A doppio filo

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***



Capitolo 1
*** I ***


A doppio filo è una raccolta di one-shot, quadretti distanziati nel tempo che dovrebbero comporre la storia di Clint e Natasha entro le (poche) coordinate che ci ha dato l'MCU. L'idea è più che altro quella di infilarli in situazioni ordinarie e tutt'altro che spionistiche, scelte un po' a caso a seconda di come andava l'ispirazione. Gli stessi prompt che sottendono ad ogni one-shot sono casuali e vari (li segnalerò quando necessario): ci ho infilato un po' tutto quello che mi ronzava per la testa. La storia (composta da dieci quadretti in tutto) è stata scritta per il compleanno della mia sclerobetasocia Eli a.k.a. Sheep01, a cui è quindi dedicata :* Siccome la ritengo la massima esperta in tutto ciò che riguarda Clint Barton, la storia è tutta scritta dal punto di vista di lui (c'è anche uno "spin-off" che si collocherebbe circa a metà, che è invece dal punto di vista di Natasha e verrà pubblicato a sé). Se non si fosse notato, con questi due rischio di cimentarmi all'infinito XD (non ti stanchi mai? No, l'ossessione mi sostiene sempre e comunque *cough*).
Anyway, bando alle ciance :P

Disclaimer: Clint Barton/Occhio di Falco e Natasha Romanoff/Vedova Nera non mi appartengono, ma sono proprietà di Disney e Marvel. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro (magari).



A doppio filo

 

 

I.

 

Il convoglio della metropolitana scorreva più o meno dolcemente sulle rotaie. Non c'era molto spazio libero sulla carrozza, com'era normale che fosse all'ora di punta: Natasha non sembrava granché esaltata dalla prospettiva, impegnata com'era ad ignorare tenacemente i presenti – lui compreso.

Non riuscì comunque a decidersi di smettere di osservarla: primo, perché guardarla mentre si sforzava di far finta di niente era uno spettacolo degno di nota; secondo, perché il cambiamento che aveva subito dall'ultima volta che l'aveva vista aveva un che di miracoloso.

La giovane donna che gli aveva casualmente chiesto di accompagnarla in una strada qualunque nel Queens, dov'era collocato l'appartamento che lo SHIELD le aveva procurato, non aveva niente a che vedere con la ragazza disperata che aveva affrontato a Budapest solo nove mesi prima.

Durante la sua spedizione in Ungheria, l'aveva seguita giorno e notte; persa di vista solo per due misere ore che si erano rivelate fatali. La Vedova Nera aveva avuto il tempo di portare a termine la sua missione, disseminare panico, morte e devastazione con una maestria e precisione che avrebbe ritenuto ammirevoli se solo fosse stato privo di una qualsivoglia coscienza.

Eppure quando se l'era ritrovata davanti – minuta, esausta, il viso e le mani imbrattate di sangue, inginocchiata sul sito dell'esplosione che lei stessa aveva causato, corpi e macerie a circondarla in un inquietante affresco – Clint non aveva avuto il coraggio di ucciderla.

L'aveva sentita urlare al niente, gridare con tutto il fiato che aveva in corpo, come stesse tentando di strapparsi a forza l'ossigeno dai polmoni per porre finalmente fine alle sue sofferenze.

La prima volta che si erano guardati, non era stata altro che un guscio vuoto che l'aveva supplicato di essere tolto di mezzo una volta per tutte. La temuta Vedova Nera era una ragazza esile, dallo sguardo glaciale e il volto pallido, mani piccole ma letali, carnefice e vittima insieme: la linea di demarcazione tanto labile e confusa da impedirgli di prendere una decisione definitiva. Il dolore che le aveva letto nello sguardo – lì sul campo e prima, durante i pedinamenti – era riuscito a metterlo a disagio, a turbarlo, quasi fosse stato un muto atto d'accusa che coinvolgeva anche lui; lo shock di chi non era preparato alla distruzione che avrebbe causato.

Aveva stupidamente sentito il ridicolo bisogno – no, l'urgenza – di aiutarla; una parte di lui (quella che gli parlava nel cervello con la voce del colonnello Fury) convinta che se ne sarebbe pentito. L'istinto, però, aveva avuto la meglio.

E adesso Natasha Romanoff era lì, accanto a lui, appesa ad uno dei sostegni del treno che li stava portando via da Manhattan; i capelli rossi legati in un'ordinata coda di cavallo, l'espressione forzatamente neutrale, i pugni un po' troppo contratti per non lasciare intravedere il suo nervosismo.

“Smettila di fissarmi, Barton.”

“Non ti sto fissando.”

La donna si voltò di scatto verso di lui, un sopracciglio prepotentemente inarcato a smascherare la sua bugia. Non l'avrebbe mai detto ad alta voce – pena una ritorsione piuttosto dolorosa, immaginava – ma la trovava buffa e solenne, goffa ed elegante insieme... fuori posto.

Le rivolse un lento sorriso, mentre riusciva finalmente a dare un nome alla sensazione che Natasha gli scatenava in petto: solidarietà.

“Allora,” ignorò l'occhiataccia, “come ti trovi a New York?”

“Mi troverei meglio se non mi avessi portata qua dentro.”

“Nella metro?” Adesso era il suo turno di essere perplesso... e poi sconvolto. “Sei sicura di aver vissuto a New York fino ad ora?”

“Barton.” Il tono era definitivo, un ultimatum.

Clint alzò le mani a mo' di resa, senza curarsi di nascondere il divertimento che insisteva per affiorargli sulle labbra.

“Grazie.”

“Wow, sei una specie di fanatica del silenzio?”

“No, non intendevo per quello,” puntualizzò abbassando ed indurendo al contempo la voce, quasi quelle parole le stessero costando un'enorme fatica. “Per tutto,” aggiunse mentre cercava sfacciatamente i suoi occhi.

Fu sul punto di rispondere con una qualche battuta sagace, ma il modo in cui gli aveva offerto lo sguardo per convincerlo della propria sincerità, lo persuase – miracolosamente – a starsene zitto. Non gli ci vollero più d'un paio di secondi per realizzare che quel ringraziamento inaspettato l'aveva messo a disagio; dettaglio che non sfuggì neanche a Natasha. C'era un non so che di preoccupante nel modo in cui riuscivano a leggersi a vicenda, come riscoprendosi fluenti in un linguaggio tutto loro – una lingua morta di cui si erano creduti gli unici parlanti rimasti – che non richiedeva parole di troppo, solo discrete occhiate e taciti assensi.

“Non devi ringraziarmi,” ci tenne a farle sapere.

Non l'aveva risparmiata per farsi restituire il favore: il suo stomaco gli aveva detto che era la cosa giusta da fare, e si erano ormai conclusi i tempi in cui si era potuto permettere il lusso di non dargli ascolto.

“Lo so che non devo,” replicò semplicemente, distogliendo infine lo sguardo per puntarlo altrove, a risprofondare nella sua silenziosa disamina dei dintorni.

La sua ostentata indifferenza gli strappò un confuso sorriso.

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Capitolo 2
*** II ***


II.

 

“Andiamo! Che te l'hanno date a fare quelle gambe chilometriche se non le usi per correre?!”

Si lasciò ricadere seduto con aria sconsolata e irritata insieme, la promessa della meta imminente schiacciata dalle inesistenti doti di corridore del quarterback dei Giants.

Solo allora si ricordò che Natasha occupava il posto accanto al suo: rigida e composta, abbracciava l'intero Giants Stadium con lo sguardo, passando in rassegna e analizzando tutto ciò che il suo sguardo riusciva a raggiungere. Più che ad una partita di football, sembrava essere nel bel mezzo di un esperimento antropologico particolarmente complesso.

Le aveva chiesto di accompagnarlo praticamente per pro-forma: Coulson gli aveva offerto due biglietti per la partita, ma poi era stato richiamato per un affare urgente chi sa dove in Europa e costretto a defilarsi. Durante uno degli allenamenti della settimana, mentre Natasha gli stava stritolando le costole con quelle sue stramaledette cosce, le aveva chiesto se le fosse andato di accompagnarlo: una tattica di distrazione. Se la risposta affermativa della donna l'aveva sorpreso, vedersi comunque sbattuto al tappeto – la sua strategia frantumata in mille pezzi – per niente.

“Vuoi che ti spieghi le regole?” Si propose di offrirle delucidazioni, ricevendo in cambio un'occhiata glaciale.

“Conosco le regole del football, Barton.”

“Quindi non è che non lo capisci, è che non ti piace,” formulò per lei.

Natasha si strinse nelle spalle, quasi non avesse voluto sbilanciarsi eccessivamente (ma sulla possibilità che fosse un modo per evitare di ferire i suoi sentimenti, Clint non si fece alcuna illusione).

“Non capisco l'attrattiva del gioco,” ammise infine.

“Prima di tutto dovresti rilassarti...”

“Sono rilassata,” puntualizzò seccamente.

“... e lasciarti andare.”

“Dovrai essere un po' più specifico di così.”

“La parte divertente degli sport è che ti puoi infervorare, cantare, festeggiare...”

