Le Onde del Destino. di lovespace (/viewuser.php?uid=658011)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Horizon ***
Capitolo 2: *** Attacco all'Arcadia ***
Capitolo 3: *** LE DUE FACCE DELLA VERITA' ***
Capitolo 4: *** L'ANGELO NERO ***
Capitolo 5: *** CORPO A CORPO ***
Capitolo 6: *** ARCTIC ***
Capitolo 7: *** RESPIRO NEL RESPIRO ***
Capitolo 8: *** LOST ***
Capitolo 9: *** TOCHIRO ***
Capitolo 10: *** LA SOTTILE MEMBRANA TRA LA VITA E LA MORTE ***
Capitolo 11: *** LEGAMI ***
Capitolo 12: *** CARNE E SANGUE ***
Capitolo 13: *** RIVELAZIONI ***
Capitolo 14: *** L'ONDA ANOMALA ***
Capitolo 15: *** LA CENA ***
Capitolo 16: *** SE TU SEI FIAMMA IO BRUCERO' E SARO' CENERE ***
Capitolo 17: *** SO COME SEI ***
Capitolo 18: *** RAIN ***
Capitolo 19: *** PASSEGGIATA NELLO SPAZIO ***
Capitolo 20: *** TOKARGA ***
Capitolo 21: *** TENEBRE ***
Capitolo 22: *** LA DECISIONE ***
Capitolo 1 *** La Horizon ***
Care ragazze ciò che ci lega
tutte indissolubilmente è l’amore per il nostro Capitano. Come accaduto a molte
di voi subito dopo aver visto il film ‘Space pirates Capitan Harlock’ la mia
testa ha iniziato, quasi da sola, ad elaborare una storia alternativa. Un amore
salvifico per il nostro Harlock. A tal proposito approfitto subito per
ringraziare Harlocked alla quale per mesi ho raccontato la storia e che mi ha
sempre spronato a scrivere. Questo capitolo è tutto tuo. Oggi eccomi qui tentennante.
Spero vi piaccia il mio modo di scrivere e che la storia vi avvinca.
Ringrazio di cuore tutti coloro
che si fermeranno a leggere.
1
LA HORIZON
- Arcadia
“Capitano!” disse Kei continuando a guardare i suoi monitor “sul radar vedo una nave ad appena un anno
luce da noi”. Harlock dal suo trono spostò solo lo sguardo da Kei a Yattaran .
“Yattaran?” L’uomo dopo aver controllato i suoi strumenti con tocchi veloci
delle dita sugli schermi sorrise quasi beffardo “ah ah..è una grossa nave capitano!..Dai
dati in nostro possesso … è..è la Horizon una corazzata classe Destiny!” E
continuando a scaricare dati “hey hey..armamento offensivo e difensivo
utilizzata per il trasporto di contingenti e di rifornimenti..” l’ultima parola
l’aveva pronunciata sorridendo sardonico. ”Kei sai che vuol dire?” Disse
guardando la bionda ragazza alla sua destra. ”Non è una nave è un forziere..ci
sarà di tutto! E in abbondanza..” “Già!“
rispose sarcastica lei “ma anche un vero esercito … dovremmo lasciar perdere
Capitano” guardò verso il trono. Harlock seguendo il filo dei suoi pensieri
“Yattaran imposta le coordinate non possiamo farci sfuggire una occasione come
questa, infliggeremo alla Gaia Sanction una perdita che non dimenticherà.
Tecnica nautica in skip” disse alzandosi con la calma regale distendendo il
mantello ed avanzando maestoso verso il timone. “Ma Capitano vi potrebbe essere
un intero contingente armato!” il tono di Kei era preoccupato. “Tutti gli
uomini disponibili si preparino ad assaltare la nave. A bordo resteranno solo
quelli strettamente necessari, verrò anche io!” . Il tono era imperativo di
quelli che non ammettevano repliche. Kei era perplessa ma la sua partecipazione
all’assalto le dava certezza di esito positivo. L’allarme sonoro dell’Arcadia
si diffuse violento per la nave e la voce di Yattaran l’accompagnava “Tutti gli
uomini disponibili sul ponte per un assalto all’arma bianca, forza razza di
pigroni oggi il Capitano sarà dei nostri!”. A quelle parole gli uomini si
guardarono compiaciuti, qualcosa di grosso bolliva in pentola se il Capitano
lasciava l’Arcadia. Corsero ad indossare le tute blindate. Eseguita rapidamente
la manovra di avvicinamento Harlock piantato davanti al timone ferocemente
determinato, speronò con consumata esperienza e grande tecnica e totale
consapevolezza di forze e mezzi, la nave nemica, creando così a seguito del
violentissimo impatto tra le due, un corridoio di passaggio da cui effettuare
l’abbordaggio. Al contrario dei suoi uomini non indossava l’equipaggiamento
blindato ma una semplice mascherina nera sul volto. Senza alcuna esitazione
raggiunto il punto d’attracco si preparò all’attacco vero e proprio. Gli uomini
gli stavano rispettosamente alcuni passi indietro. Harlock, sfoderata la spada
con agile risolutezza si lanciò implacabile sull’altra nave sparendo oltre la
coltre di fumo e scintille come una fiera che ‘sente’ la preda pur non
vedendola. Inesorabile, impavido, il viso contratto dalla tensione del momento
fendette l’aria, le armature, i corpi di chi si frapponeva tra lui e la meta. I
nemici vestiti di bianche corazze cadevano a terra uno dopo l’altro come
fiocchi di neve. Tolta la mascherina incedeva senza fretta da un corridoio
all’altro come guidato dall’odore del sangue. Un nero felino, un puma, un passo
dopo l'altro fiero e sprezzante, i sensi allertati e' lui Il predatore, la sua
lentezza denotava un’immensa sicurezza. E’ solo vendetta che cerca il suo animo
tormentato? Intanto seguiva l’andamento della battaglia attraverso le
trasmissioni radio tra gli uomini e l’Arcadia. Tutti aspettavano i suoi ordini,
lui è il capo, il condottiero, tutti dipendono da lui. E’ lui il faro tra il
fumo e le fiamme,la luce guida delle loro vite. Incedeva senza fretta, sapeva
che altrove i suoi uomini stavano facendo un buon lavoro. La nave nemica come
previsto era colma di ogni tipo di derrate, armi e strumentazioni. Si
susseguirono piccole esplosioni, vi era fumo ovunque, rumori di arma da fuoco e
corpi che cadevano. Mentre camminava un movimento in un corridoio laterale attirò
la sua attenzione. Voltò il capo. Un soldato chino accanto ad un altro
probabilmente ferito. Harlock nell’avvicinarsi creò volontariamente rumore, il suo
codice d’onore gli impediva di colpire qualcuno alle spalle. Il soldato
alzandosi, lo vide, gli puntò la pistola contro, esplose diversi colpi in
successione, uno, due, tre, nessuno andò a segno come se una forza invisibile
non lo permettesse . Harlock sollevata la
pistola con spietata risolutezza la puntò dritta al cuore del soldato.
La morte per mano sua, doveva sempre essere una morte netta! Immediata! L’ultimo
atto d’onore ad un combattente nemico. Ma nello stesso istante in cui premette
il grilletto qualcosa attirò il suo sguardo, spostò il braccio di poco più in
alto così da cambiare la traiettoria del proiettile. Su quell’armatura bianca
all’altezza del cuore c’era dipinta una croce di colore rosso. Quello davanti a
lui.. era un medico!
Il proiettile
deviato all’ultimo istante colpì di striscio il soldato all’altezza
dell’attaccatura del casco dell’armatura. Il casco si staccò, volò via, cadde, rotolò,
rotolò e finì poco più in là. Il soldato perse per un attimo l’equilibrio ma
restò in piedi. E come la forza dell’acqua, per troppo tempo trattenuta dallo
sbarramento di una diga, una volta libera defluisce impetuosa all’esterno alla
ricerca di libertà , allo stesso modo un fiume di lunghi e morbidi capelli
castani esplose fuori dal casco ondeggiando per poi trovar pace lungo le curve
della schiena. Un bellissimo volto di donna ora lo guardava, lo scrutava. Non
c’ era paura in quei grandi e profondi occhi neri. Spesso Harlock aveva
incrociato un lampo di terrore e ansia negli occhi di chi stava per morire per
mano sua. C’era chi indietreggiava, chi tremava e chi addirittura fuggiva.
Quella donna non si mosse, l’arma ancora in pugno lungo la gamba destra, teneva
gli occhi fissi sul suo volto. Harlock immobile abbassò la pistola. Uno strano
ed immotivato turbamento si stava lentamente impossessando di lui. Una
inquietudine che veniva da lontano, da una zona remota ed ormai sepolta del suo
spirito che non seppe spiegarsi. Un richiamo ancestrale a qualcosa, ma cosa?
Come se il velo delle tenebre si fosse scostato per un breve istante
mostrandogli qualcosa di cui aveva colto l'importanza non comprendendolo. “Sei un medico?” chiese “sono il primo ufficiale – medico di questa
nave” rispose la donna. La sua voce dolce e ferma non tradiva nessuna emozione,
continuava a fissarlo. “Il mio nome è Helèn Stèren”. “Sai chi sono io?” chiese lui. “Tu sei...Harlock. Ho visto le tue foto
segnaletiche”. Harlock era rapito da quel viso. Non riusciva a distoglierne lo
sguardo. L’aria intorno a loro sembrava ferma. Harlock rispondendo quasi ad un
richiamo esterno alla sua volontà, e contravvenendo puerilmente ad ogni regola
dettata dall’esperienza e dal buon senso si sentì dire “Mi serve un medico a
bordo della mia nave, la tua tra poco esploderà!”. “Non è la mia nave”
puntualizzò lei quasi a volerne prendere le distanze. “Mi vuoi arruolare
Harlock?” non c’era sarcasmo nella sua voce. “No! mi serve un medico a bordo,
potrai andar via quando vorrai”. In realtà portarla sull’Arcadia voleva
semplicemente dire, in quel momento, salvarle la vita , prendere tempo per
capire. Era l’unica cosa che gli era chiara: lei non doveva morire! Helen dalla
sua si rendeva conto della situazione e benché non fosse nella posizione di
dettare condizioni disse “Verrò ad una condizione, vorrei prendere alcuni
effetti personali dalla mia cabina”. In quel momento Yattaran correndo capitò
in quel corridoio. Dovette fermarsi. Li guardava attonito. L’uno poi
l’altro. Intorno impazzava la battaglia,
l’odore della morte aleggiava tra fumo , schegge, urla di lamiere, scariche
elettriche, ma quei due se ne stavano lì come se fosse l’ora del tè . Come
rapiti da un incantesimo. ’Yattaran!’ la voce del Capitano lo scosse
bruscamente dalle sue considerazioni. “Il medico qui viene con noi! Deve andare
nella sua cabina, và con lei, avete cinque minuti prima che salti ogni cosa! “.
“Ma ...ma Capitano !“ Fece l’uomo
balbettando “noi non facciamo prigionieri !” “Non è un prigioniero è il nostro
nuovo medico!” Così dicendo Harlock si voltò’ facendo ondeggiare il suo nero
mantello. Helen pensò che sembrava un angelo, l’angelo nero della morte.
Gli uomini
fecero tutti ritorno sull’Arcadia. Tra tutti spiccava questo soldato con la
bianca armatura della Gaia, tutti lo guardavano ostili e non spiegandoselo , ma
ciò che il Capitano decideva era legge. Si tolse il casco e vi fu un brusio.
Una ...donna! Kei fu la prima a farsi avanti
ancheggiando ”Tu chi sei?”. “Non
pensavo ci fossero donne a bordo dell’Arcadia!” rispose lei sorridendo. Un
sorriso caldo, trasparente e rassicurante che colpì Kei. Riecheggiò il rumore
prodotto sul metallo dagli stivali di Harlock . Tutti alzarono il viso in
quella direzione. “Bene! vedo che non c’è bisogno delle presentazioni! Lei è il
nostro nuovo medico. Kei mostrale il suo alloggio.” Stava per voltarsi quando Helèn interrompendo
il silenzio che sempre accoglieva i suoi ordini, “preferirei vedere l’infermeria, ci sono degli uomini
feriti” al suo occhio esperto non erano sfuggiti pirati claudicanti, con tagli
o escoriazioni. “E sia!” disse Harlock con un cenno del capo a Kei prima di
sparire nel suo mantello. Kei molto seccata da quella novità diede una
occhiataccia a Yattaran che alzò gli
occhi e le mani al cielo. Kei gli occhi fissi sulla nuova arrivata , guardinga
e diffidente. Non solo una donna! ma pure della Gaia! penso'. Se lo sentiva che
quella nave avrebbe portato guai. “Io sono Helèn” disse a voce sostenuta la
nuova arrivata“ sono un medico non un nemico, chi ha bisogno per favore, ci segua”.
Gli uomini dell’Arcadia all’inizio riluttanti e sospettosi, lentamente
cominciarono, più che altro per la necessità dettata dal bisogno reale d’essere
medicati , ad andare da Helèn. E comunque sempre in due ed armati fino ai
denti. I primi ad uscire dall’infermeria invogliavano gli altri ad entrare, mostrando
le loro medicazioni e facendo segni di approvazione. Era competente, pratica,
disponibile, piena di buoni consigli e sorrideva sempre. Un sorriso semplice e
caldo che riempiva i cuori come un raggio di sole in un luogo ormai buio da
troppo tempo. Addirittura qualcuno che tanto ormai era lì , le parlò anche di
qualche vecchio acciacco. Un camice bianco, quando stai male, pensò tra se,
elimina sempre le iniziali diffidenze. Kei voleva scoprire di più sul suo conto
e la raggiunse “il capitano vuole che ti mostri la nave”. L’alloggio a lei
riservato era in realtà adiacente all’infermeria ed un po’ più grande di quello
degli altri, letto, due poltrone, comò e grande bagno con doccia. Qualcuno le
aveva già portato le sue cose.
L’Arcadia era
una nave immensa vi erano molti spazzi comuni, cucina robotizzata con annessa
mensa dai grandi tavoli e panche in metallo fissati al pavimento , grande
palestra e sala per gli allenamenti, un piccolo teatro , alloggi. Ma ciò che la
lasciò senza parole fu la plancia. L’immensa vetrata sullo spazio, il timone. Sembrava
di essere su di un antico galeone piuttosto che sulla nave più potente
dell’universo conosciuto. Non lo avrebbe mai immaginato. Non aveva mai visto
nulla del genere sulle navi della Gaia Flett. Harloch aveva un trono, lo guardò
affascinata, svettava sinistro sul ponte di comando, rosso porpora con i teschi
argentei come poggia mani. Incuteva timore ma anche rispetto. Sembrava
raccontare di chi fosse e cosa pensasse l’uomo a cui apparteneva. Alle sue
spalle il motore della nave, un retaggio della guerra di Come Home,niente del
genere sulle navi della Gaia Fleet dove vi erano motori a evanescenza. Che
strana nave, sembrava una cattedrale gotica, volte immense, immersa nella semi
oscurità, piena di echi, ombre lunghe e strani rumori, sembrava viva pensò.
Consumarono un piccolo pasto “non sono
una nemica Kei ” le disse ad un tratto, per interrompere il silenzio, e
toccando la mano della ragazza, ”chiedimi ciò che vuoi” lo sguardo di Helen era
sincero “se il capitano ha deciso che
fossi dei nostri c’è un motivo, lui non sbaglia mai!” disse Kei ”e poi ero
stufa di stare sola qui” proseguì strizzandole l’occhio. Helen le raccontò di
come si era arruolata, dei suoi studi da medico e rispose a qualche domanda.
Parlarono di armi, battaglie , uomini, uniformi, come a Kei non capitava da
tanto. Le raccontò qualcosa sui membri dell’equipaggio e di Harlock, della loro
fede incrollabile in lui e negli ideali che lui perseguiva. Del fatto che fosse
un uomo molto introverso ma giusto e leale. Ognuno di loro non avrebbe esitato
un solo istante a dare la vita per lui. Alla fine parte dei timori di Kei erano
diminuiti, più che altro perché Helèn le ispirava fiducia e davvero aveva
voglia dopo tanto tempo di avere nell'equipaggio un'altra donna. Si disse però
che l’avrebbe comunque tenuta sott’occhio. Percorsero un
tratto insieme “la tua cabina è alla fine di questo corridoio, notte.” “Notte
Kei e grazie.” Helèn si incamminò lentamente per il lungo corridoio illuminato
solo da una bassa luce notturna azzurrognola. Ogni tanto, ai lati si apriva una
stretta finestra rettangolare dal vetro spesso da cui si intravedevano i
pianeti galleggiare lenti in un immenso mare nero e denso. Ripensò a quando,
solo poche ore prima con apprensione dai vetri della Horizon aveva visto per la
prima volta la grande polena a forma di teschio dagli occhi rosso sangue
dell’Arcadia ammantata da un nero mantello come il suo Capitano. Fu lì che lo
sentì arrivare, si voltò e stavolta anche se la luce non era moltissima riuscì
ad osservarlo bene. Camminava lentamente ma con passo fermo come chi ha tutto
il tempo dell’universo, i capelli che incorniciavano un viso dai lineamenti
antichi, ondeggiavano così come il lungo mantello, accompagnando l’andatura
elegante e sicura, la spada ad ogni passo toccava la gamba sinistra
ritmicamente. La snella figura si stagliava alta e fiera al centro del
corridoio. Il mantello dall’alto bavero rosso lo rendeva ancor più maestoso ed
imponente. Ecco da dove arrivavano gli strani racconti di chi anche se per
poco, lo aveva veduto. Si fermò a qualche passo da lei, era impossibile non
avvertirne l’ aura forte e potente. Ne osservò il viso, lo sguardo per la prima
volta da vicino. Era un uomo forgiato come una spada nel fuoco del tempo e
delle battaglie, temprato nel ghiaccio
vivo del dolore e della malinconia e battuto nella valle della solitudine e del
rimpianto. “Rimpianti?” Le chiese lui dando voce ai suoi pensieri (ma.. leggeva
nella mente?). Aveva una bellissima voce morbida e calda, Helèn si chiese di che colore sarebbe stata
la sua risata. “No non ho rimpianti ero
da poco sulla Horizon”. Era bello, molto, i lineamenti gentili , ma aveva il
viso di chi è stanco ma non può arrendersi, di chi soffre dentro e non può
smettere. La guardava con uno sguardo profondo ed indagatore ma non la metteva
a disagio al contrario lei ne percepiva solo il buono. “Paura?” chiese
lui. “Ho smesso di avere paura tanto
tempo fa’’. Quella donna lo incuriosiva e lo metteva a disagio al tempo.
L’ovale delicato, le labbra sensuali ,
gli occhi così oscuri, quel viso...non poteva non guardarlo senza che qualcosa
dentro di lui, nel profondo cominciasse a scricchiolare. Come quando da una
parete rocciosa si staccano i primi frammenti di pietra che preludono alla
frana. Perché ? E perché l’aveva voluta sull’Arcadia? Non era attrazione fisica
ne era certo, era altro, ma cosa? Era la stessa cosa che gli aveva impedito di
spararle quando si erano visti. Il suo occhio si spostava lento su di lei. Helèn
portava una semplice divisa nera l’aveva scelta perché non vi erano i simboli
della Gaia, pantaloni aderenti e giacca militare sfiancata. Non era altissima
ma armoniosa , il fisico allenato di chi vive combattendo, ma i suoi occhi
erano gli occhi di chi si era perduto, pensò Harlock. “Riposati!” le fece e si
avviò voltandosi. “Harlock!” lo chiamò, lui si voltò lievemente, prima di
girarsi del tutto perché lei non parlava. Chinò il capo a sinistra in attesa.
Avrebbe voluto essere già lontano ma era ancora lì davanti a lei. Helèn aveva
solo dato fiato ai suoi desideri chiamandolo, sentiva chiaramente che il lungo
viaggio che aveva intrapreso tanti anni prima era arrivato alla fine. Avrebbe
voluto parlarne con lui ma non poteva, non ancora “nulla...notte!”. Si avviò
dalla parte opposta accompagnata dal rumore dei passi cadenzati di lui che si
allontanavano. Si voltò un attimo a guardare la figura dietro quel mantello
ondeggiate ed i capelli lievemente arruffati. Le diede un senso di grande
solitudine. Era quasi arrivata alla sua stanza che una luce strana alle sue
spalle la illuminò, si voltò di scatto e vide Meeme. Eterea, sembrava
fluttuare, irradiava una soffusa luce verde, la guardava quasi a scavarle
dentro non tradendo emozioni “io... io sono Helen” le disse. Aveva sentito
parlare di lei, si favoleggiava di questa aliena che viveva con Capitan Harlock
e che forse era la sua donna. “Lo so” rispose “ Ti aspettavo, sapevo che un
giorno saresti arrivata “ alcune piccole luci come dotate di vita propria
iniziarono a fluttuare intorno ad Helen. “Il tuo viaggio è finito”. Helen la
guardò stupita. “Non è questo che ti stavi chiedendo?” e come era arrivata, sparì. Helen chiuse la
porta della stanza alle sue spalle appoggiandovisi stanca e guardandosi
intorno. Era stata una lunga giornata che mai avrebbe pensato si sarebbe
conclusa a bordo dell’Arcadia. La Horizon attaccata, distrutta. Aveva visto
tanti, troppi morire, poi forse sarebbe toccato a lei, ma Harlock l’aveva
risparmiata chiedendole di andare con loro. Aveva accettato perché ormai non
aveva più nulla da perdere, quello che aveva avuto da perdere nella sua vita lo
aveva già perso . Tolse le sue tre piantine dalla cassa e le mise accanto alla
finestra. Poggiò la fronte al vetro freddo, guardò fuori non sapendo quanto si
sbagliasse . Avrebbe avuto ancora tutto e perso tutto … ancora una volta.
I personaggi descritti sono di
chi li ha inventati primo tra tutti Leiji Matsumoto ma anche Shinji Aramaki e
Harutoshi Fukui grazie per averci riportato il nostro Capitano dopo tanti anni.
Un ringraziamento speciale alla
mia beta collega ma soprattutto amica Erika.
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Capitolo 2 *** Attacco all'Arcadia ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra,in egual maniera
le onde del destino,nel loro divenire dal passato al presente,talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via. -
Voglio subito ringraziare i tanti, tantissimi, che si sono
fermati a leggere il primo capitolo, un grazie di cuore a tutti. Ed un
abbraccio forte va a chi ha voluto farmi sapere cosa ne pensava. Grazie ragazze.
Il mio augurio per tutti è che la magia
della forza del destino e del nostro Harlock vi rapiscano anche stavolta.
2
Attacco
all’Arcadia
- Helèn si svegliò di soprassalto all’urlo dilaniante di un
allarme che sembrò squarciare il buio. Osservò il soffitto di metallo
dell’Arcadia e ricordò. Guardò l’orologio che convenzionalmente stabiliva il
ritmo di sonno-veglia in quella eterna notte astrale. Sentì un fragore immenso
provenire da babordo e la nave vibrare… Erano attaccati!
Si vestì più veloce che poté ,legò i capelli. Era un
militare ma non era sulla sua nave, non sapeva bene cosa fare. Corse per il
corridoio in direzione della plancia di comando, erano tutti là. Harlock era
seduto sul suo grande trono rosso, le mani strette sui due teschi laterali che
fungevano da braccioli, non riuscì a coglierne l’espressione. Yattaran gridava
ordini all’interfono: “tutti alle torrette di fuoco presto! Presto
maledizione!” Helèn raggiunse Harlock:
“che succede?” Lui inclinato lievemente il capo a sinistra, serio: “cercano
te!” Disse, indicando con un movimento del capo fuori dall’immensa vetrata.
“Me?” Qualunque altra parola le morì in gola. Si vedevano diversi aerei
navalizzati compiere ardite manovre scaricando a più riprese il loro carico di
fuoco e morte sull’Arcadia. Ad ogni colpo il metallo gemeva e la nave tremava .
Harlock si alzò facendo svolazzare il suo mantello. In
quello stesso istante un colpo potentissimo percorse per intero l’Arcadia che
oscillò vistosamente e si inclinò su di un lato. Tutti si tennero saldamente
alle loro postazioni, tranne Helèn che accanto al trono perse l’equilibrio.
Sarebbe caduta ma qualcosa la resse saldamente in piedi. Harlock l’aveva tenuta
per il braccio; era incredibile la forza che aveva, pensò Helèn. Si guardarono,
era la prima volta che c’era un contatto tra loro. Il tempo che scorre
incessante dalla notte dei tempi, perse un colpo, ma solo Harlock ed Helèn se
ne avvidero. Helèn spostò lo sguardo dal viso di Harlock alla sua mano
guantata, poi di nuovo a lui, che di scatto la lasciò come se una scossa
elettrica l’avesse colpito. “Capitano!” La voce di Kei era un misto tra
l’incredulo e l’adirato: “falla a babordo Capitano.. sono riusciti ad entrare!”
Immediatamente tutti gli uomini presenti in plancia, senza bisogno di alcun
ordine, incluso Yattaran, schizzarono letteralmente fuori. Helèn seguendo
esclusivamente quello che il cuore le dettava,d’istinto senza pensarci con un
solo balzo fu giù dalle scalette laterali del ponte di comando alla plancia,
scattò veloce dove correvano gli altri. Harlock la seguì con lo sguardo. Helèn
prese una pistola ed una spada dalla rastrelliera dove erano tutti gli altri a
rifornirsi. La guardarono con diffidenza e si guardarono tra loro incerti se
lasciarglielo fare. Lei sorrise e caricando con un colpo disse: “forza!” Ed
iniziò a correre sicura dove i soldati della Gaia avevano fatto breccia. Gli
uomini di Harlock non si risparmiavano. Nonostante fossero privi delle tute di
protezione, intrapresero la lotta con ardore e con qualunque tipo di arma.
Dovevano difendere la loro casa, la loro nave, il loro capitano. Helèn si
muoveva rapida, fiera, i sensi acuiti dall’esperienza. Colpiva e colpiva attraverso un uso
magistrale della spada o si riparava un istante e sparava, si riparava e
sparava ancora; incurante dei centinaia di colpi nella sua direzione. Fulminea
avanzava guadagnando terreno e sparava ancora. Tutti si resero presto conto che
era un’arma da guerra. Sapeva quello che faceva ed era stata addestrata per
farlo. Sparava con precisione ed usava la spada da provetta schermitrice. All’incrocio
tra quattro corridoi la situazione sembrava statica. Colpì ovunque e nessuna
delle parti sembrava avere la meglio.
Fu allora che Helèn vide Harlock saltare giù da una
balaustra in alto e con una capriola atterrare con fluida eleganza al centro del
fuoco incrociato e cominciare a piroettare con fredda determinazione insieme
alla sua fida spada e colpire con letale precisione. Indomito, senza traccia
alcuna di paura. Helèn rimase per un lungo istante ammaliata. Un fascino
spettrale gli aleggiava intorno; la morte era la sua compagna in quei momenti.
Duettava con lui e per lui, sorridendogli sardonica ed incredula d’avere ancora
una volta per se’ un partner tanto magnifico. Tutti gli uomini si spostarono
più avanti, certi che non avesse bisogno di loro. Anche Helèn lo superò
correndo. Lui la seguì con lo sguardo. Ancora fuoco e proiettili. “Yattan,
Kaito copritemi!” Gridò Helen riuscendo ad entrare nella stanza successiva, ma
ciò che vide non le piacque. Uno dei pirati giaceva a terra con un vistoso squarcio
su una coscia, che si teneva con una mano. Uno degli uomini in armatura correva
verso di lui per finirlo. Helèn comprese che non ce l’avrebbe fatta a raggiungerlo correndo. Si diede uno
slancio in avanti e con una giravolta su
se stessa, facendo leva solo su di una mano, nell’altra aveva la spada, si
ritrovò in piedi davanti all’uomo a terra, a mo’ di scudo. “Ci sono!” Disse
rivolta a lui. Iniziò così un duello con uno, due soldati. Lei non si muoveva
da lì e non si sarebbe mossa. Le gambe lievemente divaricate e piantate al
suolo a protezione del ragazzo, sembrava una statua di marmo. Ad un tratto un
proiettile colpì il fermo che le legava
i capelli che ricaddero quindi liberi sulle spalle cominciando con lei
ad ondeggiare in quel duello di morte. Fu così che Harlock sopraggiungendo la
vide. Sembrava una dea greca, maestosa, imperlata di sudore, coperta dei suoi
stessi capelli, pronta a tutto. Come poteva esserci tanta grazia, bellezza ,
forza e volontà ed anche violenza nella stessa persona? Si chiese. Aveva
incontrato molte donne guerriere nella sua lunga vita. Anche Kei lo era, ma
Helèn a differenza delle altre, combatteva senza paura della morte. Caduti due
uomini, un terzo si dette alla fuga o così parve ad Helèn che lo inseguì.
Rimasero soli in uno stretto corridoio. Helen iniziò a far roteare la spada
,quando gli sentì pronunciare il suo nome ”Helèn!” si bloccò. Il soldato
modificando il colore della visiera del suo casco si mostrò a lei. “Ennosuke!”
Fece lei abbassando l’arma, incredula e riconoscendo quei profondi occhi
azzurri. Erano stati compagni nell’accademia della flotta. “Helèn vieni via con
noi! che fai qui?” Gli sentì dire. Helèn si guardò alle spalle temendo l’arrivo
di qualcuno. “Enosuke va via! Ti prego vattene! Battete in ritirata e ..ti
prego! Io… io sono morta!” così dicendo Helèn si portò il pugno destro sulle
labbra e poi sul cuore. Era un segno convenzionale, un codice, che usavano tra
loro i militari. Voleva dire ‘nella parola e nell’onore’* e faceva diretto
riferimento al loro codice d’onore. Helèn era stata il suo capo un tempo, e lui
con un cenno d’assenso obbedì anche stavolta. L’uomo si allontanò ordinando via
radio la ritirata. Il cuore di Helèn batteva all’impazzata, i polmoni pompavano
vorticosamente aria, l’adrenalina scorreva furibonda nelle vene. Aveva
tradito!! Aveva tradito!! Non sarebbe mai più potuta tornare indietro! Mai più!
Guardava fisso un punto per terra. Che stava facendo? Che stava facendo? Ripose
le armi meccanicamente nelle fondine. A chi, a cosa stava dicendo addio lo
sapeva bene. Guardò per un attimo verso il punto in cui Enosuke era corso via.
Si voltò disperata dalla parte opposta e Harlock era lì che la guardava. E come
sempre accadeva quando il loro sguardo si incrociava, lei si calmò. Il tempo rallentò
e tutto intorno parve diventare relativo. “Stai bene?” Le chiese lui passandole
rapidamente uno sguardo indagatore su tutto il corpo. Helèn mosse qualche passo
nella sua direzione “NOOOOO!” Avrebbe voluto gridare ma non lo fece, disse
solo: “sono un medico. Io salvo vite,
non mi piace uccidere.” Fece qualche altro passo; gli fu a pochi centimetri.
Avvertiva il calore che il corpo di lui
stava producendo per lo sforzo della battaglia. Dovette alzare il capo per
guardarlo, lei gli arrivava solo alle spalle. Fece scivolare lentamente lo
sguardo sulla sua guancia sinistra. Lui pensò stesse guardando la sua
cicatrice, ma lei sollevata la mano destra con il pollice, gli tolse una
piccola traccia di sangue, poco più che un graffio, causato probabilmente da
qualche scheggia d’armatura. Così facendo posò anche le altre quattro dita sul
viso e sembrò quasi una carezza.
Un gemito proveniente dall’altra stanza ridestò di colpo
Helèn che corse via. Il dovere la chiamava! Corse dall’uomo che era a terra,
iniziò a dare ordini perché l’aiutassero. Harlock non si voltò, cercava di
mettere ordine nella ridda irrazionale di sensazioni che provava. Helèn non
portava i guanti. Cosa lo aveva turbato tanto di quel contatto semplice e
spontaneo? Helèn trascorse il resto della giornata ad applicare dispositivi per
la calcificazione delle ossa, per le ustioni da attrito, l’utilizzo di un
tessuto transgenico che garantiva la proliferazione cellulare per le ferite più
profonde le portò via tanto tempo.* ”Helèn!”. Kei era sulla porta
dell’infermeria. “Hai finito? Ti stiamo aspettando tutti per un boccone.” Helèn
sorrise. Era distrutta e non mangiava dalla sera prima. Si tocco gli occhi con
le dita. Si alzò stancamente dalla sedia della piccola scrivania, avrebbe
voluto fare una doccia ma avrebbe aspettato. Nella mensa tutti erano seduti
sulle panche e parlavano animatamente. Al comparire di Helèn si levò un
rumoroso applauso spontaneo, qualcuno fischiò e qualcuno batté i piedi. Helen
imbarazzata arrossì e si mise a sedere. Yattaran la raggiunse con in mano un
bicchiere con all’interno un liquido rossastro e glielo porse, poi preso il suo
disse: ”Alla tua salute Helen, grazie per tutto quello che hai fatto oggi per
l’Arcadia e per noi!” Tutti bevvero. “Ma
io non ho fatto niente” disse Helèn. Shou il giovane pirata a cui aveva salvato
la vita, la raggiunse aiutandosi con le stampelle: “Grazie Helèn da oggi
considerami il tuo servo.” “Ma io no ho fatto niente…davvero! ” Disse Helen,
tentando di dissimulare il suo imbarazzo prendendo una forchettata di quello
che aveva nel piatto. Kei seduta accanto a lei con fare ammiccante: “Ti sei
accorta che il capitano oggi non ti ha persa d’occhio un istante?” E lei: ”Ma
io so difendermi da sola.” E Yattaran
canzonatorio mostrando la bocca bella piena: “Ma vaaa? Non ce ne siamo
accorti!” Disse scatenando le risa di tutti. “Ho solo avuto un bravo maestro”
disse lei, e per un istante i suoi occhi si velarono di una nera tristezza.
Helèn li guardò tutti, erano un bel gruppo affiatato, e se anche non avevano
l’organizzazione e la tecnica di un esercito, combattevano col cuore ed
avrebbero dato la vita gli uni per gli altri. Dopo un numero di brindisi di cui
Helèn perse il conto e qualche allegra canzoncina, si congedarono. Helèn
raggiunse la sua camera. Come medico di bordo aveva il privilegio di una stanza
un po’ più grande ed il bagno era ricavato in un grande ambiente unico
lavabo-doccia. Si infilò sotto l’acqua augurandosi che non finisse mai. L’acqua
calda portava via tutto, anche i pensieri. Chiuse gli occhi e lui comparve!
Helen spalancò gli occhi. Perché? Perché
le era venuto in mente? Era un combattente tenace e risoluto, sembrava non
dubitare mai, ma nel suo sguardo lei aveva colto un dolore profondo e
lacerante. Si guardò l’avambraccio sinistro dove lui l’aveva tenuta per non
farla cadere, quattro dita si distinguevano nettamente, ci avrebbero messo
diverse settimana a sparire, pensò. La sua pelle, ora era così fragile... Si
asciugò i lunghi capelli guardandosi allo specchio. In quello stesso istante
Harlock si guardava allo specchio del bagno delle sua cabina. Si passò
lentamente la mano sulla guancia dove lei lo aveva toccato. A quanti nemici
aveva visto abbassare lo sguardo non riuscendo a sostenere il suo, anche i suoi
uomini spesso lo evitavano. Lei invece…sembrava cercarlo per indagarlo. Cosa lo
aveva turbato di quel suo gesto? Ogni volta per una frazione di secondo si
sentiva perso… perché? E perché l’aveva voluta irrazionalmente e assurdamente a
bordo? Uscì.
Helèn non riusciva a prendere sonno benché fosse a pezzi o
forse proprio per quello . Nell’Arcadia faceva freddo. Prese da una delle casse
che non aveva ancora disfatto un sacchettino e si diresse alla mensa. Fece
bollire in pochi istanti dell’acqua e vi sciolse parte del contenuto del
sacchetto. Sedette e bevve sperando di scaldarsi, guardava il vapore uscire
dalla tazza, bevve alcuni sorsi. Si soffermò sulla chiazza tondeggiante che la
tazza aveva lasciato sul ripiano lucido del tavolo. Guardando quel cerchio le
venne in mente la terra e ne seguì i bordi con il dito… Gli occhi le si
riempirono di lacrime, strinse forte la tazza con entrambe le mani. Harlock la
osservava dal corridoio buio. Non entrò, voleva evitarla, ma lei ne percepì la
presenza e si voltò dalla sua parte. Si alzò in piedi di scatto quasi fosse
stata scoperta a rubare. Dallo sguardo che lui le lanciò si rese conto d’avere
indosso solo una magliettina bianca che le arrivava sì e no a metà coscia, e
dei calzini. Lo sguardo di Harlock si soffermò più del dovuto sulle gambe
bellissime benché muscolose per poi salire al seno. Helèn per sua professione
aveva un rapporto diverso dagli altri con il corpo, non le era sembrato strano
uscire così, ma attraverso la lenta carezza di quello sguardo sul suo seno si
rese conto di avere i capezzoli turgidi e ben in vista. “Fa freddo in questa
nave.” Disse sedendosi per coprirsi. “E’
vero” Disse lui entrando. E con la sua presenza colmò l’intero spazio della
stanza. Quando arrivava, tutto oltre lui sembrava smettere di essere. ”Non
dormi?” Chiese lei. Lui fissava la sua tazza. “Vuoi? è una tisana!” E senza
attendere risposta si alzò a preparare una tazza anche per lui. Mentre lo
faceva Harlock sedendosi al tavolo dove era lei, regalò una carezza, stavolta
ai suoi glutei sotto la maglietta. “E’ la dark matter.” Lei lo guardò
interrogativa. “Il freddo che senti è la dark matter che permea interamente la
nave.” Poi guardando nella tazza che lei gli aveva messo davanti “ma..ma queste
sono foglie!” Disse sorpreso. “Sì, è passiflora. Un’erba coltivata da un
antichissimo popolo della terra: gli Aztechi. Ha un effetto calmante che induce
il sonno e aiuta a contrastare gli effetti della tensione; il principio attivo
è l’armina.” Era il medico che parlava. Harlock avrebbe voluto chiederle come
facesse ad avere quelle foglie, chi fosse, da dove venisse, perché prima avesse
gli occhi lucidi, ma riuscì solo a guardare le sue labbra che si muovevano
lasciando intravedere i piccoli denti. Stava bene quando era con lei, il solo
ascoltarla lo faceva rilassare ma si limitò a bere. Teneva la tazza con tutte
le dita non dal manico, il sapore era buono. Poi all’improvviso disse: ”Sei una
grande combattente. Perché non mi hai colpito la prima volta che ci siamo
visti? Hai sparato, avresti potuto colpirmi ma non lo hai fatto.” Lei guardò
per un lungo momento nella sua tazza, quasi cercasse lì la sua risposta. “Forse
perché volevo morire per mano tua.” Harlock ne rimase profondamente colpito ma
non lo dette a vedere. “Vuoi morire?” Le fece con una punta di sarcasmo. E lei
alzandosi: ”Morire è facile. E’ vivere il difficile.” Poi sorrise e
stringendosi nelle spalle: “Ho freddo! Vado.” Harlock si alzò, così la dominava
nell’altezza e nella possanza fisica. Lei lo guardò. Era un uomo davvero
notevole, e fece quello che lei non si sarebbe mai aspettata: si tolse il
mantello e glielo mise sulle spalle. Helèn fu travolta da un misto di
sensazioni, un odore intenso di pelle e tabacco, di uomo e legno antico ed un
dolcissimo tepore l’avviluppò. Era come essere tra le sue braccia e per la
primissima volta un pensiero le attraversò la mente. Come sarebbe stato?
Affondò il viso all’interno del bavero, posandovi, labbra e naso ed aspirò
profondamente. “Hai un buon odore.” Disse guardandolo. Harlock si stupì di
tutta quella spontanea sincerità. Decidendo di ritrovare la sicurezza di sé e
del suo ruolo disse: ”Domani dobbiamo parlare! Devi dirmi chi sei, perché ci
hanno cercato ed attaccato per te, e come mai hai quelle foglie”. Lei non si
rabbuiò, gli sorrise invece, illuminandolo come un raggio di sole. “Sono Helèn,
non ci attaccheranno più, e le foglie sono della pianta che è nella mia stanza,
comunque domani verrò da te a rapporto.” Si incamminarono per il corridoio, lei
sembrava avere uno strascico piuttosto che un mantello per quanto era lungo.
Camminavano l’uno accanto all’altro con una lentezza ed una tranquillità tale
che sembrava lo facessero tutte le sere da sempre. Harlock si ritrovò a pensare
che quando gli era accanto, uno strano senso quasi di pace lo pervadeva. Ad un
tratto lei ruppe il silenzio: “Sai, è strano ma da quando sono qui sull’Arcadia
sento come una presenza…” Harlock si voltò ad osservarla. “Non saprei come
definirla, come se…come se qualcuno mi seguisse e guardasse sempre…Assurdo
vero?” Sorrise. In quel preciso istante, con un grido stridulo, un grosso
rapace arrivò dal nulla posandosi sulla spalla destra di Harlock. “Ecco la
risposta che volevi.” Fece Harlock. La ragazza che con una mano si teneva il
mantello, allungò l’altra verso l’animale che abbassandosi, quasi inchinandosi,
accettò le sue carezze sul capo. “Strano...di solito non è così socievole.”
Raggiunsero la stanza di lei “in ogni stanza c’è un piccolo camino a fiamma elettrica”*
le disse lui. Helen si tolse con garbo il mantello rendendoglielo. “Grazie, a
domani... A proposito, hai delle bellissime spalle.” Si scambiarono un altro
lunghissimo sguardo entrambi consapevoli che in un altro tempo e in un altro
spazio non si sarebbero lasciati. Lui si allontanò e lei si chiuse la porta
alle spalle, sicura che quell’odore l’avrebbe accompagnata tutta la notte e
forse non avrebbe avuto i suoi soliti incubi. Harlock non si rimise il
mantello, sapeva che se lo avesse fatto l’odore di lei lo avrebbe travolto.
* Segno convenzionale del codice militare e tecniche mediche
di mia invenzione.
Grazie alla mia beta mia collega ma soprattutto cara amica
Erika che non ha mai visto il film ma che adora questo Harlock e mi accoglie
con ‘che bellooo’ ogni volta che mi rende un capitolo.
Grazie ad Harlocked con la quale e grazie alla quale la
settimana scorsa sono stata autrice di un ‘parto’ :-D tu sai di che parlo cara…
madrina….non smettere mai di donare…
Capitolo dedicato ad Angelfire anche tu sai perché cara.
I personaggi ed i luoghi descritti sono di chi li ha inventati primo
tra tutti Leiji Matsumoto ma anche Shinji Aramaki e Harutoshi Fukui grazie per
averci riportato il nostro Capitano dopo tanti anni.
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Capitolo 3 *** LE DUE FACCE DELLA VERITA' ***
Come le onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte
rendono ciò che hanno sottratto alla terra ,in egual maniera le onde del
destino,nel loro divenire dal passato al presente,talora restituiscono quello
che un tempo ci hanno portato via.
3
LE DUE FACCE
DELLA VERITA’
- Il mattino seguente prestissimo Harlock si recò col solito
passo lento e deciso in plancia, doveva comunicare alcune decisioni ai suoi due
ufficiali di bordo. Il rumore dei suoi stivali sul freddo metallo dell’Arcadia
lo accompagnava anche quel giorno, era un’abitudine che aveva per non sentirsi
solo. Venne distolto dal solito fluire dei suoi pensieri da due dei suoi uomini
che lo incrociarono e superarono in tutta fretta quasi spintonandosi. Vistolo
rallentarono, accennando un rispettoso saluto. Per ricominciare a correre
appena superato. Harlock si voltò per guardarli. Strano tanto fermento a
quell’ora del mattino.
La sua attenzione
venne quindi attirata da alcune voci provenienti da un corridoio laterale, notò una lunga fila
di uomini in attesa davanti alla porta dell’infermeria e decise di verificare
cosa stesse accadendo. Gli uomini in fila che quasi sgomitavano, avevano in
mano una boccetta con del liquido giallognolo, e chi ne usciva aveva un cerotto
sul braccio e un lecca-lecca in mano. “ Hei! Ma il tuo è al gusto di ciliegia
non è giusto.” ”E tu? ne hai due? Perchè? Oh! Buongiorno… Capitano” Gli uomini
si fecero da parte. Harlock superò la fila ed entrò nell’infermeria. Ovviamente
nessuno si permise di fargli notare che c’era una ‘ fila ’ era pur sempre il
Capitano.
Helèn di spalle con indosso il camice bianco, i capelli ben raccolti
disse senza voltarsi: “Posa le urine sul tavolo, torso nudo ed apri la bocca.”
Si voltò con un abbassa lingua nella mano ed il bastoncino di un lecca-lecca
che le spuntava dall’angolo dalla bocca. “Oh Harlock! ” Disse in un misto
di sorpresa e contentezza, sorridendo.
“Benvenuto. Spogl… togliti… sì… insomma… il mantello e tutto il resto…” I due
si scrutarono, lo sguardo di Harlock era cupo ed i tratti gentili apparivano
lievemente induriti, le morbide labbra strette; i neri e profondi occhi di
Helèn interrogativi. “ Non sono venuto
per la visita. Che succede qui ? ” Le chiese secco. Un lampo attraversò la sua
pupilla nocciola. “ Devo fare un check-up completo a tutti, gruppo sanguigno,
urine ecc… qui… qui non c’è niente. ” Disse Helèn facendo
segno ad uno schedario alla sua destra. “ Ho bisogno di eseguire un’anamnesi
approfondita, disegnare il profilo personale di ognuno dei tuoi uomini e
annotare eventuali fattori di rischio personali così da poter individuare
precocemente l’insorgere di una patologia o meglio ancora prevenirla.” “Non era
questo che avevo in mente quando ti ho chiesto di venire qui. E poi io sono
CAPITAN Harlock ! ” Lei lo aveva sempre chiamato semplicemente ‘Harlock’.
Helèn reagì alla sua maniera; quando credeva di aver subìto
un torto attaccava. “ Io non sono uno
dei tuoi uomini Harlock ! Invece sono il medico, e dico che qui ci vuole ordine.
Lo so io quello che ho dovuto fare per riuscire a medicare e curare tutti in
questi giorni senza un minino di…”
Non riuscì a terminare la frase, lo sguardo di Harlock glielo
impedì... l’avrebbe incenerita. Continuò a fissarla per un lungo momento senza
proferire parola, poi si voltò accompagnandosi con un gesto del mantello e
sparì. Helèn si girò a sua volta e scaraventò furibonda il lecca-lecca nel
piccolo lavandino di metallo. Perché non capiva? “ Non farci caso… Helèn ,lui è così. Non è
cattivo credi…è un uomo buono e generoso, imparerai a conoscerlo anche tu, ha i
suoi pensieri, i suoi percorsi
mentali…” Kei era sulla porta. ”Che vuoi
fare Helèn? continuiamo? ” Helen la guardò, nei suoi occhi c’era tanto
rammarico: “ Ormai il danno è fatto Kei, sono io ad aver sbagliato… avrei
dovuto parlargliene e chiedere il permesso… il Capitano è lui...”concluse
guardando per terra e infilando le mani nelle tasche del camice. Poi aggiunse
stancamente guardandola: “ Sì…continuiamo, grazie.” Dopo le analisi a tutto
l’equipaggio ed un breve pasto che consumò da sola adducendo il tanto lavoro,
Helèn si preparò ad andare da Harlock così come lui le aveva chiesto il giorno
prima.
Era tesa e nervosa. Quello che poteva venir fuori da quel
colloquio avrebbe potuto determinante la sua permanenza sull’Arcadia. Dopo una
doccia si sistemò la divisa come se avesse dovuto ‘passar rassegna’. Era molto
bella. Trucco leggero, capelli ordinatamente raccolti sulla nuca, la divisa
nera perfetta, non troppo larga né troppo stretta, bottoni e fibbie lucidi,
stivali lustri. Armi pulite ed efficienti.
Era tutto in ordine, solo il suo cuore non voleva saperne di stare ‘al
suo di posto ’ e di cessare di battere all’impazzata. Si avviò in una parte
della nave nella quale non era mai stata; la parte posteriore, il castello di
poppa dove erano gli alloggi di Harlock.
Il capitano dal canto
suo aveva rimuginato tutto il giorno, sia sui suoi uomini che non riconosceva a
contendersi i lecca-lecca di Helèn e soprattutto sul fatto che lei avesse
mostrato l’ardire di rispondergli così davanti a loro. Come mai riusciva a
tenergli testa? Era stato lui a permetterglielo? Si stava rammollendo come i
suoi uomini? Se sì, avrebbe rimesso le cose al loro posto. Con passo nervoso si
mosse avanti e indietro per la sua stanza. Helèn camminò lentamente, ma arrivò
presto.
Bussò alla porta. Si
aprì. Harlock era lì, seduto dietro a quella che sembrava una grande ed antica
scrivania di legno scuro, con un grande teschio intarsiato nella parte
anteriore. Era su di una sedia anch’essa antica a giudicare dal colore e dalle
dimensioni. Alle sue spalle si apriva un’immensa e meravigliosa vetrata ad
aggetto sull’universo da togliere il fiato. Era qui dunque che Harlock trascorreva
tanto del suo tempo, pensò Helèn. La stanza era per lo più immersa
nell’oscurità fatta eccezione per diversi candelabri accesi che ne
rischiaravano solo alcune zone. Sulla destra e sulla sinistra si intravedevano
due altre stanze. Helèn dopo aver fatto alcuni passi gli rivolse un formale
saluto militare battendo i tacchi. Harlock la guardava ma non avrebbe saputo
dire come; era troppo distante. Percepì solo il movimento del capo, che faceva
per aumentare la ridotta visione monoculare. “A che serve il saluto militare?”
Disse con fare sarcastico e con un tono di voce alto e fermo. “Non mi chiami
neppure Capitano!” Si alzò di scatto. Helèn non rispose. Harlock avvicinatosi,
iniziò a girarle intorno lentamente come un nero avvoltoio, guardandola. Helèn
sentiva il suo respiro ed il suo sguardo persistente. Era come la carezza del
fuoco. Sentiva quasi la pelle bruciare dove il suo sguardo si posava. Harlock
aveva deciso di fare quello che gli riusciva meglio: voleva sapere ed avrebbe
saputo. Dopo un silenzio che ad Helèn parve interminabile le disse: “Sono
diversi giorni che sei a bordo ed io di te so solo quello che TU mi hai detto.
Il tuo nome e che sei un medico.”
Helèn strinse i pugni: “Sono un ufficiale - medico e poi sono
convinta che tu abbia controllato chi io sia.” “Ciò che la Gaia Sanction certifica ha poco
valore! ” Disse lui ironico mantenendo un tono di voce alto ed imperioso. “ Quelle
tue piante da dove vengono? ” Helèn
rispose cercando di sembrare disinvolta: ”Sono piante originarie della terra ma
è ovvio che non vengono da lì, la terra sì,è un regalo. Altro? ” Harlock
continuava a girarle intorno non distogliendo mai lo sguardo, con il preciso
scopo di innervosirla. ”Su che pianeta o colonia sei nata? Quando? E dove hai
vissuto? ” Helèn per un istante cercò di incrociare il suo sguardo ma non vi
riuscì. “Sono nata e cresciuta su Europa il primo satellite terraformato di
Giove, poi mi sono arruolata ed eccomi qui.” Harlock non credeva assolutamente
a nulla di quello che gli stava raccontando Helèn ed il fatto che lei ancora
pensasse di poter mentire lo faceva andare su tutte le furie come non gli
capitava da anni. Di solito era più freddo, scaltro e riflessivo, ma con lei
non ci riusciva. “Allora perché ci hanno attaccato? Se tu fossi un semplice
ufficiale come dici non lo avrebbero fatto. Un simile dispiegamento di forze
per un ufficiale? A chi credi di darla a bere? ” La sua voce era tagliente come
il vetro rotto e gelida come il ghiaccio.
