? Forse è per questo che voglio distruggere la perfezione dell'Akashi del libro, perché ciò farà sembrare meno perfetto il vero Akashi e potrò illudermi di avere una possibilità con lui.
«Allora ci vediamo lunedì, Chihiro. Ciao.»
«Ciao.»
Soffermo la mia attenzione sull'asfalto, sento i suoi passi allontanarsi e resto immobile, non lo guardo andare via.


È passato un minuto, forse due, ed io sono rimasto di nuovo solo.
Sollevo lo sguardo e osservo ciò che mi sta intorno, ritrovo il marciapiede vuoto, dove le luci concentriche e giallognole dei lampioni segnano una strada nel buio.
Lui chi è? Akashi Seijuurou. Qualcuno di cui non so assolutamente nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Da quanto tempo me ne sto fermo qui a fissare il vuoto? Mi sono alzato presto e ho fatto colazione in fretta, con l'idea di ricominciare a scrivere una volta finita, ma dopo aver svuotato la tazza del tè mi sono ritrovato a stringere fra le mani il coccio colorato e ancora tiepido e ad osservare il vuoto. Anzi, a dire il vero ciò che ho davanti è una parete bianca alla quale sono appese due cartoline e un calendario, e poco più sopra si trova la mensola di legno di noce, con le ante dalle forme morbide e ricche d'intarsi, ma io sono così profondamente immerso nei miei pensieri che è come se non vedessi nulla di tutto questo, come se fossi circondato da un'oscurità compatta e spessa.
Akashi non verrà, oggi.
Sto pensando di tornare al Parco Rikugien, dove siamo stati tre giorni fa. Quando ero più giovane ho tentato di scrivere all'aperto, ma mi sono sempre sentito profondamente a disagio, non riesco a concentrarmi se ci sono persone intorno a me, per quanto non mi importi della loro presenza finisco sempre per catturare frammenti delle loro frasi e mi distraggo, anche se il più delle volte si tratta di un'abitudine involontaria. Il Parco Rikugien offre degli spazi tranquilli, forse se ci andassi a quest'ora del mattino non troverei nessuno e riuscirei a scrivere, riuscirei a scacciare il senso di oppressione che mi provoca l'idea dell'assenza di Akashi.
Perché mi dà così fastidio l'idea di non vederlo? Non sopporto le persone che dipendono dalle altre, il fatto che io stesso mi sia ritrovato in questa condizione patetica mi innervosisce profondamente.
Al diavolo il Parco Rikugien: se mi sedessi sulla sponda del lago rischierei di pensare ad Akashi e cadere di nuovo nel vuoto, in questa straziante malinconia che faccio tanta fatica a scrollarmi di dosso. E poi non ho idea degli orari di apertura, rischierei di trovarlo ancora chiuso.
Oggi è domenica e domani verrà Ogiwara, le cartoline appese alla parete che mi sta davanti sono proprio le sue. Lui ha viaggiato, al contrario di me, e anche se non è andato molto lontano ci vuole poco per capire che sicuramente la sua voglia di scoprire e imparare è molta più della mia ed è inesauribile.
Queste due sono le uniche cartoline che ho ricevuto in tutta la mia vita e, devo essere sincero, non le avrei mai appese alla parete se Ogiwara non mi avesse chiesto dove le avessi messe ogni santo mercoledì.
Non mi piacciono le cartoline: le trovo insensate, sono statiche e tristi. Mettono malinconia al mittente, che vorrebbe tornare nei posti meravigliosi che vi sono ritratti, e inoculano l'invidia nel destinatario, che vorrebbe vedere i paesaggi stampati su carta prendere vita davanti ai suoi occhi.
Fosse stato per me, queste cartoline sarebbero andate a finire in una scatola piena di cianfrusaglie inutili, oppure in mezzo ad una vecchia agenda, a fare da segnalibro a qualche romanzo.
Sospiro appena e chiudo gli occhi: fanno male dal momento in cui mi sveglio finché non vado a dormire e anche se manca relativamente poco alla fine del mio romanzo, sento che non potranno resistere ancora per molto.
Prima ci mettevo circa una settimana per completare un capitolo, ora soltanto un giorno – e una notte, se necessario –, ma si parla sempre di una quindicina di pagine, più di cinquemila parole da scrivere e ricontrollare, ricombinare e modificare.
Il suono improvviso del campanello mi mette in allerta. Salto in piedi con il cuore in gola e mi dirigo di corsa alla porta: che sia Akashi? Magari ha cambiato idea e ha deciso di venirmi a trovare. Quando apro la porta e incontro gli occhi gentili di Ikeda-san, non posso evitare di darmi dello stupido mentalmente e di ripetermi che devo smetterla di pensare ad Akashi.
«Buongiorno, Chihiro.» mi sorride ed io contraggo le labbra in una smorfia colma di delusione, rimango imbambolato sulla porta e per qualche istante mi sembra quasi di avere la bocca impastata di colla, non riesco a risponderle.
«Scusa l'orario, non ho potuto fare altrimenti.»
La libreria di Ikeda-san apre alle otto e trenta e chiude alle ventuno, quindi è giustificabile che abbia suonato alla mia porta così presto, ciò che non capisco è il motivo per cui si trova qui.
«Non ricordi, Chihiro? Ti ho portato le cartucce per la stampante e un blocco di fogli, due settimane fa mi hai detto che ne avevi bisogno.»
Annuisco appena e mi faccio da parte per lasciarla entrare: è vero, due settimane fa mi ero lamentato del fatto di essere a corto di fogli e cartucce, ma le avevo anche detto di procurarsele con calma, visto che in quel momento non avevo idee per un romanzo nuovo e credevo che mi ci sarebbe voluto qualche mese per trovare l'ispirazione.
«Ti ringrazio.» socchiudo la porta e attendo che estragga dalla borsa un blocco di fogli bianchi e un contenitore di cartucce, aspetto che me le porga e le afferro chinando appena il capo, in segno di riverenza.
Se Ikeda-san facesse parte della mia famiglia, sarebbe quella con cui andrei maggiormente d'accordo. È eccessivamente premurosa con me, è come una seconda mamma o una zia molto affettuosa.
Le cartucce e i fogli di carta potrei procurarmeli da solo, i soldi non mancano – dopotutto non sono una di quelle persone che dilapidano il proprio patrimonio per ostentare la loro ricchezza o per assecondare vizi come alcol e droga, anzi sono piuttosto parsimonioso –, ma Ikeda-san insiste sempre per regalarmeli, forse per ringraziarmi del fatto che io promuova i miei romanzi presso la sua libreria.
«Ti vedo stanco, Chihiro.» mi guarda attentamente e increspa le labbra in un piccolo sorriso.
«No, sto bene.» inspiro appena e distolgo il mio sguardo dal suo: come mai improvvisamente si preoccupano tutti per la mia salute? Dovrebbero lasciarmi in pace, dovrebbero lasciarmi scrivere.
«Hai iniziato un nuovo romanzo?» per fortuna Ikeda-san sa come la penso ed è perfettamente cosciente del fatto che non sono disposto a dare ascolto ai consigli degli altri quando si parla di scrittura.
«Una specie.» replico con aria disinteressata e lei non osa staccarmi gli occhi di dosso.
«Non sei soddisfatto?»
È una domanda a cui non so rispondere: raramente sono soddisfatto di ciò che scrivo e per abitudine, ormai, non lo sono neppure quando ciò che creo merita per davvero e viene accolto positivamente dalla critica.
«Diciamo semplicemente che è qualcosa di … diverso.»
Diverso è l'unica parola che fino ad ora riesco ad attribuire al mio romanzo in corso. È diverso, e non tanto per quanto riguarda lo stile e il registro, ma perché ogni volta che lo scrivo sento qualcosa agitarsi dentro di me, è come se mi facesse vivere alcune emozioni più intensamente di quanto ci riesca la realtà, un po' come mi aveva raccontato l'amico di mia madre.
«Te ne parlerò quando lo avrò concluso, non ci vorrà molto.» mi dispiace, ma sento che anche Ikeda-san, come Ogiwara, deve rimanere fuori dalla questione: ora ci siamo solo io e il mio romanzo, ci siamo solo io e l'imperatore.
«Allora ti auguro buon lavoro.» le apro la porta e lei si ferma sulla soglia, rivolgendomi un altro sorriso «mi raccomando, non stancarti troppo.» sì, sembra proprio una mamma premurosa.
Annuisco appena e la saluto, richiudo la porta con estrema calma e resto in ascolto del silenzio: sono rimasto di nuovo solo.