“Sei sicuro che 'divertente' sia la definizione giusta?”

Fece per risponderle, ma l'ennesima azione pericolosa degli avversari lo costrinse a tornare a prestare attenzione al gioco e a scattare in piedi, le mani tra i capelli e un'espressione di puro terrore stampata in faccia. La folla tutta intorno a lui esplose in vituperi, grida, maledizioni e anatemi di ogni tipo.

“Brutto idiota!”

“Ma chi cazzo ti ha insegnato a giocare? Mia nonna?”

“Lo sapevo che avremmo fatto meglio a prendere Pearson! Ti sembra un difensore degno di questo nome? Eh, Pitt, adesso che diavolo mi racconti ah?”

“Cambialo, coach!”

“Imbecille che non sei altro! Fallo un'altra volta e verrò a cercare te, tua moglie, i tuoi figli, tua madre e tutta la tua stupida famiglia e giuro che li garroterò uno ad uno finché non ti sarai deciso a guadagnarti il pane! Vergognati!”

Una voce aveva sovrastato e zittito le altre. Con espressioni sconcertate, i loro vicini di posto – e Clint con loro – si voltarono lentamente verso Natasha, saltata in piedi sul sedile per urlare ai quattro venti la sua frustrazione. Un padre, seduto nella fila subito sotto, tappò le orecchie al figlio undicenne che la stava osservando con tanto d'occhi. Il venditore di hot-dog si era bloccato sulla scalinata adiacente, troppo preso da quell'inaudito scoppio di rabbia per rendersi conto di aver affogato nel ketchup il panino che teneva in mano.

L'aria nuovamente confusa e la furia scioltasi come neve al sole, Natasha si voltò verso di lui, come a chiedergli la sua approvazione.

Clint, per tutta risposta, scoppiò a ridere, inizialmente più per un riflesso isterico che per reale divertimento, dandole una poderosa pacca sulla spalla per esortarla a scendere dalla gradinata. Ci vollero un paio di scomodissimi secondi di ritardo, ma gli astanti si unirono alla risata, dapprima timidamente, poi con sempre maggior convinzione.

Solo quando Clint fu sicuro che nessuno li avrebbe denunciati o chiesto alla sicurezza di buttarli fuori, afferrò Natasha per un braccio, trascinandola a sedere.

“Mi spieghi che diavolo ti prende?”

“Hai detto che dovevo lasciarmi andare,” ribatté perplessa.

“Apprezzo lo sforzo, ma lasciarti andare non significa minacciare di massacrare l'intera famiglia di uno dei giocatori!”

“Non avevo realmente intenzione di uccidere nessuno. Ho sentito dire cose peggiori nell'ultima mezz'ora,” si lamentò, l'imbarazzo che rischiava di prendere il sopravvento e affiorarle sulle guance non più tanto ostinatamente pallide.

“Nessuno usa il verbo garrotare durante una partita di football!”

“Avresti dovuto dirmelo prima.”

“Non credevo ci fosse bisogno di specificarlo!”

“Va bene, va bene,” si arrese.

Più la guardava – espressione corrucciata, cipiglio serioso e simulata nonchalance – e più il quadretto lo faceva sorridere. Non era ancora del tutto sicuro di capire perché Natasha avesse accettato il suo invito, ma improvvisamente ne fu contento (in altre circostanze avrebbe usato il termine “commosso”).

“Ci dev'essere pure un modo per renderti meno...”

“Meno cosa?”

“... minacciosa.”

Prese a guardarsi attorno finché non ebbe individuato ciò che gli serviva: il venditore ambulante di merchandise che stava compiendo i suoi giri tra gli spalti. Lo richiamò con un fischio e gli fece cenno di avvicinarsi, mentre si rimetteva in piedi per raggiungerlo a metà strada. Studiò sommariamente gli articoli di cui disponeva, e poi: “Uno di quelli,” gli indicò un guanto di gommapiuma gigante.

“Sono sette dollari.”

“E uno di quei berretti.”

“Allora sono sette più trenta... trentasette dollari.”

Fosse stato altrove avrebbe finto di svenire per sottolineare tutto il suo disappunto.

“E' un ladrocinio,” l'accusò a denti stretti, schiaffandogli comunque in mano due banconote da venti. “Contento? Sono così sconvolto che ho usato la parola ladrocinio: non so neanche che cazzo voglia dire.” Si ripromise di controllare nel dizionario che non aveva a casa.

Guanto e cappellino alla mano – ma non prima di aver aspettato il suo sacrosanto resto – fece ritorno al suo posto, dove Natasha lo stava aspettando con aria dolorosamente spaesata.

“Dammi la mano,” la esortò, beccandosi solo un'occhiata perplessa. “Dai.”

La ragazza trattenne a stento uno sbuffo contrariato prima di tendergli il braccio: la manona di gommapiuma la calzò alla perfezione; dopodiché fu il turno del berretto, che le calcò in testa senza troppi complimenti. Infine, indietreggiò di un passo per ammirare l'effetto generale: con quell'onnipresente aria compassata ad indurirle lo sguardo, Clint si rese conto di aver fatto peggio che meglio.

Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non scoppiarle a ridere in faccia.

“Sei uno stronzo,” smozzicò lei, accortasi del modo in cui la stava guardando. “Smettila.”

“Ti giuro che non lo sto facendo apposta.” Si rimise seduto, ancora casualmente scosso da risatine continue.

“Se non fossimo circondati da migliaia di testimoni...”

“... mi uccideresti, me ne rendo conto.”

“La prossima volta che mi chiedi di uscire, ricordami di soffocarti.”

“E' un'ottima... idea.”

Non aveva idea di quando fosse stata l'ultima volta che si era divertito tanto.

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Note: questa one-shot è decisamente all'insegna della commedia :P E quale ambientazione migliore, in questo periodo da post-febbre da Super Bowl? Per il resto, mi piace l'idea di una Natasha che deve ancora assestarsi e capire come muoversi in un mondo che le è tutto sommato estraneo e di cui non capisce bene le regole. Simulare e dissimulare in veste di spia è una cosa, non avere lo schermo di nessuna identità secondaria è un'altra. Per questo me la vedo un po' goffa e in difficoltà... persino un po' comica XD
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e in particolare chi ha commentato, e soprattutto la mia sclerobetasocia adesso in trasferta :*
Alla prossima settimana! :)
S.

 

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Capitolo 3
*** III ***


III.

 

Il mondo ondeggiò pericolosamente mentre arrancava dal letto disfatto fino alla porta d'ingresso. La testa pesantissima e la lucidità decisamente scarsa, maledì tutti i santi che conosceva quando – immancabilmente – schiantò il mignolo del piede sinistro contro l'angolo della camera da letto.

“V-Vaffanculo vaffanculo vaffancul-,” uno starnuto lo costrinse ad interrompere quel suo mantra blasfemo, ad asciugarsi la bocca con un lembo della t-shirt spiegazzata che indossava, mentre – zoppicante – avanzava lungo il corridoio.

“Chi è? Phil, se sei tu con quel tuo brodaccio di pollo,” premise con voce nasale, accostando l'occhio allo spioncino, “giuro che...,” ma fu costretto a bloccarsi... e a chiedersi se la febbre non lo avesse ridotto ad uno stato di delirio.

Aprì la porta per ritrovarsi davanti Natasha, evidentemente a disagio.

“Ehi,” l'accolse, accorgendosi che teneva in mano la videocassetta di Ghostbusters che le aveva prestato solo la settimana prima. “Che ci fa-”

“Sono venuta a riportarti questa,” lo interruppe, senza esitare a consegnargli il film, neanche stesse cercando di liberarsi di una bomba innescata e pronta ad esplodere. “E... basta,” aggiunse, in malcelata difficoltà. “Non credevo fossi in casa.”

Clint si rigirò la videocassetta tra le mani, tirandola fuori dal suo involucro: si accorse che non era neppure stata riavvolta dopo l'ultima volta che l'aveva vista (leggi: che era miracolosamente riuscito a far funzionare il videoregistratore).

“Se non pensavi fossi in casa perché sei venuta?”

“Perché è il mio giorno libero,” rispose prontamente. “Avevi detto di restituirtela non appena fossi tornato dalla missione in Qatar.”

“Sono tornato ieri,” confermò, rialzando lo sguardo per rivolgerle un sorriso. “Mi sono preso l'influenza nel bel mezzo del fottuto deserto, ci credi?” Starnutì un paio di volte, giusto per sottolineare il concetto.

“Aspettavi l'agente Coulson?”

“No... Phil si presenta sempre senza alcun preavviso.”

“Non ti dà fastidio?”

“Nah...,” scosse il capo, scompigliandosi i capelli già fatalmente spettinati.

“Okay. Allora, io...”

“Non puoi andartene, non hai ancora visto Ghostbusters.”

“Come fai a sapere che non l'ho visto?” Natasha gli lanciò un'occhiata allarmata e carica di sospetto.

“Sarò anche momentaneamente ridotto ad una ammasso di muco, ma resto pur sempre una spia,” la prese in giro, stando bene attento a farle capire che stava scherzando.

