Desmond Duncan - Game, set, death

di Desmond
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'albero genealogico ***
Capitolo 3: *** L'inizio della ricerca ***
Capitolo 4: *** La festa ***
Capitolo 5: *** Il quadro della famiglia si completa ***
Capitolo 6: *** La lezione di filosofia ***
Capitolo 7: *** Il filo spezzato ***
Capitolo 8: *** Il risveglio ***
Capitolo 9: *** Il signor Duncan ***
Capitolo 10: *** I primi, insicuri ricordi ***
Capitolo 11: *** L'agente Bryce Ward ***
Capitolo 12: *** La macchia bianca, la chiazza nera ***
Capitolo 13: *** Aggressione in ospedale ***
Capitolo 14: *** Ritorno a Londra ***
Capitolo 15: *** Thames House ***
Capitolo 16: *** Il passato e il futuro ***
Capitolo 17: *** L'addestramento ***
Capitolo 18: *** Il mio compleanno ***
Capitolo 19: *** Il test di idoneità ***
Capitolo 20: *** Agente Psycho, Sezione Delta ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Mi chiamo Desmond Duncan. O meglio, mi chiamano così. Il mio nome di battesimo è Darius Desmond Rogers. Sono nato il ventuno maggio millenovecentonovantuno a al London Bridge Hospital, a Londra. I miei genitori sono Amadeus Everett Rogers, poliziotto, e Ella Walker, docente universitaria. Ho anche un fratello maggiore, che ha sei anni più di me; si chiama Lucius Everett Rogers.

Ho molte passioni. Mi piace leggere, mi piace il teatro, mi piacciono i film. Mi piace lo sport, ma quello in televisione, non sono mai stato un granché come atleta sul campo. Seguo il calcio, e la mia squadra preferita, il West Ham United. Seguo anche il tennis, sono un tifoso accanito di Federer, anche se l’oro olimpico conquistato da Murray proprio contro lo svizzero l’ho festeggiato; per spirito patriottico, se non altro. Mi piace l’informatica, una passione contagiatami da mio fratello. Mi affascinano la filosofia, la musica e la storia. Già, la storia.

Ho dimenticato un piccolo particolare, che riguarda me, mio fratello, mio padre… e, da generazioni, la famiglia Rogers. Siamo tutti baronetti: il mio nome, ufficialmente, è Sir Darius Desmond Rogers. È un titolo ereditario, quindi lo passerò ai miei figli maschi, se mai ne avrò. Mi sono sempre chiesto il perché, e spesso lo chiedevo anche a mio padre. Mi raccontava sempre del suo bisnonno, al secolo Claudius Darwin Rogers, che fu un pilota dell’aviazione britannica durante la Prima Guerra Mondiale, e lì ottenne gli onori di Sir, dall’allora Re, Giorgio V. Ed è proprio così, per la curiosità di saperne di più sui miei antenati, su Claudius Darwin e discendenti, che iniziò la mia storia, nel 2012. Per caso.

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Capitolo 2
*** L'albero genealogico ***


Guardai l’orologio, segnava le 2:30. Essendo disoccupato, passavo la notte al computer, e mi svegliavo tardi la mattina. Stavo guardicchiando distrattamente delle foto su Facebook, quando un rumore catturò la mia attenzione. Era mio fratello, Lucius, che aveva appena aperto la serratura del nostro appartamento. Arrivò in camera poco dopo, e subito prese a farmi la paternale.

«Che ci fai sveglio a quest’ora?», mi chiese, quasi con tono di sfida.
«Lo sai. E poi, non venire a farmi la morale, proprio tu… dove sei stato?»
«Non sono affari tuoi – rispose con voce secca, mentre si sbottonava la camicia – comunque, ero al lavoro, niente di speciale», concluse sbadigliando. Non risposi. Sapevo bene che era molto riservato sul suo lavoro, chissà poi perché. Faceva il giornalista, o almeno così diceva, perché di articoli pubblicati a suo nome non ne avevo mai letti. Non che leggessi molti giornali, a dire il vero.
«Ricordi quando papà ci diceva del suo bisnonno, il pilota dell’aviazione militare?», domandai, per cambiare discorso. Sapevo che non gliene importasse un granché, infatti non aspettai una risposta, e continuai imperterrito. «Ho intenzione di scoprirne di più. Sulla nostra famiglia, dico. Conosci qualche posto per fare delle buone ricerche? Sei un giornalista, dovrebbe essere il tuo campo, no?». Rispose con un mugugno disinteressato, mentre si stava infilando il pigiama. «Non fare così, parla!», lo incalzai con un tono da bambino viziato, sperando di estorcergli qualche parola.
«Ho sonno, domattina la sveglia suona presto, per me. E vedi di andare a letto pure tu, o quantomeno spegni quel dannato computer. Buonanotte». Il suo tono non ammetteva repliche, e rinunciai a protrarre oltre la discussione, sarebbe stato inutile. Spensi il pc, e mi infilai sotto le coperte. Non riuscivo a prendere sonno. Se da una parte avevo accennato al discorso per un minimo interesse da parte mia, il mio vero obiettivo era di fargli rivelare qualcosa sul suo lavoro di giornalista. Ma non c’era stato verso. Faceva freddo, quella notte, era venerdì quattordici ottobre. Presi sonno, tra un pensiero e l’altro, che s’erano fatte le quattro del mattino.

Mi svegliai che mezzogiorno era passato. Andai in bagno a lavarmi velocemente la faccia e i denti, poi, di nuovo, seduto davanti al mio computer. O almeno, quella era l’idea. Qualcosa mi distrasse prima che lo accendessi. Una busta appoggiata sulla scrivania, con sopra scritto il mio nome. La aprii, lasciando scivolare fuori il contenuto. Un biglietto ferroviario, dalla stazione londinese di Stratford, diretto a Cambridge. E ritorno. Per me? Mi arrovellai un po’ sul perché, accorgendomi solo dopo che un foglietto di carta scritto a mano lo accompagnava nella busta, insieme a una bella banconota da cinquanta sterline. Lessi dunque il bigliettino:

Vai nella biblioteca dell’Università di Cambridge. Porta il pc e collegati al loro sistema informatico, così potrai scoprire qualcosa in più sulla nostra famiglia. Il database, in teoria, è accessibile ai soli studenti, ma nostra cugina Alyssa studia là, le ho mandato un sms per avvisarla del tuo arrivo. Falle gli auguri, è il suo diciottesimo compleanno. Con le cinquanta sterline, vedi comprarle un bel regalo da parte di entrambi. Ah, e stila un bell’albero genealogico, che la questione interessa anche me. Lucius.

Dannazione, mi aveva incastrato! Guardai meglio il biglietto, con partenza fissata per quel giorno, alle ore 13:30. Merda!, pensai. Dovevo correre, o avrei perso il treno. Mi preparai rapidamente, infilando alla rinfusa un paio di vestiti di ricambio nel mio zainetto, presi il pc, lo misi nello zaino con le altre cose, e via. Uscii di casa senza salutare mia madre, che di venerdì non aveva lezioni da tenere all’Università di Londra. Raggiunsi la stazione di Stratford. Distava pochi isolati da casa, abitavo in Kerrison Road, quindi decisi di andarci a piedi. Arrivai con venti minuti di anticipo. Tanto meglio per me. Guardai in giro, e scorsi un fioraio ambulante. Mi avvicinai per comperare dei fiori a mia cugina. Chissà quale fosse il suo fiore preferito. Optai per delle rose, vanno sempre bene. Chissà, poi, di quale colore le avrebbe preferite. Andai sul rosso, un classico. Diciotto rose rosse per il diciottesimo compleanno andranno bene, mi dissi mentre pagavo. Il fiorista mi salutò con un sorriso amaro. E mi diressi al binario 3.

Salii sul treno, e istintivamente misi la mano in una tasca dello zaino. Frugai un paio di minuti, finché non arrivai alla triste conclusione di aver dimenticato l’iPod a casa. Dannazione. Notai su un sedile vuoto una copia del Times abbandonata. Il titolo centrale parlava di un possibile attentato alla Regina. Tanto valeva leggerlo. Il treno iniziò a prendere velocità, i miei occhi iniziarono a scorrere sull’articolo.
 
Attentato a Sua Maestà?
Un comunicato stampa congiunto di Sir Jonathan Evans e Sir John Sawes, direttori generali rispettivamente di MI5 e MI6, allerta la sicurezza nazionale: Sua Maestà Elisabetta II potrebbe essere in grave pericolo. – arrivato qui, saltai qualche riga, e qualcun’altra non la ricordo, erano veramente noiose – Secondo le fonti, un pericolosissimo sicario belga si troverebbe in questo momento nell’est del Paese, probabilmente in una contea tra Suffolk, Essex e Kent. Le autorità competenti sono già all’opera per smascherare la spia; soprattutto, per capire qual è il movente che ha portato all’avvio di questa missione la Staatsveiligheid (“Sicurezza dello stato”, i servizi segreti belgi). In caso di attentato alla Regina, si rischierebbe una guerra di proporzioni quantomeno continentali, sebbene l’Inghilterra avrebbe dalla sua parte le nazioni del Commonwealth e gli Stati Uniti: Obama ha infatti espresso la sua vicinanza a Sua Maestà e si è dichiarato pronto ad aiutarla economicamente o, in casi estremi, militarmente. La Miltary Intellgence aggiornerà… – “intelligenza militare”, due parole che insieme non hanno senso. Saltai altre due o tre righe – Rimanendo in attesa di nuovi sviluppi, ecco quale situazione potrebbe profilarsi in caso di… – non lessi oltre, la notizia mi aveva scioccato di per sé, ma non mi interessavano particolarmente scenari da Terza Guerra Mondiale ipotizzati da un giornalista del Times. Guardai il suo nome.
 
L’articolo era firmato da un tale Gordon Cooper. La mia passione per la storia, soprattutto quella recente, mi riportava alla mente Leroy Gordon Cooper, astronauta della Nasa, ma di certo non poteva essere lui, dato che era morto nel 2004. Non mi ci arrovellai più di tanto, e gettai il giornale su un’altra poltroncina vuota, in attesa di arrivare a Cambridge.

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Capitolo 3
*** L'inizio della ricerca ***


Arrivai in un’oretta e mezza. Mi guardai intorno spaesato; non ero mai stato lì, a Cambridge, né nel Cambridgeshire. Mi fumai una sigaretta per ingannare l’attesa. Verso le tre e venti vidi sbucare mia cugina, venuta a prendermi. La salutai con un abbraccio, porgendole il mazzo di rose, tutto soddisfatto.

«Scusa il ritardo, ero a lezione di… – si interruppe dando un’occhiata più attenta al mio regalo – cosa? Dico: cosa?! Diciotto rose rosse?», il tono sembrava leggermente infastidito.
«Come? Non vanno bene? Non fai diciotto anni?», balbettai confuso.
«Certo che faccio diciotto anni, ma regalare un numero pari di rose dello stesso colore porta sfiga!», rispose, e le sue labbra si distesero in un sorriso. «Dai, andiamo, non puoi restare tutta sera in biblioteca: c’è la mia festa!»