― Atsushi non trovava giusto il fatto che l'imperatore avesse deciso di destinare l'Idra a lui soltanto perché aveva la forza fisica di un titano. A dire il vero non trovava giusto neppure il fatto che i servitori dovessero uccidere quelle creature leggendarie per dare modo all'imperatore di raggiungere la perfezione assoluta tanto anelata.
Che cosa ci avrebbe guadagnato? Ormai i banchetti non gli bastavano più.
Atsushi non si accontentava mai, si rinchiudeva in uno stato di soddisfazione per un paio di settimane e poi, stufo della sua ricompensa non più così nuova, cominciava a fare i capricci e a chiedere di più: era un bambino. Un bambino alto due metri e otto e con spalle larghe come il tronco di una quercia millenaria, rompeva la pietra con un pugno e piegava il ferro a mani nude.
A causa della sua forza bruta, era temuto dalla maggior parte dei servitori, ma chi lo conosceva sapeva che bastava non provocarlo e dargli qualcosa da sgranocchiare per non inimicarselo.
Atsushi socchiuse gli occhi e sospirò: le Montagne Bianche erano terribilmente noiose, si trattava di una serie di anonimi monticelli di marmo e minerali dalle forme arrotondate sui quali non cresceva neppure un albero, non germogliava nemmeno un fiore.
Atsushi non vedeva l'ora di tornare a corte perché, anche se ormai conosceva benissimo quel luogo, succedeva sempre qualcosa di diverso, non era statico come poteva esserlo un gruppo isolato di montagne.
Nonostante le cime arrotondate, le Montagne Bianche erano rilievi piuttosto alti, non ripidi, non scoscesi, quindi facilmente percorribili, ma Atsushi ci aveva impiegato comunque un giorno e una notte per arrivare fino in cima, presso il grande lago che separava le due sommità più alte.
Avrebbe ucciso quel mostro a nove teste a mani nude, come aveva fatto con altre creature dei boschi per difendere la gente del suo villaggio, prima che l'imperatore insistesse per averlo al suo servizio.
Lo sguardo estremamente annoiato di Atsushi sembrò illuminarsi non appena scorse alcune increspature sulla superficie del lago.
Si diceva che l'Idra delle Montagne Bianche avesse la pelle dura come il marmo che circondava il lago in cui dimorava, ma Atsushi non credeva a quelle voci e qualora fossero state vere rimaneva il fatto che lui l'avrebbe ridotta comunque in pezzi.
L'acqua del lago si acquietò per un istante, poi tornò ad incresparsi, più energicamente di prima, e Atsushi si avvicinò alla sponda del lago, la bocca digrignata, i muscoli di gambe e braccia tesi come corde di violino.
La prima testa trafisse la superficie torbida del lago, seguita a ruota da altre tre e qualche istante dopo anche dalle ultime cinque, così l'Idra si rivelò in tutta la sua maestosità.
Atsushi non aveva dato ascolto alle parole di Tetsuya né si era preoccupato di leggere quelle poche righe che gli aveva indicato, quindi conosceva l'Idra attraverso i racconti degli altri servitori e a causa delle leggende aveva un'idea distorta del suo aspetto, non aveva pensato che sarebbe stato meglio leggere una vera testimonianza, per cui era giunto al cospetto della creatura piuttosto impreparato. ―




È proprio come ieri: sono costretto a fermarmi a causa del dolore agli occhi, ho bisogno di bere un po' d'acqua e di togliermi dalla mente il pensiero di Ikeda-san che mi chiede cosa stia scrivendo e mi prega di non strafare.
Non bastava Ogiwara, adesso ci si mette anche Ikeda-san. E per di più oggi Akashi non verrà.
Sto di nuovo pensando a lui, ma non posso farne a meno. Visto che dal prossimo capitolo in poi lascerò spazio all'imperatore penso proprio che ignorerò ancora per un po' questo continuo bruciore agli occhi e riprenderò a scrivere. Prima finisco il settimo capitolo, prima inizio l'ottavo.


