Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Fanfiction
per me fa rima con cross-over. Rispetto le opere e i lavori di tutti gli
scrittori, ma ritengo che la forma più alta di racconto nato sulla base di
un’opera che appartiene ad altri sia proprio il cross-over, un mix tra
personaggi ed opere prese qui o lì per creare un racconto totalmente nuovo, che
ha, insomma, una dignità propria.
Pensiamo alla mitologia: chi ha
inventato gli dei dell’olimpo?
Chi le imprese di Ercole?
Sicuramente non una persona sola,
ma una comunità di menti creative che hanno sviluppato genealogie, incontri,
scontri tra eroi, dei e bestie mitologiche. L’Iliade non è altro che un
cross-over fantastico, ogni nuovo mito non è che un cross-over tra miti vecchi
che così hanno la possibilità di rinascere a miti nuovi.
Questa fan fiction, iniziata nel
2003 e ripresa nel 2012, è un cross-over tra due opere ben precise.
Saint Tail, (Lisa e Seya),
manga del 1995 e il film del 1981 Fracchia la Belva
Umana, il film comico a mio avviso migliore non solo degli anni ’80, ma dell’intero
trentennio ’70-‘2000, un genere che sfocerà poi nella tristezza dei cinepanettoni.
Aggiungo inoltre che questa fan
fiction, iniziata otto anni fa come opera comica e nonsense, ha assunto toni
decisamente più realistici e distesi. Ci sarà forse qualche risata in meno, in
compenso però avrete di fronte la vera Meimi (Lisa),
il vero Asuka Jr. (Alan), la vera Seira
(Sara/Mara) e non dei personaggi fuoriusciti da uno sketch pieno di parolacce che
piacciono tanto ai giovani di youtube. A ravvivare la
parte comica ci penseranno il commissario Auricchio e
il povero – spaesato nella terra del Sol Levante – Giandomenico Fracchia. Prometto anche qualche altra incursione illustre.
Per qualcuno questo pastiche tra
serio e faceto, tra sacro e profano, potrebbe risultare a dir poco indigesto,
come un piatto speziato orientale che mischia proditoriamente dolce e salato.
Ma se anche Dante, nella stessa opera, passò dal “cul
fece trombetta” al “termine fisso d’etterno consiglio”
posso trovare un elemento di giustificazione più che convincente a questa mia
assoluta pazzia.
Per suddividere la storia in
capitoli ho copiato selvaggiamente e senza alcun ritegno lo stile dell’amato
pacioccone George R.R. Martin, che apprendo in questo momento non apprezzare le
fan fiction.
Chi non conoscesse queste opere
potrà rimettersi in pari leggendo due brevi riassunti: Saint Tail nel capitolo 2 e Fracchia e
la Belva Umana nel capitolo 3.
Chi avesse malauguratamente la
fretta di iniziare la lettura può passare subito al capitolo 4.
Grazie a tutti per la lettura.
Saranno particolarmente graditi commenti e suggestioni di ogni genere.
In una cittadina giapponese
completamente cattolica, in una scuola media cattolica, gestita da preti e
suore, ragazzi e ragazze studiano per diventare grandi uomini. E nonostante
tutti siano felici, e nessuno fumi, si droghi o dubiti ad alta voce della
moralità delle figure più care alle religioni monoteistiche, si tratta
dell’anime più censurato e rimescolato della storia dell’umanità.
C'è il figlio del giornalista,
Sergio, (Sawatari in originale), biondo, effeminato e
latin lover, che raccatta informazioni e scoop vari e li manda ai giornali,
ignorando il suo futuro di fame e miseria in qualità di giornalista
pubblicista.
C’è Rina, (Rina anche in
originale), figlia di una poliziotta ed ormai del mestiere, bionda come una
svedese nonostante sia nipponica al cento per cento. C’è anche un immenso
campionario di piccoli professionisti: il piccolo chimico, il piccolo
dinamitardo, la piccola suora.Una
novizia particolare: la più giovane suora dai tempi di Santa Teresa di Lisieux,
di mattina si veste da scolaretta e di pomeriggio se ne gira per la chiesetta
del mega-istituto cattolico ad ascoltare confidenze. Abbiamo però anche la
piccola maga ed il piccolo commissario.
La protagonista è Meimi (che, per una combinazione di droghe pesanti tipiche
di metà anni ’90 è divenuta in italiano Lisa) è, un po' curiosa, come me, e
come te. No, seriamente, che diamine
vuole dire? La curiosità è insita nella natura umana, un po’ di curiosità in
una ragazzina di 14 anni dovrebbe essere un qualcosa di così determinante per
entrare in una sigla di un minuto e mezzo? Boh.