Ci avviammo a piedi verso il campus universitario, quando un borbottio del mio stomaco mi ricordò che non avevo ancora messo nulla sotto i denti. Ci fermammo in uno di quei bar universitari, in Tenison Road. Un bar di quelli stracolmi di studenti che entrano, escono, ordinano, studiano, leggono, scrivono, bevono, mangiano, si siedono, si alzano. Un putiferio di azioni che facevano continuamente, tutti i giorni, probabilmente alla stessa ora. Il tutto silenziosamente, per quanto possibile. Entrano, escono, ordinano, studiano, leggono, scrivono, bevono, mangiano, si siedono, si alzano. Presi un panino, mia cugina prese un cappuccino. Pagai col resto delle rose, già che avevo dei soldi (anche se non miei) potevo permettermi di fare il galante. Entrano, escono. Ci sedemmo ad un tavolino, e iniziai a parlare. Il mio tono di voce doveva essere un po’ troppo alto per il ragazzo ben vestito seduto accanto a noi, che mi lanciò un’occhiataccia. Ordinano, studiano. Io e Alyssa chiacchierammo del più e del meno, rigorosamente a voce bassa. Mi disse che anche lei, tutto sommato, sarebbe stata interessata a effettuare una ricerca come la mia, ma l’inizio dell’università l’aveva un po’ frenata. E, oltretutto, non aveva mai pensato di usare i server universitari per quello scopo. Leggono, scrivono. Mi disse di essersi iscritta alla facoltà di lingue, le sarebbe piaciuto fare l’interprete, un giorno. E poi, aveva già studiato tedesco e francese. Era indecisa sulla terza lingua, tra italiano e spagnolo. Anche se era un pensiero di poco conto, per lei, perché avrebbe fatto una delle due lingue al primo e secondo anno e l’altra al terzo. Si trattava solo di decidere a quale delle due dare più importanza. Bevono, mangiano. Mi raccontò che da un anno, ormai, aveva una corrispondente francese, e che ora quella ragazza si trovava proprio lì, a Cambridge, con il progetto Erasmus, che permette agli studenti stranieri di studiare all’estero. Con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita a rimanere per tutto l’anno accademico. In mesi e mesi di lettere, aveva parlato alla francesina dei suoi tre fratelli, e dei tre cugini, uno dei quali ero io. Madeleine, così si chiamava, raccontò di essere figlia unica di due figli unici: nessun fratello, nessuno zio, nessun cugino. Solo lei. Si siedono, si alzano. Finii il panino, ci alzammo e ci dirigemmo verso la porta, con l’immancabile sorrisetto rilassato del ragazzo ben vestito, soddisfatto del fatto che ce ne stessimo andando, così avrebbe potuto continuare qualsiasi cosa stesse facendo col suo pc in santa pace.

Entrammo nell’immensa aula studio multimediale dell’Università. Decine di ragazzi e ragazze ben vestiti stavano seduti compostamente, ciascuno davanti al proprio computer, in silenzio, a fare ricerche su chissà cosa. Collegai il cavetto ethernet e Alyssa mi inserì le dovute password, per farmi così accedere al database della facoltà di storia. Mi disse che sarebbe passata a prendermi dopo due ore per la festa.

Mi tuffai nella ricerca, partendo da quel nome che tante volte avevo sentito nei racconti di mio padre: Claudius Darwin Rogers. Con una rapidità estrema mi si aprì davanti una pagina fatta di date, descrizioni, collegamenti. Mi appuntai i dati che mi interessavano maggiormente.

Sir Claudius Darwin Rogers. Nato a Folkestone il 7 gennaio 1881. Fu pilota dell’aviazione militare nella Prima guerra mondiale. Ricevette il titolo di “baronetto” da Re Giorgio V, nel 1916. Morì in guerra il 17 luglio 1917, a trentasei anni.
Per quanto riguardava la vita privata, c’erano giusto le informazioni che cercavo: moglie e figli. Si sposò nel 1903 con Evelyn Robson, da cui ebbe due figli: Claudius Desmond Rogers e Darius Darwin Rogers.
Cliccai sulla pagina relativa alla moglie, ovvero la mia trisnonna. Nulla di interessante, se non che nacque il 13 marzo 1882 e visse fino al giorno del suo novantaduesimo compleanno, il 13 marzo 1974.
Si separavano così i primi due rami dal tronco principale del mio albero genealogico.
Sir Claudius Desmond Rogers. Nato a Folkestone il 29 ottobre 1903. Fu imprenditore e si arricchì molto, trasferendosi poi a Londra. Si sposò con Camila White, dalla quale non ebbe figli, in quanto lei era sterile. Tuttavia, quando il di lui fratello Darius Darwin Rogers partì per prendere parte alla Guerra, la coppia adottò i suoi figli, Claudius Newton Rogers e Lucius Desmond Rogers. Morì di vecchiaia a Londra il 3 maggio 1981, a 77 anni.
Sir Darius Darwin Rogers. Nato il 30 dicembre 1904 a Folkestone. Fu pilota dell’aviazione militare e partecipò alla Seconda Guerra Mondiale. Si sposò con Irene Hayles nel 1924 e la coppia ebbe due figli: Claudius Newton Rogers e Lucius Desmond Rogers. Morì in un’azione militare, il 18 ottobre 1945, pochi mesi prima di compiere 41 anni.
Sua moglie, Irene Hayles, nata nel 1908, morì per delle conseguenze post-parto a soli ventidue anni, il primo marzo 1930.
Sir Claudius Newton Rogers. Nato il 2 aprile 1925 a Folkestone. Venne affidato agli zii paterni nel 1939, quando il padre partì per la Guerra. Nel 1943, si arruolò come volontario nella marina militare e partecipò alla Seconda Guerra Mondiale. Trovò la morte, per annegamento, il 28 agosto 1944, appena diciannovenne.

Sir Lucius Desmond… – il filo dei miei pensieri venne interrotto da una mano che mi bussava sulla spalla. Era mia cugina. Mi stropicciai gli occhi guardando l’orologio. Erano già le sette. La mia ricerca mi aveva completamente inghiottito, non m’ero reso conto del tempo che passava, perso com’ero nella lettura. Misi via il pc, e mi fermai un attimo a guardare mia cugina. Era un vero schianto.

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Capitolo 4
*** La festa ***


«Come sto?», mi chiese, ma io non risposi subito, rimanendo qualche istante imbambolato a fissarla. I suoi capelli castani, tendenti al rossiccio, erano raccolti in un’elegante treccia. I suoi occhi verdi erano grandi e sorridenti. Il suo naso e le sue guance erano puntellati da un sottile velo di lentiggini, che le davano quell’aria di innocenza che fa impazzire molti ragazzi. Me compreso. Le sue labbra sottili, distese in un sorriso, erano coperte da un rossetto nero. Nero, come l’abitino da sera indossava. Nulla di elaborato, un semplice, ma sensuale vestitino a tubo smanicato. Sotto aveva un copri spalle rosso, fatto a magliettina, con le maniche a tre quarti. Una collanina argentata le ornava elegantemente il collo. Le cosce, lasciate ben in vista dal vestito corto, erano coperte da un paio di collant color carne. Le scarpette, un paio di ballerine nere con un fiocchetto, chiudevano quel quadro di sensualità. Stavo squadrando ogni centimetro di mia cugina, con un sorrisino da ebete stampato in faccia.

«Come sto?», chiese nuovamente, incrociando le braccia e facendo un’espressione imbronciata davvero poco credibile.
«Un incanto», risposi, voltandomi a sistemare le mie ultime cianfrusaglie.
«E non guardarmi con quegli occhi… sono tua cugina! – mi diede una scherzosa pacca sul sedere, aggiungendo tra le risate – Porco!»

La festa si svolgeva nel campus. Camminavamo nella frescura settembrina. Il sole stava proiettando timidamente i suoi ultimi raggi nel cielo già tinto di blu scuro. Lo sbieco sorriso della luna era uno degli ultimi prima della luna nuova, quella sera. Non avevo ancora idea sul dove avrei dormito. Lo chiesi a mia cugina, aveva già pensato a tutto lei. Santa ragazza, mi dissi. Sarei stato in camera con un tale Nicolas qualcosa. Il suo compagno di stanza tornava sempre a casa nei weekend, abitando poco distante.

Entrammo nel localino universitario. C’era un palco, e in quattro stavano suonando. Probabilmente, di giorno erano tra i tanti ragazzi ben vestiti, ma la notte erano uno dei gruppi più cool del campus. Una cover band dei Sex Pistols, niente di speciale. Tecnicamente non è che fossero un granché, e per i miei gusti facevano un genere tutto sommato leggero. Ma andava bene così, almeno non facevano cover oscene di tutta quella merda pop che esce negli ultimi anni. Mia cugina mi presentò mezza festa. Questo è Jim, quella è Maryl, questa è Julia, quello è Rick. Andai al bancone a prendermi una birra, mentre i quattro sul palco suonavano Anarchy in the UK. Un classico. Sorseggiai la bionda avidamente. La finii e mi recai fuori a fumare una sigaretta. Avevo fame, e rientrai a spizzicare qua e là alcuni degli stuzzichini sul bancone, ordinando un’altra birra. Questa è Lucie, quello è Andy. Stringevo mani a destra e a manca. Mi mancava il respiro in quel caos così ben organizzato. Da adolescente, sognavo sempre le feste universitarie, chissà poi perché. Era moscia, noiosa, asfissiante. Non fosse stato per mia cugina, me ne sarei andato subito. O magari giusto il tempo di un’altra birra, tanto era tutto pagato. Uscii a fumare di nuovo. E poi dentro per una terza birra, e fuori per l’ennesima sigaretta. Sentii le prime note della God save the Queen versione punk dei Pistols. Almeno quella non la steccarono. Questo è Jack, quella è Andrea. Un’altra birra, un’altra sigaretta. Rientrai che avevano finito di suonare, e il dj passava musica europop. Take on me degli A-ha. Gran pezzo. E arrivò la torta. Finalmente la fine di quello strazio si avvicinava. Feci di nuovo gli auguri ad Alyssa, attorniata da abbracci, baci, auguri. Mangiai la mia fetta di torta. Una mano bussò sulla mia spalla.
«Sei tu il cugino di Alyssa Rogers? – chiese – Io sono Nicolas». Mi voltai, e vidi il ragazzo ben vestito del bar di quel pomeriggio. Alzai gli occhi al cielo, con un solo pensiero: che sfiga. In tutto il campus, proprio lui. Noncurante della mia reazione stizzita, continuò.
«È tardi e voglio andare a dormire. E tu vieni con me, così non torni tardi. E non ti perdi».

Accettai di seguirlo solo perché mi annoiavo a morte. Salutammo Alyssa, poi attraversammo il cortile, per dirigerci verso il dormitorio maschile. Arrivai in camera e mi accesi una sigaretta.
«Non fumare in camera mia», disse Nicolas con tono autoritario.
«Ascolta, Nick – cominciai con un tono svogliatamente minaccioso – io faccio quello che mi pare, limitati a stare zitto e a non rompere i coglioni. E tutto andrà bene. Tanto, dopo stanotte, non ci rivedremo mai più. Chiaro?». Stava per replicare, afferrai un suo libro e ci spensi sopra la sigaretta. Deglutì. Il messaggio era arrivato. «Buonanotte, Nick», lo schernii. Non rispose.

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Capitolo 5
*** Il quadro della famiglia si completa ***


Quando mi svegliai, il giorno seguente, Nicolas se l’era già squagliata. Erano le dieci, e probabilmente era già uno dei tanti ragazzi ben vestiti che studiano nei bar universitari. Mi lavai rapidamente la faccia, presi la mia roba e me ne andai dal dormitorio. Mi recai in biblioteca, di nuovo, non senza difficoltà. Dovetti chiedere indicazioni un paio di volte. Alla fine la raggiunsi, tirai fuori il mio pc, collegai il cavetto e si ricollegò in automatico. Per mia fortuna, la sessione di login durava ventiquattr’ore. Ricominciai da dove mi ero interrotto.

Sir Lucius Desmond Rogers. Nato il 27 febbraio 1930 a Folkestone. Sua madre, Irene Hayles, morì per delle complicanze dopo averlo dato alla luce. Quando il padre partì per la Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, venne adottato da suo zio Claudius Desmond Rogers e dalla moglie Camila White, trasferendosi così a Londra. Entrò nel corpo di polizia londinese. Si sposò con Alyssa Collins, dalla quale ebbe tre figli: Claudius Darwin Rogers Jr., Claudia Evelyn Rogers e Amadeus Everett Rogers. Proprio nella capitale trovò la morte, a sessant’anni, il 6 novembre 1990, in un incidente stradale.

Nonna Alyssa, invece, è ancora viva e vegeta.