Natasha e il sarcasmo non andavano molto d'accordo, anche se la ragazza – giorno dopo giorno – cominciava a prendere dimestichezza con un mondo un po' meno letterale e un po' più... metaforicamente rilassato.

“Non sono riuscita a trovare un videoregistratore,” si giustificò. “Non ne vendono più.”

Gli ci volle una semplice occhiata per capire che era sincera, che aveva davvero fatto uno sforzo per accontentare quella sua bizzarra richiesta di condivisione.

Clint si era accorto che c'era sempre una certa riverenza nel modo in cui Natasha gli si rivolgeva: non c'era stato bisogno che glielo dicesse, ma sapeva che la ragazza si sentiva in debito con lui. L'aveva portata allo SHIELD, le aveva dato un modo per ricominciare da capo e lei aveva accettato, semplicemente. L'idea di essere diventato un punto di riferimento per qualcun altro lo metteva non poco a disagio: riusciva a malapena a tenersi fuori dai guai e a badare a se stesso, come poteva anche solo pensare di consigliare un altro essere umano sulla propria vita?

Eppure, che lo volesse oppure no, il giorno che aveva deciso di risparmiarla, aveva legato a doppio filo la sua vita con quella di lei: se Natasha si sforzava di non deluderlo, di ottenere il meglio da quell'opportunità che lui le aveva concesso, anche Clint sentiva il bisogno di dimostrarsi all'altezza della fiducia che (pure a fatica) la ragazza aveva riposto in lui. Non voleva deluderla e di certo non voleva essere indegno degli sforzi che lei compiva per non deluderlo a sua volta.

“Ridicolo, giusto? Cosa credono che se ne debba fare la gente delle vecchie videocassette?”

“Non... ne ho idea,” mormorò.

“Devi andare da qualche parte?” Si decise a chiederle.

“No.”

“Allora perché non entri e... godi della genialità di Bill Murray insieme a me e ai miei bacilli?”

Non gli parve affatto convinta: se perché voleva fare di tutto pur di non restare sola con lui, o perché non sapeva come accettare senza compromettersi troppo con se stessa, Clint non riuscì a stabilirlo. Magari non sapeva chi era Bill Murray e basta.

“Non ho voglia di restare solo,” finì per aggiungere più spontaneamente del previsto.

Lo stomaco gli si contorse fastidiosamente quando realizzò cos'aveva appena detto; dette la colpa al muco che doveva avergli ostruito le sinapsi per renderlo più stupido del solito. Natasha, attenta e perspicace come sempre, sembrava aver colto qualcosa perché parve rilassarsi di colpo, sforzarsi di assumere un cipiglio meno serioso. Come se avesse sentito il bisogno di contrabilanciare il disagio di lui con un'improvvisa dose di sano, disinteressato coraggio: Clint gliene fu tacitamente grato.

“Va bene,” acconsentì a sorpresa.

“Davvero?” Aveva seriamente convinto la Vedova Nera ad accudirlo? (Se gliel'avesse messa in quei termini, Natasha l'avrebbe preso a calci in faccia, ne era sicuro.)

Non gli rispose, limitandosi a superarlo per varcare la soglia del suo appartamento... solo quando fu troppo tardi, Clint si accorse di aver commesso l'ennesimo, imperdonabile errore.

“Barton, questo posto è un cesso.”

Appunto.



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Note: non molto da dire su questo capitolo malaticcio :) Il cliché della febbre/influenza mi piace pure troppo: non potevo lasciarmi sfuggire l'occasione.
Per tutto il resto ringrazio chi ha letto e commentato e ovviamente la sclerobetasocia :3 (che mi ha ricordato che oggi è Galentine's Day! Quindi HAPPY GALENTINE'S DAY!) (Solo chi guarda Parks and Recreation mi capirà ù_ù) (chi non lo guarda si perde un capolavoro) (ora l'abbozzo eh!)
Anyway, grazie a tutti e alla prossima one-shot!
Serena.

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Capitolo 4
*** IV ***


ATTENZIONE! Passate con il mouse sopra le frasi in lingua straniera per visualizzarne la traduzione... o presunta tale :P Buona lettura!




IV.

 

“E' stato impressionante.”

“Che cosa?”

“La tua resistenza. Dopo la visita al MoMA, credevo che il Guggenheim ti avrebbe steso.”

Clint sbuffò una risata indignata, buttandosi sulla porta del ristorante cinese per aprirla e permetterle di precederlo all'interno.

Dopo un paio di visite alla Statua della Libertà e all'Empire State Building, avevano stretto un tacito patto che prevedeva il tour di un luogo o museo particolarmente significativo della città tutte le volte che avevano un giorno libero e nessun acciacco post-missione a rallentarli. Questo dopo che Clint aveva scoperto con orrore che Natasha – dopo circa due anni di permanenza a New York City – aveva ancora una serie di lacune spaventose; con qualche riserva, a dire il vero. Una vocina fastidiosa, da qualche parte nella sua testa, gli aveva fatto notare una certa dimestichezza della ragazza con i luoghi che tecnicamente avrebbe dovuto visitare per la prima volta, suggerendogli – piuttosto – che Natasha doveva avergli mentito per un qualche motivo. Passare del tempo con lui? Vederlo in difficoltà alle prese con l'arte più incomprensibile? Scroccargli i biglietti del traghetto per Liberty Island? Quale che fosse la risposta, il risultato non gli dispiaceva affatto: aveva seguito l'istinto e si era limitato ad assecondare quella potenziale finzione.

Come la maggior parte dei suoi piani, però, anche quello aveva avuto la pessima idea di rigirarglisi contro: probabilmente avrebbe dovuto immaginare che un'osservatrice attenta come Natasha avrebbe trovato pane per i suoi denti in una galleria d'arte. Fatto stava che in quel momento i piedi gli facevano un male del diavolo e non vedeva l'ora di mangiare, gettarsi sul divano davanti alla tv e spararsi un film o un telefilm a contenuto culturale inesistente.

“La tua malafede è preoccupante,” la rimbrottò comunque.

“Mi limito a basarmi su dati di fatto, Barton.”

“Oh, quindi il modo in cui hai cominciato a passare sempre più tempo davanti a ciascun quadro era un dato di fatto?” Credeva seriamente che gli fosse sfuggito il modo in cui aveva tentato di dar fondo alla sua scorta di pazienza tutt'altro che senza fondo? Non lo chiamavano Occhio di Falco per niente!

“No, quello era un tentativo di farti uscire di testa.”

“Stronza.”

“Non mi sono lamentata quando mi hai costretta a guardare sei film di Star Wars uno dopo l'altro.”

“Ovviamente non ti sei lamentata! E' Star Wars! Non essere blasfema...”

“Credo ti sfugga il significato di blasfemo.”

“Non mi sfugge per niente, te l'assicuro.”

Si fermarono davanti al bancone del ristorante, dove due paia d'occhi perplessi li stavano osservando in attesa di essere interpellati per le ordinazioni. Clint non voleva far altro che accontentarli – l'aveva già detto, che aveva una gran fame? – ma Natasha finì per precederlo.

“不介意我的朋友,他是个白痴,” sciorinò con la sua solita espressione indecifrabile.

“Sbaglio o avevamo detto niente cinese al ristorante cinese?”

你说,我没有,” gli si rivolse direttamente, l'aria innocente e fastidiosamente confusa.

“Non parlarmi in cinese, Nat.”

那不是我的名字.”

“Ho detto niente cinese!”

L'indignazione di Clint fu tanta e tale – si rese conto – da costringerla a distogliere lo sguardo. La vide fissare ostinatamente la vetrina interna del ristorante e poi... le sue spalle vennero prese da un tremore maltrattenuto: un attimo dopo Natasha Romanoff – la Vedova Nera – era scoppiata a ridere.

La sua irritazione si trasformò in puro sgomento... e soddisfazione; era piuttosto sicuro di essere riuscito dove nessuno aveva mai trionfato prima.

Si voltò verso i camerieri del ristorante, irrimediabilmente sempre più perplessi.

“Sapete come si dice 'Oh mio dio' in cinese?”



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Note: manco a dirlo il cinese è tradotto con Google Translate, quindi non rispondo delle boiate che possano esserci realmente scritte XD Spero non ci sia nessuno che sappia il cinese tra chi mi legge (e se ci siete, mi dispiace moltissimo... licenza poetica, maybe?). Oltre a questo, il senso dell'umorismo di Natasha si sta decisamente sviluppando e il povero Clint ne paga le conseguenze... mal voluto non è mai troppo, no? Tutto il resto parla da sé :)
Ringrazio come sempre chi mi legge & recensisce e in particolar modo la sclerobetasocia Eli, as usual :*
Alla prossima one-shot!
Serena.

 

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Capitolo 5
*** V ***


V.

 

L'odore nauseabondo del disinfettante, mescolato a quello acre dell'ammoniaca per pavimenti, finì per dargli il colpo di grazia.

