The Art of Happiness

di WhiteWitch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28. ***
Capitolo 29: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Nda: come qualcuno di voi già sa, il mio pc è morto portandosi dietro tutto il contenuto dell'hard disk, non sono riuscita a salvare niente e ho perso molti dei miei lavori, come vegeta4e ben sa. Per fortuna fortunissima avevo questa long nella chiavetta, così almeno questa non è andata persa: l'ho già quasi finita, non mi andava di smarrire anche questa. Vi dico subito che è una storia molto leggera, non vuole essere nulla di pretenzioso. Certo, un po' di angst e di travaglio interiore c'è, chi mi conosce bene sa che io mi cibo di angst dalla mattina alla sera. Qua e là possono esserci delle tematiche leggermente ostiche, soprattutto verso la fine - ma non voglio spoilerare niente - ed il rating, come ho detto nell'intro, potrebbe anche cambiare e diventare rosso, ma non ne sono sicura. Per cambiarlo aspetterò eventualmente i vostri suggerimenti. Ah, nel caso ve lo foste chiesti vedendo questa immagine che è praticamente uguale a quella che ho scelto come copertina della storia, sì, ho un'ossessione per i tetti delle città.
Colgo anche l'occasione per informare lorsignori che la storia si trova anche su Wattpad e che da pochissimi giorni - tipo una settimana - ho aperto un blog personale, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., in caso vi vada di dare uno sguardo. E basta. Enjoy!

 


Capitolo 1.

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«Ci vieni alla festa di capodanno di Max?», mi domandò Marie.
Ecco, con queste parole la mia tranquilla e placida vita parigina venne scossa con la forza di uno tsunami. Certo, ancora non ne avevo idea, ma nessuno sa con esattezza quando la catastrofe sta per abbattersi sulla sua testa. Ebbene, in quell'occasione il mio cervello elaborò l'invito come un fatto di routine quotidiana.
Abbassai il giornale in uno sfrigolare di carta, sollevai le sopracciglia e attraverso gli occhiali scuri lanciai a Marie uno sguardo incredulo. «Max fa una festa?», domandai. «E la sua amata fidanzatina glielo permette?».
«Non essere ironica», mi redarguì lei, anche se sapevo quanto fosse d'accordo con me. Strappò una bustina di zucchero e ne versò il contenuto nel cappuccino. «Allora, ci vieni?».
Mi appoggiai allo schienale della sedia in ferro battuto, lanciando uno sguardo alla strada appena fuori dal dehors. «Dio, non lo so», mormorai. «Dipende da Paul».
«Volevate fare qualcosa per conto vostro?».
«Spero proprio di no. Da quando si è laureato non lo sopporto più, giuro», sentenziai. «Vanitoso del cazzo».
Marie sorseggiò il suo cappuccino, sporcandosi le labbra carnose con la schiuma. «Perché non lo molli, allora?».
«Non fai che ripetermelo ogni santo giorno», sospirai. «Da un anno».
«Mi piace Paul», commentò lei. «È molto bello e ha un modo di fare accattivante».
La guardai con un mezzo sorriso. «Cerchi di aggiustare la gaffe?».
«Dico solo che non ho capito perché state insieme. Onestamente, Eleonora, di cosa parlate quando siete a casa?».
Ci pensai intensamente per qualche secondo, ma non mi venne in mente niente. «Del suo lavoro», dissi alla fine. «Di chi ha fatto cosa alla festa di qualcuno. Non è male, dai».
«Se lo dici tu».
Mi strinsi nelle spalle e mi sfilai i Rayban, ravvivandomi la frangia biondo cenere con la mano, senza sapere esattamente cosa dire a riguardo.
Mi piaceva Paul. O meglio, mi piaceva stare con Paul, il che è ben diverso secondo me. Mi divertiva, senza dubbio, e avevamo una vita scintillante. Per natura personale non ho mai amato molto pensare al futuro come a qualcosa che non aspetta altro che pioverti addosso. Il futuro era là, lontano, mancavano ancora molte stazioni prima che il mio treno vi si fermasse e Paul era un bel modo di ingannare l'attesa.
Ci eravamo messi insieme più di un anno prima e da allora non avevo più avuto nulla di che lamentarmi. Cene, cinema, perfino un po' di teatro, feste, vestiti. Hakuna matata: a parte le discussioni continue, chiaramente, ma che problema potevano mai rappresentare?
Guardai l'orologio da polso – un regalo di Paul – e sbuffai sonoramente. «A quest'ora sarà ad elargire brillanti consigli ad avvocati che non ne hanno bisogno, da qualche parte.».
«Da qualche parte?», ripeté Marie. Ero così assorta che non mi ricordavo nemmeno che fosse lì. «Non sai nemmeno dove lavora?».
«È importante?».
«Sei scema? Certo che lo è».
Finsi di trovare molto interessante la tazza del mio the, appoggiata sul ripiano in vetro del tavolino. «So che lavora in un qualche posto a Pigalle».
Marie mi squadrò da sopra la sua tazza con quei suoi occhioni scuri da cerbiatto ferito. Li adoravo, se fossi stata lesbica le avrei chiesto di uscire solo per quelli. «Beh, alla festa io e Jeannot ci andiamo», annunciò.
Ogni volta che parlava di Jeannot faceva un sorrisino per cui la prendevo sempre in giro. «Sai cosa?», decisi d'impulso. «Ci vengo, alla festa di Max. Se Paul non vorrà venire, bene. Stia a casa da solo, come un Ebenezer Scrouge qualsiasi».
«Non se la prenderà?».
Scossi il capo. «No, conoscendolo mi dirà di divertirmi e si metterà a guardare la replica di una partita. È una relazione molto libera».
«Trovo incredibile che non vi siate mai traditi l'un con l'altra».
«C'è una specie di tacito accordo che ce lo impedisce».
Stringendomi di più la sciarpa intorno al collo per proteggermi dal gelo di dicembre, mi ritrovai a sperare che Paul venisse davvero con me. Da un lato non avrei mai voluto trovarmelo fra i piedi, ma dall'altro... Non sembravamo nemmeno una coppia normale.
«Spero davvero che non ci sia Louise», commentai.
«È la festa del suo compagno», disse Marie, «certo che ci sarà».
«La odio».
La mia amica rise forte. «Tu odi quasi tutti».

«Solo quelli che lo meritano».
Marie mi salutò con un bel bacio sulla fronte, dicendo di avere appuntamento per pranzo con la suocera. Mi sembrava pazzesco l'affiatamento che c'era tra quei due piccioncini e le loro famiglie, sembravano sposati da anni quando stavano insieme da appena tre mesi. Era tenera, Marie, e quasi la invidiavo per quella relazione idilliaca.
Se ne andò quasi saltellando sulle sue Dr. Martens nere.
Adoravo Marie, con quell'aria sempre allegra e una parola gentile per tutti, perfino per chi non le piaceva. Mi sentivo sempre un po' più buona dopo aver passato del tempo con lei, un po' più bendisposta nei confronti dei comuni mortali. Se non fosse stato per lei non sarei mai riuscita a sopravvivere ai ritmi che tenevo da quando vivevo a Parigi.
Avevo mal di testa. La sola idea di pranzare con Paul, più tardi, rischiava di farmi venire un'ulcera. Mi costrinsi a pensare che era un solo pasto, che non richiedeva un dispendio eccessivo del mio tempo, eppure non riuscivo a togliermi dalla mente la certezza che avremmo litigato di nuovo.
Mi accesi una sigaretta e cercai di fare degli anelli di fumo per svagarmi: ottenni un solo, misero cerchio, così brutto che lo disfeci subito agitando una mano. Anche il vizio del fumo era un regalo di Paul, proprio come l'orologio, gli occhiali, le scarpe e la cover del telefono.
Decisi che era ora di sgombrare il campo: un'amabile coppietta di liceali si era piazzata proprio nel tavolino di fronte al mio ed erano alle prese con un bacio così pieno di lingua e saliva che quasi mi domandai se non fosse il caso di accertarmi che non stessero soffocando. Era più di quanto potessi tollerare.
Pagai, lasciando una mancia al cameriere perché era così carino, e mi dileguai verso la metropolitana, pronta a raggiungere l'appartamento del mio fidanzato, nella zona di Saint-Germain-des-Prés. Praticamente in pieno centro, in una via che io trovavo pittoresca tanto quanto Paul la trovava confusionaria.
Stranamente le cose con Paul non andarono troppo male. Iniziò a chiedermi della mia giornata: un resoconto che occupò i primi cinque minuti di una pausa pranzo di un'ora e mezza. Il tempo che ci era rimasto lo passammo a lamentarci dei rispettivi orari e a fare sesso sul divano.
Facevamo sempre sesso per evitare la noia. A me non dispiaceva: lui era dannatamente bravo e, soprattutto, sollecito. E poi era così bello: sapevo che faceva fatica, era di costituzione robusta e ce la metteva tutta per avere un bel corpo, con ottimi risultati, oserei dire. Era un piacere guardarlo, con quelle braccia forti e il petto liscio, glabro.
Anche il suo culo era stupendo, sembrava fatto di marmo.
Le nostre intime attenzioni avevano sempre qualcosa di sexy: mutandine di pizzo, oli profumati, musica soft. Immaginatevi una scena di sesso da film, con protagonisti Julia Roberts e George Clooney in un loft di Manhattan: ecco, quello era il modo di fare l'amore che aveva Paul, magico e perfetto. Mi piaceva anche per quello.
Alla fine eravamo sempre soddisfatti e stavamo in silenzio per un po' – il silenzio di chi non ha molto da dirsi – a coccolarci nel suo letto. Poi di solito uno dei due aveva un impegno e ci salutavamo.
Certo, c'erano anche volte in cui avevamo qualcosa di cui parlare: come avevo detto a Marie, chiacchieravamo di lavoro e di amici comuni. A volte dicevamo anche qualcosa riguardo i miei esami, ma Paul aveva un modo di fare un po' paternalistico e preferivo sempre cambiare argomento.
Quel giorno non parlammo affatto, dopo.
Non discutemmo: almeno questo lo avevo ottenuto. Mi promise che sarebbe venuto con me alla festa dell'ultimo dell'anno. Ero così eccitata all'idea che saltai di pari passo tutte le lezioni che dovevo seguire nel pomeriggio, sollazzandomi a casa sua in pieno relax.
Per ringraziarlo gli offrii un cinema – o almeno glielo avrei offerto se i soldi che non avevo speso in regali di Natale fossero stati sufficienti, l'idea comunque partì da me – e dopo il cinema facemmo ancora sesso. Dormii perfino da lui.

***


I miei genitori arrivarono per il giorno di Natale insieme alla sorella di mia madre, la zia Lisa. In realtà si chiamava Elisa, ma qualcuno doveva aver deciso che era il caso di accorciarlo, un nome già di per sé così breve.
Mia madre, Sofia, e mio padre, Massimiliano, avevano idee contrastanti riguardo il mio vivere in Francia.
Lui era felicissimo: di sinistra per abitudine, vedeva il problema economico in Italia irrisolvibile ed era così soavemente soddisfatto di sua figlia che aveva deciso di scappare all'estero. Non la chiamava “fuga di cervelli”, ma solo “mercato psicologico in movimento”. Il fatto che stessi studiando arte, poi, lo inorgogliva ancora di più: le università umanistiche erano così di sinistra che non poteva non essere fiero di me.
Mia mamma era invece terrorizzata all'idea che la sua amata bambina non sarebbe mai tornata a casa. Lei era nata ad Urbino, aveva studiato ad Urbino, si era sposata ad Urbino e con ogni probabilità sarebbe andata in un ospizio ad Urbino. Per quel che la riguardava avrei potuto essere un topo di biblioteca come un'étoile del Moulin Rouge, bastava che tornassi a casa una volta finito.
Mia zia Lisa era solo entusiasta di Parigi. Le serviva una scusa per venirci ed io ero entrata nelle sue grazie per essermici trasferita.
Mentre mio padre si fiondava ad una conferenza molto intellettuale – e molto sinistroide – e mia zia faceva mostra delle sue gambe lunghissime in pieno centro, mia madre ed io decidemmo di pranzare sul ristorante in cima alla Tour Eiffel. Un posto un po' costoso, ma pagava lei.
«Allora», mi disse mentre sfogliava il menù con le sue dita smaltate di rosa, «immagino che tu te la stia passando bene».
«Come negli ultimi cinque anni».
«Ormai sei prossima alla laurea».
Annuii. «Già, è vero. Non appena finiranno le vacanze di Natale mi butterò sulla tesi».
«E poi che farai?».
«Poi?», domandai.
«Sì, poi. Tornerai a casa, vero?».
Ero abbastanza stanca del suo insistere sul mio ritorno in patria, tanto più che non avevo la minima intenzione di tornare ad Urbino. Non dopo Parigi, non con tutti gli altri posti nel mondo che di certo erano molto più eccitanti.
«Stavo pensando di andare a vivere ad Antananarivo», ironizzai. «Sai, in Madagascar: lemuri e tutto il teatrino».
Ridacchiò. Era sempre ilare, mia madre, anche quando le cose non andavano come voleva. «Dai, sii seria».
«Non penso che tornerò, mamma. Non in pianta stabile».
«Fino a quando?».

Feci spallucce. «Non lo so. Per adesso no».
Giunse un cameriere, così giovane che forse non era nemmeno maggiorenne, ed ordinammo una crema di zucca e una bottiglia di vino rosso. Mia madre adorava il vino.
«Tesoro», disse dopo che il ragazzo fu andato via. «Ci manchi. Tuo padre ed io vorremmo riaverti a casa con noi».
Era normale, riflettei, era il problema dei genitori. Se c'era qualcosa che i miei non avevano mai lesinato era l'amore familiare. Magari non erano i più ricchi, né i più saggi, ma mi avevano amata più di quanto io sarei mai stata in grado di amare indietro.
Mi ritrovai con la mente fissa su Paul. Sembra assurdo, ma me ne ero completamente scordata. «Io qui ho un ragazzo».
«Davvero?», chiese lei. Lo mascherava bene, ma ero certa che quello che aveva negli occhi fosse dispiacere: un fidanzato era un ostacolo in più al mio rientro. «Fantastico. Come si chiama?».
«Paul Duval. Si è laureato in legge ed ora lavora in uno studio legale a Pigalle».
«Ha già trovato lavoro?».
«Suo padre aveva degli amici», dissi evasiva.
Mia madre sorrise con ironia. «Meglio non dirlo a tuo padre, non è amante dei raccomandati».
«Nessuno lo è», risi io, «non apertamente. È un bravo ragazzo», aggiunsi pensando a Paul. Mi chiesi perché il mio tono fosse così incerto, perché suonasse come una scusa.
«Non ne dubito», affermò, scostandosi mentre il cameriere le posava davanti il suo piatto di crema fumante. «Immagino non abbiano il parmigiano qui, vero?».
«Non lo so, non credo».
«Fa niente, mi piace anche senza», commentò con un sorriso. «E questo Paul è carino?».
«Molto», risposi. In realtà era molto più che carino, ma il mio subconscio voleva farmelo passare come niente di speciale. «Alto, moro, belloccio».
«Quando posso conoscerlo?», domandò.
Esitai. «Preferirei non ora», ammisi dopo qualche momento. «Non sono sicura che sia la persona giusta».
«E allora?», domandò. «Io ho presentato a tua nonna quattro fidanzati prima di portarle in casa tuo padre».
Sorrisi per l'aneddoto. «E lei? Era tranquilla?».
«Certo che no, fece una testa così a mia sorella dicendo che la davo via con troppa facilità. Lei la prese alla lettera, ecco perché ora è ancora single».
«Credevo che zia Lisa avesse mille amanti».
«Mille uomini, certo, ma amanti? Nessuno».
Non mi interessava parlare di zia Lisa. L'argomento “Paul Duval” mi aveva lasciata con un macigno sul cuore. Mai come in quel momento desideravo un consiglio da mia madre, ma cosa potevo dirle? “Sai, mamma, Paul ed io stiamo insieme principalmente per non stare soli e lui mi riempie di regali”. No, sarebbe stato troppo idiota, senza contare che la mia parte irrazionale trovava ogni scusa buona per farmi credere di amarlo alla follia – e forse un po' lo amavo davvero.
«Mamma», mormorai, trangugiando un cucchiaio di crema di zucca. «Tu come sapevi che papà era l'uomo giusto?».

«Mica lo sapevo», ragionò. «Mi ha chiesto di sposarlo ed ho accettato. Andavamo molto d'accordo, c'era intesa sessuale e spirituale, perché avrei dovuto rifiutarlo? Il tempo mi ha dato ragione, sono una moglie felice e soddisfatta».
«Hai mai avuto dubbi?».
Ci rifletté un momento, leccando il cucchiaio. «Ah, giusto, ora ricordo», disse dopo qualche secondo di meditazione. «Non eravamo ancora sposati, ma stavamo insieme da un paio d'anni. Io andai al mare con alcune amiche e mi presi una bella sbandata per un ragazzo che frequentava la nostra spiaggia».
Sgranai gli occhi, sbalordita. Avevo sempre guardato ai miei genitori come una coppia inattaccabile. «Davvero?».
«Eh, sì». La vidi sorridere al ricordo, non con rimpianto, ma con tranquillità. «Non ricordo nemmeno come si chiamasse, figurati, ma era molto carino ed io ero in vacanza».
«Ed avete fatto qualcosa?».
Scoppiò a ridere. «Cielo, no! Non avrei mai potuto tradire papà. Però ammetto che per tutta la vacanza non ho pensato a lui nemmeno una volta, avevo il cervello pieno del tizio della spiaggia. Ero perfino convinta che non sarei mai più riuscita ad amare tuo padre».
Aggrottai la fronte. «Come è finita?».
«Niente di che: le ferie sono finite e sono tornata a casa».
«Ah».
Non era il discorso incoraggiante che mi ero attesa, ma era stato interessante. Chissà, magari anche il mio momento di instabilità con Paul sarebbe svanito con la velocità della fine di una vacanza. Eppure mi conoscevo bene: non ero mia madre, non avevo neanche lontanamente la costanza e la serenità che aveva lei, né il suo desiderio di vivere tranquilla.
Lo chiamano bovarismo, quella costante insoddisfazione che certa gente prova, convinta che la vita possa essere migliore e che le persone normali non siano abbastanza.

Paul era abbastanza, lo era sempre stato, ed io volevo solo una bella vita. Il mio fidanzato poteva certamente farmi passare momenti eccitanti anche così.
E poi non dovevo certo sposarmelo: non gli avevo promesso niente, a malapena gli dicevo che lo amavo. Non dovevo avere fretta, come aveva detto Marie in un modo o in un altro tutto si sarebbe aggiustato.
Più tardi, quella sera, dopo che la mia famiglia si fu ritirata in albergo, mi ritrovai nel mio letto da sola. Paradossalmente, dopo aver parlato un po' con la mamma il mio materasso mi parve freddo e troppo grande per una persona sola. Mi ritrovai a desiderare qualcuno, chiunque, solo perché dormisse con me. Avrei dovuto pensare a Paul, per quel ruolo, ma dopo qualche momento capii che qualsiasi essere umano sarebbe andato bene.

***


Andammo tutti insieme a fare shopping alle Galéries Lafayette il giorno di Santo Stefano. Era l'ultimo giorno, poi i miei parenti sarebbero tornati in Italia: mia madre aveva una bambina a cui fare da babysitter e mio padre aveva una riunione del sindacato – già, mio padre era un sindacalista, ma vi sorprende?
Fu lui a insistere per comprarmi un cappotto nuovo, dicendo che quello che avevo io era troppo chic e non si adattava al mio modo di essere.
Avrei voluto dirgli che invece si adattava perfettamente al mio modo di essere, era così bello e scandalosamente haute couture che non ci avrei rinunciato nemmeno in cambio di una statua d'oro in piena Piazza San Pietro. Però non lo dissi, lasciandolo fare, perché sapevo che non sarebbe stato soddisfatto finché non avesse avuto quello che voleva. In questo io e lui eravamo uguali.
Marie li conosceva entrambi e venne con noi su insistenza di mamma. Per quanto odiasse che stessi a Parigi, adorava Marie con tutto il suo palpitante cuoricino urbinate, pur non capendo una parola di quello che diceva.
Fu con lei, con Marie, che scelsi di chiudermi dentro il camerino del punto vendita di Moschino, un bugigattolo minuscolo e rovente per le luci al neon, un metro per un metro.
«Certo che con quello che si fanno pagare quelli di Moschino potrebbero anche fare camerini più grandi».
«Marie», mormorai accorata. «Ho bisogno di aiuto».
«Lo immaginavo, o non mi avresti costretta a pressarmi qui dentro come una sardina. Le mie tette si sentono oppresse, poverine».
Deglutii, sbattendo le palpebre cariche di ombretto. «Ricordi l'ultima volta in cui abbiamo parlato di Paul?».
Marie rifletté per un momento. «Certo, in quel caffè sull'Île-de-la-Cité».
«Bene», approvai. «Sai, da allora ci ho riflettuto».
Lei attese che continuassi, ma di fronte al mio silenzio aggrottò la fronte. «E...?».

«Ho un brutto presentimento».
«Di che tipo?».
«Non lo so», ammisi. «Sospetto che forse stia per finire».
La vidi sgranare gli occhi. «Tra te e Paul?».
«Sì», mormorai. «No. Forse: non saprei dire».
«A volte capita di avere brutte sensazioni», commentò, meditabonda. «Cerca di pensarci: è cambiato qualcosa fra voi? Lui ti ha detto qualcosa di strano?».
Scossi il capo. «No».
«Tu hai conosciuto un altro? Lui si lava poco? Hai scoperto di essere lesbica e ti sei innamorata di me, ma non sai come dirmelo?»
Controvoglia ridacchiai. «No, niente del genere».
«Allora è solo un momento, vedrai».
«Ho la sensazione di essere sul punto di sputtanare tutto».
Allora Marie mi lanciò uno di quegli sguardi che solo lei, con le sue labbra rosse e i suoi begli occhioni, poteva assumere. Uno sguardo dolce e allo stesso tempo severo. Chiunque la conoscesse sapeva che sfoderava un'occhiata alla Marie solo per i casi davvero importanti.
«Ci tieni a Paul?».
Quella era una domanda così azzeccata che le avrei dato un bacio in bocca. «Immagino di sì».
«Immagini?».
«Lo hai detto tu che in comune non abbiamo molto».
«Tra cinquant'anni ti vedi al suo fianco?».
Feci una smorfia. «Al momento non mi vedo da nessuna parte, a cinquant'anni».
Avrei voluto essere come lei: sapeva cosa voleva, lo aveva sempre saputo. Una famiglia, due figli, un cane, la casetta con la staccionata bianca. Praticamente il sogno americano. E voleva tutto ciò con Jeannot. Provai una fitta di invidia per quel bel progetto che io non riuscivo a cucirmi addosso.
Mi sorrise. «Lascia passare del tempo, vedrai che prima o poi ne verrai a capo. Continuare a pensarci è inutile».
La voce di mio padre proruppe da oltre la porta del salottino di prova. «Hey, voi due, vi conviene riemergere», lo udimmo dire con una risata. «Eleonora, tua madre sta saccheggiando il cesto delle sciarpe».
«Arriviamo!».

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Nda: Stavolta sarò breve, mi limiterò a ringraziare coloro che hanno recensito il precedente capitolo, mi avete caricata di coraggio per continuare a pubblicare <3 E di nuovo vi ricordo che il capitolo si trova anche su Wattpad. Se poi vi andasse, fate un salto sul mio blog personale, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., l'ho aperto di recente. In più volevo comunicare che la storia, a partire da oggi, verrà aggiornata settimanalmente di lunedì. Baci baci.


Capitolo 2.

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Marie ed io consumammo una cassa di birra in solitaria, nel pomeriggio, e quando arrivammo alla festa eravamo già brille. Lei si aggrappava a Jeannot per stare in piedi.
L'appartamento di Max – un bellissimo attico nella Villette, che in realtà apparteneva ai suoi genitori – era così affollato che sarebbe stato un miracolo trovare Marie se l'avessi persa di vista. Alcuni degli invitati erano amici dell'università, molti dei quali avevano portato un partner o un amico, o entrambi, mentre di tutti gli altri non avrei saputo dire nemmeno il nome. Capii di non conoscere quasi nessuno dopo appena cinque minuti di osservazione.
La musica era quasi assordante, all'inizio: c'era un dj che aveva tutta l'aria di essere un tossico che metteva su dischi pop tenendoli ad un volume al limite della sopportazione umana. Fu Louise, la ragazza di Max, a chiedergli di abbassare i toni dopo le prime lamentele. Per la prima volta da che la conoscevo le fui grata per qualcosa.
Lui, Max, venne da noi per la prima volta dopo più di un'ora, con un sorriso smagliante e un bicchiere di vino bianco in mano.
«Eleonora, Marie!», esclamò. Sembrava alticcio e una ciocca di capelli era sfuggita al gel. «Ragazze, meno male che ce l'avete fatta a venire».
Marie gli sorrise e lo baciò sulle guance. «Max, lui è Jeannot, il mio ragazzo».
Il nostro Max era un tipo simpatico, che amava conoscere gente per il solo gusto di farlo. Certo, Louise lo teneva un po' al guinzaglio, ma la sua indole non poteva non prendere il sopravvento. Non avevo mai conosciuto qualcuno che organizzasse cene e feste più belle delle sue. Abbracciò Jeannot come se lo conoscesse da sempre, scarmigliandogli i capelli castani. «Benvenuto, amico, fai come fossi a casa tua».
Qualcuno, da qualche parte, chiamò il suo nome, così il nostro anfitrione ci salutò e ci lasciò da soli. Mi guardai intorno, in cerca di qualcuno che potesse darmi un bicchiere. Avrei voluto anche io presentargli il mio bellissimo e sciccosissimo fidanzato: lo avrei anche fatto, se solo il suddetto uomo si fosse presentato alla festa come mi aveva promesso.
E dire che Max, dopo aver saputo che sarei andata, mi aveva fatto arrivare un bel bigliettino: “Eleonora Gentilini +1”, dicevano le letterine dorate sul cartoncino rosso. Fanculo, il mio +1 aveva addotto un miserevole mal di testa e mi aveva chiesto di poter rimanere a casa.
«Era una scusa», dissi a Marie quando mi chiese spiegazioni. «Lo vedevo lontano un chilometro che non aveva affatto mal di testa».
«Quindi che fa?», domandò lei, ballonzolando a tempo di musica e stringendo convulsamente la mano di Jeannot. «Resta a casa da solo?».
«No», risposi con un'espressione imbronciata. «Ha telefonato a suo fratello, passeranno il capodanno insieme guardando film e bevendo birra. E dire che a lui piacciono, le feste! Perché non è venuto?».
La mia amica aggrottò la fronte, mettendo il broncio. «In effetti non se ne perde una. Però magari a capodanno voleva fare qualcos'altro».
«Beh, non è certo un mio problema», sbottai.
Jeannot, il dolce e cordiale Jeannot che sembrava così perfetto per Marie, mi strinse la spalla in un gesto amichevole. «Non ti preoccupare, Léo, vedrai che aveva dei buoni motivi».
Non ce la facevo ad essere scortese, non con quei due: nonostante fossi incazzata come una faina erano troppo stucchevoli ed altruisti per divenire oggetto di risposte brusche. Gli sorrisi con aria mesta. «Non dubito che avesse dei buoni motivi», risposi, «ma lo aveva promesso. Sai quante partite di calcio sono andata a vedere con lui, anche se non me ne fregava niente? Però lo avevo promesso e ci sono andata».
Mi faceva arrabbiare non ricevere lo stesso trattamento, anche se a ben pensarci era anche colpa mia: gli avevo dato troppo spazio e Paul si era abituato. Chissà, magari era genuinamente convinto che per me andasse bene così.
Sospirai, guardandomi intorno, e con sgomento mi resi conto che erano quasi tutte coppie quelle presenti al party. Figurarsi, quando si trattava di incontri tra single Paul era sempre in mezzo ai piedi ed ora che avevo bisogno che ci fosse era a casa sua.
Afferrai un bicchiere di spumante da un tavolino pieno di calici e tracannai il contenuto con stizza. I palloncini sparsi sul pavimento mi davano sui nervi, il vestito della sciacquetta bionda in fondo al salone mi dava sui nervi, gli occhiali anteguerra di Max mi davano sui nervi.
«Perché non cerchi di conoscere qualcuno?», propose Marie.
Mi rendevo conto di non essere una compagnia facile da sopportare e mai come in quel momento apprezzai la pazienza dei miei amici. Dovevo aprire la porta del mio bozzolo di sociopatia e fare uno sforzo. «Con chi?».
Mi indicò un gruppo di ragazze che parlavano animatamente vicino alla finestra. Sembravano allegre e tranquille, una di loro aveva l'aria simpatica e un'altra era così paffuta che provai per lei un istintivo senso di fiducia. «Con loro, magari. Fai nuove amicizie».

Stavo quasi per annuire, ma all'ultimo momento cambiai idea. Sembravano così affiatate e bellissime. Una di loro, quella con i capelli neri, aveva delle gambe così lunghe. Provai un'improvviso moto di terrore. Scossi il capo. «No, dai, avranno i fatti loro di cui parlare».
«E quel ragazzo?».
Mi indicò un tipo carino, non troppo alto e tuttavia nemmeno basso, con i capelli castani e un bicchiere di Coca Cola in mano. Si portò la bevanda alle labbra, buttò giù qualche sorso e all'improvviso fece una smorfia, strizzando gli occhi.
«Che tenero!», commentai con un sorriso materno. «Gli sono andate le bollicine nel naso!».
Non era il tipo di persona con cui sarei andata d'accordo, ammetto con una punta di vergogna che all'epoca tendevo a prendere un po' in giro i ragazzi come lui. Marie lo sapeva e scartò a sua volta l'idea.
Lasciammo vagare lo sguardo sugli invitati, cercando qualcuno quasi disperatamente. Non avevo la minima intenzione di importunare gli amanti – se dovevo fare il terzo incomodo, tanto valeva che lo facessi con Jeannot e Marie – né mi intrigava il pensiero di insinuarmi in un gruppetto di sconosciuti. Trovare qualcuno che fosse solo era praticamente impossibile.
«Lo sai», commentai dopo un istante, «avevo una gran voglia di venire qui. Non vedevo l'ora che arrivasse capodanno solo per questa festa. Ero eccitatissima».
«Ma...?».
Piegai le labbra in una smorfia infantile. «Ma Paul mi ha fatta infuriare ed ora vorrei solo andare a casa. Non lo farò, tranquilla», la anticipai. «No, io voglio divertirmi, davvero».
Il dj mise su un lento così lento che mi sentii una lepre in mezzo a tutte le coppiette che si muovevano come tartarughe. Guardai di sottecchi Jeannot: si vedeva a distanza che voleva ballare, che voleva portare la sua Marie in mezzo alla pista per sbattere in faccia a tutti la loro felicità.
«Hey», dissi all'improvviso. «Andate, coraggio, non dovete stare qui con me».
Marie scosse la testa. «No», replicò, categorica, «non ti lascio da sola».
«Figurati», mentii, esibendo un bel sorriso. «Sopravviverò. Sarò qui, quando tornerete, e se non ci sarò probabilmente mi troverete al tavolo del cibo».
Era un'altra bugia: ero così delusa e intristita che il solo ricordare l'esistenza del mio apparato digerente mi dava la nausea. Tuttavia Marie parve credermi, perché mi sorrise dolcemente e prese la mano di Jeannot, sparendo in mezzo alla gente.
Max aveva trasformato il salone in una vera pista da ballo, sgombrandolo di tutti i mobili. Rimanevano solo il tavolo del buffet, quello degli alcolici e le sedie lungo le pareti. In pochi secondi persi di vista i miei amici, fagocitati dai ballerini.
Presi un altro bicchiere, cercando di centellinarne il contenuto. Mi sentivo ridicola. Nel mio corto vestito blu elettrico pieno di paillettes, con i miei tacchi da dieci e la mia pochette, con l'aria annoiata e un po' triste mentre fissavo il vino, era come se il mio intero essere stesse gridando a gran voce: “Sono sola e patetica, aiutatemi! Cercasi compagnia disperatamente”.
In un lampo di genio particolarmente filosofico mi ritrovai a chiedermi se Eleonora Gentilini non fosse in realtà la ragazza di Paul Duval. Era lui a definirmi? Dissi a me stessa di no, ma allora come mai senza di lui non sapevo esattamente dove mettermi, in quella sala affollata? Se non avessi avuto il calice frizzante non avrei saputo nemmeno in che posizione tenere le mani. Non mi capitava di sentirmi tanto fuori posto da mesi e mi sarei strappata la faccia piuttosto che provare quella sensazione. Mi accorsi di avere un groppo in gola e gli occhi lucidi: alcool e rancore sono amici di lunga data. Non volevo piangere, chissà cosa avrebbero detto tutte quelle persone.
Stavo per dileguarmi verso il bagno per darmi una sistemata quando una voce alle mie spalle disse: «Ciao».
Mi voltai e vidi il ragazzo della Coca Cola nel naso. Non ci potevo credere: era quello il mio salvatore? Beh, era la prova che la vita ci sorprende sempre. Chiusi gli occhi per un momento, sperando che quando li avessi riaperti lui sarebbe come evaporato. Non accadde: era ancora lì, con un sorriso dolce e gli occhioni spalancati.
«Heylà», risposi.
Mi tese la mano. Con accento straniero annunciò: «Sono George Addison, vengo da Londra».
Per il fatto di essere britannico guadagnò parecchi punti. Cercai di figurarmelo al posto del principe Henry. Gli sorrisi, ma non gli strinsi la mano. «Eleonora Gentilini».
Lo ascoltai biascicare il mio nome in un disperato tentativo di pronunciarlo.
«Chiamami Léo», quasi lo supplicai.
«Sei italiana?».
“Però, che spirito di osservazione”. «Eh, già».
Non so cosa sperassi: forse stavo cercando di essere poco loquace per farlo scappare a gambe levate. Non che stessi facendo fatica, dato che non avevo la minima voglia di parlare. Mi dipinsi sul volto un'espressione di circostanza, quella che la gente assume quando non sa cosa dire. Lui continuò a guardarmi con occhi allegri.
Erano begli occhi: azzurri, chiarissimi, contornati da ciglia scure lunghe come quelle di una donna. Anche le labbra erano attraenti, piene e dall'aria morbida. I capelli, beh, probabilmente se li avesse pettinati prima di uscire non li avrebbe avuti così in disordine. Ora che lo avevo di fronte notai che era alto come lo ero io su quei tacchi. Non molto, considerando che con dieci centimetri di trampoli raggiungo a malapena il metro e settanta. Per essere un uomo era decisamente un tappetto.
Pensai che Paul lo avrebbe guardato dall'alto in basso con il suo metro e novantasei di bellezza.
Sembrava in attesa che dicessi qualcosa. Pensai in fretta. «E cosa ci fa un londinese a Parigi?».
«Mi sono trasferito dopo la laurea», spiegò. La sua voce aveva una nota sgradevole, qualcosa che non mi piaceva per niente, era troppo bassa. «Scienze della comunicazione».
«E che lavoro fai, George?».
«Sono uno youtuber».
Rimasi di stucco. «Youtuber», ripetei. «Ma è un lavoro vero?».
Temetti che si offendesse per la mia domanda – che in realtà era sorta spontanea. Invece scoppiò a ridere. «Sì, certo che è un lavoro vero».
La cosa si faceva sempre più sorprendente. «E ti... Ti pagano per questo?».
George annuì. «Con le visualizzazioni, sai».
Non potevo credere che qualcuno guadagnasse abbastanza da campare solamente caricando video su Youtube. Insomma, sapevo che c'era gente che faceva i soldi mettendo divertenti video di gattini e di neonati, ma chi poteva davvero definirlo un lavoro?
George poteva, lo capii dal suo sguardo tranquillo. Non me la sentii di dissentire, non con quel ciuffo ribelle che ammiccava sulla sua fronte e quell'aria da cucciolo. Preferii cambiare argomento, prima di dire qualcosa di troppo: non volevo davvero dargli un dispiacere.
«E così conosci Max».
Lui annuì e i suoi capelli ondeggiarono. «Ci siamo conosciuti quando è stato a Londra due anni fa», mi raccontò. «Faceva il cameriere per un'estate. Quando gli ho scritto dicendo che mi trasferivo si è offerto di farmi incontrare un po' di gente».
Gli sorrisi, pensando che parlava un ottimo francese, fatta eccezione per la pronuncia. «E sono come ti aspettavi, gli amici di Max?».
Si strinse nelle spalle. «Le ragazze sono così... Così...».
«Così chic?», suggerii.

«Così francesi».
Non so perché, ma quella battuta mi fece ridere. Rimasi quasi sorpresa dal suono che emise la mia gola: con Paul non ridevo mai molto.
Quello che mi stava attraversando la mente era un pensiero pericoloso: George era carino, con quei capelli carini, il suo maglione bianco e blu carino – chi avrebbe messo un maglione a una festa come quella? – e gli skinny jeans, carini anche quelli. Perfino la sua barba un po' troppo lunga era carina. Pensai che era meglio allontanarmi, prima di fare qualche cazzata. Stavo facendo fatica a non erigere sulla testa di Paul un paio di corna alte un metro. E poi lui era stato così stronzo, la comparsa di George non poteva capitare in un momento peggiore. Lo guardai di sottecchi.
Paul o no, George aveva un'aria così sperduta che anche solo baciarlo sarebbe stato come confonderlo ed illuderlo. Capiamoci, non ero certo la più bella tra le belle, lì dentro, ma facevo la mia figura e George non sembrava indifferente al mio abitino scollato e cortissimo, lo capivo dal modo in cui evitava accuratamente di guardare le mie gambe.
Era tutta colpa sua, santa pace, come si era permesso di farmi ridere?
Non sembrava voler demordere: tuttora non mi è chiaro come mai la gente si ostini a voler conversare. «Cosa fai nella vita?».
«Studio».
«Fantastico!», commentò con sorprendente entusiasmo. «Che cosa?».
“Porca puttana”, pensai, “perché si interessa a quello che faccio? Paul non si interessa mai”. Finsi tranquillità. «Storia dell'arte, alla Sorbona».
«Ah, wow, sembra troppo... come si dice...». Parve riflettere a lungo. «Insomma, cool, non so se mi segui». Mi regalò un sorriso così caldo da accigliarmi. «Io non sono mai stato un granché in storia dell'arte. Non ti offendere».
«Nessuna offesa».
Si passò una mano tra i riccioli scuri in un modo così infantile che quasi mi sciolsi. Quasi. «Come mai hai deciso di studiare arte?».
«Davvero ti interessa?».
Lui annuì ed io non seppi cosa dire, sul momento. Ero a una stramaledetta festa di capodanno, c'era gente che ballava al ritmo di Everybody dance now ed avevo una voglia matta di divertirmi e lui voleva parlare di arte?
Ero poco abituata: a parte Marie, con la quale condividevo il corso di laurea, a nessuno importava dell'arte tanto quanto importava a me. Paul non mi chiedeva mai cosa studiassi e quando gliene parlavo di mia iniziativa mi liquidava con un “Che dolce che sei”. Per di più erano un ambiente ed un momento così strano, per affrontare un discorso simile. Lui, però, sembrava interessato sul serio.
«Beh, è la mia passione da sempre», replicai. «Fin da piccola».
«Sei un'artista anche tu?».
Ridacchiai. «No, figurati. Mi piace dipingere, ma non sono affatto brava», risposi, «e poi non è un mestiere che paga molto».
«Potresti provare, tentar non nuoce».
«Non lo so...», commentai. «Io...».
George mi sfiorò la spalla con la mano. Notai che non era solito mangiarsi le unghie, proprio come Paul. Era una cosa che apprezzavo in un uomo. «Mi piacerebbe vedere un tuo quadro», disse annuendo. «Certo, non ne capisco poi molto, ma sarebbe davvero grandioso».
La cosa stava assumendo connotati inattesi. «Io non faccio mai vedere i miei lavori», dissi con determinazione, il tono deciso che non ammetteva repliche.
«Perché?».
Come potevo spiegargli che ero terrorizzata all'idea di sentirmi dire che i miei disegni facevano schifo? Era già abbastanza difficile ammetterlo con me stessa, con uno sconosciuto sarebbe stato anche peggio.
Non dipingevo nulla da anni. Dai tempi del liceo, quando ancora vivevo in Italia. Non mi sarei certo rimessa a farlo per quel bambolotto inglese.
Stavo per rispondere, quando Jeannot e Marie, entusiasti e un po' sudati, riemersero ridacchiando e saltellando dalla pista da ballo. Il sorriso che aveva la mia amica era così soddisfatto che per un attimo mi chiesi se non avesse avuto un orgasmo.
«Dio, dovevi vedere», esclamò Marie. «Jean e Nicole sono scivolati su una chiazza di aranciata sul pavimento e si sono trascinati dietro Louise nella caduta».
Ero incredibilmente grata per quel salvataggio inconsapevole. Bisognava che qualcuno mi distraesse dalle labbra invitanti di George. Ero al terzo bicchiere di vino, reduce da parecchia birra e non mangiavo nulla dall'ora di pranzo. Era già un miracolo che non fossi ancora sbronza: è uno stato d'animo molto difficile da gestire e se di fianco a te c'è un tenero e innocente George Addison...
«Accidenti, me lo sono perso», replicai, sforzandomi di provare entusiasmo.
Jeannot lanciò uno sguardo al mio nuovo amico. «Eleonora, non ci presenti?».
Avevo evitato di farlo, sperando che l'inglesotto si offendesse e si allontanasse. Ovviamente non ci ero riuscita. Finsi di essermene semplicemente dimenticata. «Oh, sì, scusate! Jeannot, Marie, lui è George Addison», declamai. «Un amico di Max».
Ci tenevo a puntualizzare che era Max, e non io, il tratto d'unione tra loro. Non so perché.
«Di che parlavate?».
Notai che George stava per rispondere. Mi affrettai a precederlo: «Nulla. Sciocchezze, del più e del meno».
Marie mi lanciò uno sguardo penetrante. Riuscivo a mentire a tutti, ma non a lei. Le risposi con un sorriso eloquente, come a dirle che ne avremmo parlato in seguito.
George, però, era ben deciso a farmi fare una figura di merda. «Léo mi stava dicendo che studia arte».
Jeannot commentò con pacata ed amichevole ironia: «Ah, siamo già a “Léo”, abbiamo saltato i convenevoli».
Sbattei le palpebre. “Hey”, avrei voluto dire, “sono qui, idioti, non parlate di me come se non ci fossi”.
Marie corse in mio aiuto: «Eleonora è difficile da pronunciare. Ricordi quanto ci abbiamo messo a impararlo?».
Non era affatto difficile per i dannati francesi, ma ringraziai mentalmente la mia amica per quel commento, impersonale quanto la sala d'attesa di un dentista. «Già», confermai. «George, perché non dici ai miei amici che lavoro fai?».
Non so perché volessi sputtanarlo. Dal mio punto di vista era una tentazione e in quanto tale andava fermato. Sì, decisamente mi sarebbe piaciuto vedere gli sguardi di muta disapprovazione di Marie e l'aria imbarazzata di Jeannot.
Ciò che ottenni, invece, fu un'ovazione.
«Deve essere interessantissimo», disse Jeannot. «Immagino che per fare video con un certo stile uno debba vedere il mondo e provare nuove esperienze».
George sorrise. «Sì, è vero».
«Oh, allora devo assolutamente mandarti un libro», aggiunse un'entusiasta Marie. «È un elenco di novantanove cose interessanti da fare a Parigi».
«Lo leggo molto volentieri», disse George, tracannando mezzo bicchiere di Coca Cola come fosse stato un flûte di Chardonnay. «Non vedo l'ora di provare tutto quello che si può».
Mi sentii presa in giro. Erano i miei amici e lui era una presenza scomoda. Avevo gli ormoni a mille, l'alcool nel cervello e male ai piedi per le scarpe: non chiedevo di meglio se non cadergli fra le braccia, farmi portare su un divano e spupazzarlo fino a morirne.
“Paul”, pensai. “Paul. Paul. Cazzo. Paul”.
All'improvviso, la musica cessò di martellare i nostri timpani con un grattare di dischi e un sibilo fastidioso annunciò a tutti che qualcuno aveva acceso il microfono. «Ok, gente», disse la voce di Max. Lo cercai con lo sguardo e lo individuai abbracciato a Louise, il volto arrossato e il tono un po' ubriaco. «Tra un minuto sarà mezzanotte. Pronti per il conto alla rovescia?».
Avevo bisogno di andarmene. Entro un minuto sarebbe iniziato il nuovo anno e Marie avrebbe iniziato ad abbracciare e baciare Jeannot, Max avrebbe sbaciucchiato Louise e tutti gli altri avrebbero fatto la stessa cosa. Alcuni si sarebbero perfino lanciati con la lingua nella bocca di uno sconosciuto.
Accanto a me, però, c'era solo George, non Paul.
Le luci si spensero e un coro di voci iniziò un conto alla rovescia stonato e allegro. Mi assicurai che lo sguardo di George fosse rivolto verso Max, approfittai del momento e mi dileguai. Nemmeno Marie mi notò mentre mi chiudevo in bagno.
Mi accasciai sul pavimento, la mano aggrappata alla maniglia, e mi presi il volto fra le mani. Era ora di andare a casa, avevo bevuto troppo e mangiato troppo poco. Mi consolai pensando che sarei andata a casa mia, nell'appartamento condiviso con altri studenti fuori sede, lontana da Paul, da George, da Marie, da tutti.
Ero sul punto di piangere. Perché Paul non era venuto con me? Era colpa sua se ero stata tentata da George, cazzo, non certo mia. Allora perché mi sentivo in colpa? E mi sentivo ancora peggio all'idea di aver lasciato quel tenero agnellino con un palmo di naso. Beh, quantomeno non avrei dovuto rivederlo mai più.
Un boato entusiasta investì l'intera abitazione: mezzanotte era arrivata. Buon anno, Eleonora. Mi rimisi in piedi, contando sulla confusione di quella specie di rave in cui si sarebbe trasformato il party ora che l'attesa era finita. Sentivo già la musica hardcore attraverso la porta chiusa.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Nda: Breve nota, davvero breve: ringrazio tutti coloro che hanno iniziato a seguire, a preferire e a recensire questa long. Apprezzo veramete moltissimo il supporto che mi state dando e sappiate che mi sono divertita un sacco a leggere le vostre congetture riguardo la trama xD Inoltre ricordo come sempre che trovate il capitolo anche su Wattpad e di nuovo vi linko il mio blog personale, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., Se deciderete di passare sarò solo felice di vedervi! Fine.


Capitolo 3.

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Avevo smesso di pensare a George nel momento stesso in cui mi ero addormentata, la notte di capodanno, dopo aver addotto un orribile mal di stomaco ed essermi dileguata dalla festa dopo appena mezz'ora dal conto alla rovescia. Non avevo nemmeno dovuto salutarlo, era scomparso chissà dove.
Il cuscino aveva accolto la mia testa – e la bava che era colata dalla bocca – come un vecchio confidente e mi ero addormentata di sasso, un sonno profondo e poco riposante.
Mi ero risvegliata il giorno dopo con un mal di testa che avrebbe fatto invidia ad un pirata beone ed avevo ciondolato stancamente per la casa. Io e i miei coinquilini sembravamo un gruppo di zombie, quel primo di gennaio, ciascuno reduce da una festa diversa. Però devo dirlo, io li battevo tutti, nonostante fossi rientrata ore prima di loro. Ero così pallida da suscitare domande scomode, come ad esempio: “Ti sei fatta, Léo?”.
A guardarmi, sembravo un veterano tornato dalla guerra.
Eppure George era stato completamente dimenticato. Non ci pensai per l'intera mattinata, né quando consumai un pranzo a base di cereali asciutti e the verde – il mio coinquilino Jacques mi garantì che era un toccasana, per i postumi: immensa cazzata, non fatelo mai – e nemmeno nel pomeriggio, quando crollai pesantemente sul divano, pronta a guardarmi un classico del periodo natalizio: La casa nella prateria.
Fu solo quando Marie mi telefonò per chiedermi se mi fossi divertita che mi ricordai dell'esistenza di George “Sono troppo carino” Addison.
«Merda», commentai con spontaneo sgomento quando mi venne in mente il suo bel visino.
«Che hai?», fece Marie all'altro capo del telefono.
«Niente», mentii.
Lo sguardo fiducioso e carico di aspettativa di George mi si librò davanti come una specie di visione estatica. Mi accorsi di avere l'espressione di un pesce lesso. Immaginatevelo come un kuokka, uno di quegli animaletti australiani che sorridono anche mentre dormono. Giuro che me lo sarei mangiato, tanto era carino.
Quando fu impossibile evitare l'argomento e fui costretta ad ascoltarla mentre parlava della gente che avevamo conosciuto, Marie disse con noncuranza: «Sembra simpatico».
«Chi?», chiesi ostentando tranquillità.
«Come “chi”?», domandò dopo un attimo di pausa. «George. Quello con cui hai parlato per tipo tutta la sera. Sei sveglia, Léo?».
Certo, Marie, come no. «Sveglissima», affermai in tutta sicurezza. «Sì, è simpatico. Niente di eccezionale, per la verità».
Era un'elefantiaca bugia, ma era necessaria: per la mia sopravvivenza, oltre che per le innocenti e bendisposte orecchie di Marie. Fu anche sufficiente: lei si distrasse abbastanza da iniziare a raccontarmi – di nuovo – di quanto fosse stato fico vedere Louise cadere a terra in una pozza di umida e appiccicosa aranciata.
C'era una sola semplice soluzione: sparire per sempre.
Mi chiusi in casa, principalmente per evitare di incrociare anche solo per errore il bel culetto di George e per iniziare a organizzare la mia tesi di laurea.
Laurearsi alla Sorbona non equivaleva di certo a trovare un lavoro nel giro di poco tempo, anzi, sarei stata solo una dei tanti ed io avevo un bisogno disperato di un impiego remunerativo. Se c'era una cosa che mi piaceva più della nicotina erano i soldi. “I soldi fanno la felicità”: me lo ripetevo costantemente, ogni giorno. Era come un mantra: non avevo idea di come sarebbe stato il mio futuro, ma ero sicura che sarebbe stato ricco e pieno di bei soldoni.
O almeno, questo era ciò che mi auguravo. Amavo troppo certi beni di lusso per volervi rinunciare con facilità. Il primo passo per partire alla grande era la tesi, chissà che il mio relatore non potesse decidere di propormi per un master di alto livello o chissà quale altra cosa fantastica.
Stendere una tesi di circa un centinaio di pagine sul ruolo che l'arte ha avuto nel corso delle guerre in epoca moderna mi sembrava un buon biglietto da visita.
Smisi di vedere gente: Marie era reclusa tanto quanto me, presa com'era dal suo lavoro sulle avanguardie russe, vidi Paul molto poco ed evitai categoricamente Max, che probabilmente faceva da accompagnatore a George. In un clima di concentrazione come quello non mi fu troppo difficile accantonare l'argomento “youtuber sexy”.
Passavo da una biblioteca all'altra, da un museo all'altro, sfogliando libri e consultando vecchie riviste divulgative. Ci andavo a nozze, avrei trascorso ogni minuto della mia vita a fare quel tipo di lavoro, mi divertivo da morire.
E avrei potuto continuare a divertirmi se Paul non avesse voluto intromettersi.
Venne da me una sera, con la scusa di voler mangiare una pizza insieme approfittando dell'assenza di altre forme di vita in casa. Io non ero molto d'accordo, stavo studiando una monografia interessante sui dipinti di Delacroix, ma lui mi piombò in camera ugualmente.
«Coraggio, professoressa», mi apostrofò con ironia. «Non hai fame?».
Aveva tentato di essere spiritoso, ma mi infastidì. «Paul, non mi va. Tu fai come fossi a casa tua, ma credo che continuerò a studiare».
«Dai, amore, prenditi una pausa», disse avvicinandosi. Mi passò le mani sulle spalle; io le agitai, cercando di scacciarlo, ma lui lo interpretò come un invito a continuare. «Posso farti un massaggio, se vuoi».
«No, grazie».

Stavo facendo uno sforzo sovrumano per non insultarlo. Non lo volevo tra i piedi, non volevo le sue dannate mani addosso e volevo studiare: era chiedere troppo? Evidentemente sì, perché Paul continuò a massaggiarmi le spalle ignorando qualsiasi protesta il mio corpo gli presentasse.
Mi resi conto che stavo rileggendo la stessa riga per la quinta volta. Chiusi il libro di scatto, nervosa. «Bene!», esclamai. «Mangiamo, allora».
Paul sembrava non notare il mio stato d'animo: era stupido, forse? Tutto il mio fisico stava dimostrando il mio scarso apprezzamento per i suoi sforzi. Mentre telefonava ad una pizzeria per ordinare rimasi seduta al tavolo della cucina, in silenzio, con una sigaretta in bocca per non parlare. Perfino l'idea della merdosa pizza francese mi faceva rivoltare lo stomaco.
Mi sentivo in colpa: lui era così carino, faceva di tutto per distrarmi dallo studio e si sforzava di essere allegro. Perché non ridevo alle sue battute? Beh, prima di tutto perché erano battute del cazzo: non avrebbero fatto ridere nessuno, nemmeno un idiota. Paul non era capace di far ridere la gente e non riuscivo a capire come mai si ostinasse a provarci.
«...e allora gli ho detto che poteva farsi fottere», annunciò.
Sbattei le palpebre, accorgendomi solo in quel momento che aveva posato la cornetta e che stava parlando con me. Non avevo idea di cosa avesse detto, non una parola mi era penetrata nel cervello. Annuii vigorosamente. «E poi?», domandai, restando sul vago.
«E poi mi hanno dato ragione».
«Come sempre», ironizzai. Lui aveva sempre ragione e gli altri sempre torto.
Paul aggrottò le sue sopracciglia scure. «Che intendi?».
Abbassai lo sguardo. Ero maledettamente ingiusta con lui e lo sapevo. Mi passai la lingua sulle labbra, soffiando fumo dalla bocca. «Scusami, Paul», mormorai. «Sono molto stanca, non è mia intenzione essere cattiva».
Mi sorrise con fare comprensivo: la cosa peggiore che potesse fare. «Vedi? Devi riposarti».
Odiavo quel suo atteggiamento di merda. Considerava il mio corso di laurea inutile come un fiammifero usato e non si dava pena per nasconderlo. Paul era tranquillo a riguardo, come se fosse ovvio che quella per la storia dell'arte fosse una specie di passione temporanea. Non lo era, non lo era affatto e lui trattava il mio studio con leggerezza, in un tono tanto sincero quanto fastidioso.
Non replicai. Quando il fattorino arrivò ingurgitai la cena fino all'ultimo pezzo, immaginandomi un'idilliaca pizzeria romana a Trastevere, dove avrei mangiato una pizza vera, con formaggio filante, pasta sottile e una crosta morbida. Quando Paul scelse un film da vedere insieme approvai con un sorriso e mi sorbii due lunghe ore di Rambo che spara alla gente.
Poi andammo a letto: cercai di annegare nella pelle, nei capelli, nei baci e nei gemiti di Paul. Cercai di apprezzare come facevo sempre il suo bel corpo, di notare come le sue braccia fossero scolpite e la sua lingua capace. Eppure nulla riusciva a distogliere la mia attenzione dalla mia rabbia, nemmeno ciò che di solito mi piaceva di più.
Non sapevo perché fossi così incazzata. Sembrava che ultimamente passassi le mie giornate ad incazzarmi. Paul era bello, disponibile, mi voleva e, diciamolo, mi faceva godere alla grande. Ma non mi piaceva fare sesso, non quella sera, semplicemente non mi andava. Lui non se ne accorse: ero una brava attrice. Mentre lo baciavo finsi trasporto, mentre si muoveva in me finsi entusiasmo. La mia testa era da un'altra parte e anche il piacere fisico non arrivò mai.
Mi sentivo uno schifo. Mi sentivo cattiva e sbagliata. C'era gente che avrebbe ucciso per farsi toccare da Paul come lui stava toccando me. Io non mi accorgevo nemmeno che fosse lì.
Dormì da me e per tutta la notte il peso del suo braccio intorno al mio bacino mi parve insopportabile. Alla fine finsi di rotolare lontana nel sonno, anche se in realtà ero sveglia e vigile. Lui non si destò e continuò a russare sommessamente.
Mi scoprii infastidita da quelle piccole cose che prima mi piacevano da morire. Il modo in cui respirava mentre dormiva, ad esempio: adoravo ascoltarlo, ma quella sera non mi piaceva. I suoi grossi piedi numero quarantasei che si incastravano con i miei erano così intriganti, mi facevano sentire sempre sicura. Invece quella notte preferii tenere i miei piedini freddi fuori dalle coperte, nonostante il riscaldamento si spegnesse nelle ore notturne.
“Che problema ho?”, mi chiedevo.
Capii che ci voleva una reazione decisa da parte mia: mi imposi non solo di ravvicinarmi a Paul, ma anche di svegliarlo e fare altro sesso. Era l'unica cosa che mi venne in mente per tentare di distrarmi da qualsiasi cosa mi stesse mandando in pappa il cervello.

***

Il giorno dopo mi alzai con la sveglia di Paul, alle sei, ancora più depressa ed incazzata di prima. Guardandomi allo specchio mi parve di avere il sex appeal di Mr. Bean – il che, diciamocelo chiaramente, non è per niente un complimento da fare a se stessi.
«Sembro la Morte», commentai.
«Sei bellissima».
Dilatai le narici, facendo smorfie per distendere i muscoli del viso. «Pensa se fossi brutta».
«Sei stata in casa troppo tempo», mi disse Paul, raggiungendomi davanti allo specchio e abbracciandomi da dietro, le labbra a sfiorare il mio collo. «Vedrai che con qualche giorno all'aria aperta tornerai come nuova. Sono fiero di te, professoressa».
Di nuovo. Mi stava prendendo in giro di nuovo. Avrei potuto accettare una cosa del genere se lo avesse fatto consapevolmente. Invece quel furbastro era genuinamente convinto di aver usato un nomignolo affettuoso.
“Imbecille”.
Prima di dire qualcosa di cui poi mi sarei pentita svicolai verso il bagno, nel modo più delicato possibile, e mi chiusi dentro.
Dopo un istante bussò alla porta. Nemmeno in momenti come quelli riusciva a starsene zitto? No, figurarsi. «Amore? Posso entrare?».
«Sono sul cesso».
«Volevo dirti che sto uscendo, vado al lavoro», disse a voce alta. «Ci vediamo più tardi?».
Forse ero davvero stata troppo in casa. Magari Paul aveva ragione, l'isolamento non mi faceva bene. Chissà, forse era per quello che stavo detestando cordialmente l'intero pianeta. Magari dopo una passeggiata anche lui sarebbe tornato a piacermi, pur nel modo strano in cui io e lui ci piacevamo. O magari avevo avuto ragione, quando avevo detto dei miei timori a Marie, quasi un mese prima. Le cose con Paul stavano andando malissimo, forse ero davvero sull'orlo della rottura, eravamo troppo diversi. Ma lui era così bello e si stava sforzando di essere gentile.
Da un lato avrei voluto uscire dal bagno, gettarmi tra le sue braccia e costringerlo a convincermi che andava tutto bene. Dall'altro odiavo il suo comportamento e volevo solo sbatterlo fuori dall'appartamento.
Accettai, controvoglia. «Magari. Facciamo un giro in quel negozio asiatico a Montmartre? Voglio un anello che hanno in vetrina».
«Va bene», rispose Paul oltre l'uscio di legno. «Sai, è stato bello stanotte. Il modo in cui mi hai svegliato e quello che hai fatto».
“Ci credo che ti è piaciuto, stronzo, ti ho svegliato con un pompino”. «Figurati, amore, quando vuoi!».
Aspettai di sentire la porta di casa chiudersi per uscire dal bagno. Spalancai le tende del salotto, facendo entrare un po' di luce, e vagai per la casa per qualche minuto, senza uno scopo preciso.
Jacques era fuori con alcuni amici per la settimana, Madeleine era in vacanza dai suoi genitori a Lione. Anche l'incomprensibile coinquilino polacco, del quale perfino il nome sembrava pronunciato in klingon, sarebbe stato fuori per tutto il giorno, avevo la bellezza di dodici ora prima che tornasse. Era una sensazione alla “il mondo è mio”, potevo fare quello che volevo.
E quello che volevo era dormire per sempre.
Crollai sul letto, decisa a riposare ancora, quando il mio cellulare vibrò ed emise un ding che a quell'ora aveva un che di sinistro e invadente. Chi era il demente che mandava messaggi a quell'ora? Che ore erano, poi? Presto, decisamente troppo presto perché chiunque potesse parlarmi.
Cercai il cellulare: nella borsa, sul pavimento. Troppo lontano per raggiungerlo con una mano, troppo faticoso alzarsi. Strisciai giù dal materasso e quasi gattonai fino al mio obbiettivo. Ricevevo pessime vibrazioni dal messaggio appena arrivato: ero certa che si trattasse di qualcosa di terribile, magari una catastrofe su scala mondiale o la morte di un congiunto.
Presi il telefono e aprii la casella dei messaggi in entrata stravaccandomi sulle piastrelle di marmo. Non era morto nessuno, ma la violenza del testo era ugualmente insostenibile.

 

Nuovo messaggio: 0 sconosciuto

-Max-

“Ciao puttanella, ti va un cappuccino?
Vieni da Starbucks daiiiii muovi
quelle chiappe d'oro :)))
C'è anche George, quello con cui hai
parlato alla festa, ti ricordi?”


Sollevai le sopracciglia. Fissai il telefono a lungo, la luce accecante del monitor in piena faccia, senza nemmeno un pensiero per la testa. Non sapevo nemmeno se ridere istericamente o piangere disperata. Rimasi in muta contemplazione del messaggio per un tempo che mi parve quasi infinito, senza sbattere le palpebre, a malapena respiravo.
Poi, semplicemente, rimisi il cellulare nella borsa, mi alzai, andai in cucina e mi mangiai quasi tutto il frigo per colazione, nel tentativo di calmare i miei nervi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


Nda: Ciao! Rieccomi, chiedo davvero scusa per il mancato aggiornamento della settimana scorsa, ma sono immersa negli esami fino al collo e sono esausta, non ho avuto tempo nemmeno di fare il log in. Come sempre ringrazio tutti coloro che seguono e recensiscono la storia, vi sono davvero grata per l'appoggio che mi date. Ricordo a tutti come sempre che trovate il capitolo anche su Wattpad e di nuovo vi linko il mio blog personale, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., Se deciderete di passare ne sarò davvero felice!


Capitolo 4.

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Era incredibile la folla che tutti i giorni assediava l'entrata del museo del Louvre. In molti si fermavano solo alla piramide di vetro, soprattutto i turisti stranieri e gli autobus per vedere la città in un giorno, ma migliaia di visitatori entravano tutti i giorni nell'enorme palazzo: chi per vederne le opere più famose, come la Gioconda, e altri per osservare da vicino collezioni private, altri ancora perché sarebbe stato fico arrivare a casa e dire “Io sono stato al Louvre”.
In una mattina di fine gennaio mi misi in fila anche io, sfoggiando un paio di scarpe nuove e una sciarpa di Valentino, un regalo di Paul. Ero stata tentata di bruciarla, quando me l'aveva data, perché il ricordo del nostro precedente incontro mi stava ancora ustionando come un marchio a fuoco. Poi avevo deciso che era troppo bella e l'avevo tenuta.
Rimasi in fila per almeno un'ora, forse di più. Non ricordavo di aver mai atteso tanto per entrare in un museo, nemmeno per i Musei Vaticani a Roma. Per fortuna il cielo era sereno, aspettare sotto la pioggia battente non sarebbe stato un granché. Però c'era ancora la neve, agli angoli delle strade, sui tetti, anche sulla Tour Eiffel. La città era così romantica che perfino il mio cuore arrabbiato provò un moto di bontà nei confronti del mondo. Solo per un secondo, poi tornai a odiare tutti.
Quando venne il mio momento mostrai il badge dell'università e la donna alla biglietteria mi fece pagare un ingresso ridotto. Entrai quasi saltellando, studiando il dépliant con la colorata cartina del museo.
Sembra incredibile, ma camminai per la bellezza di dodici minuti fra le sale prima di riuscire a raggiungere ciò che mi interessava. I miei stivali risuonavano negli androni del palazzo, in mezzo al vociare di guide turistiche, gite organizzate, genitori che richiamavano i bambini e un gruppo di studenti sui tredici anni annoiati a morte.
E poi, tra tutta quella massa di gente, eccola: La Libertà che guida il Popolo.
Appariva enorme, riempiendo una porzione notevole della parete che la ospitava, e davanti a lei c'erano già parecchie persone. Non mi importava: avevo fino all'orario di chiusura per vederla. Per assaporarla. Piano, lentamente, man mano che la gente si spostava, mi avvicinai e finalmente mi ritrovai in prima fila, così vicina che se avessi allungato le mani avrei potuto toccarla.
Era bellissima, splendente, coraggiosa e passionale, il seno che non era affatto volgare, anzi, era meraviglioso. Avevo ormai deciso che la mia tesi sarebbe partita da lì, in barba alla scarsa originalità del soggetto, e mentre la guardavo sentivo che l'avrei avuta tutta per me. Non importava quanta gente ci fosse, per quel giorno, solo quello, la Libertà sarebbe stata la mia migliore amica.
Il braccio levato a sorreggere la bandiera di Francia, sembrava così imponente. No, non imponente: regale. Eppure era una popolana, lo si capiva dagli abiti. Si mostrava orgogliosa della sua nudità e alle sue spalle gli uomini la seguivano. La seguivano, non la guidavano. Era lei la prima, la sola: una donna che era in realtà un'idea.
Abbassai lo sguardo sulla scritta in basso: una visitatrice del museo di Lens, quando l'opera era ancora lì, aveva scritto con un evidenziatore sulla tela per supportare una causa socio-politica. Alla sola idea mi sentivo avvampare: l'arte non era la serva di nessuno, men che meno della politica.
Era l'argomento della mia tesi: l'arte e la guerra.
Tornai a guardare lei, con un sospiro, senza nemmeno sapere neppure quanto tempo fosse passato. Sembravano trascorse ore intere, o anche solo pochi minuti.
Alle mie spalle, una voce bassa mormorò: «Splendida».
Con un mezzo sorriso annuii. «Davvero».
Solo allora me ne accorsi. Sobbalzai, rendendomi conto troppo tardi di chi avesse parlato. Mi voltai di scatto e il mio sguardo sorpreso incontrò quello tranquillo e gentile di George Addison, un sorriso sornione sulla faccia e i capelli ricci in disordine. Sbattei le palpebre, incredula. Dire che il mondo è piccolo sarebbe stato troppo stupido, troppo riduttivo.
«Che cosa fai qui?», sibilai.
«Visito il museo», disse lui. «Non posso?».
Sbuffai, improvvisamente nervosa. Era una giornata bellissima, importante come non mai e lui si presentava lì come se nulla fosse. Fu come se tutto mi stesse crollando addosso, lui era l'ultima persona di cui avevo bisogno. Signore e signori, vi presento George Addison, sempre in mezzo ai piedi.
Non potevo mandarlo via, quella non era una mia proprietà, e nemmeno potevo smentirlo: certo che poteva visitare il museo. Ma proprio quel giorno, proprio quella sala? Troppo strano perché fosse una coincidenza.
Ero delusa: volevo stare da sola con la Libertà, non mi serviva certo un terzo incomodo, se avessi potuto lo avrei mandato fuori a pedate.
«Sei qui da un po'», mormorò. «Sembri a tuo agio».
Aggrottai la fronte, voltandomi di nuovo verso il quadro con decisione, le braccia conserte. «Mi stavi guardando?», domandai stizzita. «E da quanto?».
«Venti minuti. Eri così...», esitò, alla ricerca del termine giusto. «Come si dice in francese quando qualcuno sta facendo qualcosa con una gran concentrazione?».
«Assorta?», proposi senza guardarlo. «Beh, lo ero.»
Con il pensiero supplicai la mia dolce Libertà di impalarlo con l'asta della sua bandiera. Chiusi gli occhi, cercando di calmarmi, ma lui era ancora lì: lo sentivo respirare a pochi centimetri dal mio orecchio.
Dopo un momento disse: «Non volevo seguirti, giuro». Certo, come se io potessi credergli. «Ero qui per Colazione sull'erba, di Monet».
Era davvero troppo per i miei gusti. «Colazione sull'erba è all'Orsay, non al Louvre».
«Te l'ho detto che in arte non sono un granché», si giustificò. Ero certa che stesse sogghignando.
Pur essendo stata oggetto di un tentativo di presa in giro mi ritrovai a sorridere timidamente. Smisi subito quando me ne accorsi. «Beh, avanti, ormai sei qui. Cosa vuoi?».
«Non ci siamo salutati, a capodanno».
«Stavo poco bene».
Annuì. «L'ho saputo. Mi dispiace», mormorò. Sembrava sincero. «Max mi ha detto che sei qui per la tua tesi».
«Max è un gran coglione che dovrebbe imparare a stare zitto».
Lo udii ridacchiare alle mie spalle con quella sua voce che non mi andava a genio. «Sei sempre così... angry?».
Mi mordicchiai il labbro inferiore, lo sguardo basso. Non poteva continuare a mescolare le lingue, era una cosa troppo esotica e sexy per passare inosservata. Voltai il capo verso di lui, lentamente, e abbozzai un sorriso poco convinto. «Scusa, sono nervosa».
Non riuscivo a rispondergli male, lo conoscevo da troppo poco tempo e poi era così carino. Era troppo, troppo, troppo carino: aveva il viso eccessivamente tondo, d'accordo, ed era un po' casual nel vestirsi. Però aveva un modo di sorridere che gli abbracciava anche gli occhi, creando due simpatiche fossette sulle guance – peccato che fossero nascoste dalla barba. Di più, sorrideva con l'intero corpo, spontaneamente e in un modo così dolcemente patetico.
Le sue labbra erano troppo invitanti, accidenti a lui, e stavolta non avevo nemmeno la scusa dell'alcool. Mi sentivo stupida. Quello non era per niente il mio tipo.
Era troppo basso, innanzitutto. E poi era spettinato, la barba andava tosata immediatamente e anche il suo modo di parlare mi dava fastidio, con quell'accento noioso. Per non parlare del problema delle bollicine nel naso, non potevo certo dimenticare cosa gli era successo con la Coca Cola al party di capodanno. Al liceo li prendevo in giro, quelli così. Quelli troppo alternativi e per giunta orgogliosi di esserlo.
Certo che le sue chiappe erano una poesia per gli occhi. Gliele avevo guardate bene, quella sera a casa di Max, inguainate in quegli skinny jeans così eccitanti. Gesù, quanto mi sarebbe piaciuto morderglielo, quel culo.
Abbassai lo sguardo: non mi piaceva ciò che aveva addosso, non puoi metterti una felpa della Fruit of the Loom e sperare che la gente ti prenda sul serio. Però i pantaloni erano di velluto, abbastanza piacevoli da toccare, ci avrei scommesso.
Per quale motivo mi faceva quell'effetto? Non era il mio tipo, proprio no.
«Beh», lo rimbrottai, «sei qui per qualcos'altro, oltre che per fissarmi con quell'aria da baccalà?».
George rise troppo forte per apparirmi adeguato a quel luogo. «In realtà no».
«No?», ripetei, sempre più allucinata. Mi sembrava di parlare con un imbecille. «Seriamente, George, mi hai seguita?».
Si strinse nelle spalle e non mi rispose. «Allora, cosa sai di quel quadro?».
Era il dialogo più strano che avessi mai sostenuto, ero nel regno del nonsenso. Aggrottai la fronte, presi un bel respiro e sollevai il braccio, indicandogli la mano alzata della Libertà. «Chiaramente è ovvio che l'opera parla della lotta delle varie classi sociali per ottenere i diritti basilari di libertà e uguaglianza».
Lui annuì. «Certo, è ovvio».
«Lei è una dea, ma è anche una donna del popolo», spiegai. Man mano che parlavo la mia voce si faceva più calma, più tranquilla, meno arrabbiata. E dire che avrei voluto ammazzarlo. «Segue uno schema piramidale, vedi?». Tesi l'indice verso la bandiera. «Da lì, fino ai due angoli inferiori».
George inclinò il capo, portandosi le mani alla base della schiena. Sembrava attento, molto più di quanto non lo fosse mai stato chiunque altro. «Nello sfondo c'è Notre Dame», commentò.
«Sì, esatto», mormorai in risposta. Doveva spostarsi, il suo odore era troppo forte. «Sembri interessato per essere uno che in arte andava male, a scuola».
«Ho detto che andavo male», disse lui, «non che non mi interessava».
Nel mio cervello stava avvenendo una battaglia simile a quella rappresentata da Delacroix. Lui era lì, a portata di mano, e comunque solo una donna priva di intelletto non si sarebbe accorta dell'interesse che George provava per me. Eppure non potevo prenderlo.
Paul, nonostante tutto, era il mio fidanzato. Tradirlo avrebbe significato una perdita di fiducia, mi sarei sentita una merda se gli avessi davvero messo le corna. Non potevo farlo, dopotutto le cose hanno alti e bassi per tutte le coppie e la mia storia con lui non faceva eccezione. Sarebbe andata meglio in futuro, ne ero certa.
E poi George era così... Non mi piaceva la parola diverso, ma lo era: diverso da me e da quello che mi piaceva. Come facevo a sentirmi sessualmente attratta da uno così? Magari alcune ragazze sarebbero impazzite per un tipo come lui, con quell'aria gentile e intelligente.
Anche Paul era intelligente. Molto intelligente, dopotutto si era laureato in legge. Sì, un bel foglio di carta con su scritto “Dottore” probabilmente bastava a fare di lui un uomo brillante. Era un ragionamento perfetto, solo che me lo stavo dicendo in un tono di auto-convincimento.
Il tempo volò via letteralmente. Parlai così a lungo – e George mi ascoltò con così tanto interesse – che nemmeno mi resi conto di quanto stesse passando in fretta. Gli dissi del ragazzino alla destra della Libertà, del fatto che probabilmente era stato quello ad ispirare Victor Hugo per il suo romanzo I Miserabili. Gli indicai due volti non definiti, probabilmente autoritratti dell'artista. Dissi qualcosa sul contesto in cui l'opera era stata prodotta, qualcosa che evidentemente risultò stupido dato che George rise. Parlai e parlai e parlai. George ascoltò e ascoltò e ascoltò.
Mi accorsi che era arrivata l'ora di pranzo solamente perché la mia pancia si lamentò sonoramente.
Mi guardai intorno: la gente era cambiata, non erano più gli stessi turisti di prima. Nemmeno la guardia seduta nell'angolo era quella che c'era al mio arrivo. Non era troppo sorprendente, trattandosi di me, passare ore davanti ad un singolo quadro, ma George?
«Non sei ancora annoiato?».
Scosse il capo. «Perché dovrei?».
«Secondo me lo stai facendo apposta», affermai. «Per fare colpo».
«No, mi interessa, davvero. Mi piace ascoltarti parlare e l'argomento mi ha preso parecchio. Sul serio!», aggiunse dopo un momento, notando il mio sguardo scettico.
Storsi il naso in una smorfia. «Uhm. Sarà», concessi. «Io vado a pranzo».
«Vengo con te».
Rimasi per l'ennesima volta sorpresa: non volevo realmente andare a pranzo, era un modo come un altro di salutarlo senza risultare scortese. Come poteva non capirlo? «Bene», dissi secca. Paul: dovevo ricordami di Paul. «Allora seguimi, c'è un bar dove possiamo mangiare senza spendere una cifra».
Mi seguì da vicino – troppo vicino, Dio santo – per qualche minuto, attraverso le sale, i corridoi, le pareti piene di quadri, i piedistalli con le sculture, fino all'insegna che indicava la presenza di un bar e delle toilettes. Per un momento valutai l'ipotesi di scappare dalla finestra del bagno: quando se ne fosse accorto sarei stata già lontana.
«Posso offrirti qualcosa?», domandò indicando il registratore di cassa.
Era il minimo, considerando che aveva interrotto la mia estasi davanti alla Libertà. «Va bene».
«All'improvviso sei meno loquace», commentò mentre ci mettevamo in fila. «Come mai?».
Feci spallucce. «Non è vero».
«Ah, no?».
«No».
George parve trovare le mie risposte divertenti. Perché, in nome di tutte le divinità mai esistite, perché mi faceva arrabbiare tanto? Lo faceva apposta, forse? Eppure una parte di me era divertita a sua volta. Una parte di me desiderava ridere come lui, insieme a lui. È anche vero che un'altra parte di me era tentata di farselo contro il muro del bar.
Non potevo ridere o mostrarmi desiderosa di fare amicizia, se lo avessi fatto sarei caduta nella sua trappola e non potevo assolutamente permetterlo. Perché era chiaro che quello di George era un tranello bello e buono. Era ovvio.
Ordinammo e lui pagò. Non mi ero mai mostrata particolarmente riconoscente quando Paul mi pagava i pasti, eppure per George provai un moto di gratitudine che andava al di là del puro interesse sessuale.
Mi sentii in colpa come non mai. Lo stavo trattando malissimo e lui mi offriva il pranzo. Non solo, mi aveva ascoltata sproloquiare per ore di cose che, indipendentemente da quello che diceva, probabilmente non gli interessavano. Il minimo che potessi fare era essere gentile.
«Allora», mi sforzai di dire quando mi sedetti davanti ad un'insalata. «Ti piace Parigi?». Mi accorsi troppo tardi che glielo avevo chiesto anche alla festa di capodanno.
«Moltissimo», fece lui, aprendo il tappo della sua bottiglia d'acqua. Prima che potessi fermarlo aveva aperto anche la mia, ma mi aveva ricordato eccessivamente Paul e non riuscii a gustarmi il gesto. «Sì, è molto stimolante. Un sacco di cose da vedere, cose da fare».
«Materiale per i tuoi video?».
Mi guardò con un bel sorriso, il più bello mai visto, e con quei suoi occhi color ghiaccio: mi sentii sciogliere. «Hai già visto il mio canale?».
Scossi il capo. «No», mormorai. Non mi era nemmeno passato per la mente: era forse una mancanza da parte mia? No, certo che no, non gli dovevo niente. E tuttavia preferii mentire: «Non ho avuto tempo».
«Dovresti, sai?».
«La tua è un'opinione spassionata, immagino», borbottai. «Di che parla?».
«Studentesse che mangiano insalata».
Era un tentativo di abbordaggio così cretino che avrei dovuto sentirmi vittima di lesa intelligenza, eppure mi scoprii a sghignazzare. Gli lanciai addosso una nocciolina presa dal cestino in mezzo al tavolo. «Come osi?», dissi con ironia. «Mi avvalgo del diritto di ogni francese di mangiarsi la sua insalata in pace».
«Tu non sei francese», obbiettò lui. «Pizza, mafia e mandolino, giusto?».
Era un insulto? Grazie tante. Inarcai il sopracciglio. «Fish 'n Chips e William Shakesperare».
Vidi che, dietro gli occhi sorridenti, mi stava guardando in modo inequivocabilmente interessato. Provai l'improvviso impulso di stuzzicarlo. Mi passai la lingua sulle labbra, con il perverso e discutibile piacere di vedere le sue iridi seguire le mie papille gustative come se stesse studiando un paio di tette da Victoria's Secret.
Stavo flirtando, santo cielo, stavo davvero flirtando con quello. Ed era anche peggio, perché mi piaceva da morire. Lui sapeva di Paul? Se sì, allora perché continuava a stare lì? Dio, quanto avrei voluto baciarlo. Era un istinto, quello che provavo, come se non fossi stata creata per altro scopo che non fosse quello.
Infilai in bocca una forchettata di insalata per resistere all'impulso di infilarmi in bocca una forchettata di George Addison. Era il caso di smetterla di provocarlo, perché stavo contemporaneamente provocando me stessa, e di finire il pasto con calma silente.
Mi alzai appena ebbi finito, dirigendomi verso un cestino dell'immondizia. Gettai via il contenitore del cibo e mi voltai, sorprendendomi a cercarlo con lo sguardo. Mi aspettava in piedi sotto l'arco di granito che dava accesso al bar. Si era messo il cappotto – non avevo notato che lo avesse con sé – e mi attendeva con le mani in tasca.
«Mi piace la tua giacca», comunicai.
«Grazie», rispose, fingendo una voce effeminata. «La tua, invece, è così démodée, tesoro».
Volevo uscire subito. Stavo esaurendo le mie capacità di resistenza. Mi avviai immediatamente verso l'uscita, a passo così rapido che in qualche momento mi ritrovai quasi a correre. Però George era sempre lì, non lo avevo seminato, era sempre a due passi da me.
Mi fermai solo dopo essere uscita, il freddo improvviso che mi gelava le ossa e un'arietta pungente tra i capelli. «D'accordo», annunciai, il fiato che si condensava oltre le mie labbra. «Devo andare. È stato bello».
Lui annuì. «Anche per me. Posso...».
Aggrottai la fronte, preoccupata di cosa avrebbe potuto chiedermi. «Cosa?».
«Pensavo che magari potrei chiamarti, un giorno di questi».
Il mio cuore perse un colpo. Era proprio quello che volevo, ma allo stesso tempo rappresentava un disastro. Sul momento, però, non mi venne in mente alcuna scusa plausibile per rifiutare senza sembrare cattiva. «Va bene», concessi, con voce poco convinta. «Ehm, vuoi il mio numero, credo».
Gli dettai il mio cellulare, controvoglia. Oppure no? Forse era il caso di mettere in chiaro certe cose, prima che fosse troppo tardi ed io toccassi il punto di non ritorno.
«Se per caso non rispondessi è perché sono con Paul», affermai, sforzandomi di essere gentile. «Il mio fidanzato. Paulilmiofidanzato».
George annuì, perfettamente tranquillo. O era un ottimo attore, o sapeva di Paul. E magari nemmeno gli importava. Questo suo lato ribelle mi colse di sorpresa. «Certo, non disturberò».
«Allora ciao».
«Bye bye».

