The New Trio

di Demipotterbutes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The One ***
Capitolo 2: *** The Second ***
Capitolo 3: *** The Third ***



Capitolo 1
*** The One ***


                                                                                                                                                                [Gabriel]
Uff, devo svegliarmi anche oggi, ma d’altronde chi potrebbe sopportare per un giorno intero la mia assenza? . Ma perché non fingermi malato? Ma come al solito, la mano di ferro di Zia Lee che fa tremare la porta della  mia stanza, così come la sua voce poderosa che fa sempre –amorevolmente, probabilmente-  un ulteriore controllo  e oggi è perfino di buon umore, penso con una punta di amarezza fin troppo evidente. Solo quel rimbombo fa pensare all’aspetto di Zia Lee: una donnetta bassa e grassoccia, zitella ovviamente, che indossa sempre quegli abiti neri, pesanti, magari con un grembiule con tante tasche, che di solito brandisce un minaccioso mattarello di legno calibro 50, con annessa mitragliatrice a pepe e paprika. Apro gli occhi, sbattendo le palpebre intorpidite dal sonno, e osservo annoiato la stanza che mi circonda, buia. Non ci sono  finestre in camera mia, se non quella specie di tapparella che permette di respirare attaccata alla porticina quasi tagliata in due per la posizione delle scale. Vivo in un condominio, ero al 5° piano, Manhattan; da lì non si vedeva un gran che, probabilmente era l’edificio più basso e insulso di tutta l’isola, ovviamente dopo la mia scuola. Ah, la mia scuola. Un inutile ammasso di acciaio e vetri, e ovviamente di professori assatanati che vogliono interrogarti tutti i santi giorni. Ma dico io, quei compiti a sorpresa non li potete mettere in... ehm, ehm, voglio dire: quei buoni foglietti con domande a risposta da spiegare, non potete  gentilmente bruciarli? Un sorriso divertito mi attraversa le labbra: che bello riuscire a svegliarsi di buon umore nonostante Zia Lee! Mi alzo lentamente dal letto della mia squallida camera, le mura bianche che devo ricordare di dipingere, i cassettoni pieni di roba vecchia insieme a scatoloni pieni di cianfrusaglie. Un giorno ho provato ad aprirne uno, trovandoci dentro un bigliettino con su scritto “Eredità della signora Benedith McLaggen per la signorina Lee McLaggen” e una cassettina di pelle scura. Leggendo il nome di mia madre mi ero fermato, ricordo di aver richiuso e di averlo scaraventato in un angolo della stanza, non lo più ritrovato. O minimamente cercato;  Di solito mi dedico alla pulizia della stanzetta con una particolare dedizione da far invidia anche alla cameriere più puntigliose. Compiti, direte voi. Ma chi li fa  mai, i compiti! Se solo i prof sapessero che ho appena aperto un bel negozietto in cui vendo soluzioni, penne bigliettino, munizioni per le cerbottane…  ah, già, la cerbottana. Sono sempre bravo a mirare sulla testa dei prof o sulla lavagna, meritandomi un 5 con il mio compagno. Mi avvicino sicuro, senza neanche accendere la luce, all’asse di legno su cui appoggio le mie poche cose: un telefono, una fotografia della mamma e infine un braccialetto d’argento; quest’ultimo ha  come centro una placchetta d’argento su cui c’è inciso un sole brillante, o almeno sembra risplendere di luce proprio in ogni momento della giornata. Appeso al muro, proprio davanti a me c’è uno specchio che riflette la mia  immagine: un quattordicenne, anni da poco compiuti, con la carnagione chiara ma abbronzata anche in pieno inverno, capelli biondi riccioluti sempre spettinati con ciocche particolarmente ribelli; sono molto fiero del mio aspetto, non m’importa di quello che dicono gli altri. Anzi, gli altri non mi