Helèn iniziava a scricchiolare, stringeva i pugni. Si rese
conto che in realtà lei, Harlock il ricercato numero ‘SS00999’, non lo
conosceva. Non sapeva di cosa realmente fosse capace. E che forse fino a quel
giorno si era comportato diversamente con lei solo per estorcerle la verità. La
guardava con un disprezzo che non meritava. Dov’era il gentiluomo della sera
prima? “ Non ci attaccheranno più, ho chiesto di riferire che nello scontro a
fuoco fossi morta.” Disse Helèn. “Non è una risposta! ” tuonò Harlock. “A chi
hai chiesto? Ci tengono a te! Chi sei ? ” Ora le stava davanti e la fissava
duro, imponente dall’alto. “La figlia del Plenipotenziario? ” Helèn a quelle
parole sorrise debolmente. Se Harlock avesse immaginato quante volte era stata
a cena a casa sua. Harlock la vide sorridere ed interpretò quel sorriso come
una beffa. Era esasperato, quasi disperato. Doveva sapere, se voleva che Helèn
restasse a bordo dell’Arcadia. Era furibondo. Ma era mai possibile che lei non
capisse? Se non avesse saputo sarebbe stato costretto a mandarla via, e dopo
quanto era successo la Gaia l’avrebbe torturata prima e condannata a morte poi,
applicando le leggi dell’alleanza planetaria. Doveva portare Helèn a cedere. Ad
ogni costo. Così giocò la sua ultima carta anche se gli sarebbe costata cara,
tanto cara.
D’improvviso e senza che lei se lo aspettasse col dorso della
mano destra le diede uno schiaffo.
Helèn, il viso completamente girato da un lato per effetto
dello schiaffo e della sorpresa, un ciuffo di capelli scivolato sul volto,
restò dov’era. Harlock se lo aspettava, era un militare addestrato, ma i suoi
occhi ora erano lucidi ed un piccolo rivolo di sangue cominciò a uscirle
dall’angolo della bocca. Il sapore acre le invase la bocca. A quella vista
Harlock spalancò incredulo l’occhio,
aveva calibrato bene la forza ne era sicuro. Vacillò. Era stato necessario
compiere un gesto forte, lontano da tutto quello che lui era e professava, ma
necessario. Riuscì con sforzo immane a restare saldo sulla sua posizione.
Doveva aspettare per non compromettere tutto.
Ciò che a Helèn faceva male non era il labbro, era qualcosa
al centro del suo cuore, del suo io più profondo, non avrebbe mai immaginato
Harlock così come lei lo aveva percepito, capace di un simile gesto.
Helèn capitolò. Con il dorso della mano destra si asciugò il
sangue e dal taschino della giacca prese un documento, glielo porse. Era un
vecchio documento ingiallito dal tempo c’era una foto sbiadita di Helèn un po’
più giovane, sorridente. Certificava che Helèn era nata sul pianeta Terra 140
anni prima. Harlock guardò il documento, poi guardò lei “continui a prendermi
in giro con un misero documento falso? ” Le disse sprezzante. Con un grande
sforzo Helen rispose: “Io sono nata sul pianeta Terra 140 anni fa.” Harlock la
guardava, i suoi occhi non mentivano, la sua voce era sincera.” “Ma…ma come è
possibile? ” “Criogenesi, signore.”
Mio padre era uno scienziato, faceva studi sull’ animazione
sospesa, anche per questo a noi era concesso vivere sulla terra ...sull’inviolabile
dominio, anche durante la guerra di Came Home.” Parlare le pesava, ogni singola
parola era sofferta e pesante come se insieme alle parole vi fossero lame roventi.
“Un giorno, mio padre corse a casa e dopo un frettoloso saluto, senza
spiegazioni,mise me, mia madre e le mie sorelle nelle celle criogeniche di sua
invenzione. Erano solo sperimentali ma volle tentare il tutto per tutto. La
terra era perduta ripeteva.Ci abbracciammo, dicendo che ci saremmo rivisti
presto ma… ma quando mi svegliai… loro non c’erano più. La mia casa non c’era
più. La terra non c’era più. Le loro celle difettose non avevano portato a termine
il processo; solo la mia…” Le ultime parole Helèn le aveva pronunciate
lentamente sopraffatta da un dolore che non riusciva a gestire. Le lacrime le
rigavano le guance. Harlock in preda a mille moti dell’anima che come puledri
impazziti riusciva a stento a dominare chiese: “Quanti anni erano passati ? ”
Helen rispose: “100 anni.” Il capo chino per nascondere le lacrime, ormai la sua
voce era solo un sussurro. “Ieri la Gaia Fleet mi cercava perché ad oggi ,sono
l’unico essere vivente ad essere sopravvissuto a 100 anni di criogenesi. Mi
trovarono e divenni un topo da laboratorio, mi sottoposero ad ogni genere di
test, esami, torture. Poi un giorno uno degli scienziati ebbe pietà di me, mi
aiutò, mi insegnò la lotta,la scherma e grazie a questo riuscii ad arruolarmi,
ad integrarmi e ad iniziare una nuova vita, perché della vecchia non c’era
rimasto più nulla. Solo i miei... sbiaditi ricordi. “
Ora tutto era chiaro. Harlock aveva avuto quello che voleva:
la verità. Ma che amaro sapore aveva. Lo sentiva in bocca mentre non riusciva
distogliere lo sguardo da quel rivoletto di sangue sulle labbra di Helèn. E a
quale prezzo poi ? Il disprezzo di lei. “Puoi andare ora.” La congedò, Helèn si
diresse verso la porta. Harlock si voltò non avrebbe potuto sopportare di
incrociare ancora il suo sguardo, ma aggiunse a mezza voce: “Perdonami… credevo
d’aver calibrato meglio la mia forza. Non volevo farti tanto male, ma… avevo
bisogno della verità.” Cercò di mascherarlo parlando piano ma la voce aveva un tono sofferto. Quello schiaffo
aveva fatto più male a lui che a lei. “Non è colpa tua è uno dei tanti ‘doni’
della criogenesi. Cento anni nel ghiaccio hanno trasformato la mia pelle in
carta velina ed il mio sangue non coagula più come quello degli altri. E tu...tu
non potevi saperlo… è il principale motivo per cui mi hanno insegnato a
difendermi e sono diventata la guerriera che sono. ”
Si erano parlati tutto il tempo restando di spalle l’uno
all’altra. Harlock aveva un assoluto bisogno di rimanere solo e non aggiunse
altro. Helèn fece per uscire, poi fermandosi aggiunse con tono supplice
“Signore, non dica nulla agli altri...non potrei più vivere qui se...se
sapessero che in realtà ho 140 anni. ” Uscì. La porta si chiuse con un tonfo
dietro di lei.
Harlock si voltò di colpo, il mantello ondeggiò e con un
ghigno del viso, imprimendo tutta la forza che aveva in corpo, sferro un pugno
contro una delle pareti di metallo della stanza, che si piegò. Sentì netta la
pelle aprirsi, il sangue sotto il guanto di pelle ma non gli importò. Rimase
così,immobile. Per la prima volta aveva sotto gli occhi una delle SUE vittime;
una delle persone, l’unica persona rimasta, a cui lui aveva strappato il
pianeta terra. E per un assurdo scherzo del destino proprio lui l’ aveva voluta
sull’ Arcadia.
E lei era lì ora.
Note:
Questo terzo
capitolo è dedicato a tutti coloro che scrivono del grande ed unico Capitano ,
grazie perché per merito di tutti voi e delle vostre avventure lui resta vivo nei nostri cuori e nei nostri
occhi.
Lo dedico
inoltre a tutte quelle meravigliose fanciulle che sin dall’inizio hanno letto
con passione questa storia frutto della mia mente e si domandavano chi fosse e
da dove venisse Helèn… ora lo sapete e potete trarre le vostre deduzioni e fare
le vostre considerazioni. Ma sappiate una cosa,la verità è come una Matrioscka
viene fuori a strati,lentamente ;-p Helèn ha raccontato ad Harlock SOLO parte della verità. Tanto altro e perché
i due si sentano misteriosamente attratti lo scopriremo insieme più avanti ;-) un
grazie a tutte.
Grazie ad
Harlocked per il sostegno e tutto il resto :- *
|
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Capitolo 4 *** L'ANGELO NERO ***
Come le onde del mare nel loro
immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra, in
egual maniera le onde del destino, nel loro divenire dal passato al presente,
talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via. -
4
L’ANGELO NERO.
- Fuori dagli appartamenti di Harlock Helèn camminava veloce,
voleva tornare in camera sua; voleva
ordinare i suoi pensieri, voleva comprendere le emozioni, voleva e
doveva capire. Ne sentiva forte l’esigenza, come il bere. Si sentiva stanca
come dopo un duello ma ciò che le doleva non erano i muscoli, era il cuore. Un
peso forte l’opprimeva, doveva andare il più lontano possibile da lì. Si trovò
d’improvviso davanti Meeme , eterea,
impalpabile, inspiegabile, senza tempo. Meeme
come sempre la osservò piano, in profondità, poi spostò lo sguardo alla
mano che teneva sul viso, chiuse un paio di volte le doppie palpebre dei grandi
occhi. Comprese. E senza dir nulla si diresse da Harlock.
Lo trovò sprofondato su una delle grandi sedie, accanto alla
scrivania. In mano un bicchiere colmo di vino, la sedia era in parte girata
verso la grande vetrata, guardava lontano; era lontano.
Il suo sguardo si
spostò poi ad alcune gocce di vino che
lente ed irregolari cadevano dal tavolo al pavimento una dopo l’altra.
La mano destra aperta sulla superficie del tavolo, Harlock aveva tolto il
guanto e versato sulla pelle escoriata e livida del dorso un bicchiere di vino
a mo’ di disinfettante. Meeme si recò in
bagno a prendere il necessario per la medicazione. Si avvicinò ma lui con un gesto
del capo le fece di no. “Ma brucerà!”
Disse lei. “Deve bruciare!”
Rispose caustico lui. Meeme dopo essersi
versata da bere si acciambellò su di un’altra poltrona: “Che cosa è successo? ”
Chiese dolcemente per conoscere ciò che in verità già sapeva. Bevve piano.
Helèn si chiuse in camera sua con il ‘code’ non lo aveva mai
fatto prima. In bagno si sciacquò il viso più volte, bevve dalla mano, aveva un
piccolo taglio all’interno del labbro inferiore a causa dell’urto della pelle
sul dente. Non sanguinava più. Una sciocchezza per chiunque tranne che per lei.
Restò col capo chino sul lavabo per alcuni attimi guardando le piccole gocce
d’acqua scivolare via piano una dopo l’altra. Si mise istintivamente una mano
sul viso; lì dove lui l’aveva colpita. Non capiva. Aveva intravisto per un
istante il viso di lui e vi aveva trovato solo turbamento. Anzi, per un attimo
aveva avuto come l’impressione che quel gesto avesse provocato in Harlock una
sorta di dolore, quasi che fosse stata lei a causarlo.
Harlock emerse piano
dal suo silenzio come da una palude melmosa e densa.
“L’ho schiaffeggiata Meeme ” disse con una voce che arrivava
dal fondo tormentato della sua anima. Abbassò lievemente il capo di modo che i
capelli scendessero a coprirgli in parte il viso. Non faceva che vedere la
piccola ferita che le aveva inferto, gli occhi lucidi di Helèn mentre tentava
con ogni fibra del suo corpo di mantenere i nervi saldi; in realtà si intuiva
cosa avesse passato. Era per questo che aveva detto d’esser già morta. Era
davvero come se lo fosse stata, aveva perso la sua casa, la sua famiglia, il
suo pianeta e tutto per COLPA sua. Si portò il dorso della mano lacerata sulle
labbra carnose per sentirne in parte l’acre sapore.
Helèn indossata una
comoda tuta se ne stava seduta sul letto, le braccia strette attorno alle
gambe, la testa sulle ginocchia, i capelli liberi dove volevano. Respirava
piano ed ascoltava il battito regolare del suo cuore e di lontano il rombo del
suo animo. In fondo si sentiva meglio: condividere il suo segreto con Harlock
la faceva sentire più leggera. Non erano molte le persone a sapere, e lui
doveva essere uno di loro, lo aveva percepito dal primo momento in cui lo aveva
visto, senza poterselo in alcun modo spiegare. Le aveva ispirato tanta fiducia
quasi che il suo segreto, se mai possibile, con lui sarebbe stato ancora più al
sicuro. “Il tuo viaggio è finito.” Le aveva detto Meeme, e forse era proprio
così. Harlock era un uomo dal comportamento impetuoso a volte irrazionale, ma i
suoi intenti erano nobili, era giusto con i giusti e spietato con gli iniqui e
forse aveva voluto portarla all’estremo per metterla alla prova. Del resto su
una nave del genere la lealtà per il Capitano era tutto. Reciproca e profonda
fiducia, verità e trasparenza; tutte cose che lei non aveva fatto tacendo. Già
il...‘Capitano’ Perché non riusciva a chiamarlo così? Perché lo sentiva tanto
vicino a lei? L’aveva spaventata ma se lo era meritato, sarebbe dovuta andare
lei da lui a vuotare il sacco. Ma era così difficile. Si ora era chiaro, lui
l’aveva volontariamente portata al limite per ottenerne la confessione, l’aveva
volontariamente alleggerita di quel
fardello, era un uomo altruista e generoso come diceva Kei, un uomo che
meritava rispetto. Perché la Gaia lo dipingeva come un criminale? Il peggior
terrorista di tutto l’universo. Solo perché si era impossessato delle 100 bombe
a vibrazione dimensionale? C’era qualcosa che nonostante il suo ruolo nella
Gaia Fleet le era stato taciuto. Alcune lacrime grandi e pesanti si formarono
sugli occhi di Helèn ed iniziarono a percorrere libere le linee del suo volto.
Non era stata corretta con Harlock e certo lui non aveva fatto ciò che aveva
fatto a cuor leggero. No, non era diverso da come lei lo aveva percepito. Aveva
sbagliato, con gli uomini sbagliava sempre, sempre!
“Ho sbagliato Meeme ma
dovevo sapere.” Continuò Harlock. Meeme versò ad entrambi altro vino rosso, poi
disse laconica: “Sei stato così tanto duro per allontanarla il più possibile da
te… lo sai, ma se è qui, c’è un motivo. Nulla accade per caso Harlock.” Bevve.
“Se l’hai voluta e la vuoi qui a tutti i costi c’è un perché...
Chieditelo.” Harlock fissando il
bicchiere lo fece roteare lentamente provocando un’ onda del liquido rosso,
creando così un piccolo vortice come quelli che da 100 anni squassavano impietosi
il volto della terra e al cui formarsi aveva assistito impotente e
dolorosamente inerme . “Sì ..certo. ” Rispose. ” Il motivo è avere sotto agli
occhi tutti i giorni una delle MIE vittime." Disse amaro. Bevve d’un sorso
l’intero contenuto del bicchiere. Una goccia rosso rubino gli scese lungo
l’angolo delle labbra,la pulì quasi con rabbia con le dita della mano sinistra
e guardandole disse: “Se è anche con questo che dovrò convivere per il resto
dei miei giorni lo farò! Pagherò per tutto, per tutto,anche per questo.” “ Harlock… non è un’altra punizione da auto infliggersi per espiare!”
Disse Meeme con tono accorato,comprendendo quanto dovesse esser atroce per lui
ritrovarsi di fonte,viva e vera una delle persone a cui aveva sottratto per
sempre la terra. Una persona del cui trite destino era stato involontariamente
l’artefice. Come se il suo incubo ricorrente, il suo grande tormento avessero
ora un volto ed un nome. Ma Harlock non l’ascoltava già più. Alzatosi e posato
il bicchiere, con un solo gesto si sbarazzo del mantello, quasi che ora il peso
fosse divenuto insostenibile. Presa una bottiglia, misero palliativo per il suo
dolore, uscì. Ma quella sera lei sarebbe stata la sua sola compagna.
Trascorsero alcuni giorni in cui Harlock evitò accuratamente
Helèn. Rimase per la gran parte del tempo nei suoi alloggi, ne usciva solo a
notte fonda e pareva più in pena del solito, quasi che un potente maremoto
avesse distrutto gli argini delle sue certezze ed ora dovesse faticosamente
ricostruirle. Una cosa gli era chiara; lui ed Helèn avevano pressappoco la
stessa età, ma questa scoperta se mai, lo portava a star peggio. Doveva
pensare, rielaborare il tutto, resettare per ricominciare, da solo. Helèn
invece si sentiva sola aveva un gran bisogno di stare in compagnia così ne
approfittò per imparare a conoscere gli altri membri dell’equipaggio. Trascorse
del tempo con Kei che le narrò come era entrata a far parte dell’Arcadia; con
Yattaran che le mostrò una gran quantità di modellini, il suo grande hobby; con
Shou imparò tutto sui tatuaggi, lui stesso si era fatto un enorme jolly roger
tra la fronte ed il cranio pelato. Aki
amava lavorare il cuoio e le regalò una quantità di teschi da cucire ovunque;
con Eichiro invece imparò molte cose sui motori
e le armi in dotazione all’Arcadia. Ogni tanto con la coda dell’occhio
le sembrava di vedere il mantello di Harlock o di sentirne i passi in
lontananza ma ogni volta lui non c’era. Avrebbe voluto parlargli ma
pensava fosse più giusto rispettare il
suo allontanamento.
“Capitano…Capitano!”
La voce di Kei proveniva forte dall’interfono sulla scrivania di Harlock:
“Parla Kei.” “C’è un ricognitore a poca distanza da noi, l’aspettiamo in
plancia Capitano.” A grandi passi Harlock raggiunse il ponte di comando non gli
pareva vero di poter sfogare un po’ della sua frustrazione. Senza esitare
ordinò di attaccare. Helèn era lì con tutti gli altri e finalmente si videro.
Helèn gli sorrise e quel sorriso per Harlock ebbe l’effetto di cento pugnalate,
le rispose con uno sguardo enigmatico,intenso che lei non capì.
L’Arcadia correva agile per i sentieri dell’universo che
innumerevoli volte aveva battuto, quasi avvertisse che LUI era al comando.
Harlock si avventò letteralmente al timone, urlava ordini a tutti, sembrava
impazzito; Yattaran e Kei si guardarono più volte perplessi. La velocità era
impressionante, il grosso ricognitore sempre più vicino, Harlock fatto ruotare
il timone con entrambe le mani per stabilire la rotta ed il grado esatto di
inclinazione della nave, senza bisogno di altro, velocissimo, con l’ausilio
della sola mano destra impresse una rotazione totale dello stesso portando in
questo modo l’Arcadia a speronare con violenta precisione l’altra nave.
L’urto fu squassante. Vi erano pezzi di metallo dell’altra
nave che iniziarono a vagare lenti per l’universo. Helèn ne rimase affascinata.
Ecco, si disse. “Questo è il leggendario Capitan Harlock! ” Torreggiava dall’
alto del suo timone, letale alla guida della sua nave, condottiero senza timori
né esitazioni,timoniere ardito e devastante,noncurante di tutto il resto,
perché qualunque fosse stato il ‘resto’ l’avrebbe affrontato.
Gli uomini intanto si prepararono rapidi all’assalto. ”Vorrei
andare con loro Signore” chiese Helèn. Sarebbe stata la prima volta che
lasciava l’Arcadia. Harlock per non dirle di no, acconsentì con un lieve cenno
del capo. Andò a sedersi sul suo trono per tornare padrone di se. L’assalto
durò poco, gli uomini riferivano via radio a Kei rimasta a bordo dell’Arcadia.
Ma quando la prima navicella da ricognizione fece ritorno, uno strano clima
aleggiava; un’ansia mista a triste sconfitta. Raccontarono sommariamente che
uno di loro aveva avuto problemi e che Hèlen era tornata indietro a
prenderlo...ma vi era stata un’ esplosione. Harlock corse giù all’hangar attese
il ritorno della seconda navicella. Ne uscì Yattaran completamente annerito dal
fumo, reggeva un pirata ferito. Scuoteva la testa facendo segno di no. Harlock
si irrigidì, guardò Yattaran e poi rivolto all’uomo ferito: “Che cosa è
successo?” “Capitano…” L’uomo stentava a parlare, a trovare le parole:
“Mentre…mentre rientravo…verso l’uscita… ecco c’è stata un’ esplosione, sono
rimasto ferito, poi ho visto Helèn e con il suo aiuto sono riuscito a tornare
verso la navetta…ma... mentre correvamo lei, lei era davvero pochi passi dietro
di me, c’è stata un’altra violentissima esplosione, l’ho sentita gridare… mi
sono voltato ma era scomparsa tra le fiamme, ho provato a tornare indietro ma
il calore era insopportabile...” L’uomo abbassò il capo in senso di sconfitta.
“E’ vero capitano!” Intervenne Yattaran, eravamo già tutti fuori quando Helèn
si è accorta che mancava Hiroaki. Le esplosioni si succedevano, le ho detto che
non c’era più nulla da fare per lui ma mi ha risposto che mai sarebbe tornata
con un uomo in meno e si è rituffata tra le fiamme. Poco dopo Hiroaki ne è
uscito ma lei non c’era… Sono tornato indietro, l’ho cercata, l’ho cercata
Capitano; l’ho chiamata a lungo, a lungo, ma…ma non ho mai ottenuto risposta…
mi…mi dispiace Capitano” Yattaran abbassò lo sguardo sconsolato.
Harlock era una statua di pietra, nessuno avrebbe potuto
capire cosa stesse pensando o provando. Senza aggiungere altro salì su una
delle navette appena rientrate. “Capitano è inutile, è morta Capitano!” Urlò
Yattaran, a cui il suo Capitano stava a cuore più di ogni altra cosa al mondo.
“Se questo è vero, riporterò il suo corpo ” rispose secco Harlock. Partì.
Raggiunto lo squarcio creatosi attraverso l’impatto con
l’Arcadia, Harlock, mascherina nera sul volto, iniziò a camminare lentamente,
doveva vedere ma soprattutto sentire. Ogni tanto la nave era scossa da violente
vibrazioni causate da esplosioni lontane; vi era fumo denso ovunque, una gran
quantità di cavi elettrici sospesi si muovevano come dotati di vita propria, e
come serpenti lanciavano faville dalle fauci luminose. Una esplosione vicina.
Harlock barcollò. La temperatura era altissima, le tempie pulsavano e la sua
mente pensava “Helèn dannazione dove sei?” La situazione era critica, vi erano
macerie e lamiera fusa ovunque. Non poteva essere morta, non poteva averla
persa. Tolta la mascherina, iniziò a chiamarla a gran voce: “Helèn…Helèn mi
senti? ”
Sull’Arcadia la tensione era al culmine. Tutti erano
attaccati alle postazioni in attesa di un messaggio di Harlock. “Tra poco
quella maledetta nave collasserà! ” Disse Yattaran rivolto a Kei. La
preoccupazione era chiara sul suo volto, non faceva che andare avanti e
indietro passandosi una mano sulla testa; anche Kei era un fascio di nervi,
aveva paura per Harlock ma anche per Helèn.
Harlock procedeva, voltando lentamente il capo da destra a
sinistra non tralasciando nulla, noncurante dell’elevata temperatura, solo
alcuni rivoletti di sudore sulla fronte tradivano il suo sentire: la sua
attenzione era rivolta solo alla ricerca. Le
fiamme danzavano intorno e per lui. A volte alcune lingue di fuoco come
braccia femminili bramose lo lambivano,sorridendo sardoniche. “Helèn mi senti?
”
Helèn a seguito dell’esplosione era stata sbalzata
violentemente contro una parete di metallo che poi le era crollata addosso e la
ricopriva quasi interamente. Aveva perso i sensi, solo l’armatura blindata
aveva impedito il peggio. Sentì una voce lontana. Alzò faticosamente il capo. Caldo,
fumo, fuoco. Sentiva dolore, il che era buon segno pensò; ma vedeva solo
fiamme. Il pavimento caldo vibrava sotto di lei. Non riusciva a vedere bene:
“Sto morendo.” Pensava. Immagini del passato, del presente, presero a rincorrersi
nella sua mente; frasi, parole, volti, emozioni, sentimenti, Harlock. Faceva
fatica a respirare per il peso del metallo sul corpo, la testa le ronzava. Si
sentì nuovamente chiamare. “È giunta la mia ora!” Pensò. “Sono pronta...”
Poi d’improvviso un grande angelo nero si materializzò
in lontananza, impalpabile nell’aria
tremula, dispiegando con le mani le grandi ali nere, i capelli castani, alto,
longilineo, camminava lento e maestoso tra le fiamme, solenne, avvolto da una
luce spettrale, bellissimo. Aveva una
benda su un occhio: “Harlock!” Pensò Helèn. Sorrise amara: “Sto davvero morendo
perché lo vedo.” ”Helèn dove sei? Mi senti Helèn?” non era una allucinazione,
era davvero Harlock!
Gridò con
quanto fiato avesse in gola. Ma non emise suono. Ci riprovò, la gola le
bruciava, raccolse le forze per gridare solo un nome, un nome solo:
HARLOCK. “Harlock… ”gridò con quanto
fiato aveva. Il miraggio dell’angelo dalle ali nere la sentì ed iniziò a correre verso di lei, il
mantello si gonfiò, simile ad ali spiegate, i capelli ondeggiarono, la figura
snella e scattante, fu da lei. Un ginocchio a terra, sollevata la pesante
lastra di metallo la tirò via con facilità. E lì per terra la strinse a sé.
All’interno della sua armatura Helèn piangeva: “Sei
venuto qui, per me, per me… Allora non mi odi? Perdonami, perdonami se non ti
ho detto tutto subito,ma avevo paura.” Harlock non rispose. Si alzarono. Poi le
chiese: “Stai bene?” Helèn fece cenno di sì. “Ascoltami; dobbiamo allontanarci
il più in fretta possibile. Ora lancerò una piccola bomba. L’esplosione
consumerà tutto l’ossigeno rimasto; per pochi istanti le fiamme si ritireranno
e si creerà un varco, avremo così la
possibilità di passare, ma saranno solo pochi istanti, dopo… tutto crollerà.
Pensi di farcela? ” Helèn fece cenno di sì col capo. Harlock messa la
mascherina, lanciò la bomba proteggendo Helèn. Le fiamme si ritrassero di colpo
come fiere colpite dalla frusta del domatore: Harlock ed Helèn corsero in quel
breve corridoio temporale tenendosi per mano. Helèn sentiva quella presa salda
e forte e Harlock non la lasciò mai. Continuarono a correre fino alla
navetta. E poi... di colpo TUTTO
esplose.
Sull’Arcadia il panico serpeggiò rapido dagli occhi ai
volti di tutti. Kei, la bocca semiaperta incapace di parlare, Yattaran entrambe
le mani sulla testa disse disperato, pensando al peggio e dando voce al
pensiero di tutti: “ Noo! Capitano che faremo ora noi senza di te! ” In
quell’istante una voce nota a tutti comunicò via radio che tornava...Tornava
con Helèn. Un coro di urla e risa si levò simultaneamente dalla plancia: Kei e Yattaran si guardarono grati, alcuni
saltarono dalla gioia e per il sollievo lanciando in aria le bandane. Harlock
ordinò la partenza immediata dell’Arcadia subito dopo il loro attracco.
Helèn non si era seduta accanto ad Harlock, era rimasta nella
parte posteriore del velivolo, poggiata ad una parete. Si era tolta, non senza
difficoltà, la pesante armatura blindata. Arrivati nell’hangar dell’Arcadia
Harlock lasciò i comandi e la raggiunse. I capelli sciolti Helèn se ne stava
quasi abbandonata contro la parete con il braccio destro che teneva
innaturalmente il sinistro. Sudava, stava soffrendo.
Harlock la guardò preoccupato: “Helen?” Disse con aria
interrogativa. “Ho una clavicola lussata, devi a…iutarmi ti prego… non ce la
faccio più.” Il dolore doveva essere insopportabile, il labbro inferiore le
tremava leggermente per lo sforzo. Harlock la spostò delicatamente mettendosi
lui spalle alla parete per avere un supporto: “Tieniti con l’altro braccio a
me.” Le disse. Si guardavano, non distolsero mai lo sguardo l’uno dall’altra.
Helèn gli passò il braccio destro intorno al collo. “Pronta?” Lei fece cenno di
sì col capo. Soffriva molto. Harlock con una mano tirò su delicatamente
lateralmente il braccio sinistro di Helèn; con l’altra si preparò ad esercitare
con un colpo netto, una forte e decisa pressione all’altezza della clavicola
per risistemarla: doveva essere una manovra secca e corretta o avrebbe potuto
lacerare i legamenti.
Fu un istante. Helèn si strinse a lui, gridò e svenne per il
dolore lancinante. Harlock la sostenne. Un braccio intorno alla vita, l’altro
intorno alle spalle. La sostenne… e… la
strinse, la strinse forte a sé. Soli. Volle tenere quella donna inerme un lungo
momento tra le sue braccia. La strinse forte percependone il tepore, affondando
il viso nei suoi capelli aspirandone il profumo. Ma che gli stava succedendo?
Chi era quella donna che teneva tra le braccia e che non avrebbe mai voluto
lasciare? Fu solo un momento, prima che la sollevasse tra le braccia per uscire
dalla navetta.
Note :
Grazie alla mia Beta Erika Buon compleanno cara :-*
E grazie di cuore a tutte le meravigliose fanciulle che
hanno voluto commentare o farmi sapere privatamente cosa pensano del racconto,dello
stile e delle idee. Lo apprezzo molto siete fonte di riflessione e di
ispirazione sempre. Grazie.
E grazie ancora a chi ha voluto inserire la storia tra le
seguite, ricordate o preferite. Lego i vostri nomi ed avverto il vostro sguardo
benevolo. Grazie.
|
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Capitolo 5 *** CORPO A CORPO ***
Come le onde del mare nel loro
immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra,in
egual maniera le onde del destino,nel loro divenire dal passato al
presente,talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
5
CORPO A
CORPO
Quando Helèn aprì gli occhi l’accolsero le azzurre iridi di
Kei “Come ti senti? la devi smettere con questi atti eroici o ci farai morire
di crepacuore” le disse sorridendo. Helèn aveva braccio e spalla fasciati
insieme, era in camera sua”. Dov’è Harlock ?” chiese “E’ in plancia,ti va di
mangiare qualcosa? E domani mattina di ricevere visite? Tutti mi chiedono di te”
le disse Kei strizzandole l’occhio.
Harlock solo, sul grande ponte di comando, fissava un nero
mare di velluto striato d’argento che si stagliava infinito innanzi a lui. In
realtà ciò che realmente stava fissando era l’universo che era dentro di
lui,pieno di sfaccettature, cangiante, immenso e mutabile. La guancia poggiata
sul pugno della mano sinistra,il viso quasi interamente coperto dall’ampio
bavero del mantello e dai capelli, il corpo affondato nella struttura del trono
che lui si era fatto costruire tanto tempo prima mosso da volontà di giustizia e
libertà. Ma da quanto tempo non era più libero? Libero di pensare, libero di
sentire, libero di amare? All’esterno nulla di ciò che stava sentendo sarebbe
mai emerso, ma quello che in verità lui udiva era il suono metallico
dell’inizio di una dura battaglia quella di Harlock con Harlock. Qualcosa stava
cambiando in lui, iniziava ad avvertire il sibilo di un vento lontano. Era
perfettamente consapevole che se avesse permesso a quella brezza sottile di
crescere e soffiare sarebbe ben presto diventata un uragano che lo avrebbe
travolto e spazzato via. Se gli avesse lasciato campo libero si sarebbe
impossessato di ogni fibra del suo essere, la sua potenza se accresciuta,
l’avrebbe travolto e lui non poteva assolutamente permetterselo. E quel vento… ora
aveva un volto, aveva un nome Helèn. Era stato un atto di debolezza farla
salire sull’Arcadia, ancora una volta avrebbe dovuto convivere con una sua
scelta. Eppure gli bastava chiudere per un attimo gli occhi della mente per
lasciarsi cullare dal ricordo di quel viso,di quello sguardo.
Si alzò di scatto aprendo con le mani il grande mantello e
lasciando a grandi falcate il ponte di comando. Tori volò giù e si posò sulla
sua spalla destra. Harlock trascorse alcune ore nella sala del grande computer
centrale ma senza trarne beneficio. Ed a dimostrazione di ciò,per recarsi nei
suoi appartamenti nel castello di poppa scelse il corridoio che passava accanto
alla stanza di Helèn.
La luce filtrava dalla parte inferiore della porta di
metallo. Era ancora sveglia. La ricordò mentre lo chiamava. La superò veloce.
Nelle sue stanze Meeme
lo aspettava “Non ceni Harlock ?” “Non ho fame“ disse lui sfilandosi i guanti e
scaraventandoli sul tavolo. “Che hai?” Lei sapeva da cosa nasceva quell’inquietudine, la conosceva bene, ed
altrettanto bene sapeva che a volte Harlock doveva ascoltarsi, ammettere certi
moti dell’animo per farli assurgere a coscienza e prenderne consapevolezza.
Harlock non amava parlare e in special modo di sé. Ma con Meeme era diverso era
una vecchia amica ormai, leale, sincera e lo conosceva bene.
Harlock braccia conserte davanti all’immensa vetrata la cui
sconvolgente bellezza lo inghiottiva ogni volta.
“Oggi ho creduto che
fosse morta. Mi sono spinto al limite estremo,non avrei lasciato quella dannata
nave senza di lei, contravvenendo a tutto ciò che detta il buon senso ed a ciò che
ho insegnato ai miei uomini. Così facendo ho messo a repentaglio l’incolumità
mia e dell’intero equipaggio. Io sono il Capitano di questa nave e come tale ho
la responsabilità di 40 persone. Loro mi hanno consegnato le loro vite, si
fidano di me e da me dipendono. Ma da quando lei è qui i miei sentimenti
prendono il sopravvento su tutto il resto” il suo tono di voce era duro,
determinato.
”Parli di Helèn?”. Harlock non rispose, ora parlava a se
stesso “Non posso e non voglio che questa cosa cresca dentro di me. Quando la
guardo negli occhi sento che potrei naufragare”.
Meeme era preoccupata ma non per Harlock ma di Harlock . “Che intendi fare?”
“Non posso mandarla via, vorrebbe dire condannarla a morte, ma posso fare in
modo che le cose cambino!”. Aveva proferito le ultime frasi tenendo i pugni
stretti. Meeme scosse la testa.
Il giorno dopo Harlock appariva più stanco del solito, non
era riuscito a dormire. Aveva preso una decisione soffocando ancora una volta i
suoi sentimenti per il superiore bene comune di cui si sentiva responsabile.
Questo gli dava forza.
Con passo sicuro si recò verso la stanza di Helèn. La porta
era aperta, udì la sua risata argentina provenire dall’interno. Dalla porta
vide Yattaran con in mano un modellino dell’Arcadia che mimava tra suoni e
sbuffi quella che pareva una battaglia. Helèn era morbidamente distesa su
alcuni cuscini posti ai piedi della poltrona, accanto al piccolo camino, il
braccio bloccato da una fasciatura al corpo. Aveva una tuta termica bianca
aderentissima le gambe adagiate l’una sull’altra ed i piedi scoperti. Dai
lunghi capelli benché raccolti, alcune morbide ciocche erano scivolate
incorniciandole l’ovale del viso. La sua risata lo colpì improvvisa, inaspettata
come un getto d’acqua fresca, portandogli alla mente le montagne innevate.
Helèn gli occhi lievemente socchiusi, il capo delicatamente
chinato all’indietro mostrava parte del collo. Dentro di sé invidiò Yattaran
che riusciva a farla ridere così. Lei lo vide e divenne subito seria. Abbassò
lo sguardo per nascondere gli inconsapevoli battiti accelerati del suo cuore.
Yattaran si voltò di scatto ”Capo!” fece un po’ impacciato. Poi rivolto ad
Helèn “ Beh! Io vado Helèn…“ disse dandole il modellino dell’Arcadia “grazie
Yattaran” rispose lei sorridendo. La porta si chiuse dietro il pirata.
Harlock non era mai
entrato in quella stanza, trasudava di lei. Nell’aria il dolce odore dei suoi
capelli. Candele profumate. Notò i tre vasetti accanto alla finestra “Mi
ricordano da dove vengo” poi aggiunse amaramente “Sono l’unica persona vivente
ad essere nata sulla terra”. Volse lo sguardo alle fiamme del camino e disse “Grazie
per essere venuto a salvarmi.” Harlock
le si avvicinò di qualche passo. “E’ proprio per questo che sono qui.“ Fece bruscamente.
Helèn lo guardò “Se vuoi restare su
questa nave evitati altre alzate d’ingegno come quella”. “Ma di che parli?” fece
lei sorpresa.
”Del fatto che per essere tornata indietro per un uomo solo,
saremmo potuti morire in due!” rispose secco. ”
Ma…ma io… non potevo lasciarlo lì, il mio è stato solo un
incidente.” “Saresti potuta morire!” urlò lui. Ma di queste ultime parole Helèn
capì solo ciò che volle capire. Abbassò lo sguardo “ Non sarebbe cambiato poi
molto” fece malinconica. ”Nessuno mi aspetta là fuori,anzi” sorrise amara “qualcuno
mi aspetta, la corte Suprema della Gaia Sanction.” Si riebbe e in un moto di
rivalsa ”qual’ è dunque la mia punizione Signore?” disse alzandosi con foga.
Per terra con lui che
la dominava dall’alto si sentiva inerme,ma nel movimento innaturale e
frettoloso che compì per non sentire dolore alla spalla, perse l’equilibrio.
Harlock con una falcata fu da lei e la prese per la vita.
I loro sguardi si incontrarono consapevoli di quel contatto.
Lei sentiva la sua mano forte sul fianco, lui percepiva il dolce tepore e la
morbidezza del corpo di lei. Harlock avrebbe voluto tirarla a sè e fare aderire
il corpo di Helèn al suo. Ma non fece nulla di tutto questo. Helèn gli
poggiò la mano libera sul petto
all’altezza del Jolly Roger che aveva sul giubbino di pelle, e lo spinse via
dolcemente guardandolo “Non sono una bambina, devi farla finita di correre ad
aiutarmi! ”.
Ed accadde. Il fiorire di un ricordo,quel gesto tra di loro,
come quando aprendo un cassetto ne viene fuori un odore che riporta alla mente
sopite sensazioni. La mano di lei sul petto di lui che lo allontanava dolcemente.
Si guardarono sorpresi, travolti all’unisono dalla medesima strana sensazione.
Cercando l’uno nello sguardo dell’altro una risposta. Il tempo scandì un po’
più lentamente i suoi rintocchi. Harlock si riebbe per primo. Uscì con addosso
uno strano senso di famigliarità e di esperienza vissuta. Helèn lo archiviò
come un dejà vu.
Non appena Harlock fu
fuori Helèn cominciò a togliersi gli abiti e quasi a strapparsi la fasciatura
di dosso. Da quella stessa notte cominciò a sottoporsi a lunghe sessioni di
allenamento. All’inizio per riprendere le funzioni del braccio e rinforzare la
muscolatura,poi anche per tutto il resto. Si allenava duramente per esser forte
abbastanza da non aver bisogno di nessuno. Lo faceva con rabbia, con dolore,
con sacrificio come lo aveva sempre fatto per rendere più forte il suo fragile
corpo.
Ben presto l’eco di questi allenamenti si diffuse tra la
ciurma, all’inizio i più andavano a guardarla incuriositi, poi pian piano
qualcuno iniziò ad allenarsi con lei chiedendole consigli e spiegazioni. Ciò
che li incuriosiva era la capacità di Helèn di mescolare l’arte della spada con
quella atletica. Lei sorrideva ed aiutava come poteva.
Un giorno Harlock domandandosi dove fossero finiti tutti
chiese a Yattaran, l’unico presente in plancia “Dove sono gli altri?”.
“Ma come capitano non lo sa? alle sessioni d’allenamento di
Helèn, quella donna è una forza della natura Capitano. Dovrebbe vedere che…” si
morse la lingua perché stava per dirne una delle sue. Harlock incuriosito si
recò alla grande sala degli allenamenti ma, prima di arrivarvi sentì Kei affannata dire ”Però…amica mia…quella tua
spalla è proprio a posto adesso!”. Le sentì ridere insieme e sentendosi di
troppo si allontanò.
La notte successiva durante una delle sue lunghe passeggiate
‘concilia sonno’ si ritrovò inconsapevolmente nei pressi della palestra, la
luce accesa filtrava dalla porta d’accesso. Da uno degli oblò sulle ante vide
Helèn: scalza, pantaloni e canottiera bianca aderenti e due strane protezioni
in pelle sugli avambracci. Stava duettando con un nemico immaginario. La sua
spada sibilava nell’aria. Era agile e flessuosa, elegante e leggera, fendeva
l’aria con la spada. A vederla combattere con ‘l’uomo invisibile’ non seppe
resistere,il suo lato guerriero ebbe la meglio, entrò di colpo.
”Credo ti serva un
avversario” disse ad una Helèn stupita di vederlo lì. Helèn gli fece segno con
la spada di accomodarsi. Harlock con un solo gesto si sbarazzò del mantello,poi
del corpetto e del giubbetto in pelle sotto al quale non aveva nulla. Helèn
rimase stordita nel vederlo così… in pantaloni. Lo osservò per un lungo
istante. I suoi occhi vagarono lenti percorrendo le linee perfette di spalle e
torace. Harlock era un uomo fisicamente notevole ma si comportava come chi non
ne ha consapevolezza alcuna. La bella muscolatura di spalle e braccia era stata
plasmata da anni ed anni di battaglie e scontri, trapezio, deltoide e tricipite
ben sviluppati glielo narravano. Nonostante tante piccole cicatrici il torace
conservava una bellezza austera ed elegante. Le braccia muscolose armonizzavano
perfettamente con le ampie spalle ben delineate. Vita sottile, addome piatto, lunghe
gambe, contribuivano a rendere la figura slanciata. La carnagione che aveva
immaginato più pallida era invece di un colorito lievemente ambrato.
Tolti stivali e cinturoni,presa la fedele compagna di tante
battaglie la Gravity Saber si mise
davanti a lei. Era strano essere lì a guardarsi negli occhi sfidandosi. Helèn
abbozzo ‘il saluto ’ con la spada, lui toccò con la lama della sua l’altra lama
e con un movimento del mento in avanti la invitò ad iniziare per prima. Helèn
lo interpretò come un gesto di sfida e un po’ della rabbia sopita per il
rimprovero ingiustamente ricevuto per il suo comportamento irresponsabile
riemerse. Decise di mostrargli una volta per tutte chi era e che sapeva sempre
ciò che faceva. Non era una donna né un medico ma un ufficiale,un combattente.
E diventarlo le era costato lacrime e sangue,si era guadagnata il rispetto dei
suoi capi prima, e dei suoi uomini dopo. Ed ora toccava ad Harlock.
Iniziò assestando un colpo rovescio fortissimo che Harlock
resse ma che lo lasciò incredibilmente sorpreso ‘quanta forza’ pensò. Il duello
vero e proprio ebbe inizio. Helèn seguì con un affondo e poi ancora con un
fendente ed un montante violenti.
Harlock si difendeva ma cercava ancora di calibrare la giusta dose di
forza. Helèn era impetuosa non si risparmiava, colpiva e colpiva, saltava
indietro di scatto e poi attaccava. Capì che Harlock si stava limitando a
studiarla ma non era quello che voleva, allora provocatoriamente disse “Forza
Harlock è tutto qui quello che sa fare il ricercato numero uno dell’universo o
le donne sai solo prenderle a schiaffi quando non se lo aspettano?” a quelle
parole Harlock partì con una battuta e poi con un legamento,le lame si unirono
stridendo, era un gioco di forza, i respiri si fecero affannosi. Helèn ne venne
fuori con un prodigioso salto all’indietro. Harlock sorrise debolmente
abbassando il capo per non farsi scorgere, si disse che Helèn era un degno
avversario. Il tempo complice silente, rallentò per tenerli insieme un po’ più
a lungo.
La osservava roteare leggera nell’aria, saltare
all’indietro,correre in punta di piedi per schivare i suoi colpi, alcune
ciocche di capelli le danzavano ribelli sul viso rendendola bellissima.
Guardandola mentre continuavano a duellare, iniziò a
percepire uno strano calore provenire dal centro del petto. Non era il calore
dato dall’azione, era uno strano calore che nasceva da dentro, che si diramava
prepotente e che non poteva fermare, sorrise ancora debolmente inebriato da
quella sensazione che non ricordava d’aver provato da tanto. “Chi ti ha
insegnato a batterti così?” le chiese.
“Una persona che mi voleva bene, che ha cercato in questo modo di aiutarmi,
rendendomi forte e facendomi entrare nell’esercito della Gaia Fleet” a quel
nome Harlock preso dalla concitazione della contesa divenne una furia, per
Helèn divenne difficile.
Si trovarono spesso a pochi centimetri l’uno dall’altro, l’uno
contro l’altro divisi solo dalle lame incrociate. Entrambi sentivano i
reciproci respiri veloci ed il reciproco calore corporeo. Helèn guardava la
pupilla ambrata di Harlock ed i capelli che aderivano alla fronte per il sudore
rendendolo se mai possibile ancora più bello. Fu un attimo, Helèn spintolo
lontano da se con un’imbroccata riuscì quasi a colpirlo, la lama passò a pochi
millimetri dal suo viso e la parte finale di un ciuffo di capelli venne
tagliato via.
Helèn si bloccò terrorizzata, e lui ne approfittò. Con un
colpo fortissimo fece volare via la spada di lei che finì molti metri lontana.
Helèn la seguì con lo sguardo ma le era stato insegnato a non arrendersi. Così
sfoderò la sua arma segreta, in quelli che sembravano dei semplici copri
avambracci in pelle vi erano in realtà cinque lame oblique affilatissime che
lei fece scattare fuori. Iniziò a colpire e colpire la spada di Harlock proprio
con quelle lame. Harlock parando quei fendenti indietreggiava lentamente, era
rapito e affascinato da quella donna. Poi di colpo lanciò in alto la spada e
con scatto felino le bloccò entrambi i polsi con le mani.
Finirono entrambi violentemente sul pavimento. Harlock sopra
di lei.
Helèn si divincolava
per liberarsi da quella morsa ma le vigorose braccia di lui non glielo
permisero. Muoveva il corpo ma così facendo faceva semplicemente aderire ancor
di più il suo bacino a quello di Harlock. Lui la fissava. Le stava scavando
dentro con lo sguardo. L’alito caldo della bocca di lui le lambiva il viso. Si
arrese. Alcune piccole gocce di sudore dal viso di lui si trasferirono a quello
di lei seguendo la forza di gravità, o semplicemente il loro desiderio. Helèn
respirava affannosamente; così facendo il seno, sollevandosi ritmicamente
toccava il torace di lui, avrebbe voluto non respirare ma non poteva. Sentiva
netti i battiti del cuore di lui a cui il suo corpo faceva da cassa di
risonanza. Harlock avvicinò ancora di
più il volto al suo. Erano pericolosamente vicini. Il capitano piegò il viso in
basso osservando il seno di lei che gli sfiorava morbido il torace, si avvicinò
alla sua bocca. Helèn credette l’avrebbe baciata, erano a pochi millimetri. Ma
le disse piano “Ho capito perché combatti così. Non è perché non hai paura
della morte, tu vuoi la morte, la cerchi”.
Così dicendo le lasciò i polsi, si alzò. Helèn sentì i suoi
passi arrivare infondo alla stanza ed uscire. Non si poteva esser vittoriosi
con Harlock e non faceva riferimento a questo loro corpo a corpo.
Note:
Questo capitolo è dedicato ‘al mio grande amore,al mio amore
grande’ mia figlia S. alle cui movenze elastiche ed eleganti mi sono ispirata
per scrivere questo capitolo che tanto amo ’a te che hai dato senso al tempo senza
misurarlo ’ :-* © Lorenzo
Cherubini
Tecniche di scherma da “Tecniche di combattimento con la
spada”
|
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Capitolo 6 *** ARCTIC ***
Come le onde del mare nel loro
immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla terra, in
egual maniera le onde del destino, nel loro divenire dal passato al presente,
talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
Grazie a
tutti coloro che si fermeranno a leggere.
6
ARCTIC
Trascorsero alcuni giorni apparentemente uguali nei
quali l’Arcadia solcava lenta il mare placido dell’Universo. Era uno strano
navigare, come in cerca di qualcosa. La vita scorreva tranquilla anche per
l’equipaggio all’interno della nave. Solo Meeme si vedeva meno del solito. Ma
una sera si materializzò davanti alla porta dell’infermeria. La luce che di
solito emanava vivida ed intensa era opaca, quasi spenta. Helèn era alla
scrivania. Si voltò, le due donne si fissarono a lungo.
”Meeme qualcosa non va?” le chiese Helèn preoccupata,
avvicinandosi mentre una strana sensazione si impossessava di lei. Meeme non
rispose subito, mosse alcuni passi piano nella sua direzione, entrando nella
stanza. Diafana, evanescente, sembrava irreale, le prese una mano e come se
provasse dolore disse “Tra breve… tanto ti sarà chiesto… sii forte.”
La donna non capì ciò che Meeme voleva dirle ma
attraverso quel tocco delicato percepì nettamente una vibrazione, quasi che così
facendo volesse infonderle coraggio. Una forte sensazione di inquietudine la
pervase, spalancò gli occhi. L’aliena le
sorrise dolcemente e come era arrivata se ne andò via.
Helèn che già aveva difficoltà a dormire quella sera
vagò a lungo per i corridoi dell’Arcadia cercando di fissare pensieri e
sensazioni. Ad un tratto senza preavviso alcuno, Tori le piombò davanti
spaventandola. “Oh! sei tu piccolo monello“ fece lei sorridendo e allungando
una mano verso di lui che, dopo alcuni passi sul pavimento di metallo spiccò il
volo. Helèn decise di seguirlo,per lei una strada valeva l’altra.
Mentre camminava guardandolo volare ricordò che per
alcune antiche tribù della Terra l’avvoltoio era colui che accompagnava l’uomo
nel suo viaggio dopo la morte. Attraverso una stretta porticina metallica lo
seguì in un ambiente immenso nel quale non era mai stata. Era tutto immerso
nella penombra. Mano a mano che gli occhi si abituarono al buio si rese conto
di trovarsi nella grande sala del computer centrale. Le avevano detto che era
il cuore pulsante dell’Arcadia e che era off-limits per tutti, tranne che per
Harlock. Tori iniziò a volare in alto, in maniera circolare fino a quando sparì
alla sua vista. Il computer era enorme, impressionante, presentava un grande
corpo centrale ancorato in basso ed in alto da una notevole quantità di
collettori e condotti di varia dimensione. Non aveva mai visto nulla del genere
sulle navi della Gaia ma, più che un cuore in realtà le ricordava un cervello.
Ogni tanto vi si accendevano alcune piccole luci, sembrava che la stanza fosse
stata costruita attorno al computer e non viceversa. Ebbe la netta sensazione
d’esser entrata nel ‘sancta sanctorum’ della cattedrale Arcadia. Percepiva
un’aura strana, camminava lentamente senza far rumore, con reverenza, quasi
senza respirare. Ad un tratto vide
Harlock, si nascose d’istinto e restò ad ascoltare.
Seduto su uno
dei grossi condotti parlava a voce bassissima o come lei credette pregava! Si…
era lì per pregare. Tori ricomparve dal nulla e si appollaiò sulla spalla di
Harlock che alzandosi diede due pacche alla struttura metallica del computer ed
uscì. Helèn sentì il rumore dei suoi inconfondibili passi sul metallo
allontanarsi. Si andò a mettere esattamente dove era lui. Sorrise. Su di una
specie di sporgenza del corpo del computer Harlock aveva lasciato un bicchiere
con del vino rosso. Lascia anche offerte votive? Pensò un po’ frastornata.
Prese il bicchiere e notò sul cristallo purissimo l’impronta delle labbra di
lui, fece un cenno con la mano che reggeva il bicchiere rivolta al grande
computer come a voler partecipare anche lei a quello strano rito pagano, posò
le sue labbra sul bicchiere esattamente dove erano state quelle di Harlock e bevve!
Chiuse gli occhi. Il liquido scese lento e pungente
lungo la gola e le scaldò lo stomaco. Come una carezza. Il sapore del vino ed
il pensiero che poco prima lì vi erano state le labbra di Harlock le
provocarono una sensazione di ebbrezza. Posò il bicchiere, fece un inchino ed
andò via.
Due grossi cerchi concentrici rossi si accesero sul
grande computer ma Helèn non poté vederli si era già voltata presa dai suoi
pensieri.