Comunque Meimi/Lisa
è la figlia del più grande mago giapponese, un hippie completamente strafatto
che deve averne fumata talmente tanta negli anni ’60 da sentirne gli effetti a
più di sei lustri di distanza. Vive in uno stato di perenne estasi amorosa con
sua moglie, una vecchia ladra in stile Eva Kant
riportata sulla retta via dalle ingenti quantità di fumo passivo.
Meimi è
fortunata, in quanto eredita dai genitori solo le caratteristiche positive di
entrambi e non quell’insana passione per le sostanze stupefacenti. Unendo l’atleticità sorprendente della madre con la genialità copperfieldiana del padre, è Nadia Comaneci
mescolata con Arsenio Lupin. Sfrutta la sua cleptomania a fin di bene. Seira la suorina, infatti, la
convince a diventare una ladra seriale per recuperare il maltolto a tutti i
derelitti che fanno la fila di fronte alla cappella del megaistituto cattolico.
Cambia look e diventa,
quando serve, Saint Tail (in italiano Seya), e lo fa con un camuffamento che farebbe impazzire i
più bravi fisionomisti e autori d’identikit dell’FBI: si raccoglie i lunghi
capelli castano chiari in una coda di cavallo. Geniale.
Il modus operandi di Saint Tail è sempre lo stesso. Ad una famiglia povera è stato
rubato un Canaletto da un ricco critico d’arte senza scrupoli? Meimi va dalla sua amica suora, pregano sette ore
inginocchiate sui ceci e poi si precipita a recuperare il capolavoro sottratto,
per riportarlo, ovviamente, ai soliti disgraziati derubati. Ma data la natura
esibizionista della ragazza in questione, i furti avvengono con trucchi
giganti, effetti speciali e giochi di prestigio da far impallidire Las Vegas:
il tutto sotto gli occhi degli agenti, allertati da Alan (Asuka
Jr.), che prima di ogni colpo riceve da Saint Tail un
avvertimento.
Perché, sì, c’è anche Asuka. Un caso umano di 14 anni, figlio del commissario di
polizia e futuro detective, compagno di classe di Meimi
e suo oggetto amoroso. E qui, scatta doverosa una puntualizzazione. Ora, può
passare benissimo che in Giappone i giornali si sognino di avvalersi
stabilmente della collaborazione di un ragazzino di 14 anni. Possiamo accettare
il fatto che qualche ordine religioso senza scrupoli accetti come novizia una sbarbatella di 14 anni facendosi beffe di ogni regolamento
canonico. Posso contemplare una ladra 14enne in virtù di capacità magiche e
atletiche fuori del comune. Ma di fronte a un ragazzino di 14 anni, delegato
dal sindaco a gestire le indagini per la cattura di una pericolosa criminale,
con il potere di comandare uomini della polizia tre o quattro volte più anziani
di lui, ogni sospensione dell’incredulità va a farsi friggere.
Nonostante tutto questo, resta uno dei miei anime
preferiti.
Fracchia la
Belva Umana non è un film comico degli anni ’80. È il capolavoro della
cinematografia degli anni ’80.
A partire dall’inizio degli
anni ’70, fino ai cinepanettoni del 2000 – vera pietra
tombale del genere – furono centinaia i film comici realizzati tra Roma e
Milano. Alcuni dei piccoli capolavori, altri delle trashate
da dimenticare. Dal barzellettume di Pierino alle
commedie leggermente amare di Renato Pozzetto, dalla spietata satira sociale di
Fantozzi al noir romanaccio e orgogliosamente cafone di Thomas Millian.
Fracchia la
Belva Umana è la punta di diamante del genere: perfetto in ogni suo aspetto,
nonché parodia di “Tutta la città ne parla”, capostipite del thriller.
La storia è semplice:
Giandomenico Fracchia è un inferiore. Ultima ruota
del carro di una fabbrica di cioccolatini, dove subisce continue angherie da
superiori e colleghi. Anche la donna delle pulizie del suo appartamento lo tratta
come uno zerbino. Con il suo gemello Ugo Fantozzi condivide l’amore
irraggiungibile per una collega, la Signorina Corvino. Proprio la sera del suo
primo – fallimentare – appuntamento con la signorina in questione –
interpretata da una meravigliosa Anna Mazzamauro –
incontrerà il suo destino.
I media e le forze di
polizia di tutto il mondo, infatti, hanno appena dato il volto al criminale più
efferato del globo: la Belva Umana. Ed è proprio il volto di Giandomenico Fracchia, sosia perfetto dell’assassino e rapinatore
internazionale.
Da qui inizieranno una serie
di qui pro quo, scambi di persona e gag geniali che hanno reso questo film un
vero e proprio cult. Basti pensare alla madre della belva, un intramontabile
Gigi Reder, ma soprattutto al mitico commissario Auricchio, l’infinito Lino Banfi, con i suoi tic e il suo
accento pugliese.