dicono proprio niente: cerco di essere amico di tutti, soprattutto perché riesco ad adattarmi bene alle situazioni, seguendo più o meno gli interessi comuni per non farmi deridere. Se poi non dovessi proprio  farmi piacere quella cosa, che mi deridessero pure, tanto sono più grosso di loro, ma non è mai capitato e spero non capiterà mai. Ma proprio quando queste acute riflessioni mi attraversano la testa, illuminandone gli angoli remoti e non utilizzati –tipo il cervello-  un altro colpo da terremoto scuote la porta facendo tremare un’altra volta la casa: zia Lee è furiosa, e non ho bisogno di vederla in faccia per sapere se sta pensando di rompermi in testa un bel mattarellone di legno; così mi cambio in quattro e quattr’otto, mettendomi quelli che forse sono un jeans e una felpa rossa, abbastanza stretta e aderente al punto da far vedere qualche muscolo in via di formazione. Esco dalla stanza al volo, mentre corro, mi metto un calzino e tengo in equilibrio lo zainetto sulla spalla destra, acchiappo i miei due unici oggetti trasportabili: il telefono e il braccialetto d’argento. Quel braccialetto è l’unica cosa che mi ha lasciato mio padre. Lo so che volete sapere dove sono i  miei genitori, pfh. E’ inutile che suggerite. Si, sono entrambi... ma che ve ne frega! Non voglio parlare con dei tipi che neanche conosco! Sì, sto parlando con te, proprio con te, che stai leggendo in questo momento. Gira a largo dalla storia della mia vi- e sì, se te la sto raccontando nei minimi particolari è perché le avventure di Capitan Gabriel devono essere predicate in tutto il mondo, essere stampate e tradotte in tutte le parti e lingue del mondo, affinché tutti conoscano la mia noiosa vita e ne traggano insegnamento: se devi scegliere tra una Zia che pare una metà tra Peppa Pig e l’Incredibile Hulk con la stessa barba di Hagrid e tra la Casa-Famiglia, fidati, scegli la seconda, ti trateranno meglio. Anche perché, riguardo alle case, sicuramente sarebbero state meglio di questo lurido appartamento: un sottoscala, il luogo dove ho passato in pratica tutta la mia vita fino ad ora – dai 5/6 anni a oggi-  più altre stanze nel piano di sopra: un corridoio, tre stanze, una cucina/salotto e basta. Ok, può  essere accettabile quanto volete voi, ma la condizione igienica non proprio pulitissima e ancora di più la presenza di Zia Lee possono  far uscire fuori di testa qualsiasi cristiano, ortodosso o musulmano esistente al mondo. Di certo non me, ma la mia pazienza è stata messa a dura prova troppo a lungo . Fin ora sono stato abbastanza bravo nel rientrare ad una certa ora, non far rompere la porta a furia di richiami e a non portare le ragazze con cui mi tengo. Ma anche perché ho da poco un abbonamento mensile alla famosa ditta di sonniferi, quindi sono apposto e ogni volta che esco gliene verso un po’ –più di un po’- nella tazza di aranciata serale. Ma, tornando alle mie epiche imprese di sopravvivenza; attraverso come un fulmine il salotto antiquato, pieno di strani odori dovuti ai continui esperimenti culinari di Zia Lee o forse all’odore di putrefazione della stessa donnetta tozza, le rughe che le solcano il viso prematuramente, i capelli crespi e sempre fuori dalla coda che li tirava indietro prepotentemente, costringendo quei pochi capelli ancora biondicci a delinearle in malo modo la testolina piccola e con qualche bozzolo in più nella parte posteriore per botte su cui non voglio indagare troppo. Chissà se quell’armadio che ha in camera è colpevole di qualcuno di quei bozzoloni... comunque, quel salotto comprendeva un tappeto in pelle di orso, la testa ancora visibile e aperta, un grosso divano di cuoio mezzo sfondato, la parte posteriore è stata usata come