Sir Claudius Darwin Rogers, Junior. Nato il 12 gennaio 1954 a Londra. Si sposò con Alison Ellis, da cui ebbe tre figli e una figlia: Lucius Darwin Rogers, Amadeus Desmond Rogers, Darius Newton Rogers e Alyssa Irene Rogers. Lavora tuttora presso gli uffici della Barclays Bank di Londra.
Claudia Evelyn Rogers. Nata il 9 novembre 1955 a Cambridge. È sposata con Connor Simpson, dal quale ha avuto un figlio: James Simpson. Lavora come cassiera in un piccolo supermercato.
Sir Amadeus Everett Rogers… papà. Nato il 9 luglio 1958 a Londra. È sposato con… mamma… con Ella Watson, dalla quale ha avuto due figli: Lucius Everett Rogers e Darius Desmond Rogers. Lavora nel corpo di polizia di Londra.
Ella Watson. Nata il 15 maggio 1960 a Londra, da Tobias Watson e Helena O’Brian. Lavora come docente di Letteratura alla University of East London, Stratford Campus.
Sir Lucius Darwin Rogers. Nato il 6 ottobre 1980 a Londra. Sir Amadeus Desmond Rogers. Nato il 18 aprile 1983 a Londra. Lavorano con il padre alla Barclays. Sir Darius Newton Rogers. Nato il 3 maggio 1988 a Londra. Studia alla facoltà di Economia presso l’università di Cambridge. Alyssa Irene Rogers. Nata il 14 settembre 1994 a Londra. Studia alla facoltà di Lingue presso l’università di Cambridge.
Sir Lucius Everett Rogers. Nato il 3 giugno 1985 a Londra. Sir Darius Desmond Rogers. Nato il 21 maggio 1991 a Londra. Disoccupato.

Segnai le informazioni distrattamente, fermandomi solo qualche istante dopo a pensarci su.

Ma come? Lucius non fa il giornalista?, mi chiesi. Mi convinsi che doveva esserci un errore, o probabilmente non era aggiornato, o qualcosa del genere.
Ero stato tutto sommato rapido, quel giorno, al contrario del precedente, dove mi ero perso distraendomi qua e là. Forse perché l’idea di metterci un altro giorno non mi entusiasmava. In particolare, tornare nella camera di quell’automa ben vestito e dipendente dai libri era un pensiero che non avrei voluto nemmeno nei peggiori incubi.

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Capitolo 6
*** La lezione di filosofia ***


Mentre uscivo dalla biblioteca per fumarmi una sigaretta, mi vibrò il cellulare: era mia cugina.
«Pronto, Aly? Dimmi!», risposi.
«Ciao! Tutto bene? Ieri te ne sei andato presto, non è che ti annoiavi?»
«Ma no, cosa vai a pensare! – mentii spudoratamente – Ero solo un po’ stanco».
«Oh, meno male. Come va con l’albero genealogico?», mi chiese.
«Bene, benissimo, l’ho appena finito. Non sai quante cose…»
«Ottimo, che ne dici di accompagnarmi a lezione?», domandò interrompendomi.
«A lezione, io? Mi ci vedi? E poi è sabato, non ho voglia di ascoltare…». Mi interruppe ancora.
«Dai, è interessante! E poi viene anche Madeleine, così te la presento. Passo a prenderti in biblioteca tra cinque minuti». La sua determinazione e il suo zelo non ammettevano repliche.

Arrivammo in aula in anticipo, e fu allora che la vidi. Una ragazza minuta, con dei lunghissimi capelli biondi, mossi, sciolti graziosamente sulle spalle. Aveva gli occhi verdi, grandi, sorridenti. Mi sorrise, mentre si avvicinava a me. Salutò Alyssa con un abbraccio, mi squadrò da capo a piedi, poi chiese a mia cugina, con una marcata cadenza francese:
«È questo il tuo cugino di cui mi parlavi?»
«Sì. Darius, ti presento Madeleine!»

Avrei voluto presentarmi a mia volta, ma il professore si schiarì la voce per indicare l’inizio della lezione. Era un uomo di mezza età, brizzolato, con un paio di occhiali grossi e il naso adunco. Prese in mano un bicchiere d’acqua, mostrandolo alla classe. Ora chiederà: è mezzo pieno o mezzo vuoto?, pensai subito tra me e me, e invece no.

«Quanto pesa questo bicchiere?», domandò alla classe. Le risposte fioccarono a destra e a manca, variando grossomodo tra i 200 e i 400 grammi. Il professore distese le sue labbra in un sorriso, poi spiegò: «In effetti non importa il peso fisico del bicchiere. Se lo tengo in mano pochi attimi, non succederà niente. Se invece lo reggessi per qualche ora, il mio braccio si indolenzirebbe. Se non lo lasciassi per tutto il giorno, il braccio comincerebbe a farmi male e probabilmente andrebbe in cancrena». Fece una studiata pausa, per aumentare la curiosità negli studenti e, devo ammetterlo, anche in me. «Così accade con le preoccupazioni della vita – continuò – Se ci pensiamo pochi attimi, non ci ledono. Se andiamo avanti a pensarci per ore, la nostra mente si intorpidirà. Arrovellandoci sui nostri problemi per l’intera giornata, rischieremmo di cadere in depressione, di farci cogliere dall’indolenza, di…». Andò avanti per una mezz’ora buona a snocciolare temi fondamentali sulla vita o qualcosa di simile, ma io ero distratto dalla bellezza di Madeleine. Aveva la pelle diafana, un nasino leggermente all’insù, due mani graziose con le dita filiformi. Stava prendendo appunti veloci su tutto ciò che diceva il professore. Staccò la mano dal foglio, la voce monotona si era interrotta, sperai che la lezione fosse finita. Girai gli occhi verso la cattedra e vidi alcuni oggetti posati sulla cattedra: un barattolo, delle palline da golf, dei sassolini, una scatola piena di sabbia. Seguii le sue mani.

Mise quante più palline da golf poté nel barattolo, chiedendo poi alla classe se fosse pieno. Tutti risposero di sì, allora buttò dentro alcune manciate di sassolini, che si infilarono negli spazi vuoti. Domandò nuovamente se fosse pieno, ricevette ancora una risposta affermativa. Allora rovesciò la sabbia all’interno del contenitore, interrogò nuovamente gli studenti sulla pienezza dello stesso: la sabbia aveva occupato ogni fessura possibile tra i sassolini, e si levò un “sì” convinto. Tirò fuori, da sotto la cattedra, un paio di birre e le stappò, versandole nel vasetto: ora era veramente pieno fino all’orlo.

«Ora – iniziò spiegare il professore – vorrei che voi consideraste questo barattolo come la vostra vita. Le palline da golf sono le cose importanti: la famiglia, i figli, la salute, gli amici e le cose che preferite; cose che se rimanessero dopo che tutto il resto fosse perduto riempirebbero comunque la vostra esistenza. I sassolini sono le altre cose che contano, come il lavoro, la casa, l’automobile. La sabbia è tutto il resto, le piccole cose. Se metteste nel barattolo per prima la sabbia – continuò – non resterebbe spazio per i sassolini e per le palline da golf: lo stesso accade per la vita. Se usate tutto il vostro tempo e la vostra energia per le piccole cose, non vi potrete mai occupare delle cose che per voi sono veramente importanti. Dedicatevi prima di tutto alle palline da golf, le cose che contano sul serio. Definite le vostre priorità, tutto il resto è solo sabbia». Tutto ciò era estremamente interessante, perfino per me, ma mi restava un dubbio: alzai la mano.
«E le birre?», chiesi molto semplicemente.
«Sono felice che lei me l’abbia chiesto – rispose con un grande sorriso – Dimostrano che, per quanto piena possa essere la vita, c’è sempre tempo per un paio di birre con un amico. La lezione è finita».

Mentre stavamo uscendo dalla classe, incrociai lo sguardo con quello di Nicolas, anche lui era presente a lezione. Abbassò subito gli occhi, poi Madeleine lo salutò con voce allegra e gli chiese: «Allora? Come sta Victoria, la tua ragazza?».
«Si chiama Veronica – puntualizzò arrossendo un po’ – Comunque sta bene, grazie». Sorrise impacciato e uscì dall’aula a passi veloci. La ragazza francese lo seguì senza che potessi salutarla. Anche mia cugina sembrava di fretta.

«Andiamo a pranzo tutti insieme, ti va di aggiungerti?» mi propose sorridendo, ma declinai. Non avevo la minima intenzione di passare altro tempo insieme a quel ragazzino sfigato, per quanto avrei volentieri chiacchierato ancora con la francesina. Salutai mia cugina, con la promessa che sarei tornato a trovarla qualche weekend, poi mi incamminai verso la stazione per tornare a Londra.

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Capitolo 7
*** Il filo spezzato ***


Giunsi in largo anticipo, il mio treno non sarebbe passato di lì a un’ora. Passeggiavo nervosamente avanti e indietro, le idee si accavallavano l’una con l’altra vorticosamente: la famiglia, la lezione, mio fratello che risultava disoccupato, Madeleine, i ragazzi ben vestiti, Nick…
Il filo dei miei pensieri venne interrotto da un inaspettato dolore lancinante alla bocca dello stomaco, un cazzotto che mi aveva centrato in pieno. Mi ritrovai piegato in avanti e col fiato corto. Tentai di rimettermi dritto, guardando per un attimo il mio aggressore. Era un uomo sulla trentina, completamente calvo, alto e robusto, con le spalle larghe e le braccia muscolose. Mi sferrò un secondo pugno, dritto sul naso, che cominciò a sanguinare, mentre mi si annebbiava la vista. L’ultima cosa che ricordo è un violento calcio sul fianco, che mi fece accasciare a terra, privo di sensi.

Mi svegliai in una stanza vuota, una piccola lampadina che pendeva sopra la mia testa era l’unica fonte di illuminazione. Mi girava la testa, la vista, ancora annebbiata, era resa ancora più difficoltosa dalla penombra che avvolgeva la stanza. Provai a muovermi, ma ero stato legato alla sedia; le corde strette mi ricordarono il dolore tra stomaco e fianco, emisi un gemito. Passi. Una voce femminile squarciò il silenzio, rimbombando nella mia testa.
«Buongiorno, signor Cooper», disse con un tono sarcastico. Non risposi. Non riuscivo a vederla bene in faccia, ma un riflesso ramato si disegnava confusamente tra i suoi capelli raccolti; era tutto ciò che vedevo.
«Lei sa un po’ troppo sul mio conto, non crede?». Provai a mugolare qualcosa, ma mi accorsi che la mia bocca era tappata con un panno, e che stringerlo mi faceva male. La donna mi stampò uno schiaffo sulla guancia sinistra; la sua corporatura sembrava esile, ma celava una forza letale. Non mi capacitai di come un colpo così violento fosse stato dato da un braccio così sottile. Mi ritrovai con la testa voltata verso destra, vidi l’omone pelato che mi aveva aggredito prima – poco prima? qualche ora prima? il giorno prima? questo non saprei dirlo – lo vidi trafficare su un banchetto con delle siringhe. In effetti, aveva tutta l’aria del potenziale eroinomane.
«Io e il mio amico Tom ci auguriamo che lei non scriva più certe cattiverie, capisce? – si rivolte poi al suo compare – Tom, è tutto pronto?». L’uomo risposte con un grugnito, sentii i suoi passi pesanti avvicinarsi, e dentro di me mi chiesi come fosse stato possibile non sentirlo alla stazione, quando mi aveva aggredito. Porse la siringa alla ragazza. Girai la testa appena in tempo per vederla a un palmo dal mio naso, mentre l’ago si conficcava nella mia carne, dritto nel deltoide sinistro.

C’è un momento in cui il filo che hai dentro si spezza. Non senti più il dolore, senti solo una grande rabbia, senti la voglia di urlare ma non hai fiato nei polmoni. Quasi come se stessi morendo, ma è molto peggio. La morte ti porta via, prima o poi. Il filo che si spezza ti gela. Ti fa chiedere cosa ci sia di bello ancora nella vita, ti fa domandare quale peccato possa meritare questa pena. L’inferno che hai dentro esce, i tuoi demoni diventano realtà, ti circondano, ti soffocano. Dentro ti rimane il vuoto. Per me era quel momento, il mio filo si era spezzato. In quel momento, Sir Darius Desmond Rogers smetteva di vivere. E forse, già da quell’istante, iniziò ad esistere Desmond Duncan.