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


Nda: Ciao bella gente! Chiedo scusa per aver di nuovo ritardato, stamattina ho dato l'ultimo esame del semestre e se Odino vuole l'ho passato, giuro che d'ora in poi non ritarderò più - almeno fino a maggio. Ringrazio tutti quelli che stanno recensendo, siete veramente gentilissimi, e anche coloro che hanno inserito la storia nelle seguite o nelle preferite. E' davvero importante per me sapervi sempre lì <3 Come sempre ribadisco la presenza della storia su Wattpad e l'esistenza di Gaiman in the T.A.R.D.I.S., il mio blog personale.
Da ultimo voglio anche comunicare una cosa: Léo non sono io. Ho ricevuto un bel messaggio privato in cui mi veniva esplicitamente detto che Eleonora è una persona orribile e che, se la storia è autobiografica, lo sono pure io. A tale affermazione voglio rispondere in tre punti: 1) la storia NON è autobiografica, non mi è mai capitato di vivere un'esperienza come quella di Léo e quindi quest'idea decisamente non è valida; 2) ovviamente Léo è un po' una merda in questa fase! Fa parte della trama, è proprio sul suo personaggio che voglio lavorare, sulla sua psiche, quindi certo che lei è un po' una cacca all'inizio, datele tempo di crescere; 3) faccio i complimenti a chi mi ha scritto un messaggio privato, perché queste belle parole me le poteva rivolgere sotto gli occhi di tutti ma a quanto pare la cosa non piaceva. Beh, peccato che non mi piaccia abbassarmi a certi livelli, peccato davvero che non mi vada di smerdarti, amica. Con questo rimane il fatto che le recensioni negative sono bene accette, ma dipende sempre dal modo in cui ci si rivolge all'autore. Perché sia chiaro, dire "La tua protagonista è proprio stronza, spero che tu non sia come lei..." non è una recensione negativa.
Adieu!


Capitolo 5.

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So che non avrei dovuto farlo, ma fu più forte di me. Una delle prime cose che feci nei giorni successivi fu andare su Youtube per scoprire qualcosa di più riguardo il misterioso ed intrigante George Addison.
In realtà non fu un'azione premeditata, lo giuro. Semplicemente, quando accesi il computer per la prima volta dopo il nostro incontro al museo, invece di fare il login su Facebook cliccai sul link a Youtube.
Incontrai difficoltà a trovarlo: non è che lui si chiamasse “George Addison” su internet, diavolo, né io avevo abbastanza faccia tosta per scrivere a Max e chiedergli il nome del canale. Furono necessarie un paio d'ore di ricerche inutili, prima di trovare la sua faccia su un video.
Il canale si chiamava “PinkAsshole”. Mi passai una mano sul viso, incredula: quale essere umano sano di mente avrebbe scelto un nome come PinkAsshole? Certo, c'erano tipi con nomi peggiori – come PewDiePie: come accidenti si legge PewDiePie? – e altri con nomi migliori. Diciamo che, dopo essermi acculturata un po' sul magico e a me sconosciuto mondo di Youtube, il nickname di George era nella media: sciocco abbastanza da far sorridere e semplice abbastanza da essere ricordato.
Lasciai in pausa il primo video con la scusa del buffering, ma la verità era che la metà sana del mio cervello voleva impedirmi di guardarlo. Tamburellai a lungo sulla mia scrivania, cercando di indurre con la forza del pensiero il mio coinquilino Jacques a entrare in camera e fermarmi. Tuttavia non venne nessuno e quando il video fu completamente carico non ebbi più scuse.
Parlava in inglese: mi sorprese, dopo averlo sentito sempre blaterare in francese, però non suonava troppo male alle mie orecchie. George, in quel messaggio, doveva avere solo un paio d'anni di meno, ma sembrava ancora un ragazzino. Portava la barba in modo diverso, ben rasata sulle guance e molto lunga sul mento. Mi domandai chi glielo avesse consigliato, era un taglio troppo strano. Anche i capelli erano più lunghi e se possibile più disordinati.
Scorsi parecchi video, quel giorno, ed altri ancora il giorno successivo: c'erano almeno centocinquanta videomessaggi, alcuni di parecchi minuti ed altri di appena quindici secondi. Parlava di politica, di cinema, di un libro che aveva letto, di cose che gli erano capitate di recente. C'erano dei gameplay, delle simpatiche scenette, in alcuni compariva un suo amico dall'aria drogata.
Era ironico, dannazione, e brillante. Le battute erano spiritose, le citazioni precise, perfino certe frasi sentenziose, che dette da un altro mi avrebbero indispettita, mi trovavano d'accordo quando emergevano dalle sue labbra. Mi ritrovai a ridacchiare sotto i baffi quando disse che l'unica cosa peggiore di un brutto libro è un brutto libro consapevole di esserlo. Senza volere, canticchiai durante la sua cover di Dumb ways to die.
Aveva fatto miliardi di cose: seguito un corso di danza tipica scozzese, iniziato a suonare la chitarra e il piano, aveva recitato in una pubblicità sulla prevenzione delle malattie veneree, aveva rischiato di investire una donna con lo scooter – questo non è un punto a suo favore, è chiaro, ma non l'aveva certo fatto di proposito – e un sacco di altre esperienze.
Tutto quello che non avevo saputo da lui di persona lo scoprii nel giro di un paio di giorni chiusa in camera, incollata al monitor del pc. Con un sospiro, mi resi conto che George era tutto ciò che il mio fidanzato, invece, non sarebbe mai stato: dove ad uno mancava il senso dell'umorismo, l'altro ne aveva da vendere; se Paul cantava bene, George era stonato come una campana e tuttavia cantava lo stesso; dove uno era così bello da decurtare il fiato con un colpo secco, l'altro era così carino e particolare che non poteva passare inosservato.
A me piacevano quelli come Paul: sofisticati e con una vita mondana. Era sempre stato così. C'è un motivo se, guardando Gossip Girl, mi sono innamorata di Trip van der Bilt - prima che diventasse bastardo, chiaro. Allora perché mi trovavo così in sintonia con George, che di sofisticato non aveva niente?
Per guardare l'ultimo video sapevo che avrei avuto bisogno di aiuto, non potevo vederlo da sola. Marie fu la prima persona che mi venne in mente di contattare e la costrinsi a raggiungermi immediatamente. Lei abbandonò la sua tesi su Aleksandr Rodĉenko e venne in mio soccorso.
Si trattava un resoconto del primo mese a Parigi: il trasferimento, la paura per una vita nuova e così lontana da casa, l'entusiasmo per una città famosa in tutto il mondo. Iniziò a parlare di Max e delle persone che aveva conosciuto: non fece mai nessun nome, ma per noi che li conoscevamo non era un mistero indovinare chi stesse citando. Disse cose bellissime ed altre un po' meno piacevoli, ma tanto io quanto Marie ci ritrovammo a dire cose come “Oddio, è vero!” ascoltando le descrizioni dei nostri amici.
E poi iniziò a parlare di me. Mentre guardavo e ascoltavo sentivo il mio cuore battere così forte che pensai mi sarebbe schizzato fuori dal petto come nel video dei Green Day.
«Ho conosciuto una ragazza», disse la piatta faccia a cristalli liquidi di George. «Molto carina. Io preferisco le more alle bionde, ma lei mi piace. Certo, ha quell'aria da “sono una donna emancipata” che fa un po' paura e ho il sospetto che mi mangerebbe a colazione, però vorrei conoscerla meglio».
Chiusi la pagina di internet quando ebbe finito e guardai in basso. Marie, appollaiata sulla sedia accanto a me, continuò a fissare il monitor anche ora che George non c'era più. Al suo posto brillava sul desktop una foto di Paul con un'espressione da modello di Abrecrombie&Fitch.
Il silenzio era così pesante da sembrare un macigno. C'era qualcosa che Marie disapprovava, lo vedevo dal modo in cui aveva serrato le labbra in un'espressione di disappunto. Quando faceva così, la mia amica sembrava il Grumpy Cat.
«Allora?», domandai dopo un momento. Qualsiasi cosa era meglio del suo silenzioso giudizio.
Sospirò con lentezza intollerabile. «Beh, Léo», disse dopo un momento. «Che cosa ti aspetti che ti dica?».
«Non lo so», confessai. «Forse che dopotutto George è carino?».
Lei annuì. «Oh, è molto carino», concesse. «Ma tu stai con Paul». Lo disse con un tono talmente definitivo che nella mia mente suonò come un terremoto.
«Per questo ho bisogno di aiuto», gemetti. «Che devo fare? Vorrei smettere di interessarmi a George, ma non riesco».
Aggrottò la fronte e mi passò una mano sulla spalla. «Io ti voglio bene e ti vorrò sempre bene», annunciò, con una sacralità che non lasciava presagire niente di buono. «Quindi è da amica che ti dico che non puoi tenere i piedi in due scarpe».
«Ho una scarpa sola», risposi sicura, «e quella scarpa di chiama Paul».
«Allora per quale motivo hai chiesto il mio consiglio? Se sai già di voler rimanere con Paul, cosa c'è?».
«Con lui va di merda», mormorai, passandomi una mano sulla fronte. «Insomma, lo hai detto anche tu. Stare insieme non ha senso. E ora c'è George, con quel suo faccino tenero».
«Cerca di pensare a questo», rifletté. «Se George non avesse quel faccino tenero, ti piacerebbe lo stesso?».
Annuii, sconsolata. «Temo di sì. Lui non è affatto il mio genere, eppure ogni volta che lo vedo ho l'istinto di prenderlo e farmelo sul posto».
«E Paul, invece?».
Non mi aspettavo quella domanda. «Paul, dici?», ripetei. «Oddio, non lo so. Lui è bellissimo. Premuroso».
Marie annuì con fare incoraggiante. «E...?».
«E...», esitai. «Ed è sexy».
«Hai già detto che è bellissimo».
Era vero, lo avevo appena detto. Mi sarei riempita di sprangate sulle gengive pur di trovare qualcos'altro. «Mi dà sicurezza».
Aggrottando la fronte, Marie scosse il capo. «In che senso?».
«Beh, dubito che riuscirò a trovare un lavoro ben piazzato dopo la laurea», ammisi, «e con Paul sono sicura che non avrò problemi».
«Léo, cazzo, stai parlando dei suoi soldi come fossero una qualità personale».
«Avanti, dimmi che a te il denaro fa schifo».
«Ovviamente no, ma...».
Appoggiai la testa sul ripiano della scrivania, con il desiderio di mettermi a piangere. «Sono una persona di merda. Puoi dirlo, è vero».
«Non direi “di merda”, ma di sicuro hai dei valori un po' diversi dai miei. Dimmelo onestamente, Léo: c'è qualcosa, oltre i soldi, che ti tiene legata a Paul?».
«Certo», affermai con decisione. «Stiamo insieme da mesi, ormai, non posso mandare a puttane una relazione così per uno che ho appena conosciuto e con il quale so che non sarei felice».
Per la prima volta da quando si era seduta, Marie mi rivolse un cenno d'approvazione. «Bene, questa è un'opinione decisa».
«Dimmi la verità», quasi supplicai. «Se io lasciassi Paul per George sarei una persona da poco?».
Scosse il capo. «No. Sono io la prima a dire che le persone cambiano e che tutte le coppie, a volte, scoppiano. Se George ti rendesse felice, io sarei la prima a volervi insieme. Una cosa solamente ti renderebbe una persona da poco».
«Che cosa?».
«Il tradimento», sentenziò. Nella sua voce c'era una gravità tale che mi sentii morire. «Non c'è cosa peggiore».
Stavo quasi per mandarla a quel paese. Ero io stessa ad essere in grossi guai a riguardo, dopotutto era su di me che George aveva quell'effetto inspiegabile.
Avrei voluto essere innamorata di Paul tanto quanto lo era lei di Jeannot. Se così fosse stato non avrei sentito il bisogno di guardare i video di George solo per ascoltare quella fastidiosa voce. Come un ateo, alle volte, può sentire il bisogno di provare la fede cieca di un credente per non dover fronteggiare la paura, io in quel momento avevo la necessità impellente di sentirmi cotta e stracotta proprio come Marie.
Poi mi venne in mente un'altra cosa.
«Marie», domandai, «secondo te è possibile che il mio interesse per George sia una conseguenza della mia mancanza di amore per Paul?».
«Cioè come se George non ti interessasse veramente, ma fosse solo una ricerca di qualcosa che non sia Paul?».
Annuii. Poteva essere: avrebbe spiegato come mai mi stavo interessando tanto ad un tipo così fuori dai miei standard. «Potrebbe avere senso».
Impiegò qualche momento per rifletterci sopra. «Potrebbe essere. Ritengo comunque che non sia molto sano per te ronzargli intorno», aggiunse, tamburellando sul portatile. «Smetti di guardare i suoi video, Léo».
Mantenni la parola per i primi tre giorni. Poi mi fu impossibile perseverare, dopotutto il computer era lì, che occhieggiava verso di me, e comunque avrei dovuto accenderlo per scrivere la tesi, senza contare che mi serviva una pausa e certi suoi video duravano proprio cinque minuti...
In uno aveva un elmetto da minatore in testa “senza un motivo preciso”, citazione testuale. Iniziai a guardare quello.
Stava parlando dell'ultimo libro di un tipo chiamato Jonas Jonasson, Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve. Non avevo la minima idea di che genere di romanzo fosse, ma lui sembrava adorarlo.
«Insomma», stava dicendo George. «Questo centenario decide di prendere con sé anche la ragazza. Così di fatto la compagnia si compone di quattro persone. Uno di loro è così scemo che avrei anche potuto essere io».
«Non sei scemo, George», gli risposi nel buio della mia camera da letto.
Lui si passò una mano tra i ricci in quel modo che mi faceva andare fuori di testa. «Comunque il centenario ha fatto di tutto nella vita, è stato in mezzo ai nazisti, ha organizzato un party a casa di Stalin, ha lavorato alla costruzione dell'Empire State Building. È un bel ritratto del '900».
«Io lo farei a te, un bel ritratto», affermai.
«Il protagonista è molto coraggioso. Chi di noi se la sentirebbe di intraprendere un viaggio del genere?», domandò George. «Partire all'avventura, senza sapere se e quando si ritornerà a casa, con poche cose con noi. Credo che cercare di superare le nostre paure sia insito nella natura umana, il centenario dopotutto lo ha fatto e forse dovrei provarci anche io». Si picchiettò sull'elmetto con l'indice. «Non ha senso non rischiare almeno un po'».
Sbattei le palpebre, riflettendo. Cos'era, un filosofo? Scossi il capo, mettendo in pausa. Ora sul monitor sembrava che di George ci fosse una fotografia, con i suoi occhi splendidi e lo sguardo gentile. Era troppo gentile, per quale motivo non era mai nervoso o infuriato per qualcosa? Molti di quelli che facevano video alle volte si lamentavano di mille cose. George non si era ancora mai lamentato, anzi: in un video sul problema dei trasporti pubblici, ad esempio, invece di sbottare per l'incapacità organizzativa degli enti della metropolitana esponeva i difetti con ironia, come certi comici in televisione, facendomi ridere e proponendo soluzioni concrete e fattibili.
Iniziai a provare un sentimento spaventoso: ero inadeguata.
Incredibile, considerando che fino a poco prima invece consideravo lui inadeguato per me. Invece in quel momento mi sentii troppo misera, troppo sciocca per uno come George. Cosa ci trovava in me?
Sono sempre stata una ragazza vanitosa, a cui piace piacere e che vuole essere notata da tutti. Anche mentre stavo con Paul, prima di conoscere George, mi era sempre sembrato divertente stuzzicare i maschietti che gravitavano intorno a Marie e a me. Mi piaceva guardarli e mi piaceva che mi guardassero, anche se mai e poi mai avevo provato un vero interesse nei loro confronti.
George invece era molto diverso, o almeno così mi sembrava, forse perché mi ero data pena di conoscerlo un po' meglio. Era deleterio il mio interesse per lui, anche perché sospettavo che prima o poi mi avrebbe conosciuta per quella che ero: una persona che, evidentemente, aveva dei principi poco elevati. Allora sarebbe rimasto deluso ed io non avevo intenzione di subire la sua delusione.
Paul era quello di cui avevo bisogno. Un uomo bello, forte, un buon lavoratore, che vestiva alla moda e che, come avevo detto a Marie, mi concedeva una sicurezza che nessuno youtuber al mondo mi avrebbe potuto dare.

 

***

Completamente nudo davanti allo specchio, Paul si stava pettinando. Aveva i capelli lisci, lunghi sulle spalle, con la scriminatura laterale. Capelli da star del cinema, in pratica. George invece non era così: a me non piacevano i ricci, nossignore, altrimenti che bisogno avrei avuto di passare la piastra sui miei capelli ogni mattina?
Fissai le sue chiappe marmoree. Perfino la schiena di Paul era scolpita, con quelle scapole così sexy e la vita stretta. Il torace era depilato, il che dal mio punto di vista non era certo un male. Il suo mento volitivo era un po' troppo massiccio, è vero, ma era un mento da uomo. Ed era paurosamente alto, molto più di me, il che era sensuale e, da un certo punto di vista, interessante.
Dio, perfino i suoi piedi avevano l'aria maschia.
«Perché mi guardi così?», domandò, scrutandomi nel riflesso dello specchio.
Mi tirai le sue lenzuola sul viso, sprofondando nel suo letto. «Niente. Sei bello».
Anche se non potevo vederlo attraverso le coltri, intuii dal suo modo di parlare che stava sorridendo. «Grazie». Sentivo il pettine passare tra i capelli in un suono che sapeva di seta. «Come mai sei così gentile, stamattina?».
«Sono sempre gentile».
«Tu non sei mai gentile», dissentì Paul, quasi divertito. «Ultimamente, poi, non ne parliamo».
«Non ho avuto molto tempo per me».
Sentii i suoi passi sulla moquette e avvertii il suo peso improvviso sul materasso. «È quello che dici sempre», affermò. Lo sentii sobbalzare mentre si infilava i boxer di Coveri. «Sicura che sia tutto a posto?».
«Sicura», mentii.
«Bene, tesoro, io devo andare al lavoro», annunciò. «Tu rimani qui quanto vuoi».
Riemersi dal cumulo di coperte arrossata e un po' spettinata. «Devo andare a studiare».
«Che brava, la mia professoressa».
«Smettila, cazzo!».
Mi resi conto di aver urlato. Anche lui se ne accorse, perché mi fissò per un po' in silenzio, gli occhi sgranati. Strizzai le palpebre, augurandomi che fosse solo un sogno spiacevole.
«Ok», disse Paul, «dimmi cosa c'è».
Ormai avevo lanciato il sasso e, per quanto lo volessi, non potevo più ritirare la mano. «C'è che ogni volta che si parla della mia tesi tu ti comporti come uno stronzo».
«Ma cosa dici?».
«Paul, tu mi sottovaluti da morire», mi lamentai.
Non so esattamente cosa pretendessi da lui. Delle scuse? Certamente sì. Però non volevo che fosse gentile con me, non volevo che mi trattasse bene. Doveva arrabbiarsi e insultarmi. Volevo così tanto che si incazzasse, ne avevo davvero bisogno. Il motivo non mi era chiaro.
«Non era mia intenzione, amore», bisbigliò Paul, prendendomi il volto tra le mani. «Ti prego, perdonami».
Quella frase non era male, ma alle mie orecchie suonò orribile e devastante.
Paul non solo non si era arrabbiato, ma non si era nemmeno realmente scusato. Mi fu subito chiaro che quel suo “perdonami” non aveva significato per lui ciò che io avrei voluto significasse. Paul non capiva come mi avesse potuto fare un torto, perciò le sue scuse non avevano valore.
«Grazie», dissi decisa, mettendo su una facciata di gentilezza così falsa che avrebbe fatto sfigurare le statue in un museo delle cere. «Sei perdonato, è naturale».
«Qualcuno ha bisogno di coccole, stamattina?».
“No, bastardo, non mi servono le tue coccole”.
Si infilò sotto le coperte con me. Non lo volevo, non volevo che mi toccasse, ma non potevo neppure cacciarlo via o avrebbe iniziato a farmi domande su domande. Le sue labbra erano troppo umide e bagnate, troppo perché mi piacesse sfiorarle, e quando mi baciava mugolava in modo infantile. Mi diede fastidio.
Toccai il fondo quando mi infilò una mano tra le cosce ed io immaginai che fossero le dita di George, quelle che mi stavano dando piacere. Chiusi gli occhi, immaginando che quello che mi toccava il seno non fosse Paul e che quei mormorii orrendamente fastidiosi che stava emettendo avessero un accento inglese. Ansimai, pensando che erano le orecchie di George quelle che stavano ascoltando i miei gemiti.
Finsi di avere un orgasmo solo per levarmelo di torno.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


Nda: Ciao! Mi rendo conto che questo aggiornamento arriva praticamente a ridosso dell'ultimo, ma volevo davvero aggiornare oggi. A tal proposito, sono quasi sicura che questo sarà l'ultimo aggionamento del lunedì: all'università mi hanno aggiunto un corso e così facendo non ho praticamente nemmeno un momento di respiro dal lunedì al mercoledì. Immagino che, a questo punto, l'aggiornamento settimanale ci sarà di giovedì. Anyway, immagino che questa cosa importi poco, è più un reminder personale.
Ormai diventa inutile, ma vi dico come sempre che la storia è anche su Wattpad. Poi, come vi dico sempre, sappiate che esiste anche Gaiman in the T.A.R.D.I.S., il mio blog. Buona lettura! <3


Capitolo 6.

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Una donna originaria di New Orleans gestiva nel pieno del Quartiere Latino il Bayoo Paradise, dove andavamo spesso io e gli altri. Era uno dei locali che frequentavamo maggiormente, perché era grande, sciccoso e sufficientemente alternativo da farci sentire le creature più interessanti di Parigi.
Non sapevo come si chiamasse la proprietaria, ma ogni anno, durante il periodo del martedì grasso, dava una festa per celebrare il carnevale in stile creolo. Era qualcosa che conoscevo abbastanza bene, venendo da un paese dove il carnevale dura più di un mese.
Come Marie e Jeannot, io e Paul avevamo deciso di partecipare. Facendo leva sul fatto che stavamo passando un periodo difficile, costrinsi il mio fidanzato ad accompagnarmi. Non avrei accettato scuse, nemmeno se fosse stato in punto di morte avrebbe avuto il mio permesso per stare a casa.
Non mi interessava che Paul si divertisse, né mi faceva impazzire il pensiero di trascorrere la festa a limonare con lui in un angolo – perché era così che sarebbe finita, lo sapevo bene. Mi serviva però qualcuno che mi impedisse di infilare la lingua nella bocca britannica di George e Paul era il deterrente perfetto.
Sapevo che Marie e Jeannot avrebbero portato un costume a coppia, qualcosa come Tarzan e Jane. Paul aveva voluto fare qualcosa di simile, nonostante io avrei preferito evitare il vestito da Wonder Woman. Non mi sentivo affatto bella – pensare sempre a un altro uomo ti imbruttisce – e girare in body e mantello rosso per la sala mi sembrava una vera idiozia.
La mia quiete venne interrotta da un messaggio proprio mentre mi stavo truccando.

 

Nuovo messaggio: 0 sconosciuto

-Marie-

“Ciao tesoro! Non voglio creare allarmismi ma
ho appena visto Max arrivare insieme a George.
Sapevi che sarebbe venuto? Se vuoi stare a casa ti
capirò, non preoccuparti! xoxo”

 

Sapevo che ci sarebbe stato anche lui, era il motivo principale per cui volevo Paul con me. Tuttavia vederlo scritto nero su bianco era come rendere la prospettiva più reale e più faticosa. Non ebbi bisogno di riflettere a lungo: uscii dal bagno truccata per metà, attraversando di corsa il corridoio fino alla camera di Jacques, uno dei coinquilini.
La porta era aperta e lui stava sparando a tutta forza contro un gruppo di avversari a Call of Duty. Aveva lo sguardo così concentrato che non mi vide nemmeno entrare, i capelli color del grano tagliati alla moda che gli ricadevano disordinati ai lati delle tempie.
«Jacques».
Non mi rispose.
«Jacques».
«Dimmi, Madeleine».
Aggrottai la fronte, quasi offesa per il paragone con la coinquilina noiosa e scortese. «Non sono Madeleine, idiota, sono Eleonora».
«Eh?», esalò, mettendo in pausa. Solo allora sollevò lo sguardo e mi identificò. «Ah, Léo, ciao».
«Mi serve aiuto».
Lui aggrottò la fronte. Non mi sorprese il suo scetticismo, io e lui parlavamo molto di rado – anche se era l'unico altro abitante della casa che mi stava in qualche modo simpatico. Tuttavia mai gli avevo parlato dei fatti miei e lui mai mi aveva detto qualcosa in più su di sé. Io per prima ero sbalordita dalla mia necessità di avere un suo consiglio.
«Aiuto?», ripeté. «Da me?».
Annuii. «Sei l'unico organismo animale che io rispetti nel raggio di un chilometro».
«Grazie».
Ignorai la sua risposta ironica e mi sedetti sul letto accanto a lui. «Tu conosci Paul, giusto?».
«Il tuo fidanzato».
«E conosci George Addison?».
Jacques era una persona intelligente, che sapeva fare due più due, e la mia faccia era come un libro aperto. «Oh, cazzo», esclamò, ridendo come un pazzo. «Non me lo dire, ti prego!».
Incrociai le braccia, offesa. «Come osi ridere? Sono seria, aiutami».
«Che vuoi da me?», esclamò. «Se questo tizio ti piace, fattelo».
«Che discorso di merda».
«Stai chiedendo ad un uomo di merda», disse con aria furba.
«Cercherò di spiegare la cosa con una metafora favolistica», affermai. «Paul è...». Dovetti riflettere per qualche secondo, perché qualsiasi paragone aveva un sapore volgare. Non riuscivo a trovare un aggettivo che descrivesse il mio ragazzo senza usare parole che in qualche modo rimandavano al sesso. «Ok, Paul è una splendida tigre bianca», decisi infine, scartando l'iniziale idea di definirlo come uno stallone arabo, troppi doppi sensi. «Bellissima, maestosa, con una pelliccia elegante e un portamento fiero e leggiadro».
«Bene».
«George, invece, è un cucciolo di foca».
Jacques roteò gli occhi, cercando di immaginarsi un cucciolo di foca paragonato ad una tigre. Potevo quasi vedere le rotelle del suo cervello che si agitavano sfrigolando. Quando riuscì a figurarsi la scena scoppiò a ridere di nuovo.
«Ma dai, non posso credere a quello che hai detto. Il cucciolo di foca dovrebbe essere un complimento?».
«Si tratta di un cucciolo di foca particolarmente intelligente», gli ricordai.
«Viene anche lui alla vostra festa?».
Feci schioccare la lingua sul palato. «Già, pare che sia ovunque».
«Guarda, te lo dico onestamente», affermò stravaccandosi sul materasso e appoggiando i piedi sulle mie ginocchia. «Se fossi al posto tuo mi terrei la tigre bianca al fianco e nasconderei il cucciolo di foca in camera da letto».
«Non voglio fare le corna a Paul».
«Allora chiedi un parere alla persona sbagliata», sentenziò Jacques. «Io sono dell'idea che alla nostra età sia presto per impegnarsi, se qualcosa ti piace dovresti prenderlo e addio».
Capii che non avrei tratto alcun beneficio da quella conversazione. Mi alzai e i piedi di Jacques crollarono sul materasso al mio posto. «Grazie lo stesso», borbottai delusa, uscendo dalla camera.
Finii di prepararmi in fretta, perché Paul sarebbe passato a prendermi. Il quartiere di Bercy, dove vivevo io, era piuttosto lontano dal Bayoo Paradise e quel sant'uomo si era offerto di accompagnarmi in auto.
Non volevo la sua cazzo di macchina: per la prima volta in vita mia preferivo la metro. I trasporti pubblici non sono i luoghi più ameni della terra ed avevo sempre evitato di prenderli ogni qualvolta ne avevo avuto l'opportunità, ma quella sera avrei calcato il pavimento di tutte le quattordici linee parigine pur di non arrivare là sulla macchina di Paul.
Era vestito da Superman. Era davvero bello, questo devo dirlo, faceva la sua splendida figura con quel costume. Perfino le mutande rosse in bella vista gli donavano. Se possibile mi irritò ancora di più la sua perfezione, non poteva essere perfetto: i costumi di carnevale non sono fatti per rendere le persone sexy, ma per renderle ironiche. Lui era così intrigante da farmi montare su tutte le furie.
Non smise di parlare per tutto il tragitto. Io mi limitai a fingermi interessata, annuendo e dicendo cose come “Oh, davvero?” al momento giusto.


***

Era pieno di gente, proprio come alla festa di Max. Jeannot e Marie erano già lì da un po', come George, ed io fui grata alla calca disumana che mi avrebbe nascosta così bene. Paul avrebbe iniziato entro breve a farmi pressioni per un isolamento prolungato in un luogo appartato e nessuno avrebbe riconosciuto Eleonora Gentilini sotto la parrucca di ricci neri.
Paul iniziò a ridere con un paio di amici e mi trascinò con loro al tavolo del buffet. Io non avevo fame, anzi, avevo lo stomaco chiuso. Sapevo perfettamente che la mia era autosuggestione, se avessi smesso di pensare a George in maniera così ossessiva forse non sarei stata tanto sensibile nei suoi riguardi, ma era più forte di me.
Non conoscevo quei due con cui parlava Paul: erano colleghi di lavoro, incontrati per caso, con cui loro sembrava essere molto affiatato. Mi ritrovai in una situazione che avevo sempre considerato così infima e umiliante da giurare a me stessa che mai avrei dovuto passarla: stare in piedi in imbarazzato silenzio senza aver niente da dire o venire coinvolta nella conversazione. Praticamente ero un'appendice di quel simpatico e brillante neo avvocato che se la tirava così tanto.
Paul non mi presentò; non che mi importasse qualcosa dell'amicizia o anche solo dell'esistenza dei suoi amici, ma era una questione di principio. Ero talmente furiosa che probabilmente facevo fumo dalle narici.
«Vado in bagno», annunciai.
Paul rispose: «Certo, amore», ma ero quasi certa che non avesse sentito una parola.
Sparii in uno dei bagni per signore – l'unico libero era una dannata turca ed io non so mica pisciarci, nella turca – e quando riemersi iniziai a cercare qualcuno, chiunque, con cui parlare.
Allora lo vidi: lo avrei riconosciuto tra mille, nonostante il costume. Era Sweeney Todd, con i capelli riempiti di lacca per avere l'aria di uno che ha messo un dito nella presa di corrente, il volto pieno di cerone e due occhiaie disegnate sotto gli occhi. Si era fatto la barba ed era proprio un figurino, vestito alla vittoriana, con il panciotto e tutto il resto.
Non mi aveva mai telefonato, sebbene avesse promesso di farlo, né mandato messaggi: era stata discrezione, la sua? O era stato un modo per costringermi a rimanere in attesa di una chiamata mai giunta?
Mi dava le spalle, non mi aveva nemmeno notata, perciò la cosa più sensata da fare sarebbe stata quella di allontanarsi in silenzio, fingendo di non esistere. Invece la mia psiche smise di funzionare e comandò alle mie gambe di muoversi nella sua direzione.
«Hey», lo salutai.
George mi guardò da sopra la spalla in modo ironico, poi si voltò di scatto estraendo dalla tasca del panciotto un finto rasoio da barbiere. «Una spuntatina, mia cara?».
Era ormai ovvio che non riuscivo a stargli lontana. Solo una ragazza con mezzo cervello non avrebbe notato quanto mi fosse difficile. Decisi che era perfettamente inutile fingere il contrario e costringermi a stare con Paul per tutta la sera, e poi stavamo solo parlando, non facevo niente di male. Giusto?
I nervi tesi si rilassarono non appena i miei occhi incontrarono i suoi. Tutto il disappunto, il nervoso, la stizza, tutto fu dimenticato non appena le sue labbra si incresparono in un sorriso.
Indicò il mio body e i miei stivali neri con il tacco alto. «Riesci mai a presentarti ad una festa senza essere mezza nuda?».
«Ti dispiace, forse?».
George rise forte. «Non provocarmi, Léo».
Era stato sincero. Aveva ragione, provocarlo sarebbe stato uno sbaglio madornale. Sarebbe stato ingiusto nei suoi confronti e uno stillicidio nei miei. Cambiai argomento: «Ho visto i tuoi video».
«E che ne dici?».
Mi strinsi nelle spalle. «Il contenuto non è male», commentai senza sbilanciarmi, «ma il tuo look è decisamente da rivedere».
«Pensi ancora che il mio non sia un lavoro vero?».
Mi avvicinai per farmi udire sopra il vociare della gente. «Mi chiedo solo come tu faccia a mantenerti in una città costosa come Parigi solo con i soldi guadagnati su Youtube», gli confidai. «Ci deve essere qualcos'altro che fai».
Mi rivolse un sorriso cordiale. «Mi hai beccato. Faccio il fotografo, anche se mi piace considerarlo un secondo lavoro. Adesso mi hanno preso in un posto in periferia, niente di esaltante, faccio solo fototessere e cose del genere, però sono otto euro all'ora per sei giorni a settimana».
«In pratica non fai nulla di faticoso», lo presi in giro. «Dimmi una cosa. Chi è la ragazza bionda e carina di cui parlavi nel video su Parigi?».
Si umettò le labbra con la punta della lingua: avrei voluto fare di tutto, con quella lingua. «Credo che tu stia meglio mora, come adesso».
«Io sono mora», risposi. «Quella che ho in testa è una tinta».
Annuì, osservandomi interessato. «E come mai la fai?».
Esitai, senza sapere cosa rispondere. La verità sarebbe stata che piaceva a Paul, ma all'improvviso mi sembrava così stupido. Quando mi ero tinta per la prima volta lo avevo fatto volentieri, sono cose che si fanno per il proprio partner. Eppure, mentre stavo per dirlo a George, mi sentii incredibilmente debole e sciocca. «Mi piacciono così», mentii.
Non c'era un momento migliore perché Paul arrivasse lì, perché sentivo che stavo per baciarlo. Anche con il cerone le sue labbra erano così invitanti che rischiavo davvero di afferrarlo per il bavero della camicia, sbatterlo contro il muro e tastargli il pacco. Era anche all'altezza giusta: all'improvviso la sua bassezza non mi risultò fastidiosa, ma comoda.
Per questo fui grata a Paul per il suo tempestivo arrivo. «Amore!», trillò entusiasta. «Dov'eri finita?».
Mi trovai a domandarmi cosa stesse provando George in quel momento. Mi pentii subito di aver portato Paul con me: lo avevo fatto per autodifesa, senza pensare che avrei potuto ferirli entrambi. Mi sentii ancora peggio di prima.
Stavo per inventare una scusa e trascinare il mio fidanzato lontano da lì, quando George mi sorprese tendendogli una mano.
«Tu devi essere Paul, il ragazzo di Léo», commentò con un sorriso tranquillo e cordiale. Come faceva a starsene lì buono e cortese? Io al posto suo avrei preso una rivoltella e avrei sparato alla mia rivale. «Io sono George, piacere».
«Ah, sì, l'amico di Max», rispose Paul, passandomi una mano sulle spalle. “Perché, Dio, perché mi punisci così?”, pensai, cercando di scrollarmi di dosso il suo braccio con la massima gentilezza. Mi dava fastidio toccarlo, non volevo.
«Léo mi stava giusto parlando di te», mentì George.
Lo incenerii con lo sguardo. Perché stava dicendo una cosa simile? Forse aveva notato il modo un po' possessivo con cui Paul mi stava abbracciando e aveva deciso di proteggermi da domande spiacevoli? Beh, poteva evitarlo. Anzi, poteva anche smettere di fingere gentilezza.
«Ma davvero?», rispose Paul di rimando. Il suo braccio iniziava a pesare troppo, a bruciare sulla pelle. Non era la prima volta che mi stringeva in quel modo, eppure c'era qualcosa di diverso. Paul stava come marcando il territorio. Mi sentii paragonata ad un oggetto.
«Bene, ora vi siete conosciuti», sbottai. «Andiamo fuori, Paul, voglio fumare».
«Vengo anche io», disse George. «Ho un'ultima sigaretta nel pacchetto».
“Idioti”, pensai, “siete due idioti”.
Fu la sigaretta più imbarazzante che mi sia mai capitato di fumare, quella che consumai nel vicolo alle spalle del Bayoo Paradise, schiacciata tra Paul e George che parlavano animatamente tra loro, il primo che cercava di mantenere un certo contegno per non sembrare geloso e il secondo che sembrava aver trovato il suo nuovo migliore amico.
Il paragone era impossibile da evitare: Paul era statuario, come un bel marmo, ma George era più speciale, una bellezza più discreta. Se mi avessero chiesto di scegliere uno dei due sul posto, pena la morte, non c'era alcun dubbio su quale avrei preferito. Il carattere, poi, era totalmente differente.
Non sentivo nemmeno freddo: e dire che era ancora febbraio ed eravamo nel nord della Francia. Non li stavo neppure ascoltando, non importava cosa si stessero dicendo: studiando le loro espressioni avevo ormai capito che si detestavano. George era solo più bravo a nasconderlo.
Avevo bisogno di Marie, di Max, di chiunque mi potesse portare via da lì.
Mandai un messaggio alla mia amica, invocando il suo aiuto. Le dovevo ben più di una birra, vista la pazienza che stava dimostrando in tutta quell'intricata faccenda. Sperai che sentisse vibrare il telefono e che arrivasse di corsa.
Quelli che emersero dalla porta sul retro del Bayoo erano un Tarzan scarmigliato in perizoma ed una Jane Porter molto accaldata. Notai Jeannot che si irrigidiva immediatamente, quando uscì mezzo nudo.
A Marie occorse solo un secondo per capire in che casino di merda mi trovavo.
«Ah, Paul, hai conosciuto George», disse Jeannot. Non dubitavo che anche lui sapesse della mia crisi esistenziale causata da quel londinese, Marie non riusciva a nascondergli niente.
Lei mi prese sottobraccio, come se volesse dichiarare agli occhi del mondo la nostra alleanza. «Fa molto freddo, qui», commentò. «Perché non torniamo dentro?».
Colsi al volo l'occasione. «Già, rientriamo, dai. Abbiamo finito di fumare».
Prima che potessi impedirglielo, Paul mi aveva presa per mano. Mi aveva presa per mano. Per mano, davanti a George. Non riuscivo a sopportarlo.
Il tutto era aggravato dalla consapevolezza che Paul avesse intuito quanto fossi divenuta frigida nei suoi confronti, da quando eravamo arrivati. Non poteva non aver notato il mio fastidio mentre mi toccava e dopo, sulla pista da ballo, non tentò di baciarmi nemmeno una volta.
Era un campanello d'allarme più che sufficiente, perché alle feste io e lui ci baciavamo in continuazione per non restare senza nulla da dirci.
Andammo avanti così per un po', ballando senza nemmeno guardarci. Passò un paio d'ore, forse qualcosa in più. Trangugiai quanto più alcool potei, arrivando al punto di avere la mente annebbiata. Tuttavia dovevo rimanere lucida o avrei detto qualcosa di cui poi mi sarei pentita.
Dopo un tempo all'apparenza interminabile, Paul mi afferrò per un polso. «Ti va di andare a casa?».
Annuii, senza rispondere. Di Marie e Jeannot non c'era traccia, di George nemmeno l'ombra. Vidi Max litigare animatamente con Louise, ma erano lontani e non avevo intenzione di intromettermi per un saluto, non con la mia situazione così traballante.
Seguii Paul all'esterno, direttamente in macchina. Non ci fermammo a salutare nessuno, non guardammo nessuno. Semplicemente ci lasciammo crollare sui sedili della sua Giulietta e partimmo, il sole ormai svanito.
Guardai fuori dal finestrino per un po' mentre ci imbottigliavamo nel traffico di Parigi. Le luci della città, i lampioni e le illuminazioni si riflettevano sul vetro, inondando il mio viso arrossato e provocandomi un'improvvisa sonnolenza.
Stavo per appisolarmi quando Paul chiese: «Chi è lui?».
Sapevo a chi si riferiva e fingere di non capire non sarebbe servito a niente. «George?», domandai. «È innocuo. Non essere geloso».
«Non sono geloso», affermò. Che enorme cazzata. «Sono solo sorpreso che tu non me ne abbia mai parlato».
«Avrei dovuto?».

«Di solito mi racconti dei tuoi amici».
Mi venne quasi da ridere. «Per favore, come se a te importasse qualcosa. Quando ti parlo di gente che non conosci mi sembra sempre che tu non stia ascoltando».
«Beh, ti sbagli di grosso», disse muovendo il volante. «Ti ascolto eccome. Perché non mi hai parlato di quell'inglesino?».
«Per evitare reazioni da coglione», ironizzai.
Paul sbuffò, digrignando i denti. «Ah, certo, è chiaro. Hey, levati dalle palle!», sbottò all'improvviso, dando un colpo al clacson. Qualcuno era nervoso? Scosse il capo, tornando a concentrarsi su di me. «Dimmi la verità. Lui ti piace?».
«No», mentii. Dovevo apparire molto convincente. «Pensi davvero che potrebbe piacermi uno così? Ci siamo conosciuti a capodanno, alla festa a cui tu non sei venuto».
«Quindi ora è colpa mia?».
«Di certo non mia. Non ho fatto niente di male. È un amico esattamente come Max e Jeannot. Sono così offesa dal tuo comportamento di prima, cazzo! Come ti sei permesso?».
Avevo ribaltato la frittata. È una cosa in cui sono sempre stata brava, convincere gli altri a sentirsi in colpa al posto mio. Paul abboccava sempre e quella non fu un'eccezione.
«Mi dispiace», mormorò dopo un momento di pausa. «Io credevo che lui ti piacesse».
«Beh, non è così».
Lui annuì. «Certo, hai ragione. Mi fido di te».
«Bene», conclusi bruscamente.
Paul non disse nulla per un po', continuando a guidare, ed io mi illusi che la discussione sarebbe finita lì. Invece, proprio mentre mi convincevo che ormai era fatta, disse: «Credi... Insomma, lo vedrai spesso?».
«Paul!».
«Voglio solo saperlo».
«Non lo so, santo Dio. È probabile, visto che è un amico di Max e Max lo vedo quasi ogni giorno».
Non era esattamente vero, ma volevo evitare che Paul mi pizzicasse in compagnia di George per sbaglio. Volevo avere una scusa pronta, plausibile. Avrei preferito la ghigliottina ad una cosa sola: rivedere Paul e George nella stessa stanza.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. ***


Nda: Oggi sono stata male, quindi questa settimana aggiorno prima del previsto, ma spero di non rischiare la comatosi anche lunedì prossimo, quindi in modo puramente egoistico vi dico che dovrei, come sempre, aggiornare giovedì della prossima settimana.
Consiglio l'ascolto, durante la lettura di questo capitolo, di questa cover version
di Just give me a reason fatta da Daniela Andrade e Travis Graham dei New Heights. A tal proposito, io mi sono letteralmente innamorata di Daniela Andrade, fa delle cover veramente splendide, molto melodiche: se piace il genere, perché mi rendo conto che non a tutti piace, la consiglio davvero. So che la scelta della canzone non è azzeccatissima, ma ricordo che quando scrissi questo capitolo la ascoltavo a ripetizione (nella loro versione, non l'originale) quindi immagino sia giusto far sapere che esiste.
Questo capitolo è un po' un turning point, spero di non perdere lettori lungo la strada hahaha e lo trovate anche su Wattpad. Come di consueto, ormai mi odierete ma sono una stronzetta che spamma sempre ciao, esiste pure il mio blog: Gaiman in the T.A.R.D.I.S.


Capitolo 7.

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«Dico», disse Paul fissandomi da sopra la sua cena, a uno dei tavoli da Wok Pleasure, «come mai hai tinto i capelli?».
Mi passai una mano tra i miei lunghi, setosi, lisci e non più biondi capelli. «Mi ero stufata dei colpi di luce», affermai. Il che non era del tutto vero. Per non guardarlo e rischiare di tradirmi addentai con voracità il mio raviolo di carne e verdura, rischiando di ustionarmi la lingua, e lo fissai rovistare nel suo piatto di riso e gamberi.
«Non mi piace la cucina asiatica», commentò dopo un momento. «Se sono qui è solo per il tuo compleanno».
«Ti ringrazio», affermai ed ammetto che in parte ero seria. Sapevo quanto odiasse la cucina esotica – a parte il salmone norvegese, ma voi avete idea di quanto costi quel pesce? – e gli ero grata di avermi accompagnata comunque nel miglior ristorante asiatico che conoscesse. Sapevo che lo aveva fatto per me e per nessun altro ed apprezzai con tutto il cuore. Sono cattiva, d'accordo, ma so capire quando qualcuno fa qualcosa per me, no?
«Se vuoi la mia opinione, comunque, bionda eri più sexy».
Gli lanciai un mezzo sorriso. «Ora non lo sono più?».
Allungò una mano attraverso il tavolo, ondeggiando sullo sgabello alto, e mi strinse la mano. «Lo sei sempre, amore».
Non risposi. Da dopo la festa di carnevale, Paul aveva visibilmente tentato di farsi perdonare la figura di merda che mi aveva fatto fare con George e gli altri dandomi tutto quello che volevo. Un giro sul Bateau Mouche, una romantica cena a lume di candela sugli Champs Elysées con conseguente passeggiata sul ponte Alessandro III, una gita a Versailles con picnic nel parco della reggia. Praticamente tutto.
Peccato che io continuavo a pensare a George e quasi non mi ero resa conto di quanto impegno Paul ci stesse mettendo. Tutt'ora non ho idea di cosa mi passasse per l'anticamera del cervello.
«Stasera potrei dormire da te», disse Paul dopo un paio di timide forchettate di riso. «Sai, ho in mente certe cose che potremmo fare».
«Uh», ridacchiai. «Ovvero?».
«Sorpresa».
Inforcai un altro morso del raviolo e passai al piatto di sushi in insalata di alghe. Continuai a mangiare, domandandomi come mai Paul ed io non avessimo nulla da dire di un po' più serio di “dopo facciamo l'amore” e perché io non apprezzassi quel bravo ragazzo, quando il mio cellulare vibrò all'improvviso.
«Rispondi pure», mi incoraggiò lui. Sapevo che si costringeva ad essere gentile per non indispettirmi.
Presi il telefono: era solo un messaggio. Il mittente, però, era orribilmente conosciuto. Dovetti trattenermi dall'imprecare.

 

Nuovo messaggio: 0 sconosciuto

-George IGNORAMI-

“Ciao Léo! Volevo scusarmi con te
per quello che è successo alla festa,
mi rendo conto di essere stato un mezzo
coglione. Posso passare da te più
tardi per parlarne? Bacioni”

 

Era la cosa peggiore che potesse accadere. George Addison nel mio appartamento, George e il suo odore e il suo bel culo e quel suo modo di fare così ironico e sicuro di sé. Non ci doveva nemmeno mettere piede.
Allora perché le mie dita digitarono un frettoloso “Va bene” e lo inviarono? Perché non riuscivo a fare una stracazzo di cosa giusta in tutta quella faccenda?
E poi Paul voleva dormire da me. Ah, che peccato, avrei dovuto rifiutare. Un vero peccato. George avrebbe dovuto aspettare, ops. Ripresi in mano il telefono per dirgli che avevo cambiato idea quando Paul all'improvviso si portò una mano alla pancia.
«Oh, cazzo», lo udii mormorare. «Scusami, arrivo».
Scappò alla velocità della luce in direzione del bagno. Io lo guardai con gli occhi spalancati, non ebbi nemmeno il tempo di domandarmi che problema avesse. Quando alcuni degli avventori, dopo averlo fissato, spostarono lo sguardo su di me arrossii violentemente.
Guardai il suo piatto, vuoto per metà. Sembrava innocuo, i piccoli gamberetti che sembravano sdraiati nel letto di riso. Fu allora che mi venne il dubbio. Presi con le mie bacchette una manciata di cibo e lo assaporai lentamente, pronta a cogliere la minima sfumatura sgradita.
«Merda, è alla soia», mormorai.
Paul era terribilmente intollerante alla soia. Non era solo un po' allergico, la soia era la sua nemesi alimentare. Capii che in bagno stava probabilmente vomitando anche l'anima.
Rimisi il cellulare nella tasca della mia giacca. Paul non sarebbe stato in grado di fare proprio niente, quella sera. Mi domandai se sarebbe riuscito a fare le scale del suo condominio senza aiuto.
Certo, avrei anche potuto dire a George una bugia. Tuttavia non lo feci e quando Paul ritornò mi prodigai per farlo sentire a suo agio. Insistetti per pagare la cena, guidai io la sua macchina fino a casa sua e lo accompagnai di sopra, dove si sentì male di nuovo. Rifiutò di farmi stare lì tutta la notte, dicendomi di andare a casa, tanto lui sarebbe presto stato meglio. Avrei dovuto insistere; non feci nulla del genere.
Presi la metro, arrivai a Bercy e raggiunsi la palazzina dove vivevo. Guardai l'ora, sperando fosse troppo tardi perché George venisse da me: le dieci di sera. Di sabato. Decisamente era ancora presto.

 

***

Si fecero le undici. Io stavo guardando una replica di Family Man su Canal+Cinéma. Non c'era nessuno in casa a parte me e Jacques: Madeleine era fuori con le sue amiche e il polacco era così silenzioso, nella sua camera da letto, che era come se non ci fosse.
Passando alle spalle del divano, Jacques smise di frizionarsi i capelli umidi della doccia con l'asciugamano e indicò la porta del nostro coinquilino.
«Tu lo hai mai visto uscire per lavarsi?».
Scossi il capo mentre in tv Nicholas Cage si svegliava nella vita parallela. «No, io no».
«Strano tipo», commentò lui. Sparì in camera sua per riemergerne un paio di minuti dopo, vestito e profumato.
Sollevai lo sguardo mentre si stava allacciando le scarpe. «Oddio, stai uscendo?», domandai sgomenta.
Si bloccò a metà di un nodo. «Non dovrei?», domandò. «Ho dimenticato che facevamo qualcosa insieme?».
«No, figurati» affermai, «ma sta arrivando George».
«Chi?».
«Il cucciolo di foca».
«Stai scherzando».
Gli rivolsi l'occhiata più supplice che riuscii a mettere insieme. «Ti prego, non puoi lasciarmi sola con lui!».
«Ma sei stupida?», esclamò con una grassa risata. «Dio, Léo, perché ti metti nei casini in questo modo?».
«Ti sto supplicando, Jacques!», pigolai. «Non puoi lasciarmi sola, ti prego!».
«Mi dispiace», borbottò afferrando la sciarpa. «Ho appuntamento con una studentessa erasmus molto disponibile».
«Dai, me lo devi!».
«E perché? Sei tu che ti sei messa nella merda, non ti devo proprio niente». Imboccò la porta di casa, gridando: «Scopatelo e fammi sapere se è bravo».
Fui presa dal panico. La scarsa vita sociale di Jacques era un'ottima scusa per non fare cazzate nell'appartamento, ma se lui non c'era la casa era praticamente libera – il polacco non contava. Se lui non era in casa avrebbe potuto capitare qualunque cosa, stava a me resistere ed io non sono brava.
Dovevo fingere indifferenza, quando George fosse arrivato. Dovevo avere l'aria di una che pensa a tutto fuorché a lui. Già, mi sarebbe bastato starmene tranquilla davanti alla televisione mangiando Oreo. Adoro gli Oreo, non sarebbe stato difficile.
Suonò intorno alle undici e mezza. Avevo mangiato abbastanza biscotti per la mia copertura? Per sicurezza sparsi briciole sul tappeto davanti al divano.
Aprii il portone dal citofono e lasciai la porta dell'appartamento accostata, tornando a fiondarmi sul sofà, come se non mi importasse.
Tutto il mio bel piano studiato andò a puttane quando lo vidi stagliarsi sull'ingresso.
«Hey, Léo».
«Hey».
Era bellissimo. Non nel modo in cui può esserlo un divo del cinema, ma era così carino nel suo pullover color senape e con i suoi pantaloni a sigaretta. I capelli erano agitati come al solito, ma il suo sorriso ed i suoi occhioni così tranquilli e fiduciosi mi lasciarono senza fiato.
Gli sorrisi: non potei impedirmelo.
Se non altro avevo un bell'aspetto, ero ancora vestita per la cena, con i miei jeans preferiti ed il mio maglioncino di Benetton. Chissà perché, ma ora che lo avevo davanti ero più intenzionata ad apparire attraente che indifferente.
«Vieni, siediti».
George entrò e con mia sorpresa si sfilò le scarpe, lasciandole vicine all'ingresso. Nessuno lo faceva, a parte noi coinquilini, e rimasi stupita da quel gesto educato. Very British.
Crollò sul divano accanto a me e lanciò un'occhiata alla televisione. «Oddio, questo film mi fa schifo».
«Anche a me», mormorai, «ma non c'era altro».
«Non sei uscita?».
Non volevo dire che Paul aveva vomitato la cena cinese, mi sarebbe sembrato di sputtanarlo e non volevo. «No», mentii, «non avevo voglia».
«Volevo scusarmi per l'altra sera».
Annuii, desiderosa che mettesse quei dieci o quindici metri in più tra noi, su quel divano troppo piccolo. «Me lo hai detto. Non preoccuparti, non importa. Anzi, sono io che mi scuso».
«Per cosa?».
«Paul», risposi. «Si è comportato come un imbecille».
Si strinse nelle spalle. «Era solo preoccupato che potessi provarci con te».
Non riuscii a trattenermi. «E non ci stavi provando?».
Mi fissò a lungo, con quel mezzo sorriso sulla faccia, a metà tra l'ironico e il cortese. Non riuscivo a capire se mi stesse sfottendo o se fosse solo la sua espressione abituale. Non disse nulla per un bel po' e sembrava percepire il mio disagio. Io, dal canto mio, percepivo le sue labbra morbide.
«Certo che ci stavo provando», disse infine.
«Lo sapevo!», esclamai.
«Non ci vuole una scienza per capirlo».
Ovviamente no, ma cos'altro potevo dire? Non volevo chiedergli di non farlo, mi piaceva troppo sentirmi così desiderata, e poi era così favoloso che George mi volesse.
«Dovrei chiederti di uscire da qui», mormorai sovrappensiero.
«Perché non lo fai?», mi sfidò. Con due dita prese una ciocca dei miei capelli e ironizzò: «Che bel colore, mi domando chi te lo abbia suggerito».
Era troppo anche per me e lui era eccessivamente vicino. Anzi, credo che si fosse avvicinato di più man mano che la nostra conversazione si era avviata verso il punto di non ritorno. Ormai mi bastava spostare il collo per dargli una testata. Troppo vicino.
Fu lui a baciarmi: un punto a mio favore. Sentii le sue labbra sulle mie e il mio cervello prese il volo. Addio, intelligenza, addio, maturità. Benvenuti, ormoni impazziti.
Erano così morbide, le sue labbra, esattamente come sembravano. La sua lingua era meno umida di quella di Paul e vorace allo stesso modo. I suoi baffi sferzavano la pelle liscia del mio labbro superiore.
Era una questione di eccitazione. Pura e semplice chimica sessuale, accentuata dai viaggi mentali che mi ero fatta nel corso dei due mesi precedenti. George non era più bravo di altri uomini, eppure l'effetto afrodisiaco che aveva su di me era sconcertante. Perfino il suo odore mi faceva delirare: odorava di shampoo e di sapone, nessuna essenza esotica, nessun Dolce&Gabbana The One a mandarmi in orbita, ma era il profumo migliore del mondo.
Il suo collo non era liscio – era il primo uomo con la barba che baciavo – ma la mia lingua non aveva mai provato più piacere di quando lo esplorò. Lo sentivo respirare nel mio orecchio, ansimante, il fiato caldo sulla pelle e Dio, lo giuro, nulla in quel momento avrebbe potuto trattenermi dallo stringermi convulsamente a lui, dall'aggrapparmi alle sue spalle come se stessi per cadere nel vuoto. I suoi baci erano roventi, lingua, saliva e tutto, vogliosi ed eccitati proprio come i miei, ed erano giusti: giusti come il respiro e l'aria, come la nebbia nella campagna inglese, come la fiamma tremula delle candele quando stanno per spegnersi.
Non pensavo a quello che stavo facendo: non c'erano un prima e un dopo, né Paul e nemmeno Marie che mi diceva di non tradire, c'era solo George, con le sue lunghe ciglia da femmina e gli occhioni piantati nei miei.
Quasi caracollammo in camera mia, baciandoci e stringendoci con tanta foga che colpimmo più volte gli angoli dei mobili. Crollammo sul letto, ansimanti e già sudati, ed io ero pronta a qualsiasi cosa. Lo volevo, dovevo averlo, perché la sua sola presenza nella stanza era per me più eccitante di un porno.
Si spogliò rapidamente, sdraiato su di me, ed io mi sfilai il maglione dalla testa, in fretta perché non volevo perdere il contatto con le sue labbra.
Si rimise in piedi, rosso in viso e spettinato, ma sorridente. Quella sua espressione mise a tacere appena per un momento tutti i miei dubbi e i miei sensi di colpa, perché cosa poteva esserci di sbagliato in quello che facevamo se lo faceva sorridere così? Volevo che sorridesse, volevo che lo facesse perché era felice e desideravo essere io la causa della sua felicità. Sentivo di avere le ciglia umide e ricacciai in gola il groppo che mi impediva di respirare.
Mi artigliò i pantaloni afferrandoli all'altezza delle caviglie e me li sfilò con un colpo secco. Meno male che aveva un preservativo o sarei andata fuori di testa.
Mi portai sopra di lui e giuro su Dio che non avevo mai avuto un bacino agile come in quel momento. Mai avevo fatto sesso con un tale desiderio.
Immaginatevi di fare sogni erotici su una persona per mesi, poi questa persona arriva e vuole farlo. Indipendentemente dalla quantità di partner sessuali che avete avuto si tratta di una situazione estremamente delicata dal punto di vista erotico. Delicata al punto che rischia di essere troppo rapida.

Mi muovevo su George con trasporto, baciandolo ad ogni scatto dei miei fianchi, il seno appoggiato sul suo petto magro; lui era sdraiato, ricambiava i miei baci e mi accarezzava la schiena. Mi venne un brivido quando le sue dita scesero a percorrere la curva delle natiche e risposi prendendogli il volto tra le mani, i polpastrelli affondati nella barba.
All'improvviso lanciò un gemito più forte degli altri ed inarcò la schiena; io mi drizzai a sedere, passandogli una mano sul torace fresco. Lo sentii venire e per un attimo provai una sensazione di calore – calore umano – che con Paul mi era sempre sfuggita, scivolata via tra i gemiti senza che riuscissi a coglierla. Ricaddi su di lui, i capelli riversi ed incastrati tra i suoi.
Restammo abbracciati per un po', in silenzio, ansimanti. L'indice di George percorse la linea della mia spina dorsale ossuta, mentre nel mio orecchio rimbombava il suo cuore.
Poi il criceto che girava nel mio cervello si rimise in moto. L'effervescente momento di intensa libidine era passato, era arrivato il momento di tornare alla realtà.
Accanto a me c'era George, il dolce e brillante George che avevo desiderato di poter avere dal momento in cui lo avevo conosciuto. Era intelligente, era dolcissimo ed era sexy. La mia testa, però, era invasa da immagini di Paul circondato da un alone di senso di colpa senza scampo.
«Cos'ho al posto della testa?», mi chiesi a voce alta.
«Parli di Paul, vero?».
Mi scostai da lui con eccessiva foga, sedendomi sul letto a gambe incrociate e coprendomi il seno con il lenzuolo. Dopo averlo fatto mi vergognavo della mia nudità. Lo guardai sgomenta. «Come puoi essere così tranquillo?», domandai. «Non dovrebbe essere una specie di rivale in amore?».
Da una parte ero felice di sentirlo così pacato, quasi che la sua pace interiore così zen potesse contagiare anche me, ma dall'altra ero molto sospettosa. Doveva esserci qualcosa sotto.
«E perché?», fece George mettendosi a sedere. «Ci sono io a letto con te, mica lui».
«Non sarebbe mai dovuto accadere», tagliai corto. Abbassai lo sguardo, affondando il viso nelle mani. «Oddio, cosa ho fatto?».
«Cosa abbiamo fatto. Non sei da sola in questo casino».
«Vaffanculo, non mi aiuti in questo modo».
Mi passò una mano sul braccio, con tenerezza. Troppa tenerezza, in quel momento ciò che davvero mi avrebbe fatto bene sarebbe stato un pugno in faccia. «Sei preoccupata perché hai tradito Paul».
«Già».
«Glielo dirai?».
Scossi il capo. «Non posso, mi odierebbe».
Ero terrorizzata, atterrita dal peso di ciò che avevo fatto. Eppure era così bello... Come poteva una cosa così favolosa essere sbagliata? Era come essere fedeli alla propria marca di cosmetici e innamorarsi di un ombretto venduto in un altro negozio, solo che questa volta avevo nelle mie mani i sentimenti di due persone. Era una responsabilità eccessiva, che io non volevo affatto.
«Se Paul non lo saprà, non soffrirà», affermai. «Questo è stato un incidente, George, non dovrà capitare mai più».
«Mai più».
«Fingeremo che non sia mai successo».
«Mai e poi mai successo», confermò.
Aggrottai la fronte, senza riuscire a capire cosa gli passasse per la testa. «Non ti infastidisce nemmeno un po'?».
«Léo, se vuoi la verità, eccola», capitolò, le mani che stringevano la sua parte di lenzuolo. «Ciò che è successo stasera è stato bellissimo. Davvero, è stato magico e se tu mi vorrai ancora io verrò. Ma mi rendo conto che tu e Paul state insieme da un po' di tempo e che una sola scopata può non essere poi una grande storia d'amore».
«Ok», mormorai, «continua».
«Se domani tu mi telefonassi e mi dicessi che hai lasciato Paul per me io sarei solo felice», disse George, assumendo quell'espressione da cagnolino abbandonato che mi faceva impazzire. «Però non voglio che tu lo faccia perché ti senti in obbligo a causa di questo», spiegò indicando il letto sfatto. «Voglio che sia perché è quello che vuoi. Mi sta bene fare l'amante, Paul o non Paul. Non guardarmi così, sono serio. Ma non mi va di essere preso in giro. Ciò che voglio da te è onestà e chiarezza».
Sospirai. «Beh, ottimo. Non so cosa voglio».
«Allora faremo come hai detto prima. Paul non lo saprà e noi fingeremo non sia mai successo».
Non volevo. Gesù, non volevo fingere che non fosse successo. Era stata la cosa più bella che mi fosse capitata da mesi, George era la cosa più incredibile e insensata che avessi nella mia vita e non volevo, nemmeno sotto tortura, dire ad alta voce che non c'era stato niente.
C'era stato e cazzo, io ne volevo ancora. Poi mi resi conto di una cosa anche più incredibile e, se possibile, peggiore.
Io volevo che George restasse a dormire. Non a fare sesso, a dormire. E poi volevo alzarmi presto per andare a comprare dei pancakes allo Starbucks non lontano, per portarglieli a letto. E poi volevo stare sdraiata tra le lenzuola sfatte per tutto il giorno, a parlare e ridere e a guardarlo, solo guardarlo.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Mi sentivo una puttana da poco. Paul mi amava, a modo suo, ed io gli avevo fatto una cosa del genere.
Mi voltai, le spalle esposte al suo sguardo bruciante, e appoggiai sul pavimento i piedi ancora nei calzini rosa. Avevo fatto sesso con i calzini, con Paul non accadeva mai: non che fosse scabroso, semplicemente noi non facevamo così. Perché noi non facevamo così?
Scoppiai a piangere, una mano a sostenere le lenzuola e l'altra a coprire gli occhi; dopo un paio di secondi sentii George spostarsi, il materasso ondeggiò. Le sue gambe si affiancarono alle mie, il suo petto premette sulla mia schiena e le sue braccia si avvolsero intorno a me in un modo che di sessuale non aveva niente. Mi appostò un bacio barbuto fra le scapole.
Restammo così per Dio solo sa quanto tempo. Poi lui si rivestì, in silenzio, e si inginocchiò davanti a me per baciarmi. Perché mi baciava, se avevamo appena concordato che tra noi non c'era stato niente?
In quel bacio, in quel misto di lacrime e saliva infuse tutto il trasporto che aveva nel cuore. Potevo percepirlo, sfiorarlo, annusarlo, il suo attaccamento per me. Io non mi mossi, limitandomi a lasciarmi baciare, a subire il suo affetto passivamente.
Poi se ne andò, lasciandomi sola.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***


Nda: Salve! Oggi non ho nulla da dire, se non ringraziare tutti coloro che stanno seguendo la storia <3 Siete la mia gioia. Il capitolo è anche su Wattpad e, come sempre, siete invitati qui: Gaiman in the T.A.R.D.I.S.
E infine *rullo di tamburi* TANTI AUGURI EWAN MCGREGOR
() ALIAS MIO MARITO, GIU' LE MANACCE TUTTE VOI



Capitolo 8.