nascondiglio da me, visto che ho scavato un intera caverna dentro l’imbottitura e tagliato pezzi di cuoio per aprire un varco adatto, lì dentro ci andavo per sfuggire alla collera di quella pazza di Zia Lee. Lì dentro ci ho nascosto molte cose, un giorno devo andarci di nuovo, magari trovo modi di copiare dimenticati e forse il mio vecchio arco di plastica, uno di quelli che si vendono alle bancarelle nei giorni di festa, come premio per qualche gioco... lo usavo per dare quelle frecce di gomma con le ventose sulla faccia di quella odiosa donna, ah! Forse l’ha buttato...  Non riesco e non voglio, sinceramente, guardare per più di un minuto la brutta  zia Lee che indossa a quel che vedo nel movimento troppo veloce dell’afferrare le scarpe da ginnastica e anche il cartoccio marrone che contiene il mio pranzo, -probabilmente un panino al prosciutto- un pigiama ben coperto da una vestaglia e ha anche una tazza bella piena di caffè. Un ed esco finalmente di casa, facendo tutte le rampe di scale velocemente, mentre osservo fuori dalla finestra il tempo, che per  ora si presenta nebbioso e con pochi raggi di sole, non mi accorgo delle scale bagnate e sto per scivolare, ma all’improvviso il mio braccialetto inizia a splendere, non vedo più niente.   Riesco solo a capire che devo continuare a camminare per non cadere, e piuttosto in fretta, forse sono riuscito ad aggrapparmi a qualcosa perché inizio a sentire veramente il contatto con la superfice leggermente gommosa e appiccicaticcia del corrimano, fino a  quando tutto il bagliore termina, mi ritrovo al piano terra, davanti alla porta del condominio. Giuro a me stesso di parlarne con Julie e fino a quel momento di non pensarci. Mi avvio così verso la fermata del bus; solo lì inizio a riflettere un po’, rompendo la mia promessa giurata sottovoce, facendomi prendere un po’ dal panico, lo stomaco che si chiude in una stretta dolorosa... scuoto leggermente la testa cercando di non pensarci, e infilo il panino nello zaino, mi risistemo un po’ e aspetto il pullman che mi porterà alla Street  School, la scuola degli sfigati. Alla fermata sono  presenti solo qualche persona, adulti , ma perlopiù ragazzini della mia età, tutti indossano abiti che sono assolutamente da considerare “Fighi” ma anche un segno di distinzione :vari gruppi di amici si vestono o hanno un segno che li contraddistingue; quelli lì che appartengono, anzi, che pensano di appartenere al ceto sociale più alto, figli di ‘ndrocchia. Ovviamente da evitare, per qualsiasi ragione al mondo, visto che sono finito in Carcere Minorile per ben due volte nella vita.  Un po’ di saluti, pugni e schiaffetti: questi erano i miei amici, gente falsa e altamente bastarda, come scoprirò più tardi, nel momento del bisogno. Nessuno con cui parlare veramente: era sempre “segui il flusso della cose, non parlare mai di testa tua”. Seguivo fedelmente la filosofia, ogni volta che se ne presentava l’occasione mi sento chiamare: è Jack, un mio amico grosso quanto un armadio a quattro ante, sudafricano, capelli neri come la pece e poi quegli occhi che sembrano scannarti al solo contatto... peccato però che i brufoli che gli butterano quel faccione rovinassero l’effetto “cattivo” lo prenderei a pugni, ma la sua stazza mi fa fare un passo indietro   domando, probabilmente l’ha consegnato in bianco, ma anch’io di solito non vado una meraviglia, ma c’era quel santo di Frank che mi passa quasi tutto. Ah, quanto gli voglio bene! <oh... beh.. ‘nsomma... 2..