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Capitolo 8
*** Il risveglio ***


Aprii gli occhi. Tutto era buio, era sfocato, privo di un senso. Delle chiazze bianche si muovevano intorno a me incessantemente, senza meta, indefinite. Il buio lentamente lasciava posto a qualche chiazza di luce e colore indistinta, tutto si muoveva vorticosamente intorno a me, ma fui colto da una sensazione di rilassatezza. Pensai che quelle figure bianche fossero angeli, pensavo di essere in paradiso. Lentamente cominciai a riacquistare l’udito, anche se i miei muscoli ancora non ne volevano sapere di rispondere. Sentii delle parole, dapprima confuse, come se fossero dette in una lingua diversa dalla mia, da voci nuove e straniere, mai sentite prima. Qualche parola cominciò ad avere senso. Miracolo, altro mondo, miglioramento. Sì, dovevo decisamente essere in paradiso. Il cervello cominciò a recepire anche gli stimoli olfattivi, sentivo un odore leggero, fatto di morbidezza e pulizia. Lentamente, iniziai a percepire anche una nota di sangue. Di alcool. Di medicine. Un’altra parola nota pizzico i miei timpani: morfina. L’odore di ospedale mi riempì le narici, i discorsi dei medici si delinearono nelle mie orecchie sempre meglio definiti. Ma nessun miglioramento visivo: restavano delle chiazze bianche che mi ronzavano intorno. Forse era l’inferno, ma mi convinsi di no: ero in ospedale. Non ricordavo come ci fossi finito né per quale motivo. Poco a poco ripresi sensibilità, quanta basta per capire che avevo una flebo nel braccio, un respiratore artificiale, un’ampia fasciatura per la spalla sinistra e il braccio destro ingessato. Dai discorsi dei dottori, dovevo essere rimasto incosciente per qualche giorno, e ora finalmente avevo aperto gli occhi. Già, li avevo aperti fin da subito, eppure non riuscivo a vedere. Non capivo. Ma le domande che mi ronzavano in testa mi stordirono, mi stancarono, facendomi crollare di nuovo nel sonno.

Era un sonno pieno di incubi surreali, dai quali non riuscivo a svegliarmi. Nel sogno, almeno lì, le immagini erano nitide, anche se terrificanti. Un treno che mi passa sopra. Una vespa che mi punge sul collo. Una stanza buia e asfittica, anche se vuota, nella quale sono legato a una sedia. Le immagini si confondevano l’una con l’altra senza soluzione di continuità, un susseguirsi turbinoso di dolori e di terrori. Nulla di più. Il vuoto, il nulla. Qualche chiazza di colore, quelle macchie bianche ricominciavano a ronzarmi intorno incessantemente. Ero di nuovo sveglio.

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Capitolo 9
*** Il signor Duncan ***


Nonostante il sonno turbolento, le forze mi tornarono rapidamente. Le percezioni si acuirono in fretta: l’odore d’ospedale, le voci dei dottori, i dolori fisici. Riuscivo persino a muovermi, provai a dire una parola, la prima che mi venisse in mente. La mia voce arrivò come distorta alle mie orecchie, quasi estranea, provata dal dolore, sfigurata.

«Acqua…», dissi solamente, una macchia rosa mi portò rapidamente un bicchiere e uscì di corsa. Rientrò poco dopo, accompagnata da una macchia bianca.
«Buongiorno – disse una voce maschile – sono il dottor Erik Gullstrand, sono il suo medico». Intuii che doveva essere la macchia bianca, perché proprio quest’ultima si protese verso di me. Sentii la sua mano stringere la mia. Era una stretta sicura e decisa, ma non troppo forte. La mia mano rimase pressoché inerme, non feci in tempo a pensare di stringere le dita attorno alla mano del dottore, che questa già si era ritirata. Mi sollevò il camicie – solo allora mi accorsi di indossarne uno – e mi auscultò il cuore. Riprese a parlare, con voce calma.

«Le condizioni sono stabili, non sembrano esserci problemi, il cuore ha un battito regolare. Ho una domanda per lei. Come si chiama?». La domanda mi colse impreparato, non risposi. Non ricordavo il mio nome, eppure lui era il mio medico, avrebbe dovuto saperlo. «Non aveva documenti con sé, quando è stato trovato – mi spiegò – non sappiamo il suo nome, né la sua età. Quella, almeno, la ricorda?». Ancora una volta, non proferii parola. «Non importa. L’unica cosa che abbiamo trovato accanto a lei è questo». Mi porse una macchietta grigiastra. La presi tra le mani, ne saggiai la consistenza: era carta di giornale.

«Mi dispiace, non riesco a leggerla. Non riesco nemmeno a vedere lei, dottore», ammisi.
«Non riesce a vedere? Come dice?». Il tono del dottor Gullstrand sembrava preoccupato.
«Vedo solo delle macchie colorate», risposi con semplicità.
«Signor… posso chiamarla Duncan? Mi ricorda un mio amico che si chiama Chris Duncan, le va bene? – feci un cenno d’assenso con la testa – Bene, signor Duncan, lei è stato trovato in un magazzino abbandonato a est di Cambridge. Ora si trova al Fulbourn Hospital, da una settimana. È stato in coma e si è svegliato ieri, per poco tempo, poi è sprofondato in un sonno profondo e si è risvegliato ora, a quanto pare. Le sue condizioni erano pessime, non lo nego. È un miracolo che lei sia ancora vivo. Quando è stato portato qui, era in overdose da morfina. Sarebbe bastato qualche grammo in più a spedirla all’atro mondo. Evidentemente, l’eccesso di morfina deve aver causato dei danni al nervo ottico: per questo non riesce più a distinguere nitidamente le figure. Le funzioni vitali sono stabili, non avevo ipotizzato questo tipo di danno. Le faremo qualche esame per capire l’entità del danno. Se le analisi saranno positive, potremmo pensare a un intervento, ma per ora non mi sento in grado di rassicurarla».
«Dottore, tornerò a vedere?», domandai freddamente, come se la notizia non mi avesse scalfito.
«Non lo so», rispose laconico.

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Capitolo 10
*** I primi, insicuri ricordi ***


Vidi la macchia bianca allontanarsi da me a passi lenti, strinsi un pugno, rabbioso, e mi accorsi di aver ancora la carta di giornale in mano.
«Dottore, di cosa parla questo giornale?», gli chiesi, lo vidi tornare verso di me e prendermi il foglio dalle dita. Rimase in silenzio qualche istante.
«Parla di un possibile attentato alla Regina. L’ho letto anche io, qualche giorno fa, sul Times».
Mi venne un brivido, forse un pallido ricordo. «Chi l’ha scritto?».
«Mi dispiace, signor Duncan, questo non lo saprei dire. La pagina è stata ritagliata sopra al nome dell’autore. Perché?».
«Mi sembrava di ricordare un articolo del genere, ho semplicemente pensato che, magari, il nome del giornalista avrebbe potuto far tornare altri ricordi», risposi.
«Faremo una ricerca – bofonchiò prima di salutarmi – a più tardi signor Duncan, tornerò alle tre per gli esami oculistici».

Cominciai a rimuginare sull’articolo. Era un articolo del Times, ero sicurissimo di averlo letto. Non ricordavo il nome dell’autore, ma un ricordo s’era disegnato di nuovo nella mia mente: treno. Un treno, ero in viaggio. Per dove, però? Non ricordavo, la mente si sforzava, ma nulla era abbastanza convincente da sembrare reale, o quantomeno realistico. Ricordavo di aver letto quell’articolo su un treno, almeno quello era un dato certo. Ma, oltre a non ricordare la destinazione, non mi veniva in mente nemmeno il luogo di partenza. Cominciai a ragionare. Avevo fatto un viaggio in treno e mi trovavo a Cambridge, evidentemente non ero del posto. Non ricordavo il mio nome, né la mia età, né la mia città: nulla. Sapevo solo di essere a Cambridge e di averla raggiunta in treno. Più che saperlo, lo supponevo: era plausibile. Provai a sforzarmi per la città, ma non mi venne in mente assolutamente niente. Sicuramente ero britannico: conoscevo la lingua e avevo viaggiato in treno per raggiungere Cambridge. Inglese, Scozzese, Gallese? Troppo impegnativo. Riflettei sulla mia età: non dovevo essere troppo in là, vista a parte mi ero ripreso bene dal coma. Ipotizzai di trovarmi tra i venticinque e i trenta: era plausibile. Campo ancora più oscuro, se possibile, era il nome. Me ne balenò in mente uno: Desmond. Non sapevo – anzi, non ricordavo – se fosse davvero il mio nome oppure no, ma decisi chiamarmi così: era plausibile… no, non molto. Ma lo presi per buono. Riepilogai. Mi chiamo Desmond Duncan, sono britannico e la mia età è tra i venticinque e i trenta. Mi sembra un ottimo punto di partenza; anzi, di ripartenza. Ero soddisfatto, ma lo sforzo mentale per tirare queste somme era stato notevole, mi addormentai senza pranzare. Alle tre, puntualissimo, il dottor Gullstrand venne a svegliarmi.

«Buongiorno signor…»
«Desmond Duncan», lo interruppi.
«Bene, la memoria fa progressi! Dunque: buongiorno signor Desmond Duncan – sorrisi compiaciuto, fingendo di essere assolutamente certo di quel dato – ho per lei una notizia buona e una cattiva. Quale vuole sapere per prima?», mi domandò.
«In realtà, voglio saperne soltanto una: quella cattiva», il mio cinismo stupì il dottore, che rimase interdetto qualche istante. Poi, rispose.
«Rispondo alla domanda di questa mattina: no, non tornerà mai più a vedere come prima».

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Capitolo 11
*** L'agente Bryce Ward ***


«Ma comunque lei…», tentò di proseguire il dottor Gullstrand, ma lo interruppi.
«La ringrazio per la notizia, dottore».

Gullstrand non rispose, limitandosi a annuire, per poi avvisarmi di una visita imminente. Non avevo idea di chi potesse venire a trovarmi, ma probabilmente avrebbe saputo dirmi qualcosa di più sulla mia identità. Almeno, così speravo. Entrò poco dopo una figura scura, probabilmente per via dell’abito. Ma chi diavolo è?, mi chiesi, senza pensarci troppo. Già non ricordo chi sono io, figuriamoci se ricordo qualcun altro. Rimasi in silenzio, aspettando che fosse il nuovo arrivato a parlare; ma non lo fece. Estrasse qualcosa dal taschino della sua giacca, io mi decisi a rompere il silenzio.

«Mi spiace, non riesco a vedere, se non delle chiazze di colore», spiegai.
«Le ridaremo la vista, signor Duncan. Per ora, le basti sapere questo», rispose con voce grave.
Allora doveva essere proprio quello il mio cognome: Duncan. Anche la figura scura lo sapeva, non poteva essere altrimenti. Non gli chiesi chi fosse: già la notizia della quasi cecità, probabilmente, non lo aveva reso entusiasta, figuriamoci se gli avessi parlato anche della perdita di memoria. Lo fissai, per quanto mi fosse possibile.
«Non ci conosciamo, signor Duncan. Sono l’agente Bryce Ward dell’MI5. Lei è stato aggredito da una persona che noi riteniamo estremamente pericolosa, appartenente ai servizi segreti belgi. Non mi dilungo su chi sia, anche perché nessuno sa il suo nome, o almeno non quello che utilizza ora», mi spiegò gelidamente.
«Sì, magari lo stesso che vuole uccidere la Regina!», ironizzai, ricordandomi, come fosse un flash, dell’articolo di giornale.
«Esattamente. Lei già sa? – si fermò qualche istante, per poi riprendere – No, certo che no. Avrà letto l’articolo sul giornale. Dannato Cooper, farebbe prima a mettere dei manifesti, anziché scrivere sul Times. Tanto, chi se ne importa della segretezza, no? Comunque, non è questa la sede per ironizzare. Lei, signor Duncan, può essere una risorsa molto importante per noi. So della sua momentanea perdita di memoria, ma spero le torni presto. Per la vista, invece, ci vorrà qualche tempo; non ci resta che aspettare. Resterà qui, sotto la sorveglianza dell’agente Gullstrand, fino a che non riacquisterà parzialmente la vista. Ora è al sicuro, non si preoccupi. Anche se…», lasciò la frase a metà.
«Cosa? Anche se, cosa? – chiesi, senza ottenere risposta, prima di avere un altro ricordo nitido – La… spia, sempre che fosse tale, mi ha chiamato Cooper. Lei ha appena nominato un Cooper. Si tratta della stessa persona?», domandai con tono incalzante.
«Sì, esatto. Anche se, come dicevo, resta da capire per quale motivo lei sia stato aggredito. Insomma, fino a qualche giorno fa non era che un civile e ora si trova a essere invischiato in una faccenda molto più grande di lei. Per ora è tutto, signor Duncan. Devo salutarla». Si allontanò, senza lasciarmi il tempo di replicare.