Fu costretto ad uscire in fretta e furia dalla camera d'ospedale, ad accostarsi al carrello che l'inserviente si era lasciata alle spalle, e a rimettere il contenuto della sua cena a base di birra e pollo fritto nel sacchetto dell'immondizia, lo stomaco contratto in una gelida morsa d'agitazione.

Inspirò a fondo, accorgendosi con orrore che le mani gli tremavano incontrollabilmente; le strinse a pugno quasi fino a farsi male mentre socchiudeva gli occhi e si sforzava – inutilmente – di controllare il battito impazzito del proprio cuore.

La stanza da cui era dovuto fuggire era occupata da Natasha: Odessa era stata impietosa con lei e Clint... Clint si era visto obbligato a rendersi conto di non essere del tutto preparato ad affrontarla in quelle condizioni.

Era abituato a vederla scattante, sempre padrona della situazione, capace di capovolgere qualsiasi circostanza – anche la più disperata – a suo vantaggio, una battuta pungente, una complicata identità alternativa sempre pronta all'occasione. Natasha riusciva a combattere attraverso qualsiasi tipo di dolore: nei pochi anni che avevano condiviso sul campo, Clint aveva imparato che non c'era virtualmente niente capace di fermarla. L'aveva vista correre su caviglie acciaccate, impugnare armi a dispetto di dita rotte e spalle lussate... respingere la consapevolezza del dolore in un qualche remoto angolo della sua testa fino a missione conclusa. Durante i primi incarichi dello Strike Team Delta, aveva persino dovuto far uso delle sue inesistenti doti oratorie per convincerla a farsi medicare le ferite riportate in combattimento. Fosse stato per lei, sospettava, avrebbe resistito finché non avesse avuto modo di rattopparsi autonomamente nella solitudine del suo appartamento o della stanza assegnatale allo SHIELD Center o sull'helicarrier. Clint aveva suo malgrado finito per prenderci gusto: il lato più vulnerabile di Natasha gli piaceva tanto quanto quello più duro e spietato; non meno vero o meno interessante della facciata che si sforzava di erigere tra sé e il mondo esterno giorno dopo giorno. Più prezioso, forse. O magari era la contraddizione costante tra quei due aspetti ad affascinarlo davvero...

Si rimise dritto, voltandosi lentamente verso la camera inquadrata nella cornice della porta: quando si accorse che Natasha lo stava guardando, per poco non gli mancò il respiro. Si sentì stupido, colto con le mani nel sacco... fastidiosamente debole.

Se c'era una cosa che non gli riusciva – che non gli piaceva, che non accettava – era lasciare andare le persone. Rischiare di perderle. Come avrebbe potuto dirle che si era visto costretto a darsela a gambe perché l'agitazione gli aveva dato il voltastomaco? Come un dannato principiante, come se non ci fosse già passato in precedenza, come se la mancanza e l'abbandono non fossero parte integrante di lui come il suo arco, il suo stupido altruismo o il suo caffè preferito.

“B-Barton... ?”

Il bisbiglio stonato e roco di Natasha ebbe l'effetto di una scarica elettrica: le fu di fianco prima di potersi concedere il tempo di pensare o riflettere.

“Ehi...,” riuscì a malapena ad esalare, tentando di apparire normale e rilassato.

“S-Stavi andando?”

Dal modo in cui sbatteva le palpebre, Clint capì che faceva fatica a metterlo a fuoco.

“No... n-no,” si affrettò ad assicurarle, “sono appena arrivato.”

“O-Okay.”

La vide rivolgergli un mezzo sorriso tutt'altro che lucido prima di richiudere gli occhi e arrendersi di nuovo alle confuse spire degli anti-dolorifici.

Rimase immobile per un lunghissimo attimo, il rimescolio allo stomaco tutt'altro che alleviato, a studiarla attentamente... quasi avesse potuto farla stare meglio solo con la forza del pensiero.

Infine, quando iniziò a sentirsi sciocco – in piedi sull'attenti come un stoccafisso – recuperò la sedia accostata sotto la finestra e prese posto di fianco al letto.

La mano di lei, pallida e fasciata, pendeva oltre la sponda del materasso; sembrava invitarlo a stringerla.

Non ne ebbe il coraggio.

Ma Natasha detestava gli ospedali, detestava i dottori e – per quanto non avesse mai avuto il coraggio di ammetterlo – detestava doverli affrontare da sola.

Mentre si concentrava sulla sua presenza, sul fatto che era viva e concreta accanto a lui, Clint decise che non l'avrebbe delusa.



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Note: siamo arrivati al giro di boa! Stavolta la "pillola di realtà" è un vero e proprio cliché (quello della visita in ospedale), ma mi sembrava giusto dare spazio anche a questo per mostrare l'avvicinamento tra le nostre due spie :) Il prossimo capitolo sarà il più lungo della storia e abbastanza vicino a quest'atmosfera qui.
Sperando che anche questo sia stato di vostro gradimento, ringrazio chiunque legga, commenti, spulci e in particolare la mia sclerobetasocia Eli, as usual :P
Buon weekend a tutti e alla prossima!
Serena.

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Capitolo 6
*** VI ***


VI.

 

Gli schermi delle apparecchiature proiettevano baluginii ed ombre sinistre sulle pareti della stanza di controllo ormai deserta, mentre i filmati si susseguivano l'uno all'altro, senza sosta.

Gli occhi gli bruciavano per lo sforzo di rimanere sveglio e vigile, pronto a studiare il video successivo, quello dopo e quello dopo ancora: c'era un non so che di perverso e destabilizzante nel vedersi intento ad agire col mondo esterno come un automa. Gesti, spostamenti, manovre perfettamente calcolati. Neanche il benché minimo margine d'errore... non aveva mai pensato a se stesso come ad una macchina da guerra, un'arma. Loki era riuscito a togliere l'ingombro del suo libero arbitrio per sostituirlo con gelida efficienza d'assassino, spietato, preciso e letale.

Lo stomaco gli si strinse bruscamente al pensiero di tutto il sangue di cui si era macchiato le mani: quanti agenti – no, colleghi – era riuscito ad ingannare con la falsa promessa di un volto amico? Quante famiglie aveva gettato nella disperazione più nera? Se solo fosse stato più rapido, se solo fosse riuscito a sottrarsi all'incantesimo di quella divinità norrena da strapazzo... forse sarebbe fuggito, forse avrebbe potuto aiutare gli altri a mettere le mani su quel figlio di puttana. Forse. Forse...

“Clint.”

Si voltò di scatto verso la porta immersa nella semioscurità; la voce di Natasha l'aveva fatto trasalire.

“Che stai facendo?” Gli chiese, muovendo un misero passo verso di lui per lasciarsi investire dalla luce artificiale dei computer.

Indossava ancora la divisa, il volto ombreggiato da polvere e stanchezza, gli occhi appesantiti dal sonno e da ore di verbalizzazioni e resoconti post-missione. Fece saettare lo sguardo da lui agli schermi, irrigidendosi vistosamente, i pugni stretti lungo il corpo.

“Non s-stavo...,” tentò di spiegarsi, ma ci rinunciò in fretta. Non aveva né la forza, né la voglia di giustificarsi.

Natasha rimase immobile per un paio di secondi prima di decidersi a farsi avanti; gli si stagliò davanti e – prima che potesse impedirglielo – si sbarazzò dei video, degli articoli e dei rapporti sulle perdite subite relegati nelle rispettive schermate. Quando ebbe finito, c'era solo l'anonima aquila dello SHIELD ad osservarlo dal desktop.

“Non serve a niente,” la sentì dire. “Lo sai benissimo... che non serve a niente,” insisté a mezza voce, controllando a stento il proprio tono.

Non la stava guardando. Non era neppure sicuro di volerlo fare. Non che avesse la più pallida idea di quale sarebbe dovuto essere il passo successivo... o l'ideale corso d'azione da seguire.

“Clint. Clint... guardami.”

Due dita fredde lo costrinsero a rialzare il mento con un gesto delicato, ma deciso. I suoi occhi trovarono quelli di lei, verdi e stranamente indulgenti... avrebbe detto rassicuranti se non si fosse trattato di Natasha. Si limitò ad osservarla per quella che gli parve un'eternità, finché l'intimità di quel muto scambio di occhiate non cominciò a farsi scomoda.

“L-Lo so... lo so. Mostri e incantesimi...,” mormorò, scuotendo il capo come per sminuire l'intera faccenda.

“Non puoi farti questo. Non devi.”

“Perché no? Quello nei video sono io,” non riuscì a dissimulare l'irritazione che gli bruciava alla bocca dello stomaco.

Non importava quanto avrebbero potuto girarci attorno: era stato lui. Lui era il colpevole. Era rimasto sveglio per giorni, aveva calcolato, riflettuto e pianificato per conto di Loki, incessantemente. Aveva messo le sue conoscenze e la sua esperienza al servizio di un pazzo omicida con imperialistiche manie di grandezza, e l'aveva fatto... lucidamente. Certo, aveva tentato di combattere l'effetto dell'incantesimo, ci aveva provato fino allo stremo delle sue forze, ma era stato troppo debole. Troppo inutile.

“Perché non te lo meriti,” esalò la donna.