> trattengo a stento una risata. Io prendo al massimo 6 o 7, lui prende quelle sole di 4,3 e 2. Un bel batti-cinque e finalmente se ne va La stazione del bus oramai si sta svuotando man mano che l’ora avanza, il mio autobus arriva sempre ultimo rispetto agli altri, ma non ci posso fare niente, ogni mattina devo per forza farmi una corsa dal cancello principale alla mia aula, la 3D, quella in culo alla scuola. La mia scuola è cominciata da un po’, una settimana, in un freddo settembre NewYorkese , forse due. Il professor Ambrogius dice che ci sarebbero state novità, quella settimana... probabilmente compito a sorpresa, magari uno di quei temi “cosa avete fatto in estate, bambini?”. Dio, quanto odio quel genere di consegne, ma soprattutto il modo in cui mi tratta quell’altra orrida professoressa, la Litiermi, che sembra venuta fuori da un film horror per quanto è vecchia. Mi distraggo pensando finalmente all’autobus e a quello che avrei dovuto affrontare a scuola. “Solo due ore di latino e una di storia, che sarà mai.” Infatti quel giorno sarei uscito prima, e sarei andato... sarei andato a giocare un po’ al campo, magari. Sì, quella era una buona idea. E alla fine l’autobus arriva. L’aria nebbiosa non è il mio genere di tempo preferito, ma sono sicuro (inquietante) che in quella strana nebbia (inquietante inquietante) c’era qualcosa di innaturale e superiore (inquietante inquietante inquietante). C’era anche un po’ di vento, ora che me ne rendevo conto, e la cosa più strana era che si sentiva, al di là dei classici suoni della città, rombi di tuoni; guardai un momento in alto, e vidi una cosa che non mi sarei mai immaginato di vedere: c’era il mio riflesso, o almeno quello che potrei sembrare da adulto, visto che era una copia di me con una barba, aveva degli occhi azzurri splendenti e quegli incantevoli boccoli biondi. Ma quella testa aveva un che di strano, era letteralmente disegnata nella nebbia. Per un attimo quei perfetti denti sorrisero  e immersero tutta la città in un bagliore accecante. Ancora una volta, sperai che fosse solo un illusione e che mi sarei confidato solo con Julie, per non essere preso come un pazzo e perdere la mia reputazione con gli altri.  Mi concentrai per respirare normalmente e calmarmi, e salii sul mezzo giallo che mi avrebbe portato a un altro esasperante giorno di scuola, alla Street  School. Mentre ero deciso a non riflettere, un pensiero più veloce della luce fece capolino nella mia mente: quella luce abbagliante e quella faccia hanno qualcosa in comune... lo scacciai subito, ma la cruda verità venne fuori: prima avevo cavalcato un raggio di sole.  



Lo stupidissimo angolo dell'autore: Eccoci! Questa è la mia prima fanfiction, quindi perdonatemi e anzi fatemi notare gli errori che ho fatto, così miglioro :D 

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Capitolo 2
*** The Second ***


Molto Prima… [Julie] Si ode per il cielo un lieve cinguettare di uccellini “Driiin… Driiin” aspetta... ma questi non sono uccellini! BANG! La mia sveglia viene semi distrutta, scaraventata negli angoli remoti della mia stanza . Mi alzo dal mio letto fresco, e mi avvicino all’angolo in cui giace quell’aggeggio demoniaco: sono le 6:30, perché quella maledetta sveglia ha suonato? Bah! Comunque, non posso andare di nuovo a dormire, la dannata sveglia mi ha tolto tutto il sonno che potrei aver avuto in corpo. Così inizio a prepararmi per scuola, facendo attenzione a non svegliare papà e i miei fratellini: Jack, Simon, Dwein, Lester e Forest. Il quintetto del demonio, hanno in pratica l’uno dall’altro un anno di differenza, Forest è il più grande dei 5 -9 anni- mentre il più piccolo è Jack con 5 anni. Di solito vanno in giro per casa combinando disastri e rompendo cose, tanto papà non se ne cura più di tanto. Già, lui non si cura mai di niente di tutto quello che succede a loro, è sempre e solo incentrato su di me. Non che un po’ di attenzione paterna