«Era una donna», dissi distrattamente, in un altro flash di memoria. La macchia scura si fermò un istante all’altezza della porta; poi, facendo finta di niente, andò per la sua strada.

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Capitolo 12
*** La macchia bianca, la chiazza nera ***


«Allora, dottor Gullstrand, o forse dovrei dire agente...» dissi non appena la chiazza bianca che avevo imparato a riconoscere come il mio medico entrò nuovamente nella mia stanza.
«L’MI5 ha agenti in ogni struttura pubblica: ospedali, università, polizia – mi interruppe – tuttavia, come può ben immaginare, lavoriamo sotto copertura e nessuno, fuori dall’Agenzia, conosce le nostre vere identità, il nostro vero lavoro. Quindi la prego, signor Duncan, di limitarsi a chiamarmi “dottore”, onde evitare spiacevoli conseguenze… per lei».
«Ah, è così che lavorate, voi spie? Prima salvate la vita a qualcuno e poi lo minacciate nuovamente? Tanto valeva lasciarmi crepare». Usai il tono più gelido e distaccato che mi riuscisse, lo stesso con cui, poco prima, l’avevo zittito.
«Non sia sciocco, signor Duncan, come le ha già detto l’agente Ward, lei può diventare una risorsa importante…», iniziò, per poi essere interrotto da me.
«Cos’è, volete farmi diventare un agente segreto? – chiesi ridacchiando – Un James Bond con la vista a mezzo servizio e la memoria ancora peggio?»
«Sì, vogliamo che lei diventi un nostro agente. Ma non sia ridicolo: Bond era un agente dell’MI6, sicurezza estera, noi lavoriamo sul territorio Nazionale». Lo vidi armeggiare con qualcosa al mio fianco, probabilmente una flebo. «E ora riposi, signor Duncan», aggiunse. Sicuramente era una flebo. Sentii le forze abbandonarmi e chiusi gli occhi.

I giorni divennero settimane, le settimane divennero mesi. Tre, quattro, ancora oggi farei fatica a dirlo con precisione. Le visite con cadenze regolari, l’odore d’ospedale, i pasti iper-proteici. Iniziai anche a recuperare la vista, pian piano. Qualcosa non mi tornava, però: avevo praticamente ricominciato a vedere come prima. La memoria, invece, quella non tornava affatto. Per quanti sforzi facessi, per quanti input provasse a darmi il dottor Gullstrand, il mio passato sembrava fatto d’una nebbia densa e impenetrabile. Sì, ogni tanto avevo qualche flash, come il giorno in cui l’agente Ward era venuto a trovarmi per la prima volta, ma nulla di più. Nulla sul mio passato, sulla mia vita, sul mio nome – ormai ero pienamente consapevole di non essere più la persona che ero prima di quel maledetto giorno, sapevo benissimo di essere a tutti gli effetti Desmond Duncan. Tornando a Ward, era tornato, e non una volta sola. Veniva a sincerarsi delle mie condizioni, parlottando con Gullstrand, ma non rivolse quasi mai la parola a me, se non per qualche saluto. Ormai, avevo imparato a riconoscere quei due uomini, agenti segreti!, che inizialmente erano solo una “macchia bianca” e una “chiazza nera”. Gullstrand era un ometto che arrivava a stento al metro e settanta, aveva la carnagione olivastra, il suo naso adunco e sproporzionato occupava la maggior parte del viso, gli occhi erano piccoli e vagamente a mandorla, di un colore misto tra il verde e il grigio, i capelli, pochi, erano brizzolati. Ward era tutto l’opposto: un armadio di due metri o più, con la pelle scura, gli occhi grandi, come il naso e le labbra – le sue origini africane erano palesi, insomma –, aveva una barba incolta più nera ancora della carnagione. L’unica cosa che accomunava quei due uomini, così diversi tra di loro, erano la testa: infatti, anche Ward era pelato (anche se, suppongo, rasato). Aveva anche una vistosa cicatrice che gli solcava il collo, probabilmente un souvenir di qualche missione. Il bianco e il nero, insomma, l’uno l’opposto dell’altro, il buono e il cattivo… sorrisi la prima volta che lo pensai. L’idea che Ward fosse un cattivo era sì avvallata dal suo aspetto, ma allo stesso tempo era parecchio stupida: in fondo, erano entrambi agenti della Sicurezza Nazionale Britannica, erano entrambi buoni. Forse la sua testa rasata a zero, per qualche strano motivo, messa su un corpo così robusto e vigoroso, la associavo per qualche motivo all’essere cattivo, ma non mi chiesi troppo il perché. Durante le visite di Ward, intuivo si parlasse di me, ma non sentivo quel che si dicevano, poiché parlavano sempre fuori dalla stanza. L’ultima volta, sentii sono un “Non è ancora pronto” di Gullstrand, nulla più.

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Capitolo 13
*** Aggressione in ospedale ***


Erano passate, sì e no, due settimane dall’ultima visita dell’agente di colore, in genere si faceva vedere più spesso. Vidi un’infermiera armeggiare con una sacca per la flebo con una lentezza esasperante, misurando ogni mossa, assicurandosi che le dosi fossero perfette. Si girò un istante verso di me, scorsi due grandi occhi verdi, glaciali, poi tornò alla sua flebo. Non l’avevo mai vista da queste parti, ma mentre realizzavo quel pensiero se n’era già andata, abbassando le tendine della finestrella che da sulla corsia. Entrò nella stanza un energumeno albino, pelato e con un sorriso stampato sul volto, senza chiudere la porta. Indossava un camice bianco da dottore. Prese la sacca preparata dall’infermiera e preparò il tubicino e l’ago per la flebo. Con la coda dell’occhio vidi il dottor Gullstrand affrettarsi verso la stanza con volto preoccupato, aprì la porta sbattendola e si mise ad urlare.
«Lei non è autorizzato ad essere qui! Se ne vada!».

L’omone lo guardò di sbieco, poi si avvicinò a Gullstrand con fare minaccioso; quel che successe poi fu frenetico e istintivo. L’energumeno che cercava di pungere Gullstrand con la flebo, lui che si difendeva con una forza che non avrei mai immaginato scaturire da un omino così piccolo nella stazza, il corpo a corpo era sostanzialmente alla pari, anzi sembrava che Gullstrand stesse avendo la meglio. Poi, fu un attimo. L’uomo sputò negli occhi al dottore, io mi alzai di scatto, Gullstrand tentò di scansarsi, l’uomo gli infilò l’ago nel collo, io presi la cannula, l’uomo fece per girarsi verso di me, Gullstrand si contorse in una smorfia di sofferenza, io afferrai l’altra estremità del tubicino e strattonai forte: avevo intrappolato il bestione per il collo, lo stavo soffocando. Tentò di liberarsi dalla mia presa, ma le mie mani erano salde e iniziava a mancargli l’aria, il viso stava diventando paonazzo per lo sforzo. Tom. Quell’uomo enorme che stavo soffocando si chiamava Tom. Non so come feci a ricordarlo, era uno dei flashback che ogni tanto mi arrivavano in mente come fulmini a ciel sereno, solo che questa volta era diverso. Quel nome, quel volto… quel ricordo era accompagnato da un dolore strano, dentro, un dolore che non mi riuscivo a spiegare. Fosse stato solo il dolore sordo, avrei tenuto la stretta, suppongo; ma conoscere il nome dell’uomo che stavo uccidendo mi aveva come paralizzato. Tom mi diede uno strattone, facendomi cadere all’indietro, liberandosi dalla mia morsa e riprendendo a respirare, affannosamente. Dopo pochi istanti si alzò, riprese in mano la sacca e tornò a puntare me con l’ago, mentre Gullstrand giaceva inerme a terra, pochi passi più in là. Vidi l’ago pericolosamente vicino, afferrai d’istinto il cuscino del mio letto, riuscendo a parare il colpo di Tom, che reagì grugnendo. Smettendo si spingere sul cuscino, mentre l’omone continuava, riuscii a sbilanciarlo in avanti, completai l’opera dandoli un calcio sullo stinco, cadde a terra con un tonfo, lasciandosi sfuggire la presa sulla sacca della flebo. La afferrai rapidamente, strappando via il tubicino, lasciando che il liquido si disperdesse a terra. Ce l’ho fatta, pensai. E non potevo sbagliarmi più di così. Tom si rialzò e guardò la pozza che si era formata a terra, ringhiando. Io mi girai troppo tardi per evitare il pugno dritto all’addome che mi tagliò il fiato. Piegato in due com’ero, ero una preda facile. Avrei preso un altro pugno, o un calcio, e chissà quante altre botte. Sentii un sibilo, poi un tonfo. Tom era di nuovo a terra. Mi girai di scatto e vidi che il dottor Gullstrand si era ripreso, aveva estratto dal suo camice una pistola e aveva sparato all’omone che ora giaceva a terra inerme.

«È solo narcotizzato – ansimò Gullstrand – Tra un paio d’ore si sveglierà. Ho già avvisato l’agente Ward, sta arrivando. Dovete scappare, e in fretta». La sua voce andava man mano affievolendosi. «Sa, signor Duncan, ora capisco le macchie che mi diceva di vedere. Ho mirato alla chiazza bianca», disse con un sorriso amaro. Tentò di alzarsi, ma il pavimento scivoloso gli rese l’impresa titanica. Mi alzai per aiutarlo, lo presi di peso e lo feci sdraiare sul letto. Un’infermiera bassina guardava impietrita dalla porta dai suoi occhi grigi, acquosi, incapace di muoversi o parlare. Comparve alle sue spalle l’agente Ward, trascinandola dentro. L’uomo di colore fissò per qualche istante Gullstrand, riuscendo solo a sibilare un “Cristo santo”, appena percettibile.