Camminava e ripensava ad Harlock così come lo aveva
visto. Era un leader carismatico, un guerriero implacabile, ma il suo fiero
sguardo a volte pareva spento, assente, quasi che un profondo rammarico lo
strappasse a se stesso, un dolore profondo si nutrisse ogni giorno della sua
luce, di lui, consumandolo poco a poco. Ed al tempo stesso vi vedeva
l’inquietudine dettata da uno spirito impavido che non vuole arrendersi. Per
certi versi erano uguali, anche lei viveva col peso di tante perdite sul cuore
e di un dolore profondo, immenso, che mai nulla al mondo avrebbe potuto
colmare. Avrebbe voluto aiutare Harlock ma il suo spirito era celato dietro una
roccaforte di ghiaccio e sofferenza, nessuno vi avrebbe mai potuto fare
breccia. Ed ormai lei non era più in grado di dare o ricevere amore. Gli occhi
le si inumidirono. Si concentrò un istante sul corridoio da percorrere per tornare
alla sua stanza e si rese conto di essersi sbagliata, tornò rapidamente
indietro e girato un angolo. Ed eccolo
lì, il protagonista dei suoi pensieri.
Si erano quasi scontrati, la guardò chinando
lievemente il capo di lato scrutandone gli occhi. Era una sua caratteristica
cercava sempre lo sguardo di chi gli stava di fronte per capire anche ciò che
non veniva detto. Era un'abitudine che aveva acquisito sin dai primi tempi da
militare. Trovando gli occhi di Helèn inumiditi il suo solito sguardo freddo si
ammorbidì. Perché quella donna gli risvegliava sentimenti di dolcezza e
tenerezza come se il suo compito fosse proteggerla? Un pensiero sì affacciò un
istante prima di dissolversi, forse chissà in un’altra vita lo aveva fatto.
”Notte Harlock”.
“Notte a te ”. Le loro strade si divisero.
Il giorno dopo Helèn notò un certo fermento in plancia.
“Cosa accade?” chiese rivolta a Kei.
“Siamo
finalmente giunti nei pressi di Arctic dobbiamo lasciare qualcosa su questo pianeta“
le rispose sbrigativa.
”Qualcosa? ” fece interrogativa Helèn.
”Una bomba”. La voce di Harlock proveniva dalle sue
spalle.
“Una bomba? e
perché?” chiese Helèn, voltandosi. Nessuno rispose e lei continuò a guardarlo
dubbiosa”.
“Vieni con me, la piazzeremo e intanto ti spiegherò”
le rispose Harlock prima di sparire nel suo mantello.
Quelle parole le aveva pronunciate con fatica quasi
fossero macigni. Il pianeta Arctic era stato chiamato così dagli uomini perché
interamente ricoperto dai ghiacci e come tanti pianeti e satelliti aveva nomi
che nostalgicamente ricordavano la Terra. La temperatura era sempre qualche
grado sotto allo zero e tempeste di neve vi si susseguivano. Per questo non era
mai stato abitato. In compenso l’aria era respirabile. Ad Helèn venne data una
pesante tuta termica nera con guanti annessi ed un mantello con cappuccio.
Lei ed Harlock salirono sulla navetta. Seduti l’uno
accanto all’altro Helèn notò che guidava con semplice naturalezza, ed una
sicurezza che denotava tanta conoscenza e tante ore di volo. Doveva esser stato
un grande pilota. Helèn non fece domande si limitò ad osservare. Dall’Arcadia
la bomba venne resa visibile, era sempre stata lì ma mimetizzata.
”Ho capito“. Disse Helèn continuando a guardare
innanzi a se. “Questa è una delle cento bombe a vibrazione dimensionale che ti
accusano d’aver sottratto alla Gaia Sanction”.
In un primo tempo Harlock non rispose, poi disse“Erano
cento, ne sono rimaste solo due”.
“Dove sono le
altre?”. Stavolta Helèn si voltò a guardarlo.
“Sono state
piazzate in 98 luoghi cardine dell’Universo”.
“Luoghi
cardine?”
“Si… luoghi che
corrispondono ai nodi temporali”.
Helèn non chiese altro, era stata resa edotta della
teoria del popolo dei Nibelunghi sui nodi temporali. Tacque, avvertiva che
parlarne ad Harlock procurava disagio, quasi dolore. Capiva sempre quando
qualcosa gli creava sofferenza, lo coglieva da alcune piccole inflessioni della
voce. Si concentrò sulle sue mani che agili e sicure attuavano le varie manovre
con estrema rapidità e precisione. Il capitano avvertiva lo sguardo di Helèn su
di sé, si voltò “Non preoccuparti andrà tutto bene”.
“Lo so… io non ho
mai paura quando sono con te”. Rispose con ingenua semplicità.
Harlock cambiò discorso. “Sul pianeta ci sono tormente
di neve ricorrenti ma, secondo i nostri calcoli, dovremmo avere un’ora di
tranquillità”.
Arrivati a destinazione scesero. Il paesaggio era bianco,
disarmante, uguale. La luce riflessa ovunque era intensa, il freddo pungente. L’aria benché respirabile era
leggera, rarefatta, dava un senso di stordimento.
Harlock iniziò la procedura di attivazione della bomba
che era stata ancorata a terra nel ghiaccio da alcuni tiranti in metallo.
Intanto si era sollevato un forte vento. Helèn guardava quel paesaggio
desolatamente uguale, ovunque volgesse lo sguardo tutto era bianco e luminoso,
le folate di vento le ferivano il viso, l’aria sottile le riempiva prepotente
ogni angolo dei polmoni. Il vento sembrava rendere instabile la superficie sollevando
e muovendo un sottilissimo strato di neve. Si voltò, guardò Harlock e disse “Le
farai detonare tutte insieme non è vero?”
Harlock piegato accanto agli inneschi elettronici la guardò,
si alzò. Helèn era una donna intelligente ed intuitiva. “Si” rispose pacato.
“Cosa accadrà?
” chiese Helèn senza tradire emozioni.
Harlock guardava lontano, il suo sguardo cupo si
perdeva in quel chiarore diffuso e perfetto. “L’universo che ora conosci,
cesserà di essere, se ne creerà uno nuovo, da cui tutto avrà nuovamente origine”.
Mentre parlava il suo sguardo galoppava selvaggio su quella distesa immacolata,
lontano da tutto, portando con sé il suo spirito fiero e combattivo da troppo tempo
prigioniero del buio. Helèn non disse nulla gli si avvicinò per guardarlo in
volto mentre il vento gelido colpiva i loro visi, i loro corpi, rendendo quasi
vivi i loro mantelli.
Quando lui la guardò lei disse “Non mi importa di
morire.”
Harlock fu molto sorpreso da quella totale e serena
accettazione di ciò che le aveva appena rivelato. “Ma posso chiederti una cosa?”.
Lui fece cenno di si col capo fissandola. “Sono stata sempre sola nei 100 anni
di morte - non morte della cariogenesi, io... io non voglio più morire da sola.
Mi prometti che… quel giorno, in quel momento sarai con me e mi stringerai e
non mi lascerai morire da sola?”. Aveva pronunciato quelle parole col trasporto
della disperazione.
Harlock era visibilmente turbato, il vento gli scompigliava
i capelli mettendo in evidenza i lineamenti perfetti del viso. Comprese appieno
la sua richiesta, Helèn non poteva saperlo ma, la solitudine che lei provava
era la medesima che da tanto albergava nel suo cuore.
”Hai la mia
parola” le disse.
Helèn sorrise, un sorriso puro, pieno di gratitudine e
denso di significati. Quel sorriso per un breve istante stordì Harlock accendendo
nel suo cuore una scintilla breve, calda e luminosa come quel raggio di sole
che senza saperlo per primo al mattino squarcia il velo della notte.
La bomba venne preparata ma nello stesso istante in
cui si apprestavano a rientrare ci fu come una scossa, seguita subito da una
specie di terremoto, un cedimento strutturale, i due si guardarono, la bomba
ancora agganciata alla navetta si inclinò di 30 poi 45 gradi. I tiranti
d’acciaio che la rendevano stabile si spezzarono uno dopo l’altro mozzando
l’aria. In un rapido susseguirsi di eventi Helèn scivolò giù per il pavimento
inclinato Harlock trovato un appiglio con una mano riuscì a prenderla per un
braccio con l’altra.
”Che succede?” gridò Helèn.
“Non lo so, non
era previsto”. Intanto sull’Arcadia erano tutti in fermento e cercavano di comprendere
cosa stesse capitando. “Allora maledizione cosa sta accadendo? ” fece Kei
gridando ad uno dei pirati che controllava e ricontrollava i dati ed i monitor.
“Merda!”
“Che c’è?” fece Kei. E mentre l’uomo le spiegava cosa
fosse accaduto una enorme voragine si aprì
sotto alla bomba che iniziò a sprofondare tra altissimi sbuffi d’acqua
gelida e muraglioni di ghiaccio.
Erano atterrati sulla superficie di un lago ghiacciato
che aveva ceduto al peso della bomba.
In un istante con estrema prontezza di riflessi
Harlock tirò a se Helèn con tutta la forza che poté e stringendola a sé con un
balzo saltò giù dalla bomba prima che si inabissasse.
Caddero pesantemente su di una sporgenza, ma fu solo
un attimo prima che alcune lastre di ghiaccio sovrastanti frantumandosi li
ricoprissero interamente. Helèn non capiva, era disorientata, c’era polvere di neve
ovunque, respirava a fatica. Intorno il sordo rumore del ghiaccio che si
spaccava. Avvertiva parte del corpo di Harlock sul suo ed udiva un lamento, un
lamento dettato da un sforzo disumano.
Finalmente riuscì a vedere. Vide il volto di Harlock
sul suo. Harlock finito su di lei tentava con la sola forza delle spalle e
delle braccia di impedire che lo strato sovrastante di ghiaccio collassasse su
di loro schiacciandoli. Lo spazio vitale che avevano era creato solo dalle
braccia di Harlock. Il suo volto era una maschera per lo sforzo immenso che stava
facendo per evitare che soccombessero. Benché lo spazio fra di loro fosse poco
Helèn vide lo strazio dipinto sul suo volto, non poteva fare nulla, posò le mani su quel
viso mentre la luce filtrava da alcune piccole crepe di quella loro candida
bara di ghiaccio.
“Harlock lascia
stare” disse in tono supplice.
“Noooo” gridò
lui tra i denti per la disperazione e la fatica.
“ Ti supplico,
siamo… siamo spacciati. Non mi importa di morire”. Intanto gli occhi le si
riempirono di lacrime bollenti. “Sono esattamente dove avrei voluto essere”.
Harlock la
fissò. ”Non… non morirai e comunque non qui e non… ora“.
“Harlock ti supplico”. Lo spazio tra loro si
assottigliava a causa del gravare del peso del ghiaccio sulle spalle di Harlock.
Frustrato smise di cercare di ritardare l’inevitabile. Smise di far leva sulle
braccia poggiandosi sugli avambracci incorniciando così il volto di Helen con
le sue braccia. In cuor suo sapeva che lui non sarebbe morto. Solo lei.
”Sei davvero dove avresti voluto essere?”. Chiese
quasi sussurrando. Helèn che ormai aveva il viso coperto di lacrime fece segno
di ‘sì ‘ con la testa.
“Quale posto migliore delle tue braccia? “. Si sforzò
di sorridere, quindi si sollevò quel tanto che bastava per colmare la distanza
tra il suo viso e quello di lui e sempre racchiudendogli il viso tra le mani lo
baciò teneramente. Un bacio sulle labbra, morbido e semplice, ma che produsse
in Harlock una reazione immensa. No! non si sarebbe arreso, lei non sarebbe
morta, non lo avrebbe permesso!
L’abbracciò stringendola forte. Ma in quello stesso
istante il ghiaccio sotto di loro cedette, si squarciò, caddero in acqua
insieme a giganteschi blocchi di ghiaccio.
Si crearono enormi mulinelli d’acqua, rotearono più
volte a causa degli enormi spostamenti d’acqua causati dal peso delle lastre.
Helèn si divincolava ma il mantello appesantito la tirava giù. L’acqua
ghiacciata le rendeva difficoltoso il movimento degli arti e miriadi di bolle
non le permettevano di vedere, capire, orizzontarsi, riusciva a malapena
schivare i fendenti di ghiaccio che la sfioravano. Sentiva come milioni di
spille pungerle la pelle. Si liberò del mantello e con un immenso sforzo, nuotò
nel verso contrario alla caduta del ghiaccio. Il corpo sembrava non volerle
obbedirle, ma alla fine riuscì a nuotare verso la luce.
Emerse e respirò, i polmoni bruciavano, il cuore
batteva all’impazzata, disorientata guardò intorno da ogni parte. Guardò e
guardò ancora,cercava un punto nero in quel mare bianco ma non lo trovò.
Harlock dove sei? “Harlooock” Gridò forte e
disperatamente, ma ovunque guardasse non c’era. Era la giù nel lago, da qualche
parte, prese quanta più aria poté nonostante il lancinante dolore che questo le
provocò ai polmoni e andò giù infondo guardando intorno disperata, finché lo
vide.
Aveva un piede destro bloccato tra due enormi blocchi
di ghiaccio, si dibatteva ma inutilmente. Helèn lo raggiunse e presa la pistola
iniziò a sparare sul ghiaccio per cercare di liberarlo stando attenta a non
ferirlo. Poi ad un tratto vedendo alcune bolle d’aria che fuoriuscivano dalla
sua bocca si rese conto che era senza ossigeno da troppo tempo. Lo raggiunse e
bloccandogli il viso tra le mani avvicinò le loro bocche donandogli così tutto
l’ossigeno che ancora aveva.
Tornò in superficie si riempì i polmoni per quanto
possibile e tornò giù. Riprese a sparare ma il puntamento laser della pistola
non era molto efficace in acqua. Poi nuovamente afferrandogli dolcemente il
viso tra le mani gli offrì tutto l’ossigeno che aveva. Harlock che cercava in
ogni modo di liberarsi restava immobile a guardarla in quei pochi istanti in
cui lei gli donava un po’ della sua vita. Helèn continuò così tre, quattro, cinque
volte. Poi, dopo aver donato ad Harlock l’ultima boccata di ossigeno che aveva,
allungando una mano verso di lui, perse i sensi e lentamente cominciò ad
affondare.
Harlock la vide andare giù fluttuando nell’acqua fino
a sparire nel buio del lago. Preso da quella forza estrema che solo la
disperazione profonda sa dare, facendo leva con la spada rischiando di
procurarsi una profonda ferita al piede, finalmente si liberò. Helèn alla fine
era riuscita a creare delle fenditure nel ghiaccio spesso che lo imprigionava.
Iniziò a nuotare con vigore verso il fondo, anche il suo ossigeno iniziava a
scarseggiare. La vide, portata via da una leggera corrente, i capelli
ondeggiavano morbidamente intorno al
viso inanimato. Con le forze che gli restavano la tirò a sè e cercò di
uscire da quell’inferno di acqua. Nuotava con un solo braccio, era allo stremo,
ma sentire il corpo senza vita di Helèn attaccato al suo gli fece ritrovare una
volontà che credeva perduta.
Riemerse dall’acqua respirando con voluttà l’aria
fredda, i polmoni sembravano scoppiargli era come se respirasse schegge di
metallo. Sentì in bocca il sapore del sangue. Raggiunse la riva ghiacciata,
tirata fuori Helèn la guardò. Le labbra avevano perso il loro colorito, erano
di un viola chiaro, la pelle bianchissima. In ginocchio accanto a lei iniziò a
praticarle la rianimazione cardio polmonare. Le spingeva con entrambe le
braccia lo sterno per poi interrompere brevemente e praticarle la respirazione
bocca a bocca. Continuò e continuò ripensando allo sguardo di lei mentre poco
prima gli donava ossigeno. ”Helèn, Helèn ” chiamava ansimante col fiato mozzato
ma non accadde nulla.
L’acqua
scivolava via dalle ciocche scomposte dei suoi capelli e dal suo viso come la
vita di Helèn scivolava via da lei. Il freddo intenso e gli indumenti che si
andavano ghiacciando rendevano i movimenti difficili, continuò ancora mosso
solo dalla disperazione, posò per l’ultima volta le labbra su quelle di lei. Erano
ghiacciate, non vi era più vita in loro. Le macchiò senza volere con una stilla
di sangue della sua bocca. Nulla. La tirò su per le spalle iniziando a
scuoterla. “ Helèn, Helèèènn non puoi morireee Helènnn”. Gridò.
Ma era come una bambola tra le sue mani. Inerme, i
capelli attaccati al viso, il capo reclinato. La posò delicatamente sul
ghiaccio guardandosi i palmi aperti delle mani. ”Non ho mantenuto la promessa“
disse con un fil di voce, continuando a fissare le sue mani. Non avvertiva più
nulla, né freddo, né dolore, né stanchezza era come anestetizzato.
Poi, un flebile colpo di tosse e un altro, guardò verso
di lei. Cercava di respirare tra piccoli rigurgiti d’acqua. La prese tra le
braccia, con una mano le reggeva la testa, Helèn aprì gli occhi, e gli regalò lo
sguardo più bello che lui avesse mai visto.
La tirò a sè. In quel momento una navetta atterrò a
pochi metri e alcuni uomini corsero verso di loro.
Note
Questo
capitolo è dedicato alla mia B-Beta ;-*
grazieeee di esistereee!
Lo dedico
anche ad Harlocked ed a Mamie entrambe sanno perché ;-p
E’ mia
intenzione dedicare un capitolo ad ognuna delle meravigliose donne che mi
seguono. Alla prossima.
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Capitolo 7 *** RESPIRO NEL RESPIRO ***
Come le onde del mare nel loro
immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in
egual maniera le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente,
talora restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
7
Grazie a
tutti coloro che si fermeranno a leggere.
RESPIRO NEL RESPIRO
Sia Helèn che Harlock ricevettero immediate cure mediche ma
mentre il capitano poco dopo essere tornato sull’Arcadia riprese quasi
miracolosamente le forze, Helèn aveva seri problemi con la pelle. L’essere
stata a lungo nell’acqua ghiacciata, nonostante la speciale tuta che indossava,
aveva indebolito la sua già fragile epidermide. Aveva i primi segni
dell’ipotermia. Con l’aiuto di Meeme riuscì a cospargersi quasi completamente
di una sostanza gelatinosa creata per lei, che in passato le era tornata utile
ed a fasciarsi. Purtroppo però dolore e bruciore rimasero.
Durante tutto il tempo della medicazione Meeme non le chiese
nulla, la sfiorava con delicatezza e con movimenti resi sapienti
dall’esperienza.
Fu Helèn a rompere il silenzio chiedendole “Tu sai, non è
vero Meeme? È stato Harlock a dirtelo?”
“No… io so, perché sento, sento che il tuo corpo è come
quello di Harlock… in vita da molte vite”.
“Come quello di Harlock?” chiese Helèn non capendo, ma Meeme
non aggiunse altro. Continuò a fasciarla con delicatezza. Dopo un certo tempo
le disse ad occhi bassi “Cerca di guarire in fretta il tempo della verità si
avvicina”.
“Meeme!” sbottò la donna quasi irritata “ Ma cosa intendi dire?”
L’aliena avvicinandosi alla finestra e guardando fuori
aggiunse “Devi essere forte Helèn, anche per Harlock. Navighiamo in questo
immenso mare nero che è l’Universo, che è anche la culla della vita di noi
tutti, l’ Universo è come il
mare che era sulla Terra, non si ferma mai, le sue onde in moto perpetuo lo
tengono in vita ed a volte come le onde del mare, il destino ci rende quello
che un tempo ci ha tolto, ma chiede sempre qualcosa in cambio, io lo so bene”.
Poi fissando Helèn proseguì “Devi essere forte molto forte o… non ci sarà un
futuro per nessuno su questa nave”. Così dicendo uscì dalla stanza.
Helèn restò sola.
In tarda serata dopo aver sperato che Harlock si facesse vivo
sentì il bisogno quasi fisico di vederlo. E per la prima volta senza invito si
recò da lui. Bussò un po’ titubante alla porta che dava ai suoi alloggi. Sentì
un ‘avanti’ lontano. Entrò.
Tutto era immerso come sempre nella semi oscurità, la sola
luce veniva dalla tremula fiamma di alcune candele. Lui non era dietro la grande
scrivania centrale e delle due stanze che si aprivano una a destra ed una a
sinistra una sola era rischiarata da una luce lievemente più forte. Si diresse
lentamente, con soggezione, da quella parte.
Lui era lì, seduto per terra, davanti ad un grande camino, teneva
una gamba piegata ed un braccio sul ginocchio, guardava il fuoco. Non si voltò.
Disse pacatamente “Dimmi Helèn”.
“Come hai fatto a sapere che ero io?” chiese lei.
“Sei l’unica che verrebbe da me a quest’ora e senza farsi
annunciare” rispose sempre senza voltarsi. In realtà aveva percepito sin da
subito il suo profumo, ma lo tenne per sé. Helèn si avvicinò alla sua sinistra
restando in piedi, Harlock con un gesto della mano l’invitò a sedersi. Aveva il
viso stanco, ma vi era come una nuova consapevolezza che aveva reso il suo
sguardo ancor più malinconico. Non indossava i soliti abiti ma semplici
pantaloni aderenti ed un maglione a collo alto, non portava i guanti.
Helèn gli si sedette accanto cingendosi le gambe con le
braccia. Il mento sulle ginocchia. I lunghi capelli scivolarono giù morbidi
dalle spalle come il sipario di un palcoscenico.
Si mise a guardare anche lei le piccole lingue di fuoco del
grande camino. “A casa mia… sulla Terra” disse soffocata dalla tristezza, dando
semplicemente fiato ai suoi pensieri “Avevamo un camino grande come questo… ci
passavamo le serate, leggendo, giocando, mangiando” tacque.
“Non smettere” le disse Harlock guardandola.
Helèn con fatica riprese “Ci scaldavamo il pane o i dolci, il
ponce, recitavamo versi di antichi poeti, giocavamo e ridevamo, o semplicemente
ci scaldavamo dopo esser stati nel bosco a raccogliere legna”. Helèn posò il
capo sulle ginocchia “E’ inutile ricordare, inutile. Ero venuta solo perché… per
sapere come stai e ringraziarti, ti devo la vita. Siamo due a zero!” si sforzò
di sorridere guardandolo.
“Io sto bene Helèn… sto bene”. Il suo sguardo era come
assente. Poi allungò una mano verso di lei sfiorandole le dita semi fasciate
delle mani per osservarle.
“Passerà presto non preoccuparti ” fece lei.
“Mi hai detto che
questo è ‘uno’ dei problemi che hai a causa della criogenesi. Quali sono gli
altri?”.
Helèn emise un lungo sospiro poi lo guardò reticente
“Essenzialmente altri due, ma… per ora te ne dirò uno solo. Io...io non posso
più avere figli”. Abbassò lo sguardo, si tocco nervosamente il viso, la cosa la
faceva soffrire. “La temperatura ed il tempo hanno letteralmente distrutto i
miei ovuli. Basta, fine. Sarò per sempre un albero senza fiori ”. Si morse le
labbra.
Harlock fu colpito non dalla verità ma dal suo commento
amaro. Helèn si alzò. “Resta se vuoi”. Le disse dolcemente.
Restarono lì senza dire nulla, condividendo semplicemente il
calore e osservando la danza del fuoco. Helèn guardava Harlock, il riverbero dolce
della luce su quel suo volto gentile dai tratti antichi e delicati, lo rendeva
bellissimo. Aveva mani grandi ed eleganti dalle dita lunghe ed affusolate un
po’ più ampie alle giunture. Quelle mani le ricordarono un movimento. Ma tutto
era lontano e nebuloso. Chissà quale era la sua storia, il suo vero passato, non
quello della ‘leggenda’ che tutti narravano.
“Mi hai chiesto dei miei ricordi. Raccontami qualcosa dei
tuoi, della tua infanzia o giovinezza.”
Harlock scosse la testa mesto. “Vuoi sapere di quando mi sono
arruolato? Della scuola militare? Dell’addestramento spietato? Degli amici
morti? Di quando sono diventato un ufficiale o un ricercato? O magari di quanta
gente ho dovuto uccidere? Questo è stata la mia vita. Questo solo”.
Helèn capì d’aver toccato un nervo scoperto, quelle sue
parole taglienti le fecero male.
“Ma ho vissuto libero. Sempre! Ne ho fatto il mio vessillo. Anche
se, perseguire un simile ideale ha i suoi costi”. Le ultime parole le aveva
pronunciate con forza vibrante. Per un attimo una scintilla aveva rischiarato
il suo occhio. Helèn era impressionata Harlock le aveva chiesto dei suoi
ricordi famigliari perché lui non ne aveva di suoi? Doveva aver sofferto
davvero tanto. Restò in silenzio. Mai come in quell’istante le sembrò tanto
poco ‘Harlock’ ma solo un giovane uomo.
Osservandolo ricordò gli avvenimenti di quel giorno, spostò lo
sguardo sulle sue labbra al momento un po’ imbronciate, le ricordava calde e
morbide nonostante fossero immersi nell’acqua ghiacciata. Si sentiva tanto vicina
a lui dopo tutto quello che avevano condiviso. Non si rese conto che quel suo
sguardo in realtà era una dolce carezza. Capelli, profilo, labbra. Lui se ne
avvide e carpendo i suoi pensieri le chiese “Perché mi hai baciato poco prima
che cadessimo in acqua? ”
“Era solo… si solo un
bacio d’addio”. Rispose la giovane dottoressa schernendosi.
“Perché mi hai detto che eri dove avresti voluto essere?”
“Perché è vero”.
Rispose lei con innocenza “Quando sono vicino a te mi sento bene, in pace col
mondo e con me stessa. Sento… si sento che posso deporre le armi e chiudere gli
occhi. Non per amore se è questo che pensi” si affrettò a rispondere abbassando
lo sguardo per pudore. "E’… è una sensazione profonda che non so
spiegarmi, la sento sempre quando sono con te. Mi nasce da dentro, fa parte di
me”. Poi si affrettò a specificare. “So che penserai che voglia farti la corte
ma non è così. E’ semplicemente che, quando come me, hai perso tutto come me,
ma hai comunque ricominciato a vivere impari che questa vita è troppo breve per
tenersi dentro le cose”. Sorrise “E’ una sensazione di caldo benessere qui”. Disse
facendo cenno al centro del cuore.
Harlock la fissava attonito, aveva appena espresso in parole
quello che provava anche lui dal primo momento in cui i loro sguardi si erano
incrociati. Ma disse sarcastico. “Deporre le armi e chiudere gli occhi ah…!” Un
amaro sorriso si dipinse sul suo volto. Abbassò il capo lasciando che i capelli
gli coprissero il viso. Helèn aveva imparato osservandolo, che quando faceva così
era perché si sentiva più vulnerabile. Del resto, i capelli, il mantello, la
semi oscurità, quella stanza, quella nave, cosa erano se non muri erti a
protezione non della sua persona ma del suo animo?
Helèn gli si avvicinò mettendosi in ginocchio davanti e guardandolo
dritto nell’occhio. “Pensi che a te non sia concesso? E perché’? ”
“Tu non sai nulla di me dottore!” le rispose piccato, prendendo
subito le distanze. ”Non sai che io sono un criminale, un terrorista una
minaccia per il genere umano?” disse caustico.
“Durante il mio addestramento hanno provato ad instillarmi
l’odio verso di te. Ma io… non sono mai riuscita ad odiarti. Non c’è cattiveria
nel tuo sguardo, né odio nel tuo cuore. Il tuo animo è puro”.
“Tu non sai, non sai
di cosa parli!” continuò lui scuotendo la testa.
“Perché allora hai condiviso con me la verità sulle bombe a
vibrazione dimensionale?”
“Perché tu sai!” disse lui ferendola con lo sguardo.
”So? Cosa so? ” Helèn era realmente confusa. Non capiva.
“Tu conosci, a differenza di tutti, il reale aspetto della Terra”.
Disse d’un fiato come se si liberasse. “Sai che è spacciata. E non puoi
parlarne perché ti scopriresti”.
“Se pensi che non ne
parlerei solo per non scoprirmi, ti sbagli. L’avrei fatto e lo farò per lealtà.
Anche se non so ancora bene perché mi hai salvato la vita portandomi su questa
nave”.
Harlock incassò il colpo.
Helèn, al ricordo della Terra come era ora, abbassò il capo. Pensarci
le faceva male, come quel giorno in cui dopo il risveglio le avevano svelato la
verità. Il tempo non aveva alleviato nulla. Tutto era vivido e chiaro come
allora. “Vuoi distruggere l’intero universo? E sia, fallo! Avrai i tuoi motivi
io non ti giudico per questo”. Helèn si era improvvisamente infervorata. “Ma su
una cosa voglio farti riflettere. Il genere umano benché non abbia più un posto
in cui tornare e vaghi smarrita da oltre un secolo per l’Universo alla ricerca
di un luogo da poter anche solo semplicemente chiamare casa, non si è mai
arreso! Mai! Anche se la Terra ora, è solo… un’ illusione". Helèn si morse
un labbro. Ma quel piccolo dolore non lenì quello più grande del suo cuore.
A quelle parole Harlock sgranò il suo occhio. Il dottore proseguì.
“L’Universo intero è la nostra casa ora. La forza dell’umanità risiede
nell’umanità stessa, non in un pianeta. Noi continuiamo a credere, ad amare, a
lottare, a sognare ed a sperare. I bambini continuano a nascere”. Chiuse per un
istante gli occhi quasi a respingere un’immagine dolorosa. “E… riempiono i
nostri cuori di gioia e stupore. Continuiamo a incantarci per le meraviglie del
cosmo o per un semplice sorriso. E… se anche ci estingueremo, avremo vissuto! La
Terra, la nostra meravigliosa Terra non ha chance. Io lo so. Ma l’umanità sì,
ed ha diritto ad una seconda possibilità!” Aveva pronunciato le ultime parole
tenendo i pugni stretti fino quasi a farsi male. Gli occhi lucidi tradivano il
suo sentire.
Harlock l’aveva guardata tutto il tempo immaginando la ridda
di emozioni che si celavano dietro quelle parole. Nessuno si sarebbe mai
permesso di parlargli così. Nessuno. Dopo tutto quello che aveva passato, lei riusciva
ancora a pensarla così? Quanta forza nascondeva
dentro sé quella giovane donna.
Poi lei aggiunse. “Morire non serve a liberarsi, allora tanto
vale… perdonare, vivere e amare”. Fece per alzarsi, il cuore le batteva forte.
Harlock le prese una mano impedendoglielo.
Da quanto tempo non viveva, perduto in un limbo di non vita? Da quanto
vagava per l’Universo accecato dal suo rancore? Poi senza cercarla era arrivata
questa donna così fragile e forte che aveva fatto nuovamente espandere i suoi
polmoni, defluire il suo sangue e battere il suo cuore.
Helèn lo guardò. Lesse il peso di un enorme fardello e la
lenta agonia di uno spirito combattuto. Gli carezzò una guancia. “Qualunque
cosa tu abbia fatto, non tormentarti più”.
Si guardarono, Harlock sentiva il tepore di quella mano sul
viso, ripensò a quando, gelida, l’aveva creduta morta e risentì il dilaniante
vuoto che in quel momento l’aveva invaso.
“Chi sei tu? ” Sussurrò appena.
Erano così vicini, le loro bocche si chiamarono piano,
incerte sfiorandosi. Rimasero per un lungo momento così, immobili, solo carezzandosi
le labbra, godendo di quel contatto, respiro nel respiro, vita nella vita,
dolore nel dolore. Poi le labbra si schiusero piano, per fondersi incerte,
tremule. Fu un bacio solo abbozzato, delicato, pieno di paura, di cose mai
dette e mai fatte e di sogni inespressi e di speranze infrante. Aveva il sapore
del passato.
Si guardarono nuovamente, senza parlare. In quel momento
erano soltanto due esseri soli, che avevano bisogno di un contatto fisico. Helèn,
si girò rannicchiandosi di spalle tra le sue gambe. La testa posata sul suo braccio.
Lui la strinse appena un po’ ed appoggiò le labbra sui suoi capelli dandole un
bacio. Lasciò che una dolce sensazione di pace lo pervadesse. ‘Pace’. Fremette
al pensiero. E dopo tanto ed estenuante lottare si concesse di chiudere per un
attimo il suo occhio. “Non sarai mai un albero senza fiori. Non lo sarai mai”.
Le sussurrò.
Poi non parlò più. Avrebbe dovuto dirle che, anche lui come
lei, era nato e vissuto sulla terra. Che era LUI l’uomo che in un solo istante
l’aveva dilaniata, distruggendola per sempre, rendendola quello che era e
spiegarle gli eventi per i quali non poteva più morire. Ma non lo fece.
Temeva che l’avrebbe odiato. Che queste atroci verità,
l’avrebbero potuta spaventare allontanandola e non lo voleva, ma forse non
sapeva più quello che desiderava. La strinse a sé, quasi lei avesse potuto
dissetare il suo animo arido lenendo anche se per un solo istante le piaghe
accese del suo spirito.
L’aveva guardata a lungo dormire, cullata dal suo respiro
regolare, accoccolata e tenera, aveva osservato ogni particolare di quel volto,
ne aveva sfiorato delicatamente i contorni con i polpastrelli delle dita.
Guance, mento, fronte, labbra. Ora ne era certo. Lo aveva già visto. Ma dove?
Quando?
Quando Helèn si svegliò lui non c’era più.
NOTE
Sempre grazie alla mia B-Beta. L’oceano e l’amicizia hanno
qualcosa in comune l’immensità. TVB.
Questo capitolo è dedicato a Lady Five.
Allego una bellissima deviantart alla quale mi sono ispirata
per la mia coppia H&H spero vi piaccia.
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Capitolo 8 *** LOST ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
8
Attenzione,
nel presente capitolo sono descritte immagini e sentimenti forti che potrebbero
turbare l’altrui sensibilità.
LOST
La mattina dopo come suo solito Harlock scomparve, Helèn non
lo vide per tutto il giorno. Fu dura per lei. Aveva dolori diffusi su tutta
l’epidermide ed i metodi che usava di solito non sortirono effetto.
Yattaran sempre attento si rese conto che Helèn non stava
molto bene. Ma lei non poté spiegare nel dettaglio l’origine del suo malessere.
“Ma io ho un rimedio!” fece lui, felice di poterla aiutare
tornando poco dopo baldanzoso dalla sua stanza, con due pillolette anonime in
mano.
“Non prendo medicinali” fece gentile Helèn. Le medicine avevano
strani effetti su di lei.
“Ma le ho comprate su Centuriun, lo sanno tutti che lì ci sono
i migliori medici” disse alzando l’indice destro.
Helèn decise di accettarle per farlo contento e perché non
sapeva più che fare per il dolore. Guardò a lungo le pillole nel palmo della
sua mano indecisa sul da farsi.
Le prese.
Era nell’infermeria quando cominciò a sentirsi malissimo. Tutto
iniziò con dei disturbi della vista, inizialmente li archiviò come stanchezza,
poi iniziò a girarle la testa ed uno stano torpore iniziò ad impossessarsi di
lei. Era scossa da lievi tremori e sentì il bisogno di stendersi. Utilizzò il
tavolo di metallo delle visite. La colsero delle ondate di gelo, si coprì con
un grande lenzuolo che teneva sul tavolo e lentamente entrò in quello che a lei
parve essere una specie di coma.
Avrebbe voluto chiedere aiuto ma l’interfono le parve
irraggiungibile. Cosa gli stava accadendo? Sentì i battiti del cuore lentamente
diminuire. Cercò con tutte le sue forze di restare sveglia ma non vi riuscì.
Perse conoscenza. Precipitò lentamente, inesorabilmente in una sorta di oblio.
Era buio e freddo, si guardò intorno, era in una specie di
immenso labirinto, iniziò a correre cercando una via d’uscita, ma per quanto
corresse era sempre troppo lontana. Poi scorse Harlock. Lui sparì. Ad ogni
angolo vedeva il suo mantello, correva, correva, ma quando le sembrava d’averlo
raggiunto lui era da un’altra parte. Lo chiamava ma non udiva il suono della
sua voce. Lui non si voltò mai. Un senso di angoscia e solitudine la pervasero
mentre l’inconfondibile rumore dei passi di lui lo portavano via da lei.
Quando riaprì gli occhi era confusa, indolenzita, potevano
essere passate due ore come due giorni. Si guardò lentamente intorno era
nell’infermeria, per terra, completamente coperta dal grande lenzuolo. Doveva
essere caduta.
Si sollevò piano tenendosi al bordo del tavolo, lentamente la
vista iniziò a farsi salda. Aveva la bocca
impastata. La testa le girava ancora. Un senso di nausea la coglieva ad
ondate. Bevve con le mani dell’acqua dal piccolo lavandino di metallo alle sue
spalle poi se le passò sul viso e dietro al collo. Ma cosa le era accaduto?
Ricordò lentamente. Le due pillole, il malore che ne era seguito.
Alzò il capo per massaggiarsi il collo, così facendo notò
qualcosa di assolutamente inspiegabile. Qualcosa che la lasciò sconcertata.
Sbatté le palpebre più volte incredula.
La piccola fila di pensili di metallo lungo la parete sul
piccolo lavello era crivellato di colpi. Come era possibile? Forse non era
sveglia. Vi passò incerta sopra le dita, non poteva essere ma, erano senza
dubbio colpi d’arma da fuoco. Era confusa, non capiva. Il cuore iniziò a
batterle forte, cominciò a guardarsi intorno velocemente, anche sul muro e
sugli altri pensili c’erano segni di arma da fuoco. Non riusciva a spiegarselo.
Ma cosa era accaduto? Un attacco? E lei? Lei di certo cadendo dietro al tavolo
completamente coperta dal lenzuolo non era stata vista. Ma chi? Chi era
l’autore? Helèn era come stordita, impaurita. Doveva capire.
Prese le sue armi dalle fondine e si avviò guardinga alla
porta. Non appena l'ebbe aperta un acre e pungente odore di fumo la colpì forte
come uno schiaffo, paralizzandola. L’ansia esplose. Intorno a lei il silenzio
era assordante. Poteva significare soltanto che, qualunque cosa fosse accaduta,
ora, era terminata. Iniziò ad avanzare lentamente con circospezione controllando
visivamente ogni punto, coprendosi le spalle come era stata addestrata a fare.
Nessuno, nessun suono. Continuò la ricognizione vigile, attenta, diretta al
ponte di comando. Nel corridoio tracce evidenti di lotta ed alcune armi, nessun
corpo. Man mano che avanzava il fumo si faceva più denso, passandovi accanto
guardò meccanicamente fuori da uno degli oblò. Si bloccò. L'Arcadia si muoveva
lentamente, era come se… il sangue le si raggelò. L'Arcadia stava andando alla
deriva.
Ma come era possibile? Arrivò in plancia non sapendo neppure
lei cosa aspettarsi, aveva la gola secca, gli occhi le bruciavano a causa del
fumo. Nessuno! La calma che vi regnava era assurdamente irreale. Il grande
timone si muoveva lentamente, abbandonato a se stesso, ruotava piano a destra e
poi a sinistra, producendo tetri scricchiolii del legno. L’Arcadia era
lievemente inclinata su un lato ed il grande motore a Dark Matter era spento.
Helèn smarrita strinse d’impulso con una mano il timone per
fermarlo, quasi che l'antico legname
avesse potuto rivelarle cosa fosse successo. Si guardò intorno. I monitor erano
tutti spenti e da quelli infranti venivano fuori luminose scariche elettriche.
Helèn si guardò intorno disorientata. Ansimava, il cuore pareva impazzito.
Sulle pareti erano visibili sventagliate di proiettili. Ma dove erano tutti?
Guardò implorante il trono, vi si avvicinò piano, misurando i passi. Nel centro
all'altezza del capo di Harlock vi era conficcato un pugnale, come per un tiro al
bersaglio. Lo tolse con rabbia scaraventandolo in terra. La paura fredda
spettatrice sorridendo sadica le carezzò il viso, Helèn rabbrividì. Harlock
dove sei?
Iniziò a correre senza neppure rendersene conto, i sensi
allertati, verso gli alloggi della ciurma. Spalancò tutte le porte, una dopo
l’altra, rapidamente. Nessuno. Era come se fossero stati appena lasciati dai
loro occupanti. Poi si recò nella grande mensa e negli ambienti comuni dove aveva
sempre trovato qualcuno. Al posto del solito allegro vociare l’accolse una
piatta quiete. Non c’era nessuno. Tutto era stato messo sottosopra. Iniziò a
chiamare “Kei, Yattaran, ragazzi mi sentite? dove siete?”. Corse nel piccolo
teatro dove a volte si tenevano le riunioni, vuoto. La calma era spettrale.
Si recò allora al piano inferiore dove erano le stanze di
detenzione ed i magazzini. La temperatura era elevata e poi arrivò il fuoco. Giù
in fondo c’era una falla, gridò tra l’aria tremula, attese qualche secondo, gridò
ancora ma le fiamme inghiottirono la sua voce. Nessuna risposta. Azionò gli
idranti come le era stato insegnato e chiuse alcune paratie. Si accasciò alla
parete chiusa, sconfortata ed incredula. Dove erano tutti? Annaspò, si guardò
intorno sperduta, era di nuovo sola come quando era stata chiusa nella cella
criogenica. Strinse le mani alle spalle per darsi coraggio. Era sola. Gli occhi
le si velarono di lacrime. Si fece forza scacciando quella sensazione dal
retrogusto di morte. Corse quindi al boccaporto dove erano alloggiate le
navette. La sua ultima speranza. Attese con ansia che il portellone si aprisse.
Non c’erano più! Si portò istintivamente una mano alla gola.
Il panico alleato della paura gliela strinse forte, si guardò a destra e poi a
sinistra, il cuore ormai le batteva all’impazzata, non potevano esser andati
tutti via… senza di lei, e perché? Si concentrò sul suo respiro per tornare
lentamente padrona di sé. Harlock non avrebbe mai abbandonato l’Arcadia al suo
destino mai! Decise quindi di andare nel cassero di poppa dove erano i suoi
alloggi.
Corse, corse veloce. Spalancò la porta di colpo, il fiato
corto, per un istante lo vide dietro la scrivania. Un’illusione. Tutto era
sottosopra. Qualcuno aveva frugato senza ritegno tra le sue cose. Di lui non
c’era traccia. ‘Harlock dove sei?’
Nella sua camera, sul letto, uno dei suoi maglioni neri. Lo
prese e se lo portò al viso. Aspirò profondamente quell’ indumento che sapeva
di lui come ogni cosa là dentro. Gli occhi le si riempirono di lacrime ma le
ricacciò indietro. Inspirò forte. La disperazione l’attanagliò. Strinse forte i
pugni. Non aveva alcun senso abbandonare così l’Arcadia, lasciandola al suo
destino, alla deriva nell’Universo come una nave fantasma. Qualcuno era salito
a bordo costringendoli a farlo, ma chi? CHI?
Doveva calmarsi, ragionare a mente fredda. Tornò indietro
stavolta lentamente, sconfitta. Mentre camminava piano, un passo dietro
l’altro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la pistola ciondoloni nella
mano, mille ipotesi le si affacciarono alla mente. Ma nessuna plausibile.
Guardò fuori da uno degli oblò, fuori lo spettacolo di stelle era immutato.
“Dove siete?” sussurrò. Vide nel riflesso una lacrima scenderle lungo una
guancia. Doveva tornare in plancia ed azionare il dispositivo di allarme
generalizzato che avrebbe richiamato la nave più vicina ma questo avrebbe
voluto dire consegnare l’Arcadia alla Gaia Sanction. Non poteva farlo. Continuò
a camminare accompagnata solo dall’eco dei suoi passi.
Si ritrovò davanti alla stanza degli allenamenti, vi era già
passata senza entrarvi. Ma stavolta qualcosa attirò la sua attenzione. Dal
disotto della porta fuoriusciva un rigagnolo oscuro. Capì subito cosa era, ne
aveva riconosciuto la densità, ma si piegò a toccarlo, l’annusò sulle dita.
SANGUE! Un brivido le percosse rapido la schiena, rabbrividì. Un segno di vita
ma anche un cattivo presagio.
Le tempie pulsavano veloci, la paura l’abbrancò come una
fiera tenendola stretta. Inspirò ed impugnò l’arma con entrambe le mani,
circospetta, con fare guardingo lasciando la porta a protezione delle spalle,
la spalancò.
Nulla. Si voltò, e con lo sguardo seguì lentamente quel
rivoletto di sangue sul pavimento per capirne l’origine. I battiti del suo
cuore scandivano il tempo. Camminava piano, quasi a rallentare l’inevitabile.
Ma ciò che vide la terrorizzò. Si bloccò.
Vi era una enorme pozza di sangue formata da gocce che
cadevano irregolari dall’alto. La sua mente si rifiutava di accettare
razionalmente quell’immagine ‘il sangue non cade dall’alto’. Alzò lentamente lo
sguardo e… vide!
Vide quello che mai avrebbe voluto vedere. Mai. Un urlo
atroce le strappò la gola morendo ancor prima di nascere. Vacillò, l’arma le
cadde dalle mani prive di forza, le gambe non la sostennero. Cadde in
ginocchio, avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non poteva, non ci
riusciva. Ciò che i suoi occhi le riportavano non era vero non poteva esserlo.
Era pietrificata. NO, non poteva essere. Non poteva essere.
Scuoteva la testa, il
cuore letteralmente impazzito. Si portò le mani alla bocca tenendovele premute
forte per soffocare un lamento atroce e profondo di dolore. Dolore senza fine
che stava traboccando dal suo essere e che fece vibrare ogni singola corda del
suo sentire. Gli occhi le si riempirono di lacrime, quasi a nasconderle ciò che
non volevano accettare. Tremando tese una mano.
Harlock era li. Inerme, in catene.
Lo avevano incatenato in alto per la vita, per le spalle,
collo, polsi, gambe, dorso. La testa inclinata priva di vita, i capelli gli
coprivano interamente il volto, se ne percepiva appena il profilo. E sangue,
sangue ovunque. Helèn scuoteva il capo. NO, non poteva crederci, lo avevano
usato come bersaglio umano dopo averlo incatenato e lasciato lì agonizzante. Ma
chi? Chi aveva potuto tanto? Lente ed inesorabili stille di sangue lasciavano
il suo corpo, la sua vita, finendo in terra.
Rabbia e disperazione si impossessarono di lei e preso il
graviti saber di Harlock, che giaceva in terra, con ceco furore tagliò una dopo
l’altra quelle catene.
“Noo. La libertà in catene noo”. Gridò con tutta se stessa. Gli
occhi le ardevano dalle lacrime. Il corpo inerme di lui le cadde addosso. Entrambi
finirono sul pavimento. Helèn percepì l’odore dolciastro del sangue di Harlock
su di lei.
Lo girò piano, trepidante, dilaniata dall’ansia nel cercare
di capire ciò che aveva orrore di scoprire. Era ancora vivo? Le mani le
tremavano, come mai nella sua vita, il cuore fremeva impazzito per lo strazio, gli
occhi carichi di lacrime le appannavano la vista, la sua anima urlava parole
che non capiva. Con movimenti maldestri aprì il corpetto e poi il giubbino in
pelle. Sotto vi era solo sangue. Provò a sentire un battito, sporcandosi il
volto di sangue. Nulla. Nulla. Non era lucida.
Lo tirò a sé abbracciandolo e gridando folle di dolore. “Noo”.
Lo immaginò sprezzante e fiero mentre tolto il mantello lo
legavano. Conservando sino alla fine la grande dignità di uomo e leader
carismatico quale era. Strinse al petto disperata quel corpo inanimato.
Piangendo il suo dolore infinito.
Poi, un impercettibile lamento.
Era vivo, vivo!
“Harlock che ti hanno fatto? Che ti hanno fatto?” chiese quasi
supplicando. Doveva salvarlo ma non riusciva a formulare pensieri compiuti,
solo una frase continuava a ripetere all’infinito guardandolo, piena di rabbia
e frustrazione ‘lo hanno usato come bersaglio. Come bersaglio…’ come avevano
potuto e perché? Solo questo era riuscita a capire dal numero incredibile di
ferite. Volevano infliggergli una morte lenta ed atroce.
Corse a prendere una barella su cuscinetti d’aria che usavano
per il trasporto di feriti, non fu facile mettercelo su. “Resisti, resisti non
arrenderti, non arrenderti” continuava a ripetere meccanicamente a lui o forse
a se stessa. “Sei forte lo so!” Lo liberò dalle catene scaraventandole via con
rabbia, lontano. Helèn respirava male, l’emozione le impediva di coordinare i
movimenti come avrebbe voluto. Preparò una mascherina d’ossigeno da mettergli.
Per farlo dovette scostare i capelli dal viso. Distolse per un istante lo
sguardo, non riusciva a vederlo così. Il volto eburneo esanime, il capo
abbandonato di lato, la fronte sempre corrugata, inanimata, le labbra
lievemente dischiuse, l’occhio sempre vigile e pronto dietro una palpebra
chiusa. Una ferita di striscio tra i capelli aveva creato una traccia di sangue
rappreso che andava dalla fronte al naso a parte del viso. Helèn la pulì con
dita esitanti. “Ti supplico non arrenderti amore mio” sussurrò senza rendersene
conto.
Si riebbe, stava solo perdendo tempo prezioso. Raggiunse la
sala operatoria annessa all’infermeria. Ma ciò di cui si rese conto distrusse
tutte le sue speranze. Rimase impietrita davanti all’ingresso.
La sala operatoria era semidistrutta, strumenti, congegni,
apparati, presidi diagnostici e biomedici, persino le scorte di plasma. Tutto
era stato barbaramente distrutto. Helèn annaspò, si guardò intorno e poi ancora
ed ancora. Tutto iniziò a girare, non ce la faceva a sopportare tutto questo.
No, era troppo! Stava quasi per perdere i sensi quando risentì la voce di Meeme
‘Dovrai essere forte Helèn, o non ci sarà un futuro per nessuno di noi’. Volse
lo sguardo ad Harlock su quella barella, gli strinse una mano come avrebbe
fatto lui se fosse stato accanto a lei per infonderle coraggio. Strinse i
pugni. ‘Forza Helèn tu sai operare anche senza tutta questa strumentazione lo
hai imparato sulla Terra, tanto tempo fa, devi solo ricordare.’ Ma ricordare
faceva male, tanto male. Doveva riportare in vita ricordi che aveva sepolto
perché troppo dolorosi. ‘Fallo per lui, per Harlock.’ Si ripeteva. Sistemò
velocemente ogni cosa meglio che poté.
Non restava molto tempo. Si lavò le mani nel piccolo
lavandino di metallo che in un istante si riempì di liquido rosso. Sangue. Il
sangue di Harlock. Le lacrime scendevano da sole e non riusciva a fermarle perché
ogni fibra del suo spirito tremava livida. Strinse forte il bordo del piccolo lavabo
fino a che le nocche non le divennero bianche, l’angoscia per quello che si
apprestava a fare le mozzava il fiato.
Alzò il capo al cielo pregando. ‘Non pensare che sia lui. Non
pensare che sia lui o non ce la farai’ si ripeteva. Respirò a fondo e respirò
ancora. Prese tutto quello che era rimasto intatto, doveva pensare freddamente
o non sarebbe stata in grado di agire per il meglio. Con un bisturi iniziò a
tagliare gli abiti di Harlock, con un rispetto ed una reverenza quasi sacrale.
Iniziò le operazioni di sedazione e preparò una flebo con l’anestetico ed un
antibiotico. Guardò quelle braccia forti e muscolose seguendone la linea delle
vene, quante volte l’avevano tratta in salvo, adesso giacevano inermi.
Si guardò le mani, ora sarebbero state loro a salvare lui.
Collegò Harlock ad un piccolo monitor portatile, l’unico rimasto intatto.
Doveva controllarne l’attività cardiaca e tenere sotto controlo i parametri
vitali, predispose tutto il materiale necessario all’intera seduta operatoria, ed
infine collegò l’ossigeno.
Mano a mano che procedeva si rendeva sempre più conto che le
ferite causate da armi erano molteplici, alcune di striscio altre più profonde.
Provò ad immaginare cosa avesse potuto provare lui. Lo vide maestoso e regale,
lo sguardo fisso davanti a sé mentre lo incatenavano, il suo Harlock. Lo
immaginò stringere i denti immobile e stoico nell’accettazione del dolore poi…
E lei dov’era? Dov’era? Scosse con vigore la testa come per
scacciare un insetto ma quella che cercava di mandare via era l’immagine atroce
di uomini senza volto che lo usavano come bersaglio umano ridendo.