“Il merito non ha... n-non ha niente a che vedere con q-questa storia,” sussurrò scontrosamente, distogliendo nuovamente lo sguardo.

“Cos'ha a che vedere con questa storia, allora?”

“Pensi che non mi sia r-reso conto di niente... che non... che non fossi ancora là dentro? Ma m-mi ricordo tutto. Ho sentito tutto.”

“Ma non hai potuto fare niente.”

“S-Sono stato debole.”

“Nessuno ti ha addestrato a resistere a dei fottuti sortilegi, Clint.”

La spirale d'ansia e nausea che gli aveva intrappolato le viscere si serrò improvvisamente, facendolo rabbrividire.

“Gli ho r-raccontato tutto. Tutto quello che so... i segreti dello SHIELD, i tuoi...”

“Non m'importa, Clint.”

“Importa a me,” le parole gli scivolarono di bocca più duramente del previsto.

“Cosa vuoi fare, allora? Compiangerti? Convincerti che tutto quello che hai fatto, l'hai fatto coscientemente?” Turbamento e rabbia si mescolarono nella sua voce.

“Non ho detto questo.”

“E' esattamente quello che hai detto.”

“No, Natasha...”

“Loki ha fatto di te quel che meglio credeva,” sussurrò, avvicinandosi di un passo alla sua sedia, “Loki ti ha ordinato di uccidere, Loki ti ha ordinato di dirgli tutto, Loki ti ha manipolato come un burattino, Lo-”

“Lo so!” L'angoscia gli era montata in petto come un fiume in piena, ma la voce gli era uscita sommessa e strozzata.

“Tutte le giustificazioni e le rassicurazioni che andavano bene per me, per te non sono abbastanza?”

Il tono di Natasha era cambiato: adesso c'era incertezza, imbarazzo, paura. Sapeva che non era mai riuscito a persuaderla del tutto che ciò che le era successo erano state atrocità magistralmente orchestrate da un abile burattinaio, che lei non era stata che una pedina, una vittima in quel gioco di sangue, morte e complotti politici; si era impegnata ad impararlo, però, a saper distinguere le sue colpe da quelle che le erano state imposte senza possibilità d'appello.

E adesso che gli stava succedendo la stessa cosa, non aveva neppure intenzione di ascoltarla? Se lui era colpevole, lo era anche lei: il doppio filo che li legava si era annodato inestricabilmente. Non c'era modo di odiare se stesso e perdonare lei senza una massiccia, quanto ridicola dose d'ipocrisia.

La consapevolezza lo colpì come un pugno allo stomaco.

Natasha si era accorta di aver fatto breccia nel caos di vergogna e colpa in cui versava attualmente: continuava a guardarlo nella speranza di strappargli una qualche parola rassicurante... una conferma, forse.

Fu costretto ad ignorarla, mentre l'ansia cominciava a togliergli il respiro. Si riappropriò del quadro comandi, più che intenzionato a riaprire il fascicolo sulle perdite che lui stesso aveva inflitto allo SHIELD.

La donna restò immobile solo per un istante prima di muoversi alla periferia del suo campo visivo. Sperò che se ne sarebbe andata, che l'avrebbe lasciato a crogiolarsi nel suo brodo; la porta che si richiudeva arrivava a confermare il suo assunto...

Ma un attimo dopo le mani di Natasha erano sulle sue spalle, a respingerlo contro lo schienale della sedia; il calore della sua labbra morbide e ferite nello scontro di New York si impose su quelle di lui, scuotendolo come una scarica elettrica. Il suo corpo e la sua mente parvero riprendere improvvisamente vita, destati all'attenzione.

Sollevò le mani, pronto ad assecondare l'assurdo istinto che gli suggeriva di respingerla, di chiederle che diavolo le fosse saltato in mente; eppure quando le sfiorò le braccia la stava già baciando, con foga e urgenza e una punta di sgomenta disperazione. Perché il gelo allo stomaco si era finalmente trasformato in calore, perché l'odore di Natasha era vicino e familiare, perché le sue labbra erano come non aveva mai osato immaginare, perché percepiva il cuore di lei battere all'impazzata in prossimità del suo... perché si sentì tutt'a un tratto vivo e presente e reale.

Si aggrappò a quella sensazione così come si stava aggrappando a Natasha; incastrò le dita tra le sue ciocche rosse, sporche e polverose per la battaglia, mentre la donna si arrampicava su di lui, schiacciata tra il suo corpo e il lato della scrivania. La baciò finché gli rimase aria nei polmoni, scostandosi solo quando non gli fu concesso fare altrimenti: annaspò quasi fosse riemerso da una lunga apnea in quel preciso istante.

Indugiò sulle sue labbra arrossate, dischiuse sotto l'impeto di un respiro sconnesso, sulla ferita all'angolo della bocca che rischiava di riaprirsi. Prima di potersene rendere conto, ci passò sopra il pollice, sgraziatamente; il gesto – si accorse – l'aveva fatta rabbrividire.

Risalì fino ai suoi occhi, ritrovandoli più verdi, intensi, supplici... o forse stava solo vaneggiando, forse erano solo i deliri di un povero idiota che non poteva più fidarsi di se stesso. Inevitabilmente compromesso com'era.

Natasha gli fermò il viso con una mano, trovando la cerniera della propria divisa con l'altra. Clint trattenne il respiro e lei con lui, mentre il tempo si fermava per un interminabile istante...

“Sì o no, Clint...,” bisbigliò, a malapena udibile, la voce bassa e vellutata.

Gli stava davvero chiedendo il via libera? Studiò la sua espressione alla ricerca di un qualsiasi segno di inganno... ma non appena il suo cervello ebbe formulato la possibilità che Natasha gli si stesse offrendo contro il proprio volere, solo per confortarlo e farlo sentire reale, si rese conto di quanto la prospettiva suonasse assurda. Natasha non gli aveva mai fatto nessuno sconto, non l'aveva mai protetto con l'ignoranza, non l'aveva mai consolato per le stronzate che aveva combinato se non dopo averlo messo davanti alla verità dei fatti, per quanto brutale potesse essere. Natasha non indorava la pillola e non sminuiva mai la portata di alcunché. Natasha non lo compativa e non lo teneva all'oscuro di niente. Natasha, per lui se non per nessun altro, era come la vedeva. Se si mentivano, lo facevano con la consapevolezza di essere smascherati nel momento esatto in cui la bugia veniva pronunciata. Nessuno dei due si illudeva più di poter ingannare l'altro; se lo facevano, c'era sempre un'implicita richiesta di sospensione dell'incredulità ad accompagnare la menzogna. Una tregua, forse. La promessa di una sincerità futura, certamente. Avevano sempre giocato a carte scoperte, anche quando faceva male, perché sarebbe dovuto cambiare tutto proprio adesso?

No, se era lì, a riscaldarlo col calore del suo corpo, allora voleva esserci; se l'aveva baciato era perché voleva farlo, e se sembrava che gli si stesse offrendo, in realtà gli stava chiedendo il permesso di averlo: se lo stava toccando, era perché aveva bisogno di farlo.

“Clint...,” il suo respiro tornò a carezzargli il viso.

“S-Sì,” smozzicò a fatica, quasi incredulo.

La vide trattenere il respiro e poi annuire una sola volta.

La divisa di lei finì sul pavimento insieme alla poca lucidità che gli rimaneva: si lasciò aiutare a spogliarsi dello stretto necessario prima che Natasha gli fosse di nuovo addosso, nuda e fremente e calda. La sua pelle era una mappa: bianca, candida, violacea in corrispondenza delle contusioni, rossastra in quella delle ferite, irregolare in prossimità delle cicatrici. Continuò a baciarla mentre le esplorava con le mani, i seni rotondi e perfetti, i capezzoli che si irrigidavano al passaggio delle sue dita ruvide; le curve dei suoi fianchi e del suo sedere, sotto la cui morbidezza si nascondeva l'insidia dei muscoli temprati da ore ed ore di estenuanti allenamenti. Natasha poteva essere una trappola mortale abilmente mascherata dall'invitante promessa di un corpo perfetto.

Ma quella notte, nella stanza di controllo deserta, gli permise di toccarla e baciarla, di lasciarsi sprofondare dentro di lei; e Clint la strinse a sé, aiutandola a spingersi su di lui, ancora e ancora, finché non furono entrambi sudati, ansanti, disperatamente avvinghiati l'uno all'altra. Mentre l'orgasmo gli annebbiava il cervello e i sensi, si sentì precipitare nel verde umido dei suoi occhi, nella sua espressione vulnerabile e sorpresa, nel principio di panico che le leggeva in fondo allo sguardo.

La chiamò per nome e sperò di essere capace di ritrovare la via del ritorno.


 

Natasha non gli aveva detto chiaro e tondo che aveva intenzione di trascorrere la notte con lui: si era limitata ad accompagnarlo fino alla stanza che gli era stata temporaneamente assegnata allo SHIELD Center, le divise frettolosamente reindossate alla meno peggio.

L'aveva lasciata fare: aveva paura che stare da solo non avrebbe fatto altro che istigarlo ad infilarsi nell'ennesima spirale fatta di senso di colpa, lacrime e vergogna cocente.