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Capitolo 14
*** Ritorno a Londra ***


«Dobbiamo andare», sentenziò Ward, perentorio. Provai a ribattere, ma l’agente mi trascinò per un braccio, e dalle labbra mi uscì un suono indistinto, strozzato. Mi girai a guardare Gullstrand per un attimo, il suo petto si alzava e abbassava con un ritmo sempre più lento e regolare. Ward mi lasciò il braccio e prese di peso Tom, sollevandolo da terra senza il minimo sforzo, come fosse una piuma. Mi limitai a seguirlo, il tono di prima non ammetteva repliche, e mi guardai bene dal fargli domande. Lo seguii mentre, rapidamente, si avviava verso la tromba di scale, e salimmo di corsa verso il tetto, dove un piccolo elicottero privato ci aspettava. Durante al breve tragitto, rimuginai su quanto accaduto. Realizzai, a mente fredda, che con ogni probabilità Gullstrand era morto. Mentre faceva atterrare il velivolo, Ward mi rivolse nuovamente la parola. «Idiota. Stupido di un medicaccio che non è altro! – disse inizialmente tra sé – Diceva che non eri pronto… si sbagliava! A quanto pare l’unico a non essere pronto era lui. Ma non mi stupisco, sai? Era un brav’uomo, Gullstrand, non penso sia mai stato sul campo come agente. Forse un analista, sai, di quelli che quando c’è una missione stanno al sicuro nel furgone, tenendo d’occhio le telecamere. Non mi stupisce che l’abbiano chiuso in un ospedale. Non dico di essere contento, eh, ma ha avuto quel che si meritava. Erano settimane che gli dicevo che eri pronto, e non mi sbagliavo». Mi stupii della freddezza con cui parlava del suo collega. Evidentemente gli anni di servizio come spia gli avevano fatto vivere così tante perdite che una in più o in meno non gli faceva poi tanta differenza. Guardai sotto ai miei occhi il Tamigi scintillare sotto la luce mattutina. Mi chiesi dove fossimo, ma prima che riuscissi a porre la domanda a Ward, lui rispose, quasi come se mi leggesse nel pensiero. «Benvenuto signor Duncan – disse pomposamente – a Wauxhall Cross, sede dell’MI6. Come sai, io lavoro per l’MI5, ma questo bastardo non ha la faccia da britannico». Indicò Tom. I lineamenti duri del suo volto, ora che mi veniva fatto notare, ricordavano il nord della Germania. Ward riprese a parlare. «Nondimeno, noi dell’MI5 non abbiamo un eliporto privato sul tetto». Ci trovavamo sulla sommità di un edificio bianco, imponente, che dominava la sponda del Tamigi. Ci raggiunse, sul tetto, un altro uomo vestito di scuro, che salutò Ward con una fredda stretta di mano. «Agente Ward, che piacere – disse con un tono ben poco convincente – A cosa dobbiamo la visita? Vedo che è accompagnato da un brutto ceffo e uno che ha tutta l’aria di essere un civile spaesato. Ottima scelta». «Agente Carl Owen – rispose con freddezza l’uomo accanto a me – Non sia così scontroso. Come al solito ho fatto il vostro lavoro, portandovi un idiota straniero che ha ammazzato uno dei nostri. Fategli quel che volete, ma non ammazzatelo, dovrò interrogarlo. Per quanto riguarda il civile, lo porto dritto a Thames House. Le presento il futuro agente Desmond Duncan». L’agente Owen mi guardò con sufficienza, abbozzando un piccolo sorriso. Mi sentii in profondo imbarazzo perché, solo in quel momento, mi accorsi di indossare ancora il camice ospedaliero e un paio di pantaloni di una tuta, palesemente troppo larghi per me. Bella figura di merda, pensai mentre Owen si allontanava trascinando Tom per la collottola.

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Capitolo 15
*** Thames House ***


Quando sparì nella tromba di scale che scendeva e si affievolì fino a scemare anche il rumore dei suoi passi, Ward si avviò per la medesima strada, io lo seguii senza proferire parola. Scendemmo con calma la scalinata fino ad arrivare al piano terra. Ci incamminando a piedi, senza alcuna fretta, attraversando il Tamigi su Lambeth Bridge, e in una ventina di minuti ci ritrovammo ai piedi di un altro edificio, forse meno magnificente di Wauxhall Cross, ma sicuramente altrettanto solenne. L’aspetto era quello di uno di quei capannoni industriale in perfetto stile anni ’30, eppure l’arcata di ingresso gli conferiva un’aura quasi mistica.

Senza bisogno che Ward me lo dicesse, capii che era quella la nostra destinazione, gli rivolsi un cenno d’assenso e passammo sotto l’arco per entrare nella struttura. Mi portò in una stanza dove mi vennero dati dei vestiti esattamente della mia misura, identici a quelli di Ward: un completo nero, una camicia bianca e una cravatta nera. Li indossai rapidamente, senza però stringere troppo il nodo della cravatta. Questo dettaglio non sfuggì all’agente, che subito me lo sistemò, quasi soffocandomi. Venni accompagnato attraverso un dedalo di corridoi che mi sembravano tutti identici l’uno con l’altro; rampa di scale dopo rampa, stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio: avevo perso il senso dell’orientamento da un pezzo. Ci fermammo davanti a una porta dalla quale venivano dei rumori strani, Ward sollevò gli occhi notando il mio smarrimento, e cercò di confortarmi.
«È normale, fa questo effetto a tutti – il suo tono di voce, per quanto le parole fossero comprensivo, era il solito tono distaccato – Spero solo che tu riesca a memorizzare questa struttura il più tardi possibile». Lo guardai con aria perplessa, per cui si affrettò ad aggiungere: «Sai, meno tempo passi qui, più ne passi in missione. E io preferisco di gran lunga l’azione alle scartoffie» Poco dopo, disse fuori dai denti: «Alla mia età, però, mi tocca».

Mi fermai a guardarlo. Alla tua età?, chiesi tra me e me. Non avevo mai pensato a quanti anni potesse avere, solo in quel momento mi posi la domanda. Lo scrutai intensamente e con attenzione, incuriosito dalle sue parole. Notai qualche lieve increspatura nella pelle della sua fronte, e allo stesso modo si raggrinziva in piccole rughe intorno agli occhi, ora che non indossava più gli occhiali da sole. Doveva sfiorare la cinquantina, supposi, anche se la sua voce salda e il suo fisico imponente e, intuivo, prestante mi suggerivano trent’anni al massimo. Mi cominciai a porre molte domande tutte insieme, alienandomi dal clangore strozzato che proveniva dalla stanza accanto, quella da cui ci separava la porta davanti a cui sostavamo. Quanti anni ha, davvero? E da quanti è in servizio? Da quanto tempo è costretto ad alternare le missioni alle scartoffie? E a me quale desti…, le mie elucubrazioni vennero interrotte dal frastuono, ora che la porta era stata aperta. Sull’uscio stava un uomo con dei pantaloni neri una maglia aderente dello stesso colore, che lasciava trasparire dei muscoli tonici e scattanti.

«Clyde, come procedono gli allenamenti dei nuovi?», chiese Ward disinteressatamente.
«Bene, agente Ward – rispose l’altro, poi aggiungendo – Da quando si interessa all’addestramento delle reclute?». Il suo tono non era di sfida, come quello dell’agente dell’MI6 che avevamo incontrato non più di un’ora prima, ma di genuina curiosità.
«Oh, in realtà non me ne frega un cazzo – spiegò, distendendo le labbra carnose in un sorriso – Volevo solamente avvisarti che presto ci sarà una nuova recluta, il signor Duncan. Pensai che era la prima volta che lo vedevo sorridere. Quel tizio, Clyde, mi squadrò da capo a piedi e, come se avesse potuto vedere oltre i vestiti, bofonchiò qualcosa di simile a un “gracilino”. Non ci diedi molto peso, in effetti non avevo mai pensato di curare il mio corpo, non ero mai andato in palestra per rendere tonici i miei muscoli.
Piuttosto, allungai il collo per vedere oltre l’uomo che sarebbe divenuto il mio addestratore. Notai una dozzina di uomini vestiti degli stessi pantaloni neri, ma la cui maglietta aderente era bianca. Alcuni erano paonazzi in volto, altri si massaggiavano le gambe, come fossero indolenzite. Eppure, tutti avevano un fisico incredibilmente prestante, con la pelle tesa sopra ai muscoli definiti di ciascuno di loro. Mi chiesi quale effetto avrebbe avuto su di me un trattamento del genere, se era così sfiancante già per loro. La voce di Clyde, tagliente, riportò la mia concentrazione su di lui.
«Non è che si sbaglia, agente Ward? – chiese con un’espressione di sfida, non tanto a Ward, quanto a me – Questo secondo me diventerà un analista!». Ridacchiò qualche istante, finché non fu interrotto dalla voce profonda dell’agente di colore.
«Sono abbastanza sicuro, Clyde. L’ho visto combattere contro un bestione di due metri, armato solo di un cuscino. Il coraggio non gli manca di certo, ti assicuro». La risposta spense, insieme alla risata, la smorfia di sfida nei miei confronti.
«Bene», si limitò a mormorare compostamente. Intuivo che l’agente Ward gli fosse superiore di grado. Non solo perché Clyde usava il lei, cortesia non ricambiata, ma per il timore che lasciava trasparire quando osservava Ward. Si salutarono cordialmente, poi venni accompagnato in fondo al corridoio, a destra, in fondo, a sinistra, a desta, a destra. Salimmo un’ultima rampa di scale.

«Te l’ho voluto mostrare, Duncan, perché tu sappia a cosa stai andando incontro – mi spiegò, senza abbandonare il tono austero e distaccato di sempre – Non è un posto per signorine, questo. E comunque, il nostro capo non avrebbe potuto riceverti prima di ora». Arrivammo davanti a una porta. «Buona fortuna».

Sulla porta c’era una targhetta d’oro con inciso, e colorato di nero, il nome del proprietario di quell’ufficio. Sir Jonathan Evans. Entrai.

L’ufficio era austero e solenne, esattamente come l’arcata di ingresso dell’edificio. Al centro della stanza regnava una scrivania, con dietro una parete a vetri che dava una vista incantevole sul Tamigi, con una sedia nera di pelle che mi dava le spalle, in mezzo alla visuale. Un computer stava sulla destra della scrivania, mentre sulla sinistra c’erano quattro telefoni, con due cellulari appoggiati accanto. Se non avessi saputo dove fossi, avrei giurato che quell’ufficio appartenesse a un funzionario di banca o un agente di borsa, di quelli importanti. Diedi una rapida occhiata alle pareti intorno, notando che erano adornate da foto di uomini e donne, alcuni in bianco e nero, altri, più recenti, a colori.

«Buongiorno, signor Rogers. Era da tempo che la aspettavo qui».

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Capitolo 16
*** Il passato e il futuro ***


Quel nome mi sconvolse, letteralmente. La mia mente fu come presa da un vortice di pensieri, un uragano; dapprima erano immagini sconnesse: un volto, una stazione ferroviaria, un computer, delle rose rosse. Tutto sembrava vorticare senza soluzione di continuità, le figure di deformavano fino a formarne di nuove, incessantemente. Rimasi imbambolato e mi persi totalmente nei miei pensieri. Fu lì che cominciai a ricordare.

Mi chiamo Darius Desmond Rogers, quel volto era di mia madre. E allora chi diavolo è Desmond Duncan? Questo non importa ora. Sono stato lontano da casa per molto tempo, cosa staranno pensando i miei? Forse che sono morto? Ecco, queste domande forse sono più sensate, ma non saprei davvero a chi porle.

Mi ricordai del mio viaggio a Cambridge, per andare da mia cugina Alyssa. Mi ricordai del tentato ritorno, dell’aggressione. Tutti i pezzi si incastrarono perfettamente in un puzzle che mi rammendò il mio passato; il mio nome, quello vero, era l’input di cui avevo bisogno per ricordare tutto quanto. Sentivo il bisogno di correre via, andare diritto a casa, dato che ne ricordavo l’indirizzo, volevo andare dai miei genitori e dirgli che stavo bene, che non dovevano preoccuparsi. Eppure, il mio corpo era paralizzato sull’uscio dell’ufficio di Jonathan Evans, il direttore dell’MI5.

Chissà poi perché un’organizzazione governativa avesse bisogno di me. Già quando ero smemorato e con la vista appannata, ero dubbioso; ora che ogni ricordo era tornato esattamente al proprio posto nella mia memoria, non capivo minimamente quale di utilità potessi essere come spia. Io, che ero un ragazzo normalissimo, non laureato, non sportivo, perfettamente nella norma. Che valore aggiunto avrei mai potuto dare? Non lo sapevo, ma la curiosità ardeva, mi bruciava dentro, ancor più impellente del desiderio di andarmene a casa. Fu così che entrai, chiudendo la porta alle mie spalle e mi sedetti sulla sedia che fronteggiava la poltrona di Evans.

Ignorando totalmente l’uomo di fronte a me, ancora perso nei pensieri com’ero, lascia scivolare il dorso della mano sulla pregiata scrivania di noce, abbellita dagli arabeschi delle sue venature, e lasciai cadere l’attenzione sulla pila di giornali accatastati ordinatamente sulla mia sinistra, accanto ai telefoni. Alcuni erano vecchi e ingialliti, altri sembravano più recenti, di altri ancora erano conservati soltanto dei ritagli; e furono proprio due di quei ritagli a catturare la mia attenzione. Uno ero sicuro di averlo già letto, l’altro invece aveva suscitato il mio interesse per la foto che vi era stampata sopra. Li presi entrambi in mano, noncurante di avere il capo dell’MI5 di fronte a me, e, soprattutto, della sua reazione. Saggiai la consistenza della carta di giornale tra il pollice e l’indice, poi, partendo dal secondo ritaglio, iniziai a leggere.