― Alcuni dicevano che l'Idra avvelenasse i suoi avversari con il solo respiro, altri che la testa centrale fosse immortale, ma erano ipotesi che non si potevano affermare con certezza, visto che nessun uomo al mondo era riuscito a tornare dalle Montagne Bianche dopo essersi imbattuto nella creatura.
Atsushi non riusciva a vederne il corpo, ma i colli erano lunghi e nodosi, le teste come quelle di nove draghi, gli occhi così gialli da essere abbaglianti, come se racchiudessero in loro la luce del sole e le fiamme dell'Inferno.
Una delle bocche si spalancò ed emise un suono straziato, stridulo; Atsushi si avvicinò ulteriormente alla sponda, in attesa che la creatura iniziasse ad attaccarlo.
Quando le prime due teste gli piombarono addosso, Atsushi riuscì a fermarle con la sola forza delle mani e a respingerle con rabbia dopo pochi istanti, allora le fauci del mostro centrale si abbatterono su di lui, ma riuscì ad afferrarle in tempo e ad impedire che si chiudessero.
Atsushi contrasse i muscoli delle braccia e cercò di spalancare ulteriormente la bocca dell'Idra, chiuse gli occhi e affondò i denti nel labbro inferiore: la pelle di quella creatura era molto più dura del marmo, più dura di qualunque materiale avesse mai distrutto.
Finalmente riuscì a frantumare la mascella dell'Idra, che si ritrasse all'indietro; Atsushi, dal canto suo, dovette allontanarsi dalla sponda perché fu attaccato non da due, ma da quattro teste, seguite subito dopo da una quinta ed una sesta.
Non poteva aspettare che l'Idra venisse da lui, non aveva intenzione di passare un minuto di più in quel luogo noioso.
Sfiatò nervosamente e corse ad un estremo del lago, cercò un appiglio per una mano e per un piede e dopo averli trovati cominciò a scalare la parete.
Non appena l'Idra lo raggiunse, Atsushi si gettò sull'unica parte visibile della schiena del mostro, ma ci impiegò qualche istante per trovare l'equilibrio – era terribilmente scivolosa, viscida, come se sulle sue vertebre fosse cresciuto del muschio invisibile –.
Una delle teste dell'Idra cercò di colpirlo, ma Atsushi riuscì ad evitarla e le circondò il collo con una forte stretta delle braccia, per poi soffocarla.
La testa centrale tornò all'attacco, ma fallì miseramente a causa della mascella spezzata, mentre altre due sgusciarono attorno al suo corpo e gli fecero perdere nuovamente l'equilibrio.
Un'altra testa di abbatté su di lui, ma questa volta lo colse alla sprovvista e riuscì a stringere fra le fauci la spalla sinistra e gran parte del torace.
Atsushi si ribellò e cercò di sfruttare la mano destra per colpire la testa del mostro, ma le fauci dell'Idra furono più veloci.
Atsushi era fatto di carne, non di marmo, e come ogni uomo di carne spezzato a metà soccombé.―






L'angolino invisibile dell'autrice:

Eccomi qua! *3*
So di aver aggiornato molto prima del dovuto, ma oggi è il compleanno di Mayuzumi e quindi ho pensato di approfittare dell'occasione per pubblicare il settimo capitolo e chiudere, di fatto, il ciclo delle “uccisioni splatter” ùwù
Mancano solo tre capitoli alla fine, insomma~
Auguriamo tutti buon compleanno a Mayuzumi~~
Bene, rotolo via!
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Odio che sia successo proprio oggi, odio che i miei occhi abbiano raggiunto il loro limite e che questo mi impedirà di proseguire con la stesura del mio romanzo almeno per una settimana.
Oggi dovevo tornare a scrivere del mio imperatore, e invece mi sono svegliato con la vista annebbiata e un dolore lancinante nell'incavo sopra le palpebre.
Ogiwara ha insistito che chiamassi il dottore non appena è venuto a trovarmi. La motivazione che mi ha spinto ad acconsentire è la stessa del perché ho appeso le sue cartoline nella mia cucina: perché smettesse di assillarmi; tuttavia ho deciso di farmi visitare, anche se controvoglia, perché io stesso riconosco che c'è qualcosa che non va.
Alcune volte Ogiwara sa essere peggio di Ikeda-san. Ha preteso che lo chiamassi una volta arrivato a casa e mi ha riempito di domande, mi ha raccomandato almeno un paio di volte di riposare e di stare a letto come solo una mamma premurosa potrebbe fare. Patetico.
Questa volta sono costretto a seguire i consigli di Ogiwara, perché sono esattamente gli stessi del dottore.
Dovrò riposare gli occhi per almeno una settimana, e ciò significa non solo stare lontano dal mio romanzo, ma anche dalla lettura di altri libri che tengo sulle mensole. Per una settimana dovrò rinunciare al mondo di carta che mi tiene compagnia da quando ero piccolo: non avevo mai pensato ad un'eventualità del genere, probabilmente passerò sette giorni a fissare il soffitto bianco della mia camera e a dormire.
Non che guardare la televisione mi piaccia, ma sicuramente mi aiuterebbe a passare il pomeriggio, peccato che il dottore mi abbia concesso solo un'ora al giorno, quindi ammazzare il tempo con qualche stupido programma o un film è fuori questione.
Al suono stridulo del campanello inspiro profondamente e vedo il mio sterno sollevarsi e riabbassarsi velocemente, sbuffo e inclino la testa lentamente, guardo il pavimento: devo proprio alzarmi? Non ho intenzione di ricevere altre visite e raccomandazioni, non ho bisogno della pietà delle persone.
Sfiato sommessamente e torno a guardare il soffitto, ma un secondo trillo mi fa saltare i nervi. Mi alzo in fretta e mi dirigo all'ingresso, apro la porta e faccio quasi fatica a ridurre la stretta rabbiosa sul pomello. Stretta che si annulla non appena incontro gli occhi di Diavolo che riescono a scavarmi dentro con una semplice occhiata e di fronte ai quali non posso far altro che arrendermi.
«Oggi non scrivo.» annuncio, e lui non pare sorprendersi.
Varca la soglia senza chiedere il permesso e io non dico nient'altro, mi limito a chiudere la porta e a seguirlo, come se i nostri ruoli si fossero invertiti e fosse lui il padrone di casa.
Akashi varca la soglia di camera mia e io lo seguo a ruota, mi pietrifico non appena si volta verso di me e assottiglia il proprio sguardo, senza più togliermi gli occhi di dosso.
«Che brutti occhi ...» mormora appena e io mi sento immediatamente ferito dalle sue parole.
Le palpebre si abbassano, ma non chiudo gli occhi. Perché dovrei farlo? Soltanto perché a lui non piacciono?
«Sono così spenti.»
«Non mi sento molto bene.» rispondo a denti stretti e torno a stendermi sul letto, a guardare il soffitto bianco: Akashi capirà.
«Non potrò scrivere per una settimana.» ma visto che non mi piace questo silenzio e voglio evitare qualche stupido malinteso, ho deciso di spiegargli cosa c'è che non va «i miei occhi sono molto stanchi.»
Il letto cigola appena e io non riesco a credere a ciò che è appena accaduto, vorrei mettermi a sedere per vederlo con i miei occhi, ma la voce di Akashi mi tiene inchiodato al letto.
«Ti fanno tanto male?»
Che gli importa?
«No.» sfiato sommessamente e sento il letto che cigola ancora una volta, trattengo il respiro non appena la mano di Akashi mi accarezza la fronte.
«Io dico di sì.» mi sussurra piano e intreccia le sue dita ai miei capelli.
Butto fuori l'aria e sento le palpebre crollare: la sua vicinanza è un sonnifero, mi ha rilassato completamente.
Cerco di resistere alla tentazione di chiudere gli occhi, anche se quello che vedo in questo momento è un volto dai contorni vaporosi e l'unica cosa che mi tiene ancora inchiodato alla realtà è lo scintillio vigoroso dei suoi occhi.
«Chihiro, chiudi gli occhi e riposa.»
Mi sembra quasi di sentire la voce di mia madre, quella voce gentile e cristallina nella quale riponevo tutte le mie speranze di bambino, dietro cui avevo creduto di potermi nascondere, sfuggire alla crudeltà del mondo.
Akashi si china su di me, sento il suo respiro caldo e delicato sfiorarmi le labbra e nonostante la luce mi stia corrodendo gli occhi decido che vale la pena resistere.
Un velo di nebbia grigiastra si è posato poco più sotto delle mie ciglia, ma gli occhi del Diavolo sono ancora sopra di me: mi guardano, mi scavano dentro, come se la mia anima fosse infinitamente profonda e non soltanto quella di un povero emarginato sociale che teme e detesta la realtà moderna.
Le labbra di Akashi si posano sulle mie, delicate e morbide proprio come le avevo immaginate, ed è velluto nero quello che germoglia all'improvviso sotto le mie palpebre. Se lui è il Diavolo, che mi trascini pure all'Inferno.