Lo guardò solo un istante prima di collegarlo al respiratore,
carezzandogli i capelli. In quello sguardo c’era tutto il suo amore. Indossò
camice e guanti sterili. Chiuse gli occhi. Tornò agli studi di medicina che
aveva fatto da ragazza tanto, tanto tempo prima sulla Terra, perché nulla di
ciò che aveva appreso dopo, ora poteva tornarle utile. Con i presidi distrutti
doveva accertare l’entità delle ferite una alla volta partendo dagli organi
vitali, pregò che nessun colpo avesse leso irrimediabilmente gli organi
interni. Non pensò più ad Harlock uomo, ma al suo corpo che soffriva e lottava,
da salvare. Avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere.
Il suo sguardo correva costantemente al piccolo monitor che
disegnava le onde del suo cuore, deboli, ma costanti. ‘Tu sei forte’ pensava.
‘Qualunque cosa sia accaduta la supereremo.’ Ma mentre lo pensava, sapeva di
mentire. Si mentiva.
Cosa avrebbe dato per avere la possibilità di guardare ancora
una volta quell’iride scura che si muoveva rapida indagandoti dentro. Quello
sguardo profondo, vivido ed a volte pervaso da una struggente tenerezza.
Tamponò, suturò, come un tempo con ago e filo, clampò*i vasi
lesionati per arrestare le emorragie. Fremeva ogni volta in cui era costretta
ad aspirare del sangue. La fronte madida di sudore che le finiva negli occhi,
bruciandoli, ma non se ne curava, a volte lo sguardo andava al viso di Harlock,
coperto con la mascherina che ritmicamente si appannava debolmente, ma subito
li distoglieva, non doveva pensare. Passarono ore, molte ore, sembrava non
dover finire mai, fu scrupolosa e precisa. Le braccia le dolevano, veloci le
dita si muovevano ripetendo gesti antichi a cui non era più abituata. Era
stanca fisicamente ed emotivamente ma non poteva fermarsi.
Terminò. Escluse versamenti interni. Il corpetto in metallo
di Harlock lo aveva protetto o molto più semplicemente volutamente ferite poco
profonde dovevano portare ad una morte lenta e dolorosa. Rabbrividì pensandolo.
Ora le occorreva sangue. Ricordò il giorno in cui lui le
aveva impedito di verificarne il gruppo sanguigno, ebbe un gesto di stizza. Aveva
una sola possibilità e quella possibilità era lei. Era donatrice universale ed
era l’unica cosa da fare. Iniziò a prelevarselo, era una pratica a cui era
abituata, spesso era costretta a sottoporsi ad analisi, solo che questa volta il
sangue da prelevare sarebbe stato molto di più, ma non le importava. Non poté
quanto avrebbe voluto, temeva di indebolirsi troppo. Non c’era tempo, riempì
una parte della sacchetta che conteneva l’eparina un anti coagulante e la
posizionò in alto. Osservò il tubicino
trasparente diventare rosso ed il suo sangue correre da lui e in lui.
Come lei nel labirinto del suo incubo. Si augurò che tutto andasse bene. Non
era quello il protocollo ma non aveva alternative.
Iniziò ad eliminare con garze sterili il sangue rappreso di
cui il corpo di Harlock era pervaso. Per quando facesse, complice la stanchezza
e la paura le sembrò di non finire mai. Continuava ad eliminare sangue rappreso,
le parve che ogni cosa fosse intrisa del sangue di lui, il suo corpo, la
stanza, le sue mani, lei stessa. La tensione emotiva esplose con tutto il suo
fragore devastante e finalmente diede sfogo alle sue lacrime. Si accasciò su di
una sedia e pianse, pianse finalmente tutte le sue lacrime, tremando e dondolandosi lentamente avanti ed indietro
accompagnando così il suo lento lamento. Cullando così quel nuovo sentimento
che le era di colpo esploso dentro. Ora che era forse troppo tardi. Le braccia
strette in vita, ripiegata su se stessa, non poteva fare più nulla. Gridava
tutto il suo strazio e la sua frustrazione.
Lo aveva creduto invincibile, invulnerabile, ed ora stava su di
un letto a lottare tra la vita e la morte e lei era nuovamente sola, sapendo
che tutto era appeso ad un sottile filo. Il flebile filo della speranza.
Immagini del suo volto, delle sue espressioni le passavano
davanti rapide. Avrebbe scoperto chi era stato, fosse l’ultima cosa che avrebbe
fatto, l’avrebbe vendicato!
Piano si calmò. Controllò gli strumenti, Harlock era stabile
ma la febbre stava salendo veloce. La sua battaglia per la vita era appena
iniziata. Lo coprì con una coperta termica. E teneramente si chinò a baciagli
una guancia. ‘Amore mio immenso e puro’. Sussurrò.
Se voleva trasfondergli altro sangue doveva mangiare. Erano
molte ore che non assumeva liquidi. Decise di recarsi in mensa. Portò con se un
trasmettitore che l’avrebbe avvisata di ogni cambiamento di Harlock.
L’Arcadia vagava ormai senza rotta, senza meta per
l’Universo. Relitto con i suoi spettri ed i suoi segreti.
Ma senza Harlock non sarebbe mai riuscita a farla ripartire e
tutto sarebbe stato perduto.
Note
* Tamponare, suturare, clampare sono termini chirurgici. In sintesi, per
sutura chirurgica si intende la procedura chirurgica che permette di avvicinare
stabilmente i lembi di una ferita favorendone la cicatrizzazione. Col termine clampare s'intende l'uso di forbici
chirurgiche per bloccare una perdita ingente di sangue da un vaso.
Questo è un capitolo che ho scritto con difficoltà, versando sangue
e lacrime perché, il ‘mio’ Harlock non l’ho mai lasciato solo nel dolore ed ho
sofferto insieme a lui.
Capitolo dedicato alla mia B-Beta. ‘Vivi un giorno alla volta
e fanne un capolavoro’. Grazie.
Grazie ancora
ai tantissimi lettori silenti di cui non conosco i nomi, vedo solo numeretti… palesateviii
;-p
E grazie a
Mizu turba-sonni che mi ha inviato questa bellissima Fan art di Harlock che mi
ha subito ricordato la tempesta di neve del mio capitolo Artic. Perché
turba-sonni? Me le invia poco prima d’andare a letto la sera… e chi dorme più
;-p Grazie cara.
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Capitolo 9 *** TOCHIRO ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
9
TOCHIRO
Dopo la trasfusione ematica ad Harlock, Helèn si era recata
nelle cucine. Tutto era desolatamente sottosopra anche lì ed in parte
saccheggiato. Malinconicamente rivide tutta la ciurma seduta a mangiare a
ridere e scherzare. “Ragazzi dove siete tutti? Dove?”.
Bevve avidamente del latte, aveva lo stomaco sottosopra ma
doveva mangiare o si sarebbe indebolita. Prese alcuni biscotti e della frutta.
Una mela, se la passò sulle labbra annusandone il profumo. Chiuse gli occhi. ‘Casa’.
Tornando indietro si ritrovò inconsapevolmente a passare
davanti alla porta d’accesso al grande computer centrale.
Avevano cercato di farla esplodere non riuscendoci. Appariva deformata e non più utilizzabile, ma
lei conosceva un altro accesso. Glielo aveva mostrato Tori quel giorno in cui
lo aveva seguito.
Entrò.
Tutto era immerso nell’oscurità. L’unica fonte di luce veniva
da alcune lampade d’emergenza poste in basso un po’ su tutta la nave. Le
piccole luci di solito accese sulla struttura del computer erano spente. Tutto
sembrava annegare nel silenzio. Solo i suoi passi riecheggiavano tetri sul
metallo del pavimento.
Andò a mettersi dove aveva visto tante volte Harlock. Aveva
bisogno di pregare, di credere, di parlare anche solo per sentire la sua stessa
voce.
Guardò lentamente in alto la struttura del grande computer.
Si avvicinò posando i palmi delle mani sul freddo metallo.
“Harlock” disse con voce stentata e rotta dall’emozione. “Sta
morendo! io… lo so”.
Un nodo le serrava la gola. “Le sue condizioni sono
disperate! Ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità. Ma, la
situazione clinica è compromessa”.
Non riusciva più a pronunciare quelle parole che le salivano
incontenibili dal cuore e che sentiva il bisogno disperato di condividere con qualcuno.
“Sta… sta morendo”. Lacrime liberatorie si affacciarono ai suoi stanchi occhi.
“Quanto vorrei non essere un medico, per non sapere, per potermi dare speranza.
Ma speranza non c’è”.
Si portò le mani al volto, scivolando lentamente sul
pavimento.
"Harlock veniva sempre qui ogni volta che era combattuto
o si sentiva solo. Aiutami! Aiutami ti prego! La nave va alla deriva, non ci
sono navette, i contatti radio sono in avaria, credo ci siano problemi ai
generatori supplementari di gravità e se faccio partire l’allarme generalizzato*
arriverà una nave della Gaia Fleet”.
“Che posso fare? Che posso fare?”. Le sue parole ora, erano
solo un lento lamento.
“Io lo amo e… e lui sta morendo. Sta morendo" gridò
disperata.
Sentì riecheggiare ‘Lo amo’. Prendendo così quasi consapevolezza
di quelle parole che aveva pronunciato.
Poi di scatto sollevò la testa.
Le era sembrato di sentire il suo nome.
“Helèn”. Era come un sospiro sottile e
sofferto.
Si voltò rapida, a destra e poi a sinistra, alzandosi di
scatto. La mano corse alla fondina, prese la pistola. “Chi è? chi c’è?” urlò. L’eco
della sua voce si perse lentamente nel grande ambiente.
“Sono
io”. Helèn si guardò
intorno voltando il viso e puntò l’arma di scatto da ogni parte nell’oscurità
che la circondava. Silenzio.
Una luce rossa alle sue spalle attirò la sua attenzione. Si
voltò. Sul computer ora erano accesi due grandi cerchi rossi concentrici. Helèn
fissando quelle luci pulsanti comprese abbassando lentamente l’arma. Ciò che
percepiva non era realmente udibile. Quello che sentiva era frutto di telepatia.
“Chi… chi sei tu?” chiese confusa con voce sostenuta indietreggiando di alcuni
passi.
‘Questa storia mi sta facendo diventare pazza’, pensò
scuotendo il capo. Sto parlando con un computer. Si voltò per andarsene.
“Il mio
nome è Tochiro”. Helèn
si bloccò. Immobile come una statua ascoltava. Lei conosceva quel nome.
“Per
salvare la vita di Harlock devi far ripartire il motore a Dark Matter”.
Helèn ripensò a quando aveva visto Harlock, sembrava pregare,
in realtà le parole che aveva udito erano risposte. Ciò che lei percepiva era
frutto di una forma di comunicazione esclusivamente mentale.
“Tochiro?” chiese
interrogativa. “Chi sei?”
“Sono colui
che ha progettato e costruito l’Arcadia”.
La donna allora ricordò ciò che le era stato detto in diverse
occasioni dai membri della Gaia Sanction. Tochiro Oyama era colui il quale veniva
definito il miglior amico di Harlock. Era con lui che Harlock parlava? Era lui
il segreto dell’Arcadia di cui tutti raccontavano? Ma se era morto come era
possibile? Decise che queste domande avrebbero potuto aspettare, in quel
momento aveva un’unica priorità. Chiese: “Pos… posso salvare Harlock? Co.. come?”
“Devi far
ripartire il motore a Dark Matter”.
“Ma mi hanno detto che… che solo Meeme può attivare il motore”.
“Harlock ne ha ordinato lo
spegnimento affinché non finisse in mani sbagliate. Ma esiste un altro modo” le rispose con calma innaturale.
Helèn notò che quella voce pareva sofferente. Quasi stesse
vivendo il suo stesso dolore. Avrebbe scoperto in seguito che l’Arcadia,
Harlock e Tochiro erano indissolubilmente legati e non solo dal destino.
“Farò qualunque cosa se questo servirà a salvare Harlock
anche se non capisco come le due cose siano connesse”.
“Devi prendere i due
bracciali di metallo che Harlock porta sempre con sé. vengono da Yura, Sono un
regalo di Meeme. sono due chiavi, Portali in plancia. Và”.
‘Due chiavi’. Ripeté mentalmente Helèn. Corse veloce in sala
operatoria, una speranza assurdamente inaspettata si era accesa nel suo cuore.
Prese i due bracciali. Ricordava di averli messi accanto ai vestiti di Harlock.
Passandogli accanto lo guardò un istante per prendere
coraggio. Poi corse in plancia.
Si fermò davanti al grande motore osservandolo in tutta la
sua cupa maestosità. Spento le sembrò molto simile ad un grande organo a canne.
L’organo della grande cattedrale Arcadia. Ne aveva visto uno in un’antichissima
basilica sulla terra da bambina. La voce di Tochiro nella sua testa parlò.
“Sali fino in cima Helèn”.
Indossati i bracciali, cominciò la scalata a mani nude. Cercò
degli appigli ma non fu facile, la struttura non ne aveva molti ed aveva le
braccia stanche per il lungo intervento ad Harlock. Il metallo era freddo e
liscio, a metà percorso guardò in basso, la testa le girò. Chiuse gli occhi di
scatto. Respirò piano e per aiutarsi, cominciò a ricordare gli alberi della
terra. Quelli maestosi che crescevano accanto a casa sua, dove tante volte si
era arrampicata. Ricordò l’intenso odore del muschio, il rumore del legno, il
vento freddo tra le fronde e tra i capelli, lo sguardo lontano e… perse la
presa di una mano.
Dal braccio rimasto ciondoloni uno dei bracciali scivolò via.
Lo prese al volo con la mano restando appesa per sole due dita dell’altra.
Annaspò, se fosse caduta da quell’altezza sarebbero morti in
due. Si portò lentamente il bracciale tra le labbra e con un piccolo slancio
riprese la salita. Le braccia le dolevano ma non si sarebbe arresa. Arrivò in
cima, si sedette a cavalcioni sulla struttura. Riprese fiato.
“Cerca un alloggiamento
sotto uno sportellino di metallo scuro. E’ un metallo diverso da tutto ciò che
conosci. Inserisci i due bracciali e
ruotali uno in senso orario ed uno in senso antiorario’.
Helèn trovò un alloggiamento che pareva costruito appositamente
per contenere i due bracciali. Li guardò un istante, facendovi scorrere sopra
le dita. Quelle in rilievo sulla superficie di metallo dorato erano
parole. Parole-chiave, codici d’accesso.
Ecco perché Harlock non se ne separava mai. Erano un modo per riavviare il
motore senza l’ausilio di Meeme.
Li inserì. Le scanalature combaciarono perfettamente con gli
alloggiamenti, li ruotò come le era stato detto. Respirò profondamente ed
attese.
Lentamente la struttura del grande motore gemendo iniziò a
muoversi piano. Cavi e tiranti iniziarono a far girare delle grandi ruote poste
lateralmente. Subito dopo questo provocò il movimento di un grande anello
centrale. Ma ciò che attirò l’attenzione di Helèn fu il generarsi, sotto di
lei al centro della struttura, di una
luce verdognola che presto si compattò sotto forma di sfera, al centro della
quale si muoveva una strana energia. La luce non era molto intensa, non come
l’aveva vista tra le mani di Meeme.
Si affretto a scendere. Giunta a terra posò le mani sulle
ginocchia, era esausta.
“Non ora” Le disse la voce. “I
danni ingenti ai sistemi di supporto vitale e di controllo ambientale, la
scarsa potenza del motore non ci consentono di tenere attiva tutta la nave.
dobbiamo convogliare energia solo in due o tre ambienti. Il resto va posto in
stand-by per utilizzare al meglio le risorse e l’ossigeno che è a bordo”.
Helèn timidamente chiese “Ma il sistema di autoriparazione?”
“Ha danni
ingenti è in avaria”
Il medico allora rispose subito “L’infermeria, la cucina e
gli appartamenti di Harlock”. Helèn percepì nettamente un sorriso.
“Ha ragione il mio amico
Harlock. sei una donna speciale”.
Helèn si sentì grata di non essere più sola. “Grazie Tochiro
per esserti palesato a me”. ‘Amico’ rifletté. Comprese quanto questo
probabilmente fosse costato all’ingegnere e che lo avesse fatto solo perché era
realmente l’unica chance per salvare il suo caro amico Harlock. Una nuova
speranza ora palpitava nel suo cuore.
Mentre camminava ripensava alle parole di Tochiro ai danni
che le aveva elencato. Gli autori di quell’assalto sapevano quel che facevano, volevano
sbarazzarsi per sempre dell’Arcadia e del suo capitano mandandoli a morire
insieme.
Intanto era arrivata in sala operatoria, ebbe molto da fare. Trasferire
Harlock. Preparare tutto il necessario occorrente per effettuare gli
spostamenti in ambienti privi di ossigeno e luce. Tochiro si occupò di isolare
il resto.
Contemporaneamente il motore a Dark Matter richiamava a sé
dai recessi più reconditi dell’Universo la materia oscura. Come un dio della
notte che richiami a se l’esercito da ogni dove. Helèn sistemò Harlock con gli
strumenti e tutto l’occorrente nei suoi appartamenti accanto al camino e si
preparò ad aspettare. Si prelevò dell’altro sangue ed effettuò un’altra
trasfusione. Il viso di Harlock le parve sereno.
“Dove sei?” gli chiese dolcemente carezzandogli il viso. Controllati
gli strumenti con della garza sterile imbevuta cominciò a pulirgli bene il viso
ed i capelli. Accanto alla benda dell’occhio c’era del sangue rappreso, doveva
toglierla per pulire al disotto. Sapeva già cosa vi avrebbe trovato ma le mani
le tremarono mentre la rimuoveva con delicatezza.
Per Harlock quella benda era tanto, molto più che una
semplice protezione per l’occhio. La benda che lui nascondeva con i capelli era
la parte di una fragile maschera, uno scudo, la difesa di qualcosa che andava
ben oltre il suo sguardo offeso. Era il rifugio della parte più profonda e
recondita di Harlock. L’Harlock uomo. Togliendola Helèn mentalmente gli chiese
perdono, era come violare un segreto, la sua parte più intima, senza il suo
permesso. Era come aprire uno scrigno entro cui nessuno aveva mai guardato.
Come aveva immaginato sotto vi era solo una palpebra che non
compiendo più movimenti era ormai atrofica**. Pulì tutto con sacro rispetto e
amorevole cura. La vera cieca era lei che non si era accorta dei segnali di
quel fuoco immenso che ora le ardeva in cuore e per associazione ripensò a loro
due davanti a quel camino. Cosa non avrebbe dato per tornare indietro. Gli
passò una mano amorevole tra i capelli, a differenza di quanto potesse sembrare
guardandoli erano morbidi e sottili.
Era strano pensò, continuando a carezzarne il volto con lo
sguardo. Provava un sentimento tanto profondo per un uomo che infondo non
conosceva veramente. Erano da poco insieme ed anche se avevano condiviso dei
momenti molto difficili non riusciva a spiegarselo. In passato aveva creduto
d’amare ma nulla era paragonabile a questo sentimento che sentiva vivo e
palpitante dentro di lei. Ma era tutto molto confuso e lei non riusciva a
chiarirlo neppure a se stessa. Era talmente radicato in lei che sembrava
esserci da sempre. Come un seme che giace latente nella terra per anni che poi
per merito di una sola goccia d’acqua finalmente germina e germoglia. E questa
sensazione l’aveva accompagnata sin dal primo loro incontro. Quando
contrariamente ad ogni logica l’aveva seguito su quella nave. Quasi che una
forza più grande di lei l’avesse voluto.
Mangiò qualcosa. Doveva. Passò la notte a vegliarlo
teneramente, rinfrescandolo, bagnandogli le labbra e pregando. Gli strinse una
mano tra le sue, erano bellissime, lunghe e calde, aprì il palmo
carezzandoglielo, sorrise debolmente, loro due avevano gli stessi calletti da
arma da fuoco. Una lacrima scese giù da sola. Baciò quel palmo e se lo portò al
viso. Non riusciva a vederlo così. “Perdonami. Non ero lì con te. Perdonami se
puoi”. Senza rendersene conto sfinita si addormentò.
Trascorsero alcune ore quando, una luce intensa la svegliò.
Tutto intorno ad Harlock aleggiava una luce blu-violacea a tratti iridescente, si
muoveva lentamente come dotata di vita propria.*** Helèn si allontanò di scatto
impaurita facendo cadere la sedia su cui era seduta. “Che sta succedendo?” gridò
allarmata.
Tochiro le rispose. “E’ bene.
E’ l’effetto della Dark Matter su Harlock ne vedrai presto gli esiti da sola”.
La luce danzò per un po’ intorno e dentro il corpo del
Capitano, Helèn non capiva, tese piano una mano per toccarla, era effimera ed
impalpabile ma ne avvertì la potenza. Continuò ancora per qualche tempo, poi
svanì.
La donna non riusciva a capire questo legame tra Harlock e
questa strana energia ma non chiese. Riprese il controllo degli strumenti.
Ormai sveglia si guardò per la prima volta intorno.
Era nel regno di Harlock.
La sfera armillare, il mobile con i vini, la scrivania. Le
venne spontaneo sistemare i fogli che mani indegne avevano sparpagliato ovunque.
Vi erano carte nautiche dell’Universo, appunti, libri ed i diario di bordo. Si
chinò per raccoglierlo e lesse su di una pagina il proprio nome vergato dalla
mano di Harlock. Le dette una grande emozione, la tentazione di leggere quello
che lui aveva scritto fu forte ma non lo fece, lo rispettava troppo.
Si recò nella sua stanza da letto e notò per la prima volta
la grande struttura del letto di Harlock.
Un’ampia testata in legno oscuro che saliva fino al tetto
della nave formava il baldacchino. Ne rimase sconcertata. Era costituito dai
rami ricurvi di un grande e vecchio
albero ormai morto forse proveniente dalla terra. I rami sostenevano dei teli
di broccato rosso che scendevano giù morbidamente. Pensò che più che un letto
sembrava un ricovero naturale, quasi un rifugio.
Da una parte poi in una specie di libreria, vi erano grossi
libri antichi dalle copertina in pelle e dal titolo ormai illeggibile ed un
becher in vetro, contenete… la annusò, Terra. Doveva esser caduto e riparato
con grande affetto e cura. Harlock era davvero molto legato al pianeta Terra
molto più di tutti coloro che conosceva che non essendovi nati la guardavano
solo come un sogno lontano.
Uscendo dalla camera da letto venne attirata dalla stanza dalla
parte opposta sempre al buio. Vi si recò portando con se un candelabro. Ne illuminò
una parte, il suo cuore si riempì inconsapevolmente di gioia. In quella stanza
c’era un pianoforte a coda. Si avvicinò, era antico, impolverato. Era da quando
era bambina che non ne vedeva uno. Sollevò con attenzione il coperchio,
schiacciò pochi tasti resi scuri dal tempo. Sorrise, era scordato. Il Capitano
suonava? Si chiese. Poi tornò nell’altra stanza, dove l’unico suono udibile
invece era il ‘BIP-BIP’ del cardio-frequenzimetro di Harlock.
Gli si avvicinò, era il
SUO cuore che voleva sentire, scostò la coperta termica e posò delicatamente un
orecchio sul suo petto per udirne i veri battiti. Chiuse gli occhi.
Era regolare e forte. Una lacrima scappò via veloce da lei per
stare con lui, sul suo cuore. “Harlock so che puoi sentirmi. Torna da me”. Sussurrò.
Si sollevò guardando malinconicamente fuori dalla vetrata. Come
le pareva minaccioso quel mare nero ora senza di lui che invece sembrava non
averne paura mai, lui che davvero aveva fatto dell’Universo intero la sua casa
e lo solcava ribelle e fiero alla ricerca della libertà vera.
Non poteva sapere che Harlock era proprio lì in quel momento,
in quel grande mare nero.
Note.
Con questo
capitolo ho voluto dare una mia spiegazione dei bracciali che Harlock porta. Con la Mony (che li chiama i
bracciali di Xena) ce ne chiedevamo spesso il perché ;-) Mi sono detta che per
tenerli sempre addosso dovevano avere una importanza speciale.
*L’allarme generalizzato è un sistema di sicurezza
attualmente utilizzato su tutti i mezzi di trasporto su rotaia. In caso di grave
pericolo consente di bloccare l’intera circolazione innescando
contemporaneamente un allerta per l’attivazione immediata di tutte le procedure
per la risoluzione dello stesso.
**La Dark Matter per me non è la materia oscura così come
canonicamente viene interpretata. E’ un’energia viva, potente, misteriosa e
sconosciuta, quasi un’entità. Solo Harlock ne può trarre beneficio perché era
sull’Arcadia al momento dell’apertura del motore e ne è stato contaminato. Un
po’ come quando si viene contaminati dalle radiazioni di una centrale nucleare.
Nessun altro. Solo lui pertanto non può morire e le sue ferite si rigenerano
solo se il motore è in funzione.
***La mia visione di quello che la benda nasconde.
Grazie alla B-Beta
‘Nella vita i momenti bui arrivano perché tu possa capire quanta luce hai
dentro’ non dimenticarlo :-*
Questo
capitolo lo dedico a Death Shadow. E grazie sempre a tutti coloro, e siete
davvero tantiii, che settimana dopo settimana seguono questa mia storia.
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Capitolo 10 *** LA SOTTILE MEMBRANA TRA LA VITA E LA MORTE ***
Come le
onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno
sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire
dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno
portato via.
10
LA SOTTILE
MEMBRANA TRA LA VITA E LA MORTE
Harlock incatenato, dopo una aver perso i sensi, si ritrovò a
fluttuare nell’immenso spazio nero dell’Universo.
Aveva le mani saldamente legate dietro alle spalle, torso
nudo e nessun punto di riferimento. Non vi erano stelle o pianeti guardando i
quali si sarebbe potuto orientare.
Nero abissale ovunque, lo spazio siderale era fuori e dentro
di lui.
Per un certo tempo restò così, ad assaporare quello stato di
nulla che gli era sconosciuto. Galleggiando mollemente, i capelli debolmente
scomposti. Il silenzio nell’anima ed il vuoto nel cuore. Niente ricordi, niente
lotte, niente moti dell’animo, niente dolore. Niente. Solo il rumore regolare e
lento del suo cuore. Finalmente.
Ad un tratto da lontano scorse piccoli punti di luce. Meteore.
La polvere dell’Universo. Piccoli corpi celesti che come proiettili di ogni
dimensione iniziarono a colpirlo procurandogli lancinanti dolori squarciando la sua carne. Stringeva i denti
provava ad evitarli ma gli era impossibile, i movimenti gli erano negati. Sputò
del sangue e sorrise amaramente. La morte non sarebbe arrivata tanto presto.
Ad ogni colpo una stilettata gli provocava un dolore acuto,
non poteva far nulla per evitarlo, continuava a lottare cercando di slegarsi
non riuscendovi. Ancora colpi e ferite lancinanti, quanto sarebbe durata? Poi
non sentì più nulla.
Aveva iniziato a fluttuare. Ora era in un’altra dimensione,
vedeva se stesso, il suo corpo libero, galleggiare. Si sentiva leggero, in pace,
finalmente, come se la guerra fosse finita, come se ogni battaglia fosse ormai inutile.
Da lontano scorse un meraviglioso Pianeta Azzurro, ve ne era
solo uno così in tutto l’Universo. La Terra. Sorrise, il suo viaggio era
finito.
Solo il ricordo di una strano sentimento lo tratteneva.
Rimpianto. Ma per cosa? Qualcosa di lasciato in sospeso. Di incompiuto. La sua
mente era stanca non voleva indagare, tornare indietro avrebbe voluto dire
soffrire e lottare. Sentiva una sensazione di buono, di dolce, qualcuno ora
leniva le piaghe del suo corpo e toccava il suo viso. Si lasciò cullare da
quella sensazione, dimentico di tutto. D’improvviso udì lontano il pianto di
una donna. Chi era? Poi ancora il nulla.
La sua mente ebbe pietà di lui e lo accontentò. Il mare scuro
dell’Universo ora era l’azzurro e meraviglioso mare della Terra.
Harlock vi era completamente immerso, cullato in esso. Vedeva
i raggi del sole, il suo sole, fendere
la superficie azzurra facendo brillare le lievi increspature dell’acqua come fosse
striato d’argento. Udiva il dolce suono dello sciabordio delle onde.
Presto però quelle stesse onde lo portarono ad urtare
violentemente contro gli scogli aguzzi, senza possibilità alcuna di evitarli.
Ancora dolore. Lottò con le forze che gli restavano, poi si disse che era
finalmente a casa, allora perché lottare? Chiuse gli occhi ‘sono qui’ sussurrò
abbandonandosi all’oblio.
Si ritrovò sulla terra ferma: la spiaggia. Camminava, i piedi
affondavano piano nella sabbia molle e dolce, la bianca spuma delle onde gli lambiva
i piedi nudi bagnando l’orlo dei pantaloni. Tutto intorno solo il rumore del
mare e l’odore intenso ed acre della salsedine. Se ne riempì le narici. Doveva
essere morto pensò guardando quella distesa d’acqua senza confini.
Chiuse gli occhi e lentamente si voltò alla ricerca di qualcosa.
Si ritrovò in uno sterminato campo di grano. Sorrise, guardò a destra e a
sinistra come un bimbo felice che cerca gli occhi della mamma in attesa di un
cenno d’assenso. Iniziò a correre, le mani aperte sfioravano le spighe che si
piegavano a quel tocco gentile. Harlock correva veloce, sempre più veloce e
sorrideva, se era morto, non gli importava, sentiva solo la carezza del vento
sul viso e tra i capelli. Correndo gridò con quanto fiato aveva in gola, un
urlo liberatorio, possente, il cui eco giunse lontano.
La Terra rispose. Un
lampo squarciò il cielo.
Iniziò a piovere, una pioggia chiara e leggera. Si fermò.
Volse il viso ed i palmi delle mani al cielo. Chiuse gli occhi raccogliendo su di
sé ed in sé quella meravigliosa sensazione di acqua, cielo e terra erano un
tutt’uno. L’acqua scivolava via lenta dalle sue mani aperte, sui suoi capelli e
sulla pelle del suo corpo formando mille rivoletti.
In un istante quella medesima acqua divenne sabbia. Guardò il
cielo e poi le sue mani, dalle quali la sabbia scivolava via, veloce come il
tempo... Ora tutto era diventato deserto, intorno solo terra arida e sole
accecante. Stinse i pugni per impedire alla sabbia di scivolare via. Ai suoi
piedi il suolo arso ed assetato si spaccava creando fenditure dalle quali si
poteva udire la richiesta d’aiuto di madre Terra.
Comprese.
La mascella serrata, lo sguardo si fece cupo, si guardò
intorno lentamente, aspettando.
Il viso teso, lo sguardo attento. Un vento fortissimo iniziò
a spirare, un vento denso e rosso, rosso come il sangue che creando immensi
vortici d’aria portava via tutto. Cercò di proteggere gli occhi con le braccia tenendo
sempre nei pugni serrati la sabbia che vi era rimasta, quasi come fosse un ultimo
baluardo di speranza.
‘PLINK, PLINK’ Riprese coscienza.
Udiva uno sgocciolio sommesso ma il solo cercare di aprire
gli occhi faceva male, il dolore fisico che provava era talmente forte da
percepirlo ormai quasi come non fosse il suo. Intorno silenzio ovattato, solo
un netto : ‘Plink…plink…’ un suono di gocce che cadono e si infrangono a terra.
Aprì con dolorosa lentezza gli occhi, vide ciò che c’era sotto di sé.
Realizzò.
Un ghigno amaro gli si dipinse sul viso sofferente. Era il
suo sangue che cadendo produceva quel suono. Era dove lo avevano legato.
Richiuse gli occhi.
La pioggia ora era diventata sangue e ricopriva ogni
cosa.
Helèn gli stava sempre accanto ma decise, prima di effettuare
la medicazione di fare una doccia. La sua stanza era tra quelle senza ossigeno
ed energia, quindi presi alcuni indumenti decise di utilizzare la doccia nella
cabina di Harlock. Posò trasmettitore e candelabro sul lavandino. Era strano
essere lì, nel suo bagno. C’era un’ampia doccia ed anche una enorme vasca da
bagno un po’ retrò, che però si sposava però perfettamente con il resto
dell’arredamento.
Entrò nella doccia, concedendosi un momento solo per se
stessa, un momento per raccogliere le idee. L’acqua scorreva veloce, fresca e
benefica, dalla testa carezzandole il corpo. Helèn si lavò delicatamente, non
aveva più dolore. Stava cambiando derma, uno strato leggero di pelle si stava
staccando, come dopo una scottatura, era l’esito della sua avventura sul
pianeta Arctic. Lasciò che insieme all’acqua defluissero via anche i pensieri,
le angosce, le paure. Harlock non poteva morire, non lui. Non lo avrebbe
permesso. Aveva voglia di raccontargli tante cose della Terra, chissà se con la
vita solitaria che conduceva sapeva dei tanti movimenti di ribellione contro la
Gaia Sanction che a lui si ispiravano e di cui lei sapeva perché era stata
mandata a reprimerli.
Di quante cose non avevano parlato, quanto tempo avevano
sprecato.
Lo immaginò in quella doccia, aprì gli occhi, e la flebile
luce del candelabro che si era portata dietro, le fece un regalo. Su una delle
ante di cristallo della doccia vide chiaramente l’impronta del palmo di
Harlock. Probabilmente vi si era poggiato a lungo mentre l’acqua scorreva veloce
producendo vapore. Le sembrò quasi di vederlo lì, perso in chissà quali
pensieri mentre poggiato lasciava quel segno a causa della condensa. Helèn
sorrise debolmente poggiandovi delicatamente sopra la sua mano, tanto più
piccola. Immaginò le onde del tempo sovrapporsi come se davvero potessero
essere lì tutti e due, insieme, in quel momento, con le mani palmo contro palmo.
Rabbrividì a quell’immagine forte ed intensa, uscì.
Aveva posato i suoi abiti sul letto, vestendosi rivide il
maglione di Harlock e istintivamente lo indossò. Le stava grande, ma sapeva di
lui, arrotolò i polsini, chiuse gli occhi, si cinse con le braccia, inspirò
piano il suo odore immaginando che fosse lì ad abbracciarla.
Il suono del trasmettitore la riportò bruscamente dal suo
sogno alla realtà. Corse da Harlock in preda all’ansia.
Il battito cardiaco era accelerato, troppo. La pupilla si
muoveva veloce sotto la palpebra. Sognava? Riviveva la scena del tiro al
bersaglio? Qualcosa non andava. Ad Helèn non piacque, erano ore cruciali se
fosse entrato in coma ora non avrebbe potuto più fare molto. Anche il suo di
cuore prese a battere all’impazzata. Come aiutarlo? Harlock aveva i pugni
serrati a nulla valsero i suoi tentativi di riaprirli. Si lamentava ma non
riusciva a capire quello che cercava di dirle.
***
La bufera soffiava violenta. Al centro della tempesta di
vento, dei vortici di morte, Harlock gridava, gridava forte “Perdonami, perdonami! E’colpa miaaa!
Perdonami Madre! Perdonami Madre Terra mia… non volevo. Non volevo madre mia! Prendi
la mia vita in cambio…”. E cadde a terra, in ginocchio, guadando il cielo con i
pugni chiusi.
Nello stesso istante una boccia in vetro cadde dalle mani di
Helèn, il vetro esplose disperdendo il suo contenuto sul pavimento.
Il cuore di Harlock si era fermato!
La morte, spietata ed affascinante, languidamente le sorrise,
beffarda, alzando un sopracciglio ‘era suo’!
Helèn volse lo sguardo impietrito sul monitor e terrorizzata prese
una siringa di adrenalina, gliela iniettò dritta nel cuore, con forza. Solo la
disperazione la sosteneva “no-no-no” Continuava a ripetere mentre controllava spasmodicamente il monitor. “Non lo avrai!” urlò.
E la Terra rispose. ‘Harlock devi vivere’.
“Harlock devi vivere!” gridò Helèn con quanta forza la
disperazione le dava.
Un’onda. Un’onda sullo schermo le disse che il cuore era
ripartito. Crollò sulla sedia. Le mani le tremavano, la siringa vuota le cadde,
iperventilava. Continuava a guardare il monitor ‘forza ,forza’ pensò, poi riuscì
a spostare gli occhi verso il volto di Harlock ora disteso. Il labbro inferiore
le tremava, anche le mani ora le tremavano. Le tenne una nell’altra per
fermarle ripetendo ‘non lo avrai, non lo avrai’.
Trascorsero alcune ore, Helèn ci mise molto a calmarsi. Si
stringeva nel maglione, guardando dalla vetrata l’abissale Universo spettatore eterno
ed immoto. Cosa avrebbe fatto se lui fosse morto?
Harlock non si era arreso ed aveva deciso di continuare a
combattere la sua battaglia. Helèn iniziò a medicargli le ferite rimuovendo le
bende, posizionando un’altra sacchetta di sangue. Le garze erano piene di siero
e sangue ma si stupì nel vedere com’erano le lesioni. Apparivano quasi
completamente prive di ematomi, lontane dall’essere rimarginate ma in
condizioni eccellenti visto il tempo trascorso e l’evento traumatico che le
aveva prodotte. Il colore, i bordi, la quasi assenza di turgore, tutto le parlò
di guarigione. La Dark Matter pensò. Per la prima volta si sentì leggera, dette
uno sguardo alle altre cicatrici di Harlock, quelle che lui già aveva.
Sembravano molto, molto vecchie e soprattutto strane rispetto ai moderni
sistemi di cicatrizzazione. Era come se fossero state curate nel passato, anche
quelle alla ‘vecchia maniera’. Si meravigliò, questo non era assolutamente possibile
se Harlock era figlio di quel tempo. La testa le doleva. Decise di lasciarlo
riposare.
Messo un respiratore. Uscì. Si accorse subito che Tochiro
aveva stabilizzato i generatori supplementari di gravità. Si recò nella mensa e
poi decise di ritornare nella sala degli allenamenti, dopo il macabro
ritrovamento non vi era più entrata. Ma doveva farlo. Vi giunse ed il cuore le
si strinse al ricordo di lui e di come lo aveva ritrovato. Decise che avrebbe
pulito e rimosso ogni cosa. Intanto la sua testa continuava a formulare ipotesi
su cosa fosse realmente accaduto, su chi fosse stato. Aveva scartato la Gaia
Sanction loro non si sarebbero mai comportati così, non avrebbero perso
l’occasione d’oro di processare e giustiziare Harlock pubblicamente. Sorrise
amara.
Raccolse da terra i cinturoni, le armi ed il mantello di
Harlock. Qualcosa di luminoso attirò la sua attenzione, lo raccolse.
Era la decorazione venuta via dall’elsa di una spada. Era
un’immagine del Jolly Roger con una bandana sul cranio, lo strinse forte in
pugno con rabbia, conosceva quel simbolo maledetto. Mercenari. Pirati-mercenari
che vagavano per l’Universo assoldando le peggiori canaglie e vendendo i loro
servigi al miglior offerente. Il ‘Branco’ si facevano chiamare e proprio come
un branco erano spietati e famelici. Ma poco avevano dei lupi erano solo delle
iene. A volte anche la Gaia Fleet, in maniera assolutamente ufficiosa, se ne
era servita per i lavori sporchi. Lei lo sapeva. Erano stati loro, ma chi, come
e perché li aveva assoldati? Ebbe la consolazione della quasi certezza che il
resto dell’equipaggio potesse essere vivo, perché usavano fare prigionieri per
poi rivenderli. A lei ed a Harlock non restava moltissimo tempo. Le vendite
degli schiavi erano cadenzate da un calendario molto preciso di cui tutti,
informalmente, erano a conoscenza.
Tornò da lui, mangiò e trascorse la sera a sistemare amorevolmente
il mantello, le sue armi: il Gravity Saber
e la Cosmo Gun. Era un onore maneggiare le armi più potenti dell’Universo,
le armi che avevano contribuito a rendere Harlock leggenda. Con gli occhi della
mente lo rivide elegante e sicuro volteggiare tra i nemici colpendoli con forza
inaudita. Poi, nuovamente richiamata dai più reconditi recessi ancestrali della
galassia, arrivò la Dark Matter.
Ancora una volta, intorno ad Harlock, si creò un’aura di luce
mista a scariche elettriche. Stavolta Helèn non si mosse, voleva capire quello
che non osava chiedere. Osservò la danza della materia oscura intorno e dentro
il corpo di Harlock. Non si chiese se fosse un male o un bene, da dove venisse
né perché tutto questo accadesse. Quella cosa, quella forza lo guariva e questo
le bastava. Restò come di guardia fin tanto che non scomparve.
Nei momenti di tranquillità Helèn si aggirava per
l’appartamento di Harlock, affascinata, sfiorando avida gli oggetti. Quasi che essi
avrebbero potuto narrarle qualcosa del loro misterioso proprietario.
Preso il candelabro si recò nell’unica stanza sempre al buio.
Quella dove era il grande pianoforte. Sedette sullo sgabello, guardando a lungo
lo strumento, carezzandone indecisa la superficie con la mano, poi sollevò con
lentezza il coperchio e dopo una rapida occhiata ai tasti iniziò a percorrerli
con la punta delle dita. Il pianoforte, muto da tanti anni, inizialmente
scricchiolò poi emise suoni melodiosi e benché fosse scordato, la sua voce era
flautata e magica. Avrebbe raggiunto Harlock ovunque fosse pensò Helèn.
La donna non conosceva le note né leggeva la musica, ripeteva
a memoria melodie imparate da bambina. Chiuse gli occhi e quelle note le
portarono alla mente ricordi lontani e che credeva perduti.
Harlock immerso nel suo nulla, nell’immenso nero udì
indistinto un suono, un suono lontano. Poi una musica come portata dalla brezza
cosmica. Si voltò, cos’era? Chi era? Abbandonandosi a quelle dolci note riuscì
a visualizzare tanti bellissimi colori. Ricordò il verde cangiante degli alberi,
il giallo delle foglie in autunno, il rosso dei fiori, il rosa abbozzato delle
nuvole dopo la pioggia, l'arancio acceso del sole che muore all’orizzonte tramontando
e poi la luce di un sorriso. Un sorriso di donna, un sorriso accennato e caldo
che sapeva rivolto a lui ed a lui solo. Ma per quanto si sforzasse non ne
vedeva il volto.
I sensi erano alterati ma la udì chiamare il suo nome,
risuonò chiaro in quell’oscurità senza fine tutta intorno a lui “Harlock, Harlock dove sei? Torna
da me”. Chi era? Si portò inconsapevolmente le dita sulle labbra. Helèn accanto
al suo corpo lo sollecitava chiamandolo e bagnandogli le labbra secche con
acqua ed olio profumato. Harlock si voltò verso la voce, era dalla parte
opposta rispetto alla Terra, era nel buio.
La voce era luminosa ma lì vi era solo oscurità e dolore
fisico. Sentì che vi era qualcosa di sospeso oltre quel velo nero. Guardò
ancora la Terra. Qualcosa di interrotto che lui e lui solo doveva portare a
termine. Non si era mai tirato indietro in vita sua, aveva sempre lottato per
ciò che credeva giusto, fino in fondo.
Tornò indietro seguendo un dolce profumo ed il ricordo sbiadito
di un sorriso. Mentre camminava allontanandosi dalla Terra, senza più voltarsi
altre immagini corsero ad affacciarsi alla sua mente, non avevano senso ma le
sentiva importanti. Un grande cappello marrone dalle larghe falde, dei grossi
occhiali. Alzò lo sguardo e dall’alto dondolando piano nell’aria scese una
lunga piuma nera.
Helèn si addormentò ancora una volta con la fronte appoggiata
sulla mano di lui.
Nel cuore della notte si svegliò di colpo, alzò la testa,
qualcosa l’aveva svegliata. Un suono? No, una parola.
“A-c-q-u-a” Harlock
chiedeva acqua. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Non poteva crederci.
“Sono qui, ma non puoi bere” gli sussurrò carezzandogli le tempie. Sapeva che,
come dopo ogni intervento chirurgico, il paziente ha la gola arsa ma non può
assolutamente assumere liquidi. Provò a dargli una irrisoria quantità d’acqua,
solo per rinfrescargli la bocca, ma non era in grado di deglutire, il liquido colava
via dagli angoli. Helèn allora ne prese un sorso e poi poggiando le labbra sulle
sue cercò di dargliene un po’. Aggiunse alla flebo dell’altra soluzione fisiologica
che avrebbe contribuito all’idratazione. Poi felice, senza pensarci, corse
veloce per i corridoi diretta al computer centrale. Entrata nella grande stanza
l’abbracciò come fosse una persona. Due cerchi concentrici si accesero per lei
che pianse, ma stavolta le sue, erano lacrime di gioia.
NOTE
In questo capitolo ho provato a spiegare cosa potesse sentire
e provare Harlock nello stato di incoscienza nel quale attualmente si trova.
Come i dolori del corpo, e tutto ciò che gli arriva dall’esterno potesse esser
rielaborato a livello conscio ed inconscio mescolandosi con desideri, sogni e rimpianti.
Avendo io citato e descritto il meraviglioso mare della terra
una menzione speciale va alle bellissime sirene del fandom.
Grazie sempre alla B-Beta. ‘Gli amici sono gli angeli della
vita’ t.v.b.
Questo capitolo è dedicato all’uomo della mia vita, mio marito
e compagno M. che come dico io ‘mi sopporta e mi supporta’ da sempre ed anche
in questa bella avventura. Grazie per le ‘consulenze’. I love you
|
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Capitolo 11 *** LEGAMI ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
11
LEGAMI
Trascorse un altro giorno in quell’eterna notte astrale a cui
Helèn non riusciva ad abituarsi. Ogni ‘mattina’ così come convenzionalmente era
stabilito si aspettava che il sole sorgesse ma non accadeva mai.
A volte passando accanto ad una stella si veniva inondati
dalla suo caldo chiarore fin tanto che l’astronave restava in quella rotta. Lei
viveva sempre quella luce come un dono. Restava immobile pervasa dalla
lucentezza ad assorbirne ogni luminoso singolo raggio, come se fosse una pianta
e quando il buio tornava, si sentiva orfana di tanta bellezza, del resto il suo
nome voleva dire ‘luce splendente’.
Suonava sempre più spesso al pianoforte, le melodie che
conosceva a memoria, accompagnata dai ricordi che le facevano rivivere il suo
pianeta azzurro che non esisteva più. Vedeva i membri della sua famiglia
raggiungerla in quella stanza, sua madre, suo padre, le sorelle. E se anche per
poco riabbracciava quella sua vita che sempre rimpiangeva. Quando si fosse
ripreso, avrebbe chiesto ad Harlock il permesso di suonarlo, le dava un grande
senso di pace.
Aveva redatto un inventario del cibo e dell’acqua rimasti a
bordo e delle avarie per quello che le sue competenze e la conoscenza
dell’Arcadia le avevano permesso. Aveva sistemato i vari ambienti come meglio
aveva potuto. Riordinato i modellini di Yattaran sulle mensole come li
ricordava e messo una bella coperta nella cabina di Kei, le sarebbe piaciuta.
Sospirò prima di chiuderne la porta ‘dove sei amica mia?’.
Non le piaceva aggirarsi per l’Arcadia così deserta,
desolata, le dava un forte senso di inquietudine, preferiva rintanarsi nella
cabina di Harlock con la sua nuova scoperta, il pianoforte.
Aprì sovrappensiero, la pesante porta che dava l’accesso agli
alloggi del Capitano entrandovi distratta dal tentativo di aprire il casco che
portava e che le permetteva di respirare fuori da lì.
Ma stavolta, alzando il capo ebbe un sussulto, il cuore perse
un battito.
Impietrita, lo sguardo fermo davanti a lei. Attonita. La
testa prese a ronzarle ed il cuore a battere forte, come impazzito.
Harlock la stava guardando!
Si era tirato lievemente sulla schiena, era poggiato ai
cuscini. Benché il suo viso fosse provato e scavato era l’Harlock di sempre. Altero,
sicuro, lo sguardo fisso e l’iride di un nocciola vellutato non tradiva
emozioni.
Helèn respirava veloce e l’eco del suo respiro rimbombava nel
casco che ancora portava. Lo tolse. E come già una volta era accaduto, i suoi
lunghi capelli corvini defluirono morbidamente fuori.
“Ben… bentornato Ca… capitano”. Disse con voce che avrebbe
voluto suonasse più ferma. Si sforzò di sorridere ma lottava con l’infinita
ridda di emozioni che cercavano di sovrastarla. Pensò che il cuore le sarebbe
scoppiato. Abbassò timidamente lo sguardo.
Quanto aveva sognato quel momento, e forse sognava davvero...
Si tolse il resto dell’equipaggiamento protettivo. E lo raggiunse piano, per
paura che sparisse. Harlock la seguì con lo sguardo per tutto il tempo.
“Co… come si sente Capitano? La devo visitare” disse
esitante. Si sedette accanto a lui prendendo dal ripiano una penna luminosa.
“Segua la luce con la pupilla, per favore”.
Ma per quanto si sforzasse Helèn non riusciva a tenere ferma
la piccola fonte luminosa che pareva una lucciola impazzita sul volto di lui.
Harlock le bloccò la mano con la sua guardandola
intensamente. “Deve essere accaduto qualcosa di davvero grave se continui a
chiamarmi Capitano!”
La voce era roca ma salda. Helèn non poteva credere che le
stesse parlando, non poteva credere di sentire di nuovo il suono di quella voce
avvolgente, di avere il suo sguardo penetrante su di sé e che fosse veramente lui
a tenerle forte la mano e non lei la sua esanime.
In un istante l’ansia, l’angoscia, la paura, il terrore di
perderlo dei giorni passati le inondarono l’anima togliendole il respiro. Annaspò.
Abbassò lo sguardo, per nascondere la vista appannata da grosse lacrime. Capì
che sarebbe stato inutile combattere quei sentimenti che violentemente le stavano
squarciando lo spirito in attesa di erompere fuori.
“Oh Capitano” disse buttandosi al suo collo, stringendolo
forte ed iniziando a piangere senza remore. Tra un singhiozzo e l’altro
continuava a ripetere: “Capitano, capitano”. Quante altre cose avrebbe voluto
dirgli ma riusciva a ripetere quella sola parola che ne conteneva altre mille.
Avrebbe voluto baciare quella pelle tiepida a contatto col
suo viso ma si trattenne. Le spalle scosse dai singulti, lo strinse a sé.
Harlock che tante cose aveva intuito e tante ne aveva
ricordate le mise piano una mano sulla testa. Attendendo.
Poi chiese in maniera diretta come era da lui. “Dove siamo?
Dove sono gli altri? La nave? ” Helèn si riebbe.
“Prima una breve visita Capitan Harlock poi le dirò tutto”. Disse
asciugandosi gli occhi arrossati. Non si era accorta che stava dando ad Harlock
del ‘lei’. Erano stati troppo vicini, e i sentimenti che ora la legavano a lui,
le richiedevano di prendere inconsapevolmente le distanze.
Dopo la breve visita. La donna lo staccò dai vari strumenti,
cercando di non incontrare mai il suo sguardo intenso benché ne avvertisse la
prepotente forza su di sé. Si rese conto che lui le stava guardando le braccia
martoriate dai tanti prelievi.
“Mi occorreva sangue” si schernì, tirandosi giù le maniche.
Così facendo si avvide di portare ancora il suo maglione. “Scusa… avevo freddo”
disse facendo per toglierlo.
“Tienilo, sta meglio a te”. Le rispose con una espressione
indecifrabile.
Helèn lo ringraziò con un cenno del capo. Gli si sedette accanto
emettendo un lungo sospiro. Lo guardò vincendo la tentazione di passargli una
mano tra i capelli e sul viso. Che sensazione inebriante essere attraversate da
quello sguardo, dal calore di quella voce. Iniziò il suo racconto dicendo “Non
so dove siamo Capitano e sull’Arcadia ci siamo… solo noi”.
Gli raccontò del suo risveglio all’interno dell’infermeria
dietro al tavolo delle visite dove era caduta. Che grazie a questo probabilmente
non era stata notata. Parlò delle reali condizioni della nave, omise quanto
poté sul suo ritrovamento e di Tochiro. Poi, aprendo il palmo tremante per la
rabbia gli mostrò il Jolly Roger che aveva trovato, raccontandogli tutto ciò
che sapeva di questi mercenari.
Harlock strinse le labbra, volgendo altrove lo sguardo per
dominare l’ira. Quando tornò a guardarla nel suo occhio non c’era incertezza,
sapeva esattamente cosa fare. Helèn chiese con aria implorante “Capitano ma
cosa è accaduto?”