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Non dissi nulla a Paul. Come potevo? Mentii a tutti dicendo che ero malata, non volevo nessuno intorno. Lo dissi anche a George, anche se credo sapesse perfettamente il motivo per cui volevo starmene da sola.
Come potessi scrivere la tesi in quelle condizioni non lo sapevo, comunque era il caso che mi dessi una mossa se volevo discuterla in estate. Delacroix aspettava e, per la verità, in quei primi giorni di marzo continuò ad aspettare.
Non mangiai molto, non avevo appetito, lo stomaco mi si chiudeva ogni volta che pensavo di dover ingerire qualcosa per non morire. In compenso fumai tutte le sigarette che avevo e anche quelle che comprai in seguito, finché non mi imposi di darmi una regolata o avrei finito i soldi.
Una settimana dopo il disastro, Jacques mi trovò in quelle condizioni: sdraiata sul pavimento della mia camera come un Cristo in croce, una sigaretta tra le labbra e un pacco di appunti su Delacroix tra le mani.
«Beh», commentò fermandosi sulla porta, «almeno non ti fai di ecstasy come Rob».
Non avevo idea di chi fosse Rob, ma non me ne fregava niente. «Non mi farei mai di ecstasy, quella roba non mi merita», replicai asciutta. «Jacques, devo dirti una cosa».
Ridacchiando entrò nella stanza, si sdraiò sul mio letto e si passò una mano sul viso. «Mi metto comodo, sospetto ci vorrà del tempo».
Mi misi seduta, le mani dietro la schiena a puntellarmi contro il pavimento. Ero incredibilmente calma quando risposi: «No, in realtà è molto semplice. George ed io abbiamo fottuto».
Jacques sgranò gli occhi e balzò in avanti, stravaccandosi sul materasso e allungandosi verso di me. «Starai scherzando! Dio santo, perché io non sono mai a casa quando succedono queste cose?».
«Non dirmi che non te l'aspettavi».
«Certo che me l'aspettavo, Léo, ma da un'altra persona! Tu certe cose non le fai».
«Mi sento sporca come una battona».
Fece un sorriso ironico, mettendo in mostra due file di denti dritti. «Le battone non sono poi così sporche come si pensa».
«E tu lo sai bene, eh?».
«Cercavo di tirarti su di morale».
Appoggiai la fronte al bordo del letto, gli occhi chiusi, e quando li riaprii lo fissai come se potesse magicamente regalarmi la soluzione a tutti i miei problemi. «Passerà, vero?».
«Che cosa deve passare?», domandò. «Il senso di colpa?».
No, certo che no, se fosse stato solo senso di colpa avrei potuto anche conviverci. La cosa che più mi spaventava era che avrei potuto rifarlo in qualsiasi momento, avrei voluto rifarlo, perché la sensazione di benessere che mi aveva dato il corpo di George che si muoveva contro il mio era la stessa che avrebbe provato un drogato pieno di eroina.
«L'ossessione», risposi. «Dimmi che passerà».
Per la prima volta da che lo conoscevo, Jacques si liberò del sorrisetto di scherno e mi rivolse uno sguardo dolce, comprensivo; mi accarezzò la frangia scura con la mano piena di cerotti per l'eccessivo Call of Duty e non so dire quanto mi fece bene quel contatto quasi fraterno. «Léo, io e te non eravamo molto in confidenza all'inizio, ma ultimamente ci siamo avvicinati e vorrei dirti una cosa che penso da un po'».
Una lacrima colò fuori dal mio occhio destro e la goccia di mascara cadde sulla trapunta, macchiandola. «Ti prego, dillo».
«Paul non ti piace, o almeno non più come prima. Perché ti ostini a voler rimanere con lui? Non sono cazzi miei, ma mi viene spontaneo chiedermelo».
«Beh, perché sarebbe una decisione sbagliata».
«Perché sbagliata?».
A quella domanda avevo una risposta pronta. «Hai presente quando una cosa ti piace da matti, ma sai benissimo che tra un mese non ti piacerà più?».
Lui annuì.
«Ecco, George ora mi sembra un dio, ma rimpiangerei la calma che provo con Paul».
«Eppure stai qui a rimescolarti le budella pensandoci».
«Ma chi cazzo sei, il mio psicanalista?».
Si passò la lingua sulle labbra con espressione ferina. «Crogiolati nella tua autocommiserazione, allora».
Lo fermai prima che se ne andasse; era l'unica forma di vita che tollerassi, al momento, perfino Marie sarebbe stata oggetto della mia furia omicida se si fosse presentata lì in quel frangente. Jacques era diverso dagli altri, era l'unico amico un po' cazzone che avessi, così tremendamente giusto in quello che diceva, l'unico che avrebbe potuto restarmi accanto in quel casino.
«Aiutami», lo supplicai.
Si spostò e si sedette sul pavimento accanto a me, circondandomi le spalle con un braccio. «Non posso e lo sai benissimo».
Mi strinsi contro di lui, desiderando di seppellirmi viva nella sua spalla e nella sua felpa che puzzava di sintetico. «Voglio George, lo voglio qui e adesso, ma ogni volta che ho questo pensiero la mente vola subito a Paul e mi sento una merda».
«E...?».
«E Marie mi ucciderebbe, se glielo dicessi. Mi consiglierebbe di lasciare Paul, a questo punto, e di iniziare una storia seria con George perché secondo lei sarebbe giusto così». Sospirai, sfregandomi una guancia con la mano per scacciare le lacrime silenziose. «Io le voglio bene, è la mia migliore amica, ma non mi capirebbe mai».
«Tu una storia con George non la vuoi?».
Mi strinsi nelle spalle. «No. No, io...», esitai. «Non credo. Insomma, lui è fantastico, ma io sono diversa. Io sono il tipo di ragazza che si mette con gente come Paul».
«Tu sei il tipo di ragazza che si etichetta da sola, evidentemente».
Mi rilassai contro il suo braccio. «Voglio solo stare meglio. Sono in crisi, non riesco a pensare ad altro. E ho fame».
Mi guardò sorridendo. «Vuoi un panino? Dai, sì, sarà una figata, andiamo a mangiarci qualcosa».
«Sono le undici di sera».
«Il McDonald's chiude alle tre, abbiamo tempo».
Dopo giorni di digiuno, mi ritrovai seduta ad un tavolo di plastica gialla che puzzava di patatine e ingurgitai non uno, ma due McMenu. Jacques mangiò il suo Happy Meal in silenzio, fissandomi ridacchiando.
Fuori pioveva a dirotto. Vedevo le gocce di pioggia illuminate dal lampione crollare pesantemente sull'asfalto appena fuori dal locale; desiderai anche io poter crollare sull'asfalto, magari dal dodicesimo piano di un qualche edificio. Almeno avrei smesso di pensare.
«E dire che prima di fare sesso non abbiamo parlato molto», commentai.
«Uhm?», fece Jacques da sopra il suo bicchiere di Coca Cola.
Tornai a fissarlo, distogliendo lo sguardo dal diluvio fuori dalla finestra. «Intendo dire che quasi non ci conosciamo. Lui non sa niente di me ed io so di lui solo quello che è saltato fuori dal suo canale di Youtube».
Lui si pulì le labbra con il tovagliolo. «Magari poi scopri che è un gran bastardo...».
«Esatto».
«...e che fa così con tutte, vi adesca fingendosi piccolo e carino e poi ve lo mette nel culo con allegria».
Inarcai un sopracciglio e incrociai le braccia, ma annuii con un sorriso. «È vero».
«Io scherzavo».
Ma io no. Mi passò per la testa l'immagine di una scimmia danzante in un circo: cazzo, avrei voluto essere io, quella scimmia, con un addestratore che mi dicesse cosa fare, quando e come, e una libertà sessuale che solo un bonobo potrebbe avere. Mica si fanno problemi, i bonobo, lo fanno e basta senza drammi o ripensamenti.
«Paul viene a cena domani sera», lo avvertii.
«Wow, quanta felicità nella tua voce».
Mi passai una mano sulla fronte; avevo un mal di testa da paura. «Non so se riuscirò a guardarlo in faccia».
«Sai mentire meglio di chiunque altro, vedrai che ci riuscirai benissimo, Léo».
Fissai il vassoio di plastica, chiedendomi fino a che punto la mia fosse una qualità di cui andare fiera.


 

***

 

Paul ed io chiacchierammo per tutta la cena. Forse per reazione al mio disagio, mi comportai in maniera esemplare, la perfetta fidanzatina amorevole. Ogni tanto gli presi perfino la mano nella mia, cosa che non avveniva dall'alba dei tempi.
Guardammo un film, La verità è che non gli piaci abbastanza, e mi lasciai coccolare da lui come mai avevo fatto prima, raggomitolandomi come un gattino tra le sue braccia da uomo saldo, le ginocchia al petto e le dita intrecciate alle sue. Era come se, nascondendomi contro di lui, potessi sentirmi meglio con me stessa e con il resto del mondo.
Poi ci chiudemmo in camera da letto.
Avevo il cuore a mille, mi batteva così forte nel petto da farmi stare male. Ed era così, stavo male perché al posto delle mani di Paul che mi sganciavano il reggiseno avrei voluto che ci fossero quelle di George, stavo male perché i suoi baci erano troppo umidi, stavo male perché improvvisamente mi mancava la sensazione della barba sulla pelle. Paul non aveva il suo odore, non aveva il suo respiro, non sapeva di buono allo stesso modo.
Mi costrinsi a pensare che andava tutto bene. Dovevo mantenere la calma o avrei mandato tutto quanto a farsi benedire. Allora perché, mentre le sue mani risalivano sul mio seno, mi sentivo soffocare?
Si portò sopra di me, in un modo sensuale e perfetto, dico davvero, perfetto, ed io mi sentii come affogare. Mi mancava l'aria, il mondo parve comprimersi sopra di me, intorno a me, dentro di me, come se volesse schiacciarmi. Serrai gli occhi, perché tanto lui, il volto chinato a baciarmi la clavicola, non mi avrebbe nemmeno notata.
Paul era troppo alto, troppo muscoloso e troppo vicino. Nella mia stanza faceva troppo caldo, Dio, perché era così caldo e soffocante lì dentro? Ero sudata, mi sentivo morire.
Lanciai un grido, dimenticandomi che c'era altra gente in casa, ma nessuno avrebbe potuto scambiarlo per un urlo di piacere. Era una richiesta d'aiuto, rauca e violenta, e Paul si staccò subito da me.
«Oh, merda», ansimò. «Ti ho fatto male? Scusami, ti prego! Non volevo! Dove ti fa male?».
Ovunque, avrei voluto rispondere, mi fa male ovunque e da nessuna parte. Invece rimasi in silenzio ed artigliai il lenzuolo con le dita, le membra irrigidite e la bocca spalancata nel tentativo di ricevere più aria.
Non riuscivo a respirare e la poca aria che ingerivo bruciava, mi stava dando fuoco ai polmoni come se fossero imbevuti di benzina. Ed io sarei morta, sarei proprio morta. Ne ero certa, stavo morendo, nessuno mi avrebbe salvata ed avevo così paura, così dannatamente paura che avrei anche ucciso, pur di liberarmi di quella sensazione. La vista iniziò ad appannarsi, mentre sentivo che il mio cuore batteva troppo forte, perché batteva così forte? Se avesse accelerato ancora un po' sarebbe esploso di sicuro.
Non avevo mai avuto un attacco di panico prima di allora e ne rimasi così scossa e spaventata che mi misi a piangere a dirotto. Di nuovo, come se non avessi pianto abbastanza in quei giorni.
Paul, il sollecito, adorante e adorabile Paul, si fiondò al mio fianco, muovendo le mani in aria davanti alla faccia come se non sapesse cosa fare del mio corpo. «Amore, che cos'hai?».
Non riuscivo a parlare, non avevo più voce, ma lui era un uomo intelligente e capì quale fosse il problema – anche se, per fortuna, non comprese cosa avesse causato la mia improvvisa paura.

«Ascolta, piccola, lasciamo stare per stasera», mi disse con dolcezza. «Anzi, lasciamo stare per un po'. Sei stressata, lo capisco, con il tuo studio e tutto il resto».
Annuii.
«Quando ti sentirai pronta e avrai voglia di rifarlo, io sarò qui per te. Va bene?».
Annuii tra le lacrime. Gesù santo, possibile che dovesse per forza essere gentile? Lo odiavo e allo stesso tempo avrei voluto baciarlo. Paul era perfetto, era l'uomo giusto ed io lo stavo buttando via per... Per cosa? George? Per favore.
Non avevo bisogno di farmi compatire, né di essere coccolata. Mi serviva uno schiaffone in faccia, invece Paul si comportò da vero cavaliere. Perché? Se mi avesse insultata sarei stata meglio, invece lui mi amava. Me ne resi conto del tutto solo in quel momento, nonostante ogni tanto me lo avesse già detto in passato.
Nel modo distorto e un po' strano in cui Paul Duval sapeva amare, aveva scelto di amare me. Me, che non meritavo altro che disprezzo da parte sua. Se gli avessi confessato il mio tradimento in quel preciso istante, prima che fosse troppo tardi, sarei stata una persona migliore?
Inutile domandarselo, perché non gli dissi proprio niente. Una piccola parte di me continuava ad accusarlo di non essere abbastanza. Un'altra parte mi diceva che ero stupida a non capire quanto fossi fortunata. Una terza parte pensava a George e continuava a fare ingiusti paragoni.
Paul se ne andò dopo che mi fui calmata; fui io a cacciarlo via, perché non volevo nessuno con me, avevo bisogno di spazio e di aria. Ero così spossata che avrei dovuto chiudere gli occhi e dormire per ore, avrei dovuto anelare il sonno come nient'altro al mondo.
Invece mi misi in piedi, infilai i jeans e un paio di beatles ed uscii di casa. Non avevo bisogno di stare al chiuso, in un appartamento dove il riscaldamento andava a palla e nel quale non c'era ossigeno. Mi serviva la frizzante aria della sera, erano solo le dieci ed avevo tutto il tempo del mondo.
L'idea era di prendere la metro per chissà dove e lo feci, in effetti: le mani nelle tasche del cappotto, scesi nella stazione di Bercy e presi il primo treno che potevo. Fu un caso, una mera casualità, lo giuro: salii sulla linea 6 per il Trocadéro; lì presi la 9 per Saint-Augustin.
Conoscevo il suo indirizzo perché me lo aveva detto lui, una volta. Mi sentivo una davvero una troietta mentre, dopo essermi infilata nel portone principale alle costole di un inquilino, salivo le scale della palazzina, eppure ero singolarmente tranquilla per essere una che stava per strozzarsi durante un rapporto sessuale. Il fatto è che quella cosa, l'attacco di panico, mi aveva aperto gli occhi su quello che mi ci voleva. Era l'unica cosa e, per quanto orribile o riprovevole, desideravo solo quello. Non importava quanto mi sarei sentita in colpa, dopo. Se non lo avessi fatto avrei continuato ad ossessionarmi e l'unico modo per capire qualcosa nel groviglio di pensieri che avevo in testa era andare da lui.
Quando suonai il campanello fui certa che fosse in casa; non so perché, ma me lo sentii, come se avessi avuto un magico neurone onnisciente – uno solo, perché gli altri erano bruciati durante la nostra prima volta.
Era buio, nel corridoio, ed era buio anche oltre la porta dopo che lui l'ebbe aperta. Ebbe appena un paio di secondi per guardarmi, rivolgendomi un'espressione sorpresa, come se non mi aspettasse, con quei suoi occhi azzurri come il ghiaccio, ma caldi come il fuoco ed i suoi capelli lunghi che per una volta erano in ordine.
«Léo?», fece in tempo a mormorare.
Gli afferrai la maglietta e lo avvicinai a me, appoggiando le mie labbra sulle sue, la lingua che subito cercò quella di lui. Lui levò le braccia in alto, sorpreso, ma ricambiò il mio bacio e non fece resistenza quando lo spinsi ad appoggiare le spalle allo stipite.
Ci baciammo a lungo, come due liceali, nell'oscurità del condominio, sfiorandoci e toccandoci come se avessimo paura. Il suo naso si scontrava con il mio e il mio respiro si fondeva con il suo. Incastrai le dita tra le sue ciocche scure, gli occhi chiusi e asciutti, senza lacrime, mentre le sue mani passavano sul mio collo come per impedirmi di scivolare via.
Si piegò sulle ginocchia e mi sollevò da terra, senza smettere di baciarmi, e per quanto mi facessi schifo quello era troppo bello, troppo sicuro, troppo tutto perché potessi smettere. Gli avvolsi le gambe intorno alla vita e lui serrò la porta di casa con un piede, chiudendo fuori anche Paul, Marie e tutti gli altri. Per un po' riuscii a dimenticare chi fossi io, beandomi solo di lui.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. ***


Nda: Brevemente. Questo è un capitolo circa all'in quasi di transizione, anche se forse in realtà no... Dimenticatevi quello che ho detto please. Comunque ringrazio come al solito tutti coloro che seguono la storia, grazie grazie grazie <3 La storia, come sapete, è anche su Wattpad.
Ricordo di nuovo l'esistenza di codesto: Gaiman in the T.A.R.D.I.S.


Capitolo 9.

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Mi svegliai presto, la mattina dopo, così presto che la luce che filtrava dalla grande finestra in sala era ancora grigia. Scesi dal letto in silenzio, i calzini che scivolavano sul pavimento cerato – così démodé che potevo quasi chiamarlo vintage – e scivolai fuori dalla camera. George dormiva ancora, in un groviglio di lenzuola.
Lo guardai per un po', restando sull'arco che separava la stanza da letto dal resto della casa. Respirava sommessamente, sdraiato a pancia in giù, , un braccio ripiegato sotto il cuscino e l'altro allungato dalla mia parte di letto come se stesse ancora abbracciandomi la schiena; dalla coperta spuntavano le sue spalle nude. Lo fissai per alcuni minuti, per poi rendermi conto che non avrei voluto fare altro che quello per tutta la mattina.
Vagai un po' per la casa: era solo un bilocale, ma aveva un certo stile e ad ogni passo non potevo non sentire e vedere George in tutto ciò che c'era.
Nella libreria bianca dell'Ikea nella stanza principale c'erano i suoi libri, da George Orwell alla saga de Il signore degli anelli; in un angolo, appoggiata al muro, la sua chitarra in mezzo a fogli sparsi ricolmi di parole. Alle pareti era pieno di fotografie con amici e parenti, viaggi e ricordi, non c'era un solo quadro impersonale. Perfino nella pila di National Geographic che sosteneva un vaso con un grasso cactus c'era lui.
Nella minuscola camera in cui avevamo dormito era la stessa cosa: la Canon che stava sul cassettone, il poster di Howl, l'orsetto di pezza seduto sul davanzale; perfino l'assenza di comodini era lui, era lui.
Tutto in quella casa era George ed io mi sentii così desiderosa di farne parte. Volevo esserci anche io, volevo che lui condividesse il suo spazio con me. Che aprisse il suo mondo a me, perché sembrava pieno di colori. George era tutto un colore, non come me, non come Paul, non come il resto del mondo, noi eravamo piccoli esserini grigi che non meritavano l'attenzione di nessuno.
Se penso a quanto fossimo diversi mi viene da ridere. Mi viene in mente un episodio, all'ultimo anno di liceo linguistico, in cui un tipo come George mi si era presentato chiedendomi di uscire. Si chiamava Tommaso, lo ricordo ancora. E ricordo anche di avergli riso in faccia ed averlo sputtanato alla grande con i miei amici. Dio, ero stronza da morire.
George era come Tommaso, eppure io lo desideravo così tanto da piangere. Anche in quel momento, guardando il letto, tutto quello che volevo era nascondermi sotto le coltri con lui e guardarlo dormire.
Mi infilai il maglione, mi sedetti su un tavolo appoggiato alla grande vetrata e aprii uno dei vasistas. Senza pensarci troppo mi accesi una sigaretta, soffiando il fumo nell'aria di una Parigi ancora assopita.
Avevo avuto modo di pensare, non avendo chiuso occhio tutta la notte mentre lui dormiva, ed ero giunta ad una conclusione: potevo convivere con il senso di colpa e con il disprezzo per me stessa, se significava avere George. Certo, non ero pronta a lasciare Paul, perché ero sicura che con quell'inglesotto non sarei stata felice, a lungo andare. Avrei dovuto prendere tutta quella storia per quello che era: un'avventura piacevole e basta. In futuro sarei stata ovunque: Parigi, con Paul, o magari da tutt'altra parte da sola ed avrei ripensato a George come ad un grande amore romantico e passionale, iniziato e finito tanto rapidamente quanto un fiammifero che si spegne.
Paul non avrebbe mai dovuto saperlo: finché fosse durata con George, nessuno avrebbe mai dovuto anche solo sospettare la tresca. Jacques sarebbe stato la mia valvola di sfogo, il mio unico confidente, e tutto sarebbe andato bene.
Bene per me, almeno: nell'involucro di egoismo che mi ero costruita nelle ore prima dell'alba non avevo pensato ad altri che a me stessa. Avrei dovuto chiedermi cosa ne avrebbe pensato lui, George, ma mi imposi di non farlo. Non potevo mandarmi in pappa il cervello un'altra volta, non dovevo arrovellarmi su pensieri come quello.
Udii uno scalpiccio alle mie spalle e mi voltai. Lui era lì, con indosso solo un paio di boxer neri ed il suo corpo magro che ammiccava verso di me. I suoi piedi nudi si mossero sul pavimento mentre si stropicciava gli occhi, ancora assonnato, ed i capelli... Oh, merda, quanto mi piacevano. È inutile negarlo, ero arrivata al punto che perfino il suo essere così disordinato mi piaceva, non in modo sessuale, ma perché era una caratteristica tutta sua, tutta di George.
«Buongiorno», mi salutò, la voce impastata. Allungò una mano e mi sfilò la sigaretta dalle labbra, aspirando una lunga boccata. Soffiò il fumo dal naso ed io lo fissai imbambolata come se avesse appena sconfitto il cancro.
«Buongiorno», dissi a mia volta riprendendo la sigaretta.
George si appoggiò al tavolo con la mano, le dita a sfiorare la pelle delle... beh, delle mie chiappe, dopotutto sotto il maglione ero in mutande. Guardando fuori dalla finestra commentò: «Ti ho messo i pantaloni in bagno».
«Grazie».
Abbassò lo sguardo su di me e sorrise sornione e ironico. «Imbarazzata?».
Non potei impedirmi di sorridere a mia volta per la tranquillità disarmante con cui parlava di certe cose. «Ovviamente».
«Pentita?».
«No», ammisi con sincerità. «E tu?».
Fece una smorfia, stringendosi nelle spalle. «No, come potrei?». Si chinò a baciarmi una spalla attraverso la stoffa, poi si allontanò verso il piano cottura. «Vuoi un caffè?».
Il suo appartamento era costituito da tre soli ambienti: un bagno e una camera da letto che comunicava attraverso un arco con una grande sala che serviva a tutto, cucina, salotto e soggiorno. Così mi limitai a ruotare sul posto e a lasciar penzolare i piedi nel vuoto mentre lui andava verso la cucina.
«Come sarebbe “vuoi un caffè”?», lo interpellai. «Non vuoi parlarne?».
Riemergendo dal pensile dove teneva i grani da macinare mi lanciò uno sguardo incuriosito. «Tu vuoi parlarne? Perché mi era parso di capire che volessi evitare l'argomento, sai, per via di Paul».
Sbattei le palpebre, incerta, e abbassai lo sguardo sui suoi piedi nudi. «Non lo so. Sì, vorrei evitare l'argomento, ma... Ecco, io...».
«Pensi che sia mio dovere chiederti delucidazioni a riguardo?», chiese con ilarità nella voce prendendo due tazze. «Léo, andiamo, sono un uomo adulto. E non sono stupido, so che non lascerai Paul».
Come poteva saperlo? Leggeva nella mente come Severus Piton? Premetti il mozzicone ormai inutile nel posacenere. «E non ti importa?».
«D'accordo, evidentemente devo essere più chiaro», affermò. «A me importa di te. Tu mi piaci, mi piace farlo con te e da un lato tutta questa segretezza ha il suo fascino. Che ci sia o che non ci sia Paul, io sarei felice di continuare a farlo».
«Ma sei umano?».
Finse di non sentire. «Però prendi una decisione, o iniziamo questa storia oppure no. Mi va bene il triangolo amoroso, ma se c'è una cosa che non sopporto è di non sapere cosa fare».
«Che vuoi dire?».
«Non intendo accettare che tu ti presenti a casa mia per poi andartene senza sapere nemmeno se abbiamo una storia oppure no. Prima mi dici che non dobbiamo più parlarne, poi piombi qui e quasi mi violenti sulla porta».
Arrossii, ma avevo capito il ragionamento.
Ciò che più mi mandava in confusione era la mia incapacità di conciliare l'immagine del cucciolo ferito che avevo davanti con quella di amante consapevole che lui mi stava fornendo. Davvero a George andava bene così? Era qualcosa che aveva dell'incredibile, non riuscivo a capirlo.
Al posto suo io non sarei mai e poi mai stata felice.
Lui comunque sembrava molto sicuro di sé, mentre mi si avvicinava tutto baldanzoso con due tazze fumanti in mano. Io, dal canto mio, mi sentivo più tranquilla pur non essendo del tutto a mio agio.
Certo, se Paul non lo fosse mai venuto a sapere non avrebbe sofferto, anche se mi sentivo comunque uno schifo al pensiero di tradirlo. Però le mani di George erano così calde e morbide e la sua risata piacevole, perfino la sua voce con quella tonalità che detestavo non era poi troppo male.
Verso le otto del mattino iniziò a piovere; George ed io restammo a letto, le coperte tirate fin sulla testa come bambini, a parlare e a baciarci.

 

***


Il feng shui consiglia di cambiare la disposizione dei propri mobili per ottenere una maggiore armonia nella casa e tra le persone che ci vivono; io non avevo voglia di spostare le cose in camera mia, così decisi che avrei spostato le mie abitudini e incominciai a studiare in una delle biblioteche dell'ateneo.
La mia ritrovata pace interiore molto filosofica mi permise di fare passi da gigante con la mia tesi, per la cui conclusione ormai mancava davvero poco. Vorrei dire che stavo iniziando a detestare cordialmente Delacroix, ma la verità è che ad ogni parola letta lo adoravo sempre di più.
Mi sedevo sempre allo stesso posto: era uno dei tavoli più piccoli ed era talmente lontano dall'entrata che erano in pochi a prendersi il disturbo di arrivare fino là, così potevo studiare in santa pace.
Avevo un callo in un dito, l'anulare destro. Il “callo dello scrittore”. C'è gente che ne va fiera e ostenta la propria vita da amanuense mostrando in giro quel coso duro e aspro come fosse un premio, io però odiavo che stesse sulle mie soffici manine. Stavo proprio guardando il mio ditino un po' gonfio quando una voce alle mie spalle mi fece trasalire.
«Léo?».
Mi voltai di scatto: due libri in mano e lo sguardo sorpreso, c'era Marie. La mia amica Marie, alla quale non avevo più scritto o telefonato per una lunga settimana, da quando io e George lo avevamo fatto per la prima volta. La mia sorella adottiva che avevo cercato di non incrociare in tutti i modi.
La verità è che Marie sa leggermi come nessun altro. Non è una cosa da “oh, mio Dio, lei è la mia bff e siamo troppo in sintonia, la lovvo tanto”, è che per lei sono proprio un libro aperto, lo sarei anche se ci odiassimo. Le basta leggere un mio messaggio o guardarmi di sfuggita per un nanosecondo per capire se qualcosa non va.
Per questo non le avevo più parlato e, ritrovandomela di fronte con quell'espressione a metà tra lo sconcerto e la rabbia, non potei non sentirmi tremendamente a disagio.
«Marie, ciao», dissi con un sorriso, fingendo nonchalance. Sono brava a mentire alla gente, ma non certo a lei.
Appoggiò i libri sul tavolo a poca distanza dal mio braccio, ma non si sedette, guardandomi con i suoi occhioni da cerbiatto. «Mi stai evitando?».
«No», risposi. «Dio, no, perché mai dovrei farlo?».
«Non ti ho più sentita».
Mi spostai un po' per farle posto sulla panca. «Sono stata malata, te l'ho detto».
Piantò le pupille nelle mie così profondamente che mi sentii scavare nell'animo. «Davvero? Insomma, è tutto ok?».
Non mi piaceva l'idea di raccontarle frottole, prima di tutto perché lei era così una brava ragazza che sarebbe stato come rubare ad un bambino; in più stavo già mentendo a Paul, dire bugie anche a lei mi avrebbe fatta sentire davvero sudicia.
Sospirai, non avevo molte alternative alla menzogna. «No. No, non è tutto ok».
Si accomodò con le gambe verso il corridoio, appoggiando la schiena al tavolo, e serrò le sue labbra carnose tinte di rosso in una smorfietta comprensiva. «Tesoro, per questo non mi hai più cercata? Perché qualcosa non va?».
Annuii. Era più forte di me, non riuscivo a dirle cazzate.

«Con me puoi parlare di tutto, le amiche servono a questo».
Decisi che, se non potevo mentirle, avrei senza alcun dubbio potuto omettere parte della verità: così saltai a piè pari tutto ciò che riguardava George, non dissi nulla del nostro incontro a casa mia, né del fatto che gli fossi piombata tra capo e collo due notti prima. Mi limitai a confessare: «Due giorni fa ero con Paul, stavamo per farlo ed io sono stata male».
Aggrottò la fronte. «Male?».
«Mi mancava l'aria, mi sentivo soffocare», spiegai. «Credevo di essere sul punto di morire».
«Oh, Léo!», esclamo Marie, gettandomi le braccia al collo.
Affondai il naso nella sua spalla, sentendomi ancora peggio rispetto a prima. Per quanto ancora sarei riuscita a nasconderle la verità? George ed io saremmo stati insospettabili, nessuno avrebbe mai potuto scoprirci a meno di non leggere i nostri messaggi, ma Marie aveva questo ascendente su di me.
Per la prima volta da quando quel bordello del cazzo era iniziato, mi sentii terrorizzata. Non era quella paura cieca e senza uscita che mi aveva colta insieme a Paul, non era triste e nemmeno claustrofobica. Era peggio, perché era razionale, alle spalle quella paura aveva una spiegazione e quella spiegazione si chiamava “ti abbiamo beccata, Eleonora”. Ero così spaventata all'idea che potessero scoprirci che forse, se fossi stata un pochino più intelligente, avrei troncato tutto con uno dei due – anche se non sapevo quale fosse meglio allontanare.
Scostandomi da Marie mi sentii malissimo. Lei era lì a consolarmi, a dirmi che andava tutto bene, quando in realtà non andava tutto bene e la stracazzo di colpa era solamente mia, mia e di nessun altro. Non di Paul, che in tutto quello che stava capitando era una vittima, non di George, che era cosi dolcemente preso da me che si sarebbe fatto calpestare i testicoli, per avermi. Era mia; ed io avevo ancora la faccia tosta di farmi coccolare da un'amica.
“Non merito niente”, pensai con sgomento. “Niente di niente, da nessuno. Forse il karma mi punirà facendomi espellere con disonore dalla Sorbona due giorni prima di discutere la tesi”.
«Da cosa credi sia dipeso, quel brutto momento?», domandò lei.
Voleva proprio parlarne, eh? Sospirai. «Non lo so», cercai di eludere la sorveglianza delle sue antenne da mamma chioccia, inutilmente.
Marie non ci credette nemmeno per un secondo; mi sarei aspettata che mi gelasse sul posto con una delle sue famose occhiate, invece sorprendentemente disse: «Forse hai bisogno di una serata tra amiche, che ne dici? Potrei chiamare Nicole e vedere se è libera dopo il lavoro, magari andiamo a mangiarci qualcosa in centro e poi al cinema».
Non avevo bisogno di Nicole e stare bloccata in un cinema con Marie mi metteva in agitazione, visti i recenti sviluppi, ma annuii. «Non so come ringraziarti».
«Io ti voglio molto bene», rispose. Poi, con una punta di rammarico, mormorò: «Ti conosco, Léo, so che centra George. Può essere solo quello».
Anche se aveva colto nel segno mi sentii un po' offesa, come se mi considerasse una specie di oca il cui chiodo fisso è il cavallo dei pantaloni di un uomo. «Oh, andiamo!», sbottai. «Perché pensi subito a lui?».
«Perché fino a due settimane fa tu eri ossessionata da George», rispose lei pacatamente, fissandomi con l'aria di chi la sa lunga, «e quindi è improbabile che un po' di febbre ti abbia fatto cambiare idea. E poi con questa tua reazione mi hai solo dato una conferma».
Mi ero appena data la zappa sui piedi da sola – una zappa britannica, certo, ma era pur sempre una zappa. Senza volerlo, contravvenendo a qualsiasi legge non scritta riguardo i problemi di cuore, sorrisi divertita, per un momento di nuovo serena. «Ah, merda, hai ragione», concessi.
Marie inarcò un sopracciglio con un sorrisetto. «Lui ti piace, eh?».
“Più di quanto tu creda, cara”. «Sì, certo», mormorai, «ma è solo una sbandata momentanea, passerà».
«Questo non elimina il problema “Paul”».
«Con lui voglio aggiustare le cose, non voglio che soffra a causa mia». Era vero, vedere il suo sguardo risentito e ferito era l'ultima cosa che volevo. Quanto all'aggiustare le cose, beh, era probabile che finché mi fossi sforzata di amarlo almeno un po' forse saremmo stati bene. «Non me la sento di lasciarlo, starebbe troppo male e non posso davvero fargli una cosa del genere».
«Beh, questo vuol dire che almeno un po' ci tieni. Se non ti importasse, non staresti qui a farti problemi».
Non avevo bisogno di chiederle come stesse lei con Jeannot. Erano così leziosi e stucchevoli da far salire il diabete a chiunque, ma erano anche così carini che perfino io avrei versato una lacrimuccia nuziale per loro. Se non altro Marie era felice, il che, per riflesso, mi faceva sentire un po' più gentile e pulita.

 

***


Non cercai di fare l'amore con Paul, quando lo vidi nella pausa pranzo il giorno dopo. Ero ancora troppo fresca dal messaggio di George che diceva “Sono nella vasca, devi venire a fare il bagno con me o un mostro mi mangerà!” ed ero ancora scottata dall'ultima volta che mi ero trovata pigiata sotto il suo corpo grande. E poi mi sarebbe sembrato troppo orrendo, troppo difficile.
Lui, se possibile, con il suo modo di fare premuroso ed accogliente mi fece sentire ancora peggio.
Cucinò per me: era una cosa che non faceva quasi mai, diceva di non essere molto bravo, perciò capii che era un'occasione speciale quando entrai nel suo appartamento – avevo perfino le chiavi di casa sua – e un profumo di verdure al vapore mi investì.
Se tra me e George non ci fosse stato ancora nulla di fisico, è probabile che la visione di Paul con un grembiule rosa affaccendato intorno al fornello posto sull'isola al centro della cucina mi avrebbe resa scoppiettante di affetto. È probabile che avrei scordato George per un po', in quel caso.
Peccato che tra me e lui qualcosa di fisico ci fosse stato e quando Paul abbandonò per un momento la pentola dell'arrosto per venire a baciarmi desiderai di poter bollire insieme alla carne.
Il tavolo era perfetto, con le posate di Maison du Monde e la tovaglia di lino di Mathilde M., le candele profumate e i piatti del servizio buono. Non avevo mai nemmeno sospettato l'esistenza di quegli oggetti perché lui ed io mangiavamo quasi sempre fuori o ci facevamo portare qualcosa a casa.
«Paul, hai fatto tutto tu?», domandai ammirata.
«Ho pensato che avessi bisogno di ricaricarti».
Lo fissai a lungo mentre si sedeva a sua volta, sollevando il bicchiere per l'aperitivo prima di pranzo. Fissai i suoi bellissimi occhi scuri, il suo sguardo sereno e pacato, tranquillo. Paul era tranquillo, tutto in lui faceva pensare alla calma e alla stabilità. Alla sicurezza. Sì, Paul era il tipo d'uomo tra le cui braccia una donna, qualunque donna, può sentirsi amata e protetta da tutto. Era vecchio stile, è vero, aveva una concezione molto personale della “donna emancipata”, ma non lo faceva con cattiveria. Era buono e voleva solo occuparsi di me.
In questo George difettava. Lui non si sarebbe mai occupato di me, avrebbe fatto in modo che ci leccassimo le ferite vicendevolmente. Oh, non mi avrebbe mai negato il suo aiuto, qualsiasi cosa mi fosse capitata, ma sapevo che avrei barcollato al suo fianco. Mi voleva adulta, forte e indipendente: non lo ero.
Non sono mai stata particolarmente brava a stare in piedi sulle mie gambe. Ci ho provato una volta, quella sera a capodanno, e guardate com'è finita. In questo Paul rispondeva molto meglio di George alle mie necessità. In un certo modo sarei stata molto più alla pari con il mio amante britannico – come suona bene, la parola “amante” – piuttosto che con il mio fidanzato, ma a me piaceva farmi coccolare. È una cosa sbagliata? Era più forte di me.
«Grazie, amore», risposi con un sorriso. «Credo di aver avuto una piccola crisi di nervi, non è nulla di preoccupante. Piuttosto, scusa se ti ho mandato in bianco, sai».
«Hey, non pensarci nemmeno, capita», affermò prendendomi la mano. «Non c'è nulla che non sopporterei per la mia professoressa».
Fanculo. Il mio castello di bei motivi per cui mai e poi mai avrei dovuto mollarlo crollò sotto il peso di quella parola, ironica e leggera eppure così importante per me.
Avevo trovato un difetto al mio youtuber, ebbene eccone uno di Paul: non avrebbe mai dato al mio lavoro e ai miei sogni il valore che vi avrebbe attribuito George.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. ***


Nda: Questo è un capitolo decisamente di transizione, ma serviva per iniziare ad introdurre un po' di cose su Marie. Leggete e vedrete. Al solito vi dico che a storia è anche su Wattpad.Ringrazio naturalmente tutti coloro che mi seguono sulle due piattaforme, siete davvero speciali <3 E informo chi fosse interessato che sto lavorando ad un'originale di genere storico che ha come ambientazione la Guerra di Indipendenza Americana. Se poi vi andasse fate un salto qui: Gaiman in the T.A.R.D.I.S.
P.S. Fatemi sapere che ne pensate del nuovo banner! :3


Capitolo 10.

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Ci sono momenti nella vita in cui pensi di non voler essere da nessun'altra parte, in cui vorresti essere proprio dove sei, in quel momento, in quel luogo.
Quel pomeriggio io non avrei fatto a cambio con nessuno. Volevo essere proprio sul suo divano, nel suo appartamento, a guardare un film vecchissimo e dagli effetti speciali scadenti, con George che indossava un maglione grigio e i pantaloni della tuta, mentre fuori il mondo si muoveva e andava avanti.
«Io ti fermerò!», disse Flash Gordon.
«Puoi provarci, ma non ci riuscirai», disse l'imperatore Ming.
«Che razza di film», dissi io.
George scoppiò a ridere. «Ma dai! È una pietra miliare, non puoi non vederlo almeno una volta nella vita».
Gli lanciai uno sguardo incredulo. «Sul serio? Flash Gordon è una pietra miliare? George, non so come ti vengono certe idee».
«Devo prestarti i fumetti, sono anche meglio del film».
Sorrisi e non replicai, sdraiandomi sul divano e allungando i piedi sulle sue gambe. In tv Flash stava per ingaggiare la lotta finale al malvagio imperatore dell'universo, mentre dentro di me io stavo ingaggiando la lotta finale per non saltare addosso a George prima dei titoli di coda.
Mi faceva ancora lo stesso effetto, era eccitante proprio come il primo giorno. Mi era passata per la mente l'idea, dopo esserci accordati quasi a tavolino su come avremmo dovuto comportarci, che il fatto di poterlo avere quando e come avessi voluto avrebbe fatto scemare ogni desiderio. È come vedere un bel vestito in una vetrina, sul momento lo adori e c'è quel magico istante in cui la commessa ti passa la busta di carta che lo contiene oltre il bancone, per non parlare della sensazione di benessere e autocelebrazione che provi alla prima festa in cui lo indossi. Poi il vestito finisce nell'armadio e ti dimentichi di averlo.
Con George non era accaduto. Ogni volta era meglio della precedente, ogni sguardo, ogni contatto, ogni bacio: non riuscivo a farne a meno. A volte mi bastava anche solo guardarlo, come in quel momento. Il fatto che fosse lì con me, concentrato su un film noioso, la possibilità che avevo di stare con lui su quel divano, in silenzio, i gomiti che si sfioravano quasi per caso: era magico.
Allungai la mano e intercettai uno dei suoi riccioli, arrotolandolo intorno al mio dito; lui scostò il capo, ridendo e sfuggendo al mio tocco. Tornai all'attacco cercando di fargli il solletico, salvo scoprire che non gli dava il minimo fastidio.
«Ti hanno mai detto che sei sexy mentre guardi la tv?», mormorai languidamente.
George ridacchiò. «E a te hanno mai detto che diventi davvero molesta quando non hai voglia di guardare la tv?».
Sbuffai, fingendomi offesa. «Sei proprio noioso», mentii con un sorriso.
George non cedette alle mie richieste di attenzione nemmeno quando gli appoggiai un piede sulla guancia. «Bei calzini», si limitò a commentare.
«Te li presto, se vuoi! So quanto desideri dei calzini con le roselline».
Nella televisione, la principessa Aura rotolò per terra sotto le spinte di Dale Arden e per un momento ebbi la mezza idea di spingere George giù dal divano solo per infastidirlo. Poi decisi che era troppo bello mentre stava lì a fissare Flash.
Non era solo sexy, in quel momento, e non aveva nemmeno l'aspetto di un cucciolo di foca qualsiasi. Era bello, era perfetto, era un uomo. Per me era ogni cosa, in quell'istante, era nulla ed era il mondo.
«George?», domandai d'istinto. «Quando hai dato il tuo primo bacio?».
Aggrottò la fronte. «Perché?».
«Voglio saperlo. So tante cose di te, ma non questa».
«Io di te non so quasi niente, ma non è che mi lamenti».
Mi drizzai a sedere a gambe incrociate, dandogli una spintarella su una spalla. «Non me la dai a bere, lo so che ti importa di me anche se fingi il contrario. La storia del freddo calcolatore non attacca».
Spostò lo sguardo su di me, di colpo così serio e malinconico che per un attimi ebbi paura di aver detto qualcosa di male, anche se ripensandoci non avevo certo insultato sua madre. «Freddo calcolatore, eh?».

“Ti senti punto sul vivo, amico?”. Annuii con l'espressione smorfiosa e petulante. «Sì, esatto. “Io sono George Addison e mi sta bene far parte di un triangolo”. Ma per favore».
Mi squadrò con... Non direi che fosse astio, forse solo un po' di voltastomaco. «Sei così gentile, Léo, specialmente dall'alto della tua onestà. Ci sei dentro quanto me in questa cosa e non sono certo io a tenere i piedi in due scarpe».
Sospirai, passandomi una mano sul viso. Non avevo iniziato quella conversazione per litigare, senza contare che litigare con George era praticamente impossibile. Non alzava mai la voce, figuriamoci arrabbiarsi. Diciamo che stavamo per gettarci in un battibecco e mai, dico mai battibeccare con il proprio amante, non serve a niente.
«Ok, lasciamo perdere, è meglio».
Mi lasciai ricadere sullo schienale, stendendo le gambe sul pavimento. Mi resi conto con sgomento che si era venuta a creare una di quelle spiacevoli situazioni in cui non volevo nemmeno essere toccata. C'era disagio nell'aria, tutta la tranquillità di poco prima era svanita ed entrambi guardavamo un film senza che ce ne importasse più molto.
Incrociai le braccia. Avrei dovuto scusarmi, lo sapevo, perché forse avevo davvero toccato un tasto dolente senza saperlo. Però quello che aveva detto era orribile. Sì, a ben pensarci era lui che doveva scusarsi con me, figuriamoci. Quella frecciatina sul tenere i piedi in due scarpe non la meritavo, no di certo.
Non volevo stare lì seduta a non far niente, specialmente dopo che era stato lui, e non io, ad avere avuto l'ultima parola. Avrei dovuto averla vinta a tutti i costi, dovevo dimostrarmi superiore a certe imbecillità.
Mi alzai dal divano senza dire nulla, mentre nello schermo imperversava una battaglia spaziale con l'aiuto degli uomini-falco, e mi avvicinai alla finestra per fumarmi una sacrosanta sigaretta. Aprii il vasistas quasi come un'automa, mi sedetti come al solito sul ripiano e mi accesi la Marlboro.

Non era mia intenzione stare arrabbiata con George. Ci si arrabbia con i fidanzati, con i mariti, con le persone con cui si cerca di costruire un rapporto solito e duraturo. Non con l'amante, non con “l'altro”, perché suo ruolo è quello di distrarre e rilassare, non di agitare. Eppure mi sentivo chiamata in causa, era come se ci tenessi all'opinione che George aveva di me, anche se non avrebbe dovuto importarmi affatto.
Ci tenevo davvero, Dio santo, eravamo qualcosa di più che semplici amanti, un po' più di due amici che scopano. Il nostro rapporto era pericolosamente emotivo e non riuscivo ad accettare di sentirmi così esposta al suo volere.

Sobbalzai quando sentii la sua mano su una spalla. Non mi ero nemmeno accorta che si fosse alzato – drizzando le orecchie potevo sentire la sigla finale cantata dai Queen – e trovarmelo così vicino era una scoperta un po' violenta.
«Ho dato il mio primo bacio a dodici anni», lo udii mormorare alle mie spalle.
«Non mi interessa», sbottai.
Spensi il mozzicone ormai finito nel posacenere. Feci per scendere dal tavolo, ma lui me lo impedì e si portò tra le mie gambe. «Ascoltami», disse. Non era una supplica, né una domanda, era come dire “ciao”. Era calmo, non più stizzito: forse fu questo a farmi obbedire. «Non avevo praticamente idea di quello che stavo facendo, lei era più grande di me e aveva perso una scommessa».
«Una scommessa?», ripetei. Non era mia intenzione dargliela vinta e ridere, ma mio malgrado sorrisi.
Lui annuì, senza scomporsi. «Non è stato male, voglio dire, per quel che potessi capire mi parve carino. Credo».
«Credi?».
«Pensandoci ora, in realtà fu piuttosto squallido. Eravamo in un bagno pubblico e lei non si dimostrò particolarmente gentile».
Gli spostai un ricciolo dalla fronte. Ero ancora arrabbiata, ma mi sentivo in un qualche modo confortata dalle sue mani sui miei fianchi e dal suo fiato vicino alle guance. «Che ha fatto di male?».
Piantò i suoi occhioni azzurri nei miei e giuro, avrei voluto annegare nel mare profondo che c'era nelle sue iridi. «Io non volevo baciarla, nemmeno mi piaceva, così lei mi ha preso a schiaffi». Per la prima volta da quando mi ero alzata dal divano lo vidi sorridere, le labbra piegate in una posa mesta.
«Wow», commentai. «Audace».
«Già», concesse. «Voleva proprio vincere la scommessa. E il tuo? Dimmi del tuo primo bacio».
Gli passai le braccia intorno al bacino e lo feci avvicinare di più a me. «Tredici anni, con il fidanzatino delle medie. È stato carino, un po' bavoso forse».
Scoppiò a ridere, strappandomi un'improvvisa sensazione di benessere. «Come sarebbe “bavoso”? Che cosa significa?».
«Pieno di saliva, Mr. British», lo presi in giro. «Io avevo l'apparecchio ed era il primo bacio per entrambi. Sono quasi sicura che si sia fatto spiegare come si fa dal fratello maggiore».
«Carino».
Ridacchiai contro le sue labbra, sempre più vicine. «E la prima volta che lo hai fatto?».
«Vuoi sapere anche quello?».
«Dai, fammi giocare come si deve», mormorai con voce lamentosa. «Obbligo o verità, vedi tu cosa preferisci».

Sospirò. «D'accordo, come ti pare», capitolò. «Ehm, la prima volta? La primissima?».
«Assolutamente».
Si passò una mano fra i capelli, reclinando il collo da un lato. «Quella è stata proprio romantica, ti assicuro. Lei si chiamava Cynthia, stavamo insieme al liceo».
«Uh, roba seria».
«Serissima. Era la prima volta per tutti e due, volevamo farlo entrambi da tempo, anche se c'era sempre qualcosa che ce lo impediva. Comunque un pomeriggio andai a casa sua e capitò e basta».
«Bello?».
«Certo, anche se probabilmente sembravo uno gnomo infoiato».
Ammiccai ridacchiando. «Come un Hobbit?».
Finse di offendersi. «Porta rispetto, ragazzina».
«E dopo Cynthia?».
George fece spallucce, riflettendo. «Dopo di lei c'è stata qualche storiella, alcune durate un po'. E tu?».
Roteai gli occhi. Mi piaceva avere risposte, ma non avevo altrettanta voglia di rispondere. «La mia prima volta ha fatto schifo, cerco di pensarci il meno possibile».
«Come? Non è stato come nei tuoi sogni principeschi?».
«Per niente!», esclamai ridendo. «Stavo con questo tizio, Michele, da qualcosa come due mesi e non vedevamo l'ora di fare sesso. Tutte le mie amiche lo avevano già fatto, figurati cosa potevo pensare io. Mi sentivo troppo sfigata. E poi mi ero fatta un sacco di viaggi mentali convinta che fosse la cosa più bella del mondo».
«E...?».
«E niente. Non ho mai avuto neanche un orgasmo con lui, anche se immagino fosse colpa di entrambi, eravamo troppo inesperti e giovani, io avevo solo quindici anni. Scopavamo come ricci, ma nessun episodio degno di rilievo».
«Parli come fossi una vecchia saggia».
«Prima di tutto io non diventerò mai vecchia», lo sgridai con un sorriso, «e comunque sono davvero molto saggia».
George mi baciò. Non sono sicura se stesse cercando di zittirmi o fosse solo una dimostrazione di affetto, ma non si butta mai via niente. Agganciai un polpaccio intorno alle sue gambe e lo attrassi di più, sdraiandomi sul ripiano.
A nessuno dei due importava di essere vicini alla finestra, eravamo troppo in alto perché qualcuno ci notasse. Mentre le sue mani quasi danzavano sul mio corpo non potei fare a meno di rendermi conto che, per quanto lo volessi negare, non sarei mai stata in grado di considerare George solo un amante.

***

C'è questa serie di episodi, in Sex and the City, in cui Carrie fa le corna a Aidan andando a letto con Big e la cosa si protrae finché lei non si fa schifo da sola – e finché Natasha, la moglie di Big, non si spacca i denti cadendo dalle scale, ma sono dettagli.
È ironico paragonarmi a Carrie? È presuntuoso? Il fatto è che mi facevo davvero un po' schifo guardandomi allo specchio. C'erano momenti della giornata in cui, durante le pause tra un capitolo della tesi e l'altro, mi sentivo così male da desiderare di scomparire dalla faccia della terra. La gente allora avrebbe detto: “Ah, povera Léo, la conoscevo bene” e tutti si sarebbero dimenticati della faccenda in men che non si dica. Paul avrebbe pianto per un po', ma non era nel suo carattere disperarsi troppo a lungo, mentre Marie e i miei genitori sarebbero stati inconsolabili. George, beh, non ero affatto sicura di che cosa ci fosse tra noi. Non sapevo se sarebbe stato distrutto o solamente un po' triste.
Poi però c'erano anche momenti in cui un suo sms bastava a illuminarmi tutta. Mi sentivo risplendere di luce propria, era come se nella sua capacità di essere buono George migliorasse un po' anche me.
Ed era davvero buono. Non ingenuo, intendiamoci, nonostante l'aspetto indifeso e ferito non era nato col salame sugli occhi. Era una brava persona e basta. Io invece mi sentivo così cattiva e crudele che mi sarei strappata i bulbi oculari nei momenti di debolezza.
Eppure ero così presa, dannatamente presa da lui che era diventato come l'aria. Era ossigeno nei miei polmoni, era luce per la mia pelle, energia per la mia mente. Era una continua scoperta ed era anche come se lo conoscessi da sempre, era sexy e un po' sfigato insieme. Era ogni fibra del mio essere, era ciò che non potevo diventare e ciò a cui tendevo come un girasole rivolto verso il cielo.
Ero così innamorata che restavo senza fiato al pensiero.

***

Una sera andai con Marie all'Irish Pub: ce n'è uno a Montmartre, sul boulevard de Clichy – la stessa via del Moulin Rouge, per intenderci. In effetti l'idea era proprio quella di andare a vedere uno degli spettacoli in quel bel teatro così bohemien, ma giunte sul posto decidemmo che eravamo troppo snob – e troppo povere – per entrare, così risalimmo la via fino all'Irish.
Era uno strano Irish, quello dove entrammo, perché invece delle solite luci soffuse e dell'odore di birra e panini trovammo luci stroboscopiche – e odore di birra e panini, quella non ce l'avrebbe tolta nessuno. E il karaoke.
Dovete sapere che Marie ha una specie di feticcio per il karaoke, è un po' come la forza di gravità per lei: non può sfuggire al suo volere, ovunque si organizzi una serata karaoke la mia amica verrà attratta da una forza fisica invisibile verso il locale dove si canta.
Non riuscii nemmeno ad ordinare una Corona, Marie semplicemente caracollò verso il palco trascinandomi con lei verso il più profondo baratro di vergogna, con la scusa di “Ma hanno Ça ira di Joyce Jonathan! Cantiamola, ti preeeeego” ed io mi sentivo già abbastanza brutta e cattiva, non potevo dirle di no.
Così mi ritrovai su un palco che di solito ospitava band emergenti, un microfono in mano e la faccia di una che proprio non ci voleva stare, lì, mentre Marie accanto a me saltava come una pazza e agitava i capelli in pose provocanti – molto imbarazzante, considerando che Ça ira è tutto meno che provocante.
Quando ripiombammo su uno dei tavoli, dopo un applauso immeritato – io invece di cantare avevo sussurrato e Marie aveva strillato come un'oca – ordinai finalmente la mia birra e lei si fece portare un hamburger delle dimensioni di una nave rompighiaccio.
«Questa carne è il massimo», biascicò dopo il primo morso. «Giuro, mai mangiato meglio, nemmeno da Céline Cous Cous».
«Dici la stessa cosa ad ogni panino», ridacchiai, «dovresti davvero rivedere la tua idea di fedeltà».
Mi resi conto di quanto suonasse cretino un commento del genere, emergendo dalla mia bocca, ma non dissi niente. Marie non sapeva e non doveva sapere.
«Allora», dissi dopo un momento di riflessione e un paio di sorsi di birra. «Di che mi volevi parlare? Nel messaggio dicevi che era una questione molto urgente».
All'improvviso Marie dimenticò del tutto il suo hamburger. «Oh, mio Dio. Non hai idea di quanto sia importante».
Cercai di invitarla a continuare a parlare con lo sguardo. «Ok. Quindi?».
«Si tratta di Jeannot».
Ero sorpresa, anzi, ero sconvolta. Loro due insieme erano la mia certezza, è come sentirsi dire che Tim Burton ed Helena Bonham Carter si separano. «Tu e Jeannot siete in crisi?».
Scosse il capo. «No, figurati, è solo che l'altro giorno stavamo parlando di un possibile futuro e, tra un discorso e l'altro, è capitato che parlassimo di andare ad abitare insieme».
Esitai. «Insieme».
«Non dirlo come se fosse una bestemmia!».
Le rivolsi un sorriso ironico. «Io non sono molto per le convivenze con i fidanzati».
«Non mi interessa, siamo qui per parlare di me». Finse un broncio, ma non era realmente arrabbiata. «Ok, senti qua. Sua madre non vuole assolutamente che lui venga a vivere con me. Ti rendi conto?».
Storsi le labbra nel tentativo di estrarre le ultime gocce dalla bottiglia di vetro senza strozzarmi con il limone. «Io credevo che sua madre ti adorasse».
«Evidentemente mi adora finché ognuno sta a casa sua».
«Hai una macchia di kechup sul labbro».
Mi ignorò. «Jeannot dice che appena avrò finito di studiare prenderemo insieme un appartamento, non importa con quali soldi. Già, perché se lui verrà con me pare che i suoi gli taglieranno i fondi, nonostante ne abbiano da buttare via. Io non so che fare, Léo, non voglio che vada contro la sua famiglia».
Aggrottai la fronte. So di sembrare egoista, il fatto è che ero più contenta di parlare dei suoi problemi piuttosto che dei miei; non che le augurassi nulla, sia chiaro. «Marie, tu gli hai forzato la mano?».
«No».
«Allora è una sua scelta, non credi?».
Sospirò, assumendo un'aria tutta triste e ferita. «Io voglio solo Jeannot, capisci? Potremmo anche finire a mendicare sotto un ponte, basta che ci sia lui».
Era quello che avrei dovuto desiderare anche io. Perché non ci riuscivo? Le presi la mano e la strinsi, nel vano tentativo di sembrare incoraggiante. «Marie, tu ed io ci laureiamo in estate. Mancano mesi. Di qui ad allora vedrai che le cose cambieranno in meglio».
La vidi annuire mentre in sottofondo due ragazzi cantavano Set Fire to the Rain in falsetto. «Lo spero davvero, Léo. Questi sono i momenti in cui farei a cambio con te e Paul».
Scossi il capo. «No, non lo faresti».
Mi guardò con espressione mesta e fui sul punto di dirglielo. Per la prima volta da quando quella storia era iniziata ebbi la tentazione di aprire il mio cuore a lei, dimentica di tutta la delusione che avrei letto nel suo sguardo, per dimostrarle che era dannatamente fortunata a provare un sentimento così travolgente per il fidanzato – e non per un altro uomo.
Invece non dissi niente, limitandomi ad accostare la sedia alla sua e ad abbracciarla più forte che potevo; non sono sicura se quell'abbraccio fosse per me o per lei.




Nda2: FLASH! AHHHHHH SAVIOUR OF THE UNIVEEEERSE! FLASH! AAAAAAH HE'LL SAVE EVERYONE OF UUUUS!
Chiedo scusa ma Flash Gordon lo amo da quando ero piccola. Dicevo che sarei diventata anche io un guerriero spaziale hahahahaha :')

 
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Capitolo 11
*** Capitolo 11. ***


Nda: Ciaaaao. Spenderò poche e brevi parole: Come di consueto trovate la storia anche su Wattpad. In più trovate dei nuovi contenuti sul blog Gaiman in the T.A.R.D.I.S.
Ringrazio come sempre tutti coloro che mi seguono, che recensiscono o anche solo leggono le mie parole: significa veramente molto per me <3


Capitolo 11.

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«Come mi devo mettere?».
«Beh, sdraiati, no?».
«Sdraiarmi come?».
«A pancia in giù sul materasso».
«Questa cosa si fa strana».
«Oh, sarà rapido e indolore».
Mi rendevo conto di quanto avrebbe potuto apparire ambiguo il nostro discorso alle orecchie di un estraneo; il fatto è che eravamo entrambi nervosi, George ed io, per motivi diversi. Lui prese un bel respiro, si passò una mano tra i capelli e fece come gli avevo chiesto. Si coricò sul letto sfatto, tra le lenzuola bianche, completamente nudo. Aveva le spalle così tese che se ci avessi lanciato contro un sasso sarebbe rimbalzato.
Appollaiata su uno sgabello alto, le dita dei piedi nudi contratte per la concentrazione, mi mordicchiai il labbro inferiore. Erano anni che non facevo niente del genere ed il mio cuore batteva così forte che mi sembrava dovesse scoppiare. Appoggiai la tela sulla mia coscia scoperta, tenendola ferma con la mano sinistra, e con la destra strinsi il carboncino che mi stava già macchiando le dita.
Esitai a lungo, nel silenzio assoluto della camera da letto, il debole rumore dell'orologio appeso sopra la cappa del fornello nell'altra stanza che giungeva ovattato. Feci per appoggiare il carboncino sulla tela, poi lo ritrassi e lo riavvicinai di nuovo.
Disegnare George era difficile. Tutti, con un po' di allenamento, sono capaci di rappresentare qualcuno per com'è, ma non sono molti coloro che sanno trasferire su un foglio bianco l'anima delle cose, che sanno osservare al di là della pelle e dei tendini e delle ossa e riescono a dipingere l'essenza.
Io non ero un'artista e non ero affatto capace di tirare fuori ciò che la gente ha dentro. Ci stavo riprovando dopo molto tempo e le mie dita fremevano mentre stringevano tela e carboncino. Era una strana emozione, un connubio di nervosismo e felicità.
Non ero del tutto sicura della ragione per cui avevo comprato quelle cose: guardai per un attimo i pennelli e i barattoli con i colori che stavano intorno a me sul pavimento, in attesa. Era capitato e basta: George mi aveva appena mandato un messaggio così ironico e allo stesso tempo romantico da farmi camminare a due metri da terra, proprio mentre passavo davanti ad una cartoleria. Era stato pensando a lui che avevo visto la tela e senza pensarci l'avevo presa.
«Rilassati», mormorai.
«Non l'ho mai fatto», si giustificò George.
Era di sbieco rispetto a me, né di fianco e nemmeno di fronte, così non poteva voltare la testa e guardarmi; ma io ero sicura che stesse arrossendo come una scolaretta al primo ciclo.
Fu con quel pensiero che iniziai a tracciare le prime linee. Fino a pochi anni prima sarei partita dalla curva delle natiche, perché era piuttosto facile da riprodurre, invece scelsi di partire dalla posizione quasi innaturale del collo.
Millimetro dopo millimetro, respiro dopo respiro il disegno prese forma. Scesi lungo le spalle, disegnando la schiena magra, le braccia ripiegate, le lenzuola che gli coprivano parte del fianco; del viso vedevo poco, solo il mento e la punta del naso, la tempia nascosta dai capelli castani.
«Piega le gambe, ti va?».
Lui annuì. «Come?».
Riflettei un momento, silenziosa. «Come se stessi leggendo un buon libro mentre fuori piove». Sapevo che non era esattamente un comando preciso, ma ero sicura che avrebbe capito al volo.
Sollevò i piedi, accavallandoli all'altezza delle caviglie, come una di quelle attrici di film tipo Grease quando parlano al telefono con l'amica del cuore. Ripresi a tracciare dei segni sulla tela: le ginocchia un po' ossute, i peli delle gambe. Sul polpaccio destro aveva una cicatrice che non avevo mai notato, dovevano avergli dato parecchi punti.
«E quella?», domandai. «La cicatrice, dico».
«Quando avevo undici anni sono stato al mare in vacanza per un'estate con gli zii. Mio cugino era più grande ed io gli stavo sempre attaccato, ero costantemente in mezzo alle palle e i suoi amici non mi volevano».
Mi fermai un momento, sorpresa, anche se non sconvolta. «Ti sei fatto picchiare?», domandai ridendo.
Lo udii ridacchiare e le spalle si mossero. «No, santo cielo, però facevano cose da grandi. Si tuffavano dagli scogli e volevo farlo anche io, così un giorno prendo coraggio e mi butto. Peccato che ci fossero delle rocce anche sotto, mi sono squarciato la gamba».
Sorrisi, ma non risposi, limitandomi a tracciare la linea della cicatrice sul disegno. Non volevo fargli i capelli al carboncino, così lo lasciai cadere sul pavimento e mi chinai a recuperare i colori.
Appoggiai i vasetti sul cassettone, domandandomi quali avrei usato. La luce nella stanza arrivava dalla finestra alle mie spalle, era grigiastra perché fuori pioveva e l'intero ambiente aveva un'aria molto alternativa alla Tumblr, sarebbe stato perfetto per una fotografia. Non per me, però, non per dipingere lui.
Ciò che volevo fosse chiaro a tutti, fin dal primo momento in cui la gente avesse posato gli occhi sulla tela, era che George era meraviglioso. Che era brillante, intelligente, che aveva una voce propria con cui gridare al mondo “Io sono qui”. Dovevano comprendere che lui era più di un culetto stravaccato su un materasso sfatto, più di una barbona da talebano. Comunque fosse finita tra noi, nel bene o nel male, indipendentemente da quanto tempo fosse durata, avrei dovuto guardare quel disegno e dire “Questo è lui”. L'intimo sguardo che gli stavo lanciando avrebbe dovuto rimanere impresso nei secoli dei secoli. Non avrebbe dovuto morire mai.
Cominciai a mescolare i colori su una tavolozza, senza nemmeno guardare quali assurde tonalità stessero saltando fuori, e quando intinsi il pennello continuai a fissare George. Non un punto in particolare, ma lui in generale.
Qualcosa di pacato per le pareti, un color bianco latte per le lenzuola. Rosso, molto rosso per la cicatrice perché quella era un ricordo. Il corpo divenne un tripudio di colori forti, accesi, violenti, che sembravano avere una personalità. Blu, azzurro, ocra, borgogna, verde pallido. E poi un color mogano, una macchia color mogano per i capelli, come se stessi aggredendo la tela e volessi bucarla con il pennello, come per dire che la sua testa era piena di idee.
Mi passai una mano su una guancia e mi sporcai la pelle ed i capelli sfuggiti allo chignon, ma non mi importava. Con la china ripassai le ombreggiature e i contorni, senza firmare.
Finito.
Dopo un tempo che mi parve interminabile, tesi le braccia per allontanare la tela dagli occhi e paragonarla a George.
Non voleva essere somigliante, anche se in effetti lo era abbastanza. Ciò che emergeva era uno scoppio di colore, come se avessi lanciato un pacco di tubetti di tempera contro un muro. Un colore, un'idea, un atteggiamento, un pensiero.
Ammettiamolo, George aveva un cervello incasinato di brutto, il tutto racchiuso in una bolla di raziocinio. Sembra un controsenso, ma se ci pensate non lo è. Insomma, quale persona sana di mente si sarebbe lanciata in un rapporto a tre senza battere ciglio? E al tempo stesso rimanendo lucida, per giunta. Solo George poteva farlo.
Anche il disegno era incasinato di brutto, ma aveva i suoi margini ben definiti che trattenevano l'esplosione. Non ero sicura che gli altri, guardandolo, avrebbero capito, ma io sì. Io sì, perché io lo conoscevo.
«George?».
«Uhm?».
«Ti puoi alzare, se vuoi».
Si sedette con le gambe verso di me, le mani sul materasso e un bel sorriso, in evidente attesa. Non ci voleva un genio per capire che voleva vedere il mio lavoro. Sollevò le sopracciglia ammiccando con ironia e mi rivolse un sorriso a mille denti.
Scossi il capo. «No, dai, aspettiamo che sia asciutto».
«Una sbirciata?».
Era già stato un grande passo rimettermi a dipingere, ma far vedere l'opera finita a un'altra persona dotata di occhi per guardare sarebbe stato un po' troppo. «George, no».
«Ma io sono il modello!», protestò ridendo. «Rientra nei miei diritti».
Mi grattai la guancia dove mi ero accidentalmente pitturata, il colore iniziava a seccarsi. «È molto personale».
«Devo essere sincero», commentò George. «Quando ti ho vista la prima volta mi sei sembrata molto sicura di te. Insomma, una biondona con un vestito al livello della vagina con l'aria di una che ti spellerebbe vivo».
«Ma...?», incalzai con un mezzo sorriso.
«Ma ora te ne stai lì, nuda sul mio sgabello, stringendo un disegno che non mi vorrai mai far vedere perché hai paura. Di cosa, poi, non lo so».
«Ho un animo tormentato», feci con ironia. Qualcosa dovevo concedergli, però. «Lo vedrai, promesso».
Dopo avermi fissata per un po', l'espressione di George mutò e divenne più seria. Si piegò in avanti e allungò una mano; io appoggiai un piede sul suo ginocchio e lui iniziò a giocherellare con le mie dita.
«Dipingerai anche per Paul?».
Non mi aspettavo quella domanda. Mi chiesi quale risposta volesse. «Oh, non so. Penso di no. Perché me lo stai chiedendo?».
Si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe che restasse una cosa nostra. Cioè, se vuoi farlo per i tuoi amici e per te stessa va benissimo, ma per lui no».
Fermi tutti: era una piccola crepa nella sua maschera di cera, quella? Allora non era poi così freddo e calcolatore. Da un certo punto di vista lo trovai quasi divertente e per un momento, solo uno, la vecchia Eleonora prese il sopravvento, la versione di me che sfotteva i ragazzini indifesi, e gli risi in faccia. Però non riuscivo ad essere cattiva con George, non quando mi guardava in quel modo, come se non volesse ammettere di essere solo un po' geloso.
«Non lo avrei fatto comunque», affermai con sicurezza. Volevo dargli ciò che voleva, ma anche mantenere un profilo basso. «Lui non capirebbe mai». Il che era vero.
Soddisfatto, sorrise. Uno di quei sorrisetti infantili che fanno i bambini alla vista di una farfalla in giardino.

 

***


Non dovevo mentire troppo, nei giorni che da marzo ci portarono ad aprile, perché Paul ed io avevamo ripreso a scopare. Badate bene, sto usando il termine “scopare” perché “fare l'amore” non è esatto. Lui faceva l'amore, in quel modo sensuale e premuroso che avevo sempre adorato e nel quale infondeva tutto se stesso. Io scopavo.
E mi piaceva farlo: mi piaceva di nuovo. Tutto mi piaceva di nuovo, le mie vecchie décolletée nere, la macchia di umidità nel muro in salotto, perfino la gente che si sbaciucchiava sui sudici sedili della metro non mi infastidiva troppo. Non ero dell'idea che fosse il cambio di stagione, ero convinta che fosse una questione di ormoni. Stare con George mi stava cambiando.
E così insieme a tutto il resto ripresi ad avere rapporti con Paul. In un certo senso la nostra storia non era cambiata molto, era piuttosto ritornata ad essere quella dell'anno precedente, prima del casino, prima di capodanno. Ci vedevamo, parlavamo, facevamo sesso e ci sentivamo sofisticati. Una cosa devo ammetterla, l'inizio della mia relazione adulterina aveva quantomeno dato uno scossone alla relazione ufficiale: tra le mie crisi isteriche da pazza e la perfezione inumana di Paul, beh, si era aggiunto un po' di pepe.
Mettendomi con George avevo ritrovato la tranquillità e con essa era tornata la dolce abitudine che mi legava a Paul. Per tornare quella di prima avevo dovuto cambiare me stessa: ironica la vita, eh?
Non pensate che io avessi smesso di sentirmi una baldracca da balera. Dopo averlo fatto con George non volevo vedere Paul per un paio di giorni e viceversa. A volte, nel bilocale di Saint-Augustin, le labbra incastrate nella barba del mio amante e le sue mani calde che mi sfioravano il viso, capitava che restassimo a fissarci, illuminati solo dai lampioni e dai fari delle auto fuori dalla finestra. In silenzio, stavamo affondati nel materasso coperti solo dal piumone, ascoltando le gocce di pioggia contro il vetro o il passaggio delle macchine. Per ore, senza poter dormire.
Credo che per George fossero i momenti migliori; per me erano quelli più lugubri, perché passate l'euforia e la passione io ritrovavo per un momento me stessa e non riuscivo a smettere di chiedermi: “Cosa ho fatto?”.
Altre volte piombavo in camera di Jacques piangendo, a notte fonda e un po' brilla e mi addormentavo accanto a lui sul suo letto.
Lui e Marie stavano avendo la loro dose di problemi. Jacques aveva iniziato a pensare che le donne, in realtà, non gli piacevano poi troppo e che nulla lo mandava in orbita quanto il suo amico Manuel. E lei, la mia amica, la mia migliore e più fidata amica era terrorizzata all'idea di essere rimasta incinta.