Aveva annunciato di volersi fare una doccia e l'aveva lasciato a preoccuparsi della preparazione del letto, troppo piccolo per accoglierli tutti e due (non che la cosa lo preoccupasse in alcun modo).

Si era spogliato con gesti meccanici e quasi incoscienti, il pensiero fisso a quello che era appena successo nella sala di controllo, incapace – però – di focalizzarsi su niente in particolare, la mente troppo stanca e debilitata per registrare niente che non fosse un diffuso e beato sollievo.

Raccolse i suoi vestiti in una pozza indistinta sul pavimento, accostandosi alla porta del bagno. Solo in quel momento realizzò che la doccia di Natasha si stava prolungando un po' troppo: erano stati in missione insieme una quantità spropositata di volte, si erano alternati l'uso del bagno in gran parte di quelle, e Clint sapeva che la donna non era tipo da trattenervisi inutilmente. Era una questione di praticità ed efficienza, campi in cui Natasha eccelleva.

Esitò per un paio di secondi prima di decidersi a bussare.

“Se finisci l'acqua calda, ti tocca dormire per terra.”

Nessuna risposta.

“Natasha...”

Niente.

“... entro, ma non farmi male, okay?”

Aspettò ancora un po', giusto per darle il tempo di farsi sentire, ma il silenzio dall'altra parte della porta era camuffato solo dallo scendere incessante dell'acqua.

Il vapore lo investì non appena si azzardò ad aprirne uno spiraglio. La sagoma di Natasha, rannicchiata oltre il vetro della doccia, catalizzò la sua attenzione.

“Tasha...,” si ritrovò a sussurrare, percependo immediatamente che c'era qualcosa che non andava.

La schiena rivolta nella sua direzione, era appoggiata all'angolo formato dalle pareti della doccia, le mani a coprirle il viso e le spalle scosse da brividi malamente trattenuti.

Si fece strada nella nuvola argentea che andava diradandosi verso la camera da letto, aprendo il box per raggiungerla, l'intimo ancora addosso e nessuna intenzione di fermarsi a liberarsene.

“Nat,” la chiamò, mentre l'acqua – praticamente bollente – rischiava di ustionarlo.

Ne regolò la temperatura, rendendosi improvvisamente conto che Natasha stava piangendo.

“Natasha... c-che...”

Ebbe a malapena il coraggio di sfiorarle una spalla, ma fu sufficiente a farla voltare verso di sé. Non si azzardò ad incrociare il suo sguardo; neanche se avesse voluto, avrebbe avuto il tempo di guardarla in faccia, tanto era stato repentino il movimento: gli aveva gettato le braccia al collo, stringendolo con così tanta forza da fargli quasi male.

Gli ci volle un attimo di troppo per capire che lo stava abbracciando e che se non l'avesse sostenuta, probabilmente le gambe non sarebbero riuscite a sostenerla. La presa era ferrea e convulsa, come avesse temuto di vederlo sparire di nuovo, di perderlo... una volta per tutte. Perché stavolta aveva rischiato di rimetterci sul serio, perché nessuno le aveva dato una garanzia che – al concludersi del dominio di Loki sulla sua mente – sarebbe rimasta anche solo l'ombra di chi era stato prima, perché ci era mancato tanto così che sparisse, portandosi via tutto quello che avevano condiviso senza possibilità di riscatto.

Per tutto il terrore che provava tutte le volte che temeva di perdere qualcuno, per tutta la sofferenza e l'angoscia che certe uscite di scena dalla sua vita gli avevano procurato, Clint non si era mai soffermato a pensare che, un giorno, si sarebbe potuto trovare dall'altra parte della barricata, che avrebbe potuto significare qualcosa... per qualcuno.

Il pensiero gli mandò un brivido giù per la schiena.

L'attirò tra le sue braccia e non la lasciò finché non ebbe smesso di tremare.



___________________________

Note: per questa one-shot mi sono ispirata a questa fanart promptatami dalla sclerobetasocia Eli :) Ammetto di essermi un po' affezionata a questo "capitolo", quindi spero piaccia anche a voi! Anche in questo caso l'atmosfera non è granché ordinaria e si rifà direttamente al primo The Avengers. Dalla prossima in poi torneremo su scenette molto più quotidiane (più una sorta di spin-off che si colloca tra VI e VII e che verrà pubblicata dopo A doppio filo).
Anyway, grazie a chi legge, apprezza, commenta :3 soliti ringraziamenti alla socia (gli dei soli sanno cosa farei senza poter sclerare/disperarmi/delirare per ore sulla Marvel senza di te, penso mi avrebbero già portata alla neuro con QUEI fotogrammi maledetti impressi nella retina o qualcosa di altrettanto drammatico ù_ù).
Buon weekend a tutti e alla prossima settimana!
Serena.

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Capitolo 7
*** VII ***


VII.

 

“Dolcetto o scherzetto?”

Quando era andato ad aprire la porta, non si era di certo aspettato di trovarsi davanti un leone, una principessa, uno SpongeBob e una... piccola Capitan America.

“Oh cazzo,” biascicò, un attimo prima che Natasha lo affiancasse, riemersa dal bagno che stava preparando. “Mi ero dimenticato che oggi è Halloween.”

“Anch'io.”

“Hai delle caramelle? Dolciumi?”

“Ho... dei muffin, credo. Vado a controllare.”

Sparì da qualche parte, alle sue spalle, mentre Clint rimaneva da solo a fronteggiare coraggiosamente la schiera di poppanti che lo osservavano con tanto d'occhi, piccoli cestini a forma di zucca stretti tra le mani con aria speranzosa.

“Bella serata, ah?” Si appoggiò allo stipite della porta e tentò di fare conversazione.

“Quella signora là assomiglia alla Vedova Nera,” intervenne Capitan America.

“Davvero?” Gli venne da ridere ma decise di stare al gioco. “Come mai?”

“Perché ha i capelli rossi e le braccia muscolose e quando la fanno arrabbiare lei prende tutti a calci nel sedere,” illustrò con dovizia di particolari.

“Però sei vestita da Capitan America.”

“Perché mio fratello Jimmy diceva che non potevo essere Capitan America, quindi ho deciso di travestirmi da Capitan America.”

“Mi pare un'ottima scelta,” convenne. “Ma anche gli altri sono divertenti, ah?”

“A me piace Iron Man!” Esclamò SpongeBob con un certo entusiasmo.

“Stai zitto Carl, te l'ho detto che Hulk è invincibile!” Lo rimbrottò astiosamente la principessa.

“Vi dimenticate sempre di Thor! Lui è un alieno ed è pure un dio,” il leone aveva finalmente preso coraggio e deciso di dire la sua. “Lo ha detto mio nonno. Lui sa tutto.”

“Iron Man è il più fortissimo.”

“La Vedova Nera è la più bella!”

“Hulk, vi ho detto...”

“Ehi,” Clint si intromise nell'acceso dibattito. “Non ci stiamo dimenticando di qualcuno?” Suggerì, indicandosi con entrambi gli indici e un sorriso idiota stampato sulla faccia...

… che andò irrimediabilmente spengendosi man mano che la perplessità si dipingeva sui volti dei bambini.

“Li abbiamo detti tutti,” lo rassicurò la principessa.

“Secondo me sta parlando di Superman,” il leone.

“Non assomiglia per niente a Superman, Peter!”

Si zittirono tutti e quattro, tornando ad osservarlo con curiosità e stizza insieme: Clint sperò ardentemente che nessuno di loro fosse sveglio abbastanza da sentire il rumore della sua autostima che andava polverizzandosi.

Pescò a caso dal piatto poggia-chiavi sistemato accanto all'ingresso, distribuendo nei vari cestini quelle che avevano tutta l'aria di essere due pile scariche, un cerotto usato e un pacchetto di fazzoletti ammezzato.

“Buon Halloween!” Concluse a gloria prima di richiudere la porta, più che deciso a coccolare il suo orgoglio ferito con un bel bagno caldo e prelibatezze di tutt'altro genere.

Si voltò giusto in tempo per vedere Natasha riemergere dalla cucina con una quantità imbarazzante di dolciumi tra le braccia.

“Ehi! Avevi detto che i biscotti al cioccolato erano finiti!” L'accusò.

“Bè... ti ho mentito. Che fine hanno fatto i bambini?”

“Me ne sono occupato.” Le si avvicinò per impossessarsi di un'enorme stecca di cioccolato alle nocciole. “Questa la prendo io...”

“Barton, non hai il permesso di mangiare nella mia vasca da bagno.”

“Neanche se sono nudo?”

“Cosa cambia se sei nudo?”

“Non lo so,” ammise. “Dovresti essere più buona?”

L'espressione di lei gli confermava che no, non sarebbe minimamente stata più indulgente solo per la provvidenziale – secondo lui, s'intende – assenza di vestiti.

“Anch'io sarò nuda, quindi ti conviene...”

“Ho capito. La cioccolata dopo il bagno.”

In quanto a nervi d'acciaio, non avrebbe potuto batterla neanche se avesse voluto.