Dopo un lungo silenzio. “Siamo stati attaccati, sembrava un
abbordaggio come gli altri ma stavolta c’era una variabile che non avevamo
contemplato. Hanno iniziato a fare prigionieri, abbiamo contrattato uno scambio
ma…” spostò lo sguardo, stringendo le labbra come seguendo un pensiero “…ma
loro non hanno mantenuto la parola.” Il tono con cui chiuse la frase non
accettava repliche. Helèn se lo fece bastare.
Harlock si abbandonò sui cuscini, era stanco, Helèn gli misurò
la pressione e sostituì le flebo. “Devi togliermele Helèn, devo alzarmi.”
“E’ prematuro capitano”.
Lui la guardò serio, un lampo gli attraversò l’iride. “L’Arcadia
ha bisogno di me! Bisogna recuperare le funzionalità perdute e scoprire dove
tengono i miei uomini prima che tutti vengano venduti. Voglio, devo alzarmi!”
Fece autoritario mettendo i piedi in terra.
“Capitano non posso permetterglielo” disse Helèn mettendosi
davanti nel tentativo di fermarlo.
“Decido io Dottore!” le rispose sprezzante alzandosi e
chiudendo un attimo l’occhio a seguito del repentino gesto.
Ad Helèn non restò che togliere le flebo o lo avrebbe fatto
lui malamente.
Harlock si sistemò il lenzuolo attorno alla vita e si fece
aiutare da Helèn, che lo sosteneva, ad andare in camera sua. Prima di
incamminarsi si voltò a guardare per un lungo momento fuori dalla grande
vetrata.
Il suo sguardo si perse tra le onde di quel mare nero, con
tristezza e malinconia, poi disse “Devo fare una doccia.”
“Lo escludo Capitano. C’è una cosa che non le ho detto, le
strumentazioni mediche sono in avaria, io ho dovuto chiudere le ferite come si
faceva una volta. Questo tipo di sutura richiede più tempo per rimarginare
rispetto alle tecniche odierne”.
Harlock non la stava a sentire, era già sparito nel suo bagno.
Helèn era in apprensione, si maledisse per non riuscire ad
imporsi. Attese un tempo che le parve congruo, poi andò a bussare, ma non udì
risposta.
“Capitano. Capitano! Mi sente? Tutto bene?” Nulla. “Harlock?”
Helèn si disse che prima che Capitano lui era un suo paziente ed entrò
trafelata.
Harlock si era accasciato sul pavimento della doccia, sotto
l’acqua, si teneva la mano su una delle ferite all’addome. Evidentemente si era
riaperta, ne fuoriusciva molto sangue.
Helèn corse inginocchiandosi accanto a lui. “Merda! merda!”
disse tamponando la ferita come meglio poteva. L’acqua bagnava anche lei.
Harlock le sfiorò una guancia, con le dita. Si scrutarono.
Nello suo sguardo vi era una richiesta d’aiuto che la turbò profondamente.
“De… vo an dare il più vici… no poss… ibile al mo… to re
dell’ Arcadia”. Le disse con dolorosa fatica.
“Non se ne parla”. Gli rispose perentoria perché
impaurita.
“E’ un or dine pri… mo uffi… ufficiale medico Helèn Stern”.
Era la prima volta che pronunciava il suo nome per esteso.
Helèn rabbrividì ma non per l'acqua che le scorreva addosso. Capì che era davvero
importante ed obbedì.
Mentre, gli medicava strettamente la ferita ed Harlock
accettava stoicamente il dolore che ne derivava, Helèn gli spiegò che
l’ossigeno era presente solo in tre ambienti di tutta la nave e che avrebbero
dovuto usare delle tute con l’ossigeno.
Harlock la ispezionava piano con lo sguardo, i vestiti
bagnati, i capelli attaccati al volto, era stanca e sciupata, nei suoi occhi
era ricomparsa la paura che vi aveva visto i primi giorni.
Lentamente appoggiato a lei Harlock percorse i corridoi della
sua Arcadia.
Il volto teso per il dolore, l’espressione cupa. Pareva
soffrire più per la sua nave che per sé. Mentre camminavano piano per i bui e
silenziosi corridoi si soffermava a toccarne, quasi a carezzarne con lenti
movimenti le pareti con il palmo. Apparentemente per appoggiarvisi, ma in
realtà quasi a volerla salutare, rincuorare e darle forza. Come fosse una cara
e vecchia amica con la quale era abituato a condividere vittorie e sconfitte.
Giunsero in plancia.
Harlock dedicò un lungo e sofferente sguardo d’insieme al
grande ambiente desolato.
Poi si avvicinò al motore ed alla sfera luminescente. Era di
un verde pallido così come quando Helèn l’aveva riavviata.
Harlock tese una mano sul globo di energia ed accadde come
nelle notti precedenti.
La sfera interagì con lui ed il suo corpo venne avvolto da
una luce molto forte.
Helèn si allontanò cercando quasi riparo accanto allo
scranno. Sembrava che quella energia donando qualcosa a lui ne ricavasse
nutrimento per se stessa. Era come se tra Harlock e quella forza quasi viva, vi
fosse un legame. Un legame che lei non comprendeva che le faceva quasi paura.
L’energia che ad Harlock arrivava e lo attraversava tornava a
quello strano motore dieci, cento volte più potente.
La sfera divenne più grande e luminosissima al punto che
Helèn dovette distogliere lo sguardo. In quello strano momento quasi mistico si
sentì di troppo. Avrebbe voluto andar via ma non lo fece, guardò e tacque.
Quando tutto fu finito Harlock stava molto meglio. Helèn con grande
sorpresa lo vide ripercorrere quegli stessi corridoi da solo, eretto, risoluto,
un passo dopo l’altro senza alcun bisogno del suo aiuto.
Chiuse gli occhi concentrandosi sul suono di quei passi
cadenzati sul metallo. Sorrise, anche il suo cuore sorrise, quante volte aveva
solo immaginato di sentirlo riecheggiare ed ora, ora era vero.
Harlock si diresse verso il grande computer centrale.
NOTE
Grazie
sempre per tutto alla mia B-Beta.
Dedico
questo capitolo ed il meraviglioso risveglio del Capitano a Mizu che tanto lo
anelava ;-)
Grazie a
tutti coloro che continuano a leggere questa mia f. con mia grande sorpresa
sempre di più :-)) Grazieee.
|
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Capitolo 12 *** CARNE E SANGUE ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
12
CARNE E SANGUE
Quando Harlock rientrò nei suoi appartamenti, Helèn aveva
appena finito di asciugarsi i capelli, era nella camera da letto, e stava
usando un oblò come specchio per pettinarli.
Sentendolo arrivare, lasciò andare la lunga chioma sulla
schiena e si voltò appena, prima di girarsi del tutto verso di lui e regalargli
un sorriso luminosissimo che gli si impresse sulla retina.
Harlock, come era nella sua natura, si irrigidì. Non era
abituato ad avere qualcuno in quegli spazi da sempre solo suoi.
Lei lo comprese. “Scusa… forse dovremmo riattivare la
funzionalità di camera mia” disse impacciata, sentendosi improvvisamente di
troppo.
“Non occorre” rispose lui, rivolgendole uno sguardo indecifrabile,
voltandosi e dirigendosi verso il tavolo dove lei aveva preparato una cena
spartana e leggera.
Mangiarono svogliatamente senza dire nulla. L’aria era
pesante, gli accadimenti passati e le decisioni future la rendevano tale.
Harlock era teso, il viso contratto, la testa lontana oltre i
pensieri. Helèn si chiese dove fosse e per spezzare il silenzio chiese. “Che
intendi fare?” Quella situazione che li vedeva lì da soli era strana, a tratti
imbarazzante.
“Da ciò che ho visto il lavoro è tanto, prima lo faremo e
meglio sarà. Devo capire cos’è ancora funzionante a bordo e cosa no e scoprire
dove sono gli altri, dove li hanno portati”. Disse d’un fiato serrando le
labbra.
“Sei preoccupato?”
Harlock rispose dopo un profondo respiro.
“Si, lo sono… soprattutto per Meeme”.
Helèn abbassò lo sguardo sul piatto, avrebbe dovuto
immaginarlo. Bevve d’un sorso il vino che lui le aveva versato e che fino a
quel momento non aveva toccato. Quel gesto non sfuggì ad Harlock.
“Grazie per quello che hai fatto, non deve essere stato
facile”.
La donna chinò la testa. “No, non lo è stato. Mi sono
ritrovata nuovamente sola, credevo che non mi sarebbe mai più capitato e
invece...” scosse il capo “Ho temuto di impazzire”.
Harlock la guardò interrogativo. “Anche quando mi sono risvegliata
dalla criogenesi ero sola, disperatamente sola”. Strinse i pugni sul tavolo.
Harlock mise una mano sul pugno stretto, quasi a voler sciogliere quel nodo.
Non portava i guanti ed Helèn percepì tutto il calore, la sua forza, e la protezione di quella mano
gentile.
Si guardarono un istante. Harlock aveva il viso stanco e gli
occhi lievemente cerchiati. Helèn non poté fare a meno di ripensare a tutto il
resto del suo corpo. Abbassò il capo per sfuggire a quello sguardo penetrante
che sembrava come voler trovare e poi sfogliare il libro dell’anima che era
dentro di lei. Quello che provava per lui era definitivamente cambiato, ma
avrebbe fatto quanto in suo potere per ricacciarlo, soffocarlo dentro alle pareti
troppo strette del suo cuore.
Harlock si alzò muovendo qualche passo verso la grande
vetrata. Vi rimase braccia conserte, fissando un punto indefinito. Vestito di
abiti neri, la figura snella e slanciata, completata dalle spalle larghe e
morbide, si stagliava bellissima contro il riflesso del vetro. Anche così
accigliato e impenetrabile era superbo, pensò Helèn.
Riponeva in lui grande speranza, l’aveva già fatto, ma
avrebbe messo la vita nelle sue mani altre mille volte. Del resto cosa era
stata la sua vita senza di lui fino a quel momento? Si trovò a chiedersi.
Lo raggiunse e facendosi forza chiese “Perché sei così
preoccupato proprio per Meeme?”
Se ne stavano li, entrambi le braccia conserte in un
atteggiamento di chiusura mentre dall’esterno arrivavano gli esiti luminosi del
lontano brillamento* di una stella. Saette e strali si abbattevano sull’Arcadia
che se ne restava immobile, incrollabile spettatrice.
Helèn carezzandone la figura con lo sguardo rifletté su come ora
non provasse alcuna paura. Di come si sentisse tanto più protetta e sicura
sull’Arcadia adesso che lui stava bene.
Attraversavano la magnetosfera di un corpo celeste, un flusso
di particelle elettricamente cariche dava vita ad uno spettacolo splendido di
luce e colori. Lampi e bagliori si susseguivano rapidi illuminandoli a tratti
per poi svanire e lasciare il posto a colori meravigliosi che andavano
degradando dall’indaco al blu più intenso. Come se ciò che accadesse fuori
fosse speculare di ciò che in realtà accadeva ai due occupanti dell’Arcadia.
“Lei è l’unica non terrestre”. Le rispose serio.
“E’ la tua compagna? ” chiese Helèn d’un fiato. Harlock
abbozzò uno stanco sorriso.
“No, lei è la mia migliore amica e sì, una fedele compagna di
viaggio. E’ forte ma anche indifesa”.
“La troveremo vedrai ed io ti aiuterò!” Helèn aveva
pronunciato quelle parole con trasporto mettendosi davanti a lui. Harlock
allungò una mano sfiorandole con due dita teneramente una guancia.
Le loro ombre si fusero sul grande pavimento per un gioco di
luci. Helèn inconsapevolmente le separò, allontanandosi di colpo e toccandosi
istintivamente il viso come se un dardo di fuoco l’avesse sfiorata. Andò
accanto al camino, sperando che la sua luce avrebbe mascherato il suo rossore.
Fino a quella sera aveva trascorso le notti su di una sedia
accanto a lui. Braccia incrociate sul petto guardando le fiamme disse “Se non
ti spiace io dormirei qui”.
“No!” rispose secco lui, voltandosi a guardarla. “Userai il
mio letto”.
“No! Il letto è tuo e tu… tu sei convalescente”. Fece lei
quasi allarmata.
“Io sto bene ed il letto è enorme. Possiamo usarlo tutti e
due senza darci fastidio. Dobbiamo riposare bene, ci attende tanto lavoro da domani”.
Disse voltandosi nuovamente.
Helèn sospirò ma tacque. Non voleva sembrare una sciocca. I suoi
occhi affogarono brevemente tra le fiamme poi raggiunse il grande letto in
legno.
Di spalle, si tolse solo il grande maglione sotto cui aveva
un body scollato, tenendo gli aderenti pantaloni della tuta termica, era
imbarazzatissima ma cercò di dissimulare. Si sistemò sul bordo più estremo del letto
cercando di occupare meno spazio possibile, continuando a dare le spalle ad
Harlock e rischiando ad ogni respiro di cadere per terra.
Sentì lui armeggiare con i vestiti, poi avvertì il movimento
del letto, si irrigidì. Non si voltò quando sentì. “Notte”.
“Notte”. Rispose, pensando che non sarebbe mai riuscita a
dormire con accanto il respiro di lui. Invece la stanchezza la vinse. Sognò.
Sognò di essere sull’Arcadia prigioniera della sua bara
criogenetica di vetro e metallo.
Harlock davanti a lei era legato, i colpi lo ferivano e lei
non poteva fare nulla per aiutarlo. Nulla. Gridava, dava calci e pugni alla
teca in preda alla disperazione allo sgomento ed all’impotenza ma era tutto
inutile. ‘Noo lasciatelo, vi supplico. Harlock… Harlock!’. Gridava disperata ed
inerme con quanto fiato aveva.
“Helèn, Helèn svegliati! Sono qui! Apri gli occhi! Sono qui!”
Helèn strappata da quell’incubo straziante ci mise alcuni
istanti per realizzare. Il cuore le batteva furibondo.
Harlock, spostatosi su di lei la scuoteva per le spalle.
Realizzò di essere sveglia. Lo sguardo nello sguardo di lui,
si calmò. Il respiro tornò piano regolare. Vederlo così vivo e forte, provato
ma bellissimo, al punto che era lui ed aiutare lei, le fece realmente capire che
davvero ormai il peggio era passato. Le immagini di quei lunghi giorni le
passarono davanti agli occhi. L’Arcadia desolatamente vuota, lui legato e
sanguinante, esanime in fin di vita, morente.
Ed ora. Ora era così vicino e la teneva tra le braccia. Percepiva
l’odore del suo respiro tiepido ed il tepore della pelle del torace. Non le
importò cosa avrebbe pensato, gli carezzò dolcemente il viso, la mano tremante.
E mentre le lacrime scorrevano via, si strinse forte a lui, passandogli le dita
tra i capelli felice di sentirlo vivo e caldo su di sé.
Tutto quello che aveva passato, la tensione accumulata in
quelle ore infinite, le notti insonni, le violente emozioni, si sciolsero definitivamente
in quell’abbraccio così intimo e senza timori.
Harlock era un uomo dotato di grande sensibilità aveva
compreso tutto quello che Helèn aveva dovuto sopportare. Il suo cuore fu inaspettatamente
pervaso da una grande tenerezza per quella giovane donna. Così la strinse forte,
felice di tenerla tra le braccia senza saperselo quasi spiegare. Sentiva il corpo
di Helèn tremare sotto al suo. Sollevò il capo per guardarla sciolta in
quell’abbraccio e in quelle lacrime. Gli parve così piccola e indifesa, lontana
dall’immagine che aveva di lei, si chiese come fosse possibile. Un sentimento
nuovo pervase lentamente il suo essere, dilagante ed incontrollato. E non era
solo gratitudine era qualcosa di buono e luminoso di profondo e forte. Era
qualcosa che seppe, mai più sarebbe riuscito a rinchiudere dietro sbarre di
ghiaccio.
“Non piangere Helèn ti prego, il peggio è passato”.
Il cuore di Helèn stava per esplodere la sua verità. Tutto
quello che non era riuscita a dirgli stava per esondare dalle pareti di carta
della sua anima. “Scusami per queste lacrime e perdonami, perdonami se puoi, io…
avrei dovuto essere con te… al tuo fianco”. Non riusciva a scandire le parole,
le emozioni gliele portavano via. “Io… non avrei mai, mai permesso che ti…”
Lui la interruppe. “Helèn io sono vivo solo grazie a te”.
Helèn scuoteva piano il capo, facendo cenno di no. Lui glielo
bloccò prendendole il viso tra le mani.
Lei avvertiva le dita lunghe ed affusolate sul viso.
“Sei bellissima e sei coraggiosa, sei tenera e sei forte, non
ti arrendi mai, sei tenace e dolcissima, sai solo dare senza chiedere mai. Non
è stata colpa tua ed io non permetterò che tu viva con questo rimorso. Io so
cosa vuol dire vivere con un rimorso che ti strazia l’anima. A te non lo
permetterò”. Le ultime parole Harlock le aveva sussurrate, quasi soffiate sulla
sua bocca.
Quindi posò le labbra sulle sue quasi a suggello di ciò che
aveva detto.
Quello doveva essere. Ma il tenero tepore delle accoglienti
labbra di lei lo tradì e si rese conto di volere di più. Aprì piano le labbra
per appropriarsi delle sue. Lentamente il bacio si fece spontaneamente e
dolcemente più esigente, non immaginava d’avere tanta sete di lei. Con lenti
movimenti della bocca si impossessò delle labbra di Helèn baciandole con
crescente voluttà. Lei le schiuse naturalmente reclinando lievemente la testa mentre
ogni singola parte del suo corpo s’andava liquefacendo. Harlock continuava a
tenerle il viso avvinto tra le mani quasi temesse di perderla. Lei chiuse gli
occhi quando sentì la sua lingua farsi largo cercando la propria, investita da
sensazioni di una intensità tale che ne ebbe paura. Le sue labbra erano calde
ed invitanti, il suo sapore, il tepore della sua pelle un luogo dove tornare e
rimanere.
Si abbandonò completamente a quel bacio in cui mise tutta se
stessa. Avvertiva i muscoli del corpo di lui tendersi a contatto col suo. I
loro corpi, i loro cuori, i loro respiri vibrarono insieme meravigliosamente
per un lungo momento durante quel bacio dolce ed appassionato. Lui avvertì il
respiro di Helèn farsi più veloce, il suo corpo sussultare. Quelle labbra,
quella bocca che ora danzava languidamente con la sua, quella donna che teneva
vigorosamente stretta a sé erano vita. Ne avvertì netto il sapore. I loro respiri
si fusero armonicamente divenendo lentamente uno.
Poi lui di colpo staccò il viso dal suo, affondandolo nel
cuscino. Il respiro affannoso. “Scusami”. Sussurrò cercando di tornare padrone
di sé.
Il respiro veloce, Helèn percepì netto il cuore di Harlock
battere all’impazzata sul suo seno che ne assecondava i movimenti. Comprese.
Lui non lo reputava giusto. Sgusciò lentamente e dolorosamente via dalle sue
braccia, rannicchiandosi in un angolo estremo del letto sentendosi orfana di
quell’abbraccio forte e protettivo. Si sentì improvvisamente indifesa, come
privata di uno scudo. Cercò lentamente di riprendere possesso del suo corpo. Sentì
che lui fece altrettanto.
Harlock occhi stretti combatteva col vuoto dilagante a cui
mai si sarebbe abituato e che ora percepiva. Col nulla amaro che era tornato ad
impossessarsi di lui. Mentre il sapore di lei lentamente lo abbandonava.
L’indomani quando Helèn aprì gli occhi, notò che come due
magneti erano entrambi tornati a cercarsi al centro del letto ed erano quasi abbracciati.
Trattenne il respiro. Lui dormiva. Si chiese come sarebbe
stato se… arrossì. Alzò lo guardo per ammirarlo, il volto sereno, semi nascosto
da un ciuffo ribelle, il respiro regolare, lo aveva guardato per ore mentre lo
aveva vegliato, ma non si sarebbe stancata mai di seguire i contorni perfetti e
gentili di quel nobile volto dai tratti dolci e antichi. Ripensò al loro bacio.
Ed al solo ricordo il suo corpo si accese.
Si alzò piano.
Dopo una visita alle cucine si sedette ai piedi della
vetrata. Erano molto vicini ad un grosso pianeta. Ammirava estasiata le onde
danzanti verdi iridescenti dell’aurora boreale che quella mattina le donava. Avvolta
in una coperta, una tazza di caffè nero fumante tra le mani, gli occhi rapiti
da quello spettacolo.
Così la scorse lui mentre infilava un pesante maglione. Si
bloccò col maglione sulle braccia prima di farlo passare sulla testa, inchinò
lievemente il capo per permettersi di guardarla meglio.
Le si avvicinò. “Anche io non mi stanco mai di questa meraviglia”.
Lei sorrise imbarazzata e fece segno ad un’altra tazza da cui
usciva un esile filo di vapore. Lui sedette accanto a lei sul pavimento. Bevve
guardandola.
La luce creava spettacolari riverberi sui loro visi. Ed
Harlock seppe d’aver già vissuto quel momento con lei. Seduti vicini a
guardare… a guardare cosa? Quando?
Volendo interrompere quello strano deja vu che non sembrava
aver senso le chiese all’improvviso. “Cosa avresti fatto se fossi morto?”
Helèn voltandosi, lo guardò profondamente, allargando
lievemente le narici per la stilettata che quella domanda le provocò, attese un
attimo. Solo il fatto di vederlo vivo innanzi a se le permise di rispondere. “Tu…
sei… morto”.
Harlock attonito per quella inaspettata rivelazione restò in
silenzio, fissandola.
Helèn distolse lo sguardo. “Sei un uomo di carne e sangue
Capitan Harlock, benché la tua grandezza ti renda tanto di più”.
Poi aggiunse. “Qualcosa ti ha richiamato qui, non so cosa e
sei tornato”. Sorrise debolmente, avrebbe voluto dire ‘sei tornato da me, ma
non lo fece’. Invece disse “Qualcosa che devi portare a termine, non so cosa
sia… ma di qualunque cosa si tratti io
sarò al tuo fianco”. Gli regalò uno dei suoi sorrisi carichi di vita e di
speranza e si allontanò.
Nella mente di Harlock continuò a lungo a risuonare quella
semplice e cruda verità ‘Sei un uomo di carne e sangue Capitan Harlock!’
NOTE
*Brillamento di una stella è la violenta eruzione di
materia che esplode dalla fotosfera di una stella, creando spettacolari
protuberanze solari.
Questo
capitolo è per Micia Sissi, che si chiedeva come sarebbe stato l’amore tra
H&H spero che questo ‘assaggio’ ti piaccia ;-p
Una
citazione alla Mizu ‘baciologa’ ;-D
Un grazie
alla MEGA B-Beta. ‘Sei GRANDE-GRANDE’.
Ed un grazie
cicciotto alla Angelfire che mi ha spiegato come allegare le immagini che ho
voglia di condividere con voi tutte che mi seguite.
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Capitolo 13 *** RIVELAZIONI ***
Come le
onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno
sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire
dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno
portato via.
13
RIVELAZIONI
Quel giorno furono molto impegnati, Helèn cercò di sistemare
al meglio le avarie di alcuni pannelli come Harlock le aveva spiegato.
Controllò e cercò di salvare il salvabile e fece l’inventario di ciò che
occorreva. Il capitano invece trascorse il suo tempo tra computer centrale e
ponte principale.
Helèn lo vide completamente disteso sotto uno dei monitor della plancia a collegare fili ed a
fare prove. Entrambi saltarono il pasto ma per cena Helèn preparò qualcosa ed
andò a cercarlo.
Lo trovò in piedi, le mani posate sul timone fermo. Guardava
davanti a sé risucchiato da vortici di pensieri, che andavano oltre l’immensa
vetrata che li divideva dal nero mantello dell’Universo. Lui la sentì arrivare
ma non si voltò. Entrambi indossavano le tute e le bombole per l’ossigeno.
“Ho preparato qualcosa per cena e vorrei poter controllare le
tue bende”.
Harlock si voltò, il suo sguardo un abisso di tristezza, non
doveva essere facile per lui vedere l’Arcadia così.
Helèn ne fu profondamente turbata. “I danni sono seri?” Chiese
in apprensione.
“Sì, il sistema di autoriparazione non funziona se il motore
a Dark Matter non è a pieno regime. E senza Meeme funziona al 50% dovremo effettuare
da noi le riparazioni più importanti. C’è tanto lavoro e poco tempo”. Disse
stringendo le mani al legno del timone.
“Conta su di me”.
Harlock, fece un breve cenno col capo, e si avviò verso le
sue stanze. Helèn lo guardò mentre si allontanava. Pareva sempre così altero e
sicuro, ma era anche schiacciato da pesi e responsabilità che a volte percepiva
tanto più grandi di lui. Provava pena, era un capitano leale e responsabile, era
chiaro che sopra ogni cosa, ciò che lo lacerava era la preoccupazione per i
suoi uomini.
Mangiarono in silenzio poi Helèn chiese. “Da dove dobbiamo
incominciare?”
“Ci sono danni importanti sia all’interno ed all’esterno
della nave. Io mi occuperò di quelli all’esterno e domani ti mostrerò quello
che devi fare tu”.
“A proposito di mostrare, ti devo cambiare le fasciature e
medicare le ferite”.
Harlock non ne fu felice ma si sfilò il maglione dalla testa
in un istante.
Helèn rimosse, sfiorando piano la pelle tiepida, bendaggi e
garze rimanendo senza parole. Le ferite erano del tutto rimarginate. Una
guarigione che aveva del prodigioso.
“Io… io non capisco”. Disse scuotendo piano la testa e
guardandolo con due grandi occhi increduli.
Harlock pensò che fosse giunta l’ora di rivelarle parte della
verità. Tirò un lungo sospiro, mentre lei con delicatezza puliva la pelle dai
resti di disinfettante.
“Helèn, diversi anni fa durante…”. Inspirò profondamente. “Sì,
durante un incidente, sono stato contaminato con la materia oscura, che è la
forza che muove l’Arcadia: un motore vivo e palpitante. Questa contaminazione
mi permette di guarire prima rispetto alle altre persone”.
Helèn lo guardò seria. “Avevo intuito che fosse così, perché a
livello scientifico non me lo sapevo spiegare e… credo ci sia anche dell’altro.
Ma me lo dirai quando lo riterrai opportuno. Finito!” Fece prendendo il
necessario per la medicazione per riporlo. Quell’argomento non era facile da
affrontare per Harlock lo sentiva.
Sapeva che la verità nascosta dietro a questa contaminazione
di cui le parlava era un’altra, qualcosa che temeva quasi di sapere,
ignorandone il motivo. Lui era vivo e stava bene questo solo contava. Si voltò
a guardarlo, non si stancava mai di osservarlo. Elegante in ogni singolo gesto,
i capelli lievemente ondeggianti ad ogni movimento del capo, il mento sfuggente
e labbra sempre un po’ corrucciate. Un brivido le percorse la schiena al
pensiero di ciò che quelle labbra sapevano suscitare.
Si era messo a scrivere fitto su di un foglio, il volto semi
nascosto dai capelli, completamente perso nei suoi ragionamenti. Helèn fece un
gioco che faceva sempre da bambina. Pensò “se alza lo sguardo e mi guarda ORA,
vuol dire che noi…” non terminò la frase, lui alzò il viso ed iniziò a
guardarla assorto, inclinando un po’ il capo come sempre faceva per completare
la sua visione parziale. Lei gli sorrise e cercò rifugio con gli occhi tra gli
oggetti che ornavano la parte superiore del camino.
Sedette in terra e coccolata dal tepore danzante della fiamma
del camino senza rendersene conto si addormentò. Si svegliò vagamente quando si
sentì sollevare.
Mosse il viso insonnolita e col naso e le labbra sfiorò
qualcosa di morbido e caldo. Conosceva quell'odore. Aprì appena gli occhi e si
rese conto che era il collo di Harlock, ne inspirò il profumo sfiorandolo
appena con le labbra, si rese conto che lui dopo averla presa in braccio la
stava portando a letto. Ma Helèn ebbe la netta sensazione che attendesse
qualche istante di troppo prima di adagiarla tra le lenzuola.
Il giorno dopo il capitano si attivò presto, lei lo cercò
all’interno dell’Arcadia non trovandocelo, immaginò dovesse essere all’esterno
per le riparazioni di cui le aveva parlato. Lei invece si occupò di quelle interne
come lui le aveva mostrato usando un saldatore laser ed apposita mascherina. Era
sola in un grande corridoio nella semi oscurità.
Si voltò di scatto. Si sentì osservata.
Nessuno.
Dal primo giorno viveva con la sensazione che sulla nave ci
fosse qualcuno oltre a loro due ma non ne aveva fatto parola con Harlock per
non dargli ulteriori pensieri. Non solo si sentiva osservata, seguita per i
lunghi corridoi, ma a volte, ne era certa, mancava del cibo.
Harlock rientrò, era quasi contento. “Ho eliminato la falla
da cui perdevamo ossigeno tra qualche ora potremo riaverlo in tutta la nave”.
“Bene”. Fece Helèn che era stufa di portare tutta quella
attrezzatura per respirare, ma questo avrebbe voluto anche dire tornare nella
propria stanza.
A pranzo finalmente parlò ad Harlock di quella sua
sensazione, dei suoi dubbi, ma in realtà sul momento lui parve non darle
importanza.
Nella seconda metà del pomeriggio ogni ambiente dell’Arcadia
era ossigenato. Una Helèn sorridente riportò le piantine in camera sua.
Camminando per i corridoi inspirava profondamente col naso riempiendosi i
polmoni. Era bellissimo, lentamente si stava facendo ritorno alla normalità ed
era tutta opera di Harlock. Presto tutto sarebbe tornato come prima si disse
ottimista.
Nella sua stanza si dedicò finalmente ad una lunghissima
doccia. Il suo grande bagno, l’intimità e le sue cose le erano mancate.
Era lì a giocare rilassata con la schiuma, quando improvvisamente la porta
del bagno si spalancò con allarmata violenza, producendo un tonfo sordo urtando
contro il muro di metallo.
Helèn sobbalzò spaventata. Si bloccò. Era pietrificata. La
saponetta le sgusciò via dalle mani e scivolando andò ad arrestarsi accanto ad
un paio di stivali fermi sulla porta.
Inerte percepì solo il freddo grigio metallo della canna di
una pistola puntata verso di lei. Un fremito le percorse per intero la schiena,
svuotandola da ogni possibile pensiero.
Harlock era lì, pistola in mano, la fissava teso.
La donna restò immobile non capendo. Incapace di coprirsi,
non poté. Guardava solo quell'arma, stordita.
Lui percorse fugacemente con lo sguardo la sua figura. Non sembrando
in realtà notare la sua nudità.
Quando parlò la sua voce non tradì emozione solo concitazione.
“C’è un incendio a bordo… Avevi ragione, c’è qualcuno sull’Arcadia oltre a
noi!”
Helèn, sgranò gli occhi. Superato lo shock preso un
asciugamano, si vestì e praticamente ancora bagnata corse con Harlock a domare
le fiamme.
Il sistema antincendio della nave non era scattato, o per via
di un’avaria, o forse per una manomissione, come forse era più propenso a
pensare Harlock.
La zona interessata era quella di alcuni ambienti antistanti
la cambusa vera e propria. Con degli estintori ad onde d'urto* in mano, Harlock
ed Helèn si fecero strada tra le varie stanze. Poi, si trovarono davanti ad una
porta di metallo chiusa.
Dietro la porta si udivano nettamente dei rumori. “C’è
qualcuno lì!” disse Helèn preoccupata ed incredula. Harlock accanto a lei, le
fece segno di tacere mettendosi un dito sulle labbra avvicinandosi piano alla
porta per aprirla.
Si udì una specie di grido disumano che terrorizzò profondamente
Helèn. Un tragico ricordo le affiorò alla mente, sgomenta, con un gesto
avventato, dettato solo dall’istinto, dimenticando ogni più semplice regola di
sicurezza, aprì la porta in apprensione per chiunque vi fosse all’interno.
Fu un attimo. Una vampa di fuoco alta sino al soffitto,
accompagnata da un alito di aria bollente, non appena entrata in contatto con
una nuova fonte di ossigeno sfiatò fuori dalla stanza.
Helèn si sentì sollevare da terra. Harlock si era messo
davanti a lei chiudendo entrambi nel mantello, trascinandola via. Si
ritrovarono addosso a degli scaffali. Lei lo guardò grata per un lungo momento.
Le aveva fatto scudo con il suo corpo.
Un istante e lui sparì nel fumo della stanza con l’estintore.
Helèn lo seguì.
Harlock immobile, lievemente di profilo, teneva la cosmo gun
con la mano destra puntata esattamente davanti a lui in linea con il suo occhio.
Con il braccio sinistro spinse delicatamente Helèn dietro a sé per proteggerla.
Dal retro, di ciò che restava di alcuni scatoloni, lentamente
una nera figura emerse.
Gracchiò e si sistemò le piume bruciacchiate. “Tori!” esultò
Helèn correndo dal volatile. “Piccolo ma allora eri tu che mi rubavi il cibo,
ma perché non ti sei fatto vedere?”
“Con molta probabilità gli hanno dato la caccia, era
spaventato, si è rifugiato dove forse vi era qualche fonte di ossigeno, o più
probabilmente qualcuno ha pensato a lui”. Disse Harlock con un sorriso appena
abbozzato mentre toccava delicatamente il capo della bestiola, che cercò subito
di salirgli sulla spalla non riuscendovi.
Helèn scorse nello sguardo di Harlock un vero accenno di
felicità per il ritrovamento dell’animale. Portò subito Tory in infermeria per
le medicazioni. Harlock invece dopo una doverosa visita al computer centrale se
ne tornò nei suoi appartamenti a pianificare il lavoro del giorno successivo.
Ma ogni volta che posava gli occhi sul foglio vi compariva l’immagine di Helèn,
così come l’aveva trovata nella doccia. Bellissima nella sua innocente nudità.
Si versò da bere. Chiuse l’occhio sforzandosi di pensare ad
altro. Ma l’immagine di lei tornava prepotente.
Decise di cedere e l’assaporò. Bevve piano mantenendo il vino
nell’incavo della bocca. Reclinò il capo sulla poltrona espirando lentamente. Sentì
il rumore dell’acqua che dal soffione utilizzava il corpo di lei come scivolo
percorrendolo interamente curva dopo curva, l’odore sottile di un olio
aromatico, la fioca luce tremula nel riflesso di pelle bagnata, i lunghi
capelli attaccati al corpo. Le spalle morbide, il seno generoso e sodo, le
areole delicate come il rosa dei petali, i capezzoli turgidi, morbidi fianchi,
gambe tornite e… deglutì avvertendo un dolce formicolio tra il palato e la
lingua. Lei non aveva fatto nulla per coprirsi, per celare la sua nudità. Era
consapevole ormai di desiderare quella donna ogni giorno di più. Ma non avrebbe
ceduto a quel desiderio, non c’era posto per l’amore nella sua vita, tanto meno
adesso. Lasciò che la sua mente vagasse libera immaginandosi in quella doccia
con lei. Avvinti.
Un bussare alla porta lo strappò con dolore alla sua visione.
“Avanti”.
Helèn entrò. “Ciao sono venuta per Tory magari volevi
sapere…”.
“Certo, dimmi”. Rispose lui sistemandosi impacciato sulla
sedia.
“E’ debilitato ma sta bene, ha qualche bruciatura, sembra
piagnucolare, forse gli manchi”.
“E’ il suo padrone a mancargli”.
“Il suo padrone? Ma non sei tu?”
“Lui apparteneva al mio migliore amico”.
“Apparteneva? Perché, dov’è lui ora?” Chiese Helèn senza
riflettere.
“E’ morto, è morto per causa mia”. Harlock si versò
generosamente da bere ma ne versò anche ad Helèn guardandola, lei accettò
sedendogli accanto.
“Per causa tua? Co.. come?” Helèn sperava finalmente di
capire. Era questo il mostro che aveva percepito fin dal primo giorno lacerare
e masticare fino in fondo, senza tregua, l’animo buono e nobile di Harlock fino
a smembrargli l’anima? Era questa l'ombra oscura che ogni tanto attraversava il
suo sguardo rendendolo sempre cupo ed infelice?
In alcune circostanze, come questa, il volto e i lineamenti di
Harlock s’indurivano, lo sguardo si
faceva livido, del tutto impenetrabile, le labbra si serravano. Si ergevano
subito alte le sue difese. Tutto mutava in lui, la postura, il tono della voce,
la sua luce. Tutto gridava aiuto ed al tempo stesso ostilità.
Helèn restò in attesa. Harlock avrebbe potuto non rispondere
ma decise di farlo. Tra lui ed Helèn la fiammella dorata di una candela danzava
al ritmo dei loro respiri, piegandosi ora da una parte ora dall’altra,
regalando a tratti flebili bagliori aurei allo sguardo di entrambi.
Dopo un tuffo nei profondi ed accoglienti occhi di Helèn
emergendone Harlock dolorosamente si ascoltò dire. “La mia impulsività, la mia
presunzione, la volontà ferma di perseguire i miei ideali ad ogni costo lo
hanno ucciso!” serrò forte i pugni, la pelle dei guanti produsse un sottile
stridio. “Io lo ho ucciso!” Si alzò di scatto accompagnando con la mano destra
il grande mantello, non riuscendo a contenere da seduto un’esplosione di
sentimenti contrastanti, quali: rabbia, rammarico, dolore e impotenza.
Helèn non si mosse temendo quasi che una qualunque parola, o
gesto, avrebbero potuto interrompere la labile apertura del cuore di lui.
Harlock proseguì trascinandosi nei suoi ricordi. “Col mio
comportamento irresponsabile, accecato dalla vendetta, abbandonato ogni buon
senso, ho causato la morte del mio unico amico. Quel giorno, non ho perso solo
il mio occhio, ho perso anche lo sguardo
dell’unica persona che mi abbia mai veramente capito, e con cui io sia stato
profondamente me stesso. Un uomo grande, geniale. Che mi ha insegnato tante
cose. La mente superiore che ha costruito tutto questo”. Così dicendo si voltò
in parte per indicare con orgoglio l’Arcadia.
Quella stessa candela che rischiarava il tavolo gli mostrò
una scia di luce argentea sul volto di Helèn. Una lacrima, un attimo prima che
quasi si rifugiasse impaurita tra le sue labbra. Aveva capito di chi parlava
Harlock. Dello spirito, della ‘vis’ che ora aleggiava nel computer centrale e
che permeava di sé ogni singolo elemento sull’Arcadia. Finalmente iniziava a
comprendere. Il dolore di Harlock, il suo rapporto con l’ingegnere.
“Perché quella lacrima?” Chiese Harlock che mai avrebbe
pensato di udire ciò che invece sentì.
“Anche io ho ucciso qualcuno che amavo”.
Harlock raggelò. “Tu?” chiese incredulo.
Helèn il capo chino, con le dita portò via rapida un’altra
lacrima. “Non ho saputo amare abbastanza. Non ero dove avrei dovuto essere
quando lui aveva bisogno di me, ed è morto… da solo, col mio nome sulle labbra.
Unicamente per colpa mia”.
Helèn senza rendersene conto scuoteva lievemente il viso
mentre parlava. “Dietro ad una porta rimasta chiusa”.
Harlock incurvò il sopracciglio ed alcune rughe si formarono
sulla fronte. Ricordò il gesto avventato di Helèn nell’aprire la porta poche
ore prima ed il velo di angoscia e paura che aveva letto nei suoi occhi.
Lei allora aveva amato, amato profondamente un uomo che ora
non c’era più. Harlock provò sensazioni contrastanti avvertì la gelida carezza
della gelosia seguita però dal caldo alito del sollievo. Quanto ancora ignorava
di quella donna e nonostante tutto non gli importava, sentiva di sapere di lei
tutto ciò che era necessario. E per i pochi istanti in cui erano stati vicini
l’aveva sentita stranamente sua, come se gli fosse appartenuta da sempre.
Helèn cercò di versarsi dell’altro vino, ma la bottiglia si limitò
a tintinnare contro il bordo del bicchiere, senza donarle il suo prezioso
contenuto. Ci pensò Harlock aiutandola, ma Helèn non bevve, si alzò quasi
gelosa di quel dolore, dirigendosi rapida alla grande vetrata. Sembrava che
guardasse fuori, ma in realtà ciò che vedeva era il volto di chi non c’era più.
“Era molto importante per te?” le chiese lui seguendola con
lo guardo.
“Lui era il mio mondo. L’unica persona che avesse reso più
sopportabili i miei giorni lontani dalla Terra. Il suo sorriso era il sole che
non mi scalderà più, la sua voce il vento che non mi carezzerà, i suoi occhi
azzurri il cielo nel quale non mi perderò mai più. Torna ogni notte a
visitarmi.” Helèn affondò il viso tra le mani per nascondere il suo dolore.
Quelle parole furono per Harlock uno stiletto rovente al
centro del petto. Non comprese, non volle comprendere. Si limitò a guardare le
spalle di Helèn scosse da un dolore che percepì tanto più grande di lei.
“Ti prego non… non chiedermi più nulla”. Gli disse implorandolo
con lo sguardo.
Quell’uomo chiunque fosse, aveva voluto dire tanto per lei ed
anche in questo erano simili. Quanto dolore la vita pareva non aver risparmiato
neanche a lei.
“A quanto pare io e te abbiamo perso coloro che amavamo di
più e ci portiamo marchiato dentro Il nostro personale inferno”. Disse
lentamente e amaro Harlock, sentendo per la prima volta di poter condividere la
sua angoscia con qualcuno.
Raggiunse Helèn abbracciandola dalle spalle, più alto e possente
di lei la strinse dolcemente tra le braccia. Lei non poteva scorgere il suo
volto, così Harlock per una volta lasciò che la sua maschera si sgretolasse,
sciogliendosi piano. Helèn accolse con piacere quell’abbraccio benefico.
“Non c’è notte in cui non gli senta pronunciare il mio nome”.
Harlock la strinse ancora di più come a voler assorbire con il corpo il suo
dolore. Lentamente lei si abbandonò a quell’abbraccio decontraendo i muscoli,
la flebile luce che proveniva dall’esterno disegnava sul pavimento una sola,
lunga armoniosa ombra scura.
Helèn si voltò adagio. Per guardare l’uomo che sentiva di
amare, l’unico con cui aveva condiviso tanto, in così poco tempo. A cui si
sentiva tanto vicina. Lo guardò teneramente grata. Lui le mise una mano dietro
al collo e facendolo con il pollice le portò via quello che restava di una
lacrima. Poi continuando a fissarla le passò il pollice sulla bocca
carezzandole dolcemente le labbra morbide. Helèn inclinò il viso per accogliere
quella carezza.
Harlock non distolse mai gli occhi da quelle labbra in attesa
di farle sue. Si chinò e le assaggiò lentamente a più riprese. Come quando si
desidera ardentemente assaporare un cibo e lo si fa a piccoli morsi affinché il
piacere duri più a lungo. Tenendo lo sguardo avvinto al suo. Ad ogni distacco
dalle sue labbra benché breve Helèn trasaliva come privata della vita stessa. Era
come se il dolore di due anime si fondesse per ottenere conforto dall’altra. Poi
Harlock le imprigionò la bocca con la sua cercandone con voluttà la lingua. A
quel tocco così intimo e passionale ad Helèn mancò il terreno sotto i piedi e
si sostenne a lui mentre ogni singola parte del suo corpo si accendeva per
quell’uomo impetuoso e travolgente. Lui la strinse ancora più a sé per
percepirne il dolce tepore. La sua bocca si muoveva ardita cercando e
disegnando percorsi di piacere inesplorato. Si chinò lievemente prendendola in
braccio con un solo, semplice gesto, senza smettere di baciarla mai per
portarla sul suo letto.
Un boato immenso li fece trasalire. Il sordo tonfo di
qualcosa che dall’esterno si era pesantemente infranto contro la vetrata li
fece sussultare. L'Arcadia colpita vibrava vistosamente. Seguirono altri colpi
sempre più rapidi e violenti.
NOTE
*Estintori ad onde d’urto di mia
invenzione.
Questo capitolo
è dedicato ad Harlocked. “We are waiting for you, my darilng”.
:-* Benvenuta Divergente Trasversale.
Grazie sempre
a tutti coloro che settimana dopo settimana continuano a leggere e seguire.
Grazie a chi mi manda messaggini privati non appena posto ed a chi formula
ipotesi che scaldano il cuore… vi adoro tutti!
Un grazie
speciale a chi ogni settimana mi riempie di gioia lasciando una rec. Facendomi
così sapere cosa ne pensano ed indicandomi la via, siete fonte perpetua di
ispirazione. Grazie a tutte.
|
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Capitolo 14 *** L'ONDA ANOMALA ***
Come le
onde del mare nel loro immutabile fluttuare a volte rendono ciò che hanno
sottratto alla Terra, in egual maniera le onde del destino nel loro divenire
dal passato al presente, talora restituiscono quello che un tempo ci hanno
portato via.
14
L’ONDA ANOMALA
Entrambi si voltarono di scatto, guardando fulminei, verso la
vetrata.
Helèn spaventata. “Co… cosa è stato?"
"Meteoriti". Il volto di Harlock era di colpo una
maschera cupa.
"Presto in plancia!" Le disse guardando fuori con
apprensione. "Con i deflettori in avaria*, bisogna evitarle ad ogni costo.
Abbiamo già troppi danni non ne occorrono altri, non ora!"
Così dicendo la mise giù correndo via rapidamente. Helèn lo
seguì non ancora pienamente in possesso delle sue facoltà.
Il metallo dell'Arcadia vibrava ad ogni colpo, stridendo
nell'assorbire la potenza degli impatti.
Dal ponte di comando, Harlock al timone fece segno ad Helèn
di utilizzare l'unica postazione monitor di cui aveva ripristinato le
funzionalità.
La donna, in basso rispetto ad Harlock, attendeva ordini.
"Helèn sarai il mio pilota. Il mio ufficiale di rotta,
guidami!" le disse con piglio.
La nave continuava ad essere scossa, investita a più riprese
dai frammenti di Universo di quello sciame meteoritico.
Helèn guardava il monitor cercando di capire, prevedere la
traiettoria di quella tempesta di veri e propri asteroidi che li stavano
investendo. Con i sensori a lunga gittata ed il sistema di autoriparazione in
avaria, ogni altro danno sarebbe potuto essere letale.
Si guardò intorno, l'Arcadia le parve un valoroso combattente
in balia dell’avverso destino, senza né armatura, né scudo, mentre quegli urti
sembravano scandire il tempo che le restava. Usare le armi sarebbe stato
inutile, erano solo in due. Tutto dipendeva da lei.
Si riebbe. Guardò i monitor davanti a sé. "Tutto a
dritta capitano!" urlò decisa. "Cosi'… bene, tenere la rotta e ora
tutto a babordo. Presto!".
Harlock piantato al timone, energico, risoluto, lo sguardo
fisso innanzi a sé eseguiva con precisione le manovre. Per un attimo guardò
Helèn concentrata nel compito che le aveva affidato, riponeva in lei totale
fiducia.
L'Arcadia lentamente obbediva al suo capitano ondeggiando
vistosamente. Quei corpi celesti sfrecciavano veloci sfiorandoli.
"Abbattere la chiglia presto, tutto a ponente".
Gridò la donna. Un'altra piccola formazione di meteoriti venne evitata per un
soffio. "Mantenere la rotta capitano. Alla via così".
La nera cupola dell’Universo sovrastante pareva oscillare
accompagnando i movimenti dell’ Arcadia. Ogni tanto Helèn distoglieva lo
sguardo dai monitor per voltarsi ed osservare dal basso Harlock.
Il timone scricchiolava per il vigore dei rapidi e potenti movimenti
delle sue braccia, ai quali imprimeva una forza quasi rabbiosa dettata dalla
volontà di salvare la sua nave.
Helèn fu impressionata dalla titanica determinazione di
quell'uomo che, pur con una limitata visione oculare, riusciva a far spostare
una corazzata lunga un chilometro come fosse stato un piccolo veivolo, con una
precisione che la sconcertò. Da quella postazione Harlock le parve ancora più
imponente, incrollabile. Le gambe divaricate, il grande mantello che ondeggiava
con lui, accompagnandolo nei movimenti, i lineamenti del viso contratti, la
mascella serrata, lo sguardo prepotentemente sensuale.
"La nave beccheggia capitano, correggere la rotta 4
gradi a babordo… perfetto… mantenere la rotta!" Disse d’un fiato.
L' Arcadia gemeva sforzata dai rapidi movimenti, il metallo si
lamentava, l’Universo sembrava sbuffare e gorgogliare mentre lo scafo lo fendeva prepotente.
Helèn sorrise realizzando che stava contribuendo a
determinare la rotta della mitica, grande Arcadia col suo leggendario capitano,
il più temuto condottiero di tutti i tempi, e lei, lei era lì con lui. Solo
pochi mesi prima non lo avrebbe mai creduto possibile.
Ad un tratto, controllando i monitor si trovò ad un bivio.
Due grossi sciami meteoritici che correvano quasi paralleli stavano per
colpirli, potevano evitarne solo uno. Non c'era il tempo di chiedere ma solo di
decidere. "Presto tutto a tribordo. Presto Capitano!" Disse in
apprensione.
Harlock con entrambe le mani utilizzando anche il proprio
corpo per imprimere forza alla manovra, fece roteare rapidamente il grande
timone tutto a destra. La nave scarrocciò rapida. In quegli istanti, nei
difficili movimenti che compiva con apparente facilità spostando il pesante
timone era come se lui e l’Arcadia divenissero un solo corpo. Come se l’uno
fosse stato creato per l’altro e viceversa.
L'impatto con l'altro gruppo di asteroidi fu inevitabile.
Helèn perso l’equilibrio fu scaraventata lontano dalla postazione. Harlock si
resse al timone con tutta la sua forza, digrignando i denti e tentando di
ridurre al minimo il rollìo della nave. Quando nuovamente guardò in basso non
la vide.
"Helèn? Stai bene? Helèn?" La voce era ferma ma
allarmata.
"Si, scusa ho dovuto fare una scelta". Fece lei
massaggiandosi un fianco e tornando al suo posto. Lui abbozzò un sorriso, fu il
suo modo per dirle che aveva approvato la sua decisione.
Helèn comprese. "Capitano, credo che il peggio sia
passato”. Disse pensando a loro due come alla mente ed al braccio. “Alla poggia!”
fece posando due dita sul ciglio destro.
"Il computer non riporta la presenza di danni gravi
all'esterno capitano". Disse soddisfatta guardandolo e regalandogli uno
dei suoi sorrisi solari. Quindi lo raggiunse veloce sul ponte di comando da una
delle scalette che lo collegavano alla plancia.
Lui la fissò impenetrabile. Era provato. "Sei un ottimo
pilota Helèn". Si limitò a dire. Era ovvio che la poesia del bacio di poco
prima si era del tutto dissolta, correndo via come le meteoriti. "Notte
Helèn".
"Notte Harlock". Rispose lei seguendolo con lo sguardo
sparire nell’oscurità del corridoio, fino ad udirne solo il cadenzato incedere.
Il passo deciso e sicuro, il lento ondeggiare del mantello sfrangiato, il
movimento ritmico della spada sul fianco. Si era nuovamente rinchiuso nei profondi
recessi del suo spirito, pensò. Era già tornato a camminare tra i brandelli
della sua anima.
Harlock meditabondo si avviò lentamente al computer centrale.
Qualche ora dopo, nei suoi alloggi attese amaramente che la
solitudine insonne venisse a fargli compagnia. Non si fece attendere molto,
percepì il setoso frusciare delle sue lunghe vesti cineree. Ne intravide il
profilo tra le ombre dei drappi del suo letto. Le sorrise beffardo, stappando
una bottiglia e sollevandola come per un brindisi e bevendone direttamente il
dolce nettare ambrato. Sarebbe stata una lunga notte si disse. Doveva mettere
in ordine pensieri e sensazioni. Ne aveva bisogno ogni qual volta l'intricato
ginepraio del suo essere veniva scompaginato. Sapeva che entrandovi le spine
acuminate lo avrebbero ferito ma tutto faceva parte di quello strano rito
espiatorio che gli occorreva per temprare la forza e la volontà che lo tenevano
fermamente saldo da oltre cento anni. Era un duro viaggio dentro se stesso, dal
quale, pagato il tributo, ne usciva rigenerato ma con l'acre sensazione ogni
volta d'aver perso qualcosa. Qualcosa di importante.