 

***


«Vedrai che non sei incinta».
«Beh, potrei!», insistette lei, le labbra tremule e impastate di saliva. «Non posso restare incinta, non posso essere incinta!».
Piangeva da ore, inconsolabile. Eravamo sdraiate nel suo letto, lei era ancora in pigiama, il che era un pessimo segnale. Marie detestava i pigiami come nient'altro al mondo. Anche tra le lacrime era bellissima, solo che Jeannot non poteva vederla. Gli aveva detto di avere la mononucleosi per tenerlo lontano.
«Devi dirglielo», mormorai sistemandomi meglio sul materasso. Le cinsi le spalle con un braccio. «Ha il diritto di saperlo».
Scosse il capo, agitandomi i capelli sul naso. «Lo saprà. Se sono davvero incinta glielo dirò».
«Dovresti dirglielo ora, Marie, dico davvero».
Mi sentivo ipocrita e meschina, me ne stavo lì a blaterare di diritti quando io stavo facendo a pezzi quelli di due persone. Ma non lo dissi, per una volta avevo lasciato i miei drammi fuori dalla porta della stanza.
Quando ero entrata, dopo che la sua coinquilina mi aveva chiamata dicendo che dovevo andare lì subito, avevo trovato la camera da letto messa a soqquadro. Marie è quella classica personcina che tiene tutto sempre in ordine, quella con i peluches sulla mensola e l'orologio fatto a gattino, le pareti melensamente rosa e non un granello di polvere sui suoi oggetti perfetti. Eppure non appena misi un piede dentro pestai una lattina di birra – come se le donne incinte potessero berla, la birra. La stanza era in penombra, la finestra sprangata e una puzza di chiuso tale da farmi sentire linda e pulita come non mai.
Lei mi si era presentata come un fagotto sotto le coperte. Era possibile che non si alzasse dal letto da tre o quattro giorni. Mi ero infilata tra le coltri con lei senza nemmeno doverci pensare.
«Se rimango incinta», sospirò, «voglio abortire».
Annuii. Io ci sarei stata se ne avesse avuto bisogno. «Va bene».
«No! Non dirmi che va bene, non va bene», sbottò. «Non posso abortire, insomma, non potrei mai...».
«Marie, magari non sei incinta, ma gli sbalzi d'umore li hai di certo».
Avevo cercato di fare una battuta, per drammatizzare. Ottenni solo di farla di nuovo piangere. «Fanculo!», gridò da sotto il piumone, abbandonandosi ai singhiozzi.
«Quanto ritardo hai?».
«Dovevano venirmi intorno a domenica».
«Domenica scorsa?». Era solo giovedì.
Ancora più disperata, lei pigolò: «Quella prima!».
Feci due calcoli: erano dodici giorni. Era un ritardo niente male, ma Colette, l'ex fidanzata di Max, studiava medicina e una volta, quando stavano ancora insieme e lei usciva con noi, mi aveva detto che le donne non hanno un ciclo completamente regolare fino ai venticinque anni. Non so se sia vero, però in quel momento volli credere che lo fosse.
«Hai fatto un test di gravidanza?».
«Ho troppa paura», ammise sconsolata. «E poi non sono affidabili, quelli dove devi pisciarci dentro».
«Puoi far analizzare le urine in laboratorio o fare un esame del sangue», proposi. «Direttamente in farmacia. Poi mi farai una delega e andrò io a prendere il risultato, così se ti vergogni non dovrai farti vedere».
Scosse il capo così violentemente che agitò il letto. «No, non voglio, no».
«Senti, non per farmi i cazzi tuoi, ma tu e Jeannot lo usate il preservativo?».
«Certo, ma... Insomma, potrebbe essere capitato di tutto».
Era vero, ogni cosa poteva essere andata storta e forse lei era davvero incinta. Magari avremmo avuto un mini-Jeannot per casa. Marie si sarebbe laureata con il pancione e i professori l'avrebbero capito al volo, solo guardandola in viso, che era stato un incidente. La conoscevo, non l'avrebbe tollerato.
Preferii rimanere in silenzio, perché Marie era una vera testona e non avrebbe avuto alcun senso ripeterle che non poteva sapere, se non aspettando o facendo un test. Qualunque cosa avessi detto le sarebbe scivolata addosso, tutto quello che potevo fare era volerle bene e stringerla come avrebbe fatto una sorella.
Mi venne a prendere Paul verso le undici, dopo che finalmente ero riuscita a mettere Marie sotto la doccia e a farle mangiare qualcosa. Ero stata tentata di fermarmi da lei, ma sembrava stare meglio quando la salutai. Aveva ancora gli occhi arrossati e un forte mal di testa, ma sorrideva. Mi promise che avrebbe chiamato il suo fidanzato immediatamente e, conoscendola, lo avrebbe fatto davvero, perché manteneva sempre le promesse.
In auto, mentre scivolavamo via lungo le strade di Parigi per andare a casa di Paul, non potei non chiedermi cosa sarebbe successo se fossi stata io, quella nella sua situazione. Come avrei fatto, se mi fossi scoperta in dolce attesa? O meglio, amarissima attesa, perché se fossi stata incinta avrei avuto un doppio problema, la gravidanza e la paternità del bambino.
Mi passai le mani sul ventre, come a dirmi che il mio utero era protetto da una doppia cinta muraria. Per un attimo nella mia testa si presentò la divertente immagine di un gruppetto di cavalieri piccolissimi che costruivano il loro castello nella mia pancia, con tanto di fossato e stendardi. L'idea passò dall'essere simpatica all'essere inquietante e perversa, così la scacciai chiudendo gli occhi.
La mano di Paul si spostò dalla leva del cambio al mio polso e lo strinse, sorridendomi. Dolce, caro ed ingenuo Paul, che mi guardava con la coda dell'occhio con quell'aria innamorata. Non si rendeva conto di quanto potesse essere grave, di quanto potessi essere preoccupata per Marie. Non capiva, lui, la prendeva con leggerezza perché tanto non riguardava direttamente noi.
Cercai di immaginarmi George al posto di guida e per un attimo lo vidi, lo sguardo serissimo, una mano sul volante e il sedile decisamente più vicino al cruscotto per via della sua altezza. La sua reazione sarebbe stata molto diversa, ne ero sicura. Più partecipe, più consapevole.
«Ti amo», affermai senza riflettere.
Il mio cuore perse un cazzo di battito, perché quelle parole non erano per Paul. Dio, erano per George. Avevo immaginato George e ci avevo creduto e lo avevo detto perché lo pensavo davvero. Gesù santo, cosa avevo appena fatto? C'era Paul con me, il mio fidanzato, l'unico che, in linea teorica, avrei dovuto amare.
Ed io avevo appena detto “ti amo” ad un altro uomo. Poco importava che nessuno se ne sarebbe mai accorto.
«Ti amo anche io», disse lui allegramente.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, così li chiusi e finsi di dormire.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. ***


Nda: Questo capitolo è molto importante per lo sviluppo della trama ed emerge la nostra Léo in tutto il suo splendore. Ma si sa, si raschia il fondo prima di risalire.
Grazie davvero a tutti i recensori e a tutti i lettori, se continuo a pubblicare è solo grazie al vostro supporto! <3
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Capitolo 12.

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Marie non era incinta. Aveva solo un ritardo, un ritardo incredibilmente lungo e spossante. Mi telefonò praticamente urlando, dicendo che si sarebbe sbronzata e drogata e avrebbe fatto tutto quello che non avrebbe mai potuto fare se fosse stata incinta sul serio. Mi chiese di informarmi sulla prima serata disponibile ed io non me la sentivo di dirle di no. Senza contare che avevo anche io una voglia incredibile di una festa, una di quelle da cui esci gattonando.
Di solito contattavo Max. Era lui che organizzava le serate più interessanti e quando non era lui l'ideatore sapeva sempre suggerirne un certo numero. Ci accordammo per andare tutti al Silhouette, un posto abbastanza fico da attirare la gente che piaceva a noi e al contempo sufficientemente underground da poter pagare la birra appena qualche euro.
C'eravamo tutti: Marie ed io, Jeannot e Paul, Max con la sua Louise, Nicole con il suo nuovo fidanzato Lucien. E George. Ero stata io a parlargli del nostro programma, ma non avevo certo intenzione di invitarlo. Lui, però, era parso entusiasta oltre ogni umano limite.
«Ci sarà anche Paul», gli avevo ricordato.
«E allora?», aveva risposto lui tamburellando sul portatile. «L'ho già conosciuto. Terrò le mani a posto, dolcezza».
Così ci eravamo trovati fuori dal locale. Indossavo un bel vestito, un tubino nero scollato sulla schiena, e dei tacchi che mi avrebbero distrutto i piedi, lo sapevo già. Ma lo avevo fatto per Marie, perché aveva davvero bisogno di una serata senza pensieri.
All'ultimo momento avevo convinto Jacques a venire con noi, era troppo deprimente vederlo in piena crisi mistica a causa della scoperta del suo orientamento sessuale.
Jacques e Marie avevano avuto una specie di breve parentesi, circa un anno prima, quando lui ed io ci parlavamo a malapena. Si scambiarono un'occhiata imbarazzata, ma lei teneva la mano a Jeannot e lui, dal canto suo, a quanto pareva era gay.
Preferii concentrarmi su di lui piuttosto che su Paul e George. Se il fidanzato si sforzava di non apparire rigido come se avesse avuto un bastone nel culo, l'amante esibì il più falso dei sorrisi e gli strinse la mano come ad un vecchio amico.
«Oddio», mormorai.
Jacques, che sapeva tutto, rise. «Ammetti che te la sei cercata».
«No, cazzo, non è vero», sibilai a mezza voce. «Si è invitato da solo».
«Quale dei due si è invitato da solo?».
Era un discorso pericoloso da affrontare lì, in mezzo ai miei amici, così vicina a Marie che se avesse avuto un udito appena un po' più acuto avrebbe sentito ogni cosa. Non potevamo parlarne in quel momento.
Lo presi per un braccio e lo condussi all'interno, scavalcando tutti, senza accertarmi che gli altri ci stessero seguendo; sentii la risata di Nicole a pochi passi alle mie spalle e varcai la soglia.
Jacques non si era ancora impasticcato, il che era positivo. Non era una cosa che faceva spesso, prendeva qualcosa quando credeva che nessuno lo notasse e fumava erba per abitudine, quindi diciamo che non lo avrei definito un drogato senza speranza. Quella sera sembrava del tutto presente a se stesso.
Il locale era così pieno di gente che iniziai a sudare subito, nell'aria c'era odore di nicotina e di umanità. Marie mi prese per mano e mi trascinò insieme a Nicole nella calca; la musica era assordante, era una specie di fidget house tipo Cyberpunkers, insomma un gran rumore, ma era divertente e scatenato, proprio ciò che volevamo. Presi una birra quando Max ce le portò, brindando con noi e ridendo forte, mentre Louise lo fissava carica di gelosia.
Paul sopraggiunse dopo poco e mi si portò alle spalle. Mi appoggiò le mani sui fianchi, un gesto così abituale che quasi non ci riflettei sopra, e mi strinse a sé.
Dopo quella volta in macchina non avevo più dato peso a ciò che avevo detto. Avevo parlato d'istinto, certo, però era una situazione talmente strana e faticosa che chiunque al mio posto avrebbe commesso un piccolo errore di valutazione. Paul l'aveva interpretato come rivolto a se stesso, George non c'era per sentire e nessuno si era fatto male.
Però non sono una stronza totale e mi dispiaceva costringere George a fare da testimone ad una palpata di chiappe da parte del mio ragazzo.
Ne avevamo parlato per telefono, prima di uscire.
Ero stata la prima a dire: «Dobbiamo salvare le apparenze».
Lui, dall'altra parte della cornetta, aveva replicato: «Tu comportati normalmente, come faresti se io non ci fossi. Non preoccuparti».
Quel suo “non preoccuparti” aveva avuto un suono dolcissimo, come una musica. Come un marito che dice alla moglie: “Non preoccuparti, cara, i bambini li porto io a calcio”. Era intimo, abitudinario, tranquillo. Era rassicurante.
Mi chiesi fino a che punto, tra me e George, fosse una questione di sesso e fino a che punto una questione di affinità personale. Era tutto partito perché lui mi attraeva ed io gli piacevo, ma ora? Non facevamo solo l'amore, parlavamo e ridevamo ed io mi ero aperta con lui fin da subito.
Sollevai le mani sopra la testa, ballando. Le braccia di Paul si avvolsero intorno al mio bacino, le sue labbra nel mio collo. Beh, se gli piaceva baciarmi mentre ero appiccicosa di sudore, che facesse pure.
Jacques mi portò un'altra birra, che condividemmo seduti su un divanetto di pelle bianco macchiato. Cercammo di chiacchierare, ma non si riusciva a capire niente in tutta quella confusione. Si accese una canna e, dopo due tiri, me la passò. Non sono una da droghe pesanti, ma uno spinello di tanto in tanto ammetto di averlo fumato, in compagnia. In teoria non si poteva fumare dentro il Silhouette, ma lo facevano tutti finché nessuno diceva niente. In effetti c'era così tanto fumo nella sala che eravamo già fortunati che non ci venisse il cancro.
Marie si scagliò praticamente di peso sul divano, ansante; conoscendola si era dimenata come una coglioncella con le convulsioni ed ora non aveva più fiato nemmeno per pensare. Si tolse le scarpe e allungò i piedi arrossati sul tavolo, urlando: «Che male, cazzo!».
Nicole e Lucien erano scomparsi, cercai Paul con lo sguardo e lo vidi mentre entrava nella toilette. E George? Non era da nessuna parte, non riuscivo a vederlo in mezzo a tutta quella folla che si agitava e si muoveva al ritmo della musica.
Una mano mi sfiorò il braccio: Jacques mi lanciò uno sguardo comprensivo. Ricambiai con un'alzata di spalle. Che dovevo fare? Non era certo colpa mia se erano lì entrambi, Dio santo, io volevo solo portare fuori Marie. Per una volta volevo fare qualcosa per qualcun altro: non era un mio problema se quei due si odiavano – e se avevano me in comune.
Mi alzai e andai al bar; ordinai un black russian e lo sorseggiai, tornando sui miei passi per piazzarmi di nuovo sul divano. Iniziavo a risentire degli effetti di alcool ed erba, ma comunque ero ancora lì con il cervello, più o meno.
Incrociai George mentre cercavo di tornare da Marie. Lo fissai per un lungo momento, mentre avanzava verso di me. Immaginate una scena al rallentatore, lei guarda lui, un'espressione nervosa in viso, e lui guarda lei con un sorriso sornione. Era vestito bene, una bella camicia e un paio di jeans attillati. Era adatto, non come la prima volta che lo avevo visto.
Gli lanciai un sorriso. «Ti stai divertendo?».
«Cosa?».
Alzai di più la voce. «Ho chiesto se ti stai divertendo!».
«Sì, certo!», strillò a sua volta. «Mi dai un sorso?».
Sollevai il bicchiere e lui prese una delle due cannucce per bere dal mio bicchiere. Con le labbra contratte intente ad aspirare il cocktail era dannatamente sexy, Dio solo sa cosa avrei fatto con quella bocca se non ci fosse stato nessuno che mi conosceva in giro. Era una cosa ad alto tasso di erotismo, era sensuale e provocante, mi scaldò ovunque. Lui lo sapeva, lo vedevo dalla sua faccia che lo faceva apposta. Mi fissò negli occhi per tutto il tempo, consapevole di quello che stavo provando.
Scossi il capo con un ghigno imbarazzato, allontanando il bicchiere dal suo viso. «Ci vediamo», lo salutai. Non attesi la risposta e mi defilai, consapevole di avere un sorrisetto idiota sul grugno.
Dovetti sgomitare parecchio per riuscire a navigare in quel mare di gente scomposta; avevamo praticamente preso possesso del divano, Max e Louise erano lì a loro volta e anche Paul e Jeannot; Nicole ci raggiunse poco dopo insieme a Lucien e non attendemmo molto per veder comparire anche George.
Ordinammo un giro di shots per tutti, una specie di trenino di mini drink coloratissimi, da tracannare in ordine di potenza alcolica. Da quel momento iniziai a non capire più una miseria. Le luci stroboscopiche mi stavano praticamente accecando, le mie gambe mi reggevano a malapena ed ero stanchissima, ma continuavo a dimenarmi sulla pista da ballo insieme a Marie come se non ci fosse un domani.
Ho qualche ricordo di me che scivolo aggrappandomi al primo malcapitato che c'era in giro, per poi ridergli in faccia e dire: “Stai attento, stronzo”. Arrivò Paul, in un qualche momento tra le undici e l'una, e mi prese come fossi stata una bambola di pezza per baciarmi appassionatamente in mezzo alla folla. Marie vomitò ad un certo punto e ridacchiando Nicole ed io le tenemmo i capelli mentre era riversa sul gabinetto.
Non era il caso che bevessi altro, anche nell'oblio dei sensi nel quale ero piombata me ne rendevo perfettamente conto. Era già capitato altre volte che fossi più di là che di qua, ma una minuscolissima parte del mio essere mi stava dicendo di non fare cazzate, o Paul avrebbe scoperto ogni cosa.
Si fecero le due, poi le tre. Alle quattro decidemmo di andare tutti da Max a fare after, perché tanto i suoi non c'erano, erano nelle Filippine per lavoro.
Del tragitto dal Silhouette a casa sua non ricordo niente. So che a guidare l'auto di Max fu Louise e Jeannot prese le redini di quella di Paul, perché loro non avevano bevuto. Mi ricordo l'odore dei sedili della Giulietta del mio fidanzato, così come una mano che stringeva la mia, ma non capii a chi appartenesse, forse era di Marie.
Arrivati lì non sapevamo cosa fare della nostra esistenza; Jacques e Nicole si stavano lanciando in un discorso molto filosofico riguardo il Mago di Oz, Marie si accasciò sul letto di Max e, se non avesse russato come un trombone, avrei detto che era morta. Io continuavo a ridacchiare sommessamente. Max propose di giocare a Twister, poi lo disse ancora e poi di nuovo, ma tutti noi continuammo ad ignorarlo.
Poi qualcuno decise di andare a dormire, non so chi. Il nostro anfitrione ritrovò un po' di lucidità e gonfiò due materassi ad aria, così ci pigiammo tutti lì sopra.
Infine calò il silenzio, mentre fuori era ancora buio. Cercai di dormire, ma avevo in bocca uno sgradevole sapore e c'era Jacques che digrignava i denti nel sonno, facendo rumore. Non so per quanto tempo rimasi lì, in silenzio, ancora alticcia e tuttavia improvvisamente tranquilla dopo l'euforia della nottata. Avevo male ai piedi, ma in realtà non me ne stavo nemmeno rendendo conto. Dovevo aver dato una ginocchiata da qualche parte, perché muovere le gambe sotto il lenzuolo mi dava fastidio. Mi fischiavano le orecchie in maniera allucinante, mentre scivolavo in quello stato così piacevolmente vicino all'oblio dei sensi che ti prende dopo che hai bevuto parecchio e sei felice e in pace con il mondo.
Poi una mano si insinuò sul mio fianco: era Paul, era ovviamente lui perché il braccio era grande e pesante. Dal fianco risalì di più, fino al seno. Cercai di allontanarlo, non aveva senso fare porcherie in mezzo agli altri.
Lui allora si mise a sedere e mi fece alzare. Se fossi stata sobria avrei trovato una scusa, senza contare che anche lui non avrebbe fatto nulla del genere se non avesse bevuto. Mi alzai, molle tra le sue braccia, e lo seguii in bagno senza fare troppe storie, in silenzio.
Mi fece appoggiare le spalle alla porta, baciandomi e passandomi le mani dappertutto. Era in qualche modo eccitante, il fatto di essere lì con lui in gran segreto mentre gli altri dormivano, eppure c'era qualcosa di sbagliato. Non avrei dovuto essere lì, c'era qualcosa di profondamente orribile in quello che stavo facendo. Oddio, c'era George nell'altra stanza. Mi aveva detto di comportarmi normalmente, ma così...
Scossi il capo. «Paul...», mormorai a mezza voce.
«Shht», fece lui, con un tono di voce così basso che a malapena lo sentii.
Mi passò una mano sulla coscia nuda, risalì fino agli slip e passò due dita tra la mia pelle e l'elastico, abbassandoli.
Il silenzio era assordante, totale, non un suono, solo il costante fischio all'orecchio. Continuavamo a baciarci mentre lui muoveva le sue dita in me. Se fossi stata presente a me stessa lo avrei allontanato e lui, buono com'era, avrebbe capito. Invece rimasi lì a farmi toccare, le nostre lingue che si scontravano e danzavano insieme. Mi batteva forte il cuore, per non parlare del desiderio. Mi sentivo ansimare contro la sua bocca, gli occhi chiusi e le mani sopra la testa.
Gemetti troppo forte e lui mormorò: «Amore, piano».
Amore, piano un paio di palle!”, pensai.
Qualcuno cercò di entrare in bagno: la maniglia si abbassò, ma avevamo chiuso a chiave. Fui assalita dal terrore che qualcuno potesse varcare la soglia – un conto è sapere che i tuoi amici fanno le cosacce, un conto è beccarli in flagrante – e cercai di allontanare Paul da me, con scarsa convinzione. Lui continuò a darmi piacere e ignorò qualsiasi cosa.
Mi piaceva. Era bello, lo ammetto. Però non sapevo quanto ancora avrebbe retto il castello di bugie che avevo costruito. Stavo nascondendo George a Paul ed ora avrei dovuto fare anche il contrario.
Ora voglio essere sincera, sappiamo tutti che noi femminucce siamo più difficili da soddisfare, quindi non mentirò dicendo che Paul sapeva sempre come farmi raggiungere l'apice e stronzate simili, se una donna vi dice che viene tutte le volte è molto fortunata o molto bugiarda. In quell'occasione però l'orgasmo arrivò ed io dovetti fare uno sforzo per non urlare.
Paul premette le sue labbra sulle mie, infondendo in quel gesto tutto ciò che provava. Lo aveva fatto per me, probabilmente anche lui aveva voglia eppure aveva voluto fare qualcosa per far felice me. Eppure quando il momento passò ed io tornai a rilassarmi contro la porta, mi sentii peggio di prima.
Comunque George sapeva che lo facevamo. Mi sentivo solo dispiaciuta all'idea che lui potesse averci sentiti, sarebbe stato imbarazzante e triste, triste nella peggiore accezione del termine.
Baciandomi ancora, Paul sospirò profondamente dal naso. «Ti amo, sei bellissima».
Non risposi, fingendomi ancora rincoglionita per l'alcool. Lui mi diede ancora un bacio sul mento, si lavò le mani nel lavandino e girò la chiave, uscendo per primo e richiudendosi la porta alle spalle.
Io rimasi lì ancora un momento, una mano appoggiata al lavabo e lo sguardo stralunato. Infine scossi il capo e decisi che era ora di uscire e di dormire o mi sarebbe esplosa la testa.
Il corridoio sembrava meno buio, dopo l'oscurità impenetrabile del bagno. Vedevo in fondo l'apertura ad arco che portava nel vasto salone dove i miei amici dormivano, il salone in cui avevo conosciuto George. Forse era anche per quello che percepivo quel che era accaduto come un errore, perché lì avevo conosciuto l'altro e in un certo senso puzzava di tradimento – paradossale, eh?
Fu allora che lo vidi: George era in piedi, i capelli scarmigliati, non distante dal bagno. Mi portai le mani alle labbra, sgomenta e improvvisamente terrorizzata. Ci scambiammo un lungo, lunghissimo sguardo che di complice non aveva niente. Io avevo gli occhi sgranati, i suoi mi fissavano con asprezza e delusione.
«Dovevo pisciare», mi informò con stizza nervosa, «ma il bagno era occupato».
Non mi turbò il suo linguaggio, non me ne resi nemmeno conto. Non riuscivo a rispondere, non ero in grado di dire alcunché di sensato. Scossi la testa, senza riuscire a spostare le dita dalla bocca, gli occhi improvvisamente lucidi. Cercai di convincermi che non avevo nulla di cui vergognarmi, che era stato lui a dirmi di essere spontanea e che George, tanto, non avrebbe mai dovuto venire a quella serata. Nulla di tutto ciò riuscì a farmi credere di avere la coscienza pulita, non l'avevo affatto.
Dunque lui era davvero geloso.
Alla fine scosse il capo, facendo schioccare la lingua sul palato, e si avviò verso la porta d'ingresso. Si infilò le scarpe e la giacca, arraffò veloce la sciarpa ed uscì dalla casa di Max, lasciandomi da sola in mezzo al corridoio con i miei sensi di colpa.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. ***


Nda: Non dico niente riguardo questo capitolo, preferisco lasciare che siate voi a cogliere le sfumature ^^ e vorrei davvero sapere le vostre opinioni, a lettura finita, mi farebbe davvero un gran piacere <3 Il capitolo è già stato inserito su Wattpad, mentre potrete trovare nuovi contenuti su Gaiman in the T.A.R.D.I.S.



Capitolo 13.

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Il giorno dopo mi risvegliai intorno a mezzogiorno con il peggiore dopo-sbronza della mia vita. Ero talmente rincoglionita che a malapena mi ricordai quello che era accaduto nel corridoio e, quando infine mi venne in mente, scoppiai in un pianto così violento che Jacques mi diede un ceffone per farmi riprendere. Paul si incazzò come una bestia, ma anche il mio coinquilino era perso e non capì la metà degli epiteti che gli furono rivolti.
Marie si era già dileguata, si era svegliata alle nove fresca come una rosa. Non ho idea di come avesse fatto, ma testimoni oculari quali Louise e Lucien affermarono di averla vista lasciare l'appartamento dei genitori di Max truccata, vestita e perfettamente in ordine dopo aver fatto una doccia. Avrei dovuto telefonarle per chiederle quale fosse il suo segreto.
Jeannot arrancò verso la metro, Nicole continuò a dormire senza che nulla potesse svegliarla; Paul accompagnò me e Jacques a casa, poi mi salutò con un bacio appassionato al quale io non riuscii a rispondere: ero ancora troppo schifata da me stessa.
Arrivati nella nostra cucina, ci sentivamo entrambi male. Nessuno dei due aveva fame o voglia di mangiare, non ci sentivamo per niente riposati e provavo una tale sensazione di nausea che il primo istinto fu quello di infilarmi due dita in gola e farla finita con quella storia, vomitare fino a stare bene. Lo proposi a Jacques, ma lui mi disse che sarebbe stato anche peggio.
Dovevo parlarne con lui, io non sono una di quelle persone che si tengono dentro la loro tristezza e il loro marciume, io sono un peso per gli altri e mi piace parlare per ore dei cazzi miei. Così iniziai a raccontare di come Paul mi avesse trascinata nel bagno e di come mi fosse piaciuto, da brividi, e poi dissi di George che mi guardava con rammarico e se ne andava di casa.
«Lo avevate deciso insieme», disse Jacques. «Questa cosa del triangolo. Non può certo lamentarsi perché ha iniziato a provare qualcosa per te».
Mi accesi una sigaretta. Non volevo ammettere a voce alta che anche io provavo qualcosa per lui. «È vero», confermai, «ma è un essere umano».
«Già», ribatté lui aspramente. Gli passai l'accendino e allungai i piedi sulle sue gambe. Si accese una delle mie Marlboro e soffiò fumo dalle narici. «Eleonora, io sono gay».
Annuii. «Me lo hai detto».
«Ho scopato con ogni donna disposta a darmela per anni», sospirò. Aveva le lacrime agli occhi, diamine, Jacques aveva le lacrime agli occhi. Lui era stato la mia roccia dagli eventi di dicembre, perfino più solida di Marie. Ironico, fumato e cazzone. Non poteva farmi questo.
«Non lo sapevi, evidentemente», mormorai, cercando di mostrarmi dolce. «Jacques, non c'è nulla di male».
«Mi piaceva da morire», disse, come se non avessi nemmeno parlato. «Dio, c'è stato un periodo, verso i diciannove anni, in cui non pensavo ad altro. Sono stato perfino con Marie, ti ricordi? E lei ha due tette che...».
Lo interruppi prima che dicesse qualcosa di offensivo. «Potresti essere bisessuale», ipotizzai. «Può essere, no? Insomma, magari ti piacciono sia i maschi che le femmine».
Scosse il capo. «Al momento mi piace Manuel, maschio o femmina non mi importa».
Mi aveva solo accennato quel nome prima di allora, senza mai spiegare niente. «Manuel? Chi è?», domandai con un sorriso.
«Un tizio di Montmartre, con i dread e l'aria di un ragazzo serio. A volte fumo con lui. Qualche settimana fa eravamo a casa sua nel pieno di un trip e abbiamo fatto sesso. Santo Dio, quando me ne sono reso conto è stato...».
Lo guardai con dolcezza. Avevo sempre fatto affidamento sulla totale incostanza di Jacques nei rapporti amorosi e scoprire che così non era, beh, fu scioccante. «È stato bello?», domandai.
Lui annuì, fissando la sua sigaretta come se fosse stata un diamante. «Non sai quanto. Non perché fossi fumato, avevo già scopato mentre ero fatto e giuro che non era la stessa cosa. Non mi era mai piaciuto così tanto».
Stava arrossendo, mentre un sorrisetto da bambina alla prima comunione si dipingeva sul suo viso. Non lo avevo mai visto così. «Quindi sei gay, allora», conclusi con una smorfia alla Nicolas Cage che dice “Helloooo”.
Scosse il capo. «No, insomma, certo che lo sono, ma ti rendi conto di quanto questa cosa mi lasci di stucco? Mai lo avrei creduto». Sollevò lo sguardo umido di lacrime mai cadute e mi fissò. «Lo abbiamo rifatto altre volte, con Manuel».
«Lui che ne pensa?».
«Beh, lui è sempre stato gay. Non si fa troppi problemi». Esitò. «L'altra sera gli ho fatto un pompino».
«Jacques!», gridai. «Non devi dirmi queste cose, sono private!».
«Senti, santarellina, sei tu che pianti le corna al fidanzato e ti sei sbronzata fino a crepare», mi rimbrottò lui. «Te lo dico perché è stato lì che ho iniziato a pensare di essere gay. All'inizio, dopo averlo fatto la prima volta, l'avevo presa piuttosto bene, insomma, era solo una cosa da fare mentre eravamo strafatti».
Non gli dissi che pensavo fosse un'idea fuori dal mondo. «Ma...?».
«Ma ero perfettamente in me quando mi sono inginocchiato e gli ho slacciato i pantaloni. Insomma, non avevo preso niente, né bevuto e anche lui era tutto sano di mente», raccontò, spegnendo il mozzicone nel posacenere. «E la cosa ancora più assurda è che ci è piaciuto un sacco. Ad entrambi, capisci, anche a me. Devastante».
Non potei impedirmi di ridacchiare. «Che carini», commentai.
«No, donna, non puoi capire il mio disagio», fece lui, ma lo vidi sorridere a sua volta con maggiore tranquillità. «E poi non c'è una cosa tipo uomo e donna anche nelle coppie gay? Manuel ed io siamo entrambi troppo maschi, nessuno di noi due è una checca».
Mi strinsi nelle spalle, gettando il mio mozzicone nel lavandino; colpii il bersaglio con mio sommo orgoglio. «Non credo che importi. Voglio dire, se vi trovate bene insieme che problema c'è? Non fate del male a nessuno».
«Beh, a me fa male il culo».
Non riuscii a trattenermi: gli risi in faccia e Jacques rise con me, le nostre voci che si rifrangevano contro le pareti della cucina come fossero pezzi di vetro in frantumi. Gli lanciai uno sguardo sornione. Mi parve di vedere la sua vera faccia solo in quel momento, come se non avesse mai voluto mostrare la sua sensibilità prima di allora. «Di che ti preoccupi, Jacques?», domandai dopo un momento, quando ci fummo calmati. «Hai detto che lui ti piace, non è così?».
Annuì. «Sì, molto. Ha un modo di fare tutto suo, sai, strano forte, imprevedibile. Mi piace il fatto di non sapere mai cosa sta per dire o fare. E poi lo trovo...», si fermò, riflettendo sulle parole. «Non è che sia bello, insomma, sono sempre stato abituato a giudicare l'aspetto di una donna, non certo di un uomo. Però, se proprio dovessi sputare una sentenza, ti direi che mi attrae».
Non dissi nulla, sospettavo che se lo avessi interrotto si sarebbe fermato e non avrebbe più detto una parola per l'imbarazzo.
«Ha un buon odore», continuò fissando un punto sul tavolo, «di erba e di sapone. È uno che si lava, insomma, e questo mi piace. Gli piace divertirsi, uscire, sai, come me, e ascoltiamo la stessa musica e giochiamo agli stessi videogames. A volte tira fuori una vocetta che mi fa ridere, sembra Paperino se ci si impegna».
«Oh, Cristo», esalai, rendendomi conto all'improvviso di come quelle parole suonassero sincere. «Tu sei innamorato. Jacques, sei innamorato».
Mi guardò con improvvisa serietà, tutta l'ilarità e la pacatezza di poco prima svanite in un lampo. Non sembrava infuriato, solo stanchissimo e a pezzi. «No, non lo sono. Non posso esserlo, lui è troppo bravo e gentile per stare con me. Lo sai come sono fatto, non mi voglio impegnare».
«Jacques-».
«Soffrirà per colpa mia, ne sono più che certo».
Per la prima volta da quando lo avevo conosciuto mi sentii in sintonia con lui. Al di là dell'iniziale rispetto che si era poi trasformato in amicizia, non mi ero mai considerata neanche lontanamente somigliante a Jacques, lui era troppo strambo e aveva certe idee che non potevo condividere. Eppure in quella cucina, dopo una nottata da dimenticare e con mille pensieri per la testa, ci rendemmo conto che eravamo sulla stessa barca. Entrambi eravamo a disagio con noi stessi, facevamo qualcosa che era un madornale errore pur avendo l'aspetto di un fiore di loto. Andavamo contro la nostra indole e nessuno di noi sapeva quanto sarebbe durata.
L'idillio venne interrotto dall'arrivo della terza coinquilina, Madeleine, il cui assenteismo era superato solo dallo studente polacco. «Hey, sfigati», ci apostrofò, «giuro che se avete finito la mia marmellata pianto un casino».

***

Lasciai passare cinque giorni. Cinque giorni durante i quali evitai di telefonargli o scrivergli, perché da una parte ero imbarazzata e dall'altra un po' triste. Certo, ero anche molto arrabbiata. Avevo avuto modo di riflettere e giuro su Dio che mi stava venendo l'istinto di piazzargli una bomba in casa.
Come aveva potuto, come aveva osato farmi sentire in colpa per quello che avevo fatto? Non rientrava nell'accordo, che lui facesse l'amante ferito, nossignore. Era stato lui a volerlo, quel giochino del cazzo, era stato lui che aveva detto “Ci vengo anche io al Silhouette!”, con quella sua voce inglese così bassa e snervante. Ed io mi sentivo in colpa per questo? Idiota, Eleonora, ecco cosa sei.
Comunque prima o poi avrei dovuto parlargli. Non potevo lasciare le cose in sospeso e, lo ammetto, mi mancava troppo. Mi mancava il suo calore, mi mancavano i suoi messaggi ironici, mi mancava il suo modo di pensare così profondo e il modo che aveva di stringermi, di baciarmi, di non lasciarmi cadere.
Vorrei poter dire che sentivo così tanto la sua assenza solo perché sapevo di non poterlo avere, ma la verità è un'altra: mi sentivo sola senza di lui, era entrato con prepotenza nella mia vita e dopo soli quattro mesi o poco più non riuscivo a farne a meno.
Così andai a casa sua. Sapevo che smetteva di lavorare alle sei di sera e che ci impiegava circa un'ora, tra metro e bicicletta, per arrivare a casa. Mi sedetti sul suo pianerottolo e attesi, finché non sentii il portone che si apriva e si richiudeva, in basso, da qualche parte sotto di me, e poi passi affrettati su per le scale, fino al secondo piano.
Lo vidi arrivare con il cappotto blu con gli alamari aperto sul davanti e una busta di plastica in una mano, dalla quale spuntavano un pacco di spaghetti e dei porri. Aveva gli skinny jeans, quelli di capodanno. Dio, quanto era sexy con quei pantaloni, io proprio non riuscivo a non mangiargli il suo bel culetto con lo sguardo. Per un attimo ritornai a quella prima sera, da Max, quando la sua sola presenza mi aveva mandata giù di testa inspiegabilmente.
Si arrestò bruscamente non appena mi vide, restando a metà della rampa di scale. Sospirò, fissandomi con i suoi occhioni azzurri. «Léo», disse con noncuranza. «Ciao, che ci fai qui?».
Mi resi conto che era lo stesso atteggiamento del cazzo che usava con Paul. Fingeva amicizia quando in realtà provava un odio esecrabile. Mi sentii offesa, come si permetteva di usare con me il tono che riservava a Paul? Non lo meritavo, non lo meritavo proprio per niente.
Non mi alzai subito. Una delle mie gambe non stava ferma per l'agitazione. «Dobbiamo parlare».
Lui annuì. «Ma certo, siamo buoni amici. Vieni, entra, stavo per cenare».
Era capitato spesso che mi sedessi sugli sgabelli da bar che stavano intorno al bancone che George usava come tavolo da pranzo, sotto il penzolante lampadario di metallo dell'Ikea, e che lo guardassi fare qualcosa. Qualunque cosa, controllare delle fotografie per il lavoro, leggere un libro, parlare da solo – lo faceva spesso. Non lo avevo mai visto cucinare, però, e non ero mai stata in quella casa con una tale rabbia in corpo. Da quel punto di vista avrei provato nuove esperienze.
«Vuoi bere qualcosa?», domandò indicandomi una bottiglia di vino vicina al lavabo.
Scossi il capo. «No, non berrò mai più niente di alcolico, lo giuro. L'altra sera è stato il top».
Per un istante credetti che avrebbe riso. In un altro momento lo avrebbe fatto: in un altro momento avrebbe stappato la bottiglia e me l'avrebbe piazzata davanti, per poi scommettere un pacchetto di caramelle su quanto ci avrei messo a prenderla. Invece non fece una piega. Prese un tagliere e un coltello e iniziò a pulire i porri. «Che mi devi dire?».
Provai l'istinto di accendere una sigaretta, dare due tiri e poi spegnerla su quel bel faccino stizzosetto per lasciargli un bel segno in fronte: avrei guardato il fumo salire e avrei riso. Mi limitai a passarmi una mano tra i capelli. «L'altra sera è successa quella cosa».
«Quale cosa?», fece lui, strappando parte del vegetale come avrebbe fatto Hannibal con un braccio umano.
«Non fare il finto tonto, è una cosa che non sopporto».
Agitò un pezzo di porro in aria, davanti al mio viso, come se volesse puntarmi un dito contro. «Sai io cosa non sopporto? Il tuo modo di fare. Scendi dal podio, reginetta».
«Sei stato tu a dire che dovevo comportarmi normalmente», obbiettai.
«Avete praticamente scopato a due centimetri dalla mia faccia!».
Aveva urlato. George, per la prima volta da che lo conoscevo, aveva perso la pazienza. Ero abituata a discutere con chiunque, i miei genitori, Marie, Paul, tutti, ma non con lui. Calmo, equilibrato, razionale. Sempre gentile e irriverente. Invece ora avevo davanti a me la versione peggiore di lui, rosso in viso e con i muscoli rigidi, lo sguardo infuriato e la voce gracchiante per la rabbia.
Sbattei le palpebre, lo sguardo sorpreso. Non ci potevo credere. «Ma...».
«No, “ma” un cazzo!», gridò. Lasciò andare sul tagliere ciò che aveva in mano ed arretrò, additandomi. «Tu non ti rendi conto, c'ero io dall'altra parte della porta! Io, non uno qualsiasi dei nostri amici. Non puoi neanche lontanamente capire quanto sia stato male».
Scesi dallo sgabello: fu il mio primo errore, perché ero tornata ad essere minuscola come Eva Longoria. Per fortuna anche lui era un tappo, però avrei voluto sovrastarlo come un gigante. «Che cosa vuoi da me?». Mi misi le mani sui fianchi. Ero incazzatissima. «Non mi sembra di averti mai promesso l'esclusiva, no?».
«Fuck!», strepitò lui. «Tu sei più sveglia di così, molto più sveglia di così. Accendi il cervello e pensa!». Mi raggiunse e mi prese il volto in una mano, picchiettandomi con l'indice sulla fronte. «Non ti è venuto in mente, in quella tua testolina, che io potessi anche vedervi?».
Mi divincolai. Come si permetteva di toccarmi in quel modo? «Sei stato tu stesso ad invitarti, non io!».
«Oh, andiamo», fece lui tornando ad allontanarsi. «Mi aveva già chiamato Max. Se anche tu non mi avessi detto niente lo avrei saputo comunque».
Ci fissammo per qualche minuto, in silenzio. Oltre la finestra c'erano le luci di Parigi, il rumore delle auto e la fastidiosa sirena di un'ambulanza. Mi passai la lingua sulle labbra screpolate. Avrei voluto correre da lui e spaccargli quella sua faccia di merda.
«Tu sai benissimo che faccio sesso con Paul», sibilai alla fine. «Lo hai sempre saputo, fin dall'inizio».
Annuì; gli tremavano le mani. «Tu non hai idea di quanto mi uccida vederti uscire da quella porta», mormorò indicando l'uscio. «Ogni volta che te ne vai penso che tornerai da lui e vorrei rincorrerti e...», annaspò alla ricerca delle parole. «Non lo so», esalò flebilmente. «Vorrei starti bene, esserti sufficiente, ok? Vorrei che non avessi bisogno di Paul, ma di me».
Non gli risposi. Ero ancora tremendamente in collera e non sarebbe stata certo la sua espressione da animaletto indifeso a farmi cedere. E poi se avessi mosso un muscolo mi sarei fiondata tra le sue braccia sperando di fondermi in lui, come una cosa sola.
«Tu credi che io non abbia capito un cazzo di te», disse dopo un istante di pausa. «Credi di sembrare una specie di Blair Waldorf, perfetta nella sua bolla di sapone, ma io conosco la verità».
«Smettila».
Mosse un passo verso di me. «Tu hai paura degli altri, lo so perché si vede. Quando incroci una ragazza più bella di te fingi di non esistere, non fai vedere a nessuno le cose che fai perché chissà poi cosa potrebbero dire». Indicò il mio dipinto, quello che lo ritraeva sul letto, appeso alla parete sopra il divano. Quello che non avevo voluto mostrare ad anima viva. «Lo sai che è vero, fingi aggressività per prevenire la cattiveria degli altri».
«Non sei il mio psicologo, vaffanculo!».
George, però, non si fermò. Alzò la voce, la rabbia di nuovo pronta a prendere il sopravvento. «Sembri tanto forte e indipendente, ma la verità è che vuoi solamente un uomo che si occupi di te. Ecco perché ti piace Paul. Sai, da un lato quel poveraccio mi fa pena, non ha idea di chi tu sia davvero».
Era un discorso troppo doloroso, troppo crudele. Nel giro di un secondo gli occhi mi si riempirono di lacrime e diventai rossa sul naso. «Perché devi essere così cattivo?», pigolai.
Ormai mi si era avvicinato. Mi si piantò davanti, fissandomi con occhi che erano lucidi a loro volta. «Perché devi tirare fuori le palle, prenderti le tue responsabilità e stare in piedi da sola. Fallo, se ci tieni almeno un po' a me. Devi dire a Paul di noi, perché non ce la faccio».
«Non posso dirglielo, non posso...».
«No, certo che non puoi», ringhiò con esasperazione. «Non puoi farlo, non ti potrai mai mettere seriamente con me, perché mi ami!».
Lo guardai inorridita. Feci per dire che no, non lo amavo, e anche se era una bugia sarebbe stata preferibile alla verità. Lui, però, mi interruppe sollevando una mano.
«Mi ami più di quanto tu abbia mai amato altri e questo ti spaventa, Léo, ti terrorizza perché io sono l'unico che può farti davvero soffrire, l'unico che può distruggerti con una parola!».
Non era giusto, non lo era per niente. Aveva fatto esattamente quello che di solito facevo io, rigirare la frittata. Ero andata lì tutta incazzosa per fargli la predica, non per subirla. Come aveva osato rubarmi il piano?
Ciò che aveva detto era orribile e spaventoso. E la cosa ironica è che, in quel momento, ciò che avrei voluto era proprio una coccola.
Lo schiaffeggiai. Fu la prima reazione che mi venne in mente. Infusi nella manata che gli calai sulla faccia tutta la mia forza, la mia rabbia e il mio nervosismo. George piegò il collo, ma non emise un solo gemito. Vedevo dalla sua pelle arrossata che gli avevo dato almeno un po' di fastidio, ma lui si limitò a tornare a fissarmi con la mascella contratta.
«Io non posso più farlo, Léo», mormorò dopo qualche secondo. Non era più arrabbiato, né triste, ma solo serio. «Credevo di poter fare questa cosa con te. Ero disposto anche a cedere il passo a quello, pur di avere anche solo un pezzetto di te che fosse tutto per me. Ma non ci riesco».
Avevo la bocca piena delle mie lacrime e gli occhi appannati. Mi tremava la voce quando dissi: «Allora è finita?».
«Se non pensi di lasciare Paul, sì».
Mi sentii morire. Il pavimento crollò sotto di me, come in un terremoto, ed il mio cuore accelerò i battiti mentre la paura del balzo nel vuoto mi prendeva e trascinava giù. Eravamo stati insieme molto poco, eppure per me era già diventata una dipendenza.
«Ti prego», lo supplicai.
«No, mi fa troppo male», rispose. «Scusa».
Si stava perfino scusando, quanto orribile potevo sembrare? Oh, che bravo attore che era stato. Me l'aveva data a bere, non avevo sospettato niente. Chi avrebbe mai creduto, guardandoci, che era così che si sentiva? Che era così che la pensava? E io, stupida egoista, avevo dato per scontato che stesse andando tutto bene, che tutto si sarebbe risolto. Non avevo mai avuto la minima idea di quanto l'intera situazione fosse assurda e me ne resi conto solo in quel momento. Solo lì, in quella casa semibuia, compresi fino a che punto lui fosse straziato dal fatto che era con lui che dormivo, ma che era con Paul che stavo alla luce del sole. Lui odiava le mani di Paul sulla mia pelle ed io non me n'ero mai nemmeno accorta.
Mi resi conto che stava piangendo. George stava piangendo per me. Oddio, non sopportavo di vederlo così, era troppo strano per essere vero. Lui era sempre tranquillo, sempre contento in quel modo un po' infantile che adoravo. Non potevo starmene lì a guardarlo piangere.
Lo baciai. Gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo baciai, praticamente appendendomi di peso per impedirgli di scacciarmi. Sul momento cercò di staccarsi, mi prese per i fianchi e tentò di spingermi via, ma non lo voleva veramente. Dopo un attimo di resistenza mi passò le mani sulle spalle e si appoggiò alla finestra, premuto contro il vetro.
Che ci vedessero, dalla strada, che ci vedesse tutta Parigi. Non mi importava. Mi importava di quel bacio, la saliva mista alle lacrime, le mie, le sue; mi importava di quelle labbra inglesi e di quel corpo magro e dei suoi capelli e della sua barba e della sua casa e delle sue cose e di lui. Di George. Mi importava del George a cui avevo spezzato il cuore con una rapidità e una facilità che facevano paura.
Gli morsi il labbro inferiore con forza; lo facevo sempre e lui era pieno di segni rossi nell'interno della bocca provocati dai miei denti. Era un bacio che di casto e romantico non aveva niente, era passionale, violento, ansimante, era vorace e famelico, un bacio che voleva fondere non solo i nostri corpi, ma il nostro intero essere in un'unica particella, il nucleo di un atomo che non voleva spezzarsi e che invece si sarebbe distrutto anche troppo presto. Volevo affondare in lui, annegare nel suo petto e stare lì per sempre.
Il problema non era che non voleva aiutarmi a stare sulle mie gambe, lo avrebbe anche fatto se non avesse saputo che c'era già un altro a sostenermi. Aveva detto una cosa del genere solo per ferirmi, perché solo così avrebbe potuto scuotermi. Il punto, però, era un altro. Ciò che lui voleva era uscire allo scoperto, perché quello che avevamo era così bello e fragile, era una farfalla così delicata che sarebbe bastato chiudere solo un'altra porta per farla morire. Ed io non ero pronta a salvarla, non ero pronta a lasciarmi cadere senza rete di sicurezza, perché avevo troppa paura di quello che sarebbe potuto accadere, di come la mia vita avrebbe potuto cambiare se l'avessi fatto.
E questo lui lo sapeva. Probabilmente lo capiva, perfino.
George mi metteva davanti ad un lato troppo intimo di me stessa, era come uno specchio nel quale non potevo fare a meno di scorgere il mio riflesso. Era questo ciò che non andava: George mi leggeva come un libro ed io non potevo permetterlo a nessuno.
Senza preavviso il ritmo incalzante del nostro bacio si interruppe; lentamente smisi di muovere le mie mani sul suo viso, la mia lingua si arrestò e aprii gli occhi. I suoi erano ancora chiusi, le ciglia da donna abbassate ed umide. Respirava forte, soffiando dalle narici.
«Va' via», sussurrò, così piano che rischiai di non sentirlo. «Per favore, Léo, va' via».
Annuii. Che altro potevo fare? Avevo paura, troppa paura per lasciare Paul, perché chissà che cosa sarebbe successo se l'avessi fatto. Chissà con quali parole orribili mi avrebbe aggredita, che ne sarebbe stato di me. Ricordate quando dissi che mi sentivo una sua appendice? Era vero. Non lo amavo, non più, non quanto amavo George, ma ero troppo atterrita e sgomenta per dire ad alta voce che tra noi era finita.
Cosa avevo fatto? Non mi ero mai accora di quanto l'animo di George fosse mio, mai mi ero fermata a pensare che forse lui si era davvero innamorato. Ero stata ingannata, era tutta una farsa ed io ero la maschera principale, una Pierrette. Ed avevo strappato il fragile cuoricino del mio Pierrot come se nulla fosse, senza nemmeno essermene accorta.
Mi voltai, presi la mia borsa – quella di Liu Jo che Paul mi aveva regalato – e la giacca, poi uscii dall'appartamento. Non mi voltai indietro, non potevo o avrei di nuovo messo tutto in discussione.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. ***


Nda: Le opinioni riguardo l'ultimo capitolo sono state intense e discordanti: OTTIMERRIMO, era quello che volevo muhahaha
Vi ringrazio tutti quanti per i commenti, le recensioni, i messaggi che mi stanno arrivando e ringrazio anche coloro che stanno leggendo la storia silenziosamente. Siete il motivo per cui continuo a pubblicare, grazie <3
Il capitolo è già stato inserito su Wattpad
e come sempre vi ricordo che mi trovate anche qui: Gaiman in the T.A.R.D.I.S.



Capitolo 14.

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A maggio conclusi la tesi; a giugno ci sarebbe stata la sessione straordinaria per discuterla, Marie ed io eravamo piuttosto su di giri per l'evento. Sarebbero venuti i miei genitori dall'Italia – mia madre era già agitata per le valige – e avrebbe assistito anche Paul.
Già, Paul. Avevo fatto finta di niente con lui, giorno dopo giorno, per più di una settimana dalla rottura con George. Certo, non era stupido, questo devo dirlo, e probabilmente sospettava ci fosse qualcosa che non andava in me. Anche se avevo superato ciò che era accaduto in camera mia mesi prima, anche se c'era di nuovo intesa sessuale ed io ero tornata a comportarmi come al solito, credo che Paul sospettasse una crisi imminente.
Non credeva che lo avessi tradito, questo non lo poteva neanche lontanamente immaginare. Non era in confidenza con George, né con Jacques, quindi non lo avrebbe mai scoperto da loro e nemmeno da me, figuriamoci.
Alle volte, però, mi guardava con rammarico e tristezza, come se vedesse in me un motivo di malinconia. Mi coccolava a lungo, come se si sentisse colpevole, come se fosse lui la ragione per cui io avevo dei grilli per la testa.
Il mio senso di colpa crebbe a dismisura; il mio Paul era convinto di non essere stato abbastanza – e in un certo senso, forse, era così – e cercava di fare ammenda riversando su di me tutto il suo affetto. Era troppo da tollerare, prima o poi sarei crollata.
Così alla fine confessai tutto a Marie, era più forte di me. Glielo dissi in biblioteca, perché è risaputo che in quei posti non si può alzare la voce ed ero terrorizzata all'idea che potesse mangiarmi viva, vista la mia stronzaggine.
Il fatto di aver rischiato di dover scodellare un pargolo, però, aveva reso la mia amica molto più easy going rispetto a prima. Certo, era sempre la solita e vecchia Marie innamoratissima e desiderosa di una casa e una famiglia e tutto il resto, ma doveva essersi davvero cacata sotto perché disse: «Se ti sei divertita, hai fatto bene».
Sgranai gli occhi, incredula. «Come, prego? Marie, il tuo ruolo in questa conversazione è quello della mamma severa. Torna in te, per favore».
Scosse il capo. «No. Io sono in me, credimi. Però una cosa devo dirla, ti sei comportata malissimo».
«Lo so, non avrei mai dovuto tradire Paul».
Chiuse di scatto il suo portatile, il suono che riecheggiò nella sala dagli altissimi soffitti affrescati. «Che si fotta Paul, io non l'ho mai sopportato. Parlavo di George».
«Non lo hai mai... Marie, cos'hai che non va?».
«Ho che mi sono stancata di essere gentile», sbottò. «Sono sempre stata saggia, cordiale e bendisposta verso tutti, ho sempre studiato, ho amato la mia famiglia, mi sono fatta il mazzo. E ho comunque rischiato una tragica fine».
«Hai rischiato una gravidanza», la corressi.
«Beh, più o meno è la stessa cosa. Quindi ora lo dirò ad alta voce: io non sopporto Paul».
Emisi un fischio di ammirazione. «Bello, sì, insomma, fico questo tuo lato ribelle, mi piace».
Assunse un'espressione di puro compiacimento, si vedeva che era soddisfatta di sé. «Lo so, non è fantastico? Mi sento molto meglio, ora che sono sulla sponda di voi cinici».
Una donna, una delle bibliotecarie, ci si avvicinò e ci squadrò da dietro la sua frangetta ossigenata. «Dovete parlare più piano», borbottò atona.
«Oh, vada a quel paese pure lei!», fece Marie. Tornò a rivolgersi a me come se la donna fosse magicamente evaporata. «Sono così dispiaciuta per quello che è successo con George. Era così un bravo ragazzo, proprio il tipo giusto».
Era una versione di lei molto spaventosa. Perché continuava a parlarne al passato? «Non è ancora morto».
Mi ignorò del tutto. «Forse però c'è ancora tempo, magari puoi lasciare Paul e metterti con lui».
Scossi il capo. «Sì, e poi? Che farei? Marie, diciamo le cose come stanno, da brave ciniche, come dici tu. Io non voglio finire in un appartamento del cazzo in periferia lavoricchiando qua e là in compagnia di uno che fa lo youtuber».
Assunse l'espressione di un animale ferito. «Oh», disse solo.
«Finirei per disprezzarlo, capisci? Con l'andare del tempo. Ed è una cosa che non voglio, non importa come andrà, lui non merita il disprezzo di nessuno, men che mai il mio».
Era una bugia. Non avrei mai ammesso quello che ci eravamo detti davanti al piano cucina, non avrei mai detto ad alta voce che il problema non erano i soldi, ero io che avevo una paura dannata perché mi sentivo completamente nuda davanti a lui, spogliata di ogni scudo e fragile ed inerme. George conduceva il gioco ed io volevo, dovevo avere il controllo. Preferivo essere considerata una stronza che pensa solo ai soldi, piuttosto che dire la verità.
Era chiaro che Marie ne aveva di strada da fare per diventare cinica e materiale come me. Lo vidi dal suo sguardo che non condivideva l'idea dell'avidità, conoscendola non ci sarebbe mai riuscita.
Insistetti: «Posso tornare ad amare Paul, posso davvero farlo. E allora tutto andrà per il verso giusto, vedrai. Oh, ti prego, non guardarmi in quel modo!», aggiunsi quasi supplichevole. «Neanche ti avessi ferita con un tagliacarte. Avanti, devo già convivere con il senso di colpa per quello che ho fatto a Paul e a George, non farmi sentire di merda anche per te».
Storse le sue labbra carnose in una smorfietta, ma annuì. «Léo, io ci sarò sempre per te. Ricordatelo, qualsiasi cosa succeda, dovessi anche diventare una di quelli che mettono le bombe in giro».
Non riuscii a trattenermi e ridacchiai. «I terroristi».
«Sì», esitò lei. «Quelli. Léo, devo proprio dirti una cosa».
«Qualsiasi cosa, me lo merito».
«Sono un po' delusa dal fatto che tu non me ne abbia mai parlato. Siamo amiche, anzi di più, siamo come sorelle. Perché non mi hai detto niente?».
A quel punto mi ero sputtanata del tutto. Non avevo più veli, non dopo averle parlato di George e di quello che c'era stato. Scelsi, per una volta, di non mentire, perché ero stanca di raccontare sciocchezze. «Perché non sarei mai stata in grado di tollerare il modo in cui mi avresti fissata. Marie, non riuscivo nemmeno a guardarmi in faccia alla mattina. Leggere il mio fallimento nei tuoi occhi sarebbe stato orribile, spaventoso. Non l'ho detto a nessuno, soltanto a Jacques».
Non rispose, limitandosi a fissarmi.
Fui costretta a proseguire per riempire il silenzio. «Io lo amo», mormorai. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, come se quelle che non avevo versato da quando mi ero seduta volessero uscire tutte insieme. «Oddio, io lo amo».
Mi portai una mano alle labbra e strinsi gli occhi per impedire ai rivoli salati intrappolati tra le ciglia di rotolare giù. Dopo qualche secondo una mano mi scostò i capelli dalla fronte e un paio di labbra carnose mi confortarono sfiorandomi le guance.
«Tesoro», mormorò Marie accorata. «Perché ti fai questo? Tu ami George, allora va' da lui».
«Non posso», annaspai, cercando aria. «Non posso, non con Paul. In un certo modo amo anche lui, credo».


***

Una volta, in quei due mesi idilliaci in cui eravamo stati bene, George ed io avevamo fatto il bagno insieme nella sua vasca.
Era una vasca vecchia, praticamente antica, doveva essere del secondo dopoguerra e credo appartenesse ai precedenti proprietari, una coppia di antiquari. Era di quelle con i piedini, appoggiate sul pavimento, e i pomelli d'ottone, era ampia, liscia e fredda, gradevole. Una di quelle dove puoi stendere le gambe, scivolare dentro e fingere che il mondo esterno non esista.
Niente candele, niente petali di rosa, quelle erano cose che faceva Paul. George aveva solo riempito la vasca di schiuma e si era sdraiato; io mi ero messa davanti a lui. Non ci preoccupava la nostra nudità, non ci infastidiva il contatto tra i nostri corpi. Pelle contro pelle, cuore contro cuore, le sue mani sui miei fianchi per aiutarmi a non scivolare, le sue labbra sottili piegate in un sorriso. E poi le sue braccia avvolte intorno a me, calde e così liquide e avvolgenti che avrei voluto morirci dentro.
Eravamo rimasti lì a leggere un libro, lo stesso, in silenzio, finché tutte le bolle non erano sparite e l'acqua non era diventata fredda. Ricordo che il contatto con il suo sterno magro mi aveva dato fastidio alle spalle, ma era un fastidio piacevole, che mi andava bene. Avevo il suo respiro nell'orecchio, regolare, caldo, mentre il suo cuore pulsava. Il contatto delle sue ginocchia contro le mie, dei suoi piedi contro i miei mi aveva fatta sentire al sicuro, quella volta, protetta; proprio ciò che George mi aveva rimproverato in seguito. Però era stato così bello, così meravigliosamente bello da stroncarmi il fiato come un colpo di fucile dritto al cuore.
Ricordo di aver pensato che sarei rimasta tutto il giorno, anzi, tutta la vita in quella vasca, se soltanto avessi potuto. Avrei voluto congelare quell'istante e farlo durare per sempre.


***

Jacques mi presentò Manuel, ma lo fece solo con una clausola: avrei dovuto fingere di non avere la minima idea che quei due scopavano. Con il passare dei giorni, il mio coinquilino aveva iniziato a desiderare che la sua storia diventasse seria. Era una cosa un po' disarmante, perché sia lui che Marie stavano cambiando. Perché io no? Non potevo fare altro se non adattarmi al loro nuovo Io interiore e così non avevo fatto commenti. Jacques era passato dall'essere un maniaco sessuale fumato all'essere un fidanzatino fumato.
Comunque dovevo rispettare i patti e per fingere che fosse tutto normale chiesi a Marie di venire a cena a sua volta. A lei dovevo dirlo, però, che Jacques era gay, e la sua reazione fu più o meno: «Oh. Mio. Dio. Che cavolo stai dicendo, Willis?». Roba seria, perché Marie citava Il mio amico Arnold solo nelle occasioni che lo meritavano davvero.
Manuel era un bel tipo, non avevo dubbi in proposito. Quando si presentò a casa e Jacques andò ad aprire ostentando una tranquillità che non aveva, la prima cosa che pensai fu che non sarebbe mai passato inosservato. Era anche piuttosto diverso dal mio amico, nell'aspetto, perché dove uno aveva i capelli chiari e tagliati alla moda l'altro aveva dei rastoni che gli spazzavano il sedere, il mio coinquilino era alto, ma Manuel ancora più alto, uno era nervoso e l'altro era calmo. Profumava di erba e di pulito, proprio come Jacques mi aveva detto.
Era anche uno con le sue idee. Anzi, aveva un'idea praticamente per ogni cosa, anche per le cazzate. Era uno di quelli con cui puoi andare d'accordo su tutto oppure odiarli categoricamente. Jacques finse di essere tranquillo, in sua presenza, ma in realtà andò in brodo di giuggiole dopo nemmeno cinque minuti.
Tra lui e Marie non c'era tensione. All'epoca della loro storiella erano entrambi consapevoli del fatto che sarebbe durata molto poco, lui era interessato solo alla sua quinta abbondante, mentre lei aveva appena scoperto quanto fosse divertente fare sesso e voleva farlo tutto il giorno. Un connubio vincente, era stato lì che Jacques ed io avevamo iniziato a conoscerci un po' meglio – anche se l'amicizia vera era arrivata dopo.
Tornando a noi, Manuel era anche uno di quelli sempre cannatissimi. In questo lui e Jacques trovavano un punto in comune. Anche mentre cenavamo si fece un cannone e i discorsi divennero così divertenti che decisi di non bere e non fumare per rimanere lucida ed ascoltarlo. Sembrava sentirsi un dio mentre declamava l'importanza del lattice nel mondo moderno.
«E tu ce l'hai un fidanzato?», chiese a Marie ad un certo punto.
Lei, che aveva preso molto sul serio il suo ruolo da “so che sei gay ma non devo farlo capire”, ridacchiò. «Ci stai provando con me?».
Manuel scosse il capo e i suoi dread ondeggiarono. «No, io sono a livello del Nirvana, non mi perdo in sciocchezze materiali».
Istintivamente risi, perché scopare con Jacques era decisamente molto materiale. «Marie è praticamente già maritata. Guardatela, come gongola».
«Si chiama Jeannot», spiegò lei mentre le sue guance si imporporavano. «Ci siamo conosciuti in un pub, lui è stato così gentile». Aveva praticamente gli occhi a cuoricino. «Era lì con i suoi genitori. Mi ha guardata per tutta la sera, poi prima di uscire si è avvicinato al mio tavolo, mi ha sorriso e mi ha chiesto il mio nome. Solo il mio nome. Sai, Manuel, ti piacerebbe. Magari un giorno te lo presento».
Per la verità non le aveva chiesto solo il nome. Le aveva detto “Come ti chiami? Perché il tuo nome deve essere meraviglioso, tu sei così bella!”. Io, che ero seduta al tavolo con Marie e Nicole, avevo dovuto trattenere una risata perché quello era il genere di romanticherie così eccessive da diventare leziose. E poi sono cose che non succedono nella vita reale, a meno che tu non ti chiami Marie Saunière. Praticamente era stato amore a prima vista.
Annuendo, Manuel passò la canna a Jacques e si raddrizzò sulla sedia, le clavicole in rilievo che si mossero quando fece ondeggiare le spalle. «E tu, Frangetta?».
“Frangetta” ero io. «Io ho un ragazzo, si chiama Paul», affermai con un sorriso gentile. Dicono che per iniziare bene la giornata si debba sorridere, quindi immaginavo di doverlo fare anche per convincermi ad amarlo di nuovo. Se fossi partita con il piede giusto, la mia psiche si sarebbe piegata al mio volere.
Jacques non si trattenne e ridacchiò. Non me la presi, perché era un po' fatto e aveva bevuto qualche birra, ma dentro di me qualcosa ondeggiò, dalle parti delle mie budella. Paul avrebbe anche potuto essere lì, in quel momento, a conoscere un nuovo amico – del quale forse non gli sarebbe importato molto – e tuttavia io non lo avrei mai voluto seduto con noi a quel tavolo. No, non sarebbe stato il luogo adatto a lui, non perché Paul fosse un omofobo o non gli piacesse il cibo greco che avevamo ordinato, ma perché ai miei occhi sarebbe sembrato sbagliato.
Io non volevo Paul con me, volevo George.
Mi distrassi quando Marie mi sfiorò un braccio. «Tutto bene?».
«Certo», mentii. Dovevo smetterla di pensarci, dovevo smettere finché non fossi stata abbastanza forte da sopportare il ricordo. «Stavo solo pensando che Manuel ha dei dread davvero molto lunghi».
«Sono i miei tesori, Frangetta», replicò lui con un bel sorriso. «Tu sei un'artista, vero?».
Per un momento credetti di non aver capito. «Come dici?».
«Sei un'artista. Una pittrice, insomma. L'ho capito subito».
Scossi il capo. «Io non dipingo». Dopo il ritratto di George non avevo più preso in mano nemmeno una matita, non avevo più neppure scarabocchiato gli angoli dell'elenco telefonico mentre parlavo con mia madre.
Non che mi mancasse l'ispirazione, anzi, ne avevo di cose da dire e avrei saputo anche come dirle. Ma tanto chi avrebbe visto i miei lavori? Nessuno, quindi fine della storia.
Manuel annuì. «Ah, sei una di quelli tormentati. Ganzo».
Jacques accorse in mio aiuto. «Lasciala stare, amico».
«No, sono molto serio. Non fraintendermi, io di arte non capisco una sega – scusa per il termine, Marie».
«Figurati».
«Però le persone», continuò lui. Era il discorso di uno nel pieno di un trip. «Quelle le capisco. Capisco la gente. E guardandoti in faccia sembra che tu abbia scritto in fronte cosa vuoi fare davvero».
Iniziavo ad essere molto curiosa. Non ero arrabbiata, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. È possibile che se fosse stato un altro a dirmi le stesse cose gli avrei strappato i dread e glieli avrei fatti mangiare. Invece Manuel mi apparve in quel momento avvolto di un'aura di saggezza proprio come un profeta. E dire che non ero fumata, io.
«E cosa vorrei fare?», domandai con molta convinzione.
«Sei incavolata nera, Frangetta», fece lui annuendo con molta serietà. «La rabbia è ok, ma devi sfogarla o ti salterà il cervello. E credo che il tuo sfogo possa essere l'arte, sai, butta il colore sulla tela come se stessi strappando il cuore di chi non ti piace. È molto più sano che strappare un cuore vero».
Guardai Jacques, inorridita. Doveva per forza aver raccontato qualcosa, doveva essere stato lui perché Manuel non sapeva niente di me, non aveva idea di quale cuore avessi già strappato. Oddio, ero io quella di cui stava parlando ed era un quadro orribile. Come aveva fatto quella specie di Bob Marley bianco ad appiccicarmi addosso una definizione nel giro di due ore?
Era una definizione che mi piaceva, poi? Non dovevo riprendere a dipingere perché uno strafatto del cazzo me lo veniva a dire, porca miseria, non me l'aveva mica ordinato il dottore. “Dio, fulminami ora perché sto impazzendo”.
Riflettendoci bene, in realtà, anche io ero cambiata, non erano stati solo loro due a crescere. Fino a sei mesi prima avrei detestato Manuel, completamente, non perché fosse gay, ma perché aveva quell'aria un po' troppo alternativa da fricchettone strano. Non lo avrei mai preso in giro come avrei fatto con George, perché Manuel era troppo adulto per poterlo fare, ma lo avrei etichettato come “sfigato” in due secondi.
Ora, invece, con quel suo sputare sentenze nel rincoglionimento dell'erba, mi piaceva. Mi piaceva perché era spontaneo e simpatico, perché diceva ciò che pensava senza complicarsi troppo la vita, mi piaceva perché rendeva felice quello che era diventato il mio migliore amico.
Per questo non mi arrabbiai.
«Ah, un'altra roba che volevo dire», fece Manuel. «Voi due lo sapete che Jacques ed io ci frequentiamo?».
Lo aveva detto in un tono che sarebbe stato adatto per: “Voi due lo sapete che nella Via Lattea ci sono più di quattrocento miliardi di stelle?”. Credevo che a Jacques si sarebbe sganciata la mascella per la sorpresa.
Marie soffiò dal naso scoppiando in una risata clamorosa. Io, dal canto mio, ero solo contenta che il discorso si fosse spostato da un'altra parte.
La serata passò, Manuel salutò Jacques con un bacio appassionato e il suo ragazzo ricambiò con uno sguardo di puro sbigottimento, Marie rischiò di addormentarsi sul divano e alla fine ognuno tornò nel suo letto a dormire.
Io, però, non ci riuscii. Rimasi avvolta nelle lenzuola a lungo, gli occhi sgranati nel buio a fissare il soffitto, senza un pensiero preciso in mente. Il mio cervello vagava dalla tesi, a George, alla mia famiglia – alla mia mamma che mi mancava tanto, in quel momento, più che mai – e a ciò che aveva detto Manuel.
L'orologio segnò l'una, poi le due, poi le tre. Alle tre e ventidue mi parve chiaro che non avrei dormito più, così mi alzai calciando via il lenzuolo che crollò parzialmente sul pavimento.
Non so cosa mi spinse a farlo. Forse volevo dar ragione a Manuel, o al contrario volevo smentirlo. Non lo so. Accesi la luce e presi la tela ed i colori. Con una strana melodia nelle orecchie, come se il mio intero essere stesse danzando e fremendo per l'esaltazione e la paura in una strana predisposizione kantiana, iniziai a preparare la tavolozza.
E poi dipinsi. Sognai, volai, scrissi, piansi, parlai, corsi, tutto sulla tela bianca. Un colore dopo l'altro, un segno dopo l'altro, senza pennelli, solo con l'uso delle mani. Quella era la mia dannatissima tela, nella mia brutta stanza in una casa che condividevo con un polacco amorfo, una stronza patentata e una delle persone a cui volevo più bene. C'eravamo tutti e quattro, in quel quadro, e c'era anche Marie insieme al suo fidanzato, c'erano i nostri amici, le nostre serate, la mia nicotina e la birra, i pomeriggi a passeggio, Delacroix, Paul e George, Parigi e Urbino fuse insieme. In ogni colpo c'era tutta la mia vita, in ogni passaggio con i polpastrelli imbrattati di rosso, di blu, di nero, c'ero io.
Divenni sempre più rabbiosa man mano che andavo avanti, per poi tornare ad essere calma verso la fine. Sapevo di essere sporca sulla fronte, dove mi ero scostata la frangia con la mano piena di giallo, e sul pigiama a causa di alcune gocce cadute. Non mi importava, se avessi imbrattato anche i muri sarei stata comunque felice.
Dio, quanto era liberatorio. Io penso che l'arte voglia dire qualcosa di diverso per ognuno di noi e per me, in quel momento, era l'unico modo che conoscessi per riversare tutta la mia frustrazione. Frustrazione per non riuscire ad amare Paul come avrebbe meritato, per non essere stata in grado di scegliere George al posto del mio egoismo, per non aver chiamato abbastanza spesso a casa. Per non aver passato la notte con Marie, quando credeva di essere incinta, e per non aver stretto Jacques a me quando aveva paura di sbagliare tutto, perché non lo avrebbe mai ammesso ma avrebbe pagato il suo peso in oro per un abbraccio.
Su quella tela c'era tutta me stessa e questa volta non l'avrei tenuta nascosta, l'avrei messa dove tutti avrebbero potuto vederla, dove chiunque avrebbe potuto guardarla e dire “È Léo!”, con tutti i miei pregi e i miei difetti, le qualità e gli errori, le migliaia di errori: feci una foto e la postai su Facebook.
Non pensate che il mio atto di coraggio mi abbia aperto le porte del Paradiso, anzi, non appena mi resi conto che la fotografia era in rete e che chiunque avrebbe potuto pensare che faceva schifo mi nascosi in camera di Jacques e dormii con lui, troppo spaventata dal giudizio altrui per riemergere come una persona sana di mente. Un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per Eleonora Gentilini.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. ***


Nda: Allora, io mi rendo conto dell'abissale ritardo nella pubblicazione di questo capitolo, ma sono talmente oppressa dagli esami che forse non mi vedrete mai più. Comunque spero che non mi abbiate abbandonata definitivamente, che mi starete ancora seguendo nonostante la sessione estiva e le eventuali ferie. Prometto che la prossima volta non mi farò attendere oltre! <3
Una cosa che voglio dire fin da subito: c'è qualcosa in questo capitolo che non mi soddisfa affatto. Non so cosa sia. Forse, dopo mesi e mesi di lavorazione, ora che ho finito la stesura odio Léo perché abbiamo passato troppo tempo insieme. Oppure boh, non saprei proprio dire. Voglio da voi un giudizio spassionato, anche negativo :3
Il capitolo 15 è già stato inserito su Wattpad
e come sempre vi ricordo che mi trovate anche qui: Gaiman in the T.A.R.D.I.S.



Capitolo 15.