Morte misteriosa nel Cambridgeshire

Ieri, le acque del fiume Cam sono state portatrici di una tragica notizia. Verso le dieci e trenta di ieri mattina, infatti, alcuni studenti che andavano verso l’università di Cambridge da una zona suburbana poco distante, hanno riconosciuto galleggiare nel fiume il corpo di un ragazzo, privo di vita. La polizia, avvisata prontamente dai giovani, è giunta sul luogo per recuperare il cadavere, appartenuto a uno studente universitario di nome Nicolas Green (foto). Al suo piede destro era legata una corda, alla quale altra estremità era ancorata una pesante pietra, trovata sul letto del fiume qualche ora più tardi. Le ipotesi di suicidio restano le più accreditate, sebbene non sia molta l’acqua depositata nei suoi polmoni e il decesso non sembrasse lontano abbastanza nei giorni per permettere alla corda di essere sfilacciata in quel modo. Tuttavia… – non lessi oltre.

«Non si è suicidato», borbottai più che altro tra me e me, assorto nei miei pensieri.
«No», puntualizzò Jonathan Evans. Fu allora che lo guardai davvero, con aria curiosa. Era un uomo sulla cinquantina, col viso rotondo e delle malcelate occhiaie a contornare due iridi verde pallido. Di capelli ne aveva pochi, ai lati della testa, erano castani, ma striati d’argento. Portava un completo elegante grigio scuro, una camicia bianca con sottili righe azzurre e una cravatta blu acceso.
«L’ho conosciuto, era un bravo ragazzo. Rompicoglioni, sicuramente, ma non così idiota da buttarsi da un ponte», dissi rivolto a Evans.
«Sappiamo che l’ha conosciuto, ed è proprio per questo che è finito in fondo al fiume». Le sue parole mi raggelarono. Se lui era morto per colpa mia, ora probabilmente anche mia cugina Alyssa era in pericolo, o forse era già morta. Rabbrividii, tradendo le mie emozioni con una smorfia sul volto. «Non si preoccupi, signor Rogers, sua cugina sta bene e non corre alcun pericolo».

Come diavolo fa a conoscere i miei pensieri?, mi chiesi, ma fu lui stesso a rispondere.

«Nicolas Green è stato ucciso dalla stessa spia belga che viene menzionata nell’altro articolo, sono sicuro che l’ha già letto. Sappiamo che il belga le stava alle costole, la stava pedinando per cercare un momento buono – e l’ha trovato, pensai tra me – Così, ha visto quello che l’ha ospitata nel campus, il signor Green, appunto, non sua cugina. Abbiamo fatto fare delle ricerche, sa siamo abbastanza bravi in queste cose». Fece un sorriso.
Ancora una volta mi misi a pensare, ragionai sul perché la spia belga cercasse me. E ancora una volta Jonathan Evans rispose prima che io potessi aprir bocca per porgli una domanda.

«Mi spiace che ci sia stato questo inconveniente. Lei è stato scambiato per un nostro agente, Gordon Cooper – feci una smorfia dubbiosa – sì, quello dell’articolo di giornale. Un curioso caso di somiglianza, nulla di più. Abbiamo deciso di sfruttare questa cosa a nostro favore. Lei, signor Rogers, diventerà un agente dell’MI5, col nome di Desmond Duncan, mi pare l’abbia scelto da sé, no? E le affiancheremo il nostro miglior analista, Gordon Cooper. Sono sicuro che formerete una coppia incredibile. Ora, mi perdoni, ma ho altre questioni da sbrigare. Se vuole andare a riposarsi, chieda all’agente Ward dove può sistemarsi. L’addestramento parte lunedì, per lei. A presto agente Duncan».
Uscii dalla stanza, seguii Ward fino al dormitorio. Gli chiesi il giorno, venni a sapere che era sabato e ci congedammo rapidamente, lui mi lascio solo nella mia nuova stanza. Solo coi miei pensieri, i miei ricordi che, finalmente, erano tornati chiari e ruggenti nella mia memoria.

Sarebbe bello essere ancora un bambino, a volte. Adorerei poter avere dei giorni in cui non sono me, in cui mi posso rilassare e pensare solo a me stesso, gli altri mi riveriscono. Era bello essere piccolo e coccolato da tutti, starmene a giocare ore e ore con gli amici, in cortile, sognando di essere eroi di fiabe mai narrate o mostri dall’aspetto terribile. Sarebbe bello se il più grande dolore che si possa provare fosse, oggi come allora, un ginocchio sbucciato o qualche graffio qua e là sulla pelle. Era bello fare capannello con gli amici, scambiarci le figurine dei calciatori. Oppure quando con la famiglia si partiva, si andava nelle Highlands, in Scozia, per dei bellissimi weekend lunghi sulla neve, a scivolare giù per quelle collinette che mi sembravano monti insormontabili in groppa a uno slittino. Era bello quando una semplice cotta per la ragazzina più carina della classe diventava l’amore di una vita, con gioie e depressioni del tutto esasperate dall’inesperienza. Era bello, sì; ma ora sono un adulto e devo guardare avanti. Sono Desmond Duncan.

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Capitolo 17
*** L'addestramento ***


Erano passati due mesi da quando avevo iniziato il mio addestramento e la primavera già allungava timidamente le giornate di qualche minuto. Nonostante ciò, comunque, le abitudini di noi reclute non erano affatto cambiate: sveglia alle sei e mezza, e alle otto iniziavano gli allenamenti. Inizialmente affrontai un periodo in cui l’obiettivo era quello di rendere più tonica la muscolatura, ero seguito da un personal trainer che mi sfiancava giorno dopo giorno, rendendo sempre più prestante ogni muscolo del mio corpo. Da qualche settimana avevo iniziato ad affiancare all’attività in palestra i primi addestramenti con Clyde. Avevo come il presentimento di non essergli molto simpatico, poiché sin da subito mi fece combattere contro omoni grandi e grossi dai quali prendevo un sacco di botte. Per quanto io rinforzassi la mia muscolatura, che andava man mano delineandosi, c’erano due o tre bestioni che continuavano a sopraffarmi: forse non erano i più abili nelle arti marziali, ma la loro imponenza fisica finiva sempre per avere la meglio. Fu quel trenta marzo che, con mia sorpresa, ebbi la prova che Clyde non mi odiava, semplicemente mi spronava a diventare il migliore.

«Sentimi bene, coso – quella sua abitudine a chiamare tutti in quel modo era fastidiosa, all’inizio, ma ci si faceva presto il callo – Perché credi che ti metta contro ai giganti? E secondo te, perché non è un gigante a dirigere l’addestramento, ma uno con una corporatura normale e un’altezza nella media?».
Probabilmente perché i più grossi sono sempre in missione, pensai, ma mi resi conto di quanto potesse essere stupida quella risposta. Aprii la bocca come per parlare, anche se non avrei saputo cosa dire, ma il supervisore mi interruppe prontamente.
«Qualunque cosa tu stia per dire, è una cazzata. Io ero il migliore nei combattimenti corpo a corpo, nel mio corso, e sono solo qualche centimetro più alto di te. Contro quelli più grossi, devi usare l’astuzia. Devi farli cadere, puntando al loro punto debole: l’altezza». Rimasi un po’ spiazzato, avevo sempre pensato che fosse un punto di forza. «Le gambe lunghe sono scomode da tener dritte quando vengono attaccate. Ricordalo».

Se ne andò senza salutarmi per recarsi al refettorio. Era ora di pranzo. I pasti erano gli unici momenti comuni a tutti. Responsabili, agenti operativi, reclute uomini… reclute donne. Per quanto l’addestramento fisico fosse diviso per sesso, mi ero abituato al fatto che ci fossero anche delle donne spie, anche se inizialmente la mentalità maschilista era stata difficile da superare. Insomma, in un mondo abituato alla figura di James Bond, chi si immagina che anche le donne possano essere spie? Eppure ce ne sono; sono tante e sono brave. Avevano le corporature più disparate, come noi ragazzi d’altronde. Alcune erano praticamente delle body builder, altre più esili; alcune erano più alte di me, altre più basse. Eppure nessuna catturava la mia attenzione in modo particolare. Ero lì per imparare a essere una spia, non per pensare alle donne. Mi sfiorava di nuovo l’immagine di Bond. Avrò tutte le donne che vorrò quando sarò una spia, mi ripetevo con un sorriso quando vedevo le ragazze in mensa.

Aprile era alle porte, eppure non c’era nessuna nuova notizia sul sicario belga che era sulle tracce di Sua Maestà. Da quando ero stato attaccato, a metà ottobre, l’unico avvenimento collegabile a quella faccenda era la morte di Nicolas. La spia era stata molto attenta dopo l’articolo che parlava del presunto suicidio, probabilmente per quello aveva preferito non esporsi con atti clamorosi, ma molto probabilmente continuava il proprio lavoro sottobanco, senza che nessuno se ne accorgesse. Dev’essere molto astuto, pensavo tra me ogni volta.

Il consiglio di Clyde si rivelò più utile di quanto potessi sperare, ero diventato molto più scaltro nel corpo a corpo quando affrontavo gli armadi che mi metteva contro e rapidamente fui promosso all’addestramento alle armi. Le magliette attillate bianche furono sostituite da quelle gialle, destinate appunto a chi, come me, si prodigava nell’apprendimento dell’uso delle armi bianche. Mi venne insegnato come usare bastoni, spade e pugnali; imparai in un paio di settimane i rudimenti e passai con facilità al livello successivo. Maglie rosse: armi da fuoco.

L’addestratrice era una tale Tina Young, che aveva i capelli rossi tinti e dava l’impressione di essere molto più giovane di quanto fosse. Nomen omen, pensai non appena la vidi. Era bassina e magra, sebbene riuscisse ad essere forte e autoritaria con tutte noi reclute, che con lei affrontavamo un percorso non più distinto tra i sessi. Fu lì che mi feci i primi amici veri tra le reclute: Chloe Frost e Frank Stinson. Imparammo insieme a centrare un bersaglio a quaranta iarde senza il minimo margine d’errore. Alle lezioni della Young partecipavano anche alcuni aspiranti analisti, contraddistinti dalle magliette di color arancione, che comunque imparavano a tirare fino a una distanza massima di diciotto iarde, ventidue nei casi eccezionali.

Sempre in aprile ci fu un cambiamento alla guida dell’MI5, con Sir Jonathan Evans che lasciava il posto di Direttore Generale ad Andrew Parker.

Era sabato diciotto maggio quando ci avvisarono che eravamo pronti, tutti e tre, per il test finale: saremmo diventati agenti operativi; tuttavia non conoscevamo la data in cui si sarebbe svolto. Il mio compleanno era alle porte, e nonostante la pressione dell’esame decidemmo comunque di festeggiare. Martedì ventuno maggio saremmo andati mangiare fuori insieme, noi tre. Essendo nella sede di una delle maggiori agenzie spionistiche, ovviamente, la cosa non sfuggì a nessuno. Tina Young, con cui tutto sommato eravamo diventati amici nonostante le differenze di età e di rango, ci consigliò un paio di posti vicini: uno per la cena e uno per bersi qualche birra dopo mangiato. Tutto offerto dall’agenzia.

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Capitolo 18
*** Il mio compleanno ***


Andammo in un ristorante pasticceria sulla riva opposta del Tamigi chiamato Casa Madeira, dove il menù prevedeva un antipasto fatto di melone fresco e prosciutto crudo, una bistecca di maiale servita con patatine e uova fritte, riso e insalata e un dolce a scelta: dato che la temperatura era gradevole, optammo tutti per il gelato. Frank e Chloe mi regalarono una bottiglia di champagne Dom Perignon che costava centosettanta sterline. O meglio, la regalarono a tutti e tre, e andava bene così. Non avrei mai preteso un regalo costoso da nessuna persona, le conoscevo da troppo poco tempo e mi sarei sentito non poco a disagio.