Helèn raggiunse il suo pennuto paziente in infermeria, lo
nutrì con del pesce in scatola. Mentre lo carezzava dolcemente, acciambellato
in una cesta sulla sua scrivania, pensava ad Harlock, al gesto di proteggerla
quando avevano trovato Tori. L'aveva spinta dolcemente dietro di sé per farle
da scudo. Era stato un comportamento spontaneo, protettivo. Ripensò
all'intensità dello sguardo che le aveva donato quando era sotto la doccia e a
come, dopo, entrambi erano riusciti ad aprire i loro cuori, o ciò che ne
restava.
Chiuse gli occhi, un brivido di piacere la percorse,
ripensando ai suoi baci caldi, pieni di una passione generosa che non aveva mai
provato prima. Quei baci erano pregni di un’ immensa voglia di amare ed essere
riamato. Nel suo sguardo leggeva chiaro uno spasmodico desiderio di amore e
pace. Un sentimento inespresso che desiderava solo venir fuori.
Amare Harlock era come essere investiti da un'onda anomala.
Imprevista, immensa, che sorprende e travolge, all'improvviso
completamente, strappando il respiro ma che non disorientava. Le sue braccia
forti erano l'ancora a cui tenersi aggrappati, il suo sguardo il porto di
quiete dove essere tratti in salvo.
Ma poi come sempre accadeva, improvvise si innalzavano alte
ed invalicabili le mura che aveva eretto a protezione delle piaghe del suo
cuore. Ma solo l'amore guarisce le ferite… non il tempo. Pensò, lei lo sapeva
bene.
Helèn immaginava quei sette guardiani di pietra e ghiaccio: solitudine,
rimpianto, tormento, rimorso, nostalgia, disperazione e impotenza; erigersi colossali
e spaventosi a difesa di enormi mura spettrali.
Non ne aveva paura, si disse. Li avrebbe vinti tutti, uno ad
uno. Avrebbe espugnato il suo cuore e lo avrebbe fatto a modo suo. Avrebbe colmato
i suoi neri silenzi con bianche parole. Spazzato via il temporale della
malinconia con il sole della comprensione. Soffiato via la solitudine che si
nutriva di se stessa, portando alla luce quanto vi era ancora di bello nel suo
cuore. Colmato l'amara nostalgia con nuovi dolci ricordi. Sarebbe stata il suo
conforto, la sua protezione durante le intemperie. Ora era pronta ad amare,
pronta a donare.
Era come se Harlock si fosse perso nella sua disperazione,
rifuggendo qualunque cosa potesse portargli dolcezza, speranza, pace. Era come
se dovesse espiare. Ma cosa? Si chiese se fosse tutto dovuto alla morte di
Torchio, del quale si incolpava. O se non fosse invece solo paura di amare?
Dal cassetto della scrivania prese un suo vecchio porta
documenti e ne tirò fuori un foglietto ripiegato. Era una foto segnaletica di
Harlock di qualche anno prima. Sorrise divertita, non gli rendeva affatto
giustizia. Oltre al numero SS00999 sotto la fotografia c’era scritto: 'Un
criminale, un terrorista, una minaccia per il genere umano'. Guardò ancora
l’immagine. L’aveva con sé da tempo, per lavoro, insieme a quelle di molti
altri criminali, ma aveva conservato solo la sua. Perché? Non ci aveva fatto
caso allora. Perché l'aveva tenuta?
Il mattino dopo un Harlock insonne si era messo subito all'opera.
Dopo qualche ora non vedendola si era recato alla sua cabina bussando
irrequieto. Nessuna risposta. Spalancò la porta col piglio indispettito del
comandante, ma il letto era intatto. Non vi aveva dormito. Si recò quindi in
infermeria. E lì la trovò alla scrivania.
Dormiva, il capo mollemente adagiato sul braccio disteso, il
respiro flebile e regolare. Il suo bel profilo faceva capolino tra alcune
ciocche di capelli, la bocca era semi dischiusa. Cambiando idea decise di andar
via non svegliandola, ma Tori vedendolo gracchiò forte saltandogli su una
spalla, iniziando poi a sistemarsi le piume.
Helèn si svegliò di soprassalto. "Che succede?"
"Il sole è sorto da un pezzo dottore!" fece ironico
lui.
"Il sole? Che sole?" Chiese lei sapendo che il buio
astrale li avvolgeva costantemente. "Sai Harlock se non sapessi il
contrario, direi che hai vissuto sulla terra anche tu". Disse
stiracchiandosi.
"In cucina c'è del caffè, forza c'è molto da fare".
Disse lui terminando la frase di spalle allontanandosi.
Dopo il duro lavoro del mattino, nel pomeriggio Harlock la
convocò nelle sue stanze.
La porta era aperta. Helèn lo vide in piedi, una mano posata
sulla scrivania, accigliato, mentre guardava alcune grandi carte nautiche che aveva
srotolato. Senza alzare il capo le disse. "Accomodati Helèn".
Ma come faceva quell'uomo ad avvertire sempre la sua
presenza? Forse davvero aveva sette sensi?
Indicandole un punto sulla carta le disse. "Ho fatto
delle ricerche, so dove li tengono".
"Sai… sai dove sono?" fece sorpresa lei.
"Sono dei malfattori piuttosto abitudinari e presuntuosi,
non cambiano mai il loro modo di operare. Si disfano presto del loro bottino.
Li portano sull'ottavo astro del sistema stellare di Gora, Tocharga. Lo conosci?"
"Si è un pianeta inospitale, ci sono stata".
Rispose pensosa Helèn.
"E’ per questo che li tengono lì”. Proseguì lui.
"Ho valutato tutte le ipotesi, le due migliori sono, o di liberarli mentre
sono ancora rinchiusi in quella specie di galera, o durante il trasferimento,
poco prima loro della vendita".
Helèn assorta rispose. "Siamo solo in due, credo che la
soluzione migliore sia prima che avvenga lo spostamento dei prigionieri. Non
vorrei coinvolgere civili. Certo questo riduce le nostre chance ad una
sola".
"Avevo pensato ad una manovra diversiva
dell'Arcadia". Le disse lui guardandola. "Bisogna scoprire quando ed
a che ora ci sarà il trasferimento".
"Avevi pensato a qualcosa? Io ho ancora le mie divise
della Gaia Fleet ed i ‘pass’ non credo li abbiano cambiati".
Harlock inclinato il capo la guardò colpito ed un lampo
attraversò il suo occhio. "Sai cosa
rischi?"
"Certo che lo so! Ma ogni tua battaglia, ora è la
mia". Rispose seria la donna.
Harlock la scrutò ammirato quasi a leggerle dentro, poi
proseguì. "Tra una quindicina di giorni la nave tornerà ad essere
operativa ci dirigeremo prima su Rain poi su Tocarga".
"Rain?"
"E’ un minuscolo pianeta disabitato lontano dalle rotte
consuete su cui potremo fare scorta di acqua e dove abbiamo un nostro deposito
di cibo, armi e munizioni”. Disse indicando un punto sulla carta.
"Bene!" assentì Helèn.
La ‘riunione’ sembrava terminata quando lei parlò. "Vorrei
chiederti una cosa. Domani vorrei preparare una cena un po’ diversa".
"Diversa?"
"Si domani sulla Terra sarebbe stato Natale**".
"Natale? E tu come lo sai?"
"Ho un mio calendario terrestre. Lo so che ti sembrerà
strano, ma per me che ci sono nata, mantenere in vita alcune tradizioni è
importante. Va bene per te?"
"Certo". Rispose lui non sapendo bene cosa
aspettarsi.
Il giorno dopo per Helèn fu un continuo canticchiare per
tutta la nave. Svolazzava tra i corridoi cantando motivetti natalizi che
riportarono Harlock indietro di un secolo. Lui si limitava ad osservarla in
parte divertito, in parte affascinato perché quella donna, nonostante tutto,
conservava una fresca voglia di vivere che le invidiava.
Helèn trascorse anche un'oretta al pianoforte. Harlock le
aveva detto che poteva suonarlo ogni qual volta ne avesse avuto voglia, ma lei
lo faceva solo quando sapeva che lui era altrove.
Le note risuonavano propagandosi piano per tutta la nave, che
silente, con tanti corridoi e pareti di metallo, fungeva tipo da enorme cassa
di risonanza.
Harlock ovunque fosse si interrompeva e ascoltava quella
musica assorto, rapito.
Poggiava le spalle ad una parete, piegava una gamba, incrociava
le braccia al petto, chiudeva gli occhi e riportava alla mente paesaggi della Terra
che non c'erano più, ma che come diceva Helèn avrebbero rivissuto nel loro
ricordo.
Gli piaceva molto sentirla suonare ma non glielo aveva mai
detto. Rispettava il suo spazio e faceva ritorno in camera sua solo quando era
sicuro che lei avesse terminato. Sfiorava i tasti ancora tiepidi del vecchio
pianoforte e pensava a Tochiro, alla loro giovinezza svanita come neve al sole
della verità. Presto, troppo presto.
Tori dopo le amorevoli cure che il medico gli aveva riservato
non la lascia mai. Dove era lei era lui. Ormai era la sua ombra.
Nel tardo pomeriggio una Helèn indaffarata era alle prese con
un bel pezzo di carne per la cena. Si era accorta tardi che, tutti i forni
sensing ray*** per scongelare rapidamente erano inutilizzabili. Avrebbero
pagato anche questo, quei dannati mercenari, si disse mentre cercava un soluzione.
Pensò che tagliando la carne a fette sarebbe riuscita a farla cuocere più
velocemente. Aveva fretta. Con la mano sinistra teneva la carne e con la destra
impugnò un grosso coltello.
Ed accadde.
La lama scivolò rapida sul ghiaccio della carne passandole
poi sul dorso della mano.
Helèn guardò paralizzata una vistosa macchia rosso scarlatto
aprirsi rapida sul dorso candido della sua mano sinistra. Non vi erano danni ai
tendini, la lama aveva leso solo i tessuti ma per lei che non coagulava poteva
essere pericoloso.
"Merda!" disse odiandosi per la sua stupidità e
tamponando la ferita con dei canovacci. Nel giro di pochi istanti il piano di
lavoro era ricoperto di sangue.
"Tori ascoltami, chiama Harlock. Va’ da Harlock!" Ordinò
disperata.
Il grosso volatile, gracchiò e dopo un paio di saltelli sgraziati
spiccò il volo.
La donna si augurò che avesse capito. Non aveva nulla con sé
per chiamare Harlock aveva lasciato il trasmettitore in camera ed i citofoni
interni erano all'ultimo posto nell’ordine delle cose da ripristinare sulla
nave.
Tori giunto alla porta del capitano iniziò a sbattervi contro
emettendo striduli suoni di richiamo.
Harlock allarmato spalancò la porta di colpo. Alzò gli occhi,
nere piume cadevano dall’alto lente verso su di lui. "Che succede?"
Tori volò lontano accettandosi però che lui lo seguisse.
Correndo Harlock chiese. "Dove andiamo? Da Helèn?".
Giunto davanti alla porta d’accesso della cucina, si bloccò rimanendo
un istante sbalordito guardandosi intorno. Non capiva dove Helèn fosse ferita,
vista l'assurda quantità di sangue.
"Non è nulla capitano è solo un piccolo taglio sulla
mano”. Fece lei con un sorriso tirato, cercando così di dissimulare la sua
profonda preoccupazione. “Devi prendere il kit per le suture". Aggiunse.
"Presto per favore".
In un istante il necessario fu sul grande banco della cucina.
Helèn parlando lentamente disse. "Ti dirò io come fare,
sutureremo come si faceva un tempo".
Grazie alle spiegazioni di Helèn, Harlock con insolita
maestria riuscì a richiudere con ago e filo la ferita in breve tempo. Helèn non
volle sedativi locali e certo provava dolore. Piccole gocce di sudore le
imperlavano la fronte. Ma ogni volta che Harlock alzava il viso per guardarla
lei sorrideva debolmente.
"Bravo un'altra delle tue doti nascoste. Punti piccoli e
perfetti, quasi tu lo avessi già fatto". Disse per mascherare il disagio.
Era pallida. “Hai dita lunghe ed affusolate da chirurgo”. Messasi in piedi, la
testa le girò. Sì resse al tavolo.
Harlock la sostenne prima di prenderla per portarla in infermeria.
Helèn non protestò. Lì assunse alcune compresse. Seduta alla scrivania si
teneva la testa con la mano destra.
Harlock per tutto il tempo non aveva pronunciato una sola
parola.
Continuava a guardarla cupo, accigliato.
"Su Harlock non è nulla! E' stato solo uno sciocco
incidente". Fece lei avvertendo quello sguardo e quel silenzio come macigni.
"C'è qualcosa che non mi hai detto". Rispose lui
finalmente.
I due si fissarono un
lungo momento come due pugili prima dell'inizio dell'incontro.
"Harlock sai che
non coagulo bene come gli altri".
"No tu non coaguli affatto Helèn!” replicò duro lui,
palesemente agitato. “Ho l'impressione che le tue condizioni di salute
peggiorino, o sbaglio?"
"Sbagli!” Fece lei concitata. “Era il tipo di taglio e
di lama". Spiegò frettolosamente.
"Helèn il taglio non era profondo, ma tu hai perso
troppo sangue". Disse lui poco convinto.
"Sto bene Harlock davvero. Sanguinare mi ricorda di
essere viva”. Poi guardando la fasciatura aggiunse piano. “Io adoro le
cicatrici e questa… avrà per sempre un valore speciale”. Lo guardò intensamente
come se stesse per dirgli addio. “Perché l'hai fatta tu". Così dicendo lo
spinse affettuosamente fuori dall'infermeria. "Dai! Ho da fare, tra poche
ore è Natale".
Chiusa la porta vi crollò appoggiandovisi. Gli occhi le si
riempiono di lacrime. Si mise la mano destra sulla bocca per non farsi sentire.
Disperata annaspò guardandosi intorno.
Era vero, stava peggiorando, lo sapeva. Lo aveva sempre
saputo.
Per quanto sarebbe riuscita a tenere nascosta la verità? La
vita le sfuggiva via come sabbia tra le dita.
Quando aveva raccontato ad Harlock dei danni della lunga
permanenza in criogenesi sul suo corpo aveva detto solo di non poter più avere
dei figli, accennando solamente ad un altro problema.
Questo era l'altro problema.
Harlock tornò in cucina. La quantità di sangue per un taglio
di pochi centimetri era impressionante. Helèn lo sapeva bene per questo aveva
mandato Tori a cercarlo. Ripulì in fretta, con rabbia. Poi preso il pezzo di
carne lo scaraventò con collera nel lavandino. Si guardò le mani sporche,
riflettendo che quel sangue, il sangue di Helèn circolava già da qualche tempo
anche dentro il suo corpo.
Note
Termini ‘tecnici’ da Glossario termini marinareschi. Ho
voluto immaginare l’Arcadia come un vero galeone in balia delle onde del
destino da cui la terminologia. Abbattere
la chiglia:inclinare su di un fianco. Beccheggiare:oscillare. Alla
via:mantenere la rotta. Scarrocciare:deviare lateralmente. Rollio:movimento
intorno al proprio asse. Alla poggia:mantenere la medesima direzione.
*Deflettore:
Utilizza un campo di gravitoni per avere un effetto repulsivo. Devia le masse,
meteore o detriti che possono entrare in collisione con la nave.
**Mai avrei
pensato quando molti mesi fa ho iniziato a scrivere questa fic che avrei
postato proprio vicino al Natale. Vorrà
dire che Capitano farà gli auguri a tutte noi J
***Forni Sensing-ray: I forni del futuro.
Grazie
sempre alla B-beta ed a chi si ferma a leggere e commentare.
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Capitolo 15 *** LA CENA ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
15
LA CENA
Il pomeriggio trascorse ma Helèn non si mosse dalla sua
cabina.
Harlock in apprensione andò ad accertarsi delle sue
condizioni di salute. Bussò con discrezione.
“Entra pure Harlock” rispose stancamente Helèn.
“Come stai? Come va la mano?”
“Meglio grazie, non era nulla di grave te lo avevo detto”.
Rispose abbozzando un debole sorriso.
Lui la osservò un lungo momento seduta sul suo letto, le
gambe raccolte al petto. Rannicchiata su se stessa.
“Sarei venuta io da te, tra poco, per dirti che l’idea della
cena di Natale era una vera sciocchezza. Non so come mi sia venuta in mente,
scusami”. Sospirò profondamente. “E’ che a volte… sento un forte bisogno di
normalità”. Poi guardando fuori avvilita, proseguì “non mi abituerò mai veramente
a questo buio… a questa vita. Ed il non sapere dove sono gli altri mi
attanaglia il cuore” concluse, incrociando per un istante il suo sguardo.
Harlock si incupì. In quegli occhi aveva letto un moto di vera
disperazione, che contrastava con i sorrisi pieni di speranza e voglia di
vivere che nei momenti bui lei gli aveva regalato. Qualcosa non andava, ora ne
era certo. Poi il pensiero corse ai suoi uomini. Strinse forte i pugni e fece
per uscire bloccandosi però sulla porta.
Quel lampo di spietata desolazione che aveva colto nello
sguardo di Helèn lo fece fermare. Lei che gli aveva salvato la vita, che aveva superato
completamente da sola momenti durissimi, pareva ora annegare nello sconforto. Sembrava
chiedergli aiuto. Decise, vincendo se stesso e la sua natura, di donarle quello
di cui in realtà lei aveva bisogno. Sentì che era giusto. Decise di regalarle
qualche ora di semplice spensieratezza, di quasi ‘normalità’, come l’aveva
definita lei”.
Quindi si voltò dicendo. “Peccato, eri riuscita ad
incuriosirmi”.
“Davvero?” rispose Helèn mentre un guizzo di luce le
attraversò le iridi.
Harlock sorrise tra sé. “Si” rispose
uscendo.
All'ora fissata, negli appartamenti di Harlock, Helèn aveva
preparato, una graziosa tavola con al centro una bella piantina di pomodori
agghindata per l’occasione come se fosse stata un alberello di Natale. Pochi e
semplici piatti facevano bella mostra sulla scrivania ben apparecchiata ed
illuminata da un grande candelabro.
Harlock uscendo dalla sua camera, vestito e sbarbato, guardò
il tutto accennando un sorriso divertito
e versandosi un bicchiere di vino. Ma quando fece per portarlo alle labbra, il
bicchiere restò a mezz'aria. Helèn era sulla porta.
Bellissima.
Indossava un lungo vestito di velluto rosso scuro stretto in
vita che le metteva in evidenza le curve del seno. Aveva raccolto i capelli e
messo una collana con un rubino. La fasciatura alla mano era stata abilmente
nascosta, mentre invece il vestito non nascondeva il resto, scoprendole in
parte morbidamente la schiena. Portava un paio di oggetti impacchettati.
"Buonasera Capitano". Disse sorridendo maliziosa,
consapevole dello sguardo che lui le aveva appena donato.
Harlock la salutò levando il bicchiere, e bevendone il
contenuto d'un sorso senza distogliere lo sguardo da lei. Tori volò ad
appollaiarsi su di una trave.
"Sei molto bella. Non sapevo avessi abiti simili a
questi”. Le disse spostandole cavallerescamente la sedia.
"Come ti ho detto sulla Horizon ero da poco, non avevo
in verità neppure disfatto i bagagli. Tenevo tutto in una cassa che mi sono
portata quando sono venuta qui, e tra le altre cose c’erano anche gli abiti. Ne
possedevo tanti, ne ho tenuti un paio". Fece impacciata.
Harlock le sedette
accanto. "Come mai?"
"Avevo una vita sociale piuttosto intensa sia prima che
dopo essermi arruolata". Non aggiunse altro ed Harlock non chiese.
Helèn facendo riferimento ai piatti disse con orgoglio.
"Come avrai notato non c'e' molto ma tutto ciò che mangerai stasera viene
in qualche modo dalla Terra".
Aveva la sua attenzione.
"Sugo di pomodori della mia piantina, così come le
spezie. La carne no, ma i contorni essiccati vengono dalla mia serra".
"La tua serra?" Fece incuriosito lui.
"Si sulla nave su cui ero prima, avevo una mia piccola
serra di piante provenienti dalla Terra. In quello che qui…” sorrise “sarebbe
considerato il giardinetto di poppa*”.
“Il giardinetto di Poppa? Ma è dove c'è la cabina del
capitano?" fece perplesso lui.
"Già… io vivevo lì... cioè vi avevo accesso". Rispose
mordendosi le labbra per la sua imprudenza.
Harlock la guardò riflettendo come, nonostante il tempo
passato ignorasse molte cose del suo passato.
"E come mai hai cambiato nave scegliendo la Horizon?"
chiese lui versandole da bere.
"Volevo allargare i miei orizzonti” rispose ridendo e
dribblando così la risposta."Al Natale Harlock!" disse alzando il
calice.
"Non avrei mai pensato di dirlo ma… al Natale". Fece
lui accostando gli eleganti bicchieri il cui cristallo produsse un lieve
tintinnio.
I piatti molto semplici sparirono in fretta.
“Sei una brava cuoca chi ti ha insegnato? Tua madre?”
Lo sguardo di Helèn si rattristò. “No, lei era ricercatrice
non aveva tempo per certe cose. Ho conosciuto dopo, nella mia seconda vita,
come la chiamo io, una donna speciale che mi ha insegnato”.
La cena proseguì piacevolmente, il clima era caldo e sereno.
Il tepore del camino, la luce delle candele, il riflesso di vino rosso e loro.
Helèn parlò tutto il tempo, era felice, gli occhi le
brillavano. Dopo tanto, tanto tempo festeggiava il Natale con qualcuno che
sentiva di amare profondamente. Raccontò di come lei e la sua famiglia preparavano
e festeggiavano quella festa speciale, lo rese partecipe di aneddoti buffissimi
che non riusciva quasi a dirgli per le risate che le provocavano.
Harlock la guardava rapito accompagnando le sue parole con lenti
cenni del capo, non solo perché era bellissima e radiosa, ma perché la sua
risata argentina era luminosa e contagiosa, i suoi occhi due limpidi laghi in
cui affogare. Sentì i muscoli del corpo lentamente rilassarsi. Le piaceva la
sua compagnia e lei era incredibilmente sensuale quando ridendo si portava il
dorso della mano alle labbra. Ammirava tutto di lei, la forza, il coraggio, la
tenacia e la splendida femminilità.
Dopo che la prima bottiglia fu terminata lei chiese, resa
spavalda dal vino "Capitano mi concede questo ballo?" così dicendo si
produsse in un inchino con tale grazia solenne che Harlock le sorrise affascinato
e divertito, decidendo di accontentarla. Decise di partecipare a quel gioco.
Aveva voglia di lasciarsi andare anche se per un solo momento.
Alzandosi le accennò un inchino con la mano dietro la schiena.
“Madame”.
“Monsieur” rispose lei.
Le cinse la vita, facendo scorrere piano la mano sul morbido
tessuto del fianco. Tirandola lentamente a sé. Quel semplice contatto diede il
via ad una magica alchimia, di cui entrambi furono immediatamente consapevoli.
Lei posò la mano destra sulla sua spalla. Iniziarono così un ballo fatto di
sguardi e desideri.
La musica risuonava nella loro testa, volteggiavano al ritmo
lento, fissandosi. Lo sguardo di Harlock era un nero mantello di velluto, gli
occhi di Helèn due stelle luminose.
Si udiva solo il fruscio delle sue vesti ed il cuoio degli
stivali di lui. Erano talmente armoniosi nei movimenti da sembrare che non
avessero fatto altro in vita loro. Lui l’accompagnava i fluidi movimenti e lei
sembrava volare sorretta da quello sguardo forte e dolce al tempo.
Helèn percepiva forte la sua eccitante e magnetica
sensualità. Ammirava i lineamenti del viso rilassati. Erano, se mai possibile,
ancora più belli. Ne studiò lo sguardo docile e lievemente divertito a cui
lentamente si andava abituando.
Harlock era un uomo speciale, affascinante e seducente. Dotato
di un regale e disarmante carisma del quale non pareva essere consapevole.
Danzando, percepivano la reciproca fisicità, si osservavano
studiandosi come se il resto dell’Universo avesse smesso di esistere.
Harlock ammirava la solare eleganza di Helèn. Tra loro c'era
una forte tensione sessuale che traspariva da come lui la teneva avvinta a sé e
dagli sguardi carezzevoli che lei gli donava, spostando piano lo sguardo, dai
capelli, alla fronte, alle labbra. L'attrazione che li legava, a volte sembrava
sommergerli incontrollabile. Lui le strinse un po’ di più la mano sinistra
provocandole un lieve dolore. Helèn sobbalzò.
"Scusami non ricordavo la ferita" fece contrito lui
bloccandosi.
"Bellissima quella cicatrice mi ricorderà di essere
stata felice". Rispose in un soffio lei non smettendo di guardarlo.
Harlock ne fu colpito. Non aveva mai pensato che ad una
cicatrice si potesse legare un bel ricordo. 'Felice?' Dunque Helèn era felice
con lui, sull'Arcadia?
Ballarono ancora per qualche tempo e come sempre accadeva il
pendolo del tempo rallentò i suoi rintocchi per prolungare la magia. Helèn
sopraffatta da una strana sensazione perse un passo urtando Harlock, alzò lo
sguardo verso di lui. "Ma… ma io te… abbiamo già ballato insieme?" chiese
turbata.
"No". Le rispose lui divertito, facendole fare un
morbido caschè. "Ma avremmo dovuto". Rispose facendola risalire piano
e sorridendole sornione. Stava bene, provava una serenità che credeva perduta.
Terminato il ballo, si separarono con riluttanza, restando un
lungo momento a fissarsi, senza bisogno di parole. Helèn disse qualcosa ma lui non
la sentì. Guardava solo il movimento delle sue labbra, ogni parola fu come
bacio.
Tornando al tavolo Helèn per la prima volta chiese.
"Perché qui è sempre così buio?"
Lui sollevato il sopracciglio, rispose. "Nel buio si
scorgono cose che alla luce sembrerebbero insignificanti". Bevve.
"Qui il tuo sorriso è luce".
La donna abbassò il viso sperando che il suo rossore non si
scorgesse.
“Prima pensando alla cicatrice che ti resterà sul dorso della
mano, riflettevo sul fatto che tu hai un modo tutto tuo di rielaborare ciò che
ti accade”. Proseguì lui.
"Quando ti viene data una seconda possibilità, il tuo
modo di vedere la vita cambia profondamente Harlock".
La conversazione aveva preso una direzione che ad Helèn non
piaceva, temeva che lui le avrebbe nuovamente chiesto della sua salute, così
per distrarlo gli disse con enfasi "E' l'ora dei regali".
"Di che regali si tratta?" chiese sempre più
incuriosito lui.
"Ma come? Non sai che Babbo Natale porta dei doni a
grandi e piccoli se sono stati buoni?" rispose con aria di finta saccenza.
Lui con una dolce tristezza nello sguardo, le rispose invece con
falsa innocenza. "Io sono stato buono?"
Helèn non poté trattenersi dal posargli teneramente un amano
su una guancia. Era come se in quella ingenua domanda avesse intravisto per la
prima volta un giovane uomo privato troppo presto dell’amore e della famiglia.
"Tu… sei buono Harlock".
Poi rendendosi conto del suo gesto, prese a raccontare la
storia del cugino, che un Natale per calarsi dal camino per poco non si era
rotto l'osso del collo. Rise di cuore e quella risata sincera e cristallina ebbe
il potere di scaldare il distaccato e freddo cuore di Harlock che si ritrovò a
chiedersi come mai il destino avesse portato una donna tanto bella e piena di
vita nella sua cabina quella notte di Natale.
Poi Helèn scartando un grosso pezzo di carne cruda e
lanciandolo con vigore in aria gridò "Tori questo è per te!" Il
grosso volatile lo prese al volo."Buon Natale!" gridò mentre il buffo
uccello si rintanava col bottino.
“E questo è per te Capitano!” Helèn gli porse una bottiglia
dall'aria molto antica a cui aveva legato un grosso fiocco rosso. "È una
bottiglia speciale" proseguì "Mi è stata regalata per un'occasione
davvero importante, ed io voglio donarla a te”. Poi scandendo piano le parole.
“È una bottiglia imbottigliata sulla terra. Non su Marte o su qualche satellite
terrificato. Quest'uva è nata e maturata piano al caldo sole della Terra".
Harlock colpito, presa la bottiglia l’osservò rapito. Ne
guardò il contenuto in contro luce, sfiorando con delicatezza ciò che restava
dell'ingiallita etichetta. Ne comprese il valore ed il significato che poteva
avere per Helèn ed apprezzò che volesse condividerla con lui.
"Grazie". Disse semplicemente guardandola.
"Buon Natale Capitan Harlock!" Helèn si sollevò
sulla punta dei piedi sfiorandogli una guancia con un tenero bacio. Lui rimase
fermo a fissarla con uno sguardo penetrante. Per quanti sforzi facesse quella
donna gli era entrata dentro.
"Beviamo?" chiese allegra Helèn.
Harlock aprì la bottiglia con garbata sicurezza. Il vino era
di un rosso cupo, intenso e liquoroso. Ne versò con lentezza il contenuto in
due ballon**, ne osservò il colore e ne sorbì l'odore, dopodiché porgendo un
bicchiere ad Helèn l'assaporò piano, lasciando che il palato ne cogliesse ogni
sfumatura e l'esofago si scaldasse lentamente.
Chiuse l'occhio immaginando un casolare, un assolato vigneto
una mattina di settembre, una brezza leggera carezzava l’erba accompagnata dal
cinguettio degli uccelli, una dolce collina, l'abbaiare lontano di un cane, una
donna che carezzando l’animale lo salutava, una volta raggiunto lo guardava con
dolcezza infinita sorridendogli.
Spalancò l'occhio turbato. Quella donna aveva il volto di
Helèn. La guardò accanto a lui, il bicchiere in mano, gli occhi chiusi, le
labbra lucide stavano ancora assaporando il liquore. Lei si ridestò sentendosi
osservata. Sorrise ma il suo sguardo era velato di tristezza. "Scusa ero
lontana” disse malinconica “Ero su di una verdeggiante collina".
Harlock per dissimulare l’effetto che l’immagine e quelle
inspiegabili parole avevano avuto su di lui si affrettò a dire piccato "E’
davvero un vino speciale, sicuramente vale una piccola fortuna. Avevi amici facoltosi
per ricevere regali del genere".
"Come ti ho detto avevo un'intensa vita sociale". Rispose
semplicemente lei.
"Perché aprirla stasera?" la rintuzza lui che ha
deciso di sapere.
Helèn si fece seria. "Natale con te è un evento
speciale, forse sarà l'unico Natale che passeremo insieme... magari per te non
è cosi... ma…" Non terminò la frase, lui avvicinatosi, le prese il mento
tra le dita, si sporse in avanti regalandole un lungo bacio.
Le sue labbra le parvero leggere come la brezza del mattino, ma
morbide ed intense come certe notti d’estate, calde e molli. “Buon Natale
dottore!" le sussurrò. Il suo alito dolce sapeva di liquore e di passione,
di desiderio e voglia repressa.
Poi spostandosi alla sua scrivania aprì con fare sicuro uno
dei cassetti prendendo un plico arrotolato. Vi vergò rapido sopra la sua firma
e lo porse ad Helèn dicendo "Io non vado in giro a fare compere come avrai
notato. Ma voglio donarti qualcosa di mio".
Helèn srotolato incuriosita il foglio di pergamena color
ambra, vi fece scorrere lo sguardo ma non riuscì a terminare la lettura. Gli
occhi le si inumidirono, saltò al collo di Harlock stringendolo forte, e
affondando il viso nell’ampio bavero. “Grazie è il più bel regalo che abbia mai
ricevuto" disse commossa.
Lui le aveva appena regalato una stella.
"L'ho scoperta diversi anni fa ai confini dell'Universo
conosciuto” le rispose stringendola debolmente. “Ora si chiama Helèn, ed è tua".
La donna avrebbe voluto fare molto di più che starsene lì
impalata con gli occhi pieni di lacrime. Sorrise, mordendosi il labbro
inferiore e guardando quella firma veloce e complessa in fondo al foglio.
Questo era Harlock, gli altri regalavano gioielli o costose
bottiglie di vino. Lui una stella.
Anche la bottiglia terminò.
Helèn non si rese conto di essersi addormentata. Fece per alzarsi,
si dovette reggere al tavolo, riconobbe che quel vino era davvero molto forte.
Era decisamente brilla. Anche Harlock si era addormentato sulla sua sedia.
Presa la pergamena e tolte le scarpe per non far rumore,
pensò di lasciarlo riposare. Lo osservò teneramente dormire. Il viso lievemente
chino da un lato, i capelli scompigliati che lo nascondevano in parte. Era
bellissimo il suo Harlock.
Si avvicinò e sussurrò "Buona notte amore mio"
sfiorandogli appena le labbra con bacio.
Uscì. La porta si chiuse. Harlock spalancò il suo occhio.
Non dormiva. Ripeté mentalmente le parole di Helèn 'amore mio'.
Helèn lo amava e lui non se ne era reso conto. Non era
lucido. Aveva bevuto decisamente troppo.
Uscì! Doveva sapere.
Note
*Giardinetto
di poppa: parte posta a poppa dei galeoni, munita di un balcone decorato con
piante (da cui anche‘vento a giardinetto’).
** Rossi importanti e di lungo invecchiamento richiedono il ballon,
calice di grandi dimensioni dal caratteristico aspetto arrotondato, che meglio
consente al vino di liberare i profumi complessi.
Capitolo
dedicato alle meravigliose donne che seguono recensendola ogni settimana questa
mia fic. Grazie questa cena è per tutte voi ;-P
Sempre
grazie alla favolosa B-Beta per tutto specialmente per i preziosi consigli :-*
Grazie alla
Mizu per l’azzeccatissima fan art. ;-)
Il Natale è
davvero alle porte AUGURI a tutti coloro che leggono anche dal nostro grande ed
unico Capitano che come vedete ha allestito un albero ‘a tema’per noi tutte.
Baci.
|
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Capitolo 16 *** SE TU SEI FIAMMA IO BRUCERO' E SARO' CENERE ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
16
SE TU SEI FIAMMA IO BRUCERO’ E SARO’
CENERE
Helèn non era in camera sua. Harlock la cercò spasmodico,
famelico.
Brilla come era, aveva sbagliato passaggio. Aggirandosi traballante
per uno degli immensi corridoi della nave, nella penombra, senza rendersene
conto, andò letteralmente a sbattere contro un Harlock immobile.
“Oh Capitano, ciao! Ma che ci fai tu qui?" gli disse
ridacchiando sollevando il viso.
Lui la guardò duramente, severo, inaccessibile. Sembrava una magnifica
statua di marmo. Non un muscolo del volto tradiva la minima emozione. Solo i
capelli ed il mantello si muovevano debolmente.
Helèn indietreggiò intimorita "Che c'è?" chiese
smarrita.
Il mantello ondeggiò. Harlock raggiuntala con un’unica ampia
falcata la prese per la vita, e con il solo braccio destro la sollevò di peso e
la schiacciò con irruenza contro la fredda parete di metallo alle sue spalle. Facendo
così aderire i loro corpi caldi.
Con una mano le cingeva saldamente la vita, l'altra era poggiata
sulla parete a pochi centimetri dal viso di Helèn.
A causa di quel brusco movimento le scivolarono via dalle
mani scarpe e pergamena, lo chignon si sciolse, ed i capelli le ricaddero
morbidamente sulle spalle, sprigionando nell’aria un tenue profumo.
Così sollevata era alta quanto lui. Lo guardava dritta in
viso. Prigioniera tra la parete ed il suo corpo aggressivo. Prigioniera di
quello sguardo.
Avvertiva sulla pelle del volto il suo respiro veloce, tiepido
e inebriante, mentre i muscoli del suo corpo si contraevano, come se stesse
combattendo una battaglia contro se stesso.
I loro cuori erano in corsa. Battiti frenetici si
rincorrevano fondendosi, inseguiti da sensazioni vaste e nuove, alla ricerca di
risposte su quel loro sentire.
"Ha… rl… " sussurrò impaurita, non potendo
distogliere lo sguardo, non capendo. Ma non fece in tempo a terminare.
Lui dopo averla guardata con una passione ed un ardore che le
erano sconosciuti, le imprigionò famelico la bocca con la propria, in un bacio
intenso e profondo, potente e prepotente che le spezzò il respiro.
Con rapidi ed impetuosi movimenti delle labbra gustò con fiera
voluttà il sapore morbido di quella bocca, di quella donna.
Si staccò da quelle labbra dolorosamente inappagato, il
respiro corto. Ne indagò per un lungo momento gli occhi, alla ricerca di una
risposta. Il suo sguardo era di una intensità tale che fece tremare Helèn. Poi
presala in braccio la portò nei suoi appartamenti chiudendo la porta con un
piede.
La stese sul grande letto continuando a baciarla con ardore infinito.
Non erano semplici baci, in quell’impeto vi era la volontà di volersi
appropriare di qualcosa per troppo tempo negato. Con fame voluttuosa, con
voglia quasi aggressiva, con dolore ed amore insieme. Come se lei fosse sempre
stata una cosa solo sua.
Helèn trascinata via da quel vortice immenso di passione
riuscì solo a posargli dolcemente le mani sulle spalle.
Era fuoco. Lava incandescente che fonde imprigionando ogni
cosa al suo passaggio, che riempie di sé ogni spazio. Ne ebbe paura e desiderio
insieme.
Sentiva le sue mani carezzarle con impeto il corpo inguainato
nel vestito di velluto. Brividi violenti le percorrevano la schiena come
elettricità. Avevano entrambi il respiro veloce e continuavano a guardarsi
quasi disperatamente. Come se fossero al centro di una tempesta che lungamente
attesa, improvvisa, si sprigiona strappandoti via ogni certezza. Una bufera che
solo loro potevano placare. Nell’occhio di quel vortice di sensazioni crescenti
c’erano loro e loro due soltanto.
Helèn tremava debolmente tra un misto di desiderio represso e
consapevolezza che nulla sarebbe stato più come prima. Harlock in un istante si
sbarazzò di mantello e giubbetto, cercando dopo averle baciato collo e spalle
con passione, di abbassarle la scollatura in uno spasmodico e necessario
bisogno di contatto con la sua pelle. Lei lo aiutò sfilandosi le maniche
dell’abito.
Lui la strinse. A quel contatto con la sua pelle Helèn
rabbrividì di piacere. Era calda, morbida, lievemente umida. Con i polpastrelli
sfiorò con languida lentezza i muscoli delle spalle scolpite a cui tante volte
si era ritrovata a pensare percependone i movimenti, i pettorali solidi e
lisci, armoniosi nonostante qualche cicatrice che ne esaltava la bellezza. La
testa le girava, temeva che un qualunque gesto avrebbe potuto far cessare
tutto. Ma stavolta Harlock non si sarebbe fermato. Perché ora sapeva che anche
lei lo voleva.
Scostando alcune ciocche di capelli lui iniziò a perlustrare
piano con le labbra la pelle del collo aspirandone la fragranza dolce e
inebriante, percependola come fosse l’aroma della vita, perché in quel momento
lei era proprio un anelito di vita vera ritrovata. Si sentì per la prima volta,
dopo tante vite, stranamente pago come quando dopo un lungo viaggio si torna a
casa, ed un odore famigliare ti accoglie aprendo la porta abbracciandoti,
coccolandoti e rassicurandoti lo spirito.
Non si chiese il perché di quelle sensazioni, chiuse il suo
occhio, assaporando quella piacevole sensazione, riaprendolo subito dopo in
debito di luce. Si scostò guardandola un istante, ansimando, ebbro di lei,
nello sguardo di Helèn c’era una tacita richiesta, che attendeva d’esser
accolta. Ciuffi ribelli di capelli gli coprivano in parte il viso, Helèn li
scostò dolcemente con dita tremanti per guardarlo. Sapeva che in quello sguardo
avrebbe trovato quello che cercava.
Il volto trepidante di Harlock era bellissimo, vi traspariva
una dolcezza che non conosceva, lo sguardo languidamente perso dietro l’attesa.
Helèn gli sorrise sollevandosi lievemente per baciarlo teneramente con tutto il
trasporto di cui era capace stringendolo forte a sé.
Si baciarono ancora ed ancora, mai sazi di quella
meravigliosa e naturale intimità, non era il corpo ad essere unito in
quell’intimo abbraccio ma l’anima. Stanca ma finalmente quieta come alla fine
di una lunga ricerca.
Ogni bacio non era un semplice contatto di labbra, ma era conoscenza
ed accettazione di sé, di quel sentimento troppo a lungo negato e soffocato.
Lui le sfilò il vestito rapidamente, lanciando tutto lontano, quasi con rabbia,
sbarazzandosi dei suoi abiti quasi con riluttanza, come se ogni istante lontano
da lei fosse un’agonia. Come se gli mancasse l’ossigeno.
Helèn stesasi, pudicamente si posò le mani sul seno, lui le
prese dolcemente regalandole un lungo e sensualissimo sguardo “Fai male per
quanto sei bella” sussurrò, posandole i palmi delle mani al centro del suo
petto per farle sentire l’assordante frastuono prodotto dal suo cuore.
Helèn sorrise commossa come solo a lui sapeva sorridere, due
lacrime scivolarono via, quel cuore batteva forte per lei.
Le lunghe dita affusolate delle mani di Harlock si muovevano
lente sulla sua pelle setosa del suo corpo quasi a volerne scoprire e catturare
ogni centimetro, sopraffatto dalle sensazioni che provava. Avide labbra la
esplorarono mai paghe, disegnandovi in punta di lingua arditi sentieri di
piacere, regalando ad Helèn sensazioni travolgenti che mai aveva provato.
Durante quel dolce supplizio Helèn teneva il dorso della mano
sulla bocca a soffocare piccoli gemiti, lui le baciò la mano prima di
allontanarla delicatamente con il viso per scrutarla, quasi a voler scolpire
nella mente quel viso, quella languida espressione.
Intimidita Helèn si sollevò leggermente per nascondere il
volto nell’incavo del suo collo, mentre sentiva le sue mani percorrerle
sensualmente la schiena. Aspirò profondamente quel momento e le sensazioni che
le regalava. I capelli di lui le carezzavano lentamente una guancia provocandole
brividi sottili. Gli baciò con esasperante lentezza collo e spalle, sentì il
suo respiro rallentare, scese assaporando con labbra umide i forti pettorali e
le valli dove la spalla si univa al petto. Sfiorò piano con le labbra la pelle
madida, sapeva di sale e sesso, elegante e magnetica come lui.
Poi il suo cuore perse un colpo, si sentì per un istante
persa.
Dai recessi più profondi del suo inconscio evocato dall’odore
di lui emerse un ricordo, un richiamo. A quella fragranza era legata una
dolorosa e profonda sensazione di distacco, di perdita, di vuoto incolmabile
che non seppe spiegarsi. Annaspò. Lei quell’odore lo aveva già sentito e
perduto, ne era certa. Si scostò alla ricerca del rassicurante sguardo di lui
per una risposta.
“Lo so” le sussurrò lui ma non le diede il tempo di
riflettere stendendola e baciandola ancora con voluttà. Harlock faceva fatica a
respingere le ondate di desiderio che gli impedivano di ragionare, che erano
ora il combustibile per quel fuoco, che finalmente bruciava nel profondo
dell’anima, sprigionando una forza incredibile che Helèn percepiva con ogni
corda del suo essere.
“Se tu sei fuoco, io brucerò e sarò cenere” gli sussurrò lei arrendendosi
completamente, decidendo di assaporare intensamente quel singolo momento prima
che il successivo lo cancellasse. Si inarcò lievemente spontaneamente quando
sentì la sua bocca impossessarsi del suo seno avvertendone il caldo abbraccio
della lingua. Aprendo gli occhi trattenne il respiro nello scorgere fiammelle
in quello sguardo che la carezzava.
Dopo aver fatto aderire i loro corpi, lui fece scivolare le
dita delle mani tra le dita della sue stringendole appena, puoi piano la
stretta si fece più forte e due corpi divennero uno e si accolsero senza più
riserve, o timori, nella silente accettazione che tutto quello stava a
significare.
Si strinsero l’un l’altra con tutta l’anima, consapevoli dei
loro corpi uniti e della luce vibrante che loro anime ora non più sole,
emanavano. Si guardarono, con questa meravigliosa ed inspiegabile
consapevolezza, labbra contro labbra, respiro nel respiro.
Un granello della grande clessidra del tempo si arrestò
sospeso a mezz’aria perché qualunque cosa fosse accaduta in quell’istante non
avrebbe avuto nessuna importanza.
Gli Universi separati si unirono. Fu come se vecchie ferite
si rimarginassero e nuove smettessero di perdere sangue. I loro cuori battendo
all’unisono si cercarono ritrovandosi ad occhi chiusi, lasciandosi annegare al
ritmo dei loro corpi e dei loro respiri.
Note
La frase del
titolo l’ho letta non ricordo neppure più dove, ma mi sembrava perfetta. Come
questo disegno nel quale mi sono casualmente imbattuta e che ovviamente appartiene a chi lo ha fatto, l'ho trovato su internet, non ricordo chi sia l'autore, mi spiace lo ringrazierei.
Capitolo
dedicato a tutte le splendide fanciulle che anelavano questo momento. La loro
prima volta io la vedo così, l’incontro tra due anime, le successive saranno
diverse ;-p
Un grazie
sempre alla silente B-Beta.
A causa delle festività natalizie il prossimo
postaggio potrebbe slittare al sabato o alla domenica. Vi aspetto tutte per il
post! Grazie a chi recensisce, a chi legge, a chi mi ha messo tra i seguiti o
preferiti. Una abbraccio e felice Natale a tutte.
|
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Capitolo 17 *** SO COME SEI ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
17
SO COME SEI
Helèn non avrebbe mai immaginato di svegliarsi con accanto la
sua assenza.
Si guardò intorno spaesata, allungando la mano verso il
cuscino alla sua sinistra, era freddo, sintomo che lui era via già da un po’.
Alcune parti del corpo le dolevano, a dimostrazione che non
aveva sognato, era stato tutto vero.
Vera la passione, l’irruenza, il desiderio. Reali i sospiri,
le sensazioni, gli abbracci. Ricordò il sapore dei suoi baci. Arrossì appena,
mentre i suoi occhi vagavano lenti sulla grande struttura del letto a
baldacchino, riportandole alla mente le dolci espressioni del viso di lui.
Avvertì il rumore della porta che si apriva ed i suoi passi
nella stanza accanto. Il cuore prese a batterle forte, come impazzito.
Entrando lui posò un vassoio su un basso mobiletto, girò
intorno al letto per averla di fronte. Era vestito di tutto punto, pantaloni,
maglione, stivali.
Lei si sollevò a sedere scontrandosi con uno sguardo
ermetico, corazzato e distaccato. In quell’occhio nero vi era solo il gelo di
una notte d’inverno. Si guardarono per un lungo momento senza proferire parola.
Lei era coperta solo in parte da un angolo del lenzuolo, iniziò a sentirsi a
disagio, a provare una spiacevole sensazione di freddo.
“Helèn” le disse con voce incolore “Volevo chiederti scusa
per ieri sera… il vino… non ero lucido, sono stato completamente avvinto da te
e dalle tue grazie. Non accadrà più. Hai la mia parola”.
La donna abbassò lo sguardo incredula. ‘No, non può essere
vero’ si disse concentrandosi disperatamente sulla valanga di sentimenti, che
quelle parole dure, come il grigio del cemento avevano provocato. Cercò di non
ascoltare l’inverno dilagante che stava sentendo al centro del cuore. Era stato
solo sesso si ripeteva, solo sesso. Lo ripeteva per convincersi, per trovare da
qualche parte la forza per reagire con dignità a quella situazione. La forza,
per affrontare lo sguardo dell’uomo che aveva appena rinnegato lei, ed una
notte d’amore.
Intanto cercava, sperando che lui non se ne accorgesse, di coprirsi
tirando il lenzuolo che però era rimasto impigliato da qualche parte, e non
voleva saperne di venir via.
Improvvisamente si sentì nuda ed indifesa, avrebbe voluto non
essere lì.
Con voce il più ferma che poté rispose senza guardarlo “Non
si preoccupi Capitano, sono maggiorenne, non c’è alcun problema”. Intanto
continuava lentamente, ma disperatamente, a cercare di liberare il lenzuolo
tirandolo. Un seno le faceva capolino tra i lunghi capelli.
Ad Harlock fece una tenerezza sconfinata vederla in quel
grande letto: sola, con i lunghi capelli che non riuscivano a celarne la nudità,
lottare per coprirsi. Le parve infinitamente fragile, piccola, in lotta con se
stessa per ritrovare coraggio mantenendo lo sguardo basso.
Capì d’averle fatto molto male, ma lo aveva messo in conto.
Erano ore che ci ragionava. Aveva trascorso la notte guardandola dormire ed
analizzando i propri sentimenti. Lei, il respiro lento, il viso dolce ed
appagato, aveva provato un sentimento dolcissimo, sfiorandole una guancia ed un
braccio ‘Chi sei veramente tu?’ si era chiesto fuggendo poi subito via da
quella passione che sentiva così forte e radicata. Come se ci fosse sempre
stata.
Aveva deciso che non l’avrebbe mai trascinata nel suo
inferno. Lei era pace.
Mai l’avrebbe costretta a vivere la sua non vita. Lei era
vita.
Non avrebbe permesso che la sua rabbia la travolgesse finendo
per corroderla, corrompendola. Lei era serenità.
Mai l’avrebbe trascinata nel buio della disperazione, nel
quale si aggirava da anni, la sua anima luminosa aveva diritto di splendere.
Lei era libera e tale doveva restare.
Era solo un fantasma, l’ombra di una vita precedente. LUI ancora
una volta avrebbe rinunciato a tutto.
“Ti lascio… rivestire” le disse voltandosi e facendo un passo
per allontanarsi.
Si arrestò di colpo, quasi che il suo corpo si fosse
autonomamente fermato impedendogli di fare il passo successivo. “Chi voglio
prendere in giro” disse con un filo di voce, stringendo forte i pugni.
Helèn alzò il capo incerta d’aver capito bene.
Lui si voltò di scatto. L’istante dopo la teneva tra le
braccia “Perdonami” le sussurrò baciandole tutto il viso. Annegò un istante nei
suoi occhi prima di baciarla ancora.
Helèn comprese la sua dilaniante lotta interiore, la strenua
battaglia personale che lo consumava e che costantemente viveva e di cui lei,
ora era parte. Comprese che quella durezza era solo una maschera per nascondere
la sofferenza. Gli mise un dito sulle labbra. Facendogli capire che aveva
compreso. Non chiese nulla. E ancora le sue labbra e ancora le sue mani*.
Lui la baciò, nel suo modo così unico, e la guardò con
quell’iride scura che sembrava voler racchiudere solo loro due in un Universo
che fosse solo il loro. Le prese il viso tra le mani “Perdonami, sono solo un
folle”.
Helèn, scosse piano la testa poi chiuse gli occhi lasciandosi
ancora una volta avvolgere dal calore della sua sicurezza, dal brivido caldo
della sua passione, dalla sensuale malinconia dei suoi sguardi che sembravano
solo volerle chiedere scusa.
Lui ritrovò le sue forme morbide e dolci. Il famigliare
tepore della sua pelle che profumava ancora di loro. Si disfece degli abiti,
guardandola quasi sorridente, ebbro di una strana felicità. Era come se si
fosse liberato da un giogo a cui lui stesso si era sottoposto. Aveva disubbidito
a se stesso, per la prima volta dopo tanto tempo. La baciò insaziabile con
impeto, poi dolcemente con la lingua le schiuse le labbra, in cerca della sua, voleva
sentire proprio ogni centimetro di quella donna, facendo aderire i loro corpi.
Helèn percepì il peso del suo corpo e la fiamma della sua
passione, si curvò naturalmente verso di lui, come un arco che si tende fino al
limite per accogliere la freccia che poi lo attraverserà. In quel solo istante,
sospesi nel vuoto e nel tempo, prima che la freccia lo abbandoni per
raggiungere la meta, arco e la freccia sono la stessa cosa. In pochi istanti
furono freccia ed arco, perché così volevano percepirsi. Lui si perse dentro
lei, parlando con i suoi occhi senza dire una parola.
Le onde di un interiore mare primordiale li lambirono
lentamente, coprendoli per poi sollevarli fino a trasformarsi in tempesta. In
maremoto che cancella le singole identità rendendole una sola. Il frastuono di
quelle onde, nascose il loro crescente piacere.