mi manchi, ma è continuamente occupato da me... credo che nella sua testa ci sia una specie di grafico a torta: il 25% della vita la passa lavorando e il 75% pensando a cosa faccio, se sono a scuola, se studio... insomma, avete capito. Apro l’armadio, una schiera di vestiti non esattamente alla moda mi fa “ciao ciao” tutto contento come ogni mattina; scelgo una maglietta azzurra lunga fino all’inizio delle cosce con una minima scollatura poco evidente, con le estremità punteggiate da piccole borchie rilucenti, insieme ad un jeans lungo fino alle ginocchia, non molto adatto al clima freddo di quest’inverno americano, con un paio di calze s e le mie amate converse bianche. Li appoggio sul letto e inizio finalmente a guardarmi intorno: la mia stanza è illuminata in parte da sottili raggi del sole nascente; le pareti bianche hanno appesi vari disegni fatti da me, o quadri rappresentati paesaggi naturali. America, America, America. Tutto trasudava americano nella mia stanza. Dai paesaggi mozzafiato –Americani- sui quadri, alla bandiera che tengo nascosta nel cassetto, Una scrivania in legno di mogano sta in un angolo di stanza, sopra alcuni miei oggetti personali, oltre alla mia speciale piantina di fagioli che a quanto pare non cresceva da... un bel po’, forse dall’inizio dell’inverno e del freddo, che stupida che sono stata a piantarla proprio in quel periodo! Mi siedo sul letto, guardando in continuazione quel punto fisso, cercando di imprimermelo nella memoria, poiché so che sarebbe successo qualcosa. Mi alzo di nuovo, forse faccio dei giri a vuoto, ma nella mia testa c’è una vocina che continua a ripetermi "C’è qualcosa di straaano... c’è qualcosa di straaaaanoooo..." non sapevo bene cosa me lo dicesse, lo avvertivo dritta nel sangue, e questo mi faceva accapponare la pelle. Presi subito il cellulare per controllare le ultime notizie del giorno sul giornale online: niente. Ma fu solo allora che pensai “Ehi, ma di cosa ti preoccupi?” e mi concentrai sul metodo che avevo imparato a Yoga, e mi misi a respirare profondamente, pensando a cose belle. Di solito immagino, quando cerco di controllarmi, di vedere me stessa in una stanza bianca, completa di... nulla. Ma ora stava accadendo qualcosa: sentivo la mia mente che si apriva in una nuova linea di pensiero, più profonda, più intensa nella concentrazione. Ora da quella stessa stanza bianca iniziavano a fluire molte immagini, lentamente ma comunque continue... e mi sentivo libera, come mai prima d’ora, di poter fluttuare leggera e in libera scelta su cosa fare. Mi sollevai, non controllando completamente la mente, consigliata più dall’istinto e mi diressi fluttuando con grazia verso un immagine che rassomigliava vagamente a un campo di grano visto dall’alto. Improvvisamente iniziò a tirare un forte vento che mi trascinò via da quell’immagine che rappresentava qualcosa di importante, ne ero certa. Mi trascinò via lì, ma riuscii a mantenere la concentrazione per non “svegliarmi” da quella specie di trance; quell’uragano mi portò dritta dritta verso un immagine diversa, che faceva vedere la mia piantina di fagioli. Entrai in quello che doveva essere una distorsione della realtà, poiché non vidi solamente il vaso: c’era tutta la mia stanza... e c’ero io, come fermata nel tempo. Anzi, tutto si era fermato. Mi concentrai ancora più a f0ndo per non urlare e scappare, e invece mi abbandonai ancora all’istinto... divenni nuovamente calma e rilassata... sentii la cosa più strana che avessi mai sentito in tutto la mia vita: una voce di una donna, che sembrava essere dolce come un fiore ma rude come un villaggio di montagna -Finalmente... ci incontriamo....