― «Akashi-sama.» il servitore si inginocchiò ai suoi piedi e inspirò profondamente «non siamo riusciti a recuperare neppure il corpo di Aomine-san, siamo mortificati.»
L'imperatore non mutò espressione, si limito a sbattere le palpebre e continuò a guardarlo. «Capisco.»
«Akashi-sama, il corpo di Kuroko-san richiede una sepoltura.» il servitore mormorò, ancora inginocchiato ai suoi piedi.
L'imperatore si voltò lentamente e contemplò il corpo rigido e livido di Tetsuya: l'unico corpo che gli altri servitori erano riusciti a trovare e recuperare.
«Va bene così, lasciatemi solo con lui.»
Il servitore sollevò lo sguardo verso di lui, cercò di dire qualcosa, ma si zittì e tornò a guardare a terra non appena Akashi gli rivolse di nuovo la propria attenzione, chiedendogli di andarsene con la sola forza dello sguardo.
Il servitore si alzò e incespicò sulle sue stesse gambe, raggiunse velocemente il crocchio di sottoposti in fondo alla sala e li guidò all'uscita. Akashi, dal canto suo, attese che fossero usciti per tornare a rivolgere la propria attenzione al corpo del servitore nel quale aveva riposto più speranze.
Tetsuya aveva tentato di dirgli qualcosa, aveva cercato di metterlo in guardia, ma lui non lo aveva ascoltato ed ora ne pagava le conseguenze.
«E così avevi ragione, Tetsuya: devo essere io ad uccidere quei mostri.» Akashi non aveva intenzione di arrendersi: nonostante avesse perso cinque servitori preziosi, neppure quel languido sentore di rimorso gli avrebbe impedito di perseguire il suo obbiettivo.
Sarebbe partito quella sera stessa.―




«Sono curioso di scoprire come continuerai il tuo romanzo, Chihiro.»
Akashi non mi è mai sembrato così reale come adesso. In quest'ultima settimana è stato proprio lui a farmi restare con i piedi per terra, la sua presenza mi ha aiutato a sopportare l'idea che per un po' avrei dovuto lasciare da parte il mio romanzo.
È come se all'improvviso avesse smesso di leggermi nel pensiero, di scavare dentro di me con la sola forza dello sguardo.
Sembra che Akashi non immagini neppure che cosa ho in mente di fare, e forse è meglio così.
«Ci vediamo domani, Chihiro.»
«A domani.» mormoro appena, con la voce corrotta dall'appagamento che mi provoca immaginare le sue labbra morbide sulle mie.
Akashi si protende verso di me, io chino il capo e lo bacio piano, chiudo gli occhi quando sento la punta delle sue dita stuzzicarmi l'orecchio.
Le nostre labbra si separano e lui arretra, mi guarda ancora per un istante e infine mi volta le spalle. Socchiudo lentamente la porta e sbircio la sua figura, finché mi è possibile, dalla fessura.
La serratura della porta scatta ed io sono rimasto di nuovo solo, posso tornare a scrivere il capitolo e cominciare a tessere la trama per la fine del mio libro.
È un fantasy? Un fantasy condito di splatter? Non ne ho idea, ho sempre avuto problemi a capire quale genere attribuire ai miei romanzi: lascerò che sia il mio editore a decidere.