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«Mamma, smettila».
«La mia bambina si laurea! Perché mai dovrei smetterla?».
Levai gli occhi al cielo, avvampando. «Perché è imbarazzante», borbottai.
Mio padre calò una delle sue manone sulla spalla della mamma, sorridendomi con fare incoraggiante. «Lasciala stare, le fotografie le facciamo dopo. Adesso è troppo agitata, non lo vedi?».
Ero più che agitata, ero terrorizzata al punto che se avessi anche solo annusato qualcosa di commestibile avrei vomitato. Avevo lavorato alacremente a quella tesi e soprattutto non avevo sgobbato sui libri per cinque anni – in una lingua che non era neppure la mia, siamo onesti – per poi ottenere un punteggio scarso in un unico giorno. Ero arrivata in fondo alla stronzissima license, la laurea triennale, e adesso che stavo per lasciarmi alle spalle anche il master mi sentivo euforica e spaventata. Quella mattina a colazione, prima di raggiungere i miei in albergo, Jacques mi aveva guardata appena un secondo per poi decidere che era il caso di starmi alla larga.
Comunque lui sarebbe venuto con Manuel, me lo avevano promesso. A laurearsi con me ci sarebbe stata anche Marie, accompagnata dalla sua infinita serie di parenti – nonni, zii, cugini dal primo al quarto grado con relativi coniugi e figli, per non parlare delle sue due sorelle minori: sono una famiglia numerosa – e al povero Jeannot, che a malapena riusciva a stare vicino alla sua fidanzata senza essere spodestato dal familiare di turno.
Ecco, se io mascheravo la mia ansia dietro un'espressione stomacata, Marie esternava i suoi sentimenti come una furia.
«Léo!», strillò come una gallina quando mi vide. Corse come poteva sui tacchi, scavalcando uno dei cuginetti e spostandone un altro. «Levati, scimmia», lo apostrofò.
Le fui grata per avermi salvata dalle foto di mia madre, così presa dal fare scatti in giro che mio padre dovette prenderle la macchina fotografica. «Marie, voglio morire».
«Non ti azzardare a crepare prima che io abbia detto la mia tesi», esclamò fulminandomi con lo sguardo. «Sto per uscire di testa, se non ci fanno entrare immediatamente andrò direttamente dal rettore!».
Paul, alle mie spalle, intervenne: «Andrà tutto bene, siete entrambe preparate, giusto?».
A difesa di Marie posso dire che non era in grado di gestire la segretezza. Il solo fatto di dover nascondere qualcosa la mandava in un tale stato confusionale che finiva per tradirsi da sola. La nuova versione di lei, quella cinica, non era troppo diversa sotto questo punto di vista.
Sapeva che gli avevo messo le corna e non poteva dirlo. Ecco perché non c'è da stupirsi se rivolse a Paul un'occhiata spaventata, girò sui tacchi e tornò dalla sua famiglia senza nemmeno rispondere. Pur nell'ansia del momento sorrisi.
La mia mano destra venne intercettata da quella di Paul. Gli rivolsi un'occhiata riconoscente, perché nell'incertezza la sua presenza mi faceva sentire meno sola e più sicura.
Era stato il giorno prima che aveva conosciuto i miei. Mi aveva accompagnata in auto fino all'aeroporto di Orly per aiutare la mia famiglia con i bagagli. Sarebbero rimasti appena una settimana, ma mia madre si era portata scorte di vestiti per un anno, al punto che nel baule della Giulietta avevamo fatto fatica a far stare tutto.
A mio padre era piaciuto, lo si capiva dal fatto che non gli aveva chiesto di quale orientamento politico fosse – aveva reso la vita un inferno al fidanzatino che avevo alle superiori, ad Urbino, solo perché lui aveva detto di essere di destra: mio padre odiava quelli di destra. Mia madre si ricordava benissimo del discorso che avevamo affrontato a Natale, sulla Tour Eiffel. Era una donna educata – è una donna educata, Dio, non è mica morta – e gli rivolse un sorriso gentile. Aveva cercato di dire qualcosa in francese, una delle poche frasi che conoscesse, ma il suo “Salut, Paul!” era emerso come un “shalutttpòl”. Lui aveva riso e le aveva preso l'ultima valigia.
In quel momento, mentre ero in attesa nell'atrio della facoltà in attesa di entrare nell'aula dove avremmo discusso le tesi, non avrei potuto essergli più grata per la sua presenza.
Dopo qualche minuto arrivarono Manuel e Jacques. Vedere il mio coinquilino vestito elegante non era strano, si metteva la camicia e la giacca praticamente ogni volta che usciva di casa; a sorprendermi di più fu l'abbigliamento di Manuel. Ero stata io stessa a dirgli che non occorreva mettersi niente di che, poteva venire in jeans e T-shirt per quel che mi riguardava – ok, adesso è chiaro quanto fossi cambiata – ma lui aveva fatto le cose in grande. Aveva raccolto i dread in una coda, profumava così tanto che mi parve di essere entrata da Douglas ed aveva un completo nero molto bello, simile a quello indossato da Paul, la cui manierosità era smorzata da un paio di All Stars verde mela.
La cosa che più mi entusiasmò, però, fu vedere Jacques arrivare tenendolo per mano. Non so cosa gli avesse fatto Manuel, ma lo aveva trasformato in un essere umano con dei veri sentimenti.
Mio padre non vedeva l'ora di conoscerli – e di chiedere a Manuel un po' d'erba, sospetto – e mia madre mi disse in italiano: «Ma che carini che sono!».
«Mamma!», la ripresi.
«Che c'è? È vero!».
E poi, dopo un'attesa anche troppo lunga, le porte dell'aula in cima alla scalinata si aprirono e Marie mi afferrò con forza per una mano, trascinandomi con lei e gli altri due studenti. Le nostre famiglie ci seguirono a pochi passi.
Fu allora che lo sentii. Come un sussurro, più che un richiamo, ma lo avvertii distintamente alle mie spalle, in fondo alle scale, vicino all'ingresso.
George che chiamava il mio nome.
Non so dire cosa provai: da un lato rabbia, perché dopo mesi in cui mi era mancato da morire si ripresentava proprio quel giorno, quando non avevo bisogno di sorprese, e dall'altro una gioia sconfinata perché tra i sette miliardi di persone sulla Terra era solo di lui che avevo realmente bisogno. E poi paura, paura perché lo amavo, lo avevo ammesso a me stessa, e non volevo ripiombare nella situazione di incertezza che aveva invaso i miei giorni durante la nostra storia.
Ma lui era venuto per me, si era ricordato di me e aveva pensato che potessi avere bisogno di sostegno. Oddio, lo aveva fatto per aiutarmi, per me, solo per me. Nonostante il male che gli avevo fatto e sebbene fosse ovvio che saremmo stati solo peggio, dopo, era venuto per me.
Non sarei più stata ansiosa al momento di parlare al mio relatore e alla commissione; non avrei avuto paura di salire sulla predella e di esporre i miei argomenti davanti ad almeno una cinquantina di sconosciuti e agli amici. Mi sarei perfino lasciata fare delle foto da mia madre, mentre Paul...
Beh, sarei stata in grado di gestirlo. Nell'arco di un istante, da quando avevo sentito la sua voce chiamare il mio nome, persi ogni esitazione e mi sentii con la situazione sotto controllo. Ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto, perché lui era lì, George era lì per me e non se ne sarebbe andato fino alla fine.
Strinsi la mano di Marie e voltai la testa per vederlo.
Non c'era. Non c'era nessuno in fondo alle scale, nessuno che si stagliasse nella luce che entrava dal vetro delle porte. Non c'era George, mi ero immaginata ogni cosa.
Mi arrestai di colpo, scrutando insistentemente l'atrio. Alle mie spalle la sorella di uno degli altri studenti mi sorrise per poi superarmi, mentre Marie si fermava con me.
«Cosa guardi?», domandò.
I miei genitori si fermarono qualche gradino più in basso, voltandosi a loro volta per capire cosa stessi fissando, e lo stesso fecero Paul e Manuel. Jacques, invece, piantò i suoi occhi nei miei come a dirmi di stare calma e di non fare un casino.
Gesù santo, ero stata io. Era stata un'illusione della mia mente, forse dovuta all'ansia per la tesi. Osservai la porta d'ingresso aprirsi e far entrare una professoressa in compagnia di uno dei custodi; i suoni mi giunsero ovattati, i movimenti degli altri rallentati. Sapevo di avere le labbra dischiuse per la sorpresa e la delusione.
Non c'era e basta. E basta.
«Tesoro?», la voce di mia madre mi riportò alla realtà. «Tutto bene?».
Annuii, abbassando lo sguardo su di lei, e spalancai le labbra in un sorriso finto e così realistico che avrei potuto ingannare chiunque. «Certo!», cinguettai con allegria. «Mi era solo sembrato di vedere una persona, ma mi sono sbagliata». Ripetei la stessa cosa in francese a beneficio degli amici, dopotutto non era certo una menzogna.
La mamma mi sorrise e mio padre indicò la porta dell'aula. «Coraggio, prima che ci lascino fuori».
Tornai a camminare insieme a Marie, arrivammo in cima alla scalinata e due uomini in divisa ottocentesca in stile Napoleone – la Sorbona è molto teatrale, come università – iniziarono a spingere le ante di legno per chiudere l'accesso alla sala.
Ebbi l'istinto di fermarli, lui poteva ancora arrivare e una volta chiuse le porte non avrebbe più potuto entrare. Poi udii la serratura scattare e mi diedi della stupida coglioncella. Presi posto nelle prime file, tra Paul e mio padre, il tessuto della sedia grigia che mi pizzicava le cosce sotto il tailleur, insicura.
Da un certo punto di vista lo biasimavo per non essersi presentato davvero. Razionalmente, però, mi rendevo conto che non potevo certo prendermela. Non mi ero aspettata una sua comparsa, quella mattina, ed era stato solo dopo averlo immaginato che ci avevo davvero sperato. Illusa. Non sarebbe venuto e dovevo aspettarmelo, anche io non mi sarei presentata a parti invertite.
Per la prima volta da quando ci eravamo lasciati mi chiesi cosa pensasse di me. Che ero una stronza? Una troietta? Se era ciò che pensava, aveva ragione. Come poteva il mondo andare avanti quando lui ed io avevamo rotto? Come facevano gli altri a non sapere? Mentre uno dei relatori faceva un breve discorso che io ignorai completamente, mi chiesi come potessi io andare avanti ora che lui non era più mio.

Eravamo stati insieme poco, eppure a pensarci mi sembrava fosse stato per sempre. Nessuno sopravvive alla fine dei per sempre, non senza riportare ferite destinate a bruciare a lungo. Come sarebbe stato quel giorno così importante, se al posto di Paul ci fosse stato George? Mi sarei sentita meglio? Se quella notte di mesi prima, quando il terreno sotto i miei piedi era stato scosso dall'addio, avessi scelto di lasciarmi alle spalle la tranquillità di Paul in favore di un balzo nel vuoto e nel buio con George, dove sarei stata?
Il primo studente espose la sua ricerca sui paesaggi di Frida Kahlo, poi toccò a Marie con la sua avanguardia russa. Io sarei stata la terza e la ragazza robusta dall'aria serena sarebbe andata per ultima.
Ascoltai la mia amica solo per metà e quando venne il mio turno mi alzai dalla sedia senza avere realmente la percezione di quello che stavo per fare. Salii sulla predella, una luce al neon sparata in faccia, passai lo sguardo sui presenti e tutte quelle facce che mi fissavano non mi impressionarono affatto.
Avevo completamente scordato la paura per l'esposizione della tesi. Nella mia mente c'era spazio solo per George, che non era venuto e mi aveva lasciata da sola, e per me che mi ero meritata tutto quanto.
Aprii la bocca, esitante, temendo che le uniche parole che sarei stata in grado di pronunciare sarebbero state: “Mi manca George”.
Invece fu una reazione istintiva, il mio sorriso dipinto di rosso, come il battere i denti quando si ha freddo o il contrarre i muscoli per i crampi alle gambe. Una semplice reazione del corpo. Ed era un sorriso così freddo e serio che probabilmente il mio relatore lo scambiò per professionalità.
«Buongiorno a tutti», dissi nel microfono, la voce che non tremò nemmeno per un istante «professori e colleghi. Sono Eleonora Gentilini, presento in collaborazione con il professor Olivier Thrédson una tesi intitolata L'Arte e la Guerra».

 

***


«Giuro, Frangetta», disse Manuel, «mi ha lasciato a bocca aperta la tesi di Cerbiattino. Tutta quella storia dell'inconscio, forte, non ci avrei mai pensato».
“Cerbiattino” era Marie. Aggrottai la fronte nel vedere che, appena dopo aver parlato, il ragazzo di Jacques offriva a mio padre un sacchettino bianco con tutta la nonchalance possibile. Lui lo accettò e se lo infilò in tasca, fingendo di non averlo neanche visto.
Non mi disturbava più di tanto che mio padre la usasse, l'aveva sempre usata e io non mi facevo particolari problemi. Non pensate che io avessi dei traumi infantili legati ad un padre drogato, non fumava mai in casa e comunque lo avevo scoperto quando ormai ero abbastanza grande per capire che non era una tragedia, un po' di fumo ogni tanto. Però vederlo accettare erba dai miei amici in quel modo era strano.
Perché tutti mi sembravano diversi? Erano giorni che andava così. Diversi.
«Pa', vacci piano con quella roba», lo redarguii.
«Non dirlo a tua madre», minacciò lui, «o ti taglio gli alimenti».
Feci per ribattere quando sopraggiunse Thrédson, il mio relatore. Era giovane, giovanissimo, era diventato professore associato mentre io frequentavo il terzo anno di corso. Anche per quello mi era piaciuto fare la tesi con lui, era divertente e grintoso.
Mi rivolse un largo sorriso, per poi voltarsi verso il mio vizioso padre. «Gentilini, mi presenti ai suoi genitori, le dispiace?», domandò spingendosi gli occhiali sul naso. «Lo farei io stesso, ma non so l'italiano».
Sorrisi ed obbedii. «Papà, lui è Olivier Thrédson. Mi ha aiutato un sacco con la tesi, sai, è stato molto gentile».
Mio padre sembrò apprezzare lo stile di Thrédson, la sua camicia e la cravatta, gli occhiali anni '60 e tutto il resto. Non so come potessero comunicare, ma dopo appena pochi secondi si erano già allontanati di qualche metro, i piedi che spostavano la ghiaia del giardino interno della facoltà, intenti a gesticolare fra loro.
Tornai a rivolgermi a Jacques e Manuel. «Insomma, è andata».
«Insomma, tu sei strana», mi scimmiottò il mio coinquilino. «Che cazzo avevi sulle scale? Credevo saresti svenuta».
«Credevo di aver visto George», spiegai, sperando di non suonare così supplichevole come credevo. «Cioè, di aver sentito la sua voce».
Jacques sbuffò fumo di sigaretta dal naso. «Ah, lo sapevo! Avevi detto che ti era passata, ma non ci ho mai creduto».
«Bravo, hai vinto», ironizzai. «Vuoi un premio? Un giocattolo?».
«Sta' calma, sta arrivando il tuo futuro maritino», sospirò lui. «Non fare figure di merda».
Paul stava arrivando insieme a mia madre. Per inciso, non le ho mai chiesto nulla di cosa ne pensasse, ma credo che lui le piacesse. Insomma, lui è quel genere di persona che piace alle mamme, è affidabile, bello, stabile. Perciò era cortese e affettuosa nei suoi confronti e lui lo apprezzava, si vedeva. Però c'era qualcosa nel modo in cui guardò le nostre mani sfiorarsi, come se non fosse convinta di noi due insieme. Come se fossimo un'equivalenza matematica sbagliata, non erano le singole parti a non essere ok, era il risultato finale.
«Paul ha cercato di dirmi qualcosa», annunciò lei. «Io, però, non ho capito niente. Beh, non dirglielo, perché magari ci rimane male».
Sorrisi, non potevo fare altro. «Mamma, mentre io sono al brunch con gli altri, tu e papà che farete?».
Le si illuminarono gli occhi per l'emozione. «Oh, papà vuole portarmi a Disneyland! Ti rendi conto? È da quando sono piccola così che aspetto di andarci, durante la marcia di Topolino voglio stare in prima fila», mormorò con aria sognante. «Non mi importa se ci sono dei bambini davanti a me, li sposto, sono più vecchia e ho più diritti».
Non avrebbe avuto senso dirle che non è proprio così che si fa, perché tanto non mi avrebbe ascoltata. La baciai sulle guance e la vidi schizzare verso suo marito, portandolo via quasi di peso; Thrédson rimase di sasso. Mi salutarono con la mano e sparirono dentro la facoltà.
«Allora, Armani», disse Manuel rivolgendosi a Paul, «sei orgoglioso di Frangetta?».
Lui rimase un po' a disagio per il soprannome. Ho già detto che, tra le sue numerose qualità, non si annoverava il senso dell'umorismo? Comunque non parve infuriarsi. «Ovviamente! La mia professoressa è stata bravissima».
“Ti uccido”, pensai. «Professoressa, già», ripetei con un sospiro.
«Voglio far vedere una cosa a Manuel», disse Jacques dopo un momento. «Ci vediamo fuori, così poi andiamo».
Non voleva ammettere ad alta voce che volevano imbucarsi in un angolo per fare all'amore o farsi una canna. In entrambi i casi sarebbe stato poco decoroso esibirsi lì, davanti a tutti, così sorrisi e li salutai. Li vidi schizzare via, i dread di Manuel intrappolati nella coda e una sua mano infilata con nonchalance sotto la giacca di Jacques.
Paul mi baciò sulle labbra senza attendere oltre, cogliendomi di sorpresa e facendomi piegare il collo in una posa dolorosa. «Amore, sei felice? Hai finalmente finito di studiare!».
Nella sua lingua significava “Hai finito con questa sciocchezza e puoi tornare a fare la bella vita con me”. Forse fu questo a farmi staccare da lui con stizza.
«Paul», dissi d'istinto.
«Dimmi, Léo».
«È finita».
Lo dissi in un soffio, senza rifletterci sopra, uno slancio improvviso e inspiegabile, eppure così perfettamente razionale e in linea con me stessa. Mi passai la mano sulle labbra, dicendomi che dovevo iniziare a riflettere prima di parlare. Però era stato inebriante.
Cazzo, perché non lo avevo fatto prima?
Tutta la rabbia di quei mesi, il nervosismo, i nervi a fiori di pelle, la sensazione che tutto stesse andando nel modo sbagliato: ogni cosa sparì, spazzata via dall'ultima sillaba che pronunciai, -ta. Mi sentii subito più leggera, così leggera che il mio nuovo stato d'animo sorprese anche me.
Mi studiò per un momento, cercando di indovinare dal mio sguardo se stessi parlando dell'università o della nostra storia. Sbatté le ciglia scure e aggrottò la fronte. Sembrava apparirgli inconcepibile che volessi lasciarlo. «Come?».
Non potevo lasciare spazio agli equivoci. Non ora che avevo cominciato, era tardi per tirarsi indietro. «Tra noi. È finita. È finita da mesi e non ce ne siamo nemmeno accorti».
Scosse il capo e sorrise, quel sorriso paternalistico del cazzo. «Ma no, amore, deve essere lo stress per la laurea, ma ora è andata».
Sorrisi a mia volta. Lo guardai con dolcezza, perché Paul aveva fatto tanto per me e meritava tutto il mio rispetto, il mio affetto e la mia gentilezza. Ma non capiva. «No, non è vero. Non sono mai stata più seria e tranquilla. Paul, a modo mio credo di provare qualcosa per te, ma non siamo fatti l'uno per l'altra».
Vidi la calma abbandonare il suo volto, la sua naturale compostezza svanire. «Come puoi dire questo?».
«Pensaci bene e mi darai ragione», insistetti. «Non stiamo insieme per i motivi giusti».
«Stiamo insieme perché ci amiamo».
Era una giustificazione tanto infantile quanto straziante. «Siamo abituati ad amarci», lo corressi. «Ma ora basta. Mi dispiace, Paul, so che non capirai».
Non avrebbe mai capito, lo vedevo dal suo sguardo di allora e lo so adesso, a distanza di tempo. Lui non si era mai accorto di quanto fosse storto il nostro rapporto. Credo che gli fosse sufficiente, tipo “due cuori e un superattico”. Perché la capanna, per lui, non sarebbe bastata. Fino a due ore prima non sarebbe bastata nemmeno a me.
Eppure, dopo avergli detto addio con un ultimo bacio, mentre mi allontanavo ebbi la piacevole e ignota sensazione di aver fatto la cosa giusta. Per la prima volta da mesi avevo fatto la cosa giusta. Per me, l'avevo fatto per me. Non per George, non per la mia famiglia, solo per me stessa.
Entrai nell'edificio e percorsi il corridoio che mi avrebbe portata nell'atrio. Uscii dalla porta principale, spalancandola come fosse stato il portale di ingresso al Valhalla, e lasciai che la calda giornata di sole parigino mi investisse. Un bagno di luce, i raggi che mi sfioravano la pelle come se per la prima volta stessi mettendo il naso nel mondo esterno, pronta ad assaporare una vita nuova.
Raggiunsi Marie, che parlava allegramente con Max e Nicole, appena arrivati per andare a festeggiare insieme. Scesi le scale, non sentivo nemmeno male ai piedi per le scarpe, non mi dava fastidio neanche la tiratissima crocchia che avevo in testa.
«Ah, Léo», fece Max baciandomi entrambe le guance. «Congratulazioni».
Nicole, con i suoi capelli rossi fiammanti e la voce roca e sensuale, commentò: «Stavamo aspettando il tuo amico, Jacques. Marie dice che è con il suo fidanzato. Non sapevo fosse gay, perché non me lo hai detto?».
Li guardai e loro mi fissarono di rimando con un sorriso tranquillo. Fu allora che capii.
Le vite di tutti andavano avanti, non ruotavano certo intorno alla mia. Mi ero laureata e avevo troncato con Paul: non era una tragedia. Non avevo causato la distruzione dell'universo. Parigi era ancora in piedi, il cielo era ancora azzurro oltre le nuvole, le rondini continuavano a migrare e i treni a viaggiare, io avrei continuato a respirare e a vivere e a dipingere.
Non avevo ucciso nessuno.
Scoppiai a ridere senza alcun motivo apparente, ricevendo occhiate sorprese e, nel caso di Max, preoccupate, ma non mi importava niente.
«Paul non verrà», comunicai. «Abbiamo chiuso. No, Marie, non fare quella faccia», la precedetti. «Sono stata io a farlo e vi giuro che non potrei stare meglio».
Li avevo lasciati a bocca aperta. Max si grattò la tempia con imbarazzo, Marie mi fissava con gli occhi sgranati e Nicole era esitante. «Uhm, ottimo, immagino».
Era davvero ottimo. Di cosa potevo aver paura?

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. ***


Nda: ASalve salvino, vicino <3 Eccomi di nuovo a stressare il prossimo.
Siamo ormai addentrati nella seconda parte della storia. Paul sembra essere uscito di scena (ma lo sarà davvero?) e questo mi sembrava un buon momento per introdurre un nuovo personaggio e approfondire la conoscenza con quelli già presenti. Spero di non suscitare in voi un tedio esistenziale e che la storia continuerà a piacervi :)
Vi dico fin da ora che l'aggiornamento della prossima settimana salterà: sono in Repubblica Ceca e conto di sparire dal mondo di internet finché non sarò rientrata!
Questo capitolo è come al solito su Wattpad
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Capitolo 16.

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«Manuel», esalai lasciandomi cadere sul divanetto che c'era nel magazzino. Un divanetto vecchissimo, polveroso e senza più le molle, che i miei colleghi avevano potuto tenere solo perché non c'era una saletta per le pause. «Giuro che se Sophie mi fa di nuovo fare il turno nel reparto lavatrici mi sparo in fronte».
Lui tirò una boccata al drum – ma lo sapevamo tutti, che c'era qualcos'altro oltre il tabacco lì dentro – e si grattò la fronte. «Io sono stato tutta la mattina a scaricare televisori dal camion», biascicò. «Lamentati ancora e sarò io, a spararti in fronte».
Mi accesi una sigaretta. In realtà non sarebbe stato permesso fumare, nel magazzino, ed il cartello che ce lo impediva era appeso al muro proprio sopra la nostra testa, ma non c'era nessuno. E poi avevamo i nostri metodi: Manuel si era organizzato per fumare la sua roba in benedetta pace, raggiungere quel divano senza far rumore era praticamente impossibile vista la quantità di oggetti che lasciava sul pavimento “casualmente”. Se qualcuno dei nostri superiori si fosse avvicinato lo avremmo sentito con largo anticipo.
C'era anche una ragazza che fumava con noi ogni tanto, ma capitava solamente se Sophie la strigliava troppo. Allora veniva a piagnucolare sul divano e di solito per consolarsi si attaccava ad una delle mie Marlboro e ci provava con Manuel. Si chiamava Bette, o almeno questo diceva il suo cartellino.
Il fatto è che quel posto era talmente grande che era dura conoscersi tutti, Manuel era lì da tre anni e ancora non sapeva chi fossero certi membri del personale.
Comunque Bette non c'era.
«Per carità, non farei a cambio», concessi. «Mi avessero almeno messa nel reparto musica. Mi piace stare lì, di solito quelli che ci vanno si atteggiano ad esperti e rifiutano qualsiasi consiglio da parte mia, così sto tranquilla».
Ridacchiando, Manuel scivolò di più contro lo schienale. «Il mese scorso mi hanno messo nei forni elettrici», raccontò. «Non sai quante casalinghe incazzate. Una di loro ha perfino cercato di rimettermi a posto i pantaloni».
«Non avrebbe avuto tutti i torti, se fossi Jacques mi schiferei a vederti vestito così, sembri uno scappato di casa».
«Sono un felicissimo scappato di casa».
Mi passai la mano sul viso, ripromettendomi che più tardi avrei dato uno sguardo al suo armadio. Manuel viveva con noi, dopotutto, e non sarebbe stato difficile approfittare dei momenti in cui lui e Jacques facevano sesso per entrare in camera sua e buttare via qualcosa di quel disastro.
«A proposito di casa», si illuminò dopo qualche momento, «sei proprio sicura che Cerbiattino non voglia rimanere con noi?».
Scossi il capo. Marie alla fine aveva battuto la suocera al gioco delle coppie e Jeannot aveva piantato casa sua per finire in un brutto appartamento con la sua principessa. Se non è amore questo io proprio non so cosa possa esserlo. Il fatto è che sembrava che a loro due le cose sarebbero andate sempre bene, erano così felici da farmi tornare un po' di fiducia nell'umanità.
«Ha già impacchettato le sue cose, lei e Jeannot vanno a stare per conto loro. Consolati», aggiunsi, «stanno solo nell'appartamento di fronte».
«Possono anche stare a Città del Capo, fatto sta che adesso aumenterà l'affitto, se lei se ne va».
Premetti il mozzicone sul pavimento di cemento e lo spinsi sotto al divano per nasconderlo, lì sotto ci sarebbe stato un sacco di lavoro per uno speleologo. «Qualcosa ci inventeremo».
«Per forza, o ci buttano fuori», ridacchiò Manuel. «Al bastardo non piacciono i froci, lo dice ogni volta che mi vede».
Il nostro padrone di casa, Pierre Soulac du Champ, era un po' di vedute ristrette, così ristrette che un paraocchi per cavalli ha una vista migliore. Non gli piacevano i gay, non gli piacevano gli immigrati, non gli piaceva che una donna come me fumasse e nemmeno che abitassi con due uomini, anche se omosessuali. Da questo punto di vista non vedevo l'ora di abbandonare la nave come aveva fatto Marie.
Mi passai la mano sulla fronte, perché non ci credevo davvero che avremmo trovato una soluzione, e rimasi sorpresa nell'avvertire l'assenza della frangia. Ormai erano mesi che non andavo più a tagliarmi i capelli, l'ultima volta era stato ad Urbino, in luglio, insieme a mia madre, il giorno prima che tornassi a Parigi. Dio, quanto aveva pianto.
Non aveva mai realmente creduto che sarei tornata in Francia, dentro di sé credo fosse convinta del fatto che, una volta laureata, sarei tornata a casa. Ma non volevo rimanere a casa, la mia vita ormai era a Parigi o in qualsiasi altro posto, ma non ad Urbino, non più. A Parigi avevo i miei amici, a Parigi avevo la mia ispirazione e sempre a Parigi avevo i miei sogni. E un rimpianto, solo uno, e basta.
Comunque la mia frangia era diventata troppo lunga e avevo iniziato a dividerla a metà, poi a tirarmela indietro e infine a vederla come normalissimi capelli castani sulle mie spalle.
C'era stato un momento, quando i soldi erano sembrati davvero troppo pochi, verso la fine di ottobre, in cui avevo cercato di smettere di fumare. Il risultato era stato l'esatto opposto, ero così nervosa che avevo rincarato la dose.
Avevamo trovato il nostro modo di fare economia: la colazione la facevamo da Marie, che aveva iniziato a lavorare in un bar e ci passava sottobanco un caffè e una brioche alla mattina. Jacques studiava ancora e la sua parte la pagavano i suoi, per fortuna, mentre Manuel aveva uno stipendio che per esperienza personale posso dire che faceva un po' schifo; io contribuivo con la mia mensilità, la mia energia e la mia spiccata benevolenza verso il prossimo. Chissà perché, ma quando dico così nessuno mi crede.
«Ho in mente un nuovo quadro», annunciai sovrappensiero.
Manuel aveva smesso di ascoltarmi mentre pensavo alla mia frangia. «Eh? Che dici, Sandwich?».
Aveva smesso di chiamarmi “Frangetta”, proprio perché non l'avevo più, e per qualche tempo era entrato in una fase di crisi profonda perché non sapeva più come apostrofarmi, durante una nottata particolarmente fumata aveva anche detto che avevo perduto la mia identità e che ero diventata uno di quei robot senza personalità. Poi, un giorno, mi aveva vista addentare un panino con mortadella e squacquerone. Non avete la minima idea di quanto sia difficile trovare dello squacquerone in Francia – anzi, trovarlo ovunque tranne che in Romagna e nelle Marche – e quando lo avevo visto in un supermercato ero andata fuori di testa.
A Manuel era piaciuto il modo in cui avevo mangiato il mio sandwich, come se stessi sgrufolando un profitterol. Ecco perché da qualche mese ero “Sandwich”. Delle due preferivo Frangetta.
«Dico che ho in mente un soggetto per un quadro nuovo», ripetei.
«Fico!», esclamò con un bel sorriso. «Contenta?».
Sollevai le spalle. «Beh, sì, direi proprio di sì».
«Se tu sei felice, io sono felice».
Avevo stretto una bella amicizia con Manuel. Non lavoravamo quasi mai nello stesso reparto, era capitato una volta sola ed avevamo rischiato il licenziamento perché avevamo riso e scherzato tutto il tempo, però avevamo legato moltissimo. Jacques non lo avrebbe mai ammesso, ma si vedeva che era contento. Credo che nel suo intimo avesse nutrito il timore che il suo ragazzo non ci piacesse.
Mi accoccolai contro di lui, sbuffando. «Ho mal di testa. Non ci torno là dentro, ok? Proprio non ci torno».
Lui annuì, facendo ondeggiare i suoi dread. «Brava, bello questo tuo modo di fare, fuck the system, sorella».
«Vorrei fosse così facile, fratello», risposi ridacchiando e chiudendo gli occhi. Il respiro regolare della pancia di Manuel sotto la mia testa, il suo oscillare su e giù, era un toccasana per il mio cervello fuori controllo. Mi piace dire, quando ho mal di testa, che è la troppa intelligenza che preme contro la scatola cranica. Comunque l'odore dell'erba e l'attività respiratoria del mio materasso umano costrinsero la mia mente ad annebbiarsi e ad assopirsi, fino all'oblio di un sonno senza sogni.
Venni svegliata dalla mano di Manuel che mi scrollava la spalla, non so quanto tempo dopo. Ero da sola sul divano e a giudicare dall'indolenzimento delle mie membra dovevo essere rimasta su quel giaciglio sgangherato anche troppo.
«Alza le chiappe, Gentilini, stiamo chiudendo», sentii dire da qualcuno alle spalle di Manuel. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco il bel sorriso di Bette, che tuttavia non guardava me, ma il culetto gay del mio amico.
«Cazzo», mormorai. «Chi ha coperto il mio turno?».
«Io», trillò lei.
Praticamente le balzai in braccio per la riconoscenza. «Mi hai salvato la vita, io ti amo e ti sposerò», le promisi.
Lei rise. «Spero di no, le tue tette sono troppo piccole».

***

Per non peccare di ingratitudine invitai Bette a casa nostra, quella sera. Avevamo organizzato una serata tranquilla con Marie e Jeannot. In parte ammetto che le chiesi di venire per egoismo: non volevo reggere la candela alle due coppiette in totale solitudine. In parte lo feci perché non mi ero mai data pena per conoscerla meglio e lei mi aveva comunque coperta con Sophie. Mi sentivo in debito.
Due parole su Bette: era più grande di tutti noi, doveva avere almeno trentacinque anni ed aveva alle spalle una serie di brutte esperienze. Era stata bulimica, da adolescente, mentre ora era così in sovrappeso da rasentare l'obesità. Ecco ciò che sapevo su di lei. Due parole, come promesso.
Forse fu per questo, perché su di lei sapevo così poco, che rimasi più che sorpresa quando vidi la sua espressione.
«Davvero posso venire?», mi domandò incredula. «Insomma, mi volete sul serio?».
Sorrisi mentre mi infilavo il cappotto sopra la divisa. «Beh, quella è anche casa mia e posso invitare chi mi pare».
Lo sguardo che mi lanciò, Dio mio, non lo dimenticherò mai. Per un momento temetti che si sarebbe messa a piangere. Mi fissò con quei suoi occhioni bruni, entusiasti sul volto paffuto, e con un sorriso indescrivibile, lo stesso sorriso che avrebbe un bambino dopo che gli viene finalmente regalato ciò che ha chiesto a Natale. Avrei dovuto essere felice, invece mi fece impressione.
Da quanto tempo Bette non usciva con qualcuno? Una vita, a quanto pareva. Scambiai uno sguardo con Manuel, che nonostante quello che si potrebbe pensare non era mai così fumato da non capire quando c'era bisogno di aiuto.
Bette non smise di parlare nemmeno per un secondo, in metro, così eccitata da blaterare in continuazione. Non facevamo in tempo ad aprire la bocca per rispondere che lei attaccava di nuovo. Non era mai stata così, al lavoro era una persona mediamente ciarliera, per quanto poco la conoscessimo.
«Hey, Bette», le dissi mentre ci pressavamo come sardine nell'ascensore. Abitavamo al sesto piano, non sarebbe mai stata in grado di arrivare in cima a piedi. Non lo dico per cattiveria, ma perché è la verità, lei stessa lo ammise fissando la tromba dei gradini con sgomento. «Ne approfitto ora che Manuel ha preso le scale».
Lei annuì, l'entusiasmo che schizzava da tutti i pori. «Cosa c'è?».
«In casa con noi c'è un ragazzo, Jacques», le spiegai. «È il mio migliore amico, è lui che mi ha presentato Manuel».
«Ok», fece lei.
«No, intendo dire... Jacques...».
«...è gay?», domandò. «Lo so, Manuel me lo ha detto».
Non ero sicura se facesse orecchie da mercante o se la felicità le avesse otturato gli ingranaggi della psiche. «Bette, loro due stanno insieme», dissi decisa – non aveva senso fare dei giri di parole. «Volevo dirtelo perché so che lui ti interessa».
«Oh, grazie», rispose con un sorriso. «Ma non fa niente, lo capisco».
Esitai, fissandola. Era molto più alta di me e, con il collo piegato a guardarla, mi parve ancora più strana. «Sei sicura?», domandai. «Hai incassato il colpo singolarmente bene».
«Certo, perché no? Se è impegnato, buon per lui, ora smetterò di provarci».
L'ascensore, che in realtà era un vecchio montacarichi di quelli bruttissimi montati negli anni '60 o giù di lì, si arrestò sobbalzando. «O hai un modo di vedere la vita molto zen», commentai cercando di uscire, «oppure sei una specie di killer che dopo questa scoperta li ammazzerà entrambi. Quale delle due?».
Riuscii ad emergere e tirai un sospiro di sollievo. Lei scese dall'ascensore fresca come una rosa. «Nessuna delle due, sono solo realista. Lo capisco da sola quando non c'è storia e non sono stupida, non serve impazzire per un uomo che è già impegnato o non ti vuole».
Con un fischio di ammirazione le strinsi la mano. «Complimenti, Bette del reparto assistenza computer, sono ammirata».
Notai che le porte di entrambi gli appartamenti erano spalancate. Capitava spesso, da quando Marie e Jeannot erano diventati i nostri dirimpettai, che a furia di passare da una casa all'altra ci ritrovassimo a fare serata in corridoio.
Intercettai Jeannot che usciva da casa sua con una teglia di sformato di patate. «Senti, perché anche se abitate per conto vostro continuate ad usare il nostro forno?», domandai.
«Perché il nostro forno... Ah, già, perché non abbiamo un forno», sibilò lui. «Mi piaceva di più quando Marie stava da voi ed io vivevo con i miei, almeno funzionava tutto».
Preferii ignorarlo, perché quando partiva a lamentarsi della casa non finiva più di parlare. «Lei è Bette», dissi indicando la mia collega. «Lavora con me e Manuel».
«Ciao!», esclamò lei.
«Jeannot, piacere. Ti stringerei la mano, ma se non inforno questa roba subito rotoleranno delle teste».
Come a voler confermare, dal loro appartamento emerse la voce di Marie. «Amore, dove hai messo le mie pillole?».
Jeannot svicolò prima di dover rispondere, così feci cenno a Bette di seguirmi in casa loro. Trovammo Marie intenta a rovistare in tutti i pensili della cucina, il suo broncio trasformato in un'espressione di puro orrore. «Léo! Sei qui, meno male, l'ho persa!».
«Hai perso cosa?».
«La scatola delle pillole, devo prendere quella di oggi e se non lo faccio subito sarà un disastro».
Marie era rimasta così impressionata, quando aveva creduto di essere incinta, che da quel momento lei e Jeannot usavano il preservativo, la pillola e la spirale. Tutto insieme. A volte mi domandavo se sentissero qualcosa mentre lo facevano, con tutta quella roba.
«Eccola!», strillò con una vocetta stridula e felice. «L'ho trovata! Oh, merdaccia, sarei sicuramente rimasta incinta».
«Non credo», commentai con onestà. «Ti presento Bette, una collega. Bette, giuro che di solito Marie è a posto con la testa».
Non so cosa abbia divertito di più Bette, se cenare con noi, giocare a Cluedo o aver conosciuto nuove persone. Il fatto è che non avevo mai visto una persona così felice.
Non era quel genere di gioia che si prova con il proprio partner o quella che si sente quando ci si sdraia nel letto dopo una lunga giornata di lavoro. Non era nemmeno data dalla serata in sé, ne avevamo organizzate di molto più divertenti di quella. Era qualcos'altro. Era come se Bette stesse nutrendosi delle nostre risate, come se volesse prenderle e dar loro una forma corporea e tangibile per conservarle. Sembrava voler intrappolare in una bolla di vetro l'intero appartamento, così com'era, in disordine e pieno di gente, perché non cambiasse mai.
Mi sentii prendere dall'angoscia. Che razza di momentaccio stava passando quella donna per sentirsi così? Cosa si prova, arrivate oltre i trenta e senza uno straccio di calore umano, cosa si prova nel tornare in una casa vuota – perché immaginavo lo fosse, visto che non aveva avvisato nessuno per dire che avrebbe cenato fuori – dopo un turno di otto ore in un posto di merda come il Gitem Euronics?
Non stavo saltando a conclusioni affrettate, lo vedevo dalla sua faccia. Bette era disperatamente sola, Bette era un cartellino con un nome sopra in un negozio di elettronica. Nessuno si sarebbe ricordato di lei se le fosse capitato qualcosa e questo doveva saperlo benissimo, doveva sentirlo, perché non c'era altro modo per spiegare la sua gioia esagerata.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17. ***


Nda: BUONSALVE
Sono tornata <3 Vi sono mancata? Ammettetelo, vi stavate struggendo al sol pensier ù.ù Sono ufficialmente rientrata dalle ferie e fino al 19 di luglio continuerò a imperversare.
Ebbbene eccomi di nuovo con un aggiornamento. Questo capitolo non è denso di avvenimenti, bensì è denso di indizi che vi aiuteranno a mettere insieme la trama di questa "seconda parte", come molti di voi hanno capito :3 E ho deciso di soddisfare la curiosità di un paio di lettrici e di ammettere un mega spoiler: George tornerà. Ma come? E quando?
Questo capitolo è come al solito su Wattpad
e chi volesse leggere il mio resoconto sulla vacanza in Repubblica Ceca può farlo su Gaiman in the T.A.R.D.I.S., dove pubblicherò nel corso della settimana qualche post a riguardo.



Capitolo 17.

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«Léo?», berciò la voce di Marie all'altro capo della cornetta.
«Ciao, simpaticona, se Sophie mi scopre a fare telefonate personali sul lavoro mi licenzia in tronco».
«Anche io sono in pace col mondo, ti ringrazio», ridacchiò lei. «Volevo dirti che le foto sono pronte, non è che passi tu a prenderle?».
«Quali foto?».
«Le foto».
Impiegai un momento per capire che parlava delle decine e decine di fotografie che avevamo portato a sviluppare un paio di settimane prima. Solo allora mi venne in mente che avrei dovuto essere incazzata come una pantera con il fotografo che ci aveva impiegato così tanto per stampare solamente un migliaio di foto.
Marie ed io avevamo abbandonato tutto e tutti per festeggiare la laurea e ce n'eravamo andate per tre settimane in interrail. Era stata una cosa stupenda, io davvero non saprei descriverla. Avevamo scelto tutte città dell'est: Praga, Varsavia, Budapest, fino in Russia, dove avevamo concluso a San Pietroburgo – Marie era fissata con quel posto da quando aveva finito la tesi.
Erano state tre delle settimane più belle della mia vita. Zaino in spalla, soldi in contanti e niente cellulari, solo macchine fotografiche e tanta energia per balzare su e giù dai treni.
Era stato un salto nel buio, all'inizio, perché entrambe eravamo più il tipo da resort che da avventura. Invece avevamo scoperto uno spirito di adattamento che non credevamo di possedere, avevamo mangiato in piccoli bar, dormito in ostello, in treno e alle volte per terra, nelle stazioni, avevamo camminato fino a farci sanguinare i piedi e alle volte, alla sera, quando tornavamo in una piccola camera con il bagno condiviso, eravamo così stanche che non facevamo nemmeno la doccia. Io non credo a quelle persone che, al ritorno dall'interrail, dicono di aver trovato l'anima gemella. Diventi così lercio, durante quel tipo di viaggio, che non ti si filerebbe più nessuno.
Comunque, dopo mesi di accurata selezione, avevamo scelto di stampare circa un migliaio di fotografie e di raccoglierle in un album che avevamo comprato a Varsavia.
E le aveva portate lei, dal fotografo, non io. Le avevo indicato un negozio da evitare in maniera categorica, perché non ci sarebbe stato nulla per noi lì dentro. Non ci sarebbe stato nulla per me.
George.
«Hey, terra chiama Léo».
Mi riscossi al suono della voce di Marie. Potevo quasi immaginarla, all'altro capo del telefono, mentre metteva su una faccia alla Maggie Smith e batteva il piede a terra. «Sì, ci vado io appena il turno è finito».
«Ottimo», trillò. «Sai, dovreste proprio mettere su un servizio di sviluppo di fotografie, lì al Gitem Euronics», aggiunse come sovrappensiero. «Almeno le stamperemmo gratis».
Risi. «See you later, alligator».
«In a while, crocodile».
Dovevo riappendere la cornetta prima che Sophie mi beccasse. Mi ero nascosta bene, accartocciata sotto al bancone della postazione dell'assistenza computer con la complicità di Bette, ma chiunque avvicinandosi avrebbe notato il filo riccioluto del telefono che spariva sotto il ripiano. E avrebbero notato una mano che a tentoni cercava di riattaccare.
La mano di Bette afferrò la cornetta prima che la rompessi e la posò sulla base. «Aspetta», mi disse, «non alzarti ancora, c'è Émile».
«Quel deficiente», sospirai io, stringendomi le ginocchia al petto. «Vorrei che Manuel non gli avesse mai spento la cicca sulla mano».
Avevano litigato per un motivo a me sconosciuto, una discussione avvenuta qualche giorno prima che iniziassi a lavorare lì. Era da allora che Émile odiava Manuel e per estensione odiava anche me, perciò non ci avrebbe pensato due volte a denunciarmi a Sophie.
Anche quello era un segno, un'inconfutabile prova del fatto che stavo cambiando. Che il mondo intero cambiava. Fino a pochi mesi prima nessuno mi avrebbe mai odiata, la mia esaltante vita sociale mi avrebbe salvata dal baratro degli sfigati. Invece ero diventata una di loro e, senza neanche accorgermene, mi trovavo molto bene.
Guardai Bette. Sembrava del tutto diversa da quando aveva iniziato ad uscire con noi, sembrava brillare. Non scherzo, se prima era un grigino spento puntellato di macchioline rosa fluo, ora era un brillante rosso vermiglio con contorni d'oro.
Manuel ed io ne avevamo parlato, dopo che Bette era tornata a casa quella prima sera. Anche lui aveva notato il suo repentino cambio d'umore quando le avevamo detto di venire da noi, quando le avevamo giurato che per lei c'era posto. E non ci eravamo potuti spiegare, mentre buttavamo via i bicchieri di plastica, come mai fosse così cordiale e allegra e allo stesso tempo così sola. Come potesse non piacere alla gente. A noi era piaciuta da morire, quella sera.
Io, però, mi chiedevo altro. Come avevamo fatto a non accorgerci di quanto bisogno avesse?
Era da un po' di tempo che avevo smesso di pensare a me. Prima ero tutta io, io, io ed il risultato era stato rischiare un tracollo nervoso, evitato solo in un lampo di lucidità in cui avevo ripreso in mano la mia vita. Non ero stata abbastanza vicina a Marie quando credeva di aspettare un figlio, né avevo compreso fino in fondo il disagio di Jacques in piena crisi sessuale.
E non avevo capito un cazzo di George, non avevo proprio capito.
Nessuno me lo aveva mai detto, io mi ero limitata a riversare i miei problemi sugli altri aspettando magiche soluzioni estratte dal cilindro. Nessuno mi aveva mai accusata di disattenzione, né Marie, né Jacques, nemmeno George lo aveva fatto in mezzo a quella sfilza di verità che mi aveva rigettato addosso.
E Paul?
Mi dispiaceva così tanto, per lui, così tanto. Non è che si fosse disperato troppo, lui non era quel genere di persona che ama struggersi troppo a lungo. Tendenzialmente era un uomo felice della sua vita, riconoscente di quello che aveva, consapevole del proprio potenziale e di indole soddisfatta. Da un certo punto di vista ero solo contenta che fosse così, perché vederlo distrutto a causa mia sarebbe stato un colpo al cuore. Ma nulla mi avrebbe mai fatto cambiare idea.
Marie una volta mi disse che ero diventata perfino meno cattiva, dopo. Non ci avevo creduto, perché non mi andava di ripensare alla mia storia con Paul come ad un totale fallimento, sarebbe stato ingiusto. Era andata bene, almeno per un po'. All'inizio.
E comunque ci sono problemi più gravi, voglio dire, c'è gente che muore là fuori, i miei drammi da quattro soldi non meritano tanta attenzione. Era questo che pensavo, basta piangersi addosso, basta sciocchezze.
«Sai, Léo, sto facendo sogni davvero orribili ultimamente», sospirò Bette senza preavviso.
«Sogni orribili?».
Annuì. «Incubi. Mia madre è morta quando ero una ragazzina e nelle ultime settimane continuo a vederla tutte le notti, costantemente». Ci rifletté sopra qualche istante. «Secondo te è normale?».
«Oh», sospirai. «Non saprei, Bette. Può capitare nei periodi di stress di rivivere qualcosa di spiacevole nei propri sogni».
«Il fatto è che non sono troppo spiacevoli, come sogni intendo. Sono solo io che faccio cose con mia madre. Diventano incubi nel momento in cui mi sveglio e scopro che lei è ancora morta».
La fissai a lungo. «Non lo sapevo».
«Sono andata in crisi alimentare per quello, penso», mormorò soprappensiero. Allora fece un sorriso ironico: «Ora, invece, mi piace solo mangiare!».
Non sapevo se quell'ultima battuta di spirito fosse un modo di scacciare la tensione o se fosse davvero in vena di scherzare. Non feci in tempo ad aggiungere altro che sparì per fumarsi una sigaretta.

***


Una delle cose che mi piaceva di più di quell'appartamento orribile erano loro due. Jacques e Manuel. Erano stupendi da guardare, non perché fossero gay ed io avessi questa specie di feticcio da fangirl, ma perché erano così perdutamente uniti e dolcemente zerbini l'uno per l'altro che non studiarli sarebbe stato un peccato innominabile.
Si erano trovati. Conoscete il detto “Dio li fa e poi li accoppia”? Beh, Dio doveva aver dedicato particolare attenzione nel farli, i miei coinquilini, e chissà, magari aveva voluto mettere anche me in quella casa perché un giorno, quando morirò, potrò andare da lui e dirgli: “Hey, Dio, lo sai che hai fatto un ottimo lavoro con quei due?”. “Grazie, Léo”, mi risponderà Dio, “modestia a parte sono un gran fenomeno”.
A guardare Manuel lo si sarebbe detto un fattone e, beh, lo era. Incarnava proprio lo stereotipo del fumato, solo che portava quei vestiti e quei dread così bene che mai nessuno lo avrebbe definito un montato. Gli veniva naturale, insomma. Non era bello nel senso canonico del termine, ma era un tipo.
Jacques era decisamente belloccio, anche se era sempre talmente annoiato e stravaccato su quel divano che l'aspetto passava in secondo piano. Continuava a dire ai suoi genitori che stava studiando, ma sapevamo tutti che non era vero e Manuel sembrava trovarsi bene nel tornare a casa e sapere che il suo compagno era sempre lì, a qualsiasi ora, in attesa di lui.
E quando facevano qualcosa, anche cose diverse, lo facevano comunque insieme. Magari Jacques giocava alla play e Manuel leggeva un libro – leggeva pesantissimi libri alternativi, di quelli che anche l'autore non riesce a capire, secondo me – ma erano insieme, sempre. Si toccavano con i piedi, o magari erano solo seduti vicini. In ogni caso, ovunque fossero, c'era una specie di forza fisica che li costringeva ad avvicinarsi un po'. E non litigavano mai, con Manuel non si poteva litigare, e in comune avevano tutto e niente. E l'erba, soprattutto quella.
Mi sentivo sempre un po' meglio, passando una serata con loro, un po' come quando stavo tanto a lungo con Marie. Da questo punto di vista credo che, non fosse stato per i miei amici, sarei molto più brutta e stronza di così. Mi migliorava stare con loro, mi migliorano ancora. Rendevano sopportabile il fatto che ero dottoressa con lode e prendevo ordini da una troietta depressa in un posto anonimo e noioso per otto ore tutti i giorni. Per sempre. Era quello a spaventarmi un po', nei momenti peggiori, il fatto di non sapere come avrei fatto a riscattarmi.
Mi passai una mano sul viso, rischiando di infilarmi il pennello nell'occhio. «Jacques, devi stare fermo».
«No, senti, io questa cosa di farti da modello proprio non la digerisco, mi annoio da morire e ho freddo».
Spostai la testa oltre la tela, aggrottando la fronte. «Sei tu che mi hai detto di voler stare a torso nudo, scemo».
«Lo ha fatto per me», ridacchiò Manuel dal divano.
Entrambi ignorammo il suo slancio di romanticismo. «Senti, noioso, se non ti va alza le chiappe e fammi dipingere la sedia da cucina sotto il tuo culo», sbottai.
Jacques aveva un ego un po' smisurato, così si affrettò a dire di no, ma sempre con quell'aria da “ti sto facendo un favore, donna”. Ridacchiai e continuai a tracciare segni sulla tela.
Era diventato più facile dipingere. Dopo quella notte, dopo la prima sera in cui Manuel aveva sparato su di me tutta la sua filosofia da drogato, dopo che avevo scacciato la paura buttandomi a capofitto sull'unico quadro che non avrei mai e poi mai ceduto ad altri, era diventato più facile. Non mi mancava l'ispirazione, non mi mancava la voglia di prendere il cavalletto, prendere il carboncino, prendere fiato e iniziare. E finalmente non mi mancava l'idea di dire “questa è la mia arte, questa sono io e se alla gente non piace fanculo”.
Stavano dando American Horror Story in televisione. Lo avevo visto tutto un sacco di volte e non vedevo l'ora che facessero uscire la nuova stagione. Guardai lo schermo: c'era suor Mary Eunice che iniziava a dare segni di possessione e Lana – Lana Banana – che ormai era in manicomio, Manuel era tutto agitato sul divano mentre la guardava e anche se faceva finta di niente io lo sapevo che quella notte avrebbe piagnucolato sul petto di Jacques per la paura del pazzo maniaco che c'era in tv.
«Hey, Léo».
«Dimmi».
Jacques sorrise. Forse avrebbe voluto essere un ghigno di scherno, in realtà l'espressione era quella di uno stitico sul cesso. «Vengono i miei, la settimana prossima».
«Ah», risposi. «Ok, uhm, bene». Mi chiesi perché lo stesse dicendo a me. A me e non al suo compagno.
«Già. Non sanno che sono gay».
Guardai Manuel con la coda dell'occhio. Era così concentrato sulla serie televisiva e così fatto che probabilmente non aveva nemmeno sentito. «Capisco».
«Davvero?».
Annuii. Certo che capivo, bastava vederlo in faccia per rendersene conto. Era ovvio che Jacques non voleva proprio dirlo, ai suoi, di essere omosessuale. Che poi forse non lo era, un paio di volte lo avevo beccato a guardarsi un porno e non era mai un porno gay. Forse gli piacevano entrambi i sessi. Il punto, però, è che stava con un uomo in quel momento.
«Diremo che sono la tua ragazza», scherzai con un sorriso. «A me non darà fastidio, ma devi chiedere a Manuel».
Lui drizzò le orecchie sotto i dread. «Mi hai chiamato, Sandwich?».
«No, parlavamo del turno di oggi», mentii.
Avrei chiesto a Jacques di seguirmi in bagno per sgridarlo, per dirgli che Manuel meritava di essere considerato per ciò che era, ovvero un fidanzato premuroso e gentile. Gli avrei tirato le orecchie e avrei inveito dicendo che, per una volta, aveva un rapporto serio con una persona che lo amava come l'aria nei polmoni e che doveva solo essere felice. Gli avrei detto che doveva esserne fiero, che doveva essere fiero di sé e di ciò che era e che non importava cosa avrebbero pensato i suoi. Avrei fatto tutto questo, se non avessi visto la faccia tirata di Jacques. La sua espressione triste, indifesa. Come una bambola abbandonata sulla sedia, come se all'improvviso fosse stato svuotato di ciò che aveva dentro.
«Jacques».
Sollevò lo sguardo, come se lo avessi richiamato dall'aldilà.
«Sono qui, sai?», mormorai. «Non c'ero l'ultima volta, non come avresti avuto bisogno, ma adesso sono qui».
Fu una cosa strana. C'era Manuel a un metro da noi, c'era suor Jude che fustigava Kit Walker in tv e la porta d'ingresso era spalancata, così come quella di Marie, perciò potevo sentirli bisticciare sul fatto che mancasse di nuovo la farina di kamut e come faccio senza kamut, Jeannot, me lo dici?, eppure per un solo momento fu come se ci fossimo solamente noi. Solo noi due, in sintonia e alleati contro il mondo, in una bolla di sapone.
Bolla che scoppiò quando Manuel balzò in piedi e urlò: «No, ma allora è stato lui! Oh, Cristo, no, ti prego!».
E lo sguardo che Jacques gli lanciò, sobbalzando per lo spavento di sentirlo all'improvviso urlare per qualcosa di così stupido. Voi non sapete cosa fosse quello sguardo, così pieno d'amore, bruciante, violento, carico di aspettativa e fiducia, di affetto e reciproca dipendenza.
Lo stesso che Marie e Jeannot si rivolgevano ogni giorno.
Era lo sguardo che avevo io guardando George.
Con rabbia tracciai una pennellata obliqua sulla tela, una lunga e larga striscia verde pallido che coprì il disegno a carboncino solo parzialmente colorato. Mi sarei impiccata con i miei collant solo per smetterla di pensare a lui.
Manuel si alzò per andare in bagno - “Dopo questo episodio devo proprio pisciare, vi rendete conto del colpo di scena?” - e Jacques mi fissò per un lungo momento. Entrambi ci fissammo, in attesa che qualcuno aprisse la bocca per primo.
«Fingiti la mia ragazza», mormorò lui alla fine. «Ti prego».
«Io stavo scherzando».
«Ma io no! Mio padre mi ucciderebbe se lo scoprisse. Mi taglierebbe i fondi e allora-».
Lo interruppi. «E allora dovresti trovarti un lavoro? Non sia mai».
«Sono serio». Non me la sentii di dissentire, perché lo capivo dal suo tono che era terrorizzato. «Aiutami, per favore».
Sorrisi e annuii. «Lo farò. Ma la cena la paghi tu».

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Capitolo 18
*** Capitolo 18. ***


Nda: Oh, salve. Come stanno andando le vacanze? Come potrete vedere voi stessi in questo capitolo avverrà un Evento che porterà Léo a prendere una serie di decisioni e influenzerà i suo futuro prossimo. Vediamo se la cosa vi piace e stuzzica il vostro appetito. Trovate questo capitolo anche su Wattpad e come ogni volta (e voi direte: "EBBASTA") vi ricordo l'esistenza del mio blog, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., di recente con un nuovo abito estivo.



Capitolo 18.

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Se c'era una cosa che odiavo di più di lavorare al Gitem Euronics era stare al bancone delle polizze assicurative. Voi non avete idea della quantità di gente che fa assicurare le proprie cose, le lavastoviglie, i televisori, le videocamere. Un giorno venne da me un dodicenne che voleva far assicurare una chiavetta usb da cinque euro: alla fine pagò più di polizza che di acquisto.
Ero negata per la burocrazia, così negata che ogni due secondi prendevo il telefono e facevo il numero interno del magazzino, implorando Manuel di dettarmi le istruzioni a distanza. Lui aveva passato, cito testualmente, “i mesi migliori della sua vita al bancone delle assicurazioni”, perciò ne sapeva certamente più di me.
Non mi sentivo molto a mio agio a manovrare i soldi delle altre persone. Insomma, mi sarebbe bastato battere male un nome sulla tastiera: se l'oggetto fosse andato perso o rubato il cliente avrebbe riscosso l'assicurazione, ma se il nome fosse stato sbagliato allora sarebbe stato un casino e io avrei perso il posto e magari avrei dovuto rimborsare tutti e forse sarebbe scattata la denuncia e voi lo sapete quanti gattini vengono investiti ogni anno e mi scoppia la testa adesso. Quindi sì, odiavo quel lavoro. Avrei preferito vendere videogiochi al Game Stop.
«Ascolti», mi disse la donna di mezza età davanti a me, picchiettando sul bancone con le sue unghie laccate. Avrei voluto dirle che quelle unghie erano un lavoro così scadente da ricordarmi Gina Gambarro di Ugly Betty, ma decisi di tacere. «Lei deve capire che ho davvero bisogno di assicurare il mio nuovo phon».
La osservai per un momento, indecisa se sbatterle sulla testa il portatile o essere gentile. «Mi dispiace, ma quell'articolo è una rimanenza, per questo è scontato. Non facciamo assicurazioni sulle rimanenze».
«Che razza di politica aziendale è?», strillò. Era paonazza in viso, mi chiesi se non stesse per gonfiarsi ed esplodere. Per qualche secondo la lasciai strepitare, cullata dalla fantasia della sua testa che pian piano si ingrandisce, piena d'aria, fino ad esplodere in migliaia di piume come avrebbe fatto un cuscino.
Ritornai alla realtà fin troppo presto. La fissai con la stessa partecipazione che avrei riservato ad una pietra. «Mi stia a sentire, sono qui da sette ore. Facciamoci un favore a vicenda. Non compri questo phon, ne prenda uno non in saldo ed io le permetterò di usare il mio sconto dipendenti, così avrà sia un prezzo ridotto che la stracazzo di assicurazione». Qui mi sono presa una licenza poetica, non avrei mai detto “stracazzo” davanti ad un cliente, non sono mica scema. Rileggete il dialogo senza quella parola.
Mi guardò con incredulità. «Come? Davvero lo farebbe?».
«Le sembro una che ha voglia di fare battute?», la ripresi. «Alle sue spalle c'è una fila che non si accorcerà da sola. Dico sul serio, vada a prendere un altro asciugacapelli e torni qui, così faremo tutto».
«Intraprendente», chiocciò con un mezzo sorriso, per poi sparire di nuovo tra i bancali. Al posto suo venne avanti una ragazzina con l'apparecchio e le treccine afro, di quelle che si fanno nei parcheggi per pochi euro. Stringeva tra le mani il dvd di Il diario di Bridget Jones.
«Vuoi assicurare un film?», domandai sorpresa. Era anche più strano della chiavetta usb.
Lei annuì vigorosamente. «L'ho già comprato quattro volte. La prima volta si è rotto appena sono uscita dal negozio, la seconda l'ho prestato ad un'amica e non è più tornato indietro, la terza si è perso nel trasloco e la quarta non sto nemmeno a raccontartela, perché non ci crederesti».
Le sorrisi divertita, prendendo la scatola dalle sue mani. «Ok. Dal momento che l'articolo non supera i venti euro di spesa puoi fare l'assicurazione anche se sei minorenne».
«Che ne sai che sono minorenne?».
«Tesoro, non mentirmi, io so tutto», ironizzai aprendo una nuova scheda nel programma al pc. «Mi servono i tuoi dati, per la legge sulla privacy puoi scegliere di batterli tu stessa».
Sgranò i suoi occhioni verdi e si esibì nel sorriso più grande e pieno di ferro che avessi mai visto. «Oh, ma dai! Davvero? E posso venire dietro al bancone?».
«No, ma posso girare il portatile», le spiegai. Parve delusa, delusissima. «Perché ci tieni tanto a venire dietro al bancone, scusa?».
«Perché non ho mai lavorato, potrei far finta di essere una donna matura».
«Quanti anni hai, scusa?».
«Tredici».
Mi guardai intorno: di quella virago di Sophie e del suo cane da guardia, Émile, non c'era traccia. Feci schioccare la lingua contro il palato. «Va bene, ma fai che sia veloce o mi spellano viva».
La ragazzina ridacchiò tutta eccitata, come se sgobbare in un posto come quello fosse la sua più grande aspirazione. Si infilò dietro il bancone e praticamente mi saltò sulle scarpe per avvicinarsi di più al computer. Scrisse il suo nome, Colette Muscat, la data di nascita, compilò tutti i campi obbligatori. Poi sollevò lo sguardo con un gran sorriso. «E poi?».
«E poi torni dalla parte giusta del banco o ti ci spingo io», scherzai.
La piccola e ridacchiante Colette obbedì, tornando al suo posto tutta contenta. Mandai in stampa il foglio, osservandola con la coda dell'occhio mentre studiava la copertina del suo amato film. Doveva piacerle proprio tanto se aveva deciso di assicurarlo.
Presi il documento dalla stampante: emergeva in doppia copia, una per lei ed una da conservare per noi. Firmai entrambi i fogli, poi glieli porsi. «Devi mettere la tua firma qui e qui», le indicai, «e presentare la tua copia alla cassa. Il prezzo dell'assicurazione, un euro e quarantasei centesimi, lo pagherai insieme al film».
Mi sorrise raggiante. «Grazie!».
La guardai sfrecciare via per un secondo, per poi abbassarmi per posare la mia copia della sua assicurazione nella cartellina blu che tenevamo nel cassetto, piena di documenti che prima o poi qualcuno avrebbe perso – magari sarei stata io a smarrirli.
Vidi un'ombra sovrastarmi. Non finiscono mai?, mi chiesi con stizza. Amen, avrebbe aspettato i miei comodi. Rimisi a posto la cartella, chiusi il cassetto ed approfittai di avere il ginocchio a terra per allacciarmi la scarpa – una brutta, orrenda scarpaccia nera in dotazione con la brutta, orrenda divisa.
Fu quando mi rimisi in piedi che avrei voluto morire.
George “spunto sempre dappertutto” Addison.
Ci credete che la prima cosa che pensai fu “Eccheccazzo”? Lo fissai con gli occhi sgranati, l'espressione a metà tra il nauseato, il disgustato e l'impanicato. Non riuscivo più a deglutire, figuriamoci respirare.
Lui non mi stava guardando: stava leggendo ciò che c'era scritto sulla scatola di un obbiettivo della Canon, probabilmente per la sua macchina fotografica. Dio, come potevo ricordarmi la marca della sua fotocamera? Avrei dovuto dimenticarmela, avrei dovuto scordarmi tutto.
Il dolore mi prese il cuore come in una morsa, facendolo sanguinare; avevo male al petto, alle spalle, ovunque. La vista si appannò, mentre perfino i suoni sembravano ovattarsi e il mondo intero si fermò al mio comando, perché quell'incontro era più importante di qualsiasi altra cosa ci fosse nell'universo.
«Oh, merda», mormorai.
«Come dice?», fece lui sollevando lo sguardo. Per un attimo fu come osservare me stessa allo specchio: vidi la sua espressione mutare, trasformandosi lentamente da annoiata a atterrita. Era la stessa reazione che avevo avuto io.
Ci guardammo in silenzio per qualche secondo; lui muoveva le labbra, come se volesse parlare, mentre io avrei dato un braccio per poter annegare in quei meravigliosi occhi azzurri e incerti, spaventati, e in quel sorriso dolce che ormai non avrebbe mai più increspato il suo volto per me.
«Oddio», sussurrò. «Léo?».
Annuii, in silenzio. Che avrei dovuto fare? Pensandoci ora, a mente lucida, avrei dovuto negare e dire che ero un'altra persona, che senza dubbio mi doveva aver scambiato per una ragazza che non ero chiaramente io. Dopotutto avevo i capelli completamente diversi, no? Anche se non avrei potuto cambiare i miei connotati, né tanto meno il mio nome sul cartellino.
Fu il primo a riprendersi. «Ehm, volevo far assicurare questo».
Annuii di nuovo. Non sapevo fare altro, forse? Ero diventata tutto ad un tratto un automa? Svegliati, Eleonora. «Ah, sì. Certo. Sicuro».
Mi porse la scatola ed io la presi con dita tremanti. Aprii una nuova scheda, digitando il codice dell'articolo, e ripetei con l'entusiasmo di uno zombie: «Per la legge sulla privacy puoi scrivere tu stesso i tuoi dati. Ti giro il portatile?».
Scosse il capo. «No. No, io... Va bene, puoi scriverli tu».
Annuii. «Bene. Nome?».
«George».
«Cognome?».
«Addison».
«Data di nascita?».
«Ventotto dicembre», recitò come da copione. «1989».
Era quasi il suo compleanno. Digitai sulla tastiera, fissando insistentemente il monitor senza battere ciglio nemmeno una volta, al punto da farmi bruciare e inumidire gli occhi. «Supera i venti euro di spesa, quindi mi servono il codice iban e-».
Mi posò la mano sul polso. Cazzo, la mano sul polso. La mano sul polso. Io non so se rendo l'idea, parlo della sua mano sul polso. Il mio polso. Seguii con lo sguardo la linea del suo braccio fino alla spalla e al viso. Dovevo apparire come una condannata a morte di fronte al suo boia. Avevo diritto ad un ultimo desiderio?
«Léo».
«È il mio nome». Che frase idiota avevo appena pronunciato? E come avevo osato essere tanto scortese con un cliente? No, meglio, con George.
«Oh, cavolo», mormorò.
«Esatto, proprio quello che pensavo anche io!».
Uno dei due doveva fare una mossa, anche minima, o mi sarebbe scoppiato il cuore. Sorrisi. Immagino che non fosse esattamente un sorriso cordiale, forse era più una smorfia o una faccia da culo. Lui, però, parve apprezzare, perché mi rivolse a sua volta un sorrisino timido, non del tutto convinto.
Era il sorriso più bello del mondo, l'unico che sarei stata a guardare per tutta l'eternità.
«Wow», fece lui. «Incredibile, noi... Come stai?».
Avrei finto un'aria spavalda e inventato una vita perfetta, mi veniva così bene raccontare cazzate. Sì, sarebbe stata la soluzione migliore. «Benissimo!», cinguettai. Potevo chiacchierare un po', almeno finché non fosse tornata la donna del phon, dato che non c'era nessuno dopo di lui. «Sto alla grande. E tu?».
«Io sto bene. Ho saputo che ti sei laureata».
Annuii. «Te lo ha detto Max?».
«Sì, esatto». Avvertii una nota di esitazione nel suo tono, come se non fosse sicuro che il suo discorso avesse motivo di esistere. «Sai, sarei venuto a sentirti discutere la tesi. Solo che non... Non me la sono sentita».
Ed io che ero anche stata convinta di aver sentito la sua voce, quel giorno. «Lo capisco», mentii. «Forse è stato meglio così».
«E adesso lavori qui, è incredibile».
«È fuori di testa, vorrai dire», sbottai. «Qui fa così pena che mi verrebbe voglia di pressarmi nel trita-carte».
Emise un risolino e il suo sguardo, da orripilato, divenne dolce. Oddio, era così facile. Era stato così semplice dire quelle parole, come se fosse stato un amico, come se tra noi non ci fossero mai stati dei casini. Avevo scherzato con lui come se fossimo stati ancora insieme. Quando me ne resi conto ormai lo avevo detto e mi sarei sotterrata.
«In effetti non ti facevo una da Gitem Euronics».
Feci un sorriso di circostanza e tornai a guardare la pratica dell'assicurazione. «Manca ancora qualcosa, ti dicevo del codice iban».
George tentennò, fissandomi le mani che sfioravano irrequiete la tastiera in attesa di battere il numero. «Sai, lascia stare. Lascia perdere l'assicurazione, dopotutto non è così importante».
Non ce la facevo a guardarlo in faccia, non riuscivo proprio a guardarlo. Arricciai le labbra, conscia del fatto che stavo per vomitare. «Sei sicuro? Se lo fai entro oggi è a tasso zero».
Sbatté le palpebre e Dio, avrei voluto morire. Avrei voluto avere un attacco di cuore fulminante perché era così bello e sensuale e inconsapevole che avrei voluto scavalcare il bancone, saltargli in braccio e baciarlo. Era diverso dall'istinto primordiale sperimentato a capodanno, c'era meno desiderio sessuale e più voglia d'affetto. Avrei voluto piangere sulla sua spalla, abbracciarlo e sentire il calore del suo petto, sentirmi sussurrare dalla sua voce inglese che andava tutto bene e farmi solleticare la fronte dalla sua barba.
Aveva i capelli più lunghi dell'ultima volta e il loro peso li aveva resi più lisci. Li portava raccolti in un codino alla base della testa, alla moda, molto più accettabili della zazzera disordinata di prima. Eppure a me quella zazzera piaceva. La barba era sempre la stessa, leggermente più corta forse. Era ancora lui. Forse fu questa la cosa più difficile da accettare: che nel suo aspetto e nel suo odore e nell'energia che emanava non fosse cambiato niente, quando tra noi era cambiato tutto.
«Sì, davvero, non voglio farti perdere tempo», affermò lui. «Siamo onesti, l'intera situazione è imbarazzante».
Appoggiai le mani al bancone, annuendo. «Vero».
«Però mi ha fatto piacere rivederti, Léo», aggiunse. «Davvero».
«Anche a me. Anche a me, George, te lo assicuro».
Riprese l'obbiettivo della Canon e si allontanò. Vedevo già in marcia verso di me la donna del phon, l'ultimo essere sulla faccia della terra con cui avrei voluto parlare dopo aver sostenuto una tale conversazione.
Stavo già per chiedere al karma perché mi facesse questo, quando George si voltò e tornò sui suoi passi, avvicinandosi di nuovo. Lo guardai senza capire. «Si?».
«Niente», mormorò. «Solo... Avrei voluto chiamarti. Quando Max mi ha detto che avevi lasciato Paul avrei voluto scriverti».
Quel dialogo, quel momento, quel nostro starcene lì come due idioti: non aveva senso. Nulla aveva senso. Non mi infuriai nemmeno con Max per la sua mancanza di discrezione. «Perché non lo hai fatto?».
Si strinse nelle spalle e il suo cappotto con gli alamari sobbalzò con lui. Era lo stesso cappotto dell'ultima volta che lo avevo visto. «Non lo so. Non so perché non l'ho fatto».
Aprii la bocca per rispondere, ma dalle mie labbra non emerse un suono. Rimasi lì a fissarlo come un pesce lesso, mentre lui sembrava perfetto. No, rettifico: non era perfetto. Anzi, era talmente imperfetto, con la sua bassa statura, con la sua barbona, i capelli, le dita che tamburellavano nervosamente sulla scatola, gli anfibi scoloriti dalla neve di chissà quanti anni prima: era così imperfetto da mozzarmi il fiato, perché era proprio lui. Non un altro uomo, era George ed io lo amavo come il primo giorno.
Alla fine dissi solo: «Ok».
«Non hai più la frangia», constatò. «Stai molto bene».
«Grazie».
La malvagia donna del phon si avvicinò e lo squadrò in cagnesco. «Mi scusi? Se non è in fila, le chiederei di farmi passare. Ho un appuntamento con la signorina».
Un appuntamento, certo. Annuii per farla avvicinare, ma non la guardai nemmeno. Fissai George ed il suo mezzo sorriso un po' triste finché non fui costretta a spostare lo sguardo sul pc.
Feci come avevo promesso, chiamai Marguerite alla cassa nove per dirle che stava arrivando una cliente che avrebbe pagato con il mio codice per gli sconti ai dipendenti, feci l'assicurazione, stampai, firmai. Ogni cosa.
Quando tornai a levare lo sguardo George era ancora lì. A quel punto il sorriso mi giunse spontaneo, quale sciocco sarebbe rimasto in piedi a studiare una commessa nel suo habitat naturale? Solo lui.
«Che ci fai ancora qui?», domandai aggrottando la fronte.
«Pensavo che potrei chiamarti», mormorò. «Adesso. Voglio dire, un giorno di questi. Come volevo fare quest'estate».
Non c'è vergogna nel piangere. Ma io mi vergognai quando fui costretta a sollevare una mano per mandare via una lacrima da un occhio. Tuttavia mi imposi di sorridere, come Elizabeth Taylor non mi sarei fatta piegare da niente.
«Non saprei», dissi onestamente. «George, non me la sento. È stato troppo doloroso».
Non avevo bisogno di dare un soggetto alla frase, avrebbe capito comunque. E infatti annuì, senza delusione nello sguardo.
«Ma certo, lo capisco», ammise. «Magari potremmo provare ad andare semplicemente d'accordo, che ne pensi?».
Feci roteare gli occhi, ma aveva ragione. Aveva senso. «Siamo sempre stati amici, al di là di tutto».
«Già», confermò lui. Dal suo tono di voce sembrava che dovesse convincere se stesso. «Parlare con te mi piaceva, quindi magari scrivimi. Prendiamo un caffè».
«Certo, perché no?».
Non aveva l'aria di volersene andare. Anche io avrei voluto che rimanesse. Nonostante il totale disagio provocato da quella conversazione avrei desiderato che restasse ancora lì, i nostri sguardi incatenati, distanti tre metri eppure vicini come non mai. Faceva male, Gesù santo, faceva malissimo, ma era tutto ciò che c'era tra noi in quel momento e non volevo che finisse.
Infine annuì, fece un cenno di saluto e si volse, avviandosi alle casse. Aveva quei bellissimi skinny jeans della prima sera che lo avevo visto.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19. ***


Nda: Buongiorno a tutti, miei fedeli minions. So che sono in clamoroso ritardo con questo capitolo, la verità è che ero... di nuovo all'estero, questa volta a Parigi, dove ho passato sei giorni in compagnia di alcune amiche, chi mi ha seguita su Instagram sa già tutto :). Comunque presto pubblicherò qualcosa a riguardo anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S., non appena mi sarò rimessa in carreggiata con tutti i post arretrati (senza far nomi L'ARTICOLO SU PRAGA LASCIATO A METÀ).
Come ogni volta potrete trovare
questo capitolo anche su Wattpad.