- non era molto chiara, rimbombava molto, sembrava venire dagli estremi confini di una vallata, ma si udiva dalla parte della pianta -Figlia mia... non ti posso parlare molto... ma sappiii... che non dovrai... maiiii- si faceva via via più chiara, e nel ricordo, accanto alla pianta, si formava un contorno di una donna, sbiadita -Mollare.- Più si concentrava su di lei e più diventava chiara: era una donna alta, dalla pelle abbastanza scura, capelli rossi dentro ai quali c’erano intrecciate spighe di grano marroncine chiare, il vestito era.... era... una veste marrone, che rassomigliava più a un rozzo sacco di patate che a un vestito vero e proprio, e sembrava circondata da un aura verde. Sembrava.. sembrava... me! Una me di certo più anziana, ma aveva alcuni tratti comuni, per esempio le stesse guance, ma i capelli rossi e i lineamenti dolci di mio padre sicuramente non corrispondevano a quelli della donna, duri, campagnoli ma che conservano in se quasi un mistero, quasi fosse la chiave della vita. Impossibile, mi dico da sola, mamma è morta quando sono nata -Cosa... diamine... succede?- chiesi alla fine, dopo aver contemplato per un po’ la signora -Oh, mi dispiace non essermi presentata prima: sono Demetra, dea dell’agricoltura.- mi rispose la donna -E sono venuta qui, ragazza mia, per avvertirti che giocherai un ruolo importante in tutto quello che succederà. Non devi demordere. Capito?- Si guardò intorno per un po’, finché non trovò una mia foto con mio padre; solo lì iniziò a sorridere, e pensai che fosse la donna più bella del mondo -Cosa... cosa succede?- avrei voluto dire, ma mi morì la voce in gola -Q-quindi... tu sei una dea dell’Olimpo?- iniziai a domandare, rosa dalla curiosità, -Ma la cultura e tutti gli dei... non dovrebbero essere morti insieme a tutti i Greci, secoli fa?- continuai a fissare la donna, con poca educazione -Oh, no cara mia. Ci spostiamo insieme alle potenze del mondo. E ora siamo in America. Oh, non mi rimane molto tempo.- fece una breve pausa la donna -Non dovrei neanche essere qui, ragazza. Ora, non posso nemmeno riconoscerti.- rombi di tuoni risuonarono nel cielo, pericolosamente vicini, -Diamine, Zeus, un momento!- e imprecò in una lingua apparentemente sconosciuta, ma che aveva un che di familiare: probabilmente, se non fossi stata in preda allo shock e mi sarei concentrata di più nel capirla, forse avrei potuto riconoscerla. -Figlia mia, devo andare.- la sua testa vibrò in modo strano e gli occhi ebbero un tremito -Ohhh... avrai un futuro davvero bellissimo tu e.... ma non riuscì a finire, che un fulmine la colpì e scomparve. Non riuscii a mantenere la concentrazione e mi svegliai da quello strano status: ero confusa, disorientata, ma al contempo mi sentivo più tranquilla. Ehi, aspetta un secondo, chi è che aveva un genitore Divino? Io! E aveva parlato di un futuro con... uh. Avevo già capito. Intendeva Gabriel. Non credevo di provare qualcosa oltre all’amicizia per lui ma... lui si era tenuto con tutte le ragazze possibili e immaginabili, e ogni volta quella notizia mi pugnalava al cuore. Cercai di distrarmi da quel pensiero, e mi iniziai a preparare per la scuola; sulla scrivania andai a cercare il telefono e... Miracolo! La piantina di fagioli era cresciuta vistosamente! Non a caso Demetra era la dea dell’agricoltura, mi dissi e con un sorrisetto quasi furbo alzai la testa al cielo, ma purtroppo vidi solo il mio soffitto. Presi il cellulare, e sulla scrivani trovai un altro regalo: un anello con sopra disegnata , anzi, incisa, una specie di spiga di grano. Il metallo non assomigliava a niente di quello che avevo mai visto: era a metà tra avorio, corno, ferro, oro... insomma, ora assomigliava ad un tronco di albero, era fatto di legno, e vicino alla spiga