Su Youtube
trovate il film intero. Ne vale assolutamente la pena.
È passato un anno dalla fine
dell’anime, quando Meimi, scoperta da Asuka, rinunciava alla sua identità segreta e intraprendeva
con lui una commovente storia d’amore. «Sei
tu il tesoro più prezioso».
Qui però, in questo nostro
bellissimo Alternative Universe, nulla è cambiato. Meimi continua a pregare sette ore al giorno con Seira, continua a recuperare da perfetta Robin Hood in
gonnella opere d’arte e oggetti rubati e a fregare di brutto Asuka Jr, che non ha ancora comunicato i suoi sentimenti
alla gentile donzella, tanto impegnato a investire in lunghe cacce notturne il
suo odio (anzi, il suo amore) verso Saint Tail.
Le sale d’esposizione del Minato Art Museum
erano per sei giorni alla settimana, dalle nove del mattino alle otto della
sera un’oasi di pace e di serenità. Le ampie finestre permettevano alla gentile
brezza dell’oceano di penetrare tra quegli spazi sconfinati, facendo così
ondeggiare ritmicamente le gradi piante da interni. Una danza che ben si
amalgamava con gli oli e le tempere appese alle pareti rosse. Per sei giorni
alla settimana chiunque poteva immergersi nelle vedute di Venezia del
settecento, nei ritratti di famiglia fiamminghi del seicento, nelle sacre
rappresentazioni del quattrocento. Per sei giorni alla settimana. Ma non quel
giorno.
Dove di solito i visitatori osservavano in silenzio i
frutti più sublimi dell’ingegno umano, in quel giorno, un gruppo di giornalisti
ascoltava la voce irata e scattante di un critico d’arte straniero.
«È confermato, capre e idioti!», sbraitò il critico
italiano, sbattendo un pugno contro il leggio di legno dal quale parlava.
«Questa settimana, orribili mentecatti orientali, potete apprezzare l’arte post-catastrofica-bellica-positivista del più grande
pittore del novecento, Osvaldo Paniccia, di una nota
collezione privata».
Le telecamere continuavano a catturare le smorfie del
professore e il suo continuo grattarsi i capelli, mentre i cronisti della carta
stampata, incuranti di ogni barriera linguistica, scrivevano fedelmente nei
loro taccuini l’annuncio dell’evento artistico dell’anno.
Il critico fece silenzio per qualche istante, poi
sbraitò: «Prima era agli Uffizi a Firenze. Ed oggi è qui. Dite a tutti di
venirlo a vedere, brutti culattoni! Per celebrarlo, domani sera, qui, si darà
appuntamento la creme della creme di questa squallida città. Altro che i
pezzenti come voi», e fece per andarsene. Un custode del museo, in livrea e con
i guanti bianchi, sfilò il lenzuolo per permettere a tutti la visione
dell’esemplare più prezioso dell’arte italiana che avesse toccato il suolo giapponese.
L’ammirazione per Paniccia
tramutò l’ascolto silenzioso in ovazione. Giornalisti e spettatori batterono le
mani, estasiati. Il critico non poté credere alle proprie orecchie. Riprese con
uno strappo il microfono del leggio e sbraitò, più forte di prima: «Ehi! Ma io
vi ho mandato affanculo! Popolo di merda con una
società orribilmente verticale ed in cui le relazioni interpersonali sono
schifose e l'ego artistico soffocato da centinaia di dettami della vostra etica
del cazzo!».
Ma gli applausi continuarono, più forte di prima. «Ma
cosa siete? Dei robot? Ma fate cagare il cazzo, scusate! Anche i vostri autori,
Mishima per dirne uno, sono solo degli orribili
culattoni! Ma sapete che vi dico? Ma andate a farvelo mettere in culo! Brutte
teste di cazzo!»
Standing Ovation in sala. Il critico corse via piangendo,
sconvolto. Per la prima volta, in vita sua, non si era guadagnato quel “vaffanculo” di ritorno che ogni sera lo faceva addormentare
con un sorriso sul volto.
Giornalisti, addetti e curiosi, intanto, iniziarono a
sfilare davanti al dipinto, scattando ciascuno con fotocamere, smartphone e tablet centinaia e centinaia di foto all’importante
quadro, che mostrava, in bianco e nero, il cadavere di un ragazzo decapitato
vagamente assomigliante a ShinjiIkari.
Mancavano cinque
minuti all’inizio delle lezioni nella scuola giappo/catto/nese nella quale, giorno
dopo giorno, si formava la classe dirigente del paese. Frati e suore
camminavano per i corridoi a passi cadenzati, liturgia delle ore in mano,
mentre ragazzine pre-adolescenti piegavano con le loro mani cuoricini e lettere
d’amore ad altrettanti ragazzini dai tratti leggermente femminei.