Capitolo 19.

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«Tu sei assolutamente fuori di melone».
Guardai Jacques con odio malcelato. «Sta' zitto, amore».
Dal momento che dovevo fingermi la sua adorata e innamoratissima fidanzata non potevo astenermi dall'accompagnare il mio coinquilino alla gare d'Austerlitz per andare a prendere i suoi genitori in arrivo a Parigi. Il che significava sostenere l'imbarazzante conversazione in cui raccontare le dinamiche del mio incontro con George ad una persona che aveva la sensibilità di una pietra.
«Sono molto serio, mia cara», insistette lui mentre la linea 10 della metro ci portava a destinazione. «Hai davvero intenzione di chiamarlo? Davvero?».
«Beh, perché no?», domandai ad alta voce, rivolta più a me stessa che a lui. «Insomma, non c'è niente di male. Siamo adulti e vogliamo essere amici».
«Non siete stati capaci di essere amici nemmeno per cinque secondi», mi ricordò Jacques con espressione di ascetica saggezza. «Tu hai iniziato ad avere pensieri impuri dopo la prima festa insieme e lui... Beh, non so lui, ma chiunque avrebbe avuto pensieri impuri su di te, con il vestito che avevi».
Risi forte. «Soprattutto tu, caro futuro marito».
Finse di volermi palpare una chiappa. «Per questo mi sono messo con te, un anno fa...».
«...durante una romantica cena sulla Senna...».
«...mentre tu mi parlavi di un manifesto di Mucha», concluse lui. «Vedi? Mi ricordo di Mucha».
«Meno male», commentai mentre il treno rallentava, «visto che te l'ho ripetuto cento volte. Ti ricordi anche cosa mi hai regalato per san Valentino?».
Jacques annuì e mi prese la mano prima di scendere dal vagone. «Il cofanetto con le prime tre stagioni di Boardwalk Empire».
«E io ho regalato a te l'ultimo Uncharted».
«Che è stata una scelta un po' orrenda, visto che io volevo Skyrim».
Ridacchiai e gli allungai un colpo sulla spalla. «Stiamo insieme da mezzo minuto e già ti detesto, come fa Manuel?».
Jacques esitò, sistemandosi meglio la cuffia di lana sul capo. Assunse un'espressione strana, un po' mesta, e fece spallucce. «Non lo so. Non lo so come fa, prima o poi finirà per stancarsi».
Manuel non aveva preso molto bene la decisione di Jacques riguardo i suoi genitori. Non capiva perché non potesse semplicemente dire “Mamma, papà, apprezzo il pene ultimamente” ed aveva immediatamente tirato in ballo la sua famiglia, che non aveva mai avuto alcun problema con la sua sessualità.
La madre di Manuel, Sonie, era di Grasse ed era un'attivista per i diritti delle coppie di fatto, comprese quelle omosessuali: mai avrebbe fatto ostruzionismo a suo figlio. Il padre di Manuel si era volatilizzato quando lui aveva sette anni ed il nuovo compagno della mamma, Philippe, era il sindaco di Chateauneuf-Grasse, piccolo paesino di provincia, era molto aperto e senza troppi pregiudizi. Anche lui non aveva mai avuto problemi.
Nessuno di noi aveva idea di come fossero i genitori di Jacques: sapevamo solamente che lui era un cardiochirurgo e lei una di quelle donne la cui unica occupazione nella vita è presenziare a serate di beneficenza in abito lungo. Continuavano a sborsare denaro contante ogni mese convinti che il figlio stesse studiando, cosa che in realtà Jacques non si era mai dato la pena di fare.
Per quel che riguardava il mio consenso, avevo abbastanza fiducia nella capacità di giudizio del mio amico per capire che era terrorizzato dai suoi. E poi chi ero io per giudicare? Parliamo della stessa scema che ha sputtanato non uno, ma due rapporti amorosi in due mesi. Non potevo proprio dire nulla.
Invece il suo compagno poteva eccome e quella era stata la loro prima crisi. Per qualche giorno Manuel era andato a stare da un amico ed era stato tremendamente imbarazzante incontrarlo al lavoro.
Non avete idea di come diventasse Manuel quando era triste o arrabbiato. Aveva la stessa verve di Ih-Oh, l'asinello di Winnie the Pooh, e si trascinava stancamente da un bancale all'altro del negozio senza avere realmente la volontà di fare alcunché. Il primo giorno rispose al mio saluto con uno sconsolato “Ciao, Léo” e durante la pausa lo trovai a piagnucolare nel ripostiglio dietro le casse. Bette ed io non sapevamo se andarlo a consolare o lasciarlo annegare nel proprio dolore.
Poi, appena tre giorni prima dell'arrivo dei genitori di Jacques, Manuel era tornato a casa. Non so bene cosa si siano detti lui e Jacques per fare pace, comunque sembrava che le cose si fossero risolte. La verità è che Manuel amava Jacques così tanto che si sarebbe fatto uccidere pur di non perderlo.
Così avevamo spostato in fretta e furia le mie cose in camera loro, mentre Manuel aveva messo le sue nella mia. Jacques ed io avevamo concordato una bella storia molto leziosa sul nostro piccolo grande amore e Manuel aveva promesso di non piangere davanti ai suoi genitori – che volevano conoscere tutti i nostri amici.
Ed io volevo invitare George.
«Non pensi sarà imbarazzante, comunque?», domandò Jacques mentre scrutavamo il tabellone nel salone centrale per capire a quale binario sarebbero arrivati i suoi.
«Per Manuel?».
«No, parlavo della cena e di George», fece lui. «Onestamente se fossi al posto suo sarei a disagio. Insomma, tu fingerai di amare un altro uomo e lui si accorgerà presto che tutti noi sappiamo dei vostri trascorsi».
Mio malgrado mi vidi costretta ad annuire. «Sì, forse hai ragione».
«Binario quattro», disse Jacques passandomi una mano intorno alla vita. Iniziammo a camminare verso la destinazione. «Battute a parte, ora che siamo solo io e te vorrei la verità: perché vuoi riprendere a frequentarlo? Il vero motivo».
Sospirai, improvvisamente accaldata sotto il parka di Benetton. «Sinceramente non lo so. Stare con lui mi ha fatto più male che bene, questo è sicuro. Però...».
«Però?».
Mi arrestai di colpo non appena arrivammo sul binario. Il treno sarebbe arrivato nel giro di pochi minuti e volevo affrontare il discorso subito, non avevo voglia di rimandarlo a chissà quando. «Mi manca», confessai. «Mi è mancato ogni singolo giorno. Mi è mancata la passione, mi sono mancate le sue attenzioni, ma soprattutto mi è mancata la sua presenza. La compagnia, sai».
Jacques annuì da dietro la sciarpa. «Ok».
«Lui mi fa ridere», aggiunsi. «E mi conosce. So che sembra stupido, perché siamo stati insieme poco, ma giuro che nessuno al mondo saprebbe capirmi meglio di lui, nemmeno Marie. Nemmeno mia madre».
Dopo avermi fissata per un po' senza aprire bocca, Jacques emise un lungo sospiro. «Non capisco perché non lo hai richiamato, allora».
«Non lo so, mi faceva troppa paura».
«Credi che sarai capace di essergli amica e basta?».
Scossi il capo, senza sapere come rispondere. «Tentar non nuoce, eh?».
«Nuoce eccome. A te e anche a me, per estensione. E a George. Se non ce la farete ad essere amici soffrirete entrambi e allora avrete solo peggiorato la situazione. Per non parlare del fatto che mi toccherà raccogliere i tuoi pezzi un'altra volta».
Feci un cenno di risoluto diniego. «No, giuro che non accadrà. Preferisco essergli amica che non vederlo mai più».
Se Jacques voleva dire la sua a riguardo non lo seppi mai, perché non appena ebbi chiuso la bocca udimmo uno sferragliare su rotaie; mi sporsi oltre la sua figura alta e osservai con il cuore in gola il treno parcheggiarsi al suo posto e una fiumana di gente assieparsi vicino alle porte, in attesa di poter salire.
«Buffo, la prima volta che un uomo mi presenta ai genitori è una bugia», commentai.
Jacques mi afferrò la mano con forza inaspettata: sospetto che lo avrebbe fatto comunque, vista l'ansia che gli provocava la situazione. «Sto per morire».
Gli strinsi di rimando la mano e cercai di apparire incoraggiante. «Andrà tutto bene, vedrai, tu cerca solo di apparire naturale».
«Non noteranno nemmeno la differenza, io sono sempre agitato con loro».

 

***

La madre di Jacques, a quanto pareva, si chiamava Éloise ed era una donna bionda, con i capelli a caschetto lisci come spaghetti, e nel complesso la si poteva dire davvero bella. Aveva zigomi alti, lineamenti affilati ed il corpo era longilineo e slanciato, snello. Da giovane, nell'epoca d'oro delle top model negli anni '80, aveva sfilato in tutta Europa ed era rimasta in contatto con stilisti e modelli da allora, anche se aveva abbandonato il mondo della moda quando era rimasta incinta. Inutile dire che le feci migliaia di domande su tutti i più grandi nomi della haute couture e che lei, cortesemente, mi prestò la massima attenzione.
Il marito di Éloise portava l'altisonante nome di César Bertrand Moreau. Era, come sapevamo tutti, un cardiochirurgo che operava principalmente all'estero, ma che aveva recentemente accettato un contratto di tre anni in una clinica privata di Bordeaux. Era un uomo taciturno, spiccicò a malapena due parole quando mi vide, e somigliava paurosamente a suo figlio. Guardandolo mi parve di vedere Jacques a cinquantasei anni, solo che il padre portava i baffi.
Anche se cordiale lei e taciturno lui, mi fu chiaro fin da subito che il mio essere italiana era uno sbaglio che non avrei dovuto commettere alla nascita. Come dice la zia Augusta in L'importanza di chiamarsi Ernesto, perdere un genitore è una sfortuna, ma perderne addirittura due è un grave sintomo di superficialità. Ebbene, pareva che i miei suoceri considerassero anche le mie origini un'espressione di disattenzione e inadeguatezza. Comunque non fecero commenti ed io, che dovevo essere imparentata con loro solamente per i quattro giorni che avrebbero passato lì, non avrei dovuto poi faticare troppo a sopportarli.
Éloise non parve molto soddisfatta della casa; César si limitò ad accendersi un sigaro e a rivolgere un cenno di saluto a Manuel.
Fu una scena divertente, perché negli occhi del nostro terzo compare notai non solo orrore per quella famiglia, ma anche sollievo: forse, ora che li aveva conosciuti, non smaniava poi troppo per essere presentato come fidanzato.
Non voglio dire che fossero bastardi nell'anima, lei era piuttosto gentile e lui non parlava abbastanza per trovargli dei difetti. Sono certa che avessero le loro qualità, come chiunque. Però non sembravano troppo decisi a mostrarci quali fossero.
La cena con gli amici, la sera successiva, fu quanto di più imbarazzante mi sia mai capitato di osservare.
Jacques propose ai suoi genitori di cenare in casa. «Facciamo sempre così», spiegò alla madre, «e tu dicevi di voler vedere come fosse la mia vita qui».
«In casa?», fece lei. Assunse un'espressione un po' a disagio, come se detestasse l'idea e non lo volesse ammettere. «Beh, tesoro, è una bella idea, ma... Tuo padre ed io pensavamo saremmo andati al ristorante».
Madre e figlio guardarono me ed io mi sentii diretta verso la ghigliottina. Li squadrai di rimando e ammetto che sarei scappata via se non avessi visto lo sguardo supplice di Jacques. Così sorrisi come una brava hostess e finsi di riflettere. «Amore, c'è quel ristorantino sulla rive gauche dove siamo andati per il tuo compleanno».
Era una cazzata indecente: non avevo mangiato da nessuna parte per il compleanno di Jacques, non sapevo nemmeno in che data compisse gli anni. Lui colse al volo l'opportunità ed esclamò: «Ma certo, hai ragione, potremmo sempre andare ».
Decidemmo in fretta e furia dove potesse essere quel “lì”, cercando disperatamente su Tripadvisor un qualsiasi posto che fosse anche solo vagamente sulla rive gauche. Alla fine optammo per un posto chiamato La Butte e decidemmo che era abbastanza di classe per i suoi genitori.
Ci riunimmo intorno al tavolo tutti insieme: i coniugi Moreau, Jacques, io, Marie e Jeannot, Manuel e Bette. Max aveva telefonato dicendo di essere ancora fuori città con Louise e Nicole era ancora in Canada come ragazza alla pari.
Ammetto che avrei strozzato la mia finta suocera, quando vidi il modo in cui studiava Bette. Come se cercasse cosa nel suo aspetto la facesse incazzare – o vergognare, non riuscii a cogliere la sfumatura nella sua espressione. Anche Bette se ne accorse e non aprì bocca se non per salutare, avvampando.
«Anche Marie si è laureata in storia dell'arte come Léo», disse Jacques per fare conversazione.
Lei, la mia amica, sorrise con dolcezza con le sue labbra sensuali e piene. «Ma Léo è stata la migliore», asserì, «è uscita con la lode».
«Siamo uscite entrambe con la lode», puntualizzai. Non volevo che Marie mi adulasse davanti a quei due, non dopo aver dimostrato quanta puzza avessero sotto al proprio naso.
«Oh», fece Éloise, «e come mai lavori al Gitem, Léo?».
Non credo volesse mettermi in difficoltà davanti a tutti e neppure che volesse imbarazzare suo figlio. Sospetto che stesse cercando di testarmi per vedere quanto arrivista fossi. Se solo mi avesse conosciuta un anno prima, mi avrebbe adorata come la figlia che non aveva mai avuto.
Sorrisi senza preoccuparmi di nascondere l'odio represso. «È il mio desiderio da una vita», ironizzai.
Notai con piacere che Jacques rideva sotto i baffi. «Lasciala in pace, mamma».
«Sono solo curiosa di conoscerla», si difese lei. «E di conoscere i tuoi amici, naturalmente. Mi passi la salsa, tesoro?».
César prese la salsiera e versò parte del contenuto nel piatto della moglie senza dire neanche una parola.
Lei, invece, continuò imperterrita a chiacchierare. «E, Jeannot, tu che fai?».
«Ho trovato lavoro in una motorizzazione», spiegò lui sorseggiando il suo vino rosso dal bicchiere. «Mi occupo di rilasciare i documenti necessari agli esami per la patente. Non è il mio punto di arrivo, ma per avere appena iniziato mi è andata bene».
Ero convinta che la signora Moreau avrebbe apprezzato il lavoro di Jeannot, che aveva la parvenza di un impiego vero, ma qualcosa nel tono che lui aveva usato non le piacque. Forse le aveva dato l'impressione di accontentarsi.
In compenso sembrò apprezzare ciò che disse Bette. Può sembrare strano, visto quello che ho detto prima sul modo in cui la guardava, ma in realtà ha un senso logico: Éloise si aspettava che Bette, sovrappeso e con i capelli tinti di rosa fluo, facesse un lavoro mediocre e quando ottenne la conferma alle sue supposizioni parve ritrovare una certa stabilità. Non era certo estasiata, ma almeno era tranquilla.
«Manuel, che mi dici di te?».
Quella sarebbe stata la ciliegina sulla torta, ne ero sicura. Ingurgitai quello che rimaneva delle crespelle alla valdostana che avevo nel piatto e finsi di non esistere, era meglio così. Si vedeva lontano un chilometro che i rasta non erano di suo gradimento, l'unico modo di farlo capire più esplicitamente era che Éloise lo dicesse ad alta voce. Per non parlare del piccolo tatuaggio che Manuel aveva sull'osso dell'anca: quando si era sfilato la giacca, la felpa si era sollevata un po' e i nostri ospiti lo avevano notato subito, storcendo il naso.
Manuel sorrise come faceva sempre. Jacques lo aveva supplicato di non avere la solita aria da drogato, ma era la sua indole e non era stato in grado di nasconderla troppo a lungo. «Io lavoro con Sand... Voglio dire, con Léo», si corresse. «Sono andato a lavorare al Gitem qualche anno fa».
«Sono molto gentili ad ospitarti, no?».
Perfino il marito la guardò con tanto d'occhi da dietro gli occhiali rettangolari, il che è tutto dire, ammettiamolo. Sull'intera tavolata crollò un silenzio così pesante e teso che avrei potuto affettarlo con un coltello. La forchetta di Marie tintinnò quando le cadde nel piatto e tutti, nessuno escluso, fissammo Éloise con incredulità.
«Oh, mio Dio», sussurrò Marie all'altro capo del tavolo.
Manuel fu l'unico, insieme alla madre di Jacques, a non perdere la sua espressione di bronzo. «Come dice, mi scusi?».
Non voglio pensare che Éloise non si sia resa conto della gaffe stratosferica nella quale era precipitata. Non era stupida, era un tipo di donna che aveva fatto della propria astuzia un'arte: no, sospetto che semplicemente non le importasse.
«Ho detto», rispose tagliando un pezzo del suo filetto di manzo, «che mio figlio e la sua ragazza sono molto gentili ad ospitarti».
Con un sorriso che di cordiale non aveva niente, Manuel scosse il capo agitando i dread. «Devo proprio correggerla, signora. Pago un regolare affitto, contribuisco alle bollette e alla spesa settimanale. Non mi serve farmi mantenere, anche se il mio aspetto forse a lei dice il contrario». Appoggiò il tovagliolo sul tavolo e scostò la sedia con calma raggelante: come facesse a stare tranquillo proprio non lo so. «Con permesso».
Nessuno di noi osò guardarlo mentre si alzava. Andò fino al bancone, parlottò per un momento con la ragazza alla cassa e si fece fare il conto. Pagò ed uscì con tutta la naturalezza possibile.
Jacques si alzò di scatto, muovendo l'intero tavolo. «Mamma, ti farei un applauso, davvero».
«Che ho detto?», fece lei aggrottando la fronte.
Lui non la ascoltò nemmeno e corse fuori senza neanche infilarsi la giacca, all'inseguimento del suo ragazzo, sotto lo sguardo preoccupato della cassiera.
Restammo per un momento in silenzio. Marie fissava il suo piatto con gli occhi sgranati e le mani in grembo, Jeannot si era girato verso la porta. Bette invece guardava me, mentre César fissava sua moglie e sua moglie fissava il vuoto bevendo vino.
Io, dal canto mio, non sapevo se correre dietro a Jacques per salvare le apparenze, se mettermi a insultare la suocera o se scavarmi una fossa, seppellirmi e morire.
Marie si schiarì la gola per attirare la mia attenzione. «Ehm, si è fatto tardi», commentò con la sua vocina e i suoi occhioni languidi. «Domani è domenica e devo essere al bar alle cinque e mezza per aspettare il furgone con le brioches».
Era la scusa più cogliona del mondo, dato che erano solamente le nove di sera, ma capivo perfettamente il motivo per cui la stava usando. «Certo», borbottai, invidiosa perché poteva darsela a gambe ed io no. «Ci sentiamo domani».
Lei annuì mentre si alzava e mi lanciò uno sguardo così allarmato che se fossimo state sole mi sarei fiondata ad abbracciarla. Jeannot mi rivolse appena un'occhiata, a disagio, e praticamente scappò via dopo aver pagato.
Bette si alzò a sua volta. «Farei meglio ad andare anche io, con la metro ci metterò più di un'ora ad arrivare a casa».
Sospirai, incerta se fosse un bene o un male che tutti mi abbandonassero a quel tavolo con quella specie di virago. «Ci vediamo al lavoro, ok?».
Lei annuì, prese la giacca e andò a pagare la sua parte della cena. La ragazza della cassa fece il conto sbuffando, per poi guardare il nostro tavolo con disappunto per il lavoro extra che le stavamo dando.
«Non capisco cosa ho detto di sbagliato».
Guardai Éloise aggrottando la fronte. «Ah, no?».
Lei si strinse nelle spalle. «Che cosa c'è che non va? Ho solo detto che siete gentili, tu e mio figlio. Non pensavo che ci lavorasse davvero, al Gitem, visto come va in giro».
Crollai contro lo schienale della sedia e guardai César. Perfino lui era arrossito e guardava con rabbia la moglie. Sospettavo che, una volta arrivati in albergo, avrebbero discusso. Tanto meglio, visto quello che aveva detto. Silenzioso finché volete, ma almeno su una cosa eravamo d'accordo.
«Manuel è una delle persone migliori che conosca», replicai incrociando le braccia. «Quelli del Gitem non lo meritano».
Lei non colse – o finse di non cogliere – la stizza nella mia voce. «Uhm, sarà. Non volevo creare un tale disastro, dopotutto non ho insultato nessuno».
Ragionare con quella donna era la cosa più inutile della Terra. «Già», sbuffai, senza preoccuparmi di risultare sfacciata. «Nessuno».
Era il segnale che stavo aspettando. Presi il telefono e scrissi a George, invitandolo fuori per un caffè il giorno successivo, dato che non avevo il turno al Gitem. Avevo davvero bisogno di lui.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20. ***


Nda: Buongiornooooo! Stavolta sono in orario con la tabella di marcia. Questo capitolo, mi pare di capire da cerce accorate recensioni, era abbastanza atteso per il ritorno di un certo maschietto: spero di non deludere le aspettative! Non esitate a esporre critiche negative, se ne avete, e vedrò di migliorare!
In più vi faccio sapere che ho pubblicato una nuova OS, per chi non lo sapesse, che trovate a questa pagina. Ricordatevi di transitare per Gaiman in the T.A.R.D.I.S., se vi va, e di dare uno sguardo a questa long su
Wattpad.



Capitolo 20.

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Scegliemmo come luogo di incontro i Giardini del Lussemburgo. C'è un piccolo bar, al suo interno, che all'epoca era vicino ad un carosello. Dovevamo incontrarci per le quattro, in realtà io mi presentai lì alle tre meno un quarto per la paura di arrivare in ritardo, dopo aver passato buona parte della mattinata a rovistare nell'armadio in cerca di qualcosa che mi facesse sembrare bellissima e allo stesso tempo che fosse casual.
Avevo i miei jeans più belli, a sigaretta, ed un maglione di angora turchese. Solo dopo aver indossato il cappotto e la sciarpa mi venne in mente che non avrebbe mai visto cosa c'era sotto, ma mi sentivo decisamente meglio.
Mi sedetti su una panchina vicina al dehors del bar, con la musica del carosello nelle orecchie. Le luci della giostra arrivavano insieme alle voci e alle risate della gente: non c'erano solo bambini, ma anche adulti, insieme a turisti e passanti, avventori del bar e cani a passeggio. Gente che andava e veniva e che non sapeva niente di quello che stava accadendo nel mio cuore.
Non mi importava granché del freddo. Anche se le mie chiappe si stavano surgelando sulla panchina di legno, mentre l'umidità del laghetto delle anatre alle mie spalle mi investiva la schiena, non sentivo niente.
In parte era dovuto a quanto accaduto la sera precedente. Ero ancora piuttosto imbarazzata all'idea. In parte, invece, era chiaramente per l'incontro che stava per avvenire: dentro di me ero terrorizzata all'idea che, all'ultimo momento, George decidesse di tirarsi indietro. Non l'avrei sopportato.
Forse Jacques aveva ragione, magari non ero pronta ad essergli amica. Malgrado quello che avevo detto ero spaventata, perché forse sarebbe stato perfino peggio che non parlargli più. L'averlo a portata di mano e non poterlo avere per non spezzare quel delicatissimo equilibrio che si era creato, forse sarebbe stato davvero doloroso al punto da farmi rinunciare.
Le persone intorno a me non erano niente. Fu l'attesa peggiore della mia vita.
È possibile riversare in un unico essere umano le nostre aspettative? E soprattutto è sano? In qualche modo volevo che George tornasse nella mia vita, non importava se l'avrebbe resa migliore o peggiore. Bastava solo che tornasse ed ero così in ansia da controllare il cellulare ogni pochi secondi.
E se non fosse venuto? Mi sarei sentita sciocca, umiliata e soprattutto vuota. Per un attimo valutai l'ipotesi che si sarebbe presentato solo per insultarmi. Con sgomento mi resi conto che non mi interessava, poteva dirmi quello che voleva.
Questo pensiero, lo ammetto, mi spaventò. Non era normale, o meglio non era salutare. Mi sentivo una novella Anastasia che aspetta Mr. Grey: inerme e sottomessa. Ma George non era Mr. Grey, non avrebbe mai fatto nulla che mi facesse soffrire. No, era troppo buono, tanto quanto io ero stata crudele.
Lo vidi avanzare da uno dei sentieri che convergevano al piazzale del carosello, a una decina di metri da me: l'ormai familiare cappotto blu con gli alamari, un paio di clark color cuoio e le mani in tasca, camminava con le labbra semi-dischiuse: vedevo il fiato che si condensava anche a quella distanza.
Aveva i capelli raccolti come la volta precedente, in un codino sulla nuca, e i suoi occhi, così potenti da bucarmi l'anima, si guardavano intorno mentre si muoveva. Si arrestò dall'altra parte del bar, oltre i tavolini del dehors, e iniziò a cercarmi con lo sguardo.
Per un attimo i miei piedi divennero di piombo, come se non volessero più muoversi. Ero ancora in tempo per fuggire a gambe levate, lui mi avrebbe considerata una stronza, ok, ma intanto avrei potuto scappare.
Invece disincastrai le gambe dalla posa innaturale che avevano assunto e appoggiai la suola delle beatles sulla ghiaia. E mi alzai, semplicemente. Fu strano, in qualche modo mi parve di fluttuare sul sentiero. I suoni intorno a me erano ovattati, perfino la noiosa musichetta della giostra non mi arrivava più all'orecchio. Strinsi la tracolla della mia borsa con tanta forza che credetti di spezzarla.
Mi vide e mi sorrise ed io sprofondai. Mi si mozzò il fiato, gli occhi divennero ciechi per qualsiasi cosa non fosse lui. Se avessi seguito l'istinto mi sarei fiondata lì, gli sarei saltata in braccio e gli avrei dato la limonata più feroce a cui potessi pensare, il tutto solo perché la smettesse con quel sorriso che mi stava smontando il cuore pezzo dopo pezzo.
«Hey», dissi con un sorriso quando lo raggiunsi.
«Hey», rispose lui. «Aspetti da molto?».
Scossi il capo. «No, pochi minuti». Era una bugia. Dio santo, avevo iniziato il nostro nuovo rapporto di amicizia con una menzogna. Dovevo rimediare subito. «Per la verità, un'ora e venti, più o meno».
Il sorriso di George svanì. «Oh, Gosh», disse in quel modo così inglese, «ho sbagliato orario? Sono in ritardo?».
«No, sono io che sono arrivata in anticipo».
Ci fissammo per un po'. Era la conversazione più stupida mai sostenuta, sembravamo conoscerci pochissimo e invece avevamo addirittura fatto sesso. Eppure era cambiata ogni cosa e dopo i convenevoli non sapevamo cosa dire. Dio, eppure avevamo sempre avuto tanto di cui parlare. Mi sarei messa a piangere, se non avessi precedentemente spalmato sugli occhi il mio mascara preferito.
Alla fine mi indicò il bar. «Caffè?».
«Si, ti prego», replicai tirando un sospiro di sollievo.
George rise e risi anche io. Sembravamo due scolaretti. Ci sedemmo ad un tavolo di plastica, su due surgelate sedie di plastica, bevendo i nostri caffè giganti in bicchieri da asporto di plastica. Ma l'espressione di George non era affatto di plastica, anzi, era quanto di più bello e vero avessi mai sperimentato.
Restammo per un momento senza parlare. Si era creata una di quelle situazioni stranissime in cui tutti sono imbarazzati e consapevoli di esserlo, quindi ogni tanto qualcuno sorride o fa una risatina e pian piano la tensione cala fino a sparire.
«Ehm, allora», disse George all'improvviso. «Il Gitem, eh?».
Roteai gli occhi. «Ti prego, non ricordarmi che ci dovrò tornare, domani. Lo detesto».
«Credevo che avresti negato, sai?», rise lui.
«Negato?».
«Credevo avresti finto che fosse l'obbiettivo ultimo della tua intera esistenza e a quel punto io avrei mentito dicendo quanto tu avessi ragione».
Abbozzai un sorriso. «Sto cercando di smetterla di dire bugie».
«E hai smesso anche con le sigarette?», domandò lui prendendo un pacchetto di Chesterfield rosse dalla tasca.
«Quello mai», risposi a colpo sicuro. Accettai la sigaretta che mi veniva offerta e gli permisi di accendermela.
Tendendomi verso di lui inspirai il suo odore. Fu un lampo, una questione di un secondo prima che l'accendino scattasse ed il fumo della prima boccata mi inondasse le narici, eppure fu sufficiente. Per appena un istante mi ritrovai di nuovo nel suo appartamento, sommersa tra lenzuola che avevano visto troppo sesso, le sue labbra così vicine alle mie, il profumo della sua pelle misto a quello della nicotina, il desiderio di fonderci insieme come due colate di oro bollente.
E poi ero di nuovo nei Giardini del Lussemburgo, mentre il mio caffè aspettava di essere bevuto e l'odore predominante era quello di zucchero filato.
«Ieri è successa una cosa», dissi all'improvviso.
Lui buttò fuori il fumo dalle narici e si appoggiò al tavolo con le braccia. «Che cosa?».
Non so bene perché decisi di spiattellare tutto. Non che ci fosse niente da nascondere, chiaro, e George conosceva Jacques molto poco. Ma avevo bisogno di dirglielo, sentivo la necessità quasi fisica di dirgli tutto di me e della mia vita, perché era stata tutta una menzogna l'ultima volta e mi serviva che le cose andassero nel modo giusto, ora.
«È stato orribile», mormorai con un mezzo sorriso schiacciando il mozzicone ormai finito contro il posacenere. «Manuel stava malissimo, quando sono tornata a casa ieri sera».
George si appoggiò allo schienale della sedia. «Ci credo, sarei stato male anche io al posto suo».
«Io capisco Jacques, davvero», spiegai, «ma sua madre ha veramente raschiato il fondo. Credo che abbiano discusso pesantemente al telefono, Manuel ed io siamo stati letteralmente chiusi fuori dalla loro camera mentre parlavano».
«Mi dispiace che tu ti ci sia trovata in mezzo».
Gli sorrisi. «Non importa, io sto bene. Sono solo preoccupata per loro».
«Non credevo che Jacques fosse gay, anche se in effetti l'ho visto una volta sola».
Sarei stata sciocca se avessi creduto che la sua mente non si fosse soffermata, anche solo un momento, su quella “volta sola”. La volta decisiva, l'ultima prima della fine. Quando ero stata io a raschiare il fondo della troiaggine.
«Già», mi ritrovai a esalare. «E invece...».
Il ricordo di quella notte ci piombò in testa come un macigno. Mentre fissavo con eccessivo interesse il tavolo pensai che, se davvero volevamo essere amici, dovevamo superare la cosa entrambi. George doveva perdonarmi ed io dovevo perdonare me stessa, ma era difficile.
Anche lui guardava altrove. Fissava un punto alla sua destra, dove due gemelle di cinque o sei anni si rincorrevano, controllate a vista dalla madre.
Oddio, era bellissimo. Mentre guardava le bambine senza realmente vederle, gli occhi azzurri e lo sguardo assente, il petto che si alzava respirando sotto il cappotto e la mano che reggeva una sigaretta ormai del tutto consumata. Era più che bello, era luminoso. Era lo stesso George che avevo dipinto secoli prima.
E poi, con tutta la naturalezza e la semplicità di cui era capace, un sorriso dolce e perdendo di colpo tutto l'imbarazzo, George disse: «Credo che Paul fosse un Grifondoro».
Lo fissai sgranando gli occhi, per nulla sicura di aver sentito bene. «Cosa?».
«Ma sì, per forza!», insistette lui tornando ad avvicinarsi attraverso il tavolo. «Un Grifondoro, non c'è altra spiegazione. Io sono un Tassorosso», aggiunse quasi con orgoglio, fingendosi tronfio.
Soffocai una risata. «Ah, capisco». Per un attimo mi chiesi se non avesse per caso un account su Pottermore. Segretamente io ne avevo uno, lo ammetto. «Ed io cosa sono, sentiamo?».
«Una volta avrei detto Serpeverde, acida com'eri», rise lui. «Ora direi Corvonero».
«Ma io voglio essere un Grifondoro!», protestai.
«Mi dispiace, con il Cappello Parlante non si discute».
Mi passai una mano sul viso, ridendo. Era stupido, stupidissimo ridere per quello. Non era nemmeno una vera battuta, era qualcosa che George aveva detto per rompere il ghiaccio. Ma aveva nominato Paul: lo aveva fatto per primo, aveva toccato l'argomento tabù e ne eravamo usciti sghignazzando, era un passo avanti. Non potevo sprecare quell'occasione.
«George, che ne dici di una cena di Natale?».
Mi guardò senza capire. «Come?».
Immaginai di dovergli dare un minimo di background per aver chiaro l'invito. «Io e gli altri stiamo organizzando un cenone», spiegai. «Ci saranno anche i miei genitori e uno dei fratelli di Marie. Oh, e anche Bette, non la conosci ancora. E torna anche Max, per le feste. Che ne dici?».
«Oh, ecco...».
Oddio, non voleva venire. Avevo appena fatto una figura di merda epocale. Mi sarei data una padellata sulla faccia come Rapunzel. «Ah, certo, capito».
«No, Léo, aspetta». Sollevò una mano e si drizzò sulla sedia. «Torno a casa per Natale, vado con i miei in vacanza dai nonni, in Galles».
Annuii. «Hai ragione», ammisi. «Hai ragione, davvero, non ci avevo proprio pensato che potessi avere altri programmi».
«Non credere che non voglia venire!».
«Non lo credo!».
Inarcò un sopracciglio e mi guardò scettico. «Avevi detto basta bugie».
Mi strinsi nelle spalle. «Beh, ok, l'avevo creduto. Però ora ho capito».
George mi guardò con dolcezza e comprensione. Non con paternalismo, come avrebbe fatto Paul, o con ironia, solo con affetto. «Ok, forse dovremmo davvero parlarne un momento».
Sbuffai. «Dobbiamo proprio?».
«Sì, è chiaro che dobbiamo», rise lui. «Dobbiamo stabilire qualche confine, che ne pensi?».
Mi passai una mano tra i capelli, per nulla convinta. «Se lo dici tu».
«Dovremmo smetterla di cercare di evitare l'argomento», rifletté ad alta voce. Non c'era bisogno di esplicitare di quale argomento si trattasse. «Non serve a niente e comunque prima o poi capiterà di doverne parlare».
Aveva ragione, non potevo negarlo. Giunsi le mani e le incastrai tra le gambe per scaldarle. «Giuro che ci proverò», concessi. «Tu devi uscire con i miei amici».
«Va bene, ma tu devi darmi un po' di tempo», sospirò annuendo. «Sembrerò smaliziato, ma questa cosa è tutta nuova anche per me e forse avrò bisogno di più tempo del previsto».
«Ok».
Annuì di nuovo e abbozzò un sorrisino teso, quasi timido. «Ok».
«Tu, però, non mettere più quei jeans aderenti finché non l'avrò superata del tutto o potrei saltarti addosso».
George scoppiò a ridere. «Evviva la sincerità, uhm?».
Ero contenta: come non esserlo? George ed io avevamo forse ritrovato la nostra quiete, almeno per un po', almeno fino al tornado successivo. Almeno finché io non avessi rovinato tutto una seconda volta e allora no che non ci sarebbe stato il suo perdono a salvarmi.
Al tempo stesso, però, avevo una paura dannata di soffrire ancora. Lo amavo, Gesù, lo amavo davvero. Non servono paragoni o poetiche metafore per dire quanto lo amavo. Era così forte, quel sentimento, così violento e cattivo che mi scavava dentro e mi lacerava la carne. Lo amavo ed ero disposta a qualsiasi cosa pur di ottenere in cambio anche solo un po' di affetto, anche solo uno sguardo o un sorriso.
Era come se i ruoli si fossero invertiti. Le sue parole erano state “Avere un pezzetto di te per me”, quell'ultima volta nel suo appartamento. Ebbene, arrivata a quel punto anche io avrei volentieri fatto l'amante, avrei condiviso il suo tempo con un'altra se fosse bastato ad avere anche solo un po' di lui per me.
Ci era voluto quasi un anno, ma eravamo pari.
«La verità», mormorai. Fissai di nuovo i suoi occhi, seria e decisa. «Promettiamo di dirci sempre la verità».
«Tanto per cambiare?», domandò con ironia.
«Non ce la siamo mai detta fino a quella notte».
George parve accusare il colpo, quando glielo ricordai, ma era stato lui a suggerire di parlarne apertamente. Così annuì. «Sta bene. La verità».
“La verità è che un giorno ancora senza averti vicino e impazzirò”. «La verità è che i capelli lunghi ti stanno meglio».
Avevo appena infranto la mia regola? Avevo solamente omesso, non avevo negato o mentito. Era vero che con quei capelli stava meglio. Eppure ero stata a tanto così dal dirglielo. A meno di un passo dall'aprirmi di nuovo, dal mostrarmi nuda in quel parco affollato, nuda all'unico uomo che avrebbe mai avuto la capacità e il diritto di osservarmi dentro.
Invece non dissi niente.
Intorno a noi la gente continuava a muoversi, i cavalli di legno del carosello oscillavano su e giù mentre persone di tutti i tipi salivano e scendevano dalla giostra. Le gemelle di prima erano andate via, mentre il sole invernale iniziava a calare. E noi eravamo ancora lì, intervallando le pause di silenzio a sguardi...
...sguardi come? In un paio di occasioni credetti fosse uno sguardo sensuale, il suo, ma forse era solo una mia impressione, sarebbe stato un controsenso. Altre volte erano solo sguardi divertiti dal nostro stesso imbarazzo.
Era un clima molto diverso da quello del flirt dei primi incontri, quando ci mangiavamo con gli occhi e volevamo sbatterci vicendevolmente contro un muro o rotolarci sul pavimento. In un certo senso preferivo la vecchia, cara certezza del “vorrei farmelo e anche lui vorrebbe”, perché questa nuova situazione era qualcosa di totalmente estraneo, che non sapevo controllare. Ed io avevo bisogno di controllare tutto.
«Sai, forse è qui che sbagliamo», dissi all'improvviso. «Anche l'altra volta abbiamo deciso tutto a tavolino. Facciamo questo, non facciamo quello».
Aggrottò la fronte. «Cioè preferisci vedere come va, senza alcuna regola?».
«Ho sempre paura quando non ci sono regole», fui costretta ad ammettere. «Però dovremmo provarci, almeno stavolta».
«Mi...», esitò, muovendo le spalle come per sgranchirle – o scrollarsi di dosso l'agitazione – e infine disse: «Mi sembra sensato. Proviamo».
Sorrisi tamburellando sul tappo del bicchiere di caffè. «Bene».
«E dopo Natale, magari, potremmo uscire con i tuoi amici».
«Mi piacerebbe».
Ci fu un momento, allora, in cui credo fossimo sul punto di iniziare a riversarci addosso tutti i rancori e le belle parole non dette. Entrambi a bocca aperta, la lingua che si agitava febbrile alla ricerca delle frasi giuste. Ma nessuno disse niente e forse fu un bene.
«Io devo andare», disse spezzando la quiete e alzandosi in piedi. «Dovrei iniziare a fare le valige, sai, per partire».
Mi alzai a mia volta. «Certo, chiaro».
Lui infilò le mani in tasca ed io mi passai le mie sui jeans. Che dovevamo fare? Stringerci la mano? No, mi sarei rifiutata, la stretta di mano è personale quanto uno scontrino fiscale. Allora cosa? Anche George sembrava incerto, mi guardava come se sperasse che facessi la prima mossa, che dicessi qualcosa di molto saggio.
Mi avvicinai. A casa mia ci si bacia sulle guance prima di salutarsi ed eravamo in Francia, porca vacca, dove anche i muri si baciano. Così porsi la guancia. Non gli avrei dato la soddisfazione di farsi baciare, amici o no ero comunque stizzosa.
A malapena mi sfiorò la pelle con le labbra. Avvertii un piacevole solletico a contatto con la sua barba, ma se dovessi dire di aver provato una specie di momento estatico mentirei. Non sentii niente, idealmente, e nemmeno fisicamente. Forse aveva paura di avvicinare i nostri volti.
Fu spaventoso e orribile: non riuscivo a non pensare alle notti che avevamo passato a divorarci a vicenda, a tutti i morsi che gli avevo lasciato e ai suoi sospiri nel mio orecchio. Ed ora mi toccava sopportare un bacio-che-non-è-un-bacio-ma-fingiamo-che-lo-sia.
Si allontanò di qualche passo, in retromarcia, guardandomi con un sorriso. «Magari ti chiamo».
Annuii, senza rispondere. Avevamo già avuto quella conversazione altre due volte e non aveva mai chiamato. A tutt'oggi non mi è chiaro il motivo, visto che quasi tutto ciò che ci aveva riguardato era stata una sua iniziativa – da me accettata, ma sua.
Decisi che era meglio andare a casa in metro o avrei cercato di buttarmi nella Senna per sentirmi meglio, così feci due passi verso il sentiero che mi avrebbe portata al cancello più vicino.
Fu allora che vidi i miei finti suoceri, lui che fumava il sigaro con aria annoiata e lei che mi fissava adirata, carica di shopping bags, scuotendo il capo.
“Fantastico, per una volta che non tradisco vengo beccata”.

Ricevetti un messaggio di Bette, in treno.

 

Nuovo messaggio: 0 sconosciuto

-Bette-

“Altro incubo stanotte! Anke se frs sn i

genitori d Jaq a mettermi l'ansia ;)))”


Non seppi cosa rispondere, anche se ammetto che trovai l'allusione ai suoceri quanto mai pertinente.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21. ***


Nda: Buonsalve, benvenuti all'aggiornamento settimanate (e voi direte Cheppaaaaalleeeee). Dal prossimo capitolo cambierà il banner perché questo qui mi ha stancata, mentre la nostra Léo rimarrà lì a lambiccarsi su come fare col povero George. Date uno sguardo a Gaiman in the T.A.R.D.I.S., oggi pubblicherò dei nuovi contenuti, e se preferite un'altra piattaforma potrete sempre leggere questa long su Wattpad.



Capitolo 21.

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Arrivata a casa, mi aspettavano un molto divertito Jacques, una Éloise imbufalita e un César piuttosto calmo e – strano a dirsi! – taciturno. Di Manuel non c'era traccia, ma sentivo l'acqua tirata nella doccia e non mi fu difficile indovinare che ci fosse lui sotto il getto.
Sospirai mentre lasciavo le chiavi di casa sulla mensola vicino alla porta. Mi sfilai le scarpe e le lasciai nella scarpiera. Intorno a me tutto era silenzio, ma giuro che se avessi potuto ascoltare il suono del furore di Éloise sarebbe stato fastidioso e trapanante come la sirena di un'ambulanza.
«Ciao, amore», cinguettai.
Jacques, lo devo proprio dire, fu un grande attore. «Mia madre mi ha detto che ti ha vista con un altro!», sbottò.
Dovevo fare uno sforzo per non mettermi a ridere. Non potevo negare, perché ci eravamo squadrate per bene, Éloise ed io, così dissi semplicemente: «Ma, amore, è solo un amico».
Lui fece per aprire la bocca e replicare, ma sua madre lo anticipò: «Solo un amico!», ripeté con voce stridula. «Certo! E ti aspetti che ce la beviamo?».
La fissai fingendomi offesa. La verità è che le avrei riso in faccia. «Ma è vero! Se mi ha davvero vista, saprà che non c'è stato nulla di compromettente tra me e George».
Jacques tirò un sospiro. «George?», ripeté. «Oh, cavolo, vi siete visti e non mi hai detto niente? Dovevo essere il primo a saperlo!».
Stava mandando a puttane la nostra pantomima, ma sua madre nemmeno lo notò, tanto era impegnata ad additarmi. Starnazzò come una gallina: «Io sono una donna ragionevole!». “Certo, come no”, pensai. «Ho sopportato di conoscerti, piccola arrivista...».
«Arrivista?», ripetei sgranando gli occhi.
«...ma se c'è una cosa che proprio non accetto è che mio figlio, il mio Jacques, venga preso in giro impunemente! Sotto gli occhi di tutti, poi».
Jacques, che aveva l'aria tutt'altro che ferita, si lasciò cadere sul divano e rovistò tra i cuscini alla ricerca del controller per la PlayStation. «Smettila, ma', se Léo dice che non è successo niente...».
Éloise lo interruppe, strappandogli il controller di mano. «Non importa, con che coraggio si incontra con altri uomini?». Mi lanciò un lungo e penetrante sguardo omicida e sputò la Parolona Orrenda. «Puttana».
Era troppo. Arrivista? Passi. Italiana? Ovviamente, ma passi anche quello. Puttana, però, no. Era qualcosa che mi toccava da vicino, qualcosa che risvegliava i miei più reconditi sensi di colpa ed era orribile riviverli, non quel giorno, non dopo che avevo ripreso a vedere George.
«Vaffanculo», sibilai, in uno splendido e italianissimo accento urbinate. Presi una sigaretta dal pacchetto che avevo nella borsa e la accesi, sperando che odiasse chi fuma dentro casa. Solo allora tornai al francese. «Frigida del cazzo. Come si permette di venire ad insultarmi in casa mia?».
Stava già per ribattere: «Questa casa...».
Bloccai la sua protesta sul nascere. «Questa casa è anche mia, signora Moreau, così come appartiene a Manuel e a Jacques. E tanto per la cronaca, invece di sputare sugli altri le sue sentenze, perché non controlla la trave nel suo occhio?».
Vidi Jacques irrigidirsi sul divano. «Mamma, non posso credere a quello che hai detto. Non sono affari tuoi, è la mia vita privata».
«Mi preoccupo per te, tesoro».
César, forse intuendo che gli animi erano un po' troppo surriscaldati, disse una delle sue rare frasi polisillabiche: «Éloise, il ragazzo ha ragione».
«Certo che ho ragione!». Jacques scattò in piedi e si portò al mio fianco. Lo guardai non senza una certa sorpresa: da quando in qua era così risoluto? Considerando che aveva messo in piedi quella messinscena proprio per non dover prendere in mano la situazione, quel suo atteggiamento deciso era stupefacente. «Non sono affari vostri, di nessuno dei due, quello che faccio».
Éloise non voleva mollare l'osso. «Jacques, io voglio solo...».
«Mi piace il cazzo, mamma!».
Lo aveva praticamente urlato. Aveva detto la parola “cazzo” vicinissima al mio orecchio, così vicina che in effetti mi sentii un po' violata. Gli rivolsi lo sguardo più sorpreso che riuscii a mettere insieme. Jacques non perdeva la pazienza molto di frequente e anche in quei casi non lo avevo sentito alzare la voce troppo spesso.
E aveva fatto un notevole coming out, molto teatrale.
L'espressione sul volto di Éloise fu impagabile. Fissava suo figlio come se avesse appena pronunciato la bestemmia più violenta di sempre, la bocca spalancata per lo shock e gli occhi perfino un po' lucidi. César rivolse a Jacques la stessa occhiata che aveva riservato a sua moglie a cena, la sera prima, dopo il suo exploit con Manuel: sopracciglia sollevate e sguardo a metà tra l'ammirato e il colpito che emergeva da dietro gli occhiali.
«Oddio», disse una quinta voce.
Ci voltammo tutti verso Manuel, appena uscito dal bagno. La maglietta si era appiccicata alla pelle umida del torace e i pantaloni della tuta gli crollavano sulle gambe come fossero vuoti; c'era ancora qualche gocciolina intrappolata tra i dread. E negli occhioni chiari c'era uno sbigottimento tale che avrebbe procurato un premio a chi fosse riuscito ad immortalarlo.
Jacques ansimava accanto a me, nel silenzio di tomba in cui era piombata la casa. Fu una questione di un attimo, gli guardi dei due amanti si incrociarono e credo che in Jacques si sia sbloccato qualcosa. Non so bene cosa fosse, se le rotelle nel suo cervello o la cintura di castità intorno al suo cuore.
«Sì, sono gay», ripeté. Mi lasciò la mano per portarsi accanto a Manuel, che se ne stava lì in piedi senza sapere dove mettersi. «Ed è lui, non lei, il mio fidanzato!».
César si spinse gli occhiali sul naso e borbottò qualcosa tipo: «Non me lo aspettavo», con il tono che avrebbe usato per dire “Belle, quelle scarpe”. A tutt'oggi mi chiedo se fosse pienamente consapevole di avere un figlio o se fosse solo disinteressato al suo orientamento sessuale.
Per quel che riguarda Éloise, sono piuttosto sicura che fosse combattuta: credo non sapesse se piangere per la disgrazia di avere un figlio gay o per il fatto di doverlo far sapere agli amici.
«È... È uno scherzo», balbettò. Fece un risolino nervoso e un po' tirato. «Ah, certo, volevate prendermi in giro. Scommetto che anche la tua bravata di oggi faceva parte del piano, Léo».
Scossi il capo. «Non era una “bravata”», ribattei acida. «Sono uscita con quel ragazzo perché mi piace la sua compagnia e perché Jacques è gay».
Lei deglutì. «Gay».
Annuii. «Finocchio fino al midollo».
«Oh», esalò lei. Abbassò lo sguardo: l'avevamo lasciata senza parole?
Manuel era sicuramente rimasto senza fiato. Continuava a fissare il pavimento, come se desiderasse trovarsi a tremila chilometri da lì, ma lo vidi stringere convulsamente la mano di Jacques come se ne avesse avuto bisogno per non cadere.
In un certo senso mi sentivo in dovere di dire qualcosa, perché in quel frangente Éloise mi fece una pena incredibile. A guardarla la si sarebbe detta distrutta, spezzata in mille modi. Continuava a sbattere le palpebre e a fissare suo figlio, come se non ci credesse veramente. Non ero certa di cosa pensasse, se fosse spaventata, confusa o solamente disgustata. Si limitava a stare lì, senza reagire.
«Jacques è sempre Jacques», azzardai. Non che si possa far cambiare idea a un omofobo con una tale argomentazione.
Éloise annuì debolmente. «Lo so. Sono solo...», esitò, cercando a tentoni una sedia e accomodandosi. «Devo solo pensarci un attimo».
Aveva perso tutto il suo spirito combattivo. Guardai Jacques, che non diceva niente, se ne stava dritto in piedi, così rigido da sembrare un manichino, la mascella contratta.
Fu allora che César si schiarì la gola. «Beh, figliolo, io ti auguro ogni bene. Spero non te la prenderai se non lo dico, al lavoro, perché sai com'è la storia».
Evidentemente Jacques lo sapeva, com'era la storia, perché annuì. «Non mi aspettavo che lo avresti fatto, pa', tranquillo».
«E dovrai darle un po' di tempo», aggiunse César, «alla mamma, intendo».
«Ma sì, so come siete fatti», mormorò lui. «Fa lo stesso».
Aggrottai la fronte. Come poteva fare lo stesso? Jacques doveva conoscere molto bene i limiti della sua famiglia, se non si infuriava più di tanto.
Mi sentivo scandalosamente di troppo, lì in mezzo a tutto quel macello: Manuel sembrava sul punto di scappare, Jacques a malapena respirava, Éloise era abbattuta e César non sapeva se essere più imbarazzato per la moglie, per il figlio o per se stesso. Io mi ero limitata a far crollare la cenere della sigaretta inconclusa sui miei calzini.
César recuperò la consorte porgendole il braccio. Io mi affrettai a spostarmi da davanti alla porta di casa per farli passare senza intralciarli. Éloise mi lanciò uno sguardo molto ansioso, credo fosse un modo per chiedermi scusa, mentre usciva di casa.
Appena prima di dileguarsi, César si rivolse a Manuel. «Parliamone domani, magari davanti a un caffè. Vorrei che ci fossi anche tu, giovane».
Manuel si indicò il petto. «Io, signore?».
«Sì, certo. Accomoderemo la situazione».
Ci lasciarono soli ed io non sapevo cosa fare. Se Marie fosse stata ancora con noi mi sarei fiondata su di lei sperando che estraesse un calmante dal reggiseno. Ma Marie era al lavoro.
«Volete che, uhm, vi lasci soli?», domandai.
Manuel scosse il capo. «No, Sandwich, rimani».
Abbozzai un sorriso, spegnendo il mozzicone ormai fuori uso nel posacenere sul tavolo. «È la prima volta che sei così agitato, Manuel, stai bene?».
Lui annuì e Jacques istintivamente lo abbracciò. Distolsi lo sguardo mentre si stringevano l'uno all'altro; Manuel era il tipo da effusioni pubbliche, ma l'altro non lo era per niente ed era chiaro che avevano bisogno del loro spazio. Dal modo in cui gli si aggrappava, sospettavo che Jacques si stesse mettendo a piangere. Addussi una scusa idiota e mi chiusi in camera, per dar loro abbastanza tempo per recuperare i pezzi.


***

«Allora, com'è il Galles?».
George, nel monitor del mio pc, sembrava molto carino. Aveva addosso un maglione natalizio tutto rosso con una renna sopra, una di quelle figure che puoi stirare sui vestiti, che ammiccava con allegria verso di me. Aveva i capelli sciolti e un bel sorriso sul viso.
«Quest'anno non è troppo freddo», berciò la sua voce attraverso Skype. Notai con disappunto che l'immagine arrivava un po' in ritardo e che si muoveva a scatti. «Mi hanno regalato non una, non due, non tre, ma ben quattro confezioni di schiuma da barba, dici che è un segno?».
Risi e scossi la testa. «Non tagliarla, la barba mi piace».
Anche George rise. «Voi avete già aperto i regali?».
«Sì, subito dopo pranzo». Presi il portatile e lo spostai, indirizzandolo verso la pila di cose che ingombrava il mio letto. «Quello di Marie non è qui, però: ci siamo regalate a vicenda un pomeriggio alla spa».
«Hey, che bel vestito».
Appoggiai di nuovo il computer sulla scrivania e mi alzai in piedi, le mani sui fianchi, con un lieve sorriso e l'espressione imbarazzata. Era un tubino pervinca di un tessuto stretch. «È troppo?», domandai ondeggiando sul posto.
«Dipende», rise lui. «C'è un palo per la lap dance in sala?».
Mi fece un cenno con le dita per farmi girare. Era ancora un discorso da amici? Beh, potenzialmente sì, avrei fatto le stesse cose per Max. Così feci un giro su me stessa, ridacchiando.
Inarcai un sopracciglio. «Però non ho i tacchi, ho i biker boots, e mi sono raccolta i capelli», protestai. «Quindi mi sono decisamente trattenuta».
«Decisamente», ironizzò. «Come stanno i tuoi?».
«Uhm, sono di là a giocare a Trivial Pursuit in francese, credo che mia madre stia dando risposte a caso».
Mi sorrise; per una volta l'immagine giunse per tempo ed io potei gustarmi il suo sguardo dolce e molto natalizio. «Vuoi tornare di là?».
«Rimango ancora cinque minuti».
«Dipingi ancora?».
Tornai a sedermi, prendendo tempo. Oltre la porta chiusa udii Marie ridere e Jeannot esclamare qualcosa di rimando. Fissai la sua immagine per un po', senza sapere cosa rispondere. Essere sincera significava ammettere con lui che era riuscito a migliorarmi almeno un po', andandosene, e mentire voleva dire venir meno alla mia stessa promessa.
Alla fine annuii. «Sì. Ho aperto un blog con i miei lavori».
Lo vidi illuminarsi in un'espressione, Dio santo, un'espressione che non saprei descrivere. Era più che sorpreso, era così dolce che avrei voluto balzare nel monitor e abbracciarlo. «Wow, è davvero fantastico! Mandami il link per email».
«Devo confessare che io non ho più guardato i tuoi video».
«No?».
Mi strinsi nelle spalle. «Troppo doloroso», confessai.
Mi aspettavo che dicesse qualcosa di divertente per levarmi d'impaccio o che mi investisse con una fiumana di parole sul perché avrei dovuto immediatamente recuperare gli arretrati. Invece anche lui voleva andarci con i piedi di piombo, lo si capiva dal modo in cui stava esitando.
«Ti perdonerò», disse dopo qualche secondo. «Anzi, sono quasi contento».
Il mio radar partì all'impazzata. Mi nascondeva qualcosa, forse? «Perché?».
«Niente, lascia stare. Léo, dovrei davvero andare adesso, credo che mio cugino abbia rotto una lampada».
Annuii e sorrisi. «Buon Natale».
«Anche a te». Tese una mano verso la webcam e l'ultima cosa che vidi di lui fu il polsino del suo maglione.
Più tardi, quella notte stessa, dopo aver salutato i miei genitori diretti in albergo e aver mangiato l'ultimo morso della torta fatta da Bette insieme ai miei coinquilini – e non dimentichiamo la sigaretta di mezzanotte – mi chiusi in camera con la sincera intenzione di dormire senza tregua. Dopotutto avevo il turno, il giorno dopo – ebbene sì, il Gitem era aperto anche il giorno di santo Stefano – e dovevo riposarmi bene, chissà quanta gente si sarebbe presentata per cambiare regali non graditi. Già mi immaginavo la fila di mogli che avevano ricevuto una piastra di troppo o di mariti a cui avevano regalato un dvd già visto.
Eppure non ci misi neanche un secondo per riemergere dalle coperte, gettare la trapunta per terra e sedermi alla scrivania. La luce accecante del portatile nel buio quasi mi tramortì, quando lo accesi, ma fu più forte di me.
Digitai il suo nome sulla barra di ricerca di Youtube, sperando non avesse cambiato nickname. Era ancora PinkAsshole, non sapevo se considerarlo un bene o un male. Presi un bel respiro e scorsi le anteprime dei video degli ultimi mesi.
Non ero rimasta indietro poi troppo, me ne ero persi solamente cinque. Uno non lo guardai nemmeno, era una recensione all'ultimo film della Marvel, e due erano simpatici, ma poco pertinenti.
Infine lo trovai: era il primo video pubblicato dopo che tra noi era finita.
Esitai prima di guardarlo: era una grossa cazzata, equivaleva a infilare le dita tra le estremità di un tronchesino e osservarle mentre cadevano a terra. Era come fare harakiri.
Lo feci partire. L'inizio non era male, non era niente di compromettente, parlava dei differenti modi di dire in francese e in inglese. Mi ricordò un video di Willwoosh, uno youtuber romano. In linea generale parlava in British, come nelle altre registrazioni, il che non fece che aumentare in me una certa aspettativa. Forse era il dovermi concentrare per capire ogni parola, magari era l'accento così alla Colin Firth, oppure era il suo tono di voce che continuavo a trovare sempre molto fastidioso – ma fastidioso in modo positivo.
Negli ultimi minuti disse che era un po' che non parlava di sé e che c'era stata una brutta rottura, in quei giorni. Parlava di noi. Riuscii ad ascoltarlo con tranquillità, quasi con distacco, perfino, come se non fossi io quella che l'aveva buttato a terra.
E poi lo disse. Pronunciò le parole più belle e al contempo più dolorose che avessi mai sentito. «Sittin' next to her doing absolutely nothing means absolutely everything to me».
Misi immediatamente in pausa e crollai contro lo schienale della sedia da ufficio, le gambe allungate sotto la scrivania e una mano ancora appoggiata sulla tastiera. Fissai il suo viso, disteso, eppure un po' giù di corda, piatto nel computer, troppo per credere che fosse davvero il suo.
“Stare accanto a lei senza fare assolutamente niente significa assolutamente tutto per me”.
Era la dichiarazione d'amore più bella e personale che avessi mai ricevuto. Peccato che l'avessi sentita in ritardo e attraverso un monitor. Guardai la data: aveva caricato quel video due giorni dopo aver rotto con me. E mi stupiva la freddezza con cui aveva detto quelle parole, perché mi facevano pensare che per me provasse un grande disprezzo.
Guardai il cellulare: mezzanotte e tre quarti a Parigi significava un'ora in meno per lui che era in Galles. Ma era ancora Natale. Probabilmente era con la sua famiglia, con qualche amico, magari. O un'amica, perché no?
Fui davvero tentata di chiamarlo. Fissai il mio telefono a lungo, in silenzio, le labbra serrate, senza sapere cosa gli avrei detto.
Siamo onesti, che potevo dire? “Mi manchi così tanto che a volte fa perfino troppo male per tollerarlo e ti odio con tutto il mio cuore per quello che è successo”, oppure un semplice “Io ti amo, ti prego, torna”? No, non avrebbe avuto nessun senso. Lui non sarebbe tornato. Non nel modo in cui avevo bisogno che tornasse.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22. ***


Nda: Buongiorno buongiorno, come state? Avete trascorso un bel ferragosto? Il mio è stato freddissimo e piovoso, ma mi sono divertita moltissimo in ogni caso. Coooomunque non siamo qui per parlare di me: come avrete notato ho cambiato il banner, come vi avevo detto: rimarrà questo fino alla fine della storia. Spero vi piaccia, volevo qualcosa di più industrial, non so se rendo l'idea. La storia è come sempre su Wattpad. In più se vi va fate un salto su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 22.

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Io e Jacques decidemmo che il modo migliore di introdurre George nella compagnia senza farlo sentire un disagiato sarebbe stato al cinema: dopo le prime chiacchiere ci saremmo seduti ed avremmo guardato il film – o almeno finto di guardarlo tra una battuta e l'altra – e nessuno si sarebbe sentito in dovere di parlare con altri. George si sarebbe seduto accanto a me e tutto sarebbe andato alla grande.
All'inizio avevo pensato di andarlo a prendere al lavoro e andare al cinema insieme, ma poi mi venne in mente che sarebbe risultato troppo ambiguo per noi e per gli altri, così scartai l'idea. Allora decisi di farlo venire a casa nostra, dopotutto a parte Bette abitavamo tutti sullo stesso pianerottolo, ma Manuel disse che avrebbe potuto sentirsi un po' a disagio a stare “nel nostro habitat naturale”, citazione testuale, quindi anche quell'ipotesi fu scartata.
L'unica era trovarci direttamente al cinema, ma come? Dovevamo arrivare puntuali, sperando che lui non fosse in ritardo? Perché se fosse stato in ritardo si sarebbe sentito in dovere di scusarsi e non era necessario che lo facesse. Però non potevamo presentarci noi, in ritardo, perché lui avrebbe dovuto aspettare al freddo e comunque sarebbe stato davvero orrendo, avrebbe pensato che non volevamo uscire con lui.
E in ogni caso era saggio presentarsi lì tutti insieme? D'accordo, Bette sarebbe venuta per conto suo, ma noi cinque – Marie, Jeannot, Manuel, Jacques ed io – saremmo piombati lì in massa e magari sarebbe risultato offensivo, come se volessimo escluderlo. O magari no. Però non potevo nemmeno chiedere agli altri di arrivare ognuno per conto suo.
A fronte di quello che vi ho detto, capite quanto potesse essere faticoso?
Alla fine Jacques disse che sarebbe venuto a prendere Manuel al lavoro, così sarebbero arrivati per conto loro. Io avrei fatto la strada con Bette, mentre Jeannot sarebbe venuto con Marie direttamente dal bar. Ognuno per sé e senza offendere nessuno.
A quel punto c'era un altro problema.
«Cosa mi metto?», strillai quella mattina. Avevo ancora solamente mezz'ora di tempo prima di uscire per incontrare il mio orrendo destino al Gitem – a gennaio ero nel reparto televisioni, vi lascio immaginare la mia gioia – e non avevo niente da indossare.
Jacques fece capolino dalla porta con lo spazzolino tra i denti. «Ma hai tonnellate di vestiti», bofonchiò.
«Non sputare dentifricio per terra e no, non ho affatto tonnellate di vestiti», sbottai, lanciando l'ennesimo maglione sul letto.
Manuel emerse alle spalle del suo ragazzo, cingendogli la vita con un braccio e facendo ondeggiare i rasta. Aveva ripreso il suo abituale aspetto drogatissimo. «Ma a George importerà come ti vesti, Sandwich?», domandò aggrottando la fronte. «Insomma, non siete solo amici?».
Gli avevo raccontato ogni cosa mesi prima, quando avevo iniziato a lavorare con lui al Gitem, in un momento di noia profonda. Non mi sorprese il suo commento, era appropriato.
«Tu non capisci», gli assicurai sgranando gli occhi. «Io ho bisogno di essere al meglio, chiaro? Perché se non sono bellissima non sarò nemmeno a mio agio e se non sarò a mio agio sarà una cazzo di tragedia».
«Non puoi mettere quello?», fece Manuel indicandomi un vestito bianco di lana, con il bordo in pizzo e le maniche a sbuffo, casual ed elegante allo stesso tempo.
«No, non posso», spiegai con pazienza. «Con quello dovrei mettere i tacchi, perché di scarpe basse che stiano bene non ne ho».
«E quelli?». Stava additando un paio di jeans con ricamate sopra delle perle argentate, stretti in fondo.
Li presi dall'attaccapanni e li osservai con sospetto. «Non mi ricordavo di averli. Con cosa potrei metterli?».
Jacques andò in bagno per finire di lavarsi i denti e Manuel si avvicinò al cassettone, a cui avevo sfilato tutti i cassetti per vedere meglio il contenuto. «Ma hai mai messo anche solo la metà di questa roba?».
«Certo, mica sono scema», ribattei gesticolando. «Allora? Aiuto!».
Manuel si inginocchiò sul pavimento e rovistò tra le mie maglie. «Questa felpa?».
«No, non mi piace più».
«E quel maglioncino?».
Scossi il capo. «Me l'ha regalato Paul, sarebbe di cattivo gusto».
«Allora questo».
Mi passò un pullover grigio perla scollato a V.
“Incredibile, e questo dov'era?”, mi domandai, ma non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, ho ancora una coscienza. Lo presi dalle sue mani e lo accostai ai pantaloni. Non era male, non era niente affatto male: avrei potuto abbinarci un paio di Ugg grigi. No, niente Ugg, mi facevano sempre sudare i piedi. Allora le mie stringate nere: sì, decisamente un'idea migliore, mi facevano sentire sempre paurosamente alternativa e interessante.
«Wow, amico, perché non applichi queste tue immense capacità anche al tuo armadio?».
Manuel si rimise in piedi. «Perché io sono già bello, capisci, non ne ho certo bisogno. Vuoi un po' d'erba?».
Trascorsi la giornata lavorativa peggiore della mia esistenza: le ore sembravano non trascorrere, in un paio di occasioni fui certa che l'orologio stesse arretrando – ne sono ancora convinta, anche se nessuno mi crede quando lo dico – e non avevo valvole di sfogo: Bette, una dei pochi a cui non cambiavano mai reparto, era bloccata al banco dell'assistenza computer e Manuel era alle casse. Jeannot venne verso le quattro, dopo aver chiuso l'ufficio, e si finse molto preso da un televisore al plasma da ottanta pollici, così mi tenne compagnia per un po', ma ero comunque agitata e lui doveva andare da Marie.
Alle otto Bette mi venne a recuperare. Andammo a cambiarci in bagno, poi pensammo che fosse meglio mangiare qualcosa, ma io avevo lo stomaco chiuso e non riuscii nemmeno a bere un the.
«Scusa, Léo, ma di che ti preoccupi?», domandò Bette.
«E se non vi piacesse?», domandai appoggiando il contenitore del take away asiatico per terra, senza averlo toccato. Faceva freddo sulla panchina, ma era meglio così, non volevo certo sudare, che schifo. «Cioè, è impensabile che non vi piaccia, è così carino. Però io...».
Mi interruppe minacciandomi con le bacchette. «Non dire cazzate, andrà tutto bene, vedrai».
Arricciai le labbra: magari mi ero truccata troppo? Era solo un cinema, dopotutto. «Bette, parliamo d'altro. Dimmi qualcosa su di te».
La vidi ridacchiare e arrossire. «Beh, c'è una cosa, ma volevo dirtela dopo per non distrarti».
Rimasi colpita da quell'accortezza. «Oh, che cosa?».
«Sai, ho iniziato ad uscire con un uomo...».
«Bette, è fantastico! Perché non me ne hai parlato?».
Si strinse nelle spalle. «Non volevo dirlo perché temevo potesse andare male, ma lui sembra un tipo sincero. Non bada al mio aspetto».
Bette era, a mio parere, molto bella. Aveva un viso dolcissimo, forse un po' sovraccaricato di eyeliner, ma dai lineamenti distesi e delicati. Aveva dei denti praticamente perfetti, bianchissimi, per i quali probabilmente aveva dovuto portare l'apparecchio per anni. Ed aveva una risata cristallina e coinvolgente. Però viveva il problema del suo peso come una specie di castigo. Vi avevo detto che aveva sofferto di bulimia, da ragazzina. Ora, a trentacinque anni suonati, era considerata nello stadio dell'obesità. Faticava a fare le scale, per questo cercavamo sempre di intercettare l'ascensore per lei quando sapevamo che doveva venire a trovarci, ed io sapevo bene che la ragione per cui non aveva mai voluto fare shopping con Marie e me era che non avrebbe trovato nulla della sua taglia. In un paio di occasioni Sophie, quella stronza del nostro capo, l'aveva perfino fatta piangere.
Non mangiava particolari schifezze, nel senso che non è che fosse sempre al Burger King. Certo che i dolci non mancavano mai alla sua tavola, erano anche troppi, per non parlare delle salse e cose del genere. Tendeva a sbranarsi un triplo hamburger con patatine e Coca-Cola quando era nervosa.
Al di là della salute, a noi non cambiava niente, ma sapevamo che faceva fatica ad accettarsi e a farsi accettare da un uomo.
Non avevo parole per esprimerle quanto fossi felice per lei. Aveva quasi le lacrime agli occhi quando mi raccontò di Henry, un tipo sulla quarantina che aveva conosciuto in un pub prima di Natale e che aggiustava caldaie.
«Non è perfetto, è vero», disse rovistando nel suo contenitore di riso alla cantonese, «ha un po' di pancetta ed è pieno di lentiggini, ma è gentile. Lui non mi guarda come fanno gli altri».
«Bette, sono talmente contenta», mormorai accorata. «Vorrei conoscerlo, se ti può far piacere. So che potrei essere sua figlia», aggiunsi ridendo e notai che anche lei rideva, «ma se la vostra relazione lo permette, sarebbe bello».
Lei annuì, scostandosi il ciuffo rosa dalla fronte. «Pensavo di chiedergli di venire, la prossima volta che ci vediamo».
«Sarebbe perfetto! Pensa, sono così felice per te che ora ho fame».
«Léo, credo di doverti dire una cosa».
Le sorrisi. «Cosa?».
«So di essere un'adulta, ma l'ho fatto pochissime volte prima. Sesso, intendo».
Sospirai. Non ero certa di essere la persona più saggia a cui chiedere consigli a riguardo. «Hey, non ti devi giustificare».
«Non lo faccio», rispose lei. «Dico solo che trovo molto difficile andare oltre, so di non essere una silfide».
«E con Henry pensi che succederà?».
Bette annuì, con un sorrisino contento e gioioso come una ragazzina al primo appuntamento. «A lui non importa. E se siamo insieme, non importa neanche a me».
Le strinsi le spalle in un abbraccio e la baciai sulla tempia. «Bene», dissi a bassa voce. «Bette, è davvero bellissimo».
Lo era davvero, lei sembrava brillare, come se le avessero versato in testa un barattolo di glitter.