― L'imperatore assottigliò lo sguardo e strinse le redini, le strattonò con estrema delicatezza e il cavallo nitrì sommessamente, scalpicciando sulla neve e fermandosi dopo qualche istante di esitazione.
Davanti a lui, una figura a cavallo di un possente destriero nero si stava avvicinando, era sicuro che si trattasse di una donna.
Quando fu più vicina, Akashi schiuse le labbra, ma qualcosa attirò la sua attenzione e gli impedì di parlare, spense la sua voce e atterrì i suoi pensieri.
La donna indossava un turbante che le incorniciava il volto e le copriva le labbra, faceva ombra sugli occhi, ma dalla seta bianca del copricapo sfuggivano ammassi di fili argentati, onde docili e morbide di una colorazione particolare che l'imperatore non aveva mai visto nei capelli di una fanciulla.
Quella donna era una straniera ed era sfuggita ai suoi occhi, quella donna poteva essere la scorciatoia di cui aveva bisogno per raggiungere la perfezione assoluta.
«Qual è il tuo nome?»
La donna sollevò il viso lentamente e restò in silenzio per qualche istante.
«Chishisa, mio signore.»
Akashi socchiuse gli occhi ed inspirò appena, compiaciuto di ascoltare un nome così melodioso pronunciato da una voce altrettanto meravigliosa.
«Significa donna-fantasma nella lingua delle mie terre.»
«Vieni dalle Dune d'Argento, non è così? Dicevano che le donne fossero tutte morte.»
Chishisa non rispose e si sfilò lentamente il turbante bianco, mostrando un viso bronzeo nel quale erano incastonati occhi dalla forma tagliente e aggressiva, di un grigio brillante proprio come i capelli lunghi che si erano improvvisamente riversati sulla sua schiena, oltre che sulle spalle.
«Le donne sono morte.» Chishisa confermò senza rivelare alcuna nota di dispiacere nella propria voce «ma non tutte, mio signore.»
L'imperatore tese le redini e il cavallo nitrì sommessamente, arretrò appena: voleva condurre Chishisa alla sua corte, aveva l'impressione che quella straniera avrebbe potuto colmare per davvero il vuoto lasciato da sua madre e quindi permettergli di raggiungere la perfezione assoluta. E poi era molto bella.
«Sei rimasta soltanto tu?»
«Sì. Le donne erano così affezionate ai villaggi delle Dune da lasciarsi sopraffare da qualsiasi nemico sopraggiungesse, ma io non ho mai considerato “casa mia” il posto in cui sono nata e me ne sono andata in tempo.»
Akashi inclinò lentamente la testa e increspò le labbra in un sorriso: quella donna era incredibilmente interessante, non poteva lasciarsela scappare.
«Ti offrirò alloggio a corte.»
«A corte?» Chishisa sembrò sorpresa e Akashi ampliò il sorriso.
«Stai parlando con l'imperatore, mia cara.» ―

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



― Il presagio dell'imperatore si era rivelato corretto: Chishisa era la donna giusta per lui, la donna che aveva sempre cercato.
Era una creatura estremamente graziosa, raffinata, aveva una voce sopraffina ed era una donna indissolubilmente legata ad ogni forma d'arte possibile. Chishisa scriveva, suonava, dipingeva. Sembrava che le riuscisse tutto, anche per le cose più difficili le bastava metterci un po' più di impegno per ottenere risultati strabilianti.
Chishisa era un essere quasi perfetto, e per questo Akashi la riteneva degna di essere la sua sposa.
Akashi ammirava la sua bellezza esotica e il suo portamento elegante, era affascinato dal carattere vagamente selvatico, eppure non aveva mai tentato un approccio che si spingesse al di là di un'occhiata attenta e prolungata, e non perché non avesse il coraggio, ma semplicemente perché non l'amava. Chishisa, ai suoi occhi, era soltanto il mezzo che lo avrebbe portato a raggiungere la perfezione assoluta, che fosse morta improvvisamente appena dopo il loro matrimonio, oppure di parto nove mesi dopo la prima notte di nozze, non gli importava.
Quando Akashi le aveva proposto di sposarlo, Chishisa aveva accettato senza alcuna emozione nella voce o nello sguardo, non aveva preteso che si creasse qualcosa fra di loro e aveva continuato ad ostentare freddezza e diffidenza nei suoi confronti: era una donna estranea al fascino dell'amore, ma a quanto pareva aveva degli interessi e, come l'imperatore, era disposta ad un'unione senza sentimento pur di raggiungere il proprio obbiettivo.
La condotta morale della sua futura moglie non interessava all'imperatore, anzi si trattava di una sfacciataggine che lo intrigava: confermava quanto Chishisa fosse simile a lui.
«Chishisa, ti prego di non farmi aspettare.»
La donna lo guardò negli occhi solo per un istante, poi abbassò le palpebre e si passò la spazzola fra i capelli morbidi un'ultima volta.
«Non dovrà aspettarmi, Akashi-sama.»
Akashi guardò il riflesso della donna nello specchio solo per un istante e sorrise.
«Molto bene.» ―




Probabilmente scriverò per tutta la notte, voglio occuparmi del matrimonio dell'imperatore e di Chishisa nel migliore dei modi, attingendo dalle antiche tradizioni giapponesi e descrivendo ogni aspetto della cerimonia nei minimi particolari: molto probabilmente sarà uno dei capitoli più lunghi e dettagliati.
Mi alzo piano e tendo i muscoli delle gambe e delle braccia, inclino il collo a destra e a sinistra, cercando di sgranchirmi le ossa. Intravedo un rapido movimento alle mie spalle, la testa rossa di Akashi allontanarsi e scomparire al di là della soglia: oggi ha una riunione importante e quindi passerò il resto del pomeriggio da solo.
Quando raggiungo l'ingresso, lui è già uscito e sorregge la porta con una mano, mi segue con gli occhi.
«Domani verrai?» lo raggiungo e adagio la spalla allo stipite della porta, parlo a voce bassa.
«Forse.»
«Scriverò l'ultimo capitolo e, anche se sarà più impegnativo degli altri, riuscirò a terminarlo in giornata.»
«Sforzerai di nuovo gli occhi, Chihiro.» increspa le labbra in un sorriso e riprende a parlare con estrema calma «visto che si tratta dell'ultimo capitolo verrò.»
Probabilmente ha ragione: forzerò di nuovo gli occhi e forse dovrò passare un'altra settimana a girarmi i pollici e a mordermi le mani, terrorizzato all'idea che le idee possano lasciarmi improvvisamente e non tornare mai più, ma sono disposto ad andare oltre i miei limiti un'altra volta pur di finire questo maledetto romanzo domani, per scoprire che cosa ne sarà di me e di lui.
«Quando lo avrò finito mi prenderò una pausa.» e soprattutto assegnerò ai personaggi dei miei prossimi romanzi caratteri meno contorti.
«A domani, Chihiro.»
La sua voce è strana: non è ferma e tagliente come al solito, è come se si fosse improvvisamente incrinata, forse in seguito ad un pensiero spiacevole, ma non ho il tempo di soffermarmi su questo aspetto perché le labbra di Akashi sopra le mie mi sopraffanno e mi gettano nell'ignoto. Sembra quasi che abbia cominciato a leggermi dentro con i baci, mi sento come svuotato e disorientato ogni volta che le nostre bocche si separano e vedo nei suoi occhi il sangue che ribolle e l'oro liquido che scintilla.
«A domani.» è difficile parlare, anche la mia voce, per un istante, risuona incrinata, ma Akashi sembra non averlo notato – o semplicemente non gli interessa – e si congeda in silenzio, imboccando in fretta le scale.