___________________________

Note: in tutta sincerità, l'intento della scenetta è più Clint-centrico che propriamente Clintasha :P ma l'idea mi gironzolava in testa da un po' e ho voluto lanciarla nel calderone. Tutta ironica, s'intende, visto che il nostro povero arciere è bistrattato persino dagli amiconi della Marvel *cough*duesecondidiclintneltrailerdiageofultronlimortaccivostra*cough* noi gli vogliamo bene comunque ù_ù (A rileggerla col senno di poi ho paura sia anche un po' OOC :P in caso chiedo a venia se vi farò storcere il naso.)
Come al solito graaazie alla sclerobetasocia Eli e a tutti coloro che mi leggono/commentano :) Lo apprezzo molto!
Buona settimana a tutti!
Serena.

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Capitolo 8
*** VIII ***


VIII.

 

“Allora,” si voltò verso di lei non appena furono usciti in strada, “pareri?”

“Mi è piaciuto,” gli concesse, telegrafica come al suo solito.

Clint attese più o meno pazientemente che elaborasse: non l'aveva portata al cinema a vedere la versione restaurata del Rocky Horror Picture Show per estorcerle la recensione più stringata della storia!

La guardò mentre si infilava le mani nelle tasche del giubbotto leggero e per un attimo si sentì vendicato.

“Molto divertente,” commentò Natasha, aprendo le dita per mostrargli i pop-corn che lui aveva tanto maturamente deciso di nasconderle là dentro (presumibilmente a sua insaputa).

“Non guardarmi così, Nat, e se dopo ti venisse fame? In questo caso sono la formica e tu sei-”

“Non ci provare,” lo zittì brutalmente. Sottolineò il concetto con una terribile occhiataccia e poi – come se niente fosse – prese a mangiarli.

Clint ebbe la malaugurata idea di accennare a fregargliene uno: Natasha gli schiaffeggiò la mano con inaudita rapidità.

“Sei crudele,” protestò lamentoso. “Non solo non hai niente da dire su uno dei miei film preferiti di sempre, non solo non ti sei lasciata baciare neppure una volta, ma adesso ti metti pure a fare l'avara di pop-corn?”

“Non hai tentato di baciarmi,” obiettò.

“Ovvio che non ci ho provato, sembravi troppo presa dal film! Non volevo disturbarti.” A dir la verità temeva che ci avrebbe rimesso un dito o due: la concentrazione che metteva anche in attività ordinarie e quotidiane – come guardare un film o fare il bucato, ad esempio – lo coglieva sempre impreparato.

“Mi hai portata a vedere un film, che altro avrei dovuto fare?”

Gli parve talmente confusa dall'intera faccenda, che decise di smorzare l'idiozia per offrirle una delucidazione.

“Ti sto prendendo in giro,” premise, “ma hai presente quando nei film le coppie di liceali se ne vanno al cinema per... per baciarsi?”

Natasha assottigliò lo sguardo e lo osservò a lungo, come per assicurarsi di non essere vittima di un qualche sordido inganno.

“Non è una cosa che succede solo nei film?” Volle accertarsi.

“No, succede anche nella vita reale. Da qui il mio commento,” dichiarò solennemente.

Tirò su la cerniera della felpa che indossava e se ne calò il cappuccio sulla testa: una cascata di pop-corn gli piovve davanti agli occhi, per finire poi tristemente a terra. Alzò uno sguardo a metà tra il rassegnato e l'indignato in direzione di Natasha, che ricambiò con l'occhiata innocente meno persuasiva della sua intera carriera di spia.

“Credevi seriamente che non mi stessi accorgendo di niente?” Intrecciò le braccia al petto e gli sorrise.

“Non c'è bisogno di rigirare il dito nella piaga,” l'avvertì. “Siamo pari,” decretò, passandole un braccio sulle spalle per invitarla a riprendere a camminare lungo la strada.

Gli servirono un paio di secondi per rendersi conto che il gesto non solo gli era uscito totalmente spontaneo, ma era anche una novità. Finì, suo malgrado, per irrigidirsi in preda alla consapevolezza.

“Ahm... scusa, mi è... venuto,” mormorò, mentre una smorfia imbarazzata (che nelle sue intenzioni sarebbe dovuta essere un sorriso) gli si dipingeva sul volto.

Fece per liberarla da quell'incombenza, ma prima che potesse riuscirci Natasha gli aveva afferrato la mano che le aveva appoggiato sulla spalla, impedendogli di ristabilire le distanze.

“E' okay,” disse soltanto, quasi la svista non l'avesse turbata affatto.

Dopo una lunga e profonda contemplazione, si concesse di prendere anche solo in considerazione l'eventualità che fosse davvero così. Sorrise tra sé e si rilassò mentre passavano silenziosamente sotto le insegne luminose e davanti alle vetrine illuminate dei ristoranti e dei locali ancora aperti a quell'ora della sera.

Fu Natasha a fermarsi di nuovo con fare risoluto.

“Possiamo andare all'ultimo spettacolo e mettere in atto la tua fantasia adolescenziale,” propose in tono pratico.

“Che?”

“Hai detto che volevi che ci baci-”

“Sì, lo so cos'ho detto,” non sapeva se essere divertito o perplesso.

“Vuoi farlo oppure no?” Lo incalzò lei, stizza ed urgenza ad animarle lo sguardo e – forse – un'impercettibile punta d'imbarazzo.

“Mi stai chiedendo se voglio pagare un altro biglietto per il Rocky Horror Picture Show così possiamo baciarci a più riprese?”

Natasha si limitò ad inarcare un sopracciglio, così come faceva tutte le volte che si azzardava a fare domande la cui risposta era già maledettamente ovvia.

“Certo che sì,” convenne infine.

“Ottimo,” concluse lei, facendo fare dietrofront ad entrambi. “Stavolta, però, i pop-corn ce li mangiamo.”



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Note: contenuto fluffoso al 120% :P nient'altro da dire! Spero di avervi fatto almeno sorridere visto che è lunedì *ugh*
Ringrazio ancora tutti coloro che mi leggono et recensiscono, e in particolar modo alla betasocia Eli e a Callum che ci rischiara le giornate come un magnifico sole di primavera *violini in sottofondo*
Vi auguro un buon inizio di settimana :D
Alla prossima!
S.

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Capitolo 9
*** IX ***


IX.

 

Un principio di panico e isteria gli serrarono lo stomaco quando le sue mani si strinsero attorno ad una... tuta di jeans. Non tanto a causa di quell'obrobrio sottoforma di capo d'abbigliamento di cui era appena entrato in possesso, ma perché si rese conto di aver commesso un grave... gravissimo errore.

“Ah, ah, molto divertente,” si decise a formulare, rimettendosi in piedi per dispiegare la salopette in tutta la sua orripilante gloria. “Che cosa dovrebbe significare?”

Natasha, seduta sul pavimento e appoggiata con un gomito al divano, faceva fatica a rimanere seria.

“E' la tua divisa da fattore,” rispose semplicemente, ostentando una fastidiosa nonchalance.

“La mia divisa da fattore...”

“Non guardarmi così, Barton. C'è anche la camicia,” si sporse per recuperarla dall'involucro di carta regalo e nastro colorato per lanciargliela in piena faccia. “Ringrazia che non abbia deciso di prendere anche il cappello di paglia.”

“Te l'ha mai detto nessuno che il tuo senso dell'umorismo fa schifo?” Non poté fare a meno di chiederle... anche se la camicia – tutto sommato – non gli faceva poi così orrore. (Si guardò bene, tuttavia, dal manifestare quella sua particolare predisposizione alle camicie in plaid).

“Tu... in continuazione.”

“E' ancora peggio di quella volta che mi hai regalato un dizionario!”

“Avevi detto che non ne avevi uno!”

“E quindi? Avere un dizionario in casa non è un requisito necessario a vivere bene!”

“Neanche a vivere male, però.”

“Va bene, ho capito,” esalò mentre si ributtava seduto per terra. “Le tue abilità in fatto di regali continuano a lasciare molto a desiderare. Anzi...,” si decise a guardarla per bene, sforzandosi di apparire disinvolto e padrone di sé, “probabilmente dovresti restituirmi quella... ahm, cosa.”

“Cosa? Questa?” Natasha sollevò la scatolina incartata che le aveva consegnato pochi minuti prima e che teneva ancora tra le mani, un'espressione confusa, ma divertita ad illuminarle il volto. “Perché?”

“Perché ci devo pensare un po' meglio.”

Era vero che da qualche anno a quella parte avevano inaugurato la bizzarra tradizione di regalarsi stronzate per Natale, ma stavolta... stavolta aveva fallito. Clamorosamente.

“A cosa devi pensare un po' meglio?”

“A quello che c'è-” Si bloccò bruscamente mentre la donna scartava il pacchetto senza troppe cerimonie. “Appunto! Non dicono sempre che a Natale sono tutti più buoni?”

“Sono più buona,” confermò.

“Nel senso che sei un po' meno stronza.”

“Un po'.”