 

***

Alla fine il tanto temuto momento dell'incontro andò bene. Bette ed io arrivammo con qualche minuto di ritardo perché non avevo voluto cenare in metro – va bene che ero cambiata, ma non fino a quel punto – e quando arrivammo mancavano solo Marie e Jeannot.
George parlava con Manuel mentre Jacques si fumava una canna. Quando lo vidi per un attimo mi arrestai. Stava ridendo: adoravo il modo in cui rideva, piegando la testa all'indietro e strizzando gli occhi. Un modo di ridere non molto di classe, ma a me piaceva.
Era più basso di Manuel, ma ormai avevo smesso di farci caso. Calata in testa aveva una cuffia di un bel rosso borgogna, di lana, che gli ricadeva sulla nuca.
«Oh, scommetto che quella cuffia è piena dell'odore dei suoi capelli», mormorai mentre ci avvicinavamo.
Bette mi diede un colpetto con la mano. «È un pensiero troppo erotico per due che vogliono essere solo amici».
Aveva ragione, dovevo piantarla di avere pensieri impuri su di lui. Avanzammo con calma, io mi finsi del tutto padrona di me stessa e George, quando mi vide, mi salutò come avrebbe fatto con un amico.
Ero un po' schifata, lo ammetto: mai in tutta la mia vita mi ero anche solo lontanamente avvicinata alla friendzone, figuriamoci piombarci con terrore come i poveracci spinti nel pozzo nel film 300. Però dovevo fare buon viso a cattivo gioco, era necessario se volevo che restasse.
«Hai conosciuto Manuel», esordii. «Lei è Bette, lavora con noi».
George le strinse la mano e, mi parve, la guardò in modo molto strano. Non scortese e neppure come se la conoscesse. Era solo strano.
«Ciao, piacere».
«Piacere», rispose lei. «Léo mi ha parlato moltissimo di te».
«Beh, moltissimo», biascicai cercando di darmi un tono. «Non esageriamo».
Marie e Jeannot arrivarono bisticciando. O meglio, lei bisticciava e lui ascoltava senza realmente infuriarsi. Marie starnazzava qualcosa riguardo i vestiti lasciati in disordine e Jeannot la abbracciò ridendo. «Quanta pazienza ci vuole con te, donna», lo udimmo borbottare.
«Ah, George!», cinguettò lei non appena lo vide. Avevamo avuto una paurosamente lunga conversazione quella mattina, durante la quale le avevo imposto di non farmi fare figure di merda. Lei sembrava aver esagerato nel senso opposto. «Quanto sono contenta di vederti! Come stai?».
«Benone, grazie, Marie».
Jacques, che si era goduto la scena in silenzio, batté le mani chiuse nei guanti. «Bene, ora che siamo tutti amiconi potremmo anche entrare, inizio a surgelarmi le chiappe».
Lo seguimmo dentro. Non era un grande multisala, era un piccolo cinema con appena tre sale di proiezione che costava molto poco, perché dava film fuori catalogo. Però le caramelle venivano da un negozietto molto carino, vecchio stile, Marie ed io le adoravamo.
«Allora», sospirò lei fissando il tabellone con i suoi occhioni, «possiamo scegliere tra Braveheart, Mangia prega ama e quella commedia norvegese, Happy Happy».
«Oh, vi prego, andiamo a vedere Mangia prega ama!», supplicai.
«Ma è una gran palla», fece Manuel. «Io voto per Happy Happy».
Jacques lo fissò di sottecchi. «Ma è norvegese».
«E quindi?».
«Dico, è norvegese».
Una donna molto carina al di là del vetro della biglietteria attirò la nostra attenzione con uno schiocco di dita. «Non per intromettermi, ma Happy Happy è già iniziato da venti minuti», spiegò, «e se scegliete Braveheart avete diritto ad uno sconto, perché è l'ultima sera di proiezione».
Non è che fossimo tirchi, ma avevamo tutti le bollette da pagare e alla fine optammo per Braveheart. La sala non era grande, ma non c'erano molte persone e ci piazzammo in ultima fila. George si sedette tra me e Manuel, che sospetto fosse quello che lo spaventava di meno tra tutti.
«Pronta?», domandò quando le luci si spensero.
«Aspetto con ansia la scena in cui mostrano il culo», ridacchiai, infilando una mano nel sacchetto di caramelle che, lo ammetto, avevamo deciso di condividere. So che erano solo caramelle, ma il fatto di averle comprate insieme mi aveva dato una scossa di adrenalina.
Iniziò a srotolare una rotella di liquirizia. Con la coda dell'occhio lo fissai durante tutta l'operazione, i nostri volti illuminati dalla luce dello schermo.
Stringeva la stringa nera tra i denti, tirandola con le dita e inarcando un angolo del labbro superiore. Era terribilmente eccitante: non perché lui fosse il più bello di tutti o perché ci fosse qualcosa di molto sensuale nel masticare una caramella, ma perché era lui, perché mi ricordava noi, perché era con quelle labbra che mi aveva baciata e con quei denti che mi aveva pizzicato la pelle. Dio solo sa cosa avrei fatto con quella lingua o con quelle mani.
Avrei dato qualsiasi cosa per essere quel pezzo di liquirizia, giuro.
Scivolai più giù sul sedile, portandomi le ginocchia al petto. Poco più in là sentivo le risatine di Marie – Jeannot probabilmente le stava mormorando porcate all'orecchio – mentre Manuel e Jacques, più discreti, si limitavano a stringersi la mano e a scambiarsi di tanto in tanto qualche occhiata. Bette era talmente presa dal film che se avesse avuto Johnny Depp nudo davanti a sé gli avrebbe detto: “Spostati, non vedo”.
E noi stavamo lì, in silenzio.
George non sembrava imbarazzato. Anzi, aveva tutta l'aria di essersi finalmente tranquillizzato riguardo la nostra situazione. Come faceva? Avrei dovuto chiederglielo, perché io proprio non ce la facevo.
Fu allora che, con sgomento, pensai che avesse smesso di amarmi. Doveva aver smesso tempo prima, per questo non stava male quanto me. Chiusi gli occhi, sentendo che improvvisamente bruciavano, mentre un doloroso groppo in gola mi impediva di respirare. Non potevo piangere lì, in mezzo agli altri, ma sapevo che al minimo sospiro avrei annaspato alla ricerca di ossigeno e mi sarei tradita.
È il tipo di pianto più orrendo, perché cerchi di trattenerlo, vai in apnea totale e le palpebre si chiudono per impedire alle lacrime di cadere, mentre un blocco all'altezza della gola non ti fa più parlare ed il cuore nel petto fa così male da farti desiderare di strappartelo via.
Non c'era nessuno alla mia destra, ero nell'ultimo sedile della fila. Mormorai un rapido: «Torno subito», e mi alzai in fretta, correndo verso l'esterno. Uscii dalla sala, attraversai l'androne della biglietteria e mi fiondai in bagno.
Aprii i rubinetti, ma non avevo davvero intenzione di sciacquarmi il viso. Mi bastava vedere l'acqua scorrere, in qualche modo ebbe l'effetto di un calmante. Mi fissai allo specchio, nel tentativo di capire cosa mi passasse per la testa.
Era ovvio che, evidentemente, non riuscivo ad essergli amica. Mi erano bastati venti minuti al suo fianco per sentirmi morire dentro al pensiero che lui non mi amasse più. Ciò che avevo nel corpo era sprofondato sottoterra ed era rimasto solo un involucro vuoto.
«Lui non mi ama più», sussurrai al bagno vuoto. Ed era molto peggio di “non mi ama”. Se non fosse mai successo, se tra noi le cose avessero preso una piega differente fin dal principio, lo avrei accettato. Ma il rimpianto per aver perduto per sempre quel sentimento... Era orribile. Ed era colpa mia. Ero solo io quella da biasimare e non c'era altro da dire.
Guardai verso l'alto, sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Improvvisai un paio di sorrisi allo specchio e stiracchiai i muscoli del viso, ravvivandomi i capelli con le mani. Sì, era una bella faccia da culo con cui andare in giro, la mia, potevo ritenermi soddisfatta. Non avrei destato alcun sospetto.
Uscii dal bagno e praticamente gli andai a sbattere addosso. So che sembra fatto apposta, ma capitò e basta.
«Hey, credevo ti fossi persa».
Sorrisi, fingendomi calma, anche se dentro di me avrei voluto ucciderlo. Era una menzogna, ma al diavolo la mia regola, tanto prima o poi l'avrei infranta, era solo questione di tempo. «No, avevo solo bisogno del bagno. Torniamo dentro?».
Non so se fece finta di niente o se davvero non colse la sfumatura nella mia voce, il tono incrinato con cui parlai. Comunque non fece una grinza. «Prima di entrare volevo farti una domanda».
“Oh, no, ti prego”. «Spara».
«Da quando prende gli antidepressivi, Bette?».
Lo guardai incredula e incrociai le braccia. «Cosa?».
«Bette, la tua amica», fece lui. «Da quanto tempo li prende?».
«Io...», esitai, ancora scossa per il tipo di domanda. «Beh, George, non lo so. Non sapevo nemmeno che ne prendesse».
«Dopo aver pagato il biglietto ho visto che prendeva un blister dalla borsa».
«Magari aveva mal di testa».
George sospirò. «Mia madre ne ha presi per un po', dopo essere entrata in menopausa», disse facendo spallucce. «Ho riconosciuto il nome, era Efexor».
«Efexor?», ripetei.
Lui annuì. «Venlafaxina», spiegò, come se questo fosse un chiarimento più che sostanzioso. «Può dare gravi sintomi di astinenza e... E altre cose».
Non avevo la minima idea di cosa stesse dicendo, ma il succo del discorso era chiarissimo: Bette prendeva un farmaco per tenere a bada la depressione. Perché? E, soprattutto, perché non lo sapevamo? Perché io non lo sapevo? All'improvviso i miei problemi mi sembrarono delle vere sciocchezze. Fissai gli occhi azzurri di George con apprensione.
«Beh, ovviamente sarà stata da un medico», mormorai con voce tremula. «Altrimenti come potrebbe procurarselo?».
«Non ne dubito», disse lui. «Hai ragione».
«Hai detto che, oltre all'astinenza, può provocare altro. Che cosa?».
Scosse il capo e sorrise. «Niente, davvero. Come hai detto tu, Bette deve aver visto un medico o non avrebbe iniziato a prendere quella roba».
Mi morsi il labbro inferiore. «Dovrei chiederglielo?».
«No». Fece un gesto di diniego. «È una cosa molto privata, se avesse voluto dirtelo lo avrebbe già fatto».
«Ma hai un tono preoccupato».
«Parliamo di psicofarmaci, non di patatine!».
Mi portai le mani alle labbra, impaurita. «Oddio, Bette... Come ho fatto a non rendermene conto?».
«Sospetto sia da parecchio che prende l'Efexor, altrimenti si noterebbe subito», rispose lui. «Mia madre era intrattabile, all'inizio. Sbalzi d'umore, crisi di pianto. Non aveva più appetito. Poi si è stabilizzata, ma ci è voluto un bel po'».
«Lo prende ancora?».
«No, ha smesso, era solo un bisogno momentaneo».
Mi guardai intorno, non so cosa cercassi. Era come se sperassi che nell'ambiente ci fosse qualcosa che potessi usare per aiutarla. Bette era diventata parte della nostra compagnia da poco, ma aveva trascorso con noi il giorno di Natale e le volevamo tutti molto bene. Ci eravamo affezionati, non ci voleva molto per amare una persona come Bette. Era qualcosa di così contrastante con ciò che mi aveva detto prima, Henry e il resto.
«È assurdo», sussurrai. «Solo un'ora fa stavamo ridendo e scherzando insieme. Non avrei mai creduto...».
«Non andare nel panico», disse George. «Non è necessariamente una cosa grave, lo sai».
«D'accordo», berciai, «ma è comunque una mia amica e mi preoccupo! Adesso torniamo dentro prima che qualcuno dica che abbiamo scopato nei bagni».

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Capitolo 23
*** Capitolo 23. ***


Nda: Saaalve! Diluvia, nevvero? Amo questo clima, molto crepuscolare: adatto a starsene svaccati sotto il piumone con una tazza di Ciobar e un buon libro! Peccato che io e molti di voi siamo sotto torchio con lo studio hahahaha beh, a parte questa triste parentesi godetevi il nuovo capitolo! La storia è anche su Wattpad e non dimenticate di bloggeggiare su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 23.

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Non dissi a nessuno di quello che mi aveva detto George, mi confidai solo con Marie, ma a lei dicevo tutto e perciò non contava. Lei ebbe la reazione peggiore, iniziò a balbettare e la schiuma del cappuccino che mi stava porgendo si rovesciò sul bancone del bar.
«Oh, merdaccia», disse mentre si affrettava a pulire. Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sospirò. «Léo, cosa possiamo fare?».
Rammentai ciò che George aveva detto e risposi: «Niente». Mi sistemai meglio sullo sgabello, accavallando le gambe. Era strano parlarci attraverso il ripiano di un bar. «Se Bette avesse voluto dircelo, lo avrebbe fatto. Non sappiamo perché prenda quella roba».
«Ma...».
«Non sono affari nostri», mormorai sconsolata, «sai bene che è così. Credimi, vorrei intervenire io per prima. Però, oggettivamente, se io fossi al posto suo e tutti cercassero di ficcare il naso nei miei farmaci mi incazzerei».
«Poverina, chissà che periodaccio sta passando», mormorò Marie sconsolata, lasciandosi cadere sulla sedia oltre il bancone. «Vorrei poter fare qualcosa».
Tamburellai con le unghie sul bordo della mia tazza. «Ho cercato su internet. La venlafaxina ha un sacco di effetti collaterali».
«Non bisogna mai cercare su internet, per queste cose!», mi riprese lei. «Che ti ha detto la testa? Mia sorella una volta ha cercato i sintomi dell'infarto. Dopo un quarto d'ora ha iniziato a urlare dicendo di avere un arresto cardiaco in atto».
«Sono seria, guarda qua». Allungai un braccio verso il pavimento e rovistai nella mia borsa, estraendone una busta di plastica trasparente. «Ho stampato delle cose».
Marie mi fulminò con lo sguardo. «Ma è Wikipedia!», esclamò con disdegno. «Léo, magari sono tutte sciocchezze!».
«E magari no», mi ostinai. «Dunque, qui dice che la venlafaxina è utilizzata per i disordini dati da ansia sociale...».
«Ansia sociale?».
Annuii. «Bette dice di non sentirsi a suo agio con il suo aspetto. Ricordi la prima sera, quando vi ha conosciuti? Sembrava fuori di sé dall'entusiasmo».
Marie annuì con fare sapiente, scuotendo tutti i suoi boccoli scuri. «Vero. Che altro dice?».
Le indicai una parte che avevo cerchiato con un evidenziatore rosa. «Guarda l'elenco delle controindicazioni. Non credi che sia paurosamente lungo?».
Mi indicò uno degli effetti indesiderati. «Che significa “stipsi”?».
«Stitichezza».
«Ah».
«Si parla anche di sogni molto vividi e incubi», aggiunsi. «Ti ricordi che Bette si lamenta spesso di non riuscire a dormire bene per i sogni che fa? E qui parla anche di un'altra cosa».
«Cosa?».
«La venlafaxina potrebbe, nei soggetti più instabili, essere una specie di istigazione al suicidio».
Con un broncio rattristato, Marie mi prese i fogli e li scorse con lo sguardo. Vedevo i suoi occhioni scattare a destra e a sinistra man mano che leggeva. «Senti, Léo, questo non significa affatto che Bette tenterà di uccidersi».
«Lo so».
«La mamma di George prendeva questa cosa, giusto?», ricordò porgendomi i fogli. «E lei, ora, sta bene».
Annuendo mi dissi d'accordo. «Sì, è vero. Sono sicura che stia facendo tutto seguendo le precise istruzioni di uno psicologo. Dico solo che mi si spezza il cuore al pensiero di Bette che prende psicofarmaci perché qualcosa nella sua vita non va».
«Dio solo sa cosa sta passando», confermò Marie.
Allungò una mano verso di me e la strinsi: dovevo averla messa in agitazione più di quanto non volesse ammettere. «Non possiamo nemmeno trattarla come se fosse malata», dissi con una smorfia, il cervello in piena riflessione. «Voglio dire, non sarebbe orribile?».
«No, hai ragione». Marie passò la punta di un dito su uno degli anelli che portavo, sovrappensiero. «Secondo me la cosa migliore è aspettare».
«E basta?».
«Non è che possiamo fare molto altro», soffiò con disappunto. «Pensaci: non possiamo chiederle cosa c'è che non va perché non sappiamo come reagirebbe, per quel che ne sappiamo potremmo peggiorare la situazione».
«E non possiamo nemmeno iniziare a comportarci diversamente con lei, sarebbe tremendo», conclusi io. Emisi un sospiro stanco. «Sarà faticoso».
Mi sfilò l'anello e se lo mise al dito. Con un mezzo sorriso capii che non lo avrei riavuto troppo presto. «Léo, forse George potrebbe parlarle, visto che sua madre prendeva la stessa cosa».
«Praticamente non si conoscono».
«Vero», ammise. «Con lui come va?».
A lei potevo anche dirlo. «Uno schifo. Uno schifo, ti assicuro. Non mi sono mai sentita peggio in vita mia, perfino quando cornificavo Paul stavo meglio». Mi presi la testa tra le mani, sbuffando. «Sai cosa mi fa incazzare?».
«Cosa?».
«Due cose», spiegai. «La prima: era mio, capisci? Era mio, eravamo perfetti, ma sono stata troppo stupida per capirlo. Mi sono spaventata e ho preferito rinunciare, piuttosto che provarci. Mi mangerei le mani».
Sapevo che Marie non avrebbe fatto commenti finché non avesse sentito l'intera storia, quindi non mi sorpresi quando disse: «E la seconda?».
«La seconda è la peggiore. Prima di arrivare a questo punto, prima di riuscire a guardarmi in faccia di nuovo, deve avermi odiata con tutto se stesso. Ed ora prova solo indifferenza».
«Questo non è vero, un po' di affetto deve provarlo o non avrebbe voluto rivederti».
Avevo le lacrime agli occhi, ma non potevo mettermi a piangere in un bar, in mezzo alla gente. Scossi il capo. «Magari un po'. Ma prima di questo deve avermi cordialmente detestata».
«Non so cosa dire, Léo».
La guardai con tanto d'occhi. Marie, che aveva sempre un materno e giudizioso consiglio da dare a chiunque – per non parlare delle sue famigerate occhiatacce – non sapeva cosa dire. Era un risultato mai ottenuto nella storia, al pari della bomba atomica e della stampa a caratteri mobili.
«Wow».
«Beh, è vero. Che posso dirti? Hai sempre fatto ciò che ritenevi giusto per te stessa e questo è l'importante».
Il mio cappuccino era ormai diventato freddo e aveva un saporaccio orrendo. «Beh, evidentemente dovevo avere delle aringhe affumicate ad otturarmi la sinapsi, perché ho fatto una enorme sciocchezza a lasciare il suo appartamento quella sera», borbottai sopra alla tazzina. «Dio, odio avere rimpianti. Prima di rivederci riuscivo a convivere con questa cosa!», aggiunsi. «Sì, è proprio tutta colpa sua, con il suo “restiamo amici”».
«Non è colpa sua».
«Certo che lo è!».
«Léo, non dire idiozie. Se proprio vogliamo incolpare qualcuno, beh, quel qualcuno sei tu. Ma», anticipò la mia protesta sollevando l'indice, «capisco che all'epoca tu non te la sia sentita per via di Paul».
Non era Paul, non era mai stato Paul. Come spiegarglielo? Delle due preferivo tornare a parlare di psicofarmaci.
«L'altro giorno ha telefonato la madre di Jacques», dissi per cambiare discorso. Marie mi guardò male, ma non mi interruppe. «Non ci crederai, ma si è scusata».
«Davvero?».
«A quanto pare, dopo quella famosa conversazione che César voleva avere insieme a Jacques e Manuel, ha pensato che vuole ancora bene a suo figlio».
Credo che questo fosse bastato a distrarre Marie, perché il suo viso si aprì in un largo sorriso. «Oh, wow, meno male!».
«Già. Sai, penso che non riuscirà mai a venire a patti del tutto con l'idea che il suo unico figlio sia gay. Insomma, non ne sarà mai del tutto contenta. Ma almeno non lo ha disconosciuto».
«Credo che Jacques fosse più preoccupato di suo padre».
Feci una risatina. «Come ci si può preoccupare di un uomo che non parla?».

***

Vidi George dal fotografo. Era un negozio piccolo, in vetrina c'era un monitor che trasmetteva una serie di fotografie di matrimoni e battesimi e sulla porta di vetro c'erano attaccati adesivi colorati che dicevano cose come “Qui solo polaroid!” e altre frasi del genere.
George era seduto dietro il bancone e stava sfogliando un catalogo di album fotografici da rivendere. Quando sentì la campanella della porta sollevò lo sguardo e sorrise. Indossava la felpa della Fruit of the Loom che aveva quando ci eravamo visti al Louvre, praticamente dodici mesi prima.
«Ce l'hai fatta».
Appoggiai la vaschetta di gelato ai frutti di bosco e i cucchiaini sul ripiano. «Sei sicuro che non si arrabbierà, il tuo capo?».
Scosse il capo. «Il signor Masson è un tipo gentile. È anziano, credo che tenga aperto il negozio perché si annoierebbe, in pensione».
Mi indicò una tenda tirata che copriva l'entrata della stanza dove scattavano le fototessere. Sbirciai oltre la soglia e sorrisi nel notare un uomo addormentato su una poltroncina, le braccia conserte e le sopracciglia cespugliose aggrottate in un'espressione molto seria. Era il classico pensionato: camicia a quadri, pantaloni cachi, calze che spuntavano dai mocassini. Russava piano.
Tornai da George e mi guardai intorno, alla ricerca di una sedia. Non ne trovai nessuna e piazzarmi sulle sue ginocchia era fuori discussione, così mi arrampicai sul bancone e mi impossessai di un cucchiaino.
«Senti, George».
«Sento, Léo».
«Pensavo, c'è un concerto di Charles Aznavour tra qualche settimana».
George aggrottò la fronte e si infilò in bocca una cucchiaiata enorme di gelato. «Scusa, ammetto la mia abissale ignoranza. Chi è?».
Si era sporcato la barba. Non tanto, era praticamente un millimetro di gelato rossiccio incastrato appena sotto le labbra, eppure il mio primo istinto fu quello di allungare un dito e toccarlo. Non volevo fare altro, solo toccarlo. Non potevo.
«Ehm. È un cantante. Fa musica jazz, cabaret, un po' di pop. Canta in sette lingue diverse», aggiunsi come argomento definitivo. «Ti prego, dimmi che ti ho convinto e che ci verrai».
«Sei disperata perché fino ad ora non hai trovato nessuno?», indovinò.
«Forse», ammisi con un mezzo sorriso.
Si leccò le labbra - “Oh, santissimo Iddio, non farlo” – e portò via il gelato dal mento. «Quindi recluti le riserve! Grazie, apprezzo molto».
«Ci vieni o no?».
«No», disse lui. «Ho mentito, conosco Aznavour e non mi piace».
Le mie spalle crollarono sotto il peso del rifiuto. «Cosa?», mi lamentai. «Me la stai facendo pagare, ammettilo!».
George accusò il colpo. Lo vidi esitare: eppure era stato lui a dire che dovevamo parlarne liberamente. Si strinse nelle spalle e sfiorò per errore il mio ginocchio con la mano, ritraendola immediatamente.
«Devo trovarti una sedia», borbottò.
Io non dissi nulla. Guardai la vaschetta di gelato, all'improvviso non avevo più appetito. Eppure io amavo i frutti di bosco.
Aveva parlato con una freddezza quasi glaciale. A dispetto della tranquilla chiacchierata da amici che stavamo tenendo, quell'ultima frase era stata pronunciata con un distacco che quasi sfociava nella rabbia. Mi sarei strappata la faccia, mi sentivo così in colpa da voler sparire. E lui non mi aveva ancora perdonata, era ormai ovvio.
Prese dal retro una sedia pieghevole e la spalancò davanti alla sua. Saltai giù dal bancone e mi sedetti. Lui mi imitò, ma non disse più niente. Restammo semplicemente in silenzio, solo che questa volta era diverso: ci era capitato spesso di rimanere zitti, a volte a fissarci, e l'assenza di parole non era mai stata un peso. In quel frangente mi sentivo in dovere di dire qualcosa.
«George».
«Sì?».
Esitai. «Niente, io... Niente».
Mi fissò a lungo con quegli occhi che adoravo. Erano così chiari, avevano una sfumatura artica al loro interno, era come guardare il sole attraverso uno di quei ghiaccioli che si formano nel sottotetto. Brillavano ed erano caldissimi, ma allo stesso tempo facevano una paura incredibile.
Si piegò in avanti, verso di me, appoggiando le braccia alle ginocchia, e prese un bel respiro. «Léo, perché siamo qui?».
Sbattei le palpebre, chiedendomi perché non avevo ancora iniziato a piangere. Indicai con un'occhiata il gelato. «Per quello».
C'era un sole accecante, fuori. Me ne resi conto solo quando George guardò verso la vetrina e il suo volto venne inondato da un raggio di sole che lo costrinse a strizzare gli occhi. Aveva le labbra così strette che erano diventate sottilissime.
Perché ero lì? Era un'ottima domanda. Perché mi ostinavo ad organizzare appuntamenti con lui e a desiderarlo ogni giorno di più, senza rendermi conto che mi stavo facendo un male intollerabile con le mie mani?
E lui perché era lì? E non dite che era perché ci lavorava.
«L'altra notte dipingevo», dissi all'improvviso. Non appena ebbi parlato lui si volse di scatto verso di me ed io mi diedi della stupida: che cosa mi diceva il cervello? Perché glielo avevo detto? Eppure non riuscii a fermarmi, continuai a parlare senza posa, senza alcun intento preciso. Parlai e basta e ad ogni parola sapevo di starmi scavando la fossa, ma non potevo smettere. «Dipingevo e pensavo a te. Al modo in cui mi sentivo quando stavo con te. Ero terrorizzata, George. Guardandoti mi sembrava di guardare uno specchio, vedevo la mia anima riflessa in te e ciò che mi rimandava il tuo sguardo mi faceva una paura folle». Sentivo il respiro farsi pesante. «Era una cosa nuova e terribile e tu avevi su di me un controllo incredibile. Ce l'hai ancora», aggiunsi con una punta di amarezza.
George si era appoggiato allo schienale della sedia, il gomito appoggiato al bancone e l'indice a coprirsi le labbra. Non disse una parola.
«Potresti spezzarmi il cuore da un momento all'altro, anche qui, anche adesso e l'unico modo che avevo per proteggermi era scappare via. Paul non avrebbe mai potuto farmi soffrire come potresti fare tu». Mi fissava senza battere ciglio, ma io non mi fermai. Ero così nervosa che mi venne da ridere. «Dio, eri la cosa migliore che ci fosse. Sei la cosa migliore che ci sia. Ed io ti ho perso, ti ho lasciato andare e forse è stato meglio così, perché non credo di averti mai meritato».
Ero sul punto di dirgli che lo amavo. Stavo davvero per farlo, eppure quelle furono le uniche parole che mi morirono in bocca. Pensandoci ora, credo che sarebbero state le sole che avessero un minimo di senso, le sole che George avrebbe potuto forse accettare da parte mia. Invece gli avevo riversato addosso quella specie di stream of consciousness senza nemmeno respirare e dentro di me avrei voluto morire, perché non ero abituata a farmi guardare da vicino.
Ma non mi serviva parlare perché George mi vedesse. Non mi servivano gesti o parole perché George capisse quello che pensavo o provavo. Non potevo non odiarlo almeno un po', per questo, perché gli dava un potere enorme su di me.
Lentamente parve riprendersi. Quando allontanò la mano dalla bocca vidi che gli tremavano le labbra. Tornò a piegarsi in avanti come prima, sfregandosi le mani come se avesse freddo. Abbozzò un sorriso.
E aveva gli occhi lucidi.
«Non credevo l'avresti mai detto ad alta voce».
Tutto qui? “Non credevo l'avresti mai detto ad alta voce”? Mi sentii ancora più stupida. Era stata la dichiarazione d'amore più sentita che avessi mai fatto, l'unica che davvero mi era emersa dal cuore, e lui rispose con la verve con cui avrebbe commentato una partita di calcio. Avevo un sapore acre in bocca e ad ogni respiro mi facevano male le costole come se avessi corso. Mi sentivo accaldata, eppure avevo le mani ghiacciate.
Ci fissammo. Fuori, un paio di ragazzine in età da liceo passarono ridacchiando davanti alla vetrina, guardarono le foto nel monitor e una di loro fece un commento adorante riguardo il vestito della sposa ritratta. Pregai che non entrassero, sarebbe stato imbarazzante, ed io avevo bisogno di concludere quella conversazione una volta per tutte. Con mio sollievo se ne andarono.
Finalmente George parlò: «Non hai idea di quanto male mi hai fatto».
«La miglior difesa è l'attacco», mormorai. Era una cosa così idiota da dire.
Il suo viso si aprì in una smorfia, a metà tra un ghigno nervoso e il pianto. «Sei la persona più stronza che io abbia mai conosciuto», ringhiò con quella sua voce bassa. «Ti giuro, non ho mai provato una cosa così. Ho passato gli ultimi mesi a odiarti, lo sai?».
Annuii. Lo sapevo, Dio santo, lo avevo capito nel momento stesso in cui avevo visto il suo volto, su Youtube, e avevo udito la sua voce dire quelle parole così piene d'amore e di rabbia insieme. “Sittin' next to her doing absolutely nothing means absolutely everything to me”. Era stato orribile sentirlo e so che sembra un controsenso, ma mi aveva straziato l'anima.
George scrollò le spalle in una risatina che di felice non aveva niente. «Dici che avrei potuto distruggerti. Beh, era reciproco. Era troppo, per te, accettare che qualcuno provasse la stessa cosa?», sbottò. Era come se tutto d'un tratto potesse liberarsi di un peso. «Io adoravo il fatto che mi tenessi in pugno il cuore. Io... Ah... Oddio, non riesco nemmeno a parlare!».
Scattò in piedi, aggirò la mia sedia e si ritrovò al centro del negozio, gesticolando. Mi fissava con uno sguardo pieno di rabbia quando mi puntò un dito contro. «Avevamo un'intimità che non sono mai riuscito a trovare con altre! Con nessuno!», esclamò. «Mi sentivo così bene, Léo, così maledettamente felice che se mi avessero chiuso in una prigione con te per sempre sarei stato pienamente soddisfatto. Chiaro? Lo riesci a capire?».
Annuii e non risposi.
«Bene, ottimo! È proprio un piacere che tu lo capisca adesso. Potevamo essere due specchi insieme, perché era così che mi sentivo anche io! Ma a differenza tua non mi faceva troppa paura, sai?».
«Paul...».
Mi interruppe picchiando una mano sul bancone e facendo tintinnare i cucchiaini. Pregai che il suo capo non si svegliasse. «Non mi parlare di Paul, quella è solo una scusa. Eravamo io e te, ok? Io e te. E hai preferito nasconderti».
Improvvisamente si allontanò, ansimando, e si girò verso la porta. Mi dava le spalle e sapevo il motivo: aveva pianto davanti a me una volta e non voleva farlo di nuovo. Ricacciò indietro le lacrime senza versarle, tra profondi e strazianti sospiri, e quando si volse di nuovo era ancora scosso, ma non alzò più la voce.
«Quello che avevamo era unico», esalò con le mani sui fianchi. «Io non mi sono mai sentito tanto a mio agio con nessuno. Eri come...», esitò, guardandosi intorno, alla ricerca di un paragone, annaspava nel tentativo di trovare una parola che andasse bene.
E alla fine disse: «Io ti amavo».
Scoppiai a piangere. Era troppo, era ciò che non ero stata in grado di dirgli. E lui lo aveva detto con una tale semplicità ed onestà, a conclusione di tutto quel casino: tre parole che da sole erano la sintesi perfetta. Mi bastavano per capire tutto quello che dovevo capire. Cancellarono quanto mi aveva detto fino a quel momento. Per la prima volta avevo bisogno di sentirlo dire, per la prima volta nella mia vita amavo a mia volta con lo stesso trasporto e non ne avrei avuto mai abbastanza.
Feci per dirlo a mia volta, tentennando: «George, io...».
Mi interruppe di nuovo, la voce tremula: sentivo che aveva un groppo in gola. «No, non dirlo», impose. «Non farlo, chiaro? Non mi metterai nei casini un'altra volta, sono stato male a sufficienza».
Allora capii: George non aveva mai smesso di amarmi. Se qualche giorno prima avevo creduto che la sua fosse indifferenza o freddezza, finalmente compresi che era un meccanismo di autodifesa. Di protezione... da me.
«Questa cosa dell'essere amici non sta funzionando», mormorò.
Mi alzai in piedi. Non volevo rimanere lì, volevo scappare il più lontano possibile. «No, non funziona».
Presi la borsa e mi infilai il cappotto in fretta, sorpassai la mia sedia e mossi qualche passo verso la porta. Mi fermai perché George mi bloccava la strada: non riuscivo nemmeno a guardarlo, perché guardare lui voleva dire vedere il mio errore ed il dolore che gli avevo causato.
Esitava: mi guardava, ancora ansante, ma non si spostò. Sollevò le mani ed io, per un timido e un po' supponente momento, credetti volesse baciarmi. Invece le braccia crollarono di nuovo lungo il suo corpo e lui si limitò a tentennare.
«Io non ti odio». Lo disse con un tono infantile, lo stesso con cui lo avevo conosciuto, come se mi avesse appena fatto un dispetto e cercasse di farsi perdonare. «Non più. Lo sai?».
Mi mancava l'aria, dovevo andare via subito. «Sì».
Le sue mani erano lì, a portata: le sue dita con qualche callo di troppo per le corde della chitarra che suonava nel tempo libero, per gusto personale. E le sue labbra erano a portata, il suo respiro era lì ed io ero lì. Mi bastava piegare il collo e lo avrei baciato, da quanto eravamo vicini. Sentivo il gusto del gelato venire dalla sua bocca ed era un buon odore.
Credo che anche lui stesse per baciarmi, perché chiuse gli occhi e si avvicinò di qualche millimetro, una mossa impercettibile.
«No», mormorò alla fine. Mi appoggiò le mani sulle spalle – un tocco bruciante, da spezzarmi in due – e arretrò di un paio di passi. «No, non posso».
«Perché no?», sussurrai, le mie lacrime ormai asciutte.
«Perché adesso sono io che ho paura di te». Mi passò accanto, tornando indietro, ed appoggiò le mani al bancone, le spalle contratte, le gambe tese, in silenzio. La vista della sua schiena era anche peggio del bacio mancato, suonava come un addio.
Quando capii che non avrebbe detto altro – che altro doveva dire? – uscii, ben decisa a trattenere il pianto che mi avrebbe travolta almeno per qualche isolato.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24. ***


Nda: Ciao amicy, sono di nuovo qui tra una pagina e l'altra dei libri di testo! Bene, ci stiamo lentamente avviando verso la conclusione: siamo già al capitolo 24! Quindi grazie a chi sta seguendo, spero di trovarvi qui fino alla fine <3  La storia è anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 24.

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C'era qualcosa di primordiale e grottesco nella paura che provai all'idea di aver perso George per la seconda volta. Mentre mi nascondevo in un fagotto subumano nel mio letto o facevo finta che mi importasse delle lamentele dei clienti al Gitem Euronics, mentre facevo la spesa per la settimana con Manuel o mentre guardavo Mansfield Park con Marie, in ogni momento pensavo a lui. Non fraintendetemi, non ero diventata una specie di Bella Swan che per capitoli interi pensa a Edward senza fare niente della sua vita. Ovviamente non pensavo troppo a George: diciamo solo che c'era sempre un piccolo angolino, un cantuccio speciale nel mio cervello riservato a lui. Era come una musica di sottofondo, la ascolti senza accorgertene, si trasforma in un suono abituale, finché non diventa parte di te.
Chiaro, c'erano momenti di intensa disperazione. Era come se mi fossi impiccata da sola, ero stata io stessa a portarmi via l'ossigeno. Eppure continuavo a respirare: smisi di chiedermi come avessi fatto a sopravvivere dopo i primi giorni, quando ormai Jacques e Marie avevano capito la situazione e avevano chiesto agli altri di non parlarne. Fu quando smisero di domandarmi che fine avesse fatto George che cessai di pensare a come fossi brava e in gamba ad essere ancora al mondo anche senza di lui.
Elisabeth Kübler-Ross scrisse che ci sono cinque fasi di elaborazione del lutto – perché dal mio punto di vista qualcuno era come morto. La negazione: avevo saltato a piè pari questo momento, perché solo una stupida scema avrebbe negato. La rabbia: che senso aveva infuriarsi? Era stata colpa mia e potevo avercela solo con me stessa. Il patteggiamento: cosa c'era da patteggiare? Non potevo fare niente, l'unico tentativo che avevamo fatto era andato a farsi fottere in tre, due, uno. La depressione: non ero depressa, ero solo così piena di rimpianti e così schifata da me stessa da non riuscire più a guardarmi in faccia.
Infine c'è l'accettazione.
Si tratta di un momento magico, quasi estatico: quando ti rendi conto che peggio di così si muore, che non c'è nulla che si possa fare, che è il caso di prendere coscienza di quello che è successo e di cercare di vedere il lato positivo, sempre che si riesca a trovarlo. Diciamo che io non riuscivo a trovare nulla di buono in quella situazione, ma devo anche ammettere che non credo molto nella psicologia – un po' mi spaventa che qualcuno riesca a guardarmi nella testa, non so se si era notato.
Comunque nel giro di un paio di settimane avevo “accettato”, se così si può dire. E da quel momento George divenne il mio costante compagno di viaggio, come un ronzio nell'orecchio o un debolissimo mal di testa, come un tic nervoso o l'abitudine al caffè. Era lì dalla mattina quando aprivo gli occhi alla sera quando crollavo stremata nel mio letto, le mani ancora sporche di carboncino e tempera.
Sembra assurdo, ma più George ed io ci facevamo del male, più la mia arte fioriva. Avevo tanto da dire, tanto da raccontare, oppure tanto da non dire affatto. Una sera rimasi a fissare la tela vuota, immacolata, per quasi due ore, in silenzio, il mio respiro come unico suono e il fantasma di George Addison appollaiato su una spalla. Alla fine avevo capito che era esattamente quello, era il silenzio, che mi piaceva di quella tela. Era di silenzio che avevo bisogno, era il nulla quello che avrei tanto voluto provare. Così mi limitai a dipingere una cornice barocca color oro sui bordi della tela; il resto rimase bianco. Mi piaceva.
Volete sapere la verità? Il fatto è che ero rimasta parecchio disillusa dopo la laurea. Il mio lavoro faceva schifo, odiavo il nostro appartamento – e ancora di più il tizio a cui versavamo centinaia di euro di affitto – e perfino Parigi mi sembrava meno chic. Poi era tornato George e solo la Madonna sa quanto mi era sembrato l'unico in grado di tirarmi fuori dalla quotidianità. George che sapeva far diventare un noioso pomeriggio uggioso la più magica delle avventure, che vedeva in ogni oggetto una Passaporta per Hogwarts e che mi sapeva dare un calore umano di cui avevo un bisogno disperatamente ossessivo.
Ed ora non avevo più nemmeno lui.
In un certo senso mi sentivo un po' privilegiata, devo confessarlo. Mentre me ne stavo in piedi sul binario della metro, circondata da sconosciuti, interrogandomi sulla loro vita, mi sentivo un po' meglio pensando che George ed io avevamo avuto qualcosa. Era come un segreto: conoscete quella sensazione? Avete mai avuto un segreto di importanza universale che gli altri non conoscono e che solo voi potete custodire? Non ci si sente straordinariamente importanti, forse perfino un po' più felici? A volte capitava che mi sentissi così, come se quel cantuccio nella mia mente in cui pensavo sempre a George mi rendesse migliore.

***

Il fatto che Bette prendesse un antidepressivo divenne sempre più ovvio: era costantemente scossa da tremori alle mani, che a volte si estendevano alle spalle. Marie ed io avevamo letto su internet che è uno dei primi segni. Lei, comunque, non ce lo disse. Si comportava come se non succedesse, come se non facesse fatica ad infilare il badge nel foro per marcare il turno, come se quella mattina in cui la accompagnai in posta per una raccomandata non avesse dovuto fare uno sforzo per mettere una semplice firma.
In compenso sembrava che tutte le sue energie fossero concentrate su Henry – Henry Philippe Schmitt, impiegato di una ditta di riparazioni di caldaie di quarantadue anni e mezzo – e sul modo di convincerlo a incontrarci.
«Giuro», mormorò un pomeriggio particolarmente caldo di fine febbraio. «Ce la sto mettendo tutta. Ogni volta che gli propongo di uscire tutti insieme dice che non ha tempo, che non può...».
Sorrisi con fare incoraggiante. «Magari non ha davvero tempo, no?».
Bette si sventolò con un pacco di post-it e annuì. «Io, però, ci tengo sul serio. Insomma, lui mi piace».
«Che fate quando siete insieme?».
Lei roteò gli occhi, riflettendo. «Beh, parliamo. E facciamo...», esitò, diventando all'improvviso paonazza ovunque, al punto che la sua frangetta fucsia sembrò sbiadire. «Beh, facciamo sesso, tantissimo, non mi era mai capitato».
Scoppiai in una fragorosa risata. «Oddio, Bette!».
Émile, il tirapiedi di Sophie, si avvicinò squadrandomi con un'espressione che oscillava tra l'arroganza e il terrore per quello che avrei potuto fargli. «Abbassa la voce, Gentilini, siamo in mezzo alla gente!».
«Sono in pausa, sceriffo, lasciami in pace», sbottai fissandolo con astio. Émile era molto più facile da gestire di Sophie, forse perché era talmente fifone che non avrebbe mai riferito tutto alla sua signora e padrona per paura di venire assalito alla fine del turno.
Il nostro amico se ne andò guardandoci di sottecchi e sparì oltre il bancale delle macchine da caffè. Io tornai a guardare Bette con entusiasmo. «Scherzi? E com'è? Bravo?».
Si strinse nelle spalle. «Beh, a me piace. Insomma, è gentile. Non mi serve un vero principe, capisci? Mi fa sentire...».
Sbattei le palpebre, cercando di incoraggiarla con lo sguardo. Ero abbastanza sicura che sapesse esattamente come si sentiva, forse semplicemente esitava a dirmelo. Per quanto potessi sforzarmi, non ero certa che sarei mai riuscita a mettermi nei suoi panni, così aspettai che prendesse un bel respiro.
«Mi fa sentire adeguata», concluse infine.
«Adeguata? Bette...».
Mi interruppe sollevando un dito. «No, Léo, è vero. Sai che non mi sento molto a mio agio con la gente. Sono a posto, con Henry, voglio dire... Non devo dimostrare niente. Sa esattamente chi sono e come sono».
Mi faceva un po' incazzare quell'atteggiamento da “scusate se esisto” da parte sua. Certo, non sono una strizzacervelli e non voglio improvvisarmi tale, né mi sarei mai permessa di sgridarla per i suoi disagi – da che pulpito! Però mi dava fastidio. Avrei dato via un braccio per vederla più serena.
Avevamo legato molto, ormai. Da quella prima cena, Bette era sempre con noi. Era diventata parte integrante della compagnia e in un certo senso ero un po' dipendente dalla sua presenza. Marie rimaneva la mia migliore amica e nessuno l'avrebbe mai sostituita, ma Bette aveva qualcosa di diverso.
Credo che fosse talmente abituata a sentirsi giudicata da aver smesso di sputare sentenze sugli altri. Un'altra persona si sarebbe incattivita, avrebbe reagito infuriandosi e diventando un po' sociopatica, ma non Bette. Se avessi dovuto definirla in una sola parola, avrei detto che era buona. Non ingenua, solo buona. E non mi aveva mai guardata storta, non mi aveva mai dato un'opinione non richiesta, mai, a meno che non fossi io la prima a domandare il suo parere.
A lei raccontai dell'ultimo incontro con George. Di come mi fossi sentita triste, dopo, di come non avessi fatto altro che accusare me stessa e poi lui, a intermittenza, fino a calmarmi. E Bette non aveva mai detto niente, mi aveva ascoltata e basta. Non mi aveva nemmeno abbracciata: si era limitata a fissarmi e i suoi occhi dicevano già tutto.
Per questo anche io mi limitai a non dire niente. La guardai con un sorriso gentile e lei si lanciò nella dettagliata descrizione del suo ultimo coito. Certo, non era la mia idea di passatempo, ma lei era troppo, troppo, troppo felice per interromperla.
Bette fu anche la prima a sapere che qualcuno aveva deciso di comprare uno dei miei quadri. Era un utente di Google+ che aveva visto un pezzo sul blog e mi aveva contattata in privato per patteggiare un prezzo.
All'inizio era stato strano perché, diciamolo, non avrei mai pensato di vendere qualcosa di mio. Farli vedere sì, esporli ad una mostra se mi fosse capitata l'occasione, ma venderli? Da un lato ero eccitata – chi non lo sarebbe? – ma dall'altro ero un po' contrariata. Era come dare via un pezzo di me.
Non che fosse uno dei miei dipinti migliori. Troppo buttato sul futurismo, se volete la mia opinione, non mi aveva convinta fin dal primo momento, ma quel tizio voleva proprio quello. Alla fine avevo accettato un incontro, con l'intenzione di decidere quando avessi visto la sua faccia.
Non so perché ci tenessi ad apparire professionale, all'appuntamento, ma mi lavai i capelli e misi un paio di ballerine rosa. Faceva decisamente troppo caldo per i jeans: scelsi un vestito a fiori. Lezioso, eh? Un centrino ambulante, in pratica.
Ero emozionata, almeno un po', mentre salivo le scale della stazione della metro con il mio piccolo dipinto bene impacchettato stretto sotto il braccio. Avevo quasi freddo, nonostante i trentacinque gradi all'ombra, continuavo a passarmi la lingua sulle labbra fino a farmele bruciare.
Aveva scelto lui il luogo dell'incontro e sinceramente trovo che abbia fatto una scelta talmente idiota da farmi dubitare del suo quoziente intellettivo: Place du Tertre, in piena Montmartre, ovvero il cliché peggiore. Pieno di artisti di strada, pittori che riproducono giorno dopo giorno migliaia di piccoli Moulin Rouge e basiliche del Sacro Cuore con l'acquerello, migliaia di cartoncini tutti uguali destinati ai turisti. A volte, lo ammetto, avevo accarezzato l'idea di mollare il Gitem e andare lì per fare quel lavoro: non so perché non l'abbia mai fatto.
Solo che vendere un quadro dove tutti i turisti da manuale si aspettano di vederne vendere... Mi impensieriva, era un po' troppo scontato.
Comunque mi piazzai davanti ad un ragazzo che faceva stare in equilibrio sulla fronte una boccia con due pesci rossi mentre stava in equilibrio su un mono-ciclo e ridacchiai quando scese dal suo trabiccolo e mi strizzò l'occhio. Attesi: il mio orologio segnava le cinque del pomeriggio e la piazza era soffocante, piena di gente.
«Scusa, sei tu la Gentilini?».
Boom. Credetti di svenire. Non era possibile che fosse lui, non dopo tutto quel tempo. Non potei impedirmi di gettare la testa all'indietro, rischiando che mi crollasse lo chignon, e ridere forte.
Davanti a me, le mani infilate nei bermuda e con un paio di Rayban sugli occhi, un sorriso smagliante, divertito e la pelle abbronzata, c'era Paul Duval.
«Oh, cavolo», esclamai. Lo guardai con un mezzo sorriso, un po' stranita dalla situazione. Di sicuro era inaspettato. Esitai, incerta, senza sapere bene cosa fare. «Io... Ehm, Paul...».
Mi si avvicinò senza smettere di sorridere. Aveva quest'aria familiare da Love Boat, con i polpacci scoperti e le espadrillas bianche: quasi mi commossi. «Léo, è passato un anno, ormai! Non mi saluti?».
Era troppo strano per avere senso, è una di quelle cose che non capitano nella vita reale. «Beh, ehm, ok!», esclamai avvicinandomi. «Certo!».
Mi sollevai sulle punte e lo baciai sulle guance. Lui mi prese i gomiti nelle mani per aiutarmi a raggiungere il suo viso. Era familiare e repellente allo stesso tempo: non Paul, lui era bello come al solito, ma la situazione. Provai un misto di nausea ed orrore, con una puntina di divertimento.
«Caffè?», propose.
Scossi il capo. Andava sempre piuttosto male quando prendevo un caffè con la gente, guardate come era finita con George. «No, preferisco un aperitivo, ti prego!».
Rise forte. Io avevo il cuore incastrato in gola. Oddio, non pensate male: non mi sentivo attratta da Paul più di quanto potessi essere attratta da una cannuccia di plastica. Però era una situazione un po' stupida e incresciosa, il genere di casini nei quali io cerco sempre di non trovarmi.
Mentre camminava accanto a me, Paul non aveva l'aria di uno che voglia riprovarci. O almeno non mi sembrava dai segnali. Eppure era una cosa stranissima, non saprei descriverla.
Paul era un cavaliere quando stavamo insieme e quel giorno non fu un'eccezione: mi tenne aperta la porta del bistrot, mi scostò la sedia nel tavolo più bello, quello vicina alla vetrina. Mi lasciò ordinare per prima e poi prese la stessa cosa che avevo chiesto io. Ci limitammo a fissarci mentre aspettavamo i nostri mojito, lui calmo e divertito ed io nel più completo imbarazzo. Però non era un imbarazzo brutto, era abbastanza gradevole.
«Ok, scusa se lo chiedo», dissi mentre ci portavano i bicchieri e un piatto di stuzzichini salati. «Avevi capito che ero io, vero? Non è che ti sei sbagliato?».
«No, figurati», rispose lui. Appoggiò gli occhiali da sole sul tavolo e i suoi occhi brillarono. «Ero in vacanza e una sera ho trovato il tuo blog su internet. Non pensavo dipingessi».
«Già, beh, è solo una cosa», minimizzai con un gesto della mano.
«È una cosa interessante».
Arricciai le labbra in una smorfia. «Paul, perché sei qui?».
Ridacchiò. «Diretta, eh? Volevo sapere come stavi, tutto qui».
Continuai a studiarlo, poco convinta, gli occhi ridotti a due fessure. «Tutto qui? Veramente?».
«Veramente», replicò con un largo sorriso, tamburellando con le dita sul ripiano del tavolino.
Fu quel suono a farmi abbassare lo sguardo e così la vidi: all'anulare portava una fede d'oro. Ero troppo agghiacciata per ricordarmi di respirare.
Quando riemersi dall'apnea esclamai: «Ma sei sposato!».
Paul annuì con l'aplomb di uno che dice “Fuori piove”. «Sì, è vero», disse con un sorriso. «Si chiama Clothilde, l'ho conosciuta in studio», spiegò. Notai una fossetta in una guancia, mentre parlava. «Ha un anno più di me e fa la giornalista per Vogue France».
Sgranai gli occhi. Lei faceva la giornalista per Vogue France ed io sgobbavo al Gitem. Ma non ero gelosa: stranamente non lo ero. Non avevo più nulla a che spartire con Paul, erano mesi che non pensavo a lui se non come un vago ricordo. Non provai molto, per lui e Clothilde. E poi non potevo fare a meno di domandarmi se lui non riservasse alla sposina lo stesso atteggiamento del cazzo che riservava a me: non la invidiavo per niente.
«Congratulazioni», dissi con un largo sorriso. «Davvero, sono contenta per voi».
«E tu? Sposata, fidanzata o single?».
Non c'era nessun bisogno di raccontargli i fatti miei, ma dopotutto lui mi aveva confessato l'inconfessabile. «Single», replicai. «Non per mia scelta, ma...».
C'era qualcosa di immensamente strambo in quella situazione. Prima di tutto non credevo che Paul avrebbe mai e dico mai capito un accidente di arte – sinceramente penso che abbia scelto il primo quadro che aveva visto sul mio sito e addio. E poi tutta quella storia del matrimonio. Incredibile.
«Beh, mi fa davvero piacere vederti», ripetei di nuovo, sforzandomi di trovare qualcosa da dire. Ma di che parlavamo quando stavamo insieme?
Quando muore qualcuno, spesso tendiamo a idealizzarlo. Alle volte capita anche quando ci lasciamo con un uomo. Nel ricordarlo, soprattutto se non ci ha causato un gran dolore, potremmo scordarci dei lati negativi. Paul era buono, è vero, ma era piuttosto sbagliato per me, era un po' come un bel vestito della taglia sbagliata. I suoi lati positivi erano anche quelli che mi facevano incazzare da morire.
Come quel suo modo di attaccare bottone. Non aveva comprato il quadro perché gli piaceva o perché lo aveva capito a fondo, lo aveva fatto solo per avere una scusa per parlarmi di nuovo. Non era un granché come premessa. E poi non siamo mai stati amici: che senso aveva?
«Allora, quanto ti devo per il quadro?», mi domandò allegramente una volta usciti dal locale, sul punto di salutarci.
Scossi il capo. «No, dai, consideralo un regalo».
«Non scherzare, dico davvero!».
Non volevo i suoi soldi. Avevo sempre accettato i suoi regali, ma quello no. Non avrebbe avuto nessun significato. «Dico davvero anche io, Paul, non è il caso che tu mi paghi per questo. Facciamolo valere come il regalo di compleanno che non ti ho fatto». Lasciai in sospeso che non glielo avevo fatto perché lo avevo lasciato troppo presto.
Si strinse nelle spalle, senza abbandonare quel bel sorrisone. «Va bene, se insisti. Grazie, Léo!».
Mi baciò su entrambe le guance. Io ricambiai con entusiasmo e lo guardai mentre si allontanava, probabilmente verso il parcheggio dove aveva lasciato la sua Giulietta. No, a ben pensarci avevo fatto bene. Farmi pagare da lui sarebbe stato un po' sporco e non volevo sentirmi peggio nei suoi confronti: lo avevo cornificato, non potevo anche farmi dare del denaro. Povero, innocente Paul.
Sulla via del ritorno, mentre mi avviavo alla fermata della metro davanti al Moulin Rouge, sentii la Marcia Imperiale di Star Wars provenire dalla mia borsetta. Solo due persone avevano il diritto a quella suoneria: mia madre e Marie.
«Pronto?».
«Léo, meno male che hai risposto subito!».
Marie stava urlando come una pazza isterica, rischiava di farmi saltare via il timpano. «Dimmi, cos'è successo?».
«Non ci crederai mai, Léo!».
«Ok, mi dici anche cos'è successo?».
La sentii prendere un bel respiro. Temendo che si sarebbe messa a strillare di nuovo approfittai della pausa per allontanare leggermente il telefono dall'orecchio.
«Oh, no, non ce la faccio!», strepitò alla fine. «Devi venire qui subito, ok?».
Esitai. «Ehm, va bene. Al bar o a casa?».
«A casa! Poi ti racconto tutto!».

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25. ***


Nda: Holaaaaa. Dunque, prima di tutto mi scuso per aver saltato una settimana senza alcun preavviso e senza apparente motivo. In realtà sono oberata di studio, ho poco tempo libero e perciò sono rimasta indietro con la storia. Scusatemi!
Comunque spero di farmi perdonare con questo capitolo: eravamo rimasti in sospeso, Marie ha una notizia che sembra essere sconvolgente e immagino vogliate tutti delle risposte!
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 25.

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«Allora, si può sapere cosa c'è da urlare tanto?».
Marie mi guardava con i suoi occhioni, più cerbiattosi ancora rispetto al solito, e giuro su Dio che la sua faccia era così impertinente e carina che pensai di doverle fare una foto per i posteri.
«Allora, voglio che tu ti sieda e che prenda un bel respiro».
Mi sedetti con lei al tavolo della cucina – piccola parentesi sulla casa di Marie: internamente era come la casa di Barbie – e solo allora notai che c'erano una bottiglia di vino da stappare e due calici appoggiati vicino al lavandino.
«Beviamo presto, oggi», commentai.
«Voglio festeggiare con te, amica!», trillò Marie. «Allora, ti ricordi che avevo spedito in giro un po' di curricula dopo la laurea?».
La cosa simpatica è che Marie è l'unica persona al mondo a usare la parola “curricula”: la gente non lo usa mai il plurale. «Sì, certo».
Mi squadrò con aria ammaliante, come se la sapesse più lunga di tutti.
«Oh, non dirmelo», feci io mentre iniziavo a capire il motivo di tanta agitazione. «Ti hanno assunta da qualche parte?».
«Il British».
Provai una sensazione strana, come se mi avesse appena detto di essere una strega di Salem reincarnata. «Il British? Quel British Museum?».
«Quanti ne conosci?».
Si vedeva lontano un miglio che non riusciva a trattenersi e che voleva a tutti i costi raccontarmi ogni cosa, quindi mi limitai ad appoggiarmi allo schienale delle sedie shabby e sorrisi. «Spara».
«Ah, non ci potevo credere!», urlò gesticolando. «In pratica avevo mandato questo curriculum senza aspettarmi assolutamente una risposta, ok? E infatti sono passati mesi».
«Un annetto».
Mi indicò con aria eloquente. «Esatto! Quindi davo per scontato che la mia richiesta fosse stata cestinata per sempre. E invece», aggiunse agitandomi davanti un foglio fresco di stampante, «ho ricevuto questa e-mail in cui mi viene detto che posso fare un colloquio!».
Il mio entusiasmo, lo ammetto, calò di una tacca. «Un colloquio? Credevo fossi già assunta».
«Ma mi assumeranno senza ombra di dubbio», gracchiò Marie, fuori di sé. «Vogliono una guida che sia di madrelingua francese per i gruppi turistici».
Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce se glielo avessi chiesto, ma Marie una volta aveva detto che “la metà dei turisti che va al British non capisce veramente una mazza di arte”. Perciò trovavo un po' ironico il fatto che sarebbe andata a fare proprio quello.
«Deve essere la pena del contrappasso», commentai.
Mi lanciò un'occhiataccia. «Insomma me ne vado in Inghilterra! Ti rendi conto?».
«Pianino», la frenai ridacchiando. «Vai in Inghilterra solo per un colloquio, giusto?».
«Beh», borbottò, «veramente il colloquio lo faccio dopodomani tramite Skype. Sai, non pretendono che io voli fin lì per niente. Ma è certo che mi assumeranno, figuriamoci».
«Qualcuno è sicuro di sé».
«Beh, chiaro! Laurea con lode alla Sorbona, che altro vogliono? Che mi bacino le chiappe!».
Risi forte. «Stappiamo, allora!».
Marie aprì la bottiglia di vino rosso e versò due calici, poi portò tutto in tavola. Diciamo che finire una bottiglia in due dopo il mojito con Paul non era una cosa mai fatta, ma ammetto che la mia abitudine all'alcool era diminuita parecchio nel corso del tempo. Non avevo quasi più toccato niente da quella notte a casa di Max, con tutto il casino che ne era seguito.
«E, ehm, Jeannot cosa dice?».
Mi guardò al di sopra del bicchiere. «Eh?».
«Che ne pensa del trasferimento?».
All'improvviso esitò e appoggiò lentamente il calice sul tavolo. «Oh, io... Non so, non gliel'ho ancora detto».
«Cosa ne pensava quando hai spedito il curriculum?».
«Oddio, non è che io glielo abbia proprio detto detto», borbottò. «Potrebbe, e bada che dico “potrebbe”... Ecco, potrebbe essermi sfuggito».
La fissai per un po' con un mezzo sorriso. «Fammi capire. Jeannot non sa niente?».
«Beh, certo che se la metti così sembra veramente orribile da parte mia».
«Chi sei tu e cosa hai fatto alla mia amica?».
Marie scosse il capo violentemente. «Oh, andiamo! Non mi aspettavo che mi avrebbero risposto per davvero! Ho spedito il mio fascicolo quasi per gioco».
«Marie, io non sono la persona più sveglia della galassia, ma perfino io lo so che non si spedisce un curriculum per gioco».
Abbassò lo sguardo. «Lo so, hai ragione. Glielo dirò appena torna a casa, lo prometto».
Versai un altro bicchiere per entrambe. «Se ti dicessero che il colloquio è andato bene che farai?».
Mi guardò con aria ferita. «In quel caso accetterò. Sarà sempre meglio che lavorare al bar e potrò fare quello che mi piace, no?».
Annuii. «Capisco».
«E Jeannot verrà con me», aggiunse annuendo. «Sicuramente».
Sembrava trovare molto intrigante una venatura nel tavolo di legno. Io mi limitai a fissarla, in attesa che saltassero fuori le magagne.
«Oh, merdaccia!», sbottò alla fine. «E se non volesse venire? E se mi chiedesse di scegliere? Io lo amo davvero, ma si tratta del mio futuro! E se non capisse? E se non fosse quello che vuole lui?».
«E se ti stessi inventando dei problemi che non esistono?», suggerii.
Mi ignorò completamente. «No, no, no! Non verrà mai con me fin laggiù, parliamo dell'In-ghil-ter-ra, è così lontana da qui», esalò. «Lontana dai suoi genitori e dagli amici. Jeannot non ci verrebbe mai!».
«D'accordo, ora ti darò il parere esterno di cui hai bisogno», sospirai. Mi sporsi in avanti, verso di lei. «Jeannot ti ama così tanto che se dovesse scegliere tra te e il mondo sceglierebbe sempre te. Lo so, si vede. È come se...». Riflettei, cercando il modo giusto per esprimere ciò che pensavo. «Come se foste destinati a questo. A voi due. So che sembra una cazzata, ma sono molto seria. È come se qualcuno, milioni di anni fa, avesse deciso per voi questa cosa. Non potete stare separati, capisci? Sarebbe come se all'improvviso il Sole morisse».
Marie aggrottò la fronte. «Avremmo solo otto minuti di vita, allora».
Sul momento pensai di mandarla a quel paese, poi decisi che quel commento apparentemente inappropriato non stava così male. «Otto minuti di vita», ripetei. «Sì, esatto. Se tra voi finisse, credo che avremmo otto minuti di vita».
Marie mi sorrise. «Grazie».
«Non hai creduto ad una parola, vero?».
«In effetti no, ma apprezzo molto quello che hai detto».
Levai le tende all'arrivo di Jeannot e per una volta chiusi le porte dei due appartamenti. Il fatto di essere dirimpettai rendeva l'intero pianerottolo come una grande casa. Però immaginavo avrebbero avuto bisogno della loro privacy.
Mentre mi lambiccavo domandandomi se fosse meglio ordinare cinese o se non fosse meglio cucinare qualcosa per cena, mi sforzai di immaginarmi una Parigi senza Marie.
Mi sembrava impossibile. Era come l'Inferno senza Lucifero. Marie incarnava l'essenza stessa di Parigi, era come uno stereotipo con le gambe; non nel senso che non avesse personalità, ma perché se chiunque di noi pensa alla tipica ragazza parigina si immagina una che è tale e quale a Marie: bellissima in qualsiasi cosa faccia, mai in disordine, sofisticata e felicissima. E innamorata, non dimentichiamoci di quello: l'amore.
Era come se dentro di me avessi dato per scontato che Marie sarebbe rimasta con me in eterno. Non ci eravamo mai lasciate da quando ci eravamo conosciute, mai, nonostante le discussioni e le incomprensioni. Ormai erano quasi sette anni. Era una sorella per me e capire all'improvviso che era cresciuta, che era diventata adulta e che prima o poi se ne sarebbe andata fu come una frustata sulla faccia.
Come avrei fatto se, per ipotesi, avessi avuto bisogno di lei alle tre del mattino e Marie non avesse potuto rispondere al telefono perché magari aveva due poppanti in casa e un lavoro a tempo pieno?
Era giusto. Sapevo che era giusto, lo sapevo perché a parti invertite io avrei accettato quel lavoro senza colpo ferire. Però un cantuccio del mio cuore non riusciva in alcun modo ad essere felice per lei. Un cantuccio che si sentiva un po' abbandonato.
Non c'era nessuno in casa, Manuel e Jacques avevano affittato un appartamento al mare per un paio di giorni di intense scopate – o almeno mi immaginavo qualcosa del genere – e così decisi di fare una cosa che mi rilassava sempre, indipendentemente da quanto le cose andassero male.
Custodivo i miei tesori in una scatola rossa piuttosto capiente, in camera mia, perché se Jacques li avesse trovati avrebbe riso fino allo sfinimento e non avevo intenzione di farmi prendere in giro da lui.
Presi la scatola.
Mi infilai un pigiamino estivo e tolsi dal freezer una vaschetta di gelato enorme.
Aprii la scatola.
La mia collezione di film di Audrey Hepburn mi sorrise con trepidazione non appena tolsi il coperchio.
«Ciao, tesorini», li salutai con amore materno.
Di cosa avevo voglia? Di Cary Grant? O di Humphrey Bogart? Optai per il confortante Fred Astaire in Cenerentola a Parigi. Sembrerà un cliché, ma avevo bisogno di sentirmi dire che quella era ancora la città dei sogni, proprio come avevo sempre creduto.
«Ora ascoltami bene», disse Fred Astaire mentre accompagnava Audrey Hepburn al binario della stazione dei treni, «oggi non sei felice».
Audrey ed io mormorammo: «Allora sono triste?».
«Esatto», rispose lui, «sei in una situazione tragica. Tu piangi, tu soffri, sei come Anna Karenina!».
Io feci una smorfia – la stessa di Audrey – e recitammo insieme: «Devo buttarmi per caso sotto il treno?».
Dopo quel sano, familiare scambio di parole mi sentii di nuovo in ottime mani e mi lasciai coccolare da Audrey per tutta la sera, indipendentemente dal turno del giorno dopo. Dentro di me mi sentivo di nuovo meglio e mi mangiai con pasciuta soddisfazione un chilo e mezzo di gelato alla stracciatella.

***

Sognai George, quando finalmente mi decisi a trascinarmi a dormire. Mi piace pensare che sia stata la mano gentile di Audrey calata direttamente dal Regno dei Morti a concedermi di rivederlo, anche se ammetto che avrei preferito che non accadesse.
Non ricordo i particolari, durò solo un momento, ma potei sentire distintamente il suo odore. Lo sentii come se fosse stato in camera mia, come se avessi annusato i suoi capelli, mi riempì le narici ed il cervello, mi si insinuò perfino in bocca e in gola.
Quando mi svegliai avevo il suo sapore sulla lingua. Fuori era ancora buio e non riuscii a distinguere la mia mano che correva alle labbra, domandandomi se fosse tutto vero. Avevo il suo sapore sulle labbra. Come se avessi appena smesso di baciarlo.
Il suo odore e il suo sapore, uniti insieme per darmi una sensazione di eccitazione che non provavo da mesi. Scivolai sotto le lenzuola nonostante il caldo soffocante e mi rannicchiai, domandandomi cosa mi stesse prendendo.
Non sono mai stata una da autoerotismo. Per la verità non ne avevo mai avuto bisogno. C'era sempre qualcuno, nei momenti di voglia. Eppure mi ero svegliata con uno strano desiderio, un calore al livello del basso ventre che non riuscivo a scacciare e sapevo benissimo cosa fosse.
Da un lato non c'era nessuno lì a giudicarmi. Dall'altro era come se non volessi cedere. George aveva trovato il modo di stuzzicarmi anche a distanza: non volevo dargliela vinta, non volevo proprio.
Eppure lo desideravo così tanto. In quel momento gli sarei saltata addosso, lo giuro, non so cosa gli avrei fatto. Non avevo voglia di sesso, avevo voglia di George.
Mi aggrappai con tutta me stessa alle sensazioni provate in quel sogno. Cercai di rievocare la calda sensazione di tepore che avevo sentito in quel breve momento onirico, mi impegnai per impedire al suo odore di sfuggirmi. Avevo la bocca impastata di lui, come se fosse stato lì. Alla fine cedetti e feci scivolare la mano più in basso, nei pantaloncini azzurri del pigiama.
Sono in molti, anche fra le donne, a considerare la masturbazione come un “lavoro da uomini”. Non penso affatto che sia così e credo che molte ragazze lo facciano: non c'è niente di male. Io, come ho detto, non ero il tipo, almeno non di solito.
Eppure impiegai mezzo secondo per immaginarmi George chino su di me. Finsi che fosse lì, che mi stesse baciando come faceva prima, con foga, con rabbia. Finsi di divorargli la pelle del collo, mentre nella mia fantasia le sue mani si muovevano su di me, sul ventre, sulle cosce, come se non fosse mai cambiato niente.
Era come se la sua saliva stesse davvero scavando un solco sul mio seno, come se fossero le sue dita, e non le mie, a darmi piacere nel buio.
Mi piace pensare, anche se so che è una pura illusione, che lui stesse facendo la stessa cosa dall'altra parte della città. So che sembra una cosa sporca, lo capisco. In quel momento, però, era l'unico modo che avevo per convincermi che non era ancora finita.
La verità è che non riuscivo a lasciarlo andare.
E così mi immaginai che fosse lui a non volermi lasciare andare, quella sera, che fosse lui quello a cui importava ancora e che fossero i suoi gemiti ad accompagnare i miei – quando invece i miei sospiri erano accompagnati solo da loro stessi.
Alla fine mi rilassai. Passato il momento riemersi dalle lenzuola, accaldata e fisicamente libera, ma per nulla appagata. Perché ora l'avevo perso, avevo smarrito il suo odore e il sapore e non c'era nessuno in camera mia.
Non era servito a niente ed ero ancora più inerme di prima. D'un tratto, senza preavviso, mi domandai cosa stesse facendo Paul. Non per un improvviso, rinnovato interesse per lui, ma solo per curiosità. Solo per sapere se il karma aveva davvero deciso di premiarlo per avermi sopportato dandogli la donna giusta per lui, dandogli Clothilde. Mi domandai in quale paradiso di zucchero stessero dormendo, in quale splendido sogno stessero vivendo.
Me ne rimasi lì, incapace di dormire di nuovo.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26. ***


Nda: Ciao, amici di Maria De Filippi! Sono tornaaaataaaa! In questo capitolo ci sarà qualche piccola rivelazione, anche se lo considero più che altro un capitolo di transizione. In ogni caso la notizia è un'altra: manca poco alla fine. Siamo ormai a ridosso dell'epilogo, ancora un paio di capitoli e ci siamo. Ma aspetterò per salutare, non voglio commuovermi D:
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 26.