Poi Harlock si lasciò scivolare lentamente sul corpo di lei, respirando
affannosamente posò il capo sul suo seno, lasciandosi cullare dal movimento. Ad
Helèn venne spontaneo accompagnare il suo respiro, carezzandogli piano i
capelli.
“Non smettere…” le chiese stringendola “Vorrei sempre sentire
la tua mano... sul mio capo e restare così per l’eternità”. Helèn comprese che
in quella semplice frase, c’era tutta la dolorosa e stanca solitudine di
Harlock.
Sembrava voler gridare ‘BASTA’ a tutto quello che lo tormentava.
Poi sollevandosi un istante per guardarla negli occhi continuò “ciò che posso
darti è solo questo momento, lo sai”.
Gli occhi di Helèn si velarono di lacrime “lo so, io non ti
ho chiesto niente. Nessuno meglio di me sa che ogni momento può essere l’ultimo,
prenderò un attimo alla volta assaporandolo fin tanto che dura. Perché un
istante con te vale una eternità. Ma tu non allontanarmi”. Si strinsero
addormentandosi così senza che importasse dove iniziava l’uno e finisse l’altra.
Harlock si svegliò perché si sentì osservato. Helèn se ne
stava morbidamente poggiata sul suo petto, con una mano si teneva la testa e imprimeva
nel cuore quasi ritraendoli con lo sguardo, i particolari di quel viso
dolcissimo per racchiuderli nello scrigno della mente per sempre.
Inaspettatamente lui quasi intuendo ciò che lei stava facendo
disse “Voglio che tu mi tolga la benda e veda come realmente sono”.
“Non occorre. Lo so come sei. So cosa c’è sotto la benda,
l’ho sempre saputo”.
Lui senza attendere ancora, quasi ormai fosse una necessità
mostrarsi a lei interamente, con un gesto rapido se la sfilò tenendola stretta
nel pugno.
Lei lo guardò come solo una donna innamorata sa guardare il
proprio uomo.
“Sono un mostro” fece lui posando il capo sul cuscino.
Helèn sorrise stringendo gli occhi come a lui piaceva tanto
“Oh sì! Sei davvero brutto!”
“Ma non le vedi? ”
“Cosa, le cicatrici? No, non le vedo” rispose seria. “Non le
ho mai viste. Io vedo un uomo bellissimo e valoroso che insegue da sempre i
suoi ideali, per i quali sarebbe disposto a morire. Vedo un impavido
combattente che usa spada e pistola come non ho mai visto fare. Un comandante
fiero e responsabile.” Così dicendo baciò con delicatezza infinita quell’occhio
che mai più avrebbe rivisto la luce per scendere
poi l’ungo la cicatrice sulla guancia. Baci piccolissimi e delicatissimi. Poi
sorridendo “Hai fame? Io tanta.”
Dopo una ricca colazione si dedicarono ai danni che l’Arcadia
aveva ancora in sospeso. Trascorsero diverse ore, Helèn era in un corridoio che
andava liberato da alcune parti in ferro che erano crollate.
“Tori molla. Mollaaa… uccellaccio cocciuto, finirai per farti
male!”
Harlock attirato dalla sua voce la raggiunse.
Davanti ai suoi occhi si presentò un buffo siparietto.
La donna si stava contendendo disperata con Tori un piccolo
tubo di ferro che chissà per quale assurdo motivo l’avvoltoio voleva per sé.
Helèn arrabbiata non era disposta a cedere il mal tolto. Tori dalla sua tirava
col becco e sbattendo le ali a mezz’aria per lo sforzo, stava perdendo una gran
quantità di piume.
Harlock si avvicinò furtivo senza far rumore alle spalle di
Helèn, per aiutarla, Tori vedendolo arrivare mollò di colpo la presa.
Improvvisamente sbilanciata, per il contraccolpo, la donna
cadde indietro travolgendolo, poiché non lo aveva sentito arrivare. Finirono
entrambi per terra, e per la violenza della caduta Helèn perse uno scarponcino,
che volò in aria e venne afferrato proprio da Tori che rapido fuggì via col
bottino.
Lei esasperata stava per urlargli qualcosa contro, ma quello
che udì la bloccò.
Si voltò lentamente, incredula. Gli occhi spalancati.
Attonita.
Una risata.
Una risata piena e luminosa. Una risata bella e
liberatoria. Una risata calda e vera.
Dietro di lei, scorse Harlock semi sdraiato, col corpo
appoggiato sugli avambracci, il capo lievemente inclinato all’indietro. Rideva.
Era bellissimo, i capelli lievemente mossi, la testa
inclinata lasciava intravedere l’arcata superiore dei denti perfetti e le
narici. La fronte era distesa. Il petto vibrava debolmente.
Helèn si ricordò di quando la prima volta, in cui lo aveva
visto, si era chiesta di che colore sarebbe potuta essere la sua risata. Ora lo
sapeva.
Era azzurra.
Azzurra e limpida come il cielo della Terra dopo il vento.
Pura e trasparente come la sua anima. Fresca e chiara come la prima brezza del
mattino.
Gli occhi inspiegabilmente le si riempirono di lacrime. Era immensamente
felice per lui. Per nasconderle si lanciò al collo di Harlock. Lui la strinse
forte incredulo di quella meravigliosa sensazione che stava provando. Era come
qualcosa che fosse sempre esistito e forse era stato solo dimenticato. ‘Questa
è la felicità? ‘ si chiese. ‘Ma è giusto che io la provi?’
Helèn sciolta in quell’abbraccio lo guardò e comprese, benché
conscia di non conoscere tutti i motivi del perché lui fosse sempre così
malinconico, e si negasse la felicità, come se fosse schiacciato da un peso che
non comprendeva. Per lei era solo un giovane uomo che aveva diritto di vivere.
Fece cenno di sì con la testa e lui le asciugò quelle lacrime di gioia e
condivisione, tornando ad abbracciarla forte, respirando, profondamente
contento di essere in quel momento con lei, perché comunque fossero andate le
cose non lo avrebbe mai dimenticato.
Restarono così a terra. Poi Helèn titubante gli confidò una
sua sensazione ricorrente, della quale non aveva mai fatto parola. “Spesso ho
l’impressione d’aver già vissuto alcune situazioni con te. Come ad esempio
questa. Perché? ”
“Non lo so” si limitò a risponderle seriamente lui, tornando
a stringerla, sempre più consapevole che presto o tardi avrebbe dovuto dire ad
Helèn la verità. La verità su chi era, da dove veniva, e cosa aveva fatto.
NOTE
*Cit. da ‘Bambolina
e Barracuda’ © Ligabue.
Un abbraccio
caldo (cò sto freddo) alla mia B-Beta.
Un augurio
grande per il 2015 (ci vedremo ad anno nuovo con i postaggi regolari) a chi
legge silente ed a chi legge e commenta. GRAZIE e FELICE ANNO NUOVO questa
dolcissima fan art inviatami dalla Mizu a cui mando un bacio speciale è per
tutte voi.
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Capitolo 18 *** RAIN ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
18
RAIN
Ripresero a lavorare alacremente nonostante tutto non
dimenticavano mai il loro obbiettivo.
Liberare gli altri.
In serata Helèn entrò negli appartamenti di Harlock con il
vassoio della cena. Lui era seduto sulla grande sedia della scrivania, il capo completamente
reclinato, appoggiato sul bordo della spalliera, l’occhio chiuso, non si mosse pur
sentendola arrivare.
Helèn posato il vassoio si avvicinò dietro allo schienale
della sua sedia baciandolo dolcemente sulle labbra al contrario. “Che hai?” gli
sussurrò. Il suo alito era tiepido e profumato.
Lui non rispose.
“Hai mal di testa, vero?”
Lui aperto l’occhio “Come lo sai?” rispose guardandola.
“Lo so perché ne conosco la causa”.
Lui continuò a fissarla.
“E’ la visione monoculare. Il tuo occhio sinistro lavorando
da solo si stanca e questo ti provoca il mal di testa. E’ questo che spesso ti
rende accigliato? Dovresti riposare maggiormente la vista” così dicendo gli
mise con delicatezza una mano sull’occhio aperto.
Le sue dita fresche furono balsamo. “Per il mal di testa ho
un rimedio” continuò.
“Non prendo medicine Helèn” fece brusco lui.
“No è un rimedio naturale, si chiama serotonina”. Sussurrò
sulle sue labbra prima di baciarlo con dolcezza infinita. La sua lingua si
insinuò timidamente tra le labbra calde ed invitanti di lui. Con pochi abili tocchi
lui rispose subito a quel bacio, lasciando che le labbra si assaporassero sensuali
e le lingue si incontrassero languidamente riconoscendosi, in un approccio
fatto di tocchi gentili ed eccitanti al tempo.
“E’ questa la medicina di cui parlavi dottore?” chiese lui
sarcastico, abbozzando un sorriso.
“Caro il mio Harlock un bacio può regolarizzare il battito
cardiaco, stimolare la circolazione sanguigna ed abbassare la pressione
arteriosa, tutto merito dell’ossitocina” rispose lei fintamente impettita
riprendendosi il suo ruolo di medico.
“Che cos’è?” chiese lui sempre più divertito.
“E’ un ormone secreto dall’ipotalamo, la parte centrale del
cervello ed è definito anche l’ormone dell’amore”.
“La storia si fa interessante”. Fece lui tirandola a se ed
iniziando a baciarla con l’ardore che gli era consueto. Godendo come sempre di
quel magico contatto che si creava ogni volta che erano vicini.
Helèn sorrise “Credo abbia fatto effetto” disse infilandogli
le mani tra i capelli e rispondendo al bacio. Non avrebbe mai smesso di
baciarlo. I loro corpi rapidamente si accesero mentre invece la cena sul
vassoio divenne lentamente fredda.
Stesi sul letto, Helèn guardava come sempre rapita il grande
baldacchino del letto di Harlock. Lui se ne stava prono il viso tra le braccia
incrociate. “E’ tanto che volevo chiedertelo, questo cos’è? Da dove viene?” chiese
lei indicando con un largo movimento del braccio la struttura a rami del letto
a baldacchino.
“Cosa pensi che sia?”
“Sembra un albero o ciò che ne resta”.
“Esatto” continuò restando con la testa fra le braccia.
“Da dove viene?”
“Dall’unico posto possibile” proseguì amaro lui.
“Era un albero che cresceva sulla Terra, un albero speciale
che ho deciso di portar via da quello che restava del pianeta, l’ho fatto
pietrificare* ed ora in qualche modo vivrà per sempre”.
‘Vivere per sempre’ Helèn a quelle parole era saltata in
piedi sul letto noncurante d’esser completamente nuda. Con le dita ne sfiorò la
superficie liscia e fredda come fosse di cristallo. Non poteva crederci veniva
dal suo pianeta. “Perché è un albero speciale? Perché lo hai portato qui?”
Lui sollevò pigramente la testa donando un lungo sguardo al
suo corpo nudo lievemente illuminato dall’esterno. “Un tempo pensavo di poter
morire qui, tra i suoi rami”.
Lei gli si accoccolò accanto “Allora è un albero davvero speciale,
un giorno mi dirai perché. Anche io amavo gli alberi, erano la mia casa… un
tempo”. Si intristì, cambiando poi argomento. “Ma qualcosa ti impensierisce,
cosa?” chiese guardandolo.
“Domani saremo su Rain ci riforniremo di tutto ciò che
occorre e poi ci dirigeremo su Tocarga a liberare tutti, non sarà affatto
semplice”.
“Com’è Rain?”
Si voltò a guardarla. “Un piccolo pianeta, lo scelsi come
base-magazzino perché l’aria è respirabile ed è fuori da ogni rotta consueta, non
è un pianeta sicuro”. Disse scandendo le ultime parole.
“Perché si chiama Rain?”
“Semplicemente ci piove di continuo. E’ l’ennesimo tentativo
fallito dell’uomo di ricostruirsi una vita su un pianeta il più possibile
simile alla Terra. Ma nulla è o sarà mai come il nostro pianeta natio”. Così
dicendo terminò sprofondando nuovamente il viso tra le braccia.
“Sai ci sono persone che hanno dedicato e dedicano l’intera
vita alla ricerca di un pianeta uguale alla Terra. E ci credono fermamente”. Lo rimbrotto quasi
impacciata la donna.
“Di chi parli?” le chiese incuriosito e vagamente sospettoso
lui.
“Di nessuno” fece sbrigativa, ma ad Harlock non era sfuggito
il lampo di scuro dolore che le aveva attraversato lo sguardo. Quante cose
ignorava di lei. Ma non indagò, che diritto aveva di sapere? Lui che le
nascondeva la sua più atroce verità.
Helèn pose molte altre domande ad Harlock, adorava sentirlo
parlare, lui sempre così taciturno, il suono della sua voce era come musica e
l’affascinava ascoltarlo raccontare storie di pianeti lontani o di decisioni e scelte
fatte da Capitano nell’arco della sua vita. Era nato per essere un leader, per
essere libero.
L’Arcadia scese sul pianeta attraversandone lentamente la
densa atmosfera. L’atterraggio fu perfetto. La nave si adagiò su di una
piattaforma in metallo che poco dopo l’attracco si aprì facendola calare di
diversi metri nel sottosuolo. Harlock ad
Helèn scesero.
L’aria era pesantemente carica di umidità calda, torrida. Un’enorme
gigante rossa surriscaldava quel piccolo pianeta che possedeva ben cinque
satelliti di cui si intravedeva la rugosa superficie.
Helèn li guardava come rapita, mentre Harlock predisponeva
con un computer portatile ogni cosa per l’approvvigionamento idrico e rifornimento
di cibo e munizioni. La donna indicando i satelliti del pianeta gli gridò
sorridendo “Non mi abituerò mai a più di una luna”.
Lui ricambiò il sorriso, avrebbe voluto dire ‘anche io’ ma si
sarebbe tradito. Riprese a lavorare.
“Ma perché il pianeta è stato abbandonato?” chiese lei
continuando a guardarsi intorno.
Harlock si fece serio. “Non è sicuro. Ci sono degli animali
frutto di studi genetici ed incroci che furono portati qui per essere osservati,
studiati in un ambiente simile alla Terra, ma l’aria ricca di ossigeno li fece
iper-sviluppare, presero il sopravvento, fuggirono e da allora vivono allo
stato brado”.
Tutto era pronto, tubi per il rifornimento idrico, casse di
armi, derrate di cibo, ma anche parti di ricambio, tutto fu caricato
sull’Arcadia per mezzo di argani elettrici e piccoli robot.
Harlock si recò in un angolo dell’immenso aviorimessa. Tirò
via un grande telone. Un istante dopo il fragore del rombo potente di un motore
invase l’hangar riempiendone ogni angolo.
Helèn si voltò di scatto in quella direzione. Vide Harlock
arrivare in sella ad una grande moto nera su cuscinetti d’aria. Per un istante
le parve un cavaliere d’altri tempi a cavalcioni sul suo fido destriero. I
capelli mossi dal vento, lo sguardo sicuro e tenace, coraggioso ed intrepido, senza
paura dell’ignoto. Bellissimo.
“Qui è meglio circolare su mezzi veloci” le disse lui
sorridendo sornione porgendole un paio di occhiali da sole. Helèn rise, Harlock
la guardò interrogativo.
“Hai fatto mettere i teschi anche su questa”. Disse indicandone
di varie dimensioni sul davanti ed ai lati della grosso veicolo.
“Un mio antico amore”. Rispose lui inforcando gli occhiali.
Alla moto era collegato un rimorchio per il trasporto di
merci, lui vi sistemò il mantello, poi con agilità vi saltò sopra mettendo in
moto. Diede più volte gas sorridendo per il boato che aveva volontariamente
provocato. Si voltò a guardare Helèn “Sali?”
Lei montò dietro di lui ed Harlock partì come un razzo. Helèn
lo strinse forte cingendogli il petto con le mani e posandogli la testa sulle
spalle.
Fuori dal grande hangar furono accecati dalla luce, le narici
si riempirono di aria ed odori. Harlock perfettamente a suo agio, il vento
caldo sul volto, tra i capelli, percorreva veloce una specie di strada sterrata
tra la tanta vegetazione, sollevando un nuvolone di polvere.
Helèn stava bene, era felice, il vento che sapeva di erba e
terra le scompigliava i capelli, non avrebbe voluto essere da nessun’altra
parte. Inspirò profondamente, provava un’immensa sensazione di libertà sia
fisica che spirituale. Anche Harlock dovette provare qualcosa del genere perché
toccò con la propria quelle mani strette sul suo petto all’altezza del cuore.
La velocità era notevole, il motore rombava possente. Harlock
governava il mezzo a perfezione infondendo ad Helèn un grande senso di
sicurezza. Il vento portava via i pensieri, il sole scaldava la pelle e la
velocità rendeva l’aria più leggera. Entrambi avrebbero voluto che quel piccolo
viaggio, immersi nel sole, durasse per sempre.
Giunsero ad una isolata costruzione in metallo dal tetto
spiovente. Una casetta completamente in acciaio con grate orizzontali alle
finestre ed un piccolo ballatoio coperto.
Scesero, Harlock digitò un codice e la porta si aprì.
La stanza era arredata semplicemente con mobili anch’essi di
metallo,vi era una piccola cucina ed in un’altra stanza letto e bagno.
“Trascorreremo alcune ore qui” disse lui.
Helèn che mal sopportava quell’elevato tasso di umidità si
tolse giacca e cinturone con le armi buttandole su di una sedia. Rimase con
pantaloni ed una canotta. Cercò del caffè nell’attrezzatissima cucina e lo
trovò. Porse una tazza ad Harlock che la prese senza neppure farci caso.
Era lontano. Guardava fuori attraverso le feritoie della
finestra. Era tesissimo, la mascella serrata, forse viveva l’ansia di ciò che
li aspettava.
“Che hai?” gli chiese lei “Andrà tutto bene vedrai ce la
faremo”.
“Helèn… tu non verrai” disse con aria greve continuando a
guardare fuori.
La donna non poteva credere alle sue orecchie “c…cosa?”
“Ho deciso che resterai qui”.
“Pe…perchè?” fece incredula.
“Perché è una missione difficile quasi suicida, preferisco
che tu resti qui”. Rispose lui continuando a guardare fuori.
Helèn era fuori di sé “Guardami quando ti parlo!” gridò.
Harlock si voltò lentamente verso di lei, guardandola
accigliato, con l’aria cupa che gli era tipica.
“Dove vai tu vengo io” disse disperata lei.
“Non stavolta Helèn” fece serissimo continuando a fissarla
immobile.
“E cosa dovrei fare? Aspettare qui che tu ti ricordi di
tornare? Non puoi decidere per me, ti rammento che non sono non un membro della
tua ciurma”. Continuò lei quasi isterica, la gola serrata in una morsa di paura
incredula.
“Fin tanto che resterai a bordo dell’Arcadia sei un mio
sottoposto!” ribadì con forza lui.
Helèn scuoteva
vigorosamente la testa annaspando “No, non puoi decidere sempre e solo tu”.
“Decidere è il mio mestiere” le rispose con calma studiata.
“Beh! Stavolta no!” Fece lei decisa.
“Ma è possibile che tu non capisca che lo faccio per te? Non
voglio che ti accada nulla”.
“Non puoi, non puoi decidere per me!” la donna tremava dalla
rabbia, le lacrime le salirono agli occhi. Si avvicinò rapida alla porta,
spalancandola.
“No! non uscire Helèn è pericoloso!” le intimò lui cercando
di afferrarla. Ma lei sgusciò rapida sul ballatoio.
Intanto aveva iniziato a piovere.
“Ti avevo chiesto di non mandarmi via” disse Helèn scuotendo
la testa incredula.
Del gesto altruista di Harlock lei aveva colto solo questo.
Nel disperato tentativo di tenerla lì lui le disse “Non ti
manderò via, sarai dove è il tuo posto”. Così dicendo si portò la mano al
cuore, poi fece un passo per afferrarla. Ma lei si ritrasse e con un balzo fu
fuori, correndo via veloce.
“Helèn torna indietro subito è pericoloso, questa non è
semplice pioggia Helèn!” urlava Harlock.
Ma lei non l’ascoltava, pensava solo all’esser stata tradita
.
Corse fin tanto che il fiato glielo concesse.
Mentre correva si guardava intorno per memorizzare, da brava
militare, punti di riferimento per poter poi tornare indietro. Corse e corse
fino a non farcela più. I polmoni le dolevano, l’aria era greve come il piombo.
Si fermò per riprendere fiato, le mani poggiate sulle gambe, si guardava
intorno. L’aria era pesante, la pioggia pure sembrava pesante. Fu allora che si
rese conto che quella non era acqua.
Ripensò alle parole di Harlock. Ne raccolse un po’ nel palmo
della mano. Era un miscuglio gelatinoso e trasparente che aveva ricoperto ogni
cosa. La densità della pioggia creava come un muro impedendole di vedere dove
si trovasse, ovunque guardasse non vi erano più punti di riferimento.
Dappertutto vi era solo un muro d’acqua spessa e lattiginosa. Ruotò su se
stessa, non avrebbe saputo dire da dove era arrivata.
Si era persa.
Quel miscuglio gelatinoso le aveva impregnato i capelli ed i
vestiti. Decise di rimanere dov’era aspettando che spiovesse.
Fu allora che ebbe la sensazione di essere osservata.
Istintivamente portò le mani alle pistole. Ma il cinturone con
le armi era rimasto in casa. ‘Maledizione!’ era del tutto indifesa.
Si guardò lentamente intorno. Nulla era visibile.
Si accovacciò, una mano sul terreno per percepirne le
vibrazioni, capire cosa fosse e dove fosse. A giudicare dal tremito era qualcosa
di grosso. Sembrava… sì, un grosso animale al trotto.
Helèn ricordò quello che Harlock le aveva raccontato sugli
esperimenti fatti alle bestie. Ora era fondamentale comprenderne la direzione.
Le sembrò che il grosso quadrupede fermatosi non molto lontano da lei,
scalciasse sul terreno con gli zoccoli, pronto per caricare nella sua
direzione.
Non lo avrebbe visto arrivare, prese il piccolo pugnale che
teneva all’interno dello stivale, chiuse gli occhi per concentrarsi sugli altri
sensi, e attese. Il cuore le batteva forte.
Il grosso animale iniziò a correre veloce verso di lei.
Attese sino all’ultimo istante quando le fu abbastanza vicino
da sentirne il soffio d’aria dalle narici, Helèn saltò più in alto che poté nel
disperato tentativo di evitarlo. Provò a conficcargli sulla schiena il piccolo
pugnale ma la lama si spezzo. Completò la giravolta in aria ricadendo
perfettamente in piedi mentre l’animale la superava.
Si voltò ansimando convinta di avercela fatta. Sorrise.
Poi piano, il sorriso si spense.
Una sensazione di calore sulla coscia. Helèn si toccò con la
mano e la guardò abbassando lentamente lo sguardo consapevole di ciò che
avrebbe visto.
SANGUE.
La parte sinistra della coscia prima del ginocchio era stata
lacerata profondamente, come, non seppe dirlo.
Sorrise amara. La sua vita era finita.
Sentiva il fiato dell’animale farsi sempre più corto per
l’eccitazione della caccia. La osservava muovendosi nervosamente dietro quel
muro d’acqua aspettando il momento giusto per attaccarla.
Lei ora era la preda.
Il sangue le riempì il pantalone e lo stivale. Non poteva
aspettare. I battiti del cuore iniziarono a rallentare.
Era da tanto che aspettava quel momento. La morte.
Il suo ‘sensei’ l’aveva preparata anche a quello. L’avrebbe
affrontata con coraggio senza paura. ‘Tadaski presto saremo insieme’, sorrise,
questo pensiero le diede coraggio.
“Forzaaa” gridò nella direzione della bestia con quanto fiato
aveva in gola. “Forza che aspetti? Vieni sono qui! forza maledetto che aspetti?”
Lo sentì arrivare rapido, colossale, stavolta voleva vederlo,
ma non ci riuscì, era come fosse color della pioggia. Fu un solo istante, era
rapidissimo. Un dolore atroce ad un fianco le spezzò il fiato annebbiandole la
vista.
Come al rallentatore si sentì crollare a terra, ogni fibra
della mente le diceva di alzarsi ma non ci riuscì, il corpo non le rispose.
L’animale caricò ancora. Lo sentì arrivare. Era la fine.
Chiuse gli occhi nell’accettazione di ciò che sarebbe stato.
La pioggia la ricopriva piano. Con la mente tornò alla sensazione di libertà e
felicità provata solo poche ore prima sulla moto con Harlock. Vi si immerse
completamente estraniandosi da quella realtà.
Poi sentì un urlo umano fortissimo provenire da lontano e farsi
più vicino.
Sembrava un urlo di guerra emesso per attirare l’attenzione.
Funzionò.
Sentì l’animale fermarsi e cambiare direzione. Poi avvertì
netti i movimenti di una strenue lotta poco lontano da lei. Urla e lamenti si
susseguirono in rapida sequenza. Non avrebbe saputo dire quanto. Poi la terra
tremò per un istante come se qualcosa di enorme vi fosse pesantemente caduto.
Pensò ad Harlock o lo vide su di sè. Le urlava qualcosa ma
lei non sentì. Aveva il viso sporco di sangue. Chiuse gli occhi.
Ormai per lei era tardi.
Note
*Piertificazione dalla rivista "Advanced
Materials" gli scienziati scrivono di aver sottoposto campioni
di legno di pino e di pioppo a un bagno acido di due giorni, di averli poi
immersi in una soluzione di silice per altri due, di averli asciugati, di
averli messi a cuocere per due ore in un forno ripieno di argon portato
gradualmente fino a 1.400 gradi centigradi, e di averli fatti raffreddare in
argon a temperatura ambiente. Gli scienziati hanno ottenuto così legno
pietrificato, con la silice che si è permanentemente legata al carbonio rimasto
nella cellulosa per formare una nuova ceramica di carburo di silicio. (Il
futuro è già qui ;-P)
Primo capitolo del nuovo anno dedicato, con un grazie, alla
cara Divergente Trasversale che con un suggerimento mi ha tirato fuori da una
‘impasse’ su questo capitolo :-*
Un pensiero pieno d’affetto sempre alla mia B-Beta che io
immagino come un’ apetta laboriosa, grazie sempre.
Il primo immancabile abbraccio del 2015 è senza dubbio per le
meravigliose donne che settimana dopo settimana o solo a volte, mi fanno
conoscere con le recensioni e privatamente cosa pensano dei vari capitoli.
Sappiate che siete voi a donarmi la carica. Ve ne sarò sempre grata! LO
|
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Capitolo 19 *** PASSEGGIATA NELLO SPAZIO ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
19
PASSEGGIATA
NELLO SPAZIO
Helèn percepiva movimenti, scossoni, la concitazione di un
respiro affannato.
La sua ora era giunta e si chiedeva come mai la morte ci
mettesse tanto a mostrarle il suo volto.
Poi anche i rumori si fecero lontani ed indistinti.
Era bambina, correva nel sole, dall’altra parte due braccia
che sapeva essere del padre benché la luce ne celasse il viso. Poi il tenero
sorriso di sua madre e quelle braccia forti e sicure la sollevarono verso il
chiarore stringendola. ‘Non permetterò che tu muoia’ sentì. Poi più nulla.
Aprì lentamente e con fatica le palpebre pesanti. La fioca
luce di una candela attirò nel buio il suo sguardo. Muovendo solo gli occhi
cercò di capire dove fosse. Era tutto in penombra. Con le mani avvertì una
stoffa, forse un lenzuolo. Spostò lievemente e dolorosamente la testa a
sinistra. Accanto a lei scorse una figura abbandonata su di una poltrona.
L’avrebbe riconosciuta fra un milione era Harlock, chiuse gli occhi stanchi e
l’oblio, soave, la riprese con sé.
Più tardi, un dolore al fianco la svegliò, stavolta aprendo
gli occhi vide chiaramente Harlock armeggiare sistemando quella che le parve
una fasciatura. Emise un lamento, lui si voltò di scatto. “Helèn” le si
inginocchiò accanto. Non era l’uomo che aveva lasciato, era smagrito, stanco,
la barba incolta di alcuni giorni, lo sguardo smarrito e provato di chi no sa.
Cercò di parlare non riuscendoci, lui sorrise, un sorriso dolcissimo e
luminoso. “Non stancarti, bruci dalla febbre”. Due lacrimoni riuscirono ad esprimere
quello che Helèn provava. “Perdonami” riuscì a sussurrare ma questo le provocò
un colpo di tosse che le rivelò in un istante dolori diffusi in tutto il corpo.
Strinse gli occhi per accettare meglio la sofferenza.
“Helèn devi riposare” la pregò lui. Lei si arrese ma prima
chiese “Tocarga?”
“Non temere” le rispose sfiorandole il viso con due dita “Siamo
diretti lì, ma ora non pensarci, riposa”.
Helèn percepì un lontano rumore d’acqua, acqua che scorreva
veloce. Sentì d’avere la fronte sudata, ed avvertì il fresco delle lenzuola sul
corpo. Aperti gli occhi notò che la stanza era vuota. Dal letto di Harlock,
contemplò affascinata, come sempre faceva, i rami dell’alta struttura ed i drappi in esso
intrecciati. Sorrise, era lui sotto la doccia. Lo immaginò, chiudendo gli occhi
ed affondando morbidamente nel ricordo di lui. Si voltò a guardare il posto
accanto al suo, c’era ancora la forma del suo corpo. Harlock aveva dormito lì.
L’aveva vegliata. Mosse il braccio e notò un tubicino rosso ad esso collegato,
SANGUE. Guardò perplessa la sacchetta appesa in alto. ‘Di chi era?’ si chiese.
“E’ il mio!” Si voltò in direzione della voce. Harlock aveva un
asciugamano in vita si sfregava i capelli con un altro. “E’ ottimo te lo
assicuro” le disse avvicinandosi piano a controllare la sacchetta per
verificarne la quantità “ottima annata”. Nel guardarla, le strizzò l’occhio
sorridendo, era umido, emanava un ottimo profumo, era sbarbato e sensuale. Meraviglioso.
Sorrise ancora, forse perché lei stava meglio, pensò Helèn. Era bellissimo
quando sorrideva, accadeva raramente ma quando lo faceva, si illuminava di una
luce speciale.
“Non hai più febbre, vuoi mangiare qualcosa?” le chiese
premuroso. Helèn fece cenno di sì, in realtà non aveva fame ma era consapevole
che il cibo l’avrebbe aiutata. Bevve tremolante il brodo che Harlock le porgeva
senza dire nulla, evitando per il tutto il tempo il suo sguardo, lui se ne
accorse. “Che c’è?” Helèn faticò a rispondere ma non era la voce a mancarle,
solo le parole.
“Harlock”. Era tanto che non pronunciava quel nome, il suono
della sua voce le fece uno strano effetto. Lui la osservò serio e silenzioso,
come sempre. Non parlava, lui lasciava parlare, ascoltava, perché sapeva ascoltare
e soprattutto comprendere. “Perdonami, sono stata una sciocca. Ho rischiato di
rovinare tutto. E soprattutto ti ho rallentato. Sei stato costretto a curarmi
non so neppure come e…”
“Puoi dirlo forte” fece lui interrompendola. “Dobbiamo
decisamente farla finita con questo scambio di liquidi” disse cercando di
sdrammatizzare.
“Cosa è accaduto? Non ricordo molto”. Insisté lei angosciata.
Di colpo Harlock facendosi scuro in volto: “A cosa serve
ricordare ora?”
“Ti prego”. Insisté lei.
Guardando fuori lui emise un lungo sospiro. “Ti ho trovata.
All’inizio ho davvero temuto per te. Non sapevo cosa fare, eri in una pozza di
sangue”. Tacque un istante al ricordo, gli procurava ancora dolore. “Ho agito
d’impulso, mosso dalla disperazione o forse, solo dal buonsenso dettato dall’esperienza.
Ho tamponato le ferite come ho potuto, ti ho portato sull’Arcadia, le ho
suturate, non so neppure io come” scosse il capo. “Poi ho ricordato che tu
avevi usato il tuo sangue per salvare me ed ho… ho rischiato il tutto per tutto,
ed ho utilizzato il mio. Poi ho atteso”. Disse allontanandosi, quasi per
alleggerire il peso di quelle parole “Una delle attese più lunghe della mia
vita”.
Il silenzio pesò greve, a lungo. In quella semplice frase vi
era tutto lo strazio e l’ansia di chi aveva creduto d’averla persa, di chi
ancora una volta aveva dovuto lottare con la morte.
“Mi dispiace” riuscì a dire Helèn, che in cuor suo aveva
appena compreso una grande verità. Una verità che ora le bruciava dentro e
lentamente la devastava. Pianse, pianse sommessamente, perché aveva capito che
doveva lasciare Harlock. Per il suo stesso bene doveva stare solo.
Non potendo l’Arcadia utilizzare la tecnica nautica in-skip i
giorni di navigazione che seguirono, sembrarono non finire mai. Furono giorni
strani. Pieni di silenzi, di frasi abbozzate, di sguardi veloci e pensieri
dolorosi.
Helèn si rimise in piedi, controllò il lavoro di sutura di
Harlock e lo trovò buono. Si stupì. Su quella nave per un motivo che a lei ancora
sfuggiva, le ferite rimarginavano prima. Ne fu felice, voleva e doveva
riprendersi presto. Per alcuni giorni si tenne volontariamente lontana da lui
adducendo come scusa le ferite e la stanchezza. Harlock dal canto suo era
distante e meditabondo come chi si estranea da tutto per elaborare un lutto.
Dopo tanto tempo Helèn tornò barcollante con le sue stampelle
da Tochiro. Non ci era più andata per rispetto ad Harlock. Quel posto, quel
legame misterioso che li univa era solo loro e tale doveva rimanere. Il
capitano non le aveva fatto mai alcuna domanda e lei non aveva raccontato nulla,
proprio per non violare in alcun modo quel rapporto speciale ed inspiegabile.
Si sedette davanti al grande computer lo sguardo basso, affogato nel fiume dei
suoi pensieri e dei suoi sentimenti. Aveva maturato l’idea che Harlock sarebbe
stato meglio senza di lei. Lo aveva visto troppo provato al suo risveglio. Era
come se per colpa sua avesse dovuto mettere nuovamente a nudo una parte di sé
che doveva restare celata per la sua stessa sopravvivenza. Era come se fosse
stato costretto a riaprire dolorosamente una parte interna del suo spirito che
doveva restare chiusa, per il suo stesso bene. Il luogo dove tutti noi teniamo
i ricordi che fanno più male.
“Sai” disse emettendo un lungo sospiro credo che per Harlock
sia meglio stare senza di me”.
Due cerchi concentrici si accesero. “Non
è come pensi”.
Helèn sollevò il capo
felice di sentirlo nuovamente. Gli occhi le si illuminarono “Ciao”.
“Lui è più forte e determinato da quando tu
sei qui ed ora ha bisogno del tuo aiuto più che mai”.
“Ha già sofferto abbastanza, ha perso troppe persone che
amava. Un giorno perderà anche me, io lo amo come non ho mai amato nessuno e
proprio per questo non voglio che soffra ancora. Non fa che cercare di
proteggermi, e non ne comprendo appieno il reale motivo, sono diventata un
peso. E non va bene”. Helèn abbassò nuovamente lo sguardo, scuotendo la testa
rapita dal fluire dei suoi pensieri.
“Non è come pensi, io lo
conosco è forte ed ha già fatto la sua scelta”.
I giorni trascorsero, Helèn non poteva esercitarsi come
avrebbe voluto, così optò per un modo più leggero di allenamento. La danza, un
suo antico amore.
Doveva tornare in forma in un modo o in un altro. Doveva
essere un aiuto per Harlock non un peso. La sera senza che Harlock lo sapesse
si recava nel piccolo teatro utilizzato per le riunioni che richiedevano la
presenza dell’intero equipaggio, e danzava. Alla sua maniera, sola, senza che
nessuno la vedesse. Ne usciva con le gambe doloranti ma rinfrancata nello
spirito.
Una notte Harlock rientrando nei suoi appartamenti decise di
fare un percorso diverso dal solito e venne attirato dal suono flebile di una
musica che proveniva dal piccolo teatro. Non poteva che essere Helèn. Entrò
incuriosito, spinto dalla consapevolezza di sapere infondo ancora così poco di
quella donna. Silenzioso, sedette in una delle ultime file assolutamente
immerso nel buio.
Sul palco poco illuminato Helèn con un semplice body e calze
nere, la gamba ferita su di una sedia la massaggiava, si riscaldava. I capelli
raccolti in una coda. Non si era accorta di lui. Cessata la musica che lo aveva
attirato lì ne iniziò un’altra. Una musica lenta e struggente, sembrava una
musica del passato.
Helèn le braccia al cielo, immobile, una scultura nello
spazio di una purezza infinita lentamente passo dopo passo diede vita ad una
danza dolce e sensuale. Si muoveva elegante, armoniosa, con naturalezza.
Volteggiava agile ed appassionata nell’aria. Accompagnava fluida con le braccia
i movimenti delle gambe. Sembrava con il linguaggio del corpo narrare di una
struggente storia. Immersa nella penombra si muoveva leggiadra e languida.
Sembrava un sogno.
Piroettava dolcemente su se stessa accompagnando i flessuosi
movimenti del corpo con la morbidezza delle linee delle braccia. Sul viso le si
dipingevano le sensazioni e le emozioni che stava rivivendo. Harlock la seguiva
con lo sguardo estasiato.
Poi la musica si fece più commovente ed Helèn si ritrovò
accanto ad una specie di manichino. Harlock ci mise un po’ a comprendere. Si
trattava di uno dei manichini della sartoria con solo la parte centrale del
corpo con indosso un grande mantello nero. Quello era lui! Ed Helèn con la
danza raccontava la ‘loro storia’.
Con le mani unite a mo’ di pistola ripercorse il drammatico momento
in cui lui le aveva sparato, il casco era saltato e si erano visti per la prima
volta. Ballava con dolore ed impeto insieme, ogni gesto era un’emozione, era
libera ed appassionata. Correva agile con passi abbozzati da una parte all’altra
del piccolo palco. Flessuosa e soave. I piedi quasi non toccavano terra. Preso
il manichino, nelle sue mani divenne quasi vivo. Volteggiava con lui
sorridendogli dolcemente, immaginando un viso, un’espressione.
Helèn da principio se ne mostrava attratta ed al tempo
impaurita, danzava insieme a lui avvolgendosi come in un abbraccio nel suo
mantello, grata per la sua protezione per poi allontanarsene attanagliata dal
dolore che questo le provocava.
Le sue movenze, il suo viso, tutto raccontava l’immenso amore
che provava. Alla fine dopo averlo baciato e stretto dolcemente fuggiva via
rintanandosi in se stessa gambe e braccia al petto.
La musica lentamente terminò e ciò che rimase furono solo i
sommessi singhiozzi di Helèn.
Harlock stringeva con le mani i braccioli della poltroncina.
Aveva intuito ma al tempo non voleva capire. Non mosse un solo muscolo per non
tradirsi. Helèn sentì un rumore provenire dal fondo della sala. Si alzò
guardinga “Chi c’è?”
Tori spuntò fuori dal nulla appollaiandosi vicino a lei.
“Ciao che c’è? Chiede di me? Andiamo allora”. Helèn asciugate le lacrime
indossato una specie di maglioncino si allontanò con Tori.
‘Chi chiedeva di lei? Sulla nave c’erano solo loro due’. Li
seguì. Erano diretti al grande computer centrale.
Attesi alcuni minuti Harlock sentì Helèn dire ridendo
“Dobbiamo smetterla di vederci così!” Fece quindi irruzione nella stanza del
computer, con il piglio di un amante tradito.
“Che succede qui?” Helèn colta di sorpresa si spaventò.
“Harlock sei tu?”
“Chi altri sennò. Come mai qui?”
“Non arrabbiarti, è solo grazie a lui” fece segno al computer
“se ho potuto salvare te e l’Arcadia, non ti sei chiesto come avessi fatto e dove
fossero i tuoi bracciali?”
“Pensavo li avessero rubati e tu perché non mi hai detto
nulla?”
“Non me lo hai chiesto. Ma il tuo segreto è al sicuro con
me”.
“Lasciaci soli per favore” aggiunse duro. Helèn obbedì mesta
rintanandosi in camera sua.
Poco dopo sentì bussare alla porta. “Avanti”.
Helèn un accappatoio indosso, stava sostituendo i cerotti
sulle ferite. Harlock la guardò, i lineamenti decisi sembravano scolpiti nel
granito. “Ti disturbo?”
“Stavo per fare la doccia”.
“Resteranno le cicatrici”. Disse guardandole le ferite che si
stavano rimarginando.
“Non ha alcuna importanza. Non sono le cicatrici esterne a
preoccuparmi. Quelle una volta cicatrizzate non si riaprono. Le cicatrici
dell’anima invece a volte si riaprono ricominciando a sanguinare”. Commentò
triste.
“Scusa per prima, sono stato immotivatamente brusco. E’ che
ti ho visto danzare poi correre via e…” terminò la frase sulla bocca di lei. La
baciò con passione dolorosa, quasi a farle male.
Lei lo respinse debolmente “Mi.. mi hai visto danzare ?”
“No ho visto danzare la tua anima”.
Helèn abbassò lo sguardo intimidita “Dai… devo fare la
doccia”.
Lui sorrise beffardo continuando a baciarla. “Ti voglio” le
sussurrò in un orecchio provocandole un brivido di piacere. Quindi la sollevò
portandola nel grande bagno adiacente.
Aperta l’acqua della doccia la posò sotto il getto tiepido
iniziando a togliersi gli indumenti. Helèn era ipnotizzata dalla sensualità
magnetica di quell’uomo che si liberava dei vestiti non distogliendo mai lo
sguardo dal suo. Raggiuntala sotto al getto d’acqua caldo, una mano sulla nuca
riprese a baciarla avidamente, strappandole l’accappatoio e scaraventandolo via
insieme alla sua benda. Questo le tolse quasi il respiro.
Nel suo sguardo c’era un ardore ed una tensione sessuale che
la turbò. Lo guardò in tutta la sua fiammeggiante bellezza. I capelli da
asciutti divennero presto bagnanti aderendo sensualmente alla fronte. Lui con
un rapido gesto delle mani se li portò indietro. Milioni di goccioline d’acqua solcavano la
sua pelle scorrendo via veloci, a volte soffermandosi un attimo nell’incavo
delle spalle o sulla curva di una cicatrice, dai capelli, al viso, al torace.
Altre si adattavano alle sue forme, ai muscoli, alle pieghe, formando rivoli
d’acqua che correvano via. E come quei rivoli le mani di lui disegnavano arditi
percorsi sul suo corpo. Carezze ardenti come il fuoco.
Helèn appoggiò il viso sul suo petto assaporandone il profumo
virile. Sfiorandolo dolcemente con le labbra. La pelle era umida e resa
sensibile per l’acqua. Scostandola lui le dedicò un lunghissimo sguardo. Gli
occhi di Helèn accarezzavano i contorni del suo dolcissimo viso, delle sue
labbra con desiderio facendo accelerare i battiti del suo cuore. Come aveva
anche solo potuto pensare di riuscire a vivere senza di lui? Stretta al suo
corpo muscoloso si lasciò andare completamente rispondendo ai suoi baci e
carezzandogli le spalle, il petto, lo stomaco.
Harlock senza mai smettere di baciarla, scese al collo ed al
seno. Helèn si strinse a lui con tutta se stessa, stordita, temendo quasi di
perdersi nelle sensazioni senza confine che quell’uomo passionale e volitivo le
faceva provare. Poi presala in braccio la posò sull’adiacente piano del lavabo,
si chinò per assaporane la femminilità. Lei piegò il viso, quasi spaventata
dalle emozioni che quell’uomo sapeva accendere nel suo corpo. Lui le sollevò il
mento scrutandola a lungo e la strinse forte tra le braccia. Tirandola poi a sé
con voluttà, unendo i lori corpi. Come un fiume dentro il mare. Presto la
fiamma del desiderio appagato li avvolse, sprigionando faville, travolgendoli
incontrollabile.
Si diedero l’un l’altra come mai. Con la volontà profonda di
essere e sentirsi una cosa sola. Come il mare che da sempre aspetta il fiume,
per continuare a vivere e morire.
*
Abbracciati accanto al piccolo camino. “Ci verresti con me in
un posto?”. Chiese lui.
Helèn inclinò il capo incuriosita.
“Ti propongo una passeggiata”.
Indossarono le tute con cui solitamente Harlock usciva al di
fuori dell’Arcadia per le riparazioni. Erano tute speciali aderivano al corpo
proteggendolo ma garantendone la libertà di movimento ma soprattutto erano
dotate di speciali scarpe magnetiche* che li ancoravano al metallo dell’Arcadia.
Accesi i respiratori uscirono da un portellone che immetteva
direttamente alla parte superiore della nave. Helèn non aveva mai preso
realmente dimestichezza con l’assenza di gravità, anzi la odiava e risultava
impacciata. Harlock ne sorrise arricciando il naso e le tese una mano. Lei
prese quella mano e venne quasi issata su di peso. Camminarono sulla superficie
della grande corazzata sino ad arrivare ad una decina di metri dalla polena.
Harlock si sedette ed Helèn lo imitò.
Dopo un lungo silenzio Harlock parlò con lo sguardo perso
intorno. “A volte vengo qui per sentirmi libero, oltre la vetrata che mi sembra
mi separi da tutto il resto. Qui mi sento davvero libero, libero di immergermi
nello spazio e diventare una cosa sola con lui. Se un giorno morissi…”
“No” sfuggì ad Helèn.
“Se morissi” riprese lui “Vorrei che le mie ceneri fossero
disperse nello spazio da qui. Ora è questa la mia casa dopo la Terra”.
Helèn si chiese il perché di quello strano discorso, sembrava
che Harlock avesse come un brutto presentimento, ma tacque. Se ne rimasero seduti
in silenzio senza misurare il tempo, mentre l’Arcadia navigava sospinta dal
placido vento dell’Universo**.
Restarono fermi ad assaporarne la pace e la calma consapevoli
d’essere soli l’uno al fianco dell’altra con il solo desiderio di starsene lì.
Helèn guardava quello scuro manto di stelle come se lo vedesse per la prima
volta. Lentamente se ne sentì risucchiata come se il Cosmo intero stesse
cercando di entrare dentro il suo spirito. Provò una sensazione di smarrimento
profondo. Allungò una mano a toccare il braccio di Harlock perché fosse la sua
ancora, perché non la facesse volar via. Lui comprese e le strinse la mano ed
anche attraverso la muta lei ne percepì la forza ed il calore.
Non si era mai sentita vicina ad una persona come in quel
momento. Lui le sorrise in quel sorriso buono e trasparente c’era tutto.
Domande, risposte, passato e futuro ed in quella mano che stringeva la sua, il
presente. Avvertì nettamente il grande amore per la vita di quell’uomo e si
sentì onorata di condividerne quel momento speciale. Capì che lui ci sarebbe
sempre stato per lei e lei non avrebbe mai potuto lasciarlo.
Ad un tratto Harlock senza dir nulla si alzò quasi attirato
da qualcosa. Lentamente raggiunse la polena, rimanendo in piedi sulla punta più
estrema. Fermo a sfidare in perfetto equilibrio il moto dell’Arcadia su quel
teschio dagli occhi infuocati. Nell’assordante silenzio sembrava quasi voler
raccogliere dentro sé la forza dell’intero Universo.
Si stagliava statuario sullo sfondo senza fondo. Helèn non
avrebbe saputo dire dove finiva l’Arcadia e dove iniziava lo spazio, si chiese
a cosa pensasse, cosa provasse.
Il tempo sembrò fermarsi, era bellissimo. La figura alta,
slanciata. Epico, intrepido. Lo sentì dire “Arcadia go!” per poi voltarsi
meravigliosamente sorridente.
In quello stesso istante una specie di brezza cosmica si
levò.
Helèn alzatasi la percepì solo perche l’enorme bandiera col
jolly roger dell’Arcadia sino a quel momento inanimata iniziò a sventolare e
lei comprese in quello stesso istante, che il vero vessillo di quella nave era
lui. Era Harlock!
Fu una grande ed intensa emozione, Helèn impresse quell’immagine
nella sua mente. Qualunque cosa fosse accaduta lo avrebbe ricordato per sempre così.
Forte, eroico;
leggendario.
NOTE
Capitolo dedicato a coloro che mi chiedevano un altro momento di serena felicità per H&H ed alla mia instancabile B-Beta.
*Scarpe del
futuro per non volare via di mia invenzione.
**Il vento nell’Universo non esiste, vi è quello che viene
definito ‘Vento stellare’ che è un flusso di gas emesso dall’atmosfera di una
stella. La polvere stellare scatena dei venti in un processo a catena di
fuoriuscita di gas, si tratta di una corrente di particelle, non il vento come
lo intendiamo noi sulla Terra. Poeticamente qui l’ho voluto immaginare in grado
di far muovere come nel film, la mitica bandiera con il jolly roger.
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Capitolo 20 *** TOKARGA ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
20
TOKARGA
Tokarga era l’ottavo pianeta del sistema stellare di Ghora,
un pianeta inospitale al suolo ma la cui atmosfera era abitabile. Pertanto
erano state costruite molti anni addietro delle città galleggianti*.
Nell’ardito progetto iniziale le verdeggianti città
fluttuanti avrebbero anche costituito uno scudo solare attorno al pianeta
consentendo così il lento ma graduale processo di terraformazione.
In realtà le cose non erano andate così. Il progetto si era
rivelato assai dispendioso ed i tempi troppo lunghi. Quindi aldilà
dell’innegabile fascino, presto le città isole, erano in gran parte state
abbandonate divenendo terra di nessuno.
Erano presto divenute ricettacolo delle peggiori canaglie
dell’Universo. Pertanto, in un grande penitenziario della Gaia Sanction c’erano
detenuti i peggiori delinquenti. Quelli che non avevano diritto neanche ad un
processo. Qui si trovava ora la ciurma dell’Arcadia ceduta in cambio di chissà
cosa dai mercenari alla Gaia Fleet.
In loco si tenevano periodicamente aste a cui partecipava
chiunque ed i detenuti venivano quindi venduti al miglior offerente per
diventare schiavi o peggio. Su Tokarga si poteva comprare tutto ed il contrario
di tutto, bastava avere il danaro. Tutti lo sapevano.
L’Arcadia venne accuratamente nascosta da un sistema
olografico.
Sulla corazzata c’era una navetta conservata in un ponte
posteriore di cui Helèn non era a conoscenza. Era più piccola delle altre senza
l’effige del jolly roger. Serviva ad effettuare ricognizioni o scendere sui
pianeti passando inosservati, esattamente quello che volevano Harlock ed Helèn.
Scendere sul pianeta per prendere quante più informazioni
possibili e dare quindi il via al loro piano. Indossarono vestiti molto diversi
dal solito.
Helèn una camicia su una gonna corta e stivali, Harlock
pantaloni e stivali di pelle marrone con camicia e giacca in pelle. Si
scambiarono un’occhiata divertita guardandosi. Helèn portò con sé anche tutto
ciò che poteva servirle, Harlock prese denaro ed armi.
Scesi su una delle isole indossarono delle lunghe tuniche marroni
con cappuccio. Helèn aveva addirittura coperto la bocca, in questo modo i suoi
bellissimi occhi scuri risaltavano incredibilmente. Harlock dal canto suo
teneva il cappuccio calato a coprirgli parte del volto. Del resto, restava il
ricercato numero uno dell’Universo conosciuto. Helèn si chiese cosa si potesse
provare a sentirsi sempre braccato e cosa avrebbe fatto se avesse perso la
libertà.
La città che prendeva il nome dal pianeta era caotica, il
grande mercato affollato, le case addossate, le vie strette e sporche, le donne
di malaffare, i mercanti e le merci accalcate.
Faceva caldo, ed ad ogni angolo si veniva accolti da odori
contrastanti tra loro. Ogni tanto qualcuno li avvicinava con un’offerta ma
bastava lo sguardo di Harlock a dissuaderli.
Helèn sorrise, se avessero avuto a che fare con lui gli
sarebbe bastato osservarne il portamento marziale e superbo con cui avanzava,
per capire chi fosse.
Presero una stanza in un albergo qualunque e benché
riluttante Harlock acconsentì che si separassero per acquisire quante più
informazioni possibili.
Lui si recò in una specie di vecchio saloon**. Era scuro
all’interno, delle grosse ventole in alto giravano lente spostando l’aria, c’era
odore di fumo e sporcizia. L’oste quasi del tutto calvo non fece domande quando
Harlock si sedette al bancone e gli versò in un bicchiere, il contenuto di una
delle bottiglie alle sue spalle, che lui gli aveva indicato.