c’era una foglia incisa. Non capivo, all’inizio, ma qualcosa mi suggeriva che indicava la stagione: l’autunno. Sorrisi e sollevai lo zaino; la merenda era già nello zaino, ne ero certa; senza fare rumore mi avviai verso la porta, dando un'altra occhiata all’orologio: le 6:55.Presto, troppo presto, per chi abita nel centro della città, a poca distanza dai grandi grattacieli e dai monumenti colossali –come l’Empire State Building, il più bel monumento d New York, per me. . Un brutto presentimento però solleticava la parte pessimista della mia mente: non sarei più tornata in quella stanza. Ma forse era una buona idea: in quella casa c’erano così tante regole e divieti da far paura al Codice di Hammurabi e non riuscivi mai a esprimerti completamente. Né a vederti con Gabriel di pomeriggio, pensai, arrossendo e cercando di tenere da parte quella parte di cervello che si immischiava sempre quando sognavo e quando pensavo al mio futuro. Il bus che mi portava a scuola da casa mia era già arrivato, così lo presi e mi feci spazio tra le poche persone già presenti in questa seconda, forse terza, fermata dell’autobus, mentre un senso di inquietudine mi faceva formicolare gli arti, mettendomi in seria preoccupazione; solo quando mi sedetti al posto in fondo mi accorsi che respiravo a fatica e che il fiato mi bruciava la gola.

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Capitolo 3
*** The Third ***


Lo stupidissimo angolo dell'autore: Hello everybody! Ho deciso di mettere le note/robe qui in alto, e innanzitutto mi scuso sia per il mancato post settimanale (per ora credo che un capitolo a settimana -dato che ho i capitoli pronti *coff*- vada bene, ma se ne volete di più, ditemelo :D) e anche per la lunghezza imbarazzante di questo capitolo, non corto, di più. Probabilmente lo pubblicherò insieme ad un altro, per non lasciarvi asciutti e per scusarmi ancora per il mancato post :3 Fatemi sapere considerazioni, consigli e critiche in una recensione qui sotto :D Buona lettura :3

  
                                                                                                                       *               
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               [Jason]
   Nel cielo,  eterea, passa una sottile traccia di qualche fumo, è giallognolo ma si perde anche nel grigiastro del cielo, si divide nei banchi di nebbia, gioca e indugia un po’ con quelle nuvolone grigiastre, fa zigzag per evitare casuali accumuli più consistenti ma si ricompone sempre, ritornando a essere quell’unico e lunghissimo raggio che pare minuscolo, al confronto con la grandezza del cielo. Ma sarà mai possibile che una striscia di fumo –che sia davvero fumo, non si sa- possa davvero ricomporsi? Ma dovremmo vedere il quadro nella sua interezza, per capirci qualcosa: il lungo raggio giallo non pare avere fine, parte da un punto imprecisato dell’oceano, si inoltra nel cielo e poi si inarca puntando una direzione ben precisa, finendo in un arco da fare invidia alla schiena di un gatto. Questo raggio oramai arriva a una sua terza parte: dopo il lento giocherellare, ora si fa spazio ritrovando forza e acquistando velocità, buttandosi in picchiata verso la terra, come farebbe un meteorite in rotta di collisione, scende e scende; alla fine la barriera di fitte nuvole si frantuma per lasciare il posto ad una famosa nebbiolina, dove si può osservare il paesaggio urbano di Manhattan, dove un ragazzo americano dormiente stava per entrare... 
                                                                                                                                                        Nella storia.

   

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