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Jeannot e Marie si lasciarono ventidue giorni dopo.
Il colloquio con il British era andato bene, Marie aveva dimostrato la sua padronanza dell'inglese e anche di sapere un po' di tedesco, oltre che il francese. Le referenze erano ottime, il titolo di studio eccelso. Le comunicarono l'assunzione nel giro di pochi giorni.
Io non penso onestamente che Jeannot sia stato uno stronzo e, per fortuna, nemmeno Marie lo pensa. Credo che lui non se la sentisse di cambiare in modo così radicale. Le propose una relazione a distanza, almeno all'inizio, fintantoché non avessero trovato una soluzione migliore. Lei rifiutò, disse che non ce l'avrebbe fatta a vederlo partire e a stare da sola per mesi e mesi. Disse che preferiva lasciarsi subito, piuttosto che cedere a quel triste preludio.
Lo capivo, almeno un po'. Ricordo quanto sia stata dura per me trasferirmi a Parigi dall'Italia. Penso in tutta franchezza che non sia una cosa da tutti. Jeannot era molto legato alla sua famiglia. Se non fosse stato per i suoi genitori forse l'avrebbe seguita.
Penso che abbia avuto paura. Paura di lasciare casa, di lasciare quelle strade così familiari per lui, di ricominciare da capo in un posto nuovo dove non conosceva nessuno. Dove si parlava una lingua che lui capiva poco. Una prospettiva del genere fa spavento. Non lo definirei cattivo, Jeannot, e nemmeno egoista. Era solo spaventato.
Ne parlarono a lungo. Non ho mai saputo cosa si siano detti in quei ventidue giorni che passarono tra il colloquio e il tracollo, ma so che ne hanno discusso così tanto che Marie non ha mai più voluto sollevare l'argomento. Penso si fosse un po' esaurita.
Eravamo tutti molto preoccupati per entrambi. Jeannot era abbastanza a pezzi, Jacques lo incontrò spesso in un pub per cercare di risollevargli il morale e riferì sempre di averlo trovato giù di corda.
Marie era molto delusa. Non era disperatamente triste come una qualsiasi Marianne Dashwood, né arrabbiata o vendicativa. Era solamente delusa. Credo che averne parlato con lui così a lungo abbia in qualche modo fermato le lacrime.
«Credevo saremmo stati insieme per sempre», sospirò una sera. Bette ed io ci scambiammo uno sguardo e non aprimmo bocca. «Insomma, non pensavo proprio che sarebbe successa una cosa del genere».
In televisione davano una trasmissione orrenda su dei vip che facevano un percorso a ostacoli nella giungla. Le risate del pubblico erano le uniche note di gioia nella stanza, per quanto finte. Osservai per un po' la chioma bionda coperta di foglie di Clémence Poésy che cercava in tutti i modi di superare Stromae buttandolo per terra con una spallata molto virile, poi feci schioccare la lingua sul palato, annoiata e triste.
«Come farete con l'appartamento?».
«Jeannot ha detto che non vuole rimanere qui», rispose Marie con un tono di voce piatto, monotono. «Dice che ci sono troppi ricordi».
«E tu?».
Si strinse nelle spalle. «Ho dato la disdetta alla proprietaria, ho pagato fino alla fine del trimestre», spiegò. «E poi sarò fuori».
Non c'era entusiasmo nella sua voce, tutto l'ardore provato giorni prima nella sua cucina era svanito.
Bette fece un timido tentativo di ravvivare l'atmosfera triste: «Emozionata per il cambio d'aria?».
Marie fece di nuovo spallucce e non disse niente.
«Hey», dissi io per cambiare argomento, «lo sapete che Nicole torna a Parigi sabato?».
Già, a tal proposito, vi ricordate di Nicole? La ragazza con la voce sexy che usciva sempre con noi e che, mi rendo conto ora, non nomino da una vita? Beh, era a fare la ragazza alla pari in Canada per due anni e si era presa una settimana di ferie da trascorrere a casa.
«Fantastico», commentò Marie aspramente, «così dovrò rispondere alle sue domande sul perché è finita, tra me e Jeannot».
Le passai una mano su un braccio. «Non dovrai rispondere proprio a niente», mormorai. «Non se non ti andrà di farlo. Nicole è una nostra amica, capirà».
«Uhm», fece Marie.
Bette sembrava intenzionata a distrarla a tutti i costi. «Mi avete parlato molto di lei», disse con entusiasmo. La sua frase cadde nel silenzio, così aggiunse: «Sono curiosa di conoscerla».
Le rivolsi un sorriso di gratitudine, ma Marie era in una fase proprio brutta e così restammo di nuovo in silenzio per un po'. Il programma finì e partì una serie di spot pubblicitari.
Fu allora che Marie iniziò il suo monologo.
«È tremendo, vero? Quando tutte le certezze ci crollano sotto i piedi», sussurrò. «Credevo che Jeannot ed io saremmo stati insieme per la vita. Che avremmo avuto dei figli e poi dei nipoti, una casa, un cane, una macchina e che mi sarei svegliata di fianco a lui tutte le mattine, non importa quanto potesse russare. Non importa quanto potesse diventare monotono. Ero talmente sicura di tutte queste cose che mi sembrava fossero a portata di mano, capite? Come se mi bastasse allungare un braccio e prenderle quando fossi stata pronta».
Vidi con la coda dell'occhio che Bette guardava l'orologio. Aveva un farmaco da prendere, come dimenticare?
«E invece niente», sbottò Marie. «Non ho avuto niente di quello che credevo. Probabilmente non avrò mai quello che ho sempre sognato, ma sapete che c'è?».
Le rivolsi un sorriso mesto. «Che c'è? Dimmi».
«C'è che la vita non è un film e che è solamente colpa mia se ho dovuto scoprirlo così. Mi sono sempre sentita un po' fiera mentre la mia vita veleggiava verso il lieto fine. Sì, Léo, non guardarmi in quel modo, mi sentivo come se fossi superiore al resto del mondo perché a me andava tutto bene, non c'era nulla nella mia intera esistenza che non funzionasse».
Quel discorso si stava facendo faticoso per tutti e avvertii una spiacevole sensazione di prurito sotto alle cosce inguainate negli shorts. Il divano di Marie non mi sembrava più così comodo, dopotutto.
«E ora sono qui. Sono qui che sto per partire per una città che non conosco. Da sola».
«Hai paura?», domandò Bette.
Marie annuì. «Ho una strizza tremenda».
«Magari non sarà così male».
Con aria mesta, la mia migliore amica tentò un sorriso stiracchiato. «No, magari non sarà così male».
All'arrivo di Nicole, il sabato successivo, uscimmo tutte insieme a festeggiare. Bette rinunciò ad un sabato sera con il suo Henry e si unì al gruppo delle single in una stranissima parodia di Sex and the City – anzi, “Le Sexe et la Cité”.
Più che altro, in realtà, sembravamo quattro fantasmi. Nicole aveva un jet lag del cazzo da smaltire, Marie aveva la voglia di divertirsi di un bisturi, io avevo avuto la malsana idea di guardarmi un video di George e Bette aveva un tale tremore alle mani da dover chiedere una cannuccia per bere il suo drink.
Offrimmo un bello spettacolo. Ci divertimmo poco e, alla fine, tornammo a casa stanche.
Dormii da Marie: non avevo trasferito niente delle mie cose da lei, dopotutto mi bastava attraversare il pianerottolo. Comunque avevo deciso che avrei dormito da lei finché non fosse partita, alla fine dell'estate.
A tal proposito, parliamo dell'estate parigina. Chi di voi ha visto la quarta stagione di Gossip Girl? Beh, dimenticatela. La mia personalissima estate a Parigi fu un disastro dopo l'altro. Ma procediamo con ordine.
Punto primo. Rischiai di perdere il lavoro. Non lo dico come uno scherzo, è vero. Discussi violentemente con la nostra carissima caporeparto, che mi chiese cortesemente di non presentarmi il giorno dopo. Credevo di essere stata licenziata per davvero, ma per fortuna Manuel aveva registrato un video della discussione, lo fece vedere ai Massimi Pezzi Grossi del Gitem Euronics e nel giro di una settimana tornai a spassarmela alla grande tra videogames e pratiche assicurative. Sophie non venne cacciata, ma almeno dimostrammo che avevo ragione io e continuai a percepire un regolare e scarno stipendio.
Punto secondo. Vidi la sfavillante vita di Paul Duval scorrere davanti ai miei occhi come un film quando ebbe la botta di culo di ottenere come cliente nientemeno che Samia Ghali, politica del Partito Socialista e sindaco di un distretto marsigliese, impegnata in una causa contro il suo stesso marito. Non una causa divorzista, figuriamoci, sarebbe stato all'ordine del giorno: quei due si amavano alla follia, ma si litigavano la proprietà di una baita sulle Alpi svizzere. Paul divenne uno dei più giovani avvocati che si fossero mai avvicinati allo scintillante mondo della politica ed io mi sorbii “Le straordinarie avventure di Paul Duval e della Perfida Sindachessa” quasi quotidianamente. Così, giusto per ricordare a me stessa cosa mi ero persa. Ma non ero gelosa: è questa la cosa peggiore. Se fossi stata invidiosa della sua vita perfetta avrei avuto qualcosa a cui aggrapparmi.
Punto terzo. Per l'afa eccessiva persi i sensi dentro il camerino di Via Condotti e mi ritrovarono dopo tre ore.
Punto quarto – e qui voglio la vostra completa attenzione – iniziai ad incrociare George dappertutto. Prima mi ritrovai imbottigliata nella coda per entrare in una libreria dove non so bene quale autore di libri fantascientifici firmava copie della sua opera omnia e senza farlo apposta quasi gli finii tra le braccia. Il bello è che io non volevo nemmeno entrarci, in quella libreria, erano quegli invasati ad occupare l'intero marciapiede. Ci scambiammo un saluto rigido e poi io scappai via. Poi lo vidi in metro per ben due volte. Lo incrociai al cinema. Lo notai mentre consegnava delle fotografie per un concorso organizzato da Cosmopolitan, cosa che ovviamente doveva fare mentre io prendevo coraggio per propormi come giornalista per una nuova rubrica sull'arte contemporanea. Che faccia tosta, eh? L'incontro peggiore fu da Pierre Hermé, la mia pasticceria preferita, che tutti quanti sanno essere parte integrante del mio territorio. Stavo sbranando un croissant alla crema, così mi nascosi sotto il tavolino per non farmi beccare. E poi dicono che Parigi è una metropoli.
Secondo Marie il suo era un pedinamento. Io ne dubito, ma non si sa mai. Preferisco pensare che mi seguisse perché la mia bellezza era inequivocabile e non perché il destino ce l'aveva con me.
Da un lato avrei dato via un braccio per rivederlo. Ogni volta mi bastava intravedere anche solo un pezzetto di lui per sentirmi meglio, come se avessi appena preso la Magica Pillola della Felicità. Ricordo che, proprio da Pierre Hermé, dopo essermi buttata sotto il tavolo tra le gambe di Jacques, riuscii a scorgere solo le sue Converse e i jeans a sigaretta, ma mi bastò per sentirmi più leggera.
D'altra parte avevo una voglia terribile di cambiargli i connotati a furia di cinghiate. Mettiamo in chiaro le cose: a Parigi ero arrivata per prima. Se fosse stato un bravo ragazzo avrebbe fatto i bagagli e se ne sarebbe tornato nel suo United Kingdom.
Razionalmente pensavo che, se le cose tra noi erano ancora irrisolte, occorreva chiudere la questione in amicizia – o almeno con umana cortesia. Forse, se ci fossimo detti addio nel modo migliore, sarei riuscita ad andare oltre. Ma non ero certa che avrebbe funzionato.
Poi, verso la fine di agosto, conobbi un ragazzo: si chiamava Luc Mathieu Perrin e faceva il bibliotecario in un vicolo senza uscita nel Quartiere Latino. Era moro, con un po' di barba, troppo basso forse. Vestiva casual, ma con stile. E aveva gli occhiali, il che era singolarmente sexy. Praticamente era una versione quattrocchi di George Addison, ma mi andava bene lo stesso, non si può avere tutto, no?
Passammo un mese molto bohemien, fatto di serate jazz, arte e letteratura, sesso passionale e litigate furenti, veramente poetiche, proprio come in un film: faceva molto Folies Bergère; poi io mi stancai di lui e lui si stancò di me. Fine. Ciao ciao, Luc. À bientôt.
Infine il temuto settembre avanzò verso di noi con passi pesanti. Portò una ventata di piacevole aria fresca, insieme ad un pacco di libri spediti da mia madre per tenermi compagnia e all'operazione di imballaggio delle cose di Marie. Bette ed io fornimmo la manovalanza, la mia amica pagò da bere.
E alla fine l'ultima sera ce ne stavamo nel suo appartamento vuoto, soltanto lei ed io. Non era rimasto molto, solamente due sedie e una poltrona, una lampadina che pendeva dal soffitto e i pensili della cucina. Tutto il resto era stato venduto o spedito o regalato. Le nostre voci rimbombavano e c'era il segno dei quadri alle pareti. E due ragazze, con indosso bei vestiti e scarpe costose indossate al solo scopo di starsene sedute sul parquet fresco, in attesa di un'alba che speravo non venisse mai.
«Allora», disse Marie portandosi alle labbra il vino nel bicchiere usa e getta, «ecco qua il mio piano».
«Sentiamo».
«Io arriverò a Londra domani», spiegò annuendo. «E inizierò la mia vita britannica da tipica outsider».
«Outsider, mi piace».
«E un giorno, durante una normale giornata faticosa ma appagante», continuò con voce sognante, «il principe Henry verrà a visitare il British. Io, naturalmente, fingerò di non sapere chi sia per rispettare il suo desiderio di mescolarsi alla plebe».
Ridacchiai, soffiando nel bicchiere. «Oh, certo».
«E lui verrà da me ogni giorno, fingendosi un altro, ed io ogni giorno lo accompagnerò in una visita del museo». Marie sospirò teatralmente. «Fin quando, in una mattina come le altre... No, un pomeriggio».
«Un pomeriggio piovoso», aggiunsi io.
Lei schioccò le dita. «Giusto, piovoso! Molto romantico. In un pomeriggio piovoso lui mi prenderà tra le braccia e, dopo avermi rivelato la sua vera identità, mi bacerà come Omar Sharif bacia Julie Christie in Il dottor Zivago».
Riflettei per un istante. «Non so quanto ne sarebbe felice la regina, ma contenta tu», commentai bevendo un altro sorso. «Non credevo che Henry fosse il tuo tipo».
«Scherzi? Ho visto le sue foto senza veli e credimi se ti dico che nessuna donna direbbe di no».
Risi forte e con me rise anche lei, fino alle lacrime, accasciate sul pavimento, appoggiate al muro sotto la finestra, mentre fuori la notte di Parigi scorreva veloce e ineluttabile. La luce della lampadina ebbe un fremito.
«Wow», mormorai.
«Cosa?».
«Non posso credere che tu te ne stia andando», risposi. «Insomma, lo sapevo. Ma non credevo sarebbe mai arrivato questo momento».
Marie non rispose immediatamente. Il silenzio mi fece quasi male. «Nemmeno io», ammise alla fine.
Appoggiai il capo sulla sua spalla e lei mi prese la mano nella sua. «Mi mancheranno le tue tette rassicuranti».
Con un risolino, lei cinguettò: «Dovrai cavartela senza di loro».
«È buffo», dissi tirando su col naso. «La gente sogna di iniziare la sua vita a Parigi. C'è chi vuole le boutiques, chi vuole i café pieni di poeti, chi cerca il vero amore sul ponte Alessandro III. Ma alla fine tutti vogliono Parigi».
La sentii annuire contro la mia testa. «Ed io sto per lasciarla», sospirò. «Ma anche Londra ha il suo fascino, no? Ho trovato un appartamento vicino al Borough Market, ti piacerà molto quando verrai a trovarmi».
Mi raddrizzai per versarmi altro vino, approvando con lo sguardo. «Vedi, questo è positivo. A Londra non spenderò un soldo per l'albergo quando verrò da te». Riempii il suo bicchiere e improvvisammo un piccolo brindisi. «Qualche rimpianto?».
«Jeannot», rispose a colpo sicuro. «Lo rimpiangerò in ogni momento». Tacque, fissando un punto sulla parete di fronte. «Ma ho fatto la scelta migliore, ne sono più che certa».

***

Marie prese un volo per Heathrow di buon'ora la mattina dopo. Vennero a prenderla i suoi genitori, mentre una cugina avrebbe volato con lei per aiutarla a disfare gli scatoloni una volta che fossero arrivati.
Io non riuscii ad andare con loro fino all'aeroporto Charles de Gaulle. Non me la sentii e basta. Lei capì: credo anzi che abbia preferito salutami sul nostro pianerottolo, che aveva un'aria più familiare rispetto ad un ponte d'imbarco.
All'inizio le giornate mi sembrarono abbastanza spente: Manuel e Jacques passavano parecchio tempo ad organizzare il loro Cannabis Europe Tour, volevano partire il prima possibile spendendo il minimo sindacale, così stavano spesso per conto loro. Bette abitava dall'altra parte della città. Il proprietario dell'appartamento di Marie iniziò a far vedere la casa ad altri affittuari. Nel giro di un paio di settimane lo aveva fermato una signora venuta in città per stare più vicina al figlio e alla nuora.
La cosa che mi impressionò di più di quei giorni fu il silenzio. Silenzio in ascensore e lungo la tromba delle scale, silenzio sul pianerottolo, silenzio in casa. Silenzio al lavoro perché Bette era in malattia. Silenzio dentro di me perché George non c'era.
Perfino Parigi era silenziosa. Con l'avvicinarsi dell'autunno c'erano foglie dorate dappertutto e per la strada non c'era più nessuno. I turisti erano scomparsi, i ragazzini erano di nuovo a scuola. C'erano gruppetti di anziani nei parchi, troupe per servizi fotografici nelle vie principali e molti nuovi arrivati, pronti per iniziare la loro nuova vita nella città delle promesse.
Eppure le strade erano stranamente deserte. Parigi aveva perduto la magia e si era spenta.
A me restavano gli incontri casuali con George e con nuovi, misteriosi sconosciuti.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27. ***


Nda: Ciao, carucci. Come state? Spero che vada tutto bene, francamente questo rientro all'università mi sta già uccidendo (e sono solo alla seconda settimana). Beh, siamo già al capitolo 27: dopo questo, mancano il 28 e l'epilogo e poi addio, ciao mare. Beh, non voglio dilungarmi in tristaggini varie, voglio scoppiare di gioia con voi <3 Perciò leggetevi questo capitolo triste come un cucciolo abbandonato gioioso (?).
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 27.

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Il mio cappotto nuovo aveva le maniche a sbuffo ed era giallo limone. Mi sentivo molto bella nell'indossarlo e cominciai a metterlo piuttosto presto, quando non faceva ancora così freddo.
E quando puntualmente uscivo in ritardo dovevo scapicollarmi verso la stazione della metro, sudando nel mio bellissimo cappottino giallo limone. Una bella visione.
Tuttavia, se vi è per caso capitato di vedermi correre come una pazza intorno alle cinque del pomeriggio del due di novembre, sappiate che non stavo affatto andando al lavoro, anzi, era il mio giorno libero. Ma voglio andare con ordine, o non coglierete il senso di ansia e di claustrofobia che mi procurò in quell'occasione lo scorrere del tempo.
Quella mattina mi svegliai relativamente presto, ma erano giorni calmi e riposanti, anche al lavoro, perciò non mi sorprese. Avevo tutta la giornata per me, dal momento che i miei coinquilini erano ormai partiti alla volta della prima tappa del loro Cannabis Europe Tour, a Copenaghen. Quindi in realtà anche l'appartamento era tutto mio.
Presi il telefono, pronta a chiamare un ragazzo di nome Fabrice, niente cognome. Lo avevo conosciuto nella sala d'attesa del mio dentista, era molto bello e molto poco somigliante a George. Alto, con i capelli di uno strano e interessante colore a cavallo tra il rosso e il castano, con due magnetici occhi verdi. Non avevo idea di che lavoro facesse Fabrice, niente cognome, ma ogni volta che ci eravamo visti era sempre impeccabile, non un dettaglio fuori posto, ed era molto charmant. Avevamo in comune l'ammirazione per Caro Emerald e stavamo pensando di andare insieme ad un suo concerto.
Così sollevai la cornetta e composi il numero di Fabrice, niente cognome. Mi sarebbe piaciuta una giornata di sano sesso. Al terzo squillo però iniziò a suonare il cellulare e dovetti mettere giù il telefono fisso.
«Pronto?».
«Sono Bette!».
Sorrisi mentre mi versavo una manciata di cereali nella scodella. «Ciao, Bette. Dimmi tutto».
«Ricordi Henri?».
La sua grande storia d'amore. «Sì, certo».
«E ricordi che volevo fartelo conoscere, ma lui aveva sempre una scusa?».
Annuii, prima di accorgermi che non poteva vedermi. «Oh, sì, mi ricordo», balbettai, «ma non è un problema per me, finché tu sei felice».
«Per me invece è importante», asserì lei. «Io ti voglio bene, desidero che vi conosciate. È l'uomo che amo, dopotutto».
Il mio cuore si riempì di affetto per Bette, così tanto che mi venne un gran desiderio di abbracciarla subito. «Oh, tesoro».
«Ecco perché oggi andremo a trovarlo a sorpresa al bar dove va di solito. Lui non se lo aspetta, non può scappare».
Sistemai meglio il cellulare tra la spalla e la guancia mentre rimestavo i cereali con un cucchiaio per inzupparli nel latte. «Ammetto che un complotto non era la mia idea di giorno libero».
«Oh, non fare storie! Sarà divertente!», gridò con eccessivo entusiasmo.
Sbattei le palpebre, per un momento sorda da quell'orecchio. Spostai il telefono dall'altra parte. «Ehm, bene», risposi cautamente. Mi ripetei per l'ennesima volta che quell'eccessiva gioia di vivere era causata della venlafaxina. «D'accordo, allora io ci sto. Dove ci troviamo?».
«Il bar è in Rue Civiale», mi spiegò. «Ti mando l'indirizzo più tardi. Ci vediamo lì intorno alle sette? È l'ora in cui di solito va a bere una birra».
«Ok, ci sto».
«Vuoi portare il tuo amico?».
Impiegai un momento per capire di chi stesse parlando. «Fabrice, niente cognome?», domandai. «No, non siamo così in confidenza».
«Ma fate sesso».
«Oh, ma no, quello è diverso».
La risata assordante di Bette mi guastò anche l'altro orecchio. «Ottimo, allora ci vediamo dopo! Ciao!».
Non feci in tempo a salutarla che aveva riattaccato. Finii i miei cereali guardando una replica di Catfish, poi chiamai davvero Fabrice, niente cognome per fare sesso. Mi raggiunse in quaranta minuti, si fermò da me due ore e levò le tende in tempo per il pranzo. Comodo, veloce e a domicilio – ok, chiedo scusa per questa battuta ignorante e spiacevole.
Dopo pranzo uscii con il suddetto cappotto giallo limone per fare una passeggiata. Io trovo che la gente non si prenda abbastanza tempo per passeggiare, per stare senza fare nulla, quindi io cercavo di farlo il più possibile. Mi piaceva camminare e salutare gli sconosciuti, dire “Mazel tov” e “Shalom” al tizio della macelleria kosher, poco importava se erano le uniche parole che conoscessi, e bearmi del freddo in arrivo. Passeggiare mi portava sempre tanta pace e tanta ispirazione per i miei quadri – che per il momento continuavano ad aumentare impilati nel mio armadio. Incrociai la cassiera di un minimarket dove andavo a fare la spesa e mi fermai a fare due chiacchiere. Mi sperticai in complimenti per un orrendo e buffissimo carlino al guinzaglio di una ragazzina.
E poi il mio telefono suonò di nuovo.
«Pronto?».
All'altro capo della chiamata ci fu un'esplosione di singhiozzi disperati e nessun saluto. Allontanai il telefono per vedere il nome sul display e sbiancai.
«Bette», dissi lapidaria. È possibile che se non avessi saputo dei farmaci non mi sarei terrorizzata così tanto. Il mio cuore sobbalzò al punto da provocarmi un intenso dolore al petto. «Bette, perché piangi?».
Lei non rispose, continuando a disperarsi.
Con un sospiro mi sedetti su una panchina tra due alberi lungo un viale. «Oh, mio Dio, che cos'è capitato?», domandai sconsolata. «Bette, ti prego, parlami...».
Dopo altre lacrime e altri gemiti, finalmente la mia amica riuscì a biascicare qualcosa, che però io non riuscii a capire perché continuava a mancarle la voce.
«Bette, se mi dici dove sei posso venire da te».
«No!». D'un tratto la sua voce era diventata salda. «No, non venire».
Esitai. «Va bene, non vengo», accettai, «ma tu devi dirmi che ti è successo».
«Si tratta di Henri...».
«Avete litigato?», indagai appoggiandomi allo schienale della panchina. «Ha scoperto che volevamo andare da lui più tardi?».
«N-No». Bette iniziò a pigolare. «Cioè. Sì, volevo dire, lo sa. Ma tanto non ha più importanza!».
«Bette, sono sicura che...».
«Henri è sposato!».
Dovetti riflettere un momento per processare la verità. Sgranai gli occhi e rimasi immobile, surgelata da quell'informazione. «Cosa?».
«È sposato», ripeté Bette ricominciando a piangere a dirotto. «Lo è da anni, da prima che lo conoscessi! Mi ha sempre riempita di bugie!».
«Cazzo, ma chi farebbe una cosa simile?».
“Tu”, mi disse la vocina interiore. “Tu lo faresti, lo hai fatto una volta e lo rifaresti ancora”.
Bette parlò di nuovo, ma la sua voce mi giunse ovattata, come se si stesse coprendo le labbra con la mano per impedir loro di tremare. «Non posso crederci, io lo amavo!».
Scossi il capo, incapace di crederci. “Io lo amavo”: come se potesse bastare perché le cose andassero bene. Abbassai lo sguardo, rattristata e ferita. «Posso stare un po' con te, se vuoi».
«Non la voglio la tua pietà!».
«Come?».
La voce di Bette, da disperatamente inconsolabile, divenne all'improvviso furibonda. «Ho detto che non voglio la tua pietà! Non mi serve la pietà di nessuno».
Rimasi sgomenta e frustrata, oltre che offesa. Mi sforzai di restare calma. «Bette, io non provo pietà per te, capisci? Non l'ho mai provata».
«Ah, no?», gridò lei, inviperita.
«No, certo che no! Noi siamo amiche ed io voglio solo assicurarmi che tu stia bene».
«Oh, non preoccuparti! Da oggi in avanti starete tutti benissimo!».
Ciò detto riattaccò ed io rimasi impalata come una stupida, il telefono ancora all'orecchio e lo sguardo vacuo. Un tizio passò di fronte a me e mi ignorò, un signore anziano in passeggiata sollevò il cappello per salutarmi. Io non degnai nessuno di un'occhiata.
C'era qualcosa di strano in quello che era successo, qualcosa che non mi fu chiara fin dal principio. Ripensai per qualche minuto a quello che aveva detto, ad ogni singola parola, per capire come mai mi sentissi irrequieta. Perché sapevo che era normale sentirsi infelici dopo essere stati insultati senza motivo, ma io non ero infelice. Non ero nemmeno arrabbiata. Ero spaventata, ma non sapevo da cosa.
“Da oggi in avanti starete tutti benissimo”.
Mi venne un terribile conato di vomito quando compresi il significato intrinseco di quella frase. Tutti i pezzi del puzzle andarono di colpo al loro posto.
Tra le controindicazioni della venlafaxina c'era l'ideazione di suicidio. Bette aveva appena detto che da quel giorno saremmo stati tutti alla grande. E credeva che tutto il mondo la odiasse.
«Merda!».
Scattai in piedi e cominciai a correre. Quasi travolsi il vecchietto che si era tolto il cappello poco prima, ma non mi importava. Corsi fino alle scale della metro in fondo alla strada, scesi alla massima velocità e passai l'abbonamento nel tornello con tanta energia che non aspettai neppure che si aprisse del tutto, rischiando di rimanerci incastrata dentro.
E questo ci riporta a quello di cui vi avevo parlato prima, ovvero io che corro con il cappotto.
Dovetti cambiare più treni del previsto perché una delle stazioni del centro era bloccata da una manifestazione. Ma io non avevo tempo, anzi, non avevo mai avuto così tanta fretta in tutta la mia esistenza.
Ansimando per la fatica – non sono molto allenata, io – approfittai dei pochi minuti passati nei vagoni per fare mente locale.
Marie era in Inghilterra, Nicole era di nuovo in Canada. Jacques e Manuel avevano scelto il momento peggiore per partire per l'Europa e di chiamare George non se ne parlava nemmeno, non avrebbe avuto alcun senso e comunque non mi avrebbe risposto, ne ero certa. Non mi illudevo che qualcuno dei nostri colleghi avrebbe saputo come comportarsi ed io avevo bisogno di una faccia amica, non di un conoscente.
Mi rimanevano Max e Jeannot.
Feci il numero del mio ex vicino di casa mentre mi lanciavo su per le scale. Suonò a lungo, almeno una decina di volte, prima che scattasse la segreteria.
«Fanculo, cazzo, fanculo!».
Rallentai per trovare Max in rubrica. Per fortuna rispose al primo squillo.
«Léo!», disse energico. «Dio, è una vita che non...».
«Max, ti prego, non ho tempo! Una mia amica sta cercando di uccidersi!».
«Che cosa?».
«Si chiama Bette, è depressa, pensa che io la odi, il fidanzato l'ha scaricata perché era sposato!».
Max sospirò forte nella cornetta. «Ok, se stai correndo, rallenta».
«Non posso! Ti prego, vieni ad aiutarmi!».
«Léo, io sono in Costa Azzurra con Morena, la mia nuova ragazza!».
Mi esplose un urlo in gola. «No! Max, no!».
«Mi dispiace!». La sua voce era carica di panico, forse gli tremavano le mani per l'improvviso attacco di cuore che gli avevo fatto venire.
«Non fa niente!», strillai riattaccando.
Quando infilai il cellulare nella tasca la verità mi colpì con un guanto sfidandomi a singolar tenzone.
Ero sola.
Completamente sola, a fronteggiare qualcosa per cui non si è mai abbastanza pronti. Non ero pronta a sapere quel che Bette stava facendo, non ero pronta per quella corsa contro il tempo, non ero pronta ad arrivare troppo tardi.
Eppure continuai a correre, perché non c'erano altre opzioni. Non avevo tempo di crogiolarmi sugli allori, non avevo tempo di cercare un cavaliere su un cavallo bianco per farmi mettere un paraocchi rosa. Non c'era tempo di fermarsi e fingere che non stesse accadendo.
Così corsi senza fermarmi più.
Iniziavo davvero a non sentirmi più i piedi ed avevo così male alla milza e al cuore che credevo sarei morta. Non avevo mai corso così tanto in vita mia. La gola era completamente secca, il collo era un bagno di sudore. Non ne potevo più, sentivo che da un momento all'altro avrei semplicemente smesso di correre.
E poi il suo condominio mi apparve davanti come una magica visione. Vidi una donna che stava per entrare dal portone.
«Aspetti!», mi sgolai attraversando la strada. Un'auto inchiodò, ma nemmeno me ne accorsi. «Aspetti, la supplico!».
La donna si guardò intorno e, quando mi individuò, entrò in fretta per tenermi aperto l'uscio. Mi infilai senza rallentare, inforcando immediatamente le scale.
«Chiami un'ambulanza», la esortai aggrappandomi al mancorrente. «Una ragazza sta male all'interno ventisei!».
Col senno di poi so che avrei dovuto riflettere prima, perché forse Bette non si stava davvero suicidando. Ma con il cuore all'altezza della trachea e il cervello senza più ossigeno era già tanto che mi ricordassi come muovere i piedi uno davanti all'altro.
Raggiunsi il secondo piano e da lì l'appartamento ventisei. Battei forte sulla porta: chiusa.
«Bette!», strepitai. «Bette, apri questa porta!».
Da dentro non giunse un suono. Ero troppo agitata per riflettere, mi allontanai di un paio di metri e mi buttai con tutto il mio peso contro la porta. Fu inutile e con ogni probabilità avrei potuto prevedere che non sarei stata forte abbastanza, ma in quel momento avevo la mente vuota.
Tirai un calcio alla maniglia, poi uno alla porta stessa, ma quella non si mosse.
«Cos'è questo casino?».
Mi voltai e vidi che il dirimpettaio di Bette era uscito. Non era il colosso di Rodi che avrei voluto che fosse, ma era un quarantenne molto alto e con due belle spalle larghe – oltre ad un viso molto bello.
«Devo entrare in questa casa», esalai, gli occhi ormai colmi di lacrime. «Un'ambulanza sta arrivando, ma lei deve farmi entrare! La ragazza che vive qui sta male!».
Lui non rispose e corse dentro. Dopo pochi secondi ritornò con una chiave.
«Ci siamo scambiati quelle di riserva in caso di necessità», spiegò in fretta mentre infilava la chiave nella toppa. Sentii la serratura che scattava con il suono più bello del mondo.
Entrai per prima, ma sapevo che lui mi stava seguendo. Non avevo bisogno di lui, però, perché ero così atterrita che anche la presenza di un supereroe non avrebbe fatto alcuna differenza.
«Bette?», domandai guardandomi intorno.
Non conoscevo quella casa, non ci ero mai stata prima, e mi sentii cieca e perduta. Le stanze si affacciavano su un lungo corridoio, così lo percorsi in fretta guardando a destra e a sinistra; tutto era avvolto in un'inquietante penombra, le tapparelle abbassate, la casa ammantata dal più terribile dei silenzi.
Non ero pronta per vedere quello che c'era in bagno. Nessuno lo sarebbe, credo. La cosa peggiore era l'ordine: entrando si vedevano gli asciugamani appoggiati con cura sul bordo del lavandino, lo specchio immacolato, il profumo Hypnotic Poison che invase le mie narici con violenza.
Ma bastava fare un passo all'interno per vedere, sulla destra, la vasca da bagno. Le piastrelle erano schizzate di sangue, ma anche in quel caso Bette era stata molto ordinata e non era poi troppo sporco. La vasca, invece, era piena di liquido rosso, acqua mista alla sua linfa vitale.
Bette era completamente vestita, con un abitino succinto che non avrebbe mai messo per uscire di casa, immersa nell'acqua fino alle spalle. La testa era appoggiata ad un paio di asciugamani per stare più comoda. Per morire più comoda. Aveva gli occhi semichiusi e una specie di tagliacarte appoggiato non lontano dal capo. Il suo viso era sporco di rosso.
Tutto avvenne molto in fretta, ma io me lo ricordo come fosse al rallentatore. Dicono che certi shock vengono rimossi dal nostro cervello: io vorrei dimenticare, davvero, perché non è stato bello. Ma non ci riesco.
Faticai a riconoscere come mia la voce che gridò quando entrammo in bagno. Mi lanciai su di lei scoppiando a piangere e notai un movimento delle labbra.
Era debole, debolissima, ma era viva.
Non avevamo la minima idea di cosa stessimo facendo, è possibile che abbiamo prestato un soccorso sbagliato. Chissà, forse abbiamo rischiato più noi di ucciderla che non lei stessa.
Mi allungai verso il gabinetto e iniziai a srotolare la carta igienica mentre il vicino di casa le sollevava i polsi; aveva le maniche del vestitino inzuppate di acqua e sangue. Iniziai a tamponare gli orrendi tagli che si era procurata con la carta, ma quella si impregnò di liquido e la gettai via, correndo a prendere gli asciugamani dal lavandino. Li strinsi così tanto sulla sua carne che sospetto di averle lesionato qualcosa.
Dissi qualcosa, tipo “Ti prego, Bette” o una frase del genere. La donna che avevo incontrato sulla soglia arrivò di corsa e cominciò a urlare, ma almeno aveva chiamato i soccorsi.
Dentro di me io riuscivo solo a pensare che Bette non era morta, non era ancora morta, avevo fatto in tempo. Non vedevo quasi nulla per le lacrime e, quando un suo braccio scivolò, impiegai qualche secondo per ripescarlo in quell'acqua così spaventosa. Ripresi il suo polso e tornai a tamponarlo con un altro asciugamano.
Il mio cappotto giallo limone con le maniche a sbuffo era coperto di sangue. Avevo sangue sul viso e sui capelli. Nella stanza c'era odore di sangue. Io non vedevo più niente, in bocca avevo un sapore acre di lacrime, bile e paura.
Lei mugugnò qualcosa.
«Sta' zitta, stupida!», strillai in preda al panico. Sentivo delle sirene in arrivo, ma erano lontane, troppo lontane. «Mio Dio, che cosa hai fatto?».
«Vada ad aprire il portone, signora Caron», disse con voce baritonale il vicino di casa, scrollando i capelli lunghi e brizzolati nel tentativo di levarseli da davanti agli occhi.
La donna, la signora Caron, smise di urlare solo perché dovette correre di sotto. Non passò molto prima che sentissimo passi affrettati sulle scale.
Non volevo lasciarla: quando un ragazzo con una tuta catarifrangente si chinò al mio fianco e fece per staccarmi le mani dal suo braccio opposi resistenza. Alla fine mi strinse e mi sollevò di peso per togliermi di torno, scaricandomi in corridoio. Feci per tornare in bagno, ma l'inquilino di Bette mi fermò.
«Si calmi, signorina», mi blandì con un sorriso dolce. «Coraggio, sediamoci».
Mi accorsi solo allora di quanto fossi stanca. Scoppiai in singhiozzi e mi accasciai a terra.
«Come si chiama?», mi fece lui per distrarmi. «Io sono Alec Fabre e lei è Amanda Caron. Quanti anni ha? Vuole che chiamiamo qualcuno?».
Non risposi a nessuna delle loro domande, limitandomi a piangere forte, fino ad avere male alle tempie e allo stomaco. Non riuscivo a pensare a niente che non fosse tutto quel sangue.
Mi sentivo lurida, sporca anche dentro, non solo sulla pelle. Puzzavo di quella roba che Bette aveva lasciato uscire dal proprio corpo e quell'odore era tremendo, era ovunque e non c'era modo di scacciarlo. Mi faceva una paura tremenda. Tutto quello sporco, in bagno, su di me, su Bette. Dovevo pulire tutto, dovevo davvero farlo. Bisognava che tutto tornasse ad essere pulito e senza odore.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28. ***


Nda: Ciao amiconi! Come va? In questa giornata uggiosa pubblico il 28esimo capitolo della storia, sperando di rallegrarvi la giornata! Aspetto con impazienza le vostre recensioni e vi ringrazio per la vostra assidua frequentazione <3
La storia è naturalmente anche su Wattpad e invece io sono anche su Gaiman in the T.A.R.D.I.S. :)



Capitolo 28.

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In ospedale mi diedero un calmante piuttosto forte e rimasi afflosciata su una poltroncina in corridoio per qualche ora. La signora Caron, la donna del condominio di Bette, si offrì gentilmente di restare con me, ma ero troppo rincoglionita dal valium per dirle di sì e dopo un po' di tempo se ne andò.
Quando mi ripresi telefonai a mia madre, ma non fu come avevo pensato. Credevo che avrei avuto bisogno di conforto, invece scoprii di avere una gran voglia di fare qualcosa, una cosa qualunque, ma che fosse impegnativa e difficile in modo da distrarmi il più a lungo possibile. Così riattaccai in pochi minuti.
È strano come mi stessi di colpo rendendo conto di aver bisogno soltanto di un po' di silenzio. Non chiedevo altro, volevo solo che gli infermieri e la dottoressa che mi imbottì di valium chiudessero quelle bocche inutili. Volevo andare a casa, staccare internet e telefono e stare zitta.
Il mio maglioncino era pulito, protetto dal mio cappotto, quindi avevo solo qualche alone scuro sui jeans. Immagino che, con un viaggio in tintoria, avrei potuto salvare il mio povero, lezioso cappottino, ma la verità è che non volevo farlo. Anzi, avrei voluto dargli fuoco. Non avrei mai più avuto la forza di indossarlo in ogni caso. Per proteggermi dal freddo il signor Fabre mi aveva portato un giubbotto dall'armadio di Bette e io ci navigavo dentro, ma mi andava bene lo stesso. Finché rimasi in ospedale non ebbi nemmeno la necessità di tenerlo addosso.
Quando l'effetto del valium si esaurì del tutto mi dissero che potevo andare a casa e mi diedero il biglietto da visita di uno psicologo indipendente che aveva il suo studio lì nell'edificio.
«Vorrei prima parlare con Bette, per favore», rantolai con voce roca mentre gettavo il biglietto da visita nella carta straccia. Non avevo bisogno di uno psicologo, semmai di un buon pasticcere: prevedevo di annegare il mio dispiacere nelle meringhe.
L'infermiera davanti a me era molto carina, cicciottella e dall'aria gentile. Si vedeva lontano un chilometro che avrebbe dato via l'utero pur di non dirmi di no. Ma il dovere è il dovere.
«Mi dispiace, ma non so se è il caso», spiegò. «L'orario di visite è finito mentre dormivi sulla sedia. Se tu fossi un congiunto potresti rimanere, ma così...».
«Senta», dissi stancamente, «mi creda quando le dico che vorrei disperatamente andare a casa. Voglio farmi una doccia e starmene in pace per un po'. Ma è importante per me vederla».
Scosse il capo. «Non posso proprio farti passare, mi dispiace tanto. Ma la tua amica è in ottime mani». Mi vide esitare, così aggiunse: «Sono ore ormai che non è in pericolo di vita, da quando siete intervenuti in casa sua. Sta' tranquilla, non si muoverà da qui tanto presto e domani potrai stare con lei dalle nove alle dodici e dalle tre e mezza alle sei».
Domani. Domani avevo il cazzo di turno al Gitem. Otto orrende ore. Dove avrei trovato il tempo di stare con Bette? Scossi il capo, sospirando.
«Ok, grazie lo stesso».
«Sai come tornare a casa?».
«Sono una donna che lavora, non ho sette anni», sbottai. Mi sentii molto in colpa dopo, lei aveva solo cercato di essere materna, ma il livello di sociopatia nel mio sangue era aumentato esponenzialmente dopo la fine dell'effetto del valium.
Presi il mio cappotto da buttare, mi avvolsi nell'enorme giacca di Bette, mi trascinai fuori dall'ospedale e chiamai un taxi. Arrivai a casa nel giro di quaranta minuti.
Feci come avevo previsto: spensi il cellulare, strappai brutalmente dal muro tutti i cavi che potessero connettermi anche solo vagamente con il mondo esterno e alla fine, quando mi sedetti su una sedia, l'unico suono che sconquassava l'etere era il ticchettio dell'orologio in salotto.
Non so per quanto tempo io sia rimasta immobile. Fuori era buio, c'erano i fari delle auto che si riflettevano dalle finestre. La luce del lampadario della cucina mi faceva male agli occhi, anche se non ero del tutto certa di avere ancora una vista funzionante: i contorni del mio campo visivo erano deformati, vibranti, come se stessi sognando o fossi nel pieno del peggiore calo di zuccheri mai visto. Avevo le mani strette sulle ginocchia e mi sembrava di fluttuare, come se la sedia si stesse muovendo in una grossa bolla nel mare.
La mia mente era insolitamente sgombra e la prima cosa che pensai fu che avrei proprio dovuto alzarmi e andare a dormire, perché il Gitem Euronics non aspetta nessuno e proprio non volevo sorbirmi i commenti di Sophie la Stronza sulla mia “vita notturna esagitata”.
Chissà se avrei dovuto dir loro di Bette. Immaginavo che sarebbe stata parecchio tempo lontana da lì, non avevo idea di quanti giorni l'avrebbero tenuta in ospedale, né di cosa avrebbe fatto dopo. Magari aveva dei parenti da cui stare per un po'. O magari avrebbe finito per riprovarci e ci sarebbe pure riuscita, ad ammazzarsi.
Mi mossi rigida come una specie di droide e andai in bagno. Mi spogliai, entrai nella vasca e tirai la tenda, aprendomi in testa un getto di acqua ghiacciata.
Rimasi accovacciata nella vasca per un po', l'acqua che continuava a rimbalzarmi sulla nuca, le ginocchia strette al petto. Fregai via tutto con una spugna orribile, abrasiva, strappandomi anche la pelle sulle gambe e su un braccio. Alla fine avevo più tagli e segni che pelle bianca, ma era giusto così. Dovevo ritornare ad essere pulita, non potevo tollerare quell'odore e quella sensazione di sporcizia.
Mi trascinai in camera, mi sedetti sullo sgabello alto, con un piede agganciai il cavalletto per avvicinarmelo e quasi ci scagliai sopra una tela. Non che volessi dipingere, dovevo proprio dormire.
Non ero io a muovermi, era qualcun altro, e sapete cosa? Mi stava bene. Mi sentivo come se nulla potesse fare la differenza. Dormire, non dormire. Mangiare, non mangiare. Dipingere o non farlo. Non aveva senso, proprio non c'era nulla che avesse senso.
Preparai i colori senza nemmeno guardare, tanto quanto mi poteva importare? Intinsi il pennello e, lo sguardo vacuo, iniziai a passare delle pennellate sulla tela. Era come se lo facessi a caso, un po' come scarabocchiare sull'elenco del telefono. Muovevo il braccio senza nemmeno guardare quello che stavo disegnando.
Solo alla fine sollevai lo sguardo, con la stessa enfasi con cui avrei fissato un quarto di bue in macelleria, ovvero con nessun interesse.
Era una stanza molto scura, di un color vinaccia tendente quasi al nero. La tempera era schizzata un po' dappertutto, quindi quell'enorme macchia non era ben definita. Era come se fosse sangue, era ovunque e aveva sporcato la mia pulitissima e perfetta tela bianca. In mezzo a tutto quel marcio c'era una macchiolina giallo limone, che se ne stava timidamente appostata come se avesse paura di disturbare.
Intinsi il pennino nella china. Mi ricordai che una volta avevo visto un film in cui una ragazza si era suicidata accendendo l'auto in garage e un tizio aveva commentato dicendo: “C'est la vie”. L'avevo trovato stupido, quella non era la vita, era un incubo orribile. Avvicinai il pennino e scrissi in bella grafia “C'est la morte!”. Poi firmai.
Credevo che sarei stata arrabbiata. Furiosa. Oppure che mi sarei nascosta dietro un muro di sarcasmo. O ancora che avrei telefonato piangendo a tutti coloro che fossero disposti ad ascoltarmi. Ma tutte e tre le opzioni prevedevano che io aprissi la bocca per parlare e che dovessi anche ascoltare le risposte. Io volevo solo un po' di silenzio.
Così rimasi a fissare il mio quadro senza realmente vederlo per quelle che mi parvero ore, finché la mia schiena non mi lanciò un ultimatum e il pennino non mi scivolò dalla mano inerte e assonnata, macchiando il pavimento di china. Allora mi sdraiai sotto le coperte con addosso solo i calzini.
Mi addormentai subito, strano a dirsi ma non ebbi problemi a prendere sonno. Né dovetti subire la visione della vasca insanguinata di Bette nei miei incubi.
La mattina dopo andai al lavoro come al solito. In assenza di Manuel e Bette ero sempre parecchio immusonita, quindi nessuno notò la differenza. Passai lì la mattinata e consumai il mio pasto portato da casa appollaiata sul nostro divano nel magazzino. Poi finsi di sentirmi terribilmente male, minacciai conati di vomito davanti a un paio di clienti e alla fine fu Sophie a chiedermi se non volessi per caso andare a casa.
Mi tolsi la divisa e andai in ospedale, ma prima passai dal mio appartamento a prendere alcune cose.
Con la luce del giorno l'Hôpital Lariboisière non era molto più piacevole rispetto alle ore notturne. Oh, certo, il giardino all'italiana e tutta la pomposa eleganza architettonica avrebbero avuto un enorme fascino su di me se non fossi stata in visita a un paziente, ma l'interno era fastidiosamente simil Grey's Anatomy. Terribile.
Mi feci spiegare come raggiungere la stanza di Bette dal tizio al banco dell'accettazione. Ero quasi tentata di tornare indietro e scappare, ma per qualche ragione decisi di non farlo. Strinsi il pacchetto al seno e marciai fino alla mia meta.
La porta della camera da letto era aperta. Feci capolino all'interno e vidi che Bette era sveglia, seduta sul letto inclinato. Era coperta dal lenzuolo fino al mento, il tubicino della flebo che spariva al di sotto delle coltri. Nel letto di fronte c'era qualcuno, ma la tenda divisoria era tirata.
Bussai delicatamente, appoggiata allo stipite.
Bette si voltò di scatto verso di me. «Oh, no».
«Ciao anche a te».
Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Léo...».
Sollevai una mano per interromperla. «No, Bette, non serve che tu mi dica niente. Immagino che non abbiano fatto altro che chiederti il perché da quando sei qui, perciò se non vuoi dirlo a me lo capisco».
Lei abbassò la testa e non rispose.
Mi sentivo letteralmente in prestito. Me ne stavo lì sulla porta, senza azzardarmi ad entrare, ma neanche ad uscire, senza sapere dove mettermi. Bette non riusciva nemmeno a guardarmi.
Era come la storia dell'elefante nella stanza: tutti sanno che c'è, ma nessuno osa parlarne e tutti fanno finta che non esista. Ciò che era accaduto a Bette era talmente grave che entrambe avremmo voluto fingere di non saperlo.
Mi chiesi se non fosse per caso colpa mia. Non avevo mai detto a Bette che sapevo dei suoi psicofarmaci. Chissà, forse se gliene avessi parlato avrei saputo il vero motivo per cui li prendeva e magari anche come aiutarla.
«Quello che è successo», disse Bette all'improvviso, «non è stata colpa di Henri. Certo, lui è stato davvero uno stronzo, ma la reazione che ho avuto è stata un mio problema».
Finalmente mi decisi ad entrare. Posai le cose che avevo portato sul tavolino e presi una sedia. «So della venlafaxina».
«Come? E da quando?».
Mi strinsi nelle spalle. «Da un po'. Bette, io capisco che tu abbia voluto tenere per te questa cosa, lo capisco davvero. Però...».
Scese il silenzio. Però cosa? Però non avresti dovuto cercare di squarciarti le vene, Bette. Però proprio non avresti dovuto voler morire, Bette. Però non avresti dovuto permettere che ti trovassi io, Bette. Però, Bette.
«Dopo pranzo, ieri, ho voluto fare una sorpresa ad Henri nella ditta dove lavora», spiegò con un filo di voce. «Col senno di poi avrei dovuto pensarci che forse lo stavo disturbando. Comunque arrivata lì ho trovato una donna con un ragazzino».
La fissai in silenzio.
«Non ho capito subito che erano la moglie e il figlio, insomma, poteva essere una signora che voleva far riparare la caldaia. Solo una cliente».
«Come lo hai scoperto?».
«Entrambe ci aspettavamo qualcosa da lui, un bacio o una carezza. Ma Henri doveva scegliere chi di noi due deludere ed è ovvio che abbia scelto me. Lo capisco, certo, lì c'era anche suo figlio e capisco che non abbia voluto fare un casino. Quando sua moglie se n'è andata lui l'ha baciata».
Credevo mi sarei mostrata più sorpresa, ma avevo raggiunto uno stadio zen dell'apatia. «Tu cosa hai fatto?», domandai. «Lo hai sputtanato, almeno?».
Scosse il capo. «Non potevo. Ero così scioccata che non sono riuscita a muovere un muscolo. Credo che la sua famiglia non abbia mai sospettato che lui avesse un'altra donna, perché prima di uscire mi hanno salutata. Non con malizia, eh, con cortesia».
Mi sfilai le scarpe e appoggiai i piedi sul materasso, vicini ai suoi, ma non riuscii a dire molto altro.
Fu lei a continuare. «Sono scappata via. Ero incazzata nera, credo, non lo so. Non so cosa stessi provando, io... Penso di averlo dimenticato».
«Ecco perché non voleva conoscere i tuoi amici».
Bette fece una smorfia e abbozzò un timido sorriso. «Già, dovevo capirlo».
Mi guardai intorno: la stanza sembrava abbastanza accogliente, considerando che si trattava pur sempre di un ospedale. Ma sembrava a posto, l'unica cosa che mi diede fastidio fu il poster con un bambino felicissimo di farsi imbottire di sedativo. Era inquietante.
«Spero solo che non ti trattino come una squilibrata», commentai. «Non è certo quello di cui hai bisogno, no?».
«Oh, no, sono molto gentili».
«Il medico che ti prescriveva la venlafaxina...».
Mi interruppe. «Non avrei dovuto prendere quella roba per così tanto tempo», affermò. «Ho parlato con una psichiatra e con un neurologo, che mi hanno spiegato che dovrò smettere di prenderla gradualmente secondo le loro istruzioni». Si agitò sotto il lenzuolo. «Quando sarò fuori voglio contattare un legale e vedere cosa si può fare».
Non sono un'esperta di mala sanità. Non so quanto avrebbe potuto servire allo scopo l'intervento di un avvocato. Non dissi niente.
«Però in parte è anche una mia idea fissa», aggiunse sospirando. «Il suicidio, voglio dire. Anche prima che iniziassi con la venlafaxina. Soprattutto da ragazzina, mentre andavo a scuola. Diciamo che l'Efexor ha solo dato una spintarella alla mia voglia di morire».
Restammo di nuovo in silenzio. Fuori sentivamo l'ospedale che si dava da fare, i medici che passavano davanti alla porta discutendo un caso, un'infermiera che chiacchierava con un paziente in sedia a rotelle. Squillò un telefono. Dalla finestra entrava una luce grigia, temporalesca. Esplose un tuono.
«Come vanno le tue braccia?».
Bette fece un risolino ben poco allegro. «Oh, di merda. Veramente di merda. Se mai vorrai spegnerti la luce, Léo, oltre a fare in modo che ti riesca cerca anche di non danneggiarti troppo».
Non capii cosa intendesse. «Eh?».
Agitando le spalle, Bette sfilò lentamente le braccia da sotto la coperta e mi mostrò gli avambracci avvolti in un bendaggio pulito. «Non temere che possa dimenticarmi di questa storia, Léo, perché non potrò mai più farlo». La sua voce, da triste e dimessa, era d'un tratto arrabbiata. «Ti farei anche vedere, ma non sarebbe certo un bello spettacolo».
«Bette, mi dispiace». Non sapevo bene di cosa dispiacermi, al di là del suo tentato suicidio, perché non capivo in che modo i danni che si era causata potessero essere permanenti. «Che cosa è...».
«Cos'è successo?», sbottò lei. Mi sorprese quel cambio di umore così immediato. «Ieri pomeriggio, quando mi hanno portata qui in ambulanza, mi hanno subito mandata da un chirurgo. Pare che io mi sia recisa i tendini dell'avambraccio, perché passano sotto i legamenti del polso. In sala operatoria hanno dovuto ripescare i due lembi dei tendini e riattaccarli».
Non mi ricordavo niente dalle lezioni di anatomia umana al liceo, in parte perché ero piuttosto negata e in parte perché in effetti non me ne importava più di tanto. Però tutti abbiamo presente come sono fatti i nostri muscoli e i tendini. Quando doveva aver sofferto, nel fisico, per quel gesto così estremo?
«Nella mano sinistra mi è andata abbastanza bene, l'unica cosa permanente sarà la cicatrice data dall'operazione. Nella destra pare che io mi sia danneggiata il nervo mediano».
Era come sentir parlare in swahili. «Il nervo mediano», ripetei annuendo. «Sicuro».
«È quello che ci serve per muovere il pollice».
Non era stata Bette a parlare. In un altro momento avrei riconosciuto quella voce molto prima di voltarmi e vederlo, ma in quella situazione di merda era già tanto se riuscivo a capire dove mi trovassi.
Mi girai verso la porta e vidi George Addison, il cappotto con gli alamari sbottonato e un mazzo di peonie in mano. Mi fissava come se non si aspettasse di trovarmi lì con Bette, quando in realtà era sorprendente che ci fosse lui.
«Ehm», risposi.
«Quello che intendo dire è che forse Bette non potrà più muovere le dita come prima», continuò lui entrando nella camera e sedendosi su un'altra sedia, al di là del letto rispetto a me. Prese una bottiglia di Perrier dalla borsa a tracolla e vi mise dentro i fiori, appoggiandoli sul comodino.
Lei confermò annuendo. «Niente più pollice opponibile del cazzo, due milioni di anni di evoluzione umana buttati nel cesso».
Era più spaventoso di quanto potessi credere, così terribile che mi dimenticai perfino di chiedermi perché George fosse lì con Bette.
Quante cose facciamo col dannato pollice opponibile? Praticamente qualsiasi cosa. Bette non avrebbe più potuto fare tutto in casa, né fare qualsiasi tipo di lavoro. Per i primi tempi avrebbe probabilmente sofferto parecchio dolore alla mano.
«Oh, mio Dio».
«Esatto», berciò lei. «Oh. Mio. Dio».
«Bette», fece George accavallando le gambe, «che intenzioni hai dopo questo?».
Lei fece spallucce. «Non lo so ancora. Penso che prenderò le cose come vengono per un po' di tempo, forse andrò in terapia da qualche parte». Assunse un'espressione scettica e indicò il suo comodino con un cenno del capo. «Stamattina è venuta la psicologa a lasciarmi degli opuscoli», spiegò. «Sono pieni di dati. Di numeri e di percentuali. Quanta possibilità c'è che io ci riprovi nel giro di un anno, quanto è importante il sostegno della famiglia... Mi sento come se fossi infetta. Come dicevi tu, Léo, almeno non pensano che io sia matta da legare. Vogliono solo curarmi».
George sollevò le sopracciglia. «Ma...?».
«Ma non mi serve nemmeno che vengano qui a farmi la lezione sul perché ho fatto una cazzata», sospirò. «Mi hanno dato una spiegazione con tanto di diagrammi a torta».
«Hai qualcuno con cui stare, quando sarai fuori?», domandai. «Un parente?». Mi aveva detto che sua madre era morta quando era una ragazzina, ma doveva avere un padre o una nonna o un cugino di quarto grado disposto ad ospitarla.
Lei annuì. «Mia zia abita a Trouville, proprio sulla spiaggia», rispose con un mezzo sorriso. «Le ho telefonato stanotte. Ha detto che posso stare con lei».
George si passò una mano fra i capelli ed il suo odore letteralmente mi investì. Secondo me Bette non lo sentì neanche vagamente, forse erano le mie narici ad essere ipersensibili all'Eau de George Addison.
«Penso che mi trasferirò lì», continuò Bette. «A Trouville, dico. Cercherò un altro lavoro. Non voglio stare a casa di mia zia per tutta la vita, quindi prenderò un appartamento, ma non voglio nemmeno rimanere qui a Parigi. Non ce la farei».
Feci per rispondere quando un infermiere entrò nella camera. Ci sorrise. «Scusate, ragazzi, ma devo portare la vostra amica di sotto per un controllo neurologico».
George ed io ci alzammo all'unisono. Mi avvicinai al tavolo e presi le cose di Bette.
«Ti ho riportato la tua giacca», spiegai prendendo una gruccia dall'armadio per appenderla. «E dato che non so quanto ti fermerai qui ti ho portato dei libri da leggere. Spero ti piacciano i gialli di Claude Izner, trattameli bene».
Bette annuì con un sorriso dolce. «Grazie. Nel pacchetto grande cosa c'è?».
«Aprilo dopo, è un regalo».
Non volevo dire cosa fosse davanti a George e all'infermiere. Non volevo spiegare come mai, invece di riposarmi, avessi trascorso la notte a dipingere. Né volevo che si sapesse quanto mi avesse davvero sconvolta quella situazione.
«Grazie per i fiori, George, amo le peonie».
«Figurati».
Mi avvicinai al materasso e le diedi un bacio sulla fronte. «Non ti forzerò a parlamene», sussurrai, «sappi solo che sono sempre a tua disposizione e che ti voglio bene. Farò tutto il possibile per aiutarti».
George ed io uscimmo. Restammo in silenzio in corridoio, in ascensore e nell'atrio, attraversammo il cortile nell'aria fredda e scura dell'autunno alle porte, i lampi del temporale in arrivo come unica compagnia.
Avevo capito perché Bette non mi aveva detto che erano rimasti amici: sapeva che per me sarebbe stata una fonte di imbarazzo e di ansia. Anche con i suoi problemi era riuscita a pensare agli altri e a fare in modo che George ed io stessimo lontani. Ci voleva davvero molto bene.
Non era la prima volta che ci incrociavamo, come vi dicevo, ma non avevamo avuto l'intenzione di scambiarci qualche parola da un sacco di tempo. Invece, mentre aspettavamo un autobus che ci riportasse in centro, c'era tra di noi quella strana sospensione, come se entrambi stessimo cercando disperatamente qualcosa da dire.
Il primo a parlare fu lui. «Beh».
«Beh», risposi io.
«Sono rimasto in contatto con Bette per via dell'Efexor», mi spiegò. «Te lo dico nel caso te lo chiedessi».
«Non me lo chiedevo, ma sei stato carino a volerlo specificare».
Era una conversazione abbastanza stupida. Due sconosciuti farciti di imbarazzo. La cosa, però, mi impensieriva relativamente. Con quello che avevo visto il giorno prima mi importava poco.
«Beh», dissi io per la seconda volta, «visto che comunque non siamo amici non ha molto senso che rimaniamo qui a parlare, penso che chiamerò un taxi».
Feci per andarmene, ma la sua mano si insinuò nella mia e porco demonio ladro giuro che fu come se non fosse passato nemmeno un giorno. Come se fossimo ancora l'Amante e la Puttanella di un anno e mezzo prima. La sua pelle era ancora morbida e calda, il suo profumo era lo stesso. Come se non fosse successo il finimondo, come se nulla fosse.
Mi fece incazzare da morire.
«Léo, aspetta un secondo».
Mi voltai verso di lui e quasi strappai via la mano dalla sua, incrociando le braccia al petto e guardandolo con quella che speravo fosse un'aria di sfida. «Dimmi», sibilai a denti stretti.
«No, io...», balbettò. «Non so. Io...».
«“Non so io” cosa?».
«È che mi manchi».
Quella frase mi fece imbestialire ancora di più. «Ah, adesso ti manco? Adesso ti manco, stronzo?».
Abbassò lo sguardo, un po' colpevole, con quella faccina da cucciolo di foca che mi aveva fatta perdere la testa. Le sue labbra erano invitanti come non mai, avrei voluto morderle fino a farlo urlare.
«Sì, lo so che sono un po' fuori tempo massimo», rispose seccamente. «Che posso dire? Mi manchi per davvero. Ti penso spesso e ora volevo solamente dirtelo, non pretendo certo una risposta da te».
«Io ti amo, piccolo inglese bastardo, ma non ho più bisogno di te! Non mi servi!».
Calò un certo silenzio, a parte le auto nella rotonda davanti all'ospedale. Non mi importava più di quello che poteva pensare di me, ero arrabbiata e lo avrei spinto sotto una delle ambulanze molto volentieri, tanto era a un tiro di schioppo dal pronto soccorso. Non mi importava nemmeno di averglielo detto. Mi rendo conto che non era una dichiarazione molto romantica e anche che era la prima volta che glielo dicevo. Mi era sgorgato dalle labbra come per natura, come fosse nella mia indole aprirmi in quel modo.
Lui mi fissò per un po'. Per abbellire questa storia potrei raccontare che il suo sguardo era sorpreso, meravigliato, e che abbia risposto con un “Ti amo anche io!”. Invece non disse niente.
«Che cos'hai da guardare?», sbottai. «Vai via!».
George non si mosse, le mani in tasca e i capelli tutti agitati dal vento leggero.
«Sei sordo? La fermata dell'autobus è laggiù!».
A quel punto scattò in avanti e mi baciò.
Mi ritrovai a ricambiare quel bacio rabbioso, un po' crudele, pieno di denti e di lingua, un bacio che ne chiedeva ancora, ancora, ancora, sempre di più. Un bacio famelico e desideroso, arrabbiato, pieno di tutto il rancore trattenuto e di tutta la voglia che ci agitava dentro. Con le mani mi stingeva a sé come se volesse schiacciare i nostri cuori, le dita che mi trattenevano per impedirmi di andarmene – come se potessi volerlo fare. Ma ero io a condurre il gioco, questa volta dovevo avere io il controllo, non avrei accettato nulla di diverso, nulla di meno.
Non ricordo come abbiamo fatto ad arrivare a casa mia, ma mi ricordo bene della sensazione di ghiaccio sulla pelle quando la mia schiena nuda si scontrò con la parete. E mi ricordo del caldo soffocante, del sudore, della saliva e dei morsi sul mio collo, della sua voce che all'apice del godimento proprio non riusciva a parlare in francese e mi ricordo di me, che gli avrei impedito di allontanarsi di nuovo.
Perché la differenza rispetto alle altre volte era che, se fosse andata male, sapevo che sarei sopravvissuta. Sapevo che la vita è bella e che vale davvero la pena di essere assaporata, con o senza George a farmi da rete di sicurezza. Stavolta avrei potuto dargli tutto il mio cuore perché non avevo più paura che potesse farlo a pezzi.

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Capitolo 29
*** Epilogo. ***


Nda: Wow. Alla fine ci siamo: l'epilogo della storia. Cliccare la casella "Completa" è stato difficile. Sono passati soli otto mesi da quando ho iniziato la pubblicazione, ma questa long si tira dietro il finale da anni. Non era mai perfetto, mai adatto, mai abbastanza. E anche ora che è scritto, anche ora che mi sono ripromessa di smettere di rimaneggiarlo rimane la nostalgia. Rimane il dubbio. Inutile negarlo, Léo mi mancherà: pur essendo diversa da me, è comunque una parte di me. Léo è ciò che non vorrei mai essere, ma è anche il cambiamento che a volte mi tocca affrontare. Me la porterò sempre dietro, anche quando sarò passata ad altri argomenti, ad altre storie. Lei è in un certo senso la prima dei miei personaggi ad aver avuto un lieto fine e anche una dei pochi ad aver avuto, in generale, una fine. Per me è un passo in avanti.

E in questo passo non posso dimenticarmi di ringraziare tutti coloro che hanno seguito la storia qui e su Wattpad, tutti i lettori che con recensioni, messaggi privati, registrazioni vocali deliranti su whatsapp o anche con semplici likes mi hanno convinta che forse non stavo facendo un casino, che forse Léo era almeno un po' interessante e che da qualche parte, per qualcuno, la storia era importante. Siete stati per me più di lettori e amici: siete stati ciò su cui ho basato la mia perseveranza. Perciò vi dico grazie, dal profondo del cuore.

Chiedo scusa se a qualcuno questo epilogo sembrerà breve, se non sarà soddisfacente o se non sarà ciò che avreste voluto. Non è perfetto, è vero, non è la conclusione brillantemente artistica che avrei desiderato che fosse. Ma nemmeno Léo ed io siamo perfette: perdonateci.

P.S. per chi volesse, eccovi l'elenco dei prestavolto dei personaggi principali (avevo intenzione di creare una gallery ma oggi il servizio di upload fa schifo, magari lo farò in seguito):
Léo: Cameron Richardson; George: George Blagden; Marie: Kat Dennings; Paul: Ben Barnes; Jeannot: Garrett Hedlund; Manuel: ammetto che non ha un prestavolto, se non volete considerare un mio compagno di corso di cui non conosco il nome o altro; Bette: Melissa McCarthy.


Epilogo.

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Abbiamo abitato a Parigi per un po' di tempo. Un anno, mese più mese meno. Poi Léo è stata licenziata, ma non ne se n'è poi preoccupata troppo: anzi, sembrava quasi che le avessero fatto un favore, come se avesse bisogno di una scusa per andarsene.
È stata la sua fortuna, quel licenziamento: ha avuto il tempo necessario per mettere insieme questo libro.
Non pensava che sarebbe stato pubblicato sul serio. Io ero molto più ottimista: lo sono sempre quando si tratta di lei, credo che possa fare tutto quello che vuole. Non lo dico perché è la mia compagna, o almeno non solo: lo dico perché è vero. È molto determinata, soprattutto ultimamente – soprattutto dopo quello che è capitato a Bette – e in un modo o nell'altro riesce sempre a portare a termine i suoi scopi. Mi riempie sempre di gioia vederla soddisfatta.
Chiaro, il libro non è ancora diventato un bestseller: per questo ci vorrà ancora molto tempo e forse non lo diventerà mai. Però Léo è felice e lo sono anche io.
È stato molto difficile scriverlo per lei. A voler essere del tutto onesti lo è stato anche per me. Rivivere certe emozioni non piace a nessuno e, nel nostro caso, ha portato a molte discussioni rimaste in sospeso per troppo tempo. Ho scoperto cose che non sapevo. Rinfacciarci le cose è stato inevitabile. Dopotutto lei è molto orgogliosa, mentre io non lo sono abbastanza.
Forse ai lettori farà piacere sapere che abbiamo trovato un buon equilibrio, noi due. Riusciamo a sostenerci a vicenda senza diventare opprimenti. Stiamo vicini senza infastidirci. Ci amiamo con discrezione, senza fretta e senza curarci troppo di quello che la gente potrebbe pensare.
Dopo che il manoscritto di Léo è stato approvato dalla casa editrice ci siamo presi una vacanza e siamo stati per un paio di settimane in Italia dai suoi genitori. Mi piacciono molto entrambi, anche se a volte suo padre insiste perché gli dica se alle ultime elezioni ho votato David Cameron oppure no.
È stato un modo strano di presentarmi ai suoi. Credo che abbia cercato di proteggere la nostra relazione da occhi indiscreti. Credo che avesse paura che, se avessimo fatto i fidanzatini innamorati in visita ai suoceri, avremmo potuto rovinare tutto. Sono potenzialmente d'accordo, quindi abbiamo mantenuto un basso profilo. Ma so che era felice che io fossi lì, non lo ha mai detto ma io lo so.
Rientrati a Parigi ho dato le dimissioni al vecchio proprietario del negozio dove lavoravo, il signor Masson. Non è stato un vero salto nel buio, perché avevo già un contratto firmato: le mie foto hanno vinto qualche concorso ed ora lavoro per Arena Homme +, una rivista di moda maschile. Non è la mia massima aspirazione, chiaro, preferirei di gran lunga un impiego per il National Geographic, ma non mi lamento. Un passo alla volta. E poi i miei video vanno alla grande.
Poi una sera Léo è venuta da me con una proposta: venire a vivere in Inghilterra.
Sul momento non ho dato peso alla cosa, era un'idea campata in aria. Solo dopo qualche tempo ho capito che diceva sul serio. Léo è innamorata di Parigi, forse più che di qualsiasi altro posto, ma credo avesse voglia di un cambio d'aria. Io, dal canto mio, lo confesso: restavo a Parigi solo per lei, perché sapevo che lì era felice. Quindi abbiamo iniziato a mettere via dei soldi per una casa.
Sul momento credevo volesse andare a vivere a Londra ed avevo già pronto un elenco di mille e più motivi per cui non era una buona idea. Lo smog, il traffico, cose così. Ma lì c'è ancora Marie e, se avesse voluto vivere vicino a lei, sarei stato pronto ad accettare – con qualche condizione, non sono un totale zerbino.
Un pomeriggio lasciò il portatile aperto e per caso notai che stava guardando un sito di un'agenzia immobiliare. Così capii che era il momento e iniziammo ad impacchettare tutto.
Passammo del tempo dai miei genitori. Credo che Léo fosse terrorizzata all'idea di convivere con una famiglia così grande. Mi spiego: lei è figlia unica, non ha cugini e, tolti i suoi genitori, l'unica altra parente è una zia. Io ho un fratello sposato e con una figlia, tre zii con relative mogli e figli e una specie di arsenale di amici che passano più tempo da me che a casa loro. Mi rendevo conto che era un cambiamento di un certo tipo. Lei, però, si è adattata immediatamente. In parte lo ha fatto per me, ma in parte credo le piacesse.
Abbiamo preso una casa a York. Un appartamento che, sono fiero di dire, non è in affitto. Non so se passeremo qui la nostra vita, ma ci piace. È luminoso, c'è tanto spazio e, soprattutto, lo abbiamo fatto insieme. Abbiamo deciso insieme in quale città abitare, abbiamo visto insieme le case che ci piacevano, abbiamo scelto insieme quale appartamento comprare.
Léo ha una stanza per tenere il suo materiale: ora ha due o tre cavalletti e un armadietto per tenere colori, pennelli, spugne e carboncini. Io ho il mio spazio per la chitarra, per i miei dischi e per tutta quella “roba per fotografare”, come dice lei.
È di questo che si tratta, di spazi: lo abbiamo capito dopo aver deciso di provarci sul serio. A ciascuno il suo metro quadrato di aria pulita, metaforicamente parlando. Questo non ci ha impedito di volerci bene negli ultimi tre anni.
Adesso Léo lavora: ha scoperto di avere un talento naturale per le piante e così ha aperto un negozio di fiori in centro. Certo, i suoi quadri si spostano in alcune mostre di artisti emergenti e lei ne è fiera e spaventata al tempo stesso. Ma ha deciso che la sua arte va donata, non venduta, e così tutti i soldi che guadagna con le mostre vanno in beneficenza attraverso un'associazione per la cura delle malattie veneree legata a Givenchy. Hey, si tratta pur sempre di Léo, anche la filantropia va fatta con un certo stile.
Tra un paio di settimane uscirà una sua intervista su Cosmopolitan per parlare di un suo dipinto. Io faccio avanti e indietro con la Francia per il contratto con il giornale, ma sto lavorando per chiedere il trasferimento. Direi che stiamo andando bene, nei limiti del possibile. Sappiamo entrambi che saremo famosi solo nell'ambiente in cui lavoriamo, sempre che la fama la raggiungeremo veramente. Ma va bene così e comunque non ci importa del giudizio altrui. A me non è mai interessato e Léo, come sapete, è cambiata molto.
Non abbiamo mai parlato di figli. È ancora piuttosto presto e forse siamo entrambi un po' allergici all'argomento. A dirla tutta non sono nemmeno sicuro che ne avremo mai.
Qualche volta però parliamo di matrimonio: una cerimonia intima, solo i parenti stretti e gli amici più fidati. Mi piacerebbe davvero sposarla e, anche se si finge inorridita all'idea, so che accetterebbe. Magari un giorno lo faremo davvero.
Marie e Jeannot sono tornati insieme per un breve periodo di tempo. Lei gli mancava più di quanto gli sarebbero mai mancati i suoi genitori e così hanno fatto un secondo tentativo di convivenza, ma hanno scoperto che non funzionava più. Entrambi erano cambiati troppo e ciò che era successo li aveva segnati in modo indelebile, non riuscivano a passarci sopra. Nessuno dei due riusciva a dimenticare. Alla fine si sono lasciati di nuovo, ma in amicizia, per quanto possibile. Marie ha trovato un vero principe, o meglio un quasi-marchese: un ragazzo che fa parte del ramo cadetto di una famiglia di pari britannici. Ma Marie è ancora romantica come una volta e del titolo se ne è sempre infischiata, amandolo per quello che è.
Manuel e Jacques si sono sposati non appena è diventato legale in Francia. Siamo andati tutti alle loro nozze. È stato quanto di più bohemien si sia mai visto da quando è stata sconfitta la tubercolosi: i genitori di Manuel sono due hippy fuori tempo e l'intera cerimonia è stata piuttosto alternativa, così come il ricevimento. Inutile dire che i genitori di Jacques non erano al settimo cielo.
Bette vive ancora a Trouville. Ha trovato un lavoro come edicolante ed ora sta bene. Ha seguito un programma di terapia con l'aiuto di uno psichiatra, di una neurologa e di un dietista. Ha perso quasi venti chili, anche se la sua mano destra non si è mai più ripresa ed ora fa fatica a fare molte cose. È decisamente una persona nuova, anche se è ancora molto chiusa. Ha lentamente rallentato i contatti; noi non l'abbiamo forzata, anche se la sentiamo molto poco lei sa che può contare su di noi.
Nicole è rimasta in Canada e non ne abbiamo saputo più niente, in pratica, mentre Max ha sputtanato parecchi soldi con uno scommettitore ed è sparito per un po'. I suoi genitori lo hanno aiutato e gli hanno trovato un impiego nelle loro industrie nelle Filippine, per tenerlo lontano da Parigi.
Léo ed io siamo finalmente felici. Non credevo che sarebbe stato possibile per due come noi, né che saremmo stati destinati ad arrivare fino a questo punto. Quella sera di Capodanno di ormai cinque anni fa non avrei mai immaginato che l'avrei amata più dell'aria che respiro. Che sarei stato disposto a morire per lei. O che qualcuno, chiunque, avesse il potere di rendere la mia vita così speciale. Ma è successo. Léo mi fa sentire più vivo, più sereno, perfino più sano. Non è stata una strada in discesa, ma è stata una strada.
Abbiamo tutti una strada nostra: dobbiamo solo essere pronti a deviarla per incrociare quella degli altri.


George Addison, York, 2016

 

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