Sfiato sommessamente e stacco le dita dalla tastiera, chiudo gli occhi e affondo i denti nel labbro inferiore: non è stata una buona idea passare tutta la notte a scrivere il nono capitolo e cominciare il decimo alle otto del mattino – oggi è mercoledì, ma ho chiesto ad Ogiwara di vederci un altro giorno –, gli occhi cominciano ad essere stanchi e a fare male.
Dopo aver descritto la cerimonia e aver chiuso il capitolo con le promesse di Chishisa e l'imperatore, ho speso qualche pagina dell'ultimo capitolo per scavare all'interno della donna e quindi approfondire il suo personaggio, e ora, prima di passare alla notte di nozze, vorrei scrivere del mio imperatore e della sua smaniosa ricerca della perfezione assoluta.
«Chihiro, fermati.» la voce di Akashi mi scuote dai miei pensieri ed io risollevo le palpebre con estrema lentezza: mi chiede di fermarmi? Quale dei due Akashi sta parlando? L'Akashi reale, che si preoccupa per la mia salute, oppure l'imperatore, che teme per il suo destino?
Non ho intenzione di fermarmi, soprattutto non ora che devo concentrarmi sul personaggio dell'imperatore.
«Prenderò una pausa quando arriverò alla prima notte di nozze.» mormoro sovrappensiero, cercando di catturare le parole confuse che mi ronzano in testa e ordinarle per ottenere una frase d'effetto con cui inaugurare la parte dedicata all'imperatore.


― Aveva trovato la tanto anelata perfezione assoluta, eppure sembrava ancora un uomo come tutti gli altri. ―




La parte dedicata all'imperatore ha richiesto più tempo del previsto per essere scritta e ha occupato il doppio delle pagine su Chishisa, ma ne sono profondamente soddisfatto, credo di essere finalmente riuscito a cogliere tutta la sua essenza e a tracciare perfettamente ogni congettura ed ogni dinamica.
Quando mi volto in cerca di Akashi, la vista si annebbia e una fitta lancinante mi attraversa la testa, facendomi mugolare sommessamente. Chiudo gli occhi e mi afferro la testa fra le mani.
Passato il dolore, riapro gli occhi lentamente e mi soffermo sul letto vuoto, le lenzuola stropicciate: Akashi dev'essere in cucina. Mi alzo ed esco da camera mia con calma, dirigendomi in cucina con passo estremamente lento, ancora stordito dalla fitta alla testa e impaurito dalla possibilità che la mia vista possa tornare opaca e mi costringa a rimandare ancora la fine del mio romanzo.
Esito, sento di non riuscire a varcare la soglia della cucina: Akashi mi dà le spalle, non si volta e rimane in silenzio, la sua figura è terribilmente opaca. Solo la sua figura.
«Akashi?» lo chiamo piano, trattengo il respiro.
Quando Akashi si volta vedo chiaramente il suo volto e traggo un sospiro di sollievo: la stanchezza comincia a giocarmi brutti scherzi.
«Sei a buon punto, Chihiro?»
Non rispondo immediatamente, mi avvicino a lui e spalanco una mano non appena vedo la sua tendersi e le sue dita giocare con un fiore di ciliegio.
«Sono a buon punto, ormai manca solo la notte di nozze.»
Sono certo che Akashi stesse per lasciar cadere il fiore al centro della mia mano, ma all'improvviso sembra aver cambiato idea e lo tiene ancora stretto fra le dita.
«Concludi un romanzo con una notte di nozze, Chihiro?»
«Non sarà una notte di nozze tradizionale.» non voglio spingermi oltre, spero che Akashi capisca.
«Ah sì?» mi guarda e lascia scivolare il fiore sulla mia mano, increspando le labbra in un piccolo sorriso «sono proprio curioso di vedere che cosa ti inventerai.»
Ricambio il suo sguardo e accenno un sorriso, mi chino lentamente e cerco di baciarlo, ma Akashi distoglie il viso.
Non riesco a dire nulla, mi allontano appena e gli rivolgo un'occhiata interrogativa e vagamente confusa: possibile che abbia capito?
«Non possiamo, Chihiro.»
Che cosa significa?
«Tu non sei perfetto.» increspa le labbra in un sorriso e spalanca gli occhi «non ricordi?»
Trattengo il respiro: perché mi sta respingendo? Non riesco a capire.
«Mi hai creato tu, Chihiro.»
La sua voce si affievolisce all'improvviso e i suoi occhi si chiudono.
«Akashi?» mormoro e gli sfioro il viso con la mano, ma le mie dita accarezzano il vuoto e lui è scomparso.
Schiudo le labbra e mi guardo intorno, sussurro ancora una volta il suo nome e spalanco le dita della mano per assicurarmi che il fiore ci sia ancora.
Sono rimasto di nuovo solo.