Mentre Natasha sollevava il coperchio della scatolina di cartone, Clint non poté far niente se non trattenere quasi dolorosamente il respiro. Chiuse gli occhi e chinò il capo, nascondendo la faccia nella sua tuta da contadino nuova di pacca e sperando intensamente in una specie di miracolo che lo facesse sparire dal salotto del suo appartamento e ricomparire... a Timbuctù, magari. Non era un tipo schizzinoso, davvero!

Si aspettava domande imbarazzate, magari un briciolo di irritazione, oppure un insulto secco e definitivo, molto più probabilmente un calcio in faccia... ma c'era solo il silenzio ad accompagnare il suo respiro pesante.

Gli sembrò essere passata un'eternità quando – con una leggera pressione – si sentì tirar via dal suo rifugio improvvisato. Gli occhi verdi della donna puntati nei suoi e un sorriso che riuscì a fargli contorcere le budella senza alcun preavviso.

“Credo che dovremmo andare di là... e spogliarci,” suggerì lei.

“Lascia che ti spi-” Sgranò gli occhi, però, arrestando la sequela di giustificazioni che non si era preparato dopo aver registrato le sue parole con un secondo di ritardo. “Cos'hai detto?”

“Che dovremmo andare in camera tua e fare sesso,” ripeté placidamente, neanche gli stesse suggerendo di andare a prendere un caffè al bar.

“Aaaah.”

Non era sicuro di aver capito com'erano passati dal regalo potenzialmente ridicolo alla fase in cui lei gli chiedeva molto apertamente di intrattenersi nelle sue stanze, ma di una cosa era certo: non gliene importava un bel niente.

Natasha si era già alzata per sfilarsi la felpa e le scarpe e avviarsi verso la sua camera da letto.

“Ehi, aspettami!” Protestò. “Se lo sapevo prima che regalarti gioielli ti mette così di buon umore, avrei prob-”

Fu costretto ad arrestarsi di nuovo nel bel mezzo del corridoio; Natasha si era voltata verso di lui con cipiglio iper serioso.

“Non mi pare di aver detto che potevi lasciare la tuta e la camicia di là...,” alluse.

“Oh,” mormorò... prima che l'indignazione prendesse il sopravvento. “Oh, andiamo! Non starai dicendo sul serio!”

“Ti sembro una a cui piace scherzare, Barton?”

La guardò agganciarsi la catenina al collo con solennità e severità insieme, la freccia d'oro bianco a prendere il suo legittimo posto sulla sua pelle candida.

“Vieni o no?” Insisté e, senza aspettare una risposta, sparì oltre la porta della sua stanza.

Non sapeva se essere più preoccupato dal modo in cui aveva accettato il suo regalo o da quello in cui si aspettava che utilizzasse quello che aveva ricevuto lui... ma, di nuovo, decise che dopotutto non era la priorità.

Fece dietrofront e corse in salotto per recuperare salopette e camicia a quadri.

“Non ti azzardare a cominciare senza di me!”



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Note: il quadretto natalizio (decisamente fuori tempo, me ne rendo conto) è dedicato (con un pizzico di isteria e il 115% di tristezza) a chiunque si senta personalmente vittimizzato da Age of Ultron <3 Non siete soli ù_ù Direi che per il resto la scena si spiega da sola, quindi passo ai ringraziamenti: a tutti coloro che leggono & commentano, a chi shippa Clintasha (perché sì) e alla sclerobetasocia Eli che mi tiene in vita con le delizie che scrive e con cui condivido gioie (poche, vabbè) e dolori (molti. Grazie di niente Joss!) del fandom.
Dopo questa chiusura passivaggresiva vi auguro una Buona Pasqua :P
Al prossimo - ed ultimo - aggiornamento!
S.

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Capitolo 10
*** X ***


X.

 

Schiantò una mano sul comodino, più con l'intenzione di ridurre il cellulare che stava squillando in mille pezzi, che per rispondere alla chiamata. Lo mancò clamorosamente – Occhio di Falco sì, ma non alle sette del mattino e soprattutto non se era stato svegliato in modo tanto subitaneo e sgradevole – tastando alla cieca alla ricerca di quel dannato apparecchio.

Fece cadere a terra la sveglia, un libro che non ricordava di possedere e una tazza (si augurò) vuota, prima di riuscire ad acchiappare il telefono.

“P-Pronto?” Balbettò, a metà tra l'indignato e l'assonnato.

“Legolas!”

“Oh, c-cazzo...”

“No, sono Tony. Sicuro di star bene?”

Si tirò su a sedere di scatto, stropicciandosi furiosamente gli occhi ancora appesantiti dal sonno.

“Lo so che non ti chiami 'cazzo', Stark, al massimo cazzone.”

“Non devi fare il carino con me, Barton.”

“Non stavo cercando di fare il carino.”

“Oh, ottimo! Sennò poi chi la sente Pepper? Te lo dico, amico mio, non ti consiglio di metterti contro quella donna...”

“Non ne avevo la benché minima inten-”

“... dicevo. Riunione all'Avengers Tower tra mezz'ora.”

“Che?”

“Ma non li leggi mai i messaggi che ti mando?”

“Ti ho risposto, no? Non essere ingrato.”

“La Romanoff mi ha detto che una volta ti sei dimenticato di avere un telefono per ben due mesi, è vero?”

“La Romanoff non sa quello che dice.”

“Magari.”

Gli venne da ridere.

“A proposito, se riesci a contattarla, avvisala... non so perché, ma risulta irraggiungibile.”

“Credevo che per te niente fosse irraggiungibile, Stark.”

“Ho commesso il grave errore di insegnarle un paio di trucchetti e adesso... bè, ne pago le conseguenze.” Breve pausa. “Non dirle che te l'ho detto.”

“Certo che no.”

Non che non avesse voglia di vedere la Vedova Nera alle prese con Tony Stark.

“Tra mezz'ora, Robin.”

“Ricevuto...,” la comunicazione si interruppe un attimo dopo, “... Lattina.”

Abbandonò il cellulare tra le coperte, portandosi entrambe le mani al volto per soffocare un sospiro stizzito. Non si mosse per qualche istante e finì per riscuotersi solo quando sentì che rischiava di riaddormentarsi da un momento all'altro: e poi chi l'avrebbe sopportate le lamentele di Stark?

Si rannicchiò sull'altro lato del letto per trovare la pelle calda e morbida di Natasha.

L'attirò a sé finché la schiena di lei non aderì al suo petto; intrecciò le gambe alle sue e allungò una mano per afferrarle possessivamente un seno.

“Quello è mio,” la sentì esalare, più chiara e meno assonnata del previsto.

“Non ho intenzione di portartelo via, se è questo che temi. Sta meglio a te che a me.”

“Controllavo solo,” asserì.

Continuava a tenere gli occhi chiusi, ma stava sorridendo – riusciva ad intuirlo dal suo tono di voce.

“Stark ci vuole alla torre tra mezz'ora.”

“Missione?”

“Temo di sì.”

“Dovremmo alzarci...”

“Lo so.”

“... e farci una doccia.”

“Anche.”

“Quanto tempo abbiamo per prepararci?”

“L'ultima volta ci abbiamo messo nove minuti e ventitrè secondi.”

“Quindi ci restano ventuno minuti e trentasette secondi.”

“Per cosa?”

“Per prenderti a pugni,” commentò seccamente, cambiando fianco d'appoggio per fronteggiarlo.

“Sei sempre così delicata...”

“... e stronza.”

“Cominci a togliermi le battute di bocca?”

“Sta' zitto, Barton.”

“Dovrai impegnarti un po' più di così,” la rimproverò.

Gli fu addosso in un secondo, gambe e braccia ad arpionarlo in modo straordinariamente efficiente.

“Ventuno minuti e trentasette secondi,” ci tenne a puntualizzare. “Sei tu che devi impegnarti.”

“Miscredente.”

“Borioso.”

“Blasfema!” Tirò su il lenzuolo e coprì entrambi fin sopra la testa prima di afferrarla per i fianchi e ribaltarla sul letto quasi fosse stata una piuma. “Tu tieni il tempo.”

Natasha cominciò il conto alla rovescia...



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Note: alloooooooooooooora. Quest'ultimo quadretto è ispirato a questo headcanon (non mio) che col senno di poi mi strazia da tutti i lati ù_ù In ogni caso, mi sembrava una degna conclusione alla parabola descritta dalla storia :')
Siamo arrivati alla fine! Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno letto, letto & commentato, spulciato la storia. In particolar modo jodie_always, hikaru90, Ragdoll_Cat, Mumma, missgenius, blue_sun23, Alwaysmiling_ & Sarugaki145. Il solito ringraziamento speciale va ad Eli, a cui la ff è dedicata :P meno male che non scleriamo da sole sennò era la fine! Avrei "NO MARIA IO ESCO"-ato molto prima XD
E a tal proposito vorrei rigirare la dedica un po' a tutti coloro che shippano Clintasha
perché ci meritavamo di meglio ù_ù Fatevi forza, leggete, scrivete, shippate.
And that's all!
Ancora tanti ringraziamenti e alla prossima storia! Sometime soon :)
Serena.

 

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