Alle pareti c’erano foto sbiadite del passato: uomini, pionieri
pieni di speranze, un tempo sorridenti.
All’unico tavolo occupato c’erano tre uomini avanti con gli
anni. Sembravano tre piloti o meccanici o semplicemente lo erano stati.
Non si sorpresero quando lui prese posto accanto a loro alla
quarta sedia del tavolo. Probabilmente li stupì molto di più la bottiglia di
whisky che mise al centro del tavolo.
Uno dei tre, quello che portava un cappello da pilota dopo
essersi toccato mento e bocca più volte con avidità si versò da bere. “Cosa ti
porta in questo luogo ameno straniero?”
“L’asta” rispose secco lui.
“Ah! allora tutto si spiega tutto” fece un altro con una
barbetta ispida e cappello, abbozzando una risata, ma l’iniziale riso forzato si
trasformò in una tossetta secca e stizzosa.
Subentrò quindi il terzo “Ti serve qualche pezzo di carne
umana?”
“No, solo pezzi interi” rispose Harlock comprendendo che la
chiacchierata pareva prendere la direzione giusta, continuando a bere
lentamente il contenuto del suo bicchiere.
“L’asta è tra pochi giorni, amico… ed a giudicare dalla
qualità di whisky che bevi hai molto danaro”. A quelle parole Harlock molto
lentamente presa la pistola la posò sul tavolo.
“Hey hey tranquillo, facevo per dire… magari sei anche tu qui
per quella, l’aliena” Harlock si
irrigidì a quelle parole ma non lo diede a vedere continuò a sorseggiare il
liquido ambrato.
“L’aliena?” chiese.
“Si vengono da mezzo Universo
per lei. Se la aggiudicherà il miglior offerente”.
Dopo una pausa Harlock chiese “Dove li tengono?”
“Ma chi? I detenuti?” fece il primo dei tre “Ma nell’unico
posto possibile su questo maledetto pianeta, alla Fortezza, sì insomma nel
penitenziario ad est del pianeta, l’unica zona mai terraformata. Non c’è altro
posto qui, fidati, ci ho passato la mia misera esistenza. Del resto perché costruirvi
un penitenziario? Se scappi su questo dannato pianeta non hai scampo”. Concluse
scolandosi il bicchiere.
“Dove si tiene l’asta?”
“Amico questo ti costerà un po’ di più di una bottiglia di
whisky”.
Harlock fece segno col mento all’oste che ne portò un’altra.
“Eccezionalmente l’asta si terrà nel penitenziario stesso non
vogliono rischiare spostando i detenuti. Chissà poi perché? Alla tua straniero!”
concluse quello sollevando il bicchiere.
Harlock terminò lentamente il contenuto del suo. Questa notizia
modificava i suoi piani. Aveva deciso di approfittare del breve trasporto dei
detenuti, al luogo dell’asta, per
attaccare il piccolo contingente piuttosto che entrare nella fortezza dove i
soldati sarebbero stati sicuramente di più e meglio armati. Raccolte le ultime
informazioni che i tre avevano da dargli, si alzò, riprese la pistola e si
diresse lentamente verso l’uscita, si fermò ed abbozzando un sorrisetto strappò dalla parete una sua
vecchia foto segnaletica.
In quel momento un ragazzo entrando sovrappensiero lo urtò. I
due si guardarono un istante. Il ragazzo era giovane, pelle diafana, capelli castani scompigliati, occhi
scuri, l’aria triste. Indossava un maglione con sopra un lungo gilet in pelle.
Chiese scusa frettolosamente dirigendosi al bancone. “E’ arrivata qualche
corazzata oggi?” chiese.
“No figliolo”. Rispose l’oste versandogli il solito caffè in
una tazza scura e ricominciando ad asciugare lentamente i suoi bicchieri.
Harlock tornato in albergo aspettò un paio d’ore Helèn, poi
non vedendola tornare uscì a cercarla. La donna aveva addosso un localizzatore
ed Harlock la trovò.
Era in una viuzza sporca tra due palazzi, un uomo la teneva
addossata al muro e con una mano le manteneva sollevata una coscia
palpandogliela con bramosia. Intanto le parlava all’orecchio, sembrava ubriaco.
Helèn mostrandosi compiacente gli teneva una mano tra i
capelli. Harlock e lei si scambiarono un fugace sguardo, lui aveva già la mano
sulla pistola. Il suo sguardo dardeggiava minaccioso.
Helèn con gli occhi lo supplicò di aspettare. Dopo poco lei
stessa colpì l’uomo alla testa che si accasciò per terra privo di sensi.
“Si può sapere chi diamine è?” chiese Harlock inferocito.
“E’ una guardia del penitenziario è tutta la sera che me lo
lavoro”.
Lui la fulminò con lo sguardo, era fuori sé.
Lei di rimando gli lanciò un cartellino identificativo che
aveva sottratto al malcapitato.
Lui senza neppure guardarlo le fece. “Sai bene quanto me che
ne denuncerà lo smarrimento e domani sarà inutilizzabile”.
“E’ vero, ma il micro cip che c’è dentro con la piantina del
penitenziario che mi ha mostrato poco fa no”. Rispose lei, con sguardo
trionfante.
Tornati in albergo Helèn restò più a lungo del solito sotto
la doccia. Non era contenta, soprattutto che Harlock l’avesse vista.
Quando uscì lui era assorto, stava analizzando attraverso un
computer la mappa olografica del penitenziario, la girava e rigirava muovendo
un dito nell’aria. Era nervoso e non la degnò di uno sguardo.
“Che hai?” chiese Helèn mentre si pettinava. Lui non rispose.
“Ora conosco gli orari dei cambi del personale, so in quale parte del
penitenziario li tengono. Perché fai così?”.
Lui spostò appena lo sguardo “Era proprio necessario?” chiese
glaciale.
“Cosa? Fingersi una prostituta? Faccio quel che serve” rispose
secca e dispiaciuta lei, poi sorridendo lo raggiunse.
“Non è successo nulla tra me e quel tipo, te lo giuro, l’ho
fatto bere molto”.
Poi abbracciandolo dalle spalle. “Ti hanno mai detto quanto
sei mostruosamente sexy quando fai il geloso?” disse baciandolo su una guancia.
“Non sono geloso” disse lui freddo, mentendo. In realtà erano
giorni che il suo sesto senso gli inviava segnali, aveva come un presentimento
che lo rendeva più inquieto del solito. “Dobbiamo ripetere il piano e studiare
con cura la piantina”.
“Lo so, capitano, lo faremo dopo. Voglio essere sicura che tu
abbia capito. Non voglio che restiamo arrabbiati. Domani è un giorno
importantissimo tutto deve andare bene. Deve!”
Si stesero un momento sul letto abbracciandosi. Helèn infilò
il viso nell’incavo del collo di lui tra mascella e spalla. Quello era il ‘suo
posto ’ preferito. Respirava piano il suo odore e percepiva il calore della
pelle. Questo la calmava sempre. Chiuse gli occhi, nulla sarebbe mai potuto
accadere quando era lì.
Harlock dal canto suo era teso e preoccupato. Era angustiato
per la missione da affrontare assurdamente solo in due, per i suoi uomini di
cui ignorava le condizioni e per Helèn. Era vero quella fitta rovente al centro
dello stomaco che aveva provato vedendola con ‘quello’ l’aveva turbato. Non
aveva mai provato nulla del genere e se il nome di quella cosa era gelosia
voleva dire solo una cosa. Helèn era diventata senza rendersene conto una parte
di lui. Forse a causa della loro permanenza solitaria sull’Arcadia, forse
perché si erano reciprocamente salvati la vita, o forse più semplicemente
perché il destino così aveva deciso. Questo lo angosciava perché era
consapevole che i sentimenti forti gli toglievano lucidità. L’amicizia
sconfinata per Tochiro mista all’immenso dolore d’averlo perso gli avevano
fatto prendere l’assurda ed avventata decisione che ancora pagava. L’ira
profonda contro la Gaia Sanction non l’avevano fatto ragionare ed agire
freddamente e questo gli aveva fatto perdere l’occhio destro. E in un lontano
passato l’amore per un’altra donna l’aveva fatto comportare avventatamente
facendogli procurare la cicatrice che ora segnava il suo volto***.
Anche Helèn era pensierosa. Da quando era scesa dall’Arcadia
le ferite le dolevano. E poi si chiedeva come sarebbero cambiate le cose tra
lei ed Harlock una volta che tutti i membri dell’equipaggio fossero tornati a
bordo. La missione la impensieriva profondamente, ad Harlock non lo dava a
vedere, ma sapeva che in qualche modo tutto era nelle sue mani. Aveva un asso
nella manica del quale non gli aveva parlato, ma che avrebbe usato.
L’indomani Helèn indossata la sua
armatura blindata della Gaia Fleet, valigetta in mano, si diresse con piglio
sicuro dal soldato di guardia all’interno del penitenziario nella zona più
esterna. I suoi passi risuonarono freddi e sicuri sul pavimento di metallo. Portava
il casco sotto il braccio. Presentò il suo tesserino augurandosi che fosse
ancora valido così non avrebbe dovuto sparare al giovane ragazzo che lo stava
controllando. “Benvenuta comandante Steren!” fece quello saltando come una
molla sull’attenti non appena lesse con chi aveva a che fare, porgendole il
saluto militare.
“Comodo” fece Helèn.
“Qual buon vento Signore?”
“Non vi hanno informato?” chiese lei
seria e distaccata “Devo visitare l’aliena”.
Il ragazzo cominciò a guardare sul computer
non trovandoci nulla.
“Strano” fece Helèn non scomponendosi
“No, non lo è Signore, qua siamo dimenticati da tutti”.
“E’ il consiglio dei decani ad avermi
inviato qui” proseguì la donna “Ma sì Signore so bene chi è lei! Lei è la…”
Helèn sapendo che Harlock ascoltava la conversazione lo interruppe.
“Ho qui la richiesta firmata di uno
di loro: Tetsuya
Takimura”.
Il ragazzo sorrise sornione a quel
nome. “Appunto” disse semplicemente prendendo il documento e dandole una chiave
elettronica che le consentiva l’accesso illimitato a tutti i settori e
facendola passare.
Come immaginava il suo asso nella
manica aveva funzionato perfettamente, la lettera bianca con la firma di
Tetsuya Takimura****, che aveva compilato come un lascia passare ‘le aveva
aperto tutte porte’.
Helèn si diresse dove tenevano Meeme.
Al rumore della porta di metallo che si apriva, l’aliena si voltò ed il suo
viso di solito impassibile tradì una forte emozione. Corse verso Helèn, i
capelli ondeggiarono quasi dotati di vita propria. Le due donne, si toccarono le
mani e tanto bastò. “Allora ce l’hai fatta Helèn” le disse.
“Solo dopo ho capito il significato
delle tue parole Meeme. Mi sono state di sostegno. Ora dobbiamo mettercela
tutta. Harlock e l’Arcadia hanno bisogno di te” Meeme fece cenno di si col
capo. Helèn si tolse l’armatura blindata e la fece indossare all’aliena dandole
anche una delle sue pistole. Sotto portava l’uniforme viola dei comandanti
della Gaia.
Meeme indossò il casco per passare
inosservata. Uscirono. A nessuno parve strano vedere per i corridoi un
comandante della Gaia Fleet scortato da un soldato. Veniva salutata con rispetto
e reverenza dai soldati, prima che lei, una volta superati, li colpisse col
calcio della pistola per prenderne abiti ed armi. Quindi lei e Meeme aprivano
una o più celle.
Harlock dall’Arcadia invece le
seguiva rendendo inoffensive le videocamere poste lungo il percorso,
modificandone le trasmissioni.
Il piano era semplice. I soldati
venivano spogliati ed imbavagliati e le loro uniformi date ad uno dei pirati
che le indossava. La scena era uguale ogni volta, aperta una porta gli
occupanti sussultavano prima di riconoscerla. Helèn o gli altri a gesti
spiegavano il piano, ne seguivano sorrisi e sguardi di intesa, si cambiavano e
si passava alla cella seguente. Se le uniformi erano insufficienti i pirati si
fingevano legati e seguivano le finte guardie. Benché la tensione fosse alta
Helèn sorrideva nel vedere i volti di quei ragazzi accendersi nel riconoscerla.
Tutti erano consapevoli che il loro capitano non li avrebbe abbandonati.
Solo Kei fece eccezione. Riconosciuta
l’amica le si buttò al collo stringendola forte “Helèn credevo non ti avrei
vista mai più, ero convinta che i mercenari ti avessero consegnata alla Gaia
Fleet. Allora, in qualche modo, lo scambio di Harlock ha funzionato? Lui
dov’è?” chiese con ansia.
Helèn non comprese le sue parole. “Cosa? Chi… chi doveva consegnarmi alla Gaia?
Di che scambio parli?” chiese smarrita.
“Ma come chi? I mercenari”. Helèn
continuava a non capire, guardando confusa l’amica.
“Dopo aver assaltato l’Arcadia ed
esser riusciti a penetrare ci avevano quasi del tutto sopraffatto, tranne il
Capitano che continuava a tenerli in scacco. Ma poi, ci hanno detto d’averti
presa, di tenerti in ostaggio e che ti avrebbero consegnata alla Gaia se il
capitano non si fosse consegnato loro. Per questo Harlock si è arreso”.
Per una frazione di secondo la stanza
girò vorticosamente intorno ad Helèn rivide Harlock incatenato usato come un
bersaglio.
Ora tutto era chiaro! Era questo che
era accaduto. Lui si era arreso consegnandosi a quei bastardi per riavere lei!
Anche se i mercenari bleffavano, ma lui non poteva saperlo. Helèn parve
frastornata continuava a guardarsi intorno incredula. Questo era quello che era
accaduto e lui non glielo aveva rivelato. Si sentì persa.
Meeme le toccò un braccio. In quello
stesso istante la voce di Harlock la ridestò. “Falco***** chiama colomba, mi
ricevi?” chiese vedendo il localizzatore che lei aveva indosso fermo da troppo
tempo.
“Si… Fa…Falco ti ricevo, la
migrazione prosegue senza intoppi”.
Harlock ed Helèn avevano deciso di
ridurre le comunicazioni all’essenziale utilizzando dei nomi in codice. Lui
aveva scelto il nome Falco ‘era il mio nome di battaglia ai tempi dell’
Accademia’ le aveva detto sopraffatto dai ricordi e tu sarai la mia colomba
della pace.
Adesso arrivava la parte rischiosa,
il gruppo era diventato numeroso ed avrebbe potuto destare sospetti. Il piano
prevedeva di raggiungere il cortile interno della fortezza e lì sarebbe
sopraggiunta l’Arcadia. Mancava solo un manipolo di pirati tra cui Yattaran,
quando uno strana cicala risuonò per
tutta la fortificazione.
“E’ l’ora delle visite” fece Kei
mordendosi un labbro.
“Merda non ci voleva” le fece eco
Helèn. “Falco qui colomba mi ricevi ?”
“Falco qui colomba mi ricevi?”
“Ti ricevo forte e chiaro”.
“Falco migrazione rimandata ci sono
civili, ripeto civili” seguì il silenzio.
Harlock pensava. “Prosegui raccolta colomba
passo e chiudo”.
“Presto!” disse Helèn con un segno
agli altri, i pirati non fecero in tempo a tramortire altre tre guardie ed
aprire le quattro celle rimanenti che un acutissimo e allarme sonoro riecheggiò
lancinante facendo vibrare le mura di metallo. Si guardarono attoniti.
Erano stati scoperti.
Note
Grazie sempre a chi si fermerà a
leggere e vorrà lasciare un commento.
*Teoria di G.A.Landis sulle città
galleggianti, che costituendo uno scudo solare attorno al pianeta potrebbero
essere utilizzate per la terraformazione.
**Mio omaggio a Gun Frontier. Del
resto cosa non è la parte iniziale del film se non un omaggio a G.F.
***Poiché nel film Harlock perde
l’occhio a seguito di una esplosione sul’Arcadia ho pensato che la cicatrice si
poteva ‘addebitare’ al suo incontro con Maya al quale però farò accenno in
seguito.
****Del perché Helèn sia in
possesso di questa ‘carta bianca’ e di questo personaggio parlerò diffusamente
in seguito.
*****Dovendo scegliere un nome in
codice ho pensato fosse bellissimo usare il soprannome ‘Falco’ che Divergente
Trasversale utilizza nella sua fic ‘Space Cowboy’ creando così uno speciale
intreccio tra storie. Ne ho parlato con lei che si è detta subito entusiasta.
DOMANDONE: Chi indovina chi è il
ragazzo che urta Harlock all’ingresso del Saloon?
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Capitolo 21 *** TENEBRE ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
21
TENEBRE
Nello stesso istante in cui l’allarme eruppe violento,
dall’ultima cella schizzò fuori Yattaran.
“Ma che diamine! Ce ne avete messo di tempo per venire a
riprenderci!” fece lui strizzando Helèn che non poté che sorridere di
quell’affettuoso abbraccio.
“Siamo nei guai Yattaran, ci hanno scoperti ed inoltre la
manovra diversiva che avrebbe dovuto attuare il capitano dall’Arcadia, di far
saltare parte del penitenziario, è irrealizzabile ci sono civili in visita”.
Yattaran recuperato un fucile da una delle guardie a terra,
la guardò e sorridendo sornione le disse “It’s party time baby” quindi la
superò correndo verso la fine del corridoio, gli altri lo seguirono. Helèn
comprese, sorrise ammirata e lo seguì anche lei. C’era un motivo se Harlock ne
aveva fatto il suo primo ufficiale.
Si imbatterono subito in un contingente di soldati armati
fino ai denti. Lo scontro fu immediato. In pochi istanti si scatenò l’inferno.
Kei era una furia, con due mitragliette sparava da ogni lato, ruotando su se
stessa, mentre i soldati continuavano a sopraggiungere da ogni parte.
Yattaran usava il fucile come fosse un martello, tramortendo
chiunque gli passasse a tiro. Tutti i pirati lottavano come se non vi fosse un
domani, lottavano per il bene più prezioso di tutti, la loro libertà.
Helèn faceva del suo meglio ma non era incisiva come gli
altri erano abituati a vederla. Le parole di Kei continuavano a riecheggiarle
nella mente. Harlock si era consegnato a quei luridi bastardi che lo avevano
massacrato riducendolo in fin di vita, per lei, per riaverla, per impedire che
la consegnassero alla Gaia Saction. L’immagine di lui ridotto in fin di vita,
appeso a quelle catene la tormentava prepotente.
Un soldato le stava sparando addosso una raffica di colpi.
Per sfuggire fece un salto, superando una specie di sbarramento. Ma atterrò
male, sentì una fortissima fitta alla gamba, all’altezza della ferita che
credeva rimarginata. Ci mise la mano sopra. Sangue. In quello stesso istante,
approfittando della sua disattenzione, un altro sodato le piantò il fucile a pochi centimetri
dal viso. Helèn vide la canna dell'arma ed il suo dito premere piano sul
grilletto. Chiuse gli occhi.
Fu un istante.
L’onda d’urto dell’esplosione la travolse, sentì il colpo
passarle incredibilmente vicino al volto, deviato all’ultimo istante.
Le orecchie le fischiavano. Aprì gli occhi. Il soldato davanti
a lei la guardava come pietrificato, sbarrati gli occhi cadde di colpo privo di
vita. Yattaran comparve dietro di lui. Gli aveva lanciato un grosso coltello
tra le scapole. La tirò su di peso “Helèn stai bene? che hai? Forza piccola.
Non è da te”. Poi notò il sangue poco sotto il ginocchio. “E’ una sciocchezza”
disse piegandosi e legandole un fazzoletto strettissimo. Helèn gli sorrise grata.
In quell’istante in maniera del tutto inspiegabile calò il
silenzio.
Sembrò assurdo.
Helèn e Yattaran si guardarono interrogativi come gli altri.
Poi compresero il motivo della calma irreale che improvvisamente era calata.
Harlock dall’altra parte del corridoio camminava lento,
risoluto, inesorabile. Il grande mantello si apriva ondeggiando accompagnando
la camminata sicura e fiera. La sua figura sembrava colmare ogni spazio, mentre
avanzava determinato, il mento lievemente sollevato, lo sguardo attento veloce
si spostava rapido. Un passo dopo l’altro, la spada nella mano destra, avanzava
senza paura verso i suoi uomini.
La maggior parte dei soldati indietreggiava barcollando al
sol vederlo, increduli che fosse lui. Poi da quegli stessi uomini con cui i pirati
si stavano battendo venne dato l’ordine di far fuoco compatti verso di lui.
Moltissimi colpi partirono nello stesso istante nella sua
direzione.
Yattaran e Kei si riebbero per primi iniziando nuovamente a
lottare. Helèn colpiva coma una forsennata a casaccio chi sparava contro
Harlock, poi gli uni dopo gli altri i pirati ripresero a combattere tutti con
più forza di prima rianimati dalla presenza del loro capitano.
I soldati della Gaia continuavano a sopraggiungere, più che
una fortezza quel luogo sembrava essere un formicaio. Uno dei proiettili colpì
la spada di Harlock che a causa del contraccolpo gli saltò di mano volando
lontano.
Noncurante del pericolo, spostato con eleganza il mantello
con la mano sinistra estrasse la cosmo gun, sparò un paio di colpi in direzione
del fuoco nemico, due soldati caddero a terra, quindi si diresse con la solita
calma verso il gravity saber che giaceva a terra. Alzò un istante lo sguardo, sorrise
beffardo alla morte che lo guardava sussurrandole ‘non ora’. Con un colpo del
piede fece roteare in aria la spada prendendola al volo e colpendo uno dei
soldati a terra, che in quel momento raccolte le forze cercava di sparargli.
Helèn aveva seguito tutta la scena rapita. La calma e la
sicurezza di Harlock denotavano una tale padronanza di sé e dei propri mezzi
che la turbarono. I loro sguardi si incrociarono per un istante e fu come una
carezza reciproca. Un ritrovarsi anche se solo dopo una breve separazione un
‘ci sono’ che loro solo compresero.
Raggiunti i suoi uomini Harlock lottò con loro e per loro,
con tutto se stesso. Erano numericamente inferiori e vennero spinti verso il
cortile interno della fortezza credendo così di prenderli in trappola.
Uscendo la luce li accecò ma fu solo un attimo.
Un’ombra famigliare li coprì come un caldo e scuro mantello.
L’Arcadia era sulle loro teste e li proteggeva. Diverse scalette d’acciaio
penzolavano dal boccaporto aperto. Alcuni uomini, i più vicini le presero
iniziando a salire.
Helèn con la spada teneva a bada un soldato molto più grande
e forte di lei, lottava con tutta se stessa per non essere sopraffatta. La
ferita alla gamba le faceva male. Harlock poco distante da lei voltandosi un
istante notò la sua difficoltà e scorse il sangue rappreso sul fazzoletto.
Ed accadde.
Helèn sentì provenire dalla sua destra un urlo atroce e
profondo, un grido lacerante che le straziò l’anima. Come al rallentatore si
voltò in quella direzione, ciocche di lunghi capelli, seguirono il movimento
del viso. Guardò tremando perché sapeva bene di chi era quella voce. Un brivido
freddo come una lama d’acciaio la percorse interamente, quando realizzò. No non
poteva essere vero.
Tutto era perduto.
Harlock un ginocchio a terra, si teneva la mano sull’occhio
sinistro ed attraverso le dita, copiose gocce di sangue denso e scuro cadevano
impregnando la sabbia del grande cortile.
Il tempo rallentò.
Helèn corse più veloce che poté ma le sembrò di non arrivare mai.
Il vento sollevava la sabbia scompigliandole i capelli, il sole illuminava una
figura scura, curva su se stessa. Fu da lui. “Sono qui! ” gli gridò perche la
sentisse. Non poteva credere a quello che suo malgrado la vista le riportava.
Harlock era cieco!
Raccolse il gravity saber ed incrociò innanzi a sé le lame
delle due spade, la sua e quella di Harlock affinché i soldati che correvano minacciosi
verso di loro per approfittare della situazione, le vedessero chiaramente.
Si sistemò davanti a lui piegandosi lievemente in avanti,
come un felino che sta per spiccare un salto. E come un felino si guardava
intorno spostando la testa ora a destra, ora a sinistra. Era come se un istinto
animale, primordiale, avesse preso il sopravvento in lei. Era una leonessa che
difendeva il proprio uomo. Non avrebbe permesso a nessuno di toccarlo! “Luridi
avvoltoi non lo avrete” poi gridò con quando fiato aveva: “il Capitano è a
terra!”.
In quell’istante tutti i pirati benché presi dalla lotta, si
voltarono increduli, cose se quella frase non avesse alcun senso.
“Yattaran!” sentì Harlock chiamare il suo primo ufficiale.
Yattaran tramortito il soldato con cui stava combattendo, si avvicinò ad
Harlock rendendosi conto della gravità della situazione.
“Capitano!” disse trafelato.
“Yattaran porta in salvo Helèn e gli uomini presto!”
“Ma capitano…” Yattaran resosi conto delle reali condizioni
del suo capitano, chiamò a gran voce Kei.
“Kei pensa ad Helèn, io penso al capitano!”
“Ce la fai Helèn?” chiese Kei angosciata, continuando a
sparare in ogni direzione.
Helèn, fece cenno di sì con la testa. Teneva Harlock per le
spalle guidandone i passi “Sono qui, sono qui” continuava ripetergli.
Intanto era sopraggiunta Meeme “Harlock” disse con voce che
tradiva una forte emozione.
“Meeme sali per prima attiva il motore a Dark Metter, Kei”
ordinò Harlock voltandosi nella direzione in cui aveva sentito la voce delle
due donne, continuando a tenersi la mano sull’occhio “Non partire prima che
tutti siano a bordo, mi hai capito? Tutti!”
“Si capitano” rispose la ragazza scambiando una angustiata occhiata
con Helèn. Yattaran e Kei li condussero rapidi alle funi retrattili, che veloci
li issarono a bordo.
Una granata fumogena esplose lontano attirando l’attenzione
mentre i motori dell’Arcadia opportunamente direzionati crearono un vortice di
fumo fitto e scuro che consentì agli altri di prendere funi e scalette.
Yattaran fu l’ultimo a salire.
Gli ordini del capitano vennero rispettati. Meeme avviò il
motore a Dark Matter, e finalmente a piena potenza l’Arcadia si allontanò
rapida.
Sarebbe dovuto essere un momento di grande gioia, invece nel
boccaporto tutti si guardavano senza proferire parola, quello che era accaduto
era di una gravità inaudita.
Chi stava meglio aiutò i feriti, per fortuna nessuno era grave.
Yattaran e Kei ripresi i loro ruoli cercarono di fare il punto della
situazione.
Salita sulla nave Helèn aveva condotto Harlock in infermeria.
Lo fece stendere sul lettino. Gli teneva forte la mano destra neppure lei
sapeva perché. Fece per allontanarsi ma lui la trattenne “Respira Helèn” le
fece calmo.
La donna respirò ma non era facile.
Si lavò le mani mise camice, mascherina e guanti sterili e
lentamente con paura scostò la mano di Harlock dall’occhio sinistro. ‘Fa che
non sia nulla, fa che sia solo un graffio’ pregava. Il lato sinistro del viso
di Harlock era una maschera di sangue non poteva essere solo un graffio. Il
sangue non le permetteva di vedere bene. Mise degli speciali occhiali operatori
ingrandenti. “Cosa ti ha colpito?” chiese per poter capire.
“Non lo so. Come va la ferita alla gamba?”
“Ma la smetti di preoccuparti per me diamine!”
Helèn prima gli iniettò un anti dolorifico poi con
delicatezza estrema pulì con della garza sterile imbevuta, solo il contorno
dell’occhio. L’emorragia era terminata. Ma nonostante gli speciali occhiali non
riusciva a vedere nulla.
Decise di fare dei raggi. Intanto Meeme era giunta “Harlock”
fece vedendolo steso sotto al macchinario per i raggi. Helèn comparve dalla stanza
adiacente guardando delle lastre. Le bloccò nel negatoscopio* fissandole con
attenzione. Meeme la raggiunse. Helèn le disse stancamente senza neppure
guardarla “L’emorragia è cessata non so bene neppure perché”.
“E’ la Dark Metter”.
“Ah già” fece lei meccanicamente senza riflettere era davvero
preoccupata.
Meeme la guardò
interrogativa ma lei non aveva una risposta da darle.
Pulì il bulbo oculare ed il viso di Harlock, lo bendò
fasciandoli entrambi gli occhi, con un rotolo di garza bianca. Pensò fosse più
giusto così. Lo fece mettere seduto aiutandolo a bere.
“Cos’è?” domandò lui.
“Solo un antibiotico, per ora è tutto quello che posso fare”
rispose stancamente.
”Allora?” chiese lui.
Helèn gli si sedette di fronte. Ispirò prima di parlare,
cercando di avere un tono di voce asettico, tanto lui non poteva vedere la sua
espressione turbata “Io non sono un’oculista e…”
“Helèn!” la incitò.
“Qualcosa ha danneggiato la cornea e superato la camera
anteriore dell’occhio non riesco a capire se ha toccato il cristallino, o se
addirittura ha lambito il nervo ottico, il sangue fuoriuscito dai vasi
sanguigni lesionatisi non mi permette di vedere. Mi…mi serve un giorno o due
per far riassorbire il sangue e magari fare una ‘tac’ solo allora sapremo se…”
“Se ci vedrò ancora?” Harlock si alzò benché cieco la sua
figura risultava imponente.
“Meeme accompagnami
nei miei alloggi poi mandami Kei e Yattaran per decidere sul da farsi”. Quindi
lasciò l’infermeria.
Helèn restò sola. Sola con i suoi pensieri, le sue paure ed i
suoi sensi di colpa.
Tornò a guardare le lastre cercando risposte che non aveva.
L’ansia la dilaniava, si portò una mano alla fronte. Harlock era cieco solo
questo riusciva a pensare. Non avrebbe potuto immaginare una pena peggiore per
lui. Pesante come un macigno la riassalì la sensazione che aveva avuto prima
che andassero a Tokarga, per il suo stesso bene Harlock doveva esser separato
da lei. Si riebbe e mandò a chiamare quanti avevano piccole ferite o contusioni
da medicare.
NOTE
*Schermo luminoso atto a esaminare per trasparenza i negativi o
le diapositive.
Questo capitolo
dedicato a Lady Five.
Grazie alla
mai paziente e generosa B-Beta.
Grazie a
tutti coloro che si fermeranno a leggere, ed a chi vorrà lasciarmi un commento.
GRAZIE :-*
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Capitolo 22 *** LA DECISIONE ***
Come le onde del mare nel loro immutabile
fluttuare a volte rendono ciò che hanno sottratto alla Terra, in egual maniera
le onde del destino nel loro divenire dal passato al presente, talora
restituiscono quello che un tempo ci hanno portato via.
22
LA DECISIONE
Durante le medicazioni, i membri dell’equipaggio le chiesero
tutti di Harlock ma Helèn poté dire poco.
In serata stanca, passando accanto alla mensa, riconobbe il
biondo caschetto di Kei. Si accasciò sulla panca di fronte alla sua amica che
affettuosamente le versò del caffè.
“Siete stati da Harlock?” le chiese. Kei fece cenno
lentamente di sì con il capo, era stanca e preoccupata.
“Per ora io e Yattaran ci divideremo in plancia e ci
manterremo lontani dalle rotte più trafficate, poi… non so”.
“Chi erano i mercenari che hanno assaltato la nave portandovi
via?” chiese Helèn non riuscendo a mascherare l’angoscia.
“Il ‘Branco’ si fanno
chiamare quei porci, ma sono solo delle iene, un gruppo eterogeneo di farabutti.
Venderebbero le loro madri per nulla”. Rispose Kei sprezzante.
“Come sono andate le cose?” l’incalzò Helèn.
“Dopo un giorno circa di viaggio, ci hanno consegnati
ufficiosamente alla Gaia Flett che deve averli pagati molto bene per questo
lavoretto sporco”. Helèn preferì non raccontarle quello che avevano fatto ad
Harlock, la sua amica era già sin troppo angustiata.
“Come vi hanno tenuti durante la detenzione su Tokarga?”
“Bene, pure troppo, bastardi… ma solo perché dovevano
venderci a caro prezzo, eravamo merce preziosa. In questo modo ci avrebbero
dispersi per l’Universo sbarazzandosi di noi in modo ‘pulito’ senza i clamori
di un’esecuzione pubblica”. Disse amaramente sarcastica, poi di colpo “Tu lo
guarirai vero Helèn ?”
“Non lo so Kei, davvero… non lo so”. Rispose scuotendo le
testa, continuando a guardare il nero liquido senza fondo della sua tazza.
“Ho paura Helèn, io gli voglio bene. Tu non lo conosci.
Harlock non può vivere da cieco, lo capisci?” la voce e i trasparenti occhi
della donna tradivano un’angoscia profonda mista a paura. “Sono su questa nave
da quando ero una ragazzina, non l’ho mai visto così”.
“Sì… lo so Kei, gli voglio bene anche io, troppo”. Strinse
forte la mano dell’amica guardandola dritta nelle iridi azzurre. Si alzò ed
uscì diretta da Harlock.
Bussò ed entrò.
Lui se ne stava con la testa reclinata sulla sua grande
sedia. “Come ti senti?” Chiese Helèn avvicinandosi e scrutando da vicino la
benda sugli occhi “Fa male?”
“Sì”
Gli versò un anti dolorifico nel bicchiere con dell’acqua aiutandolo
a bere, scostò un ciuffo di capelli mettendogli una mano sulla fronte per
verificarne la temperatura. Se fosse sopraggiunta la febbre, sintomo di
un’infezione, le cose si sarebbero complicate non poco. Lui le prese la mano
baciandone il palmo. Ma lei la sottrasse allontanandosi.
“Che c’è?” chiese
stupito lui.
Helèn non sapeva da che parte cominciare, voleva correre da
lui e riempirlo di baci e poi di pugni, per essersi distratto, e per sapere
perché non le avesse raccontato nulla su come realmente erano andate le cose
con i mercenari. Teneva le mani serrate guardandolo, cercando con tutta se
stessa di ricacciare indietro le lacrime. Non poteva vederlo così. Ridotto
all’oscurità. Le lacrime uscirono da sole incrinandole la voce.
“Per… perché non mi hai detto che tu ti eri consegnato ai
mercenari in cambio della mia libertà? Perché?”
Harlock attese un attimo, poi spostando la testa nella sua direzione
disse: “A che sarebbe servito?”
“Perché lo hai fatto? Ti hanno massacrato, ti… ti hanno quasi
ucciso!”
“Ma non sono morto”.
“Finiscila dannazione!” Helèn tremava. Non riusciva in nessun
modo ad accettare quella cruda verità. “Come è accaduto?” insisté.
“Cosa?”.
“Come hanno fatto a
colpirti l’occhio? Tu sai bene che è il tuo punto debole. Io ti ho osservato
quando combatti, tendi sempre quasi naturalmente a ripararti la parte sinistra
del viso. Come hanno fatto?”
Harlock non rispose.
“Te lo dico io, eri distratto! Guardavi me. Me e le mie
dannate ferite!” Helèn iper ventilava. “Perché? Perché mi proteggi sempre? Perché?”
chiese disperata.
“Helèn andrà tutto bene” fece lui per tranquillizzarla.
“Rispondi!” gridò lei.
“Non lo so. Davvero. Tu perché lo fai?” chiese calmo lui.
“Perché ti amo!”rispose lei di getto rendendosi subito conto
di quello che aveva appena detto.
Le lacrime ormai
correvano libere lungo le sue gote. “Sì ti amo”. Ripeté a voce bassa quasi a se
stessa. “Ti amo come non ho mai amato nessuno. Di un amore folle e disperato,
che mi fa paura, che dilaga dentro me, che mi fa male qui” disse colpendosi al
centro del petto. “E’ come se ti avessi sempre amato, di un amore che si nutre
di se stesso e di te, che non mi lascia tregua. Perché è un amore impossibile.
Non sarebbe mai dovuto succedere. Mai!”
Harlock si alzò cercando di raggiungerla ma urtò uno dei
piedi della scrivania, tutto ciò che vi era sopra si rovesciò e lui perse per
un istante l’equilibrio. Helèn corse ad aiutarlo, lui la tirò a sé stringendola
forte cercando di vederla oltre le bende. “Mi dispiace non averli osservati
mentre lo dicevi”.
“Co… cosa?”
“I tuoi occhi”. Le sussurrò.
“Tu non capisci, non vedi come sei ridotto?”
“Sei l’ultima cosa che ho visto, va bene così”.
“No, no, non va bene così”. Helèn non riusciva a fermare le
lacrime. Lui si chinò a baciarla “ripetilo” le sussurrò.
Helèn deglutì, poi
sfiorandogli la benda con le dita “Mi spiace, non sarebbe mai dovuto succedere,
mai”.
“Io invece ne sono contento” disse lui seguendo col viso come
un’immagine lontana. “Ho sempre perso quelli a cui volevo bene, per una volta è
a me che è andata male”.
In quelle parole
pronunciate con inconcepibile leggerezza Helèn avvertì una realtà cruda e
pesante. Una verità che suppurava un dolore dal quale lui cercava
disperatamente un’assoluzione. Era come se fosse disposto a tutto per
liberarsene, in qualunque modo ed a qualunque prezzo. Finalmente comprese.
Comprese il perché di quel suo atteggiamento quasi indifferente nei confronti
di quello che gli era accaduto e che tanto la irritava. Era convinto che con la
cecità avrebbe finalmente pagato. Avrebbe finalmente saldato il suo debito. Ma
per cosa? Di cosa si reputava colpevole per pensare ad una pena tanto cara?
Posò la fronte al suo petto, sentiva il suo cuore battere veloce.
“Non è come dici tu. Ed io… io non posso amarti”. Così
dicendo fuggì via.
Helèn trascorse la notte a visionare dal computer testi
medici ed interventi, a riguardare le lastre in suo possesso ma la risposta era
sempre la stessa. Intervento. Un intervento che lei non avrebbe mai potuto fare
o almeno non da sola. Per un intervento di quella natura ci voleva un luminare
del campo, una persona fidata. In ballo c’era la vista di Harlock non poteva
sbagliare o comportarsi con leggerezza. Non poteva portarlo in un centro medico
qualunque di un pianeta qualsiasi lo avrebbero riconosciuto, arrestato.
Trascorse la notte a pensare ad una soluzione. Alla fine credette di averla
trovata, era la meno rischiosa. Spense il PC che le riportò riflessa sul visore
scuro la sua immagine stanca e provata. Si guardò a lungo, poi si massaggiò le
stanche pupille. Tornò da Harlock.
Meeme l’accolse “Ha avuto una notte agitata, credo provi
dolore” disse costernata.“Ti ha cercata continuamente”.
Helèn si avvicinò al
grande letto, fu contenta che lui non potesse vederla, era a pezzi. “Come
stai?” chiese dandogli la solita medicina. Lui prese il bicchiere che lei gli
porgeva non permettendo però che lei lo lasciasse. Le strinse forte le mani
guardandola in volto. Helèn chinò lo sguardo come se attraverso le bende lui
potesse realmente vederla.
“Harlock” lo supplicò.
Lui le lasciò le mani. Quindi sedette sul letto accanto a lui. “Ascoltami. Mi
sono fatta un’idea precisa di quello che hai e di ciò che bisogna fare, più
tardi faremo una tac di conferma ma ne sono piuttosto sicura”.
Harlock ascoltava in silenzio. “Il corpo estraneo entrando
nell’occhio ha lesionato la cornea, l’iride ed il cristallino, la ferita è
circondata dall’emorragia io credo che qualunque cosa sia si trovi nel vitreo o
sulla retina, vada asportato chirurgicamente e presto, il tempo non depone a
nostro favore”.
“Bene. Lo farai tu!”
“No Harlock, io non posso o quantomeno non da sola, è un
delicatissimo intervento di micro chirurgia, neanche il più piccolo errore può
esser commesso durante la rimozione o resterai… cieco, ho bisogno dell’aiuto di
un luminare del campo”.
Harlock la fece
parlare. “Con l’aiuto di Yattaran contatterò un mio professore universitario su
Marte il professor Nakashima, sarebbe meraviglioso averlo qui ma, immagino non
sarebbe prudente. Gli chiederò un consulto e di assistermi durante l’intervento
in videoconferenza”.
“No!” la secca
risposta di Harlock la colpì come uno schiaffo. Era convinta d’aver trovato la
soluzione migliore.
“Per… perché?”
“E’ troppo pericoloso, un contatto così lungo verrebbe
rintracciato scoprendoci e poi chi è questo Nakashima? Uno dei tanti asserviti
che venerano Gaia? I miei uomini sono appena tornati sulla loro nave dopo una
lunga detenzione non li rimetterò ancora una volta in pericolo. E tu non ti
rendi conto che così facendo ti riveleresti? Lo farai tu”.
“No, non posso. Non
diventerai cieco per colpa mia”. Rispose Helèn alzandosi di scatto. “Perché non
lo capisci? Non l’ho mai fatto, ho solo assistito ad interventi del genere”. Era
stanca per la notte insonne, per quello che comunque avrebbe dovuto affrontare,
per quello che aveva detto ad Harlock e soprattutto aveva tanta, tanta paura
per lui.
“Mi spiace, il mio
bene viene dopo quello degli altri”. Fece grave lui.
“Ma possibile che tu non capisca? TU sei il bene degli altri!
Sei il capitano di questa nave, e sei un simbolo per milioni di terrestri.
Possibile che tu non lo sappia. Non sai quante rivolte ci hanno mandato a
sedare ribellioni nate nel tuo nome, tu sei più di una leggenda, sei un
simbolo”.
Crollò in ginocchio accanto al letto. Gli prese una mano
portandosela al viso “Ti prego, ti prego, dimmi di sì. Non mi importa niente di
me, a me importa solo di te. Una volta iniziata l’operazione non so cosa
troverò e dovrò comunque andare avanti, ma da sola non posso farcela. Non
posso. Lui mi deve un favore non ci tradirà. Te lo giuro. Non ti ho mai chiesto
nulla da quando sono qui, fallo per quello che c’è stato tra noi, acconsenti,
ti prego”.
Harlock inspirò profondamente, attese un lungo momento. “E va
bene”.
Lentamente la donna si calmò tornando padrona di sé. “Vado a parlare
con Yattaran dopo torno”. Così dicendo uscì.
Harlock si portò alle labbra le dita bagnate delle sue
lacrime, restò fermo a pensare alle parole che aveva pronunciato: ‘quello che
c’è stato tra noi’ aveva usato il passato.
Come Helèn immaginava Yattaran fu felice di poterle essere
utile, disse che per evitare che la lunga connessione fosse scoperta, avrebbe
creato delle interferenze cambiando continuamente canale, certo il resto
dipendeva da questo professor Nakashima. Si mise subito a lavoro per
contattarlo.
Helèn era davvero a pezzi, Harlock le mancava da morire, per
quanto facesse dei respiri profondi le mancava l’aria. Tornò in infermeria.
Avvisò Meeme e preparò il necessario per la Tac.
Come sempre accadeva, quando lui entrò nell’infermeria, lei
che era di spalle, ne percepì l’aura forte, voltandosi di scatto. Portava dei
vestiti comodi, pantaloni ed un pullover color antracite con cerniera al collo.
Vedere la fascia bianca intorno agli occhi le strinse il cuore. “Controlliamo
la benda” disse facendolo sedere.
Helèn si avvicinò, si chinò in avanti per togliere la
fasciatura, lui voltandosi, le sfiorò
senza volere le labbra. Helèn si ritrasse di colpo. Lui se ne accorse. “Non
vedo, non ho la lebbra”. Disse duro.
Helèn non rispose, si
concentrò esclusivamente sul quello che doveva fare. Fu molto professionale. Ed
alla fine quello che pensava venne confermato dall’esame.
“Yattaran a breve mi chiamerà per il primo contatto con il
professore, se tutto va come spero, già domani potrei operarti, poi ci sarà un
la degenza post operatoria. Chiamo Meeme così ti accompagna in camera tua”.
“Non puoi accompagni tu?”. Helèn acconsentì, prendendolo per
un braccio. Ma anche solo stargli accanto le faceva male. Il suo odore le
inondava le narici, il suo tepore si trasferiva dal suo corpo a quello di lei. La
sua forza mascolina la stordiva. Giunti nella stanza lo fece sedere alla sedia
della scrivania. “Vado a cercare Meeme perché resti con te”.
Lui fece per versarsi da bere ma il vino finì in parte sulla
scrivania in parte per terra. Con un urlo di stizza scaraventò lontano il
bicchiere che si infranse. Helèn corse a pulire. “Vattene! che fai ancora qui?”
le urlò.
“Ti… ti prego non rendere le cose più difficili”.
“Perché diavolo mi tratti così? Mi eviti, ho acconsentito che
quel tuo professore ti aiuti durante l’intervento, ma continui a startene in
quella dannata infermeria”.
“Ti prego non agitarti, ti sale la pressione arteriosa”.
“Al diavolo la mia
pressione” e con un gesto scaraventò via volontariamente tutto quello che era
sulla scrivania. Helèn lo raggiunse fermandolo, cercando di calmarlo.
“Lo faccio per te. Non lo capisci?” disse con voce malferma.
“Per me?” tuonò quasi lui.
“Da quando sono su questa nave ti ho reso più debole, la mia
presenza non ti fa bene. E’ colpa mia se ti sei arreso ai quei mercenari senza
scrupoli, ed è sempre colpa mia se ora sei in questa situazione. Mi manchi da
morire ma credo sia più giusto così. Perdonami”.
“Non sei tu che fai le mie scelte. La vita che conduco è
così. Spietata, disumana. Tu non c’entri. Anzi, tu mi hai aiutato ad affrontare
con spirito nuovo gli ultimi accadimenti, una prova dopo l’altra. Ma se è
questo che vuoi…” così dicendo cercò di raggiungere la grande vetrata. Una mano
avanti a sé, lentamente, giunto la posò sul vetro ghiacciato. Poi vi poggiò la
fronte. Il suo Universo gli mancava. Helèn provò una gran pena, gli si avvicinò
e gli strinse una mano.
Si schiarì la voce. “Stiamo attraversando una nebulosa molto
bella, dai colori che vanno dall’amaranto al giallo. Al centro ci sono dei
corpi luminescenti, sembrano diamanti, i suoi bordi sono frastagliati, d’oro e…
ho paura. Ho solo tanta paura per te” disse guardandolo.
“Io no”. Rispose lui.
Lo abbracciò forte
guardandolo in volto. “Tu… tu non hai paura di nulla”.
“Non è vero. C’è una cosa che mi fa paura”.
“Cosa?” chiese
allibita Helèn.
“Ho paura di perdere le persone a cui voglio bene. E’ per
questo che…” non terminò la frase. Helèn la terminò nella sua testa ‘non ami’. Abbassò
lo sguardo.
Quella notte la donna dormì lì. Harlock era già stato privato
della vista non poteva di colpo privarlo anche del suo amore, ora aveva bisogno
di lei. “Stringimi” gli chiese, mentre un senso di perdita senza confini le
stava pervadendo l’anima. Perché tutto era così ingiusto?
Per quanto avesse lottato con se stessa, il suo posto in quel
momento era accanto a lui.
L’indomani era al computer di Yattaran con una cuffietta
all’orecchio ed un microfono. “Pronto professor Nakashima?”
“Si? Chi parla?”una voce gentile e matura le rispose
dall’alta parte.
La donna sorrise
riconoscendola “Professore sono Helèn, Helèn Sterèn”.
“Helèn? Ma… sei
davvero tu?” rispose l’uomo perplesso.
“Professore ha sempre quei sigari nascosti nel libro di
ambliopia* della sua biblioteca?”
“Ragazza, allora sei
davvero tu. Ma, ma io credevo che…” Disse con tono meravigliato.
“Mi ascolti professore,
non posso rispondere alle sue domande è una lunga storia ed io ho bisogno del
suo aiuto”.
Helèn spiegò per
grandi linee cosa era accaduto al suo paziente ed il motivo per cui non poteva
rivolgersi ai canali ufficiali. Parlò della sua idea di farsi aiutare durante
l’intervento con l’ausilio di una telecamera e riportò l’esito dei suoi esami
omettendo accuratamente di chi si trattasse.
L’uomo, per un lungo momento tacque, comprese che accettare, se
fosse stato scoperto, avrebbe comportato dei rischi soprattutto per lui.
“So cosa sta pensando professore, ma io non ho alternative,
la prego” la voce di Helèn era accorata.
L’uomo allora chiese “E’ qualcuno vicino al tuo cuore come
Tadashi?”
“Sì” rispose Helèn senza esitare “Io l’amo, darei la mia vita
per lui ed è importante che nessuno lo sappia mai professore”.
“Dopo quello che hai fatto per mio figlio Takumi non posso
dirti di no. Sai, mia moglie è morta pochi mesi fa”.
“Non lo sapevo”. Helèn chinò il capo al ricordo di quella
donna rotondetta dal sorriso solare che portava limonata fresca per tutti
durante le lezioni private del professore.
“Ora ho solo mio figlio e non sarebbe accanto a me se non
fosse stato per te, io non dimentico Helèn”.
L’uomo accettò e tutto fu fissato per il giorno dopo. Helèn
si alzò guardando Yattaran, lui le sorrise sornione. Lei comprese che non
avrebbe fatto parola con nessuno di quello che aveva udito durante quella
telefonata, quindi si diresse stancamente negli appartamenti di Harlock.
Lo trovò seduto sul grande letto, la schiena poggiata sui
cuscini, lui si voltò di scatto sentendola entrare. “Allora? Come è andata
Helèn?”
“Bene, ma come fai sempre a sapere che sono io?”. Lui
sorrise, non rispose.
Helèn gli si sedette accanto dall’altra parte del letto,
prendendogli una mano e gli raccontò della telefonata, di chi era il professore,
di come si fosse trovata a salvare durante un attacco, la vita del figlio
anch’egli ufficiale medico della Gaia Fleet. Poi poggiò la testa sul suo cuscino,
i suoi capelli le solleticavano dolcemente il viso, il suo odore la coccolò
dolcemente e tutta la tensione e la stanchezza fino ad allora accumulate ebbero
la meglio. Si addormentò così.
Quando si svegliò era poggiata sulla sua spalla, lui era rimasto
lì. Immobile. “Scusami, perché non mi hai svegliata? Chissà che noia, che hai
fatto tutto il tempo?”
“Avevi bisogno di
dormire. Ho trascorso il tempo ripensando a te mentre danzavi, con gli occhi
della mente ti vedo ancora. Poi adoro ascoltare il suono del tuo respiro
regolare, fai un sacco di suoni buffi”.
“Suoni buffi? Che suoni buffi?” chiese Helèn
“Del tipo ‘pppsss o ‘broth-broth’ ”
Helèn sgranò gli occhi “Ma… ma non è vero!” disse dandogli
dei pugnetti sul petto.
Lui si voltò di scatto fingendo un’atroce dolore all’occhio.
Helèn gridò spaventata “Oddio, che hai? Fammi vedere”.
Così facendo si sbilanciò verso di lui che ne approfittò per
bloccarla saldamente per le braccia baciandola. Lei non reagì rispose al bacio
dolcemente, sorrise “Sei un bugiardo planetario, ed un bravo attore”.
Risero scaricando un po’ della tensione accumulata. Lui
immobile sembrava guardarla. “Sembra anche a te, d’aver vissuto già una
situazione come questa?”
“Si” rispose lui sapendo bene di cosa parlava. Quello strano
senso di già fatto, di già vissuto.
“Forse ci siamo incontrati nei sogni Helèn”.
Restarono così abbracciati, godendo del reciproco sentire in
attesa che arrivasse il giorno dopo.
NOTE
Testo di Ambliopia: L'ambliopia, in oftalmologia è
un'alterazione della visione dello spazio che viene a manifestarsi inizialmente
durante i primi anni di vita.
Capitolo dedicato ad Angelfire.
Sempre grazie alla MIA B-Beta.
E grazie sempre a coloro che leggono e commentano.
Mi scuso con tutti per il ritardo nel postaggio causato da malanni
di stagione e da questa vita in corsa alla quale, a volte, è davvero difficile
star dietro. Una nuova improvvisa attività mi ha assorbita completamente. Forse
anche i prossimi postaggi slitteranno, ne chiedo scusa sin da subito,spero
comprenderete grazie a tutti sempre :-*
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