― Akashi la stava aspettando.
Chishisa gli aveva chiesto qualche minuto per cambiarsi e rinfrescarsi e lui le aveva risposto che avrebbe potuto impiegarvi tutto il tempo che riteneva necessario.
Chishisa era bella, ma ad Akashi non importava scoprire le sue nudità, non aveva fretta di spogliarla anche del suo ultimo velo di seta. Il sesso poteva aspettare, perfino l'amore e la guerra potevano aspettare, ma non la vita di uomo perfetto.
La porta cigolò sommessamente e Akashi intravide nella penombra della stanza la sagoma gracile di Chishisa.
«Mi perdoni se l'ho fatta aspettare, Akashi-sama.»
Akashi accennò un sorriso e negò con un rapido movimento del capo.
Chishisa si avvicinò con passo felpato, scavalcò il letto e gattonò lentamente verso di lui.
Akashi seguì le sua ombra con un lento movimento degli occhi, aggrappandosi ai suoi fianchi magri non appena lei si sistemò su di lui.
Gli sembrò di vederla sorridere e si dispiacque del buio che gli impedì di vederla con chiarezza.
Chishisa lo baciò piano e Akashi le accarezzò i fianchi, ricambiando dopo qualche istante di esitazione, ma la donna si scostò in fretta. Akashi pensò fosse spaventata all'idea di concedersi a lui così presto, senza che fosse mai stato instaurato un vero e proprio rapporto di confidenza fra le loro anime e intimità fra i loro corpi.
Cercò di nuovo le sue labbra, ma il viso di Chishisa gli sfuggì ancora e la donna frugò fra le sue vesti.
Akashi schiuse le labbra per chiamarla, ma qualcosa di freddo sprofondò nel suo petto e il suo richiamo si tramutò in un gemito soffocato.
L'imperatore spalancò la bocca in cerca d'aria e Chishisa si inebriò del calore del sangue, sfilò il coltello dal petto dell'altro e intrecciò le dita ai suoi capelli, come a volerlo rassicurare.
La profezia che aveva trovato in una piccola e antica biblioteca, durante la fuga dalle Dune d'Argento, raccontava di un giovane imperatore orfano di madre che avrebbe cercato di raggiungere la perfezione assoluta, ma la pergamena diceva che lui stesso era soltanto una pedina, la sesta creatura da eliminare insieme al Drago Rosso di Ethyl, la Fenice delle Terre Fredde, il Cerbero sotto la Cascata di Sheji, la Sirena del Lago Mihn e l'Idra delle Montagne Bianche.
Akashi sentì il respiro venire meno, avvertì solo per un istante le dita fredde di Chishisa fra i capelli e il suo petto caldo e tremante contro il viso, poi chiuse gli occhi e la penombra della stanza si tramutò nel buio più nero. ―






L'angolino invisibile dell'autrice:

Buonasera! Mi scuso per l'aggiornamento un po' tardo, ma ho la testa fra le nuvole e me lo dimentico sempre, ugh! ;3;
Ne approfitto per annunciare ufficialmente che “Gli occhi del Diavolo” ha vinto il contest per cui è stata concepita, anche se attualmente siamo ben lungi dal clima di festa di una settimana fa (?)
Sono veramente felice che abbia vinto, ci ho messo l'anima in questa fanfiction e sono personalmente soddisfatta, non tanto della trama in sé, quanto del modo in cui sono riuscita a gestire un personaggio poco calcolato come Mayuzumi.
A questo proposito ne approfitto per dirvi che attualmente sto stendendo uno spin off legato a questa fanfiction e che parteciperà ad un contest a pacchetti, quindi, ecco, penso proprio che nonostante sia uno spin off non potrò pubblicarlo separatamente e mi toccherà inserirlo in una raccolta, quindi se vedete miei aggiornamenti e nella trama c'è scritto che la storia in questione partecipa ad un contest, dategli un'occhiata perché potreste trovare lo spin off (l'unica cosa di cui sono sicura è che sarà la prima shot della raccolta).
Inserirò il link nell'ultimo capitolo di questa fanfiction non appena l'avrò pubblicato, comunque.
Per il resto--- ok, colpo di scena *3*
E manca solo un capitolo!
E non si fosse capito, ma penso di sì, Chishisa è la traslazione di Mayuzumi nel suo romanzo (Mayuzumi birichino che fa le self inserction /?/).
Ne approfitto ancora una volta per ringraziare le povere anime pie che stanno seguendo questa fanfiction/delirio/, davvero, grazie di cuore!
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo X

‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒ ‒



Dopo una settimana passata a riflettere, questo è l'unico posto in cui riesco a sentirmi a mio agio: la libreria si conferma ancora una volta il mio nascondiglio più intimo e privato, proprio come quando ero piccolo.
È passata proprio una settimana da quando ho terminato il mio romanzo, e da allora non ho più rivisto Akashi.
L'amico di mia madre – Kasayama, sì, si chiamava proprio così – aveva ragione: dopo aver concluso il romanzo mi sono sentito inebetito ed estremamente malinconico, proprio come mi aveva raccontato lui. Ho passato l'ultima settimana chiuso in casa, a chiedermi che cosa avrei potuto fare e a domandarmi perché la figura di Akashi sia divenuta così impalpabile anche nei miei pensieri, sembra quasi che non sia mai esistito, o che sia un vago ricordo dell'infanzia, un'ombra di cui non riesco a ricordare il volto. Di lui non sono rimasti neppure fiori, appassiti e sbriciolati non appena ho concluso il romanzo.
Inspiro appena e spalanco le mani, muovo appena le dita e seguo le linee che tracciano trame sottili sui palmi: è come se mi fossi lasciato rubare un diamante da sotto il naso, ho lo stomaco lacerato dai sensi di colpa.
Scrivere un finale alternativo servirebbe? Scrivere una storia completamente nuova su di lui servirebbe? Me lo chiedo da una settimana, ma il solo pensiero di ricominciare a scrivere mi fa venire da vomitare.
A pensarci bene, il vuoto non misura come lo spazio fra le mie dita, ma è molto più grande ed è dentro, nel petto e nella testa.
La mia immaginazione è appassita, e insieme a lei la speranza con cui le labbra di Akashi mi hanno nutrito.
Quando ero piccolo mi rifugiavo tra gli scaffali polverosi della libreria di Ikeda-san con un vecchio tomo spalancato sulle gambe incrociate e mi immergevo in lunghe letture, perché credevo che fosse impossibile affezionarsi ai personaggi e piangere della loro morte o sentirsi disorientato una volta arrivato all'ultima pagina, ma ora mi rendo conto cosa significa, mi rendo conto che l'amico di mia madre non era uno stupido, ma semplicemente un uomo sensibile, un uomo che aveva compreso la bellezza del suo lavoro, il fascino e l'incanto che suscita il riuscire a portare in vita persone di carta battendo le dita su una tastiera o muovendo una penna.
Con questo romanzo ho perso una parte di me e ho la sensazione che non la riavrò più indietro, sono un'entità ancor più insignificante che in precedenza.
Akashi non esiste più, io non esisto più. O almeno, mi sembra di non esistere.
È come se fossi sospeso e guardassi il mondo con occhi non miei, come se fossi tenuto in vita dagli ingranaggi scricchiolanti di qualche complesso macchinario, come se fossi un fantasma.
Io stesso sono una sagoma confusa, un'ombra: mano a mano che dimentico il viso di Akashi dimentico anche il mio, più il suo ricordo si fa impalpabile, più ho la sensazione che il mio corpo si stia svuotando di qualcosa di importante.
Pochi sono gli scrittori che riescono a far fortuna, gli altri restano creature anonime, fuochi fatui solitari, immersi nell'oscurità della loro stessa frustrazione. Io ho fatto fortuna, eppure sento che questa perdita mi ha reso più anonimo di quanto non sia mai stato, perché dopotutto io sono solo uno scrittore e non ho fatto nulla di memorabile, un giorno si dimenticheranno tutti di me.
Fuoco a mezzanotte.
La collina d'inverno.
Glicine.
Araba fenice.
Il canto delle sirene.
Faccio avanti e indietro fra gli scaffali – alla ricerca di non so cosa – e ripeto mentalmente i titoli dei miei libri.
E se sulla copertina dei miei libri non ci fosse scritto il nome dell'autore? La società saprebbe attribuirmeli? Forse qualche fanatico, ma gli altri lettori si ricorderebbero che quelle pagine mi appartengono? Certo che no: un libro pubblicato diventa uno dei tanti strumenti della società, lo scrittore deve lasciarlo andare come si lascia andare un figlio e augurarsi che nessuno stropicci o bruci le sue pagine.
Io chi sono? Mayuzumi Chihiro. E che cosa sono? Uno scrittore, ma lo scrittore è soltanto l'ombra di una storia, una minuscola macchia che insieme a tante altre compone una società grigia e triste di teste piegate e mortificate.
Fuoco a mezzanotte.
La collina d'inverno.
Glicine.
Araba fenice. Il canto delle sirene.
L'imperatore.
Li ripeto ancora, ma questa volta aggiungo quello che doveva essere il titolo del mio nuovo romanzo: L'imperatore, ma con la i maiuscola.
«Chihiro?!»
La voce di Ikeda-san mi toglie il fiato, sento il cuore pulsare con forza nella cassa toracica e deglutisco appena, rivolgendole la mia attenzione: deve avermi chiamato più volte, ma non l'ho proprio sentita.
«Allora? Hai trovato quello che cerchi?»
Un mondo in cui nessuno possa farmi del male? No, a quanto pare ho vissuto di illusioni per più di dieci anni, anche il mondo di carta uccide.
«No, ti chiedo scusa, Ikeda-san.» compio un paio di passi indietro e riprendo fiato «a pensarci bene credo che ripasserò la prossima settimana.»
Ho deciso di prendermi una pausa con la scrittura e tornare a dedicarmi alla lettura, ma non ne sono più così sicuro. A dire il vero voglio solo tornare in casa mia, qui mi manca il fiato.
«Sei sicuro, Chihiro? Ti posso aiutare se mi dici quali sono i libri che ti servono.»
«Ti ringrazio, Ikeda-san, ma non ce n'è bisogno.» Ikeda-san è sempre così gentile, è la mia personale traghettatrice verso il mondo dei libri. Una volta avevo perfino pensato di scrivere un romanzo su un personaggio ispirato a lei, ma poi sono sopraggiunte congetture più interessanti e ho abbandonato l'idea.
Mi congedo con una rapida occhiata ed un minuscolo cenno del capo, percorro lo stretto corridoio che separa gli scaffali e mi avvicino all'uscita, ma Ikeda-san mi segue e a giudicare dal passo rapido e mal cadenzato sembra proprio che voglia chiedermi qualcosa.
«Chihiro, come procede il tuo romanzo?»
Mi mordo il labbro inferiore e osservo la strada tumultuosa al di là della porta di vetro, inspiro appena e socchiudo gli occhi.
«L'ho finito.» trattengo il respiro: fa quasi male dirlo.
«Davvero?!»
«Ma ho cancellato il documento.» mi affretto a parlare prima che mi tramortisca con l'entusiasmo spassionato che sfoggia ogni qualvolta le comunico un mio successo letterario.
«Cosa?» la voce di Ikeda-san diventa improvvisamente molto simile ad un sospiro soffocato, si avvicina piano e mi adagia la mano sulla spalla.
«Credo proprio che per i prossimi mesi mi limiterò a lavorare sulla seconda edizione di Fuoco a mezzanotte, dopotutto l'ho promesso a Yamada-san.» mormoro e mi scosto da lei con estrema lentezza: non voglio la sua mano sulla spalla, che si tratti di sincero affetto o compassione, non ne ho comunque bisogno.
«Non mi hai voluto mai raccontare nulla, quindi ora che lo hai cancellato posso chiederti almeno il titolo?» ovviamente Ikeda-san ha capito e sembra non essere più intenzionata a toccarmi, addirittura indietreggia di un paio di passi.
«Doveva intitolarsi L'imperatore, con la i maiuscola.» assottiglio lo sguardo e mi mordo l'interno della guancia, sospirando sommessamente «ma prima di cancellarlo ho cambiato titolo e l'ho chiamato Gli occhi del diavolo, con la d maiuscola.»
Perché Akashi era scomparso o forse nella realtà non era mai esistito, ma i suoi occhi di Diavolo mi sarebbero rimasti dentro per sempre, non avrei mai potuto dimenticarli.
«Devo andare.» annuncio, cercando di mantenere fermezza nella voce; Ikeda-san si limita ad annuire e si fa da parte, mentre io mi congedo con un rapido saluto ed esco dalla libreria.
Tokyo è frenetica e grigia, ad ogni respiro la gola e i polmoni si lacerano e si avvelenano della sporcizia delle persone.
Scivolo silenzioso fra i pedoni, infilo le mani in tasca e piego la testa, guardando a terra: io sono solo una persona comune che cammina lungo il marciapiede, in mezzo a tante altre persone comuni.
Io sono soltanto una delle teste di cui la società non tiene neppure conto, tante sono.
Io sono soltanto un granello di sabbia sulla spiaggia, una goccia di pioggia durante un diluvio.


Sono rimasto di nuovo solo.






L'angolino invisibile dell'autrice:

SPIN-OFF: La campanella dell'angelo
Ho già detto tutto il necessario nelle note autrice del penultimo capitolo, quindi mi trattengo solamente per ringraziare di cuore tutti coloro che hanno seguito me e Mayuzumi in questa piccola avventura!
Aspettatevi altri lavoretti con questo bellissimo personaggio come protagonista (e se mi sarà possibile, saranno tutti in prima persona!)
Senza dubbio è una delle fanfiction a cui tengo di più e di cui sono molto soddisfatta e... ok, non si può considerare un lieto fine, ma spero vi sia piaciuta comunque! ;u;
Addio!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3004373