Finita la cena, e l’ottimo champagne, ci incamminammo su Goding Street per raggiungere la Royal Wauxhall Tavern, il locale più sicuro per noi spie londinesi. Entrammo e notai che quasi tutte le persone presenti avevano la classica faccia da spia, che avevo imparato a riconoscere. Scelsi un tavolo coi miei due amici e notai due ragazze stupende al bancone, sedute sugli sgabelli alti. Una era mora, con dei ricci voluminosi e l’espressione sorridente; l’altra invece era bionda, aveva gli occhi grandi d’un marrone intenso, e benché stesse sorridente aveva una leggera nota di malinconia sul viso. Il sorriso disegnava una curva meravigliosa su quelle labbra non troppo carnose, ma non riusciva a contagiarle gli occhi. Mi scambiai un’occhiata d’intesa con Frank e ci alzammo quasi simultaneamente per andare a parlare con loro, con la scusa di ordinare.

«Una vodka tonic e una pinta di Guinness – dissi automaticamente al barista, per poi aggiungere – E un Bloody Mary alla signorina bionda». Indicai Chloe, che ci guardava con un’espressione divertita. Frank guardò insistentemente le ragazze.

«Che belle signorine abbiamo qui», commentò rivolto verso di me, ma alzando la voce quel tanto che bastava per farsi sentire dalle due.

La biondina si avvicinò e rispose con tono stizzito: «Peccato non si possa dire lo stesso di voi». Mi fissò qualche istante, poi si voltò di nuovo verso l’amica, che invece aveva la curiosità dipinta sugli occhi, con una punta di malizia che li faceva brillare fiocamente. O forse era l’alcol.

«Io sono Elizabeth Dempsey – disse la ricciolina – e la mia amica si chiama Julie Jackson. Ma preferisce Jay Jay». Dalla parlantina ipotizzavo due possibilità. O era una civile, o una spia che aveva alzato troppo il gomito. La risposta al mio dilemma non tardò, data a mezza voce da Julie.

«Brava, siamo agenti da un mese e già spiattelli la nuova identità in giro!». Dunque era semplicemente euforia quella di Elizabeth. Il tono di rimprovero all’amica lasciò il tempo che trovava, perché poi distese le labbra in un sorriso, che per un istante sembrò arrivare agli occhi. Un istante soltanto, poi tornarono cupi com’erano stati sin dal primo momento che l’avevo vista; bellissima e sorridente, ma malinconica.

Per un attimo pensai a come sarebbe stato se io e lei ci fossimo incontrati in un qualsiasi altro pub e senza le false identità sulle nostre spalle. Quell’istante si dilatò spropositatamente. Lei comunque incantevole; io molto probabilmente più sfigato, sicuramente meno muscoloso. Mi immaginai di invitarla al cinema. Con la scusa di un cestino di pop corn grande da dividere, le avrei sfiorato delicatamente le mani; mi formicolarono le dita. Immaginai di avvicinarmi lentamente per baciarla su quelle candide labbra; mi si seccò la gola. Pensai anche all’attesa della notte prima del cinema, alla mia stanza buia che mi circondava, al formicolio allo stomaco, alla sensazione di apnea data dall’attesa. Era tutto così reale, il cuore mi martellava nel petto, il formicolio divenne come un pugno.

Era un pugno.
 

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Capitolo 19
*** Il test di idoneità ***


Avevo un sacco di iuta sulla testa e qualcuno mi aveva appena colpito allo stomaco. Mi ritrovai piegato, senza fiato, pensando all’assurdità della situazione. Mi trovavo in un bar stracolmo di spie e qualcuno mi aveva appena sferrato un cazzotto. Sentii un ghigno femminile vagamente familiare e un ago spingere nella mia spalla, cogliendo con perizia una vena intorpidendomi. Pensai alla donna che, insieme a Tom, aveva cercato di uccidermi rapendomi alla stazione di Cambridge.

Ironia della sorte, ero proprio su un treno quando mi svegliai, ancora intontito. Sentivo il rumore inconfondibile delle ruote sui binari. Dalla frescura intuivo che fosse ancora notte, quindi non doveva essere passato poi molto. Avevo le braccia legate dietro alla schiena con una corda di canapa, di quelle spesse, col volto ancora coperto. Mi stupii della velocità con cui ripresi le forze e i sensi, che si acuirono immediatamente. Avvertii che il respiro di un’altra persona era come il mio, rapido e irregolare. Da una parte mi consolava non essere l’unico ostaggio, ma rabbrividii al pensiero di cosa potesse essere successo a tutte le altre spie alla Royal Wauxhall Tavern. Era impossibile che fossimo stati prevelevanti soltanto io e lo sconosciuto che avevo accanto.

Nessuno ha reagito? Nessuno ci ha salvati? O forse ero troppo perso nei miei pensieri idioti per accorgermi di quel che era successo intorno? C’erano dei morti? Dei feriti?. Mi posi domande a raffica, ben sapendo che non avessero la minima possibilità di risposta. E gli altri? Chloe, Frank, e… di nuovo i miei pensieri furono interrotti dalla voce registrata del treno che avvisava della prossima fermata, ma non ne colsi il nome. Mi dissi che avrei dovuto smetterla di perdermi tra le nuvole, se mai fossi uscito vivo. E persi la ripetizione del nome della fermata, maledicendomi.

«Dove cazzo siamo?» chiesi, spostando il peso del corpo per urtare con la spalla il mio ignoto compagno di sventura.

«Addlestone». Riconobbi la voce grave e amichevole di Frank, tirando un sospiro di sollievo. Ma la piacevole sensazione di avere un amico al mio fianco durò ben poco, perché nel giro di pochi istanti avevo una pistola puntata alla tempia.

«Un’altra parola e siete morti», intimò una voce glaciale con un accento vagamente tedesco, che apparteneva indubbiamente al belga. Ormai ne ero certo: una volta scoperto che ero ancora in vita aveva aspettato la prima occasione utile per tornare a prendermi e finire il lavoro che la sua complice non era riuscita a completare. Il treno si fermò e con lui il suo caratteristico dondolio. Eravamo giunti a destinazione e sentii allentata la pressione della pistola dalla mia tempia l’uomo mi prese di peso, doveva essere enorme, perché sembrava non essere minimamente messo in difficoltà dalla mia strenua resistenza. Il belga aveva un compare che si stava occupando di Frank, ma non con la stessa fortuna. Sentii un leggero fruscio, seguito dal rumore sordo di un calcio ben assestato.

«Stronzo», mormorò, con un accento tedesco ancora più marcato. Poi, la deflagrazione di uno sparo mi raggelò. Frank doveva avere le mani legate come me, quindi…

«Questo non ci darà più problemi, capo», disse ancora il secondo uomo, trattenendo a stento una risatina di sadico compiacimento.

Mi portarono giù di peso, senza risparmiarmi qualche pugno per farmi stare più tranquillo. Sentii aprirsi un portone e venni scaraventato su una sedia e mi venne tolto il sacco di iuta dal volto. Mi ritrovai in uno stanzone buio illuminato fiocamente da una sola lampadina che pendeva oscillando dal soffitto. La scena era fin troppo familiare: solo che stavolta erano armati di pistole, anziché di veleni. Dovevano essere certi.

«Signor Cooper, ancora tra i piedi, eh?», chiese quello che mi aveva portato fin lì di peso.

«Non mi chiamo Cooper e non so di chi tu stia parlando», risposi freddamente. «Ma so chi sei, fottuto belga».

«Certo, ora si fa chiamare così? Nuovo nome in codice? – ridacchiò – Comunque, se sa chi sono, di certo sa troppo e la dovrò eliminare in ogni caso». Sentii i suoi passi lenti e misurati allontanarsi e poi riavvicinarsi alle mie spalle; mi era venuto dietro evitando il fascio di luce. Ora parlava pochi centimetri sopra al mio orecchio.

«Sono sicuro che lei capisca – mi balenò un’idea folle in mente – il motivo per cui non posso permettermi che lei rimanga…». La parola “vivo” gli restò strozzata in gola, perché scivolai di scatto dalla sedia, la sollevai con le mani, ancora legate dietro la mia schiena, e lo colpii sul mento. Scansai la sedia e intravidi l’uomo barcollare davanti a me. Gli diedi una testata che lo fece vacillare ancora di più, sferrandogli poi un calcio con la gamba destra dritto sulla milza.

Sentii un applauso dietro di me e improvvisamente un bagliore accecante mi ferì gli occhi. Mi girai per capire cosa stesse succedendo, e vidi Clyde alle mie spalle, sorridente e impettito.

«Hai visto che funziona? Usa l’astuzia! – sembrava fiero e divertito allo stesso tempo – I miei complimenti, coso. Anzi, ormai… agente Duncan».

Al suo fianco, Tina Young teneva aperto il distintivo con la mia foto. Ero diventato una spia.
 

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Capitolo 20
*** Agente Psycho, Sezione Delta ***


Per la notte, alloggiammo in un bed and breakfast di Addlestone. Per la verità, non dormii più di tanto. Arrivammo tardi, verso le tre del mattino, e passai almeno un’ora a giocherellare col mio distintivo e col tesserino riconoscitivo dell’MI5. Agente numero 132170210, Desmond Duncan. Fissavo la mia stessa foto, riconoscendomi a stento, sia per il vestito elegante – la classica tenuta da spia, in giacca e cravatta – sia, soprattutto, per l’espressione sicura che ridisegnava i miei lineamenti. Oltre ai distintivi, mi venne consegnato anche un invito speciale per il giorno stesso, ore nove del mattino, Sezione Delta  dell’MI5. In stanza, trovai ad aspettarmi una Glock 17 Gen4, la pistola che da qualche mese era diventata d’ordinanza per tutto l’esercito inglese.

Entrai in un ufficio di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, nel terzo piano sotterraneo di Thames House. Ad attendermi c’era un uomo sulla settantina, i cui occhi ambrati mi guardavano da dietro un paio di spessi occhiali da vista.

«Buongiorno, agente Duncan – mi accolse – io sono K, il direttore della Sezione Delta. Qui potrà trovare tutte le armi a disposizione dell’agenzia e scegliere quali siano quelle di suo maggiore gradimento». Rimasi stupito dall’energia nella voce di quell’uomo, così anziano ai miei occhi, eppure indubbiamente pieno di inventiva. «Ho osservato i suoi test e sono abbastanza sicuro di almeno una pistola che sceglierà. La prego, indossi questo orologio e questo auricolare, e si ricordi di non toglierli per nessun motivo. Voglia seguire la mia assistente nel giro dell’armeria».

Mi congedò rapidamente, probabilmente perché oberato di lavoro. Allacciai il cinturino dell’orologio e infilai l’auricolare nell’orecchio sinistro. Nella stanza entrò una ragazza dai capelli ramati e leggermente mossi, gli occhi verdi e a palla, le labbra sottili e messe in risalto da un rossetto rosso scuro, tendente al viola. Indossava un tailleur blu notte che probabilmente ne invecchiava di qualche anno l’immagine, ma anche così sembrava a stento ventenne. Mi sorprese a fissarla e mi lanciò un’occhiataccia di sbieco.

«Che c’è? – chiese con tono quasi di sfida – Vuoi una foto?». Sorrisi, ma lei non ricambiò.

«Pessy, non essere così rigida, su! – la rimproverò bonariamente K – L’agente Duncan deve scegliere le proprie armi per la prima missione. Sii… quantomeno cortese».

Non appena fummo fuori, le porsi la parola. «Allora, Pes…». Non riuscii a finire.

«Per te sono l’Agente Psycho – mi interruppe – Solo K può chiamarmi in quel modo, e gradirei che non facessi umorismo facile su una mia possibile relazione ultralavorativa con lui, è solo mio nonno. Sappi che ho ucciso per molto meno, Duncan».
 

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