Sawatari,
futuro giornalista, stava curando nel suo banco, come ogni mattina, la rassegna
stampa, tagliuzzando una ventina di quotidiani, evidenziando qua e là e ridendo
come un pazzo ad ogni refuso incontrato. «Chiude l’azienda Yanagisawa.
Già sentito. Polemiche alluvionati e terremotati. Che noia. Pericolo nucleare.
Bah, che palle. Wow! C’è un gatto a Sendai che canta
miagolando la sigla della Famiglia Addams! Questo è
uno scoop!».
«Sawatari!» lo interruppe Kyoko,
una delle sue compagne di classe, «ma non hanno aperto ieri la mostra, con quel
quadro?».
MeimiHaneoka alzò gli occhi dal quaderno di matematica,
dove stava ricopiando all’ultimo minuto i risultati giusti delle equazioni dei compiti
per casa. «Quadro?».
«Sì», confermo Sawatari, «uno schizzo di Osvaldo Paniccia…
è di proprietà di una nota famiglia italiana, i SerbelloniMazzantiViendalmare. Lo ha
portato Sgarbi, quel critico italiano tanto simpatico. Sarà esposto al museo
per dieci giorni…»
«E Saint Tail non riuscirà a rubarlo», ruppe il suo silenzio il
giovane detective Asuka Jr, entrando in classe.
«Lo sai meglio di
me che Saint Tail ruba solo ciò che è già stato
rubato!», lo ammonì Sawatari.
«Sì, però i SerbelloniMazzantiViendalmare… quella loro contessa…
sono un bersaglio prediletto da Saint Tail. A loro ha
già rubato sette quadri, due statue, dodici stampe, una poltrona in pelle umana
nonché una nave ancorata a Portocervo», ricordò Asuka Jr.
Meimi
intanto continuava a scrivere numeri a caso sul suo quaderno senza battere
ciglio, perpetrando l’orrendo stereotipo degli shojo
giapponesi per il quale le belle ragazze sono assolutamente incapaci di
comprendere la matematica dopo il due più due. Meimi
se la ricordava benissimo, la contessa SerbelloniMazzantiViendalmare. Una vecchia
impiegata che sposò il conte sul letto di morte. Sempre col suo vestito rosso
attillato e quei suoi capelli neri alla Marge
Simpson. Sempre in Giappone. Sempre a commissionare furti d’arte ai quali Saint
Tail toccava porre rimedio. Sempre pronta a
circondarsi per soddisfare le sue brame con i peggiori criminali. Anzi. Con il
peggiore dei criminali.
«Lo so» non diede
tregua Sawatari, informato come il più zelante dei
professionisti della stampa, «Ma i sette quadri, i cari SerbelloniMazzantiViendalmare, li
avevano fatti rubare in vari musei del mondo. British,
Louvre, Hermitage, Uffizi, Telemarket,
etc. Le due statue erano per l’appunto una Biancaneve e un Gongolo senza il
braccio destro, rubati, da quel che risulta alla stampa italiana, ad una scuola
materna di Frascati».
«E le stampe?»,
domandò Asuka Jr, colto alla sprovvista.
«Le dodici stampe
furono fatte prelevare dai Musei Vaticani. I dodici apostoli, con autografo e
dedica originale, tra cui il famoso “Bacioni di cuore, Giuda Iscariota”»,
ricordò in velocità Sawatari.
Asuka
Jr per un momento trasalì: «Ora ricordo gli appunti di papà. Avevano appaltato
tutti i furti ad alcuni pericolosi ladri italiani…»
«Ladri?». Rise
spavaldo Sawatari. «Assassini, vorrai dire. Solo per
i nani hanno sgozzato due suore in quell’asilo. Per le stampe…
Beh, ti dirò solo che la Santa Sede fece un concorso straordinario, la
settimana seguente, per assumere altre venti guardie svizzere, dato che le
precedenti. Beh. Erano finite male».
«Un vero
animale», urlò scandalizzata Kyoko. «Una belva…», commentò con un filo di voce Meimi.
«Ma come può una
famiglia così crudele venir accettata nel nostro paese?» chiese Kyoko. Meimi intanto non si
perdeva una parola dell’intera conversazione.
«Se non ci sono
prove», commentò con amarezza Sawatari, «si è
innocenti. E poi i SerbelloniMazzantiViendalmare hanno investito molti soldi in Giappone. Soprattutto
con l’ultima contessa, che per il nostro paese sembra proprio andare pazza. Comunque,
Asuka, Saint Tail non si presenterà…»
«Come fai a
dirlo?», chiese sorpreso il giovane investigatore.
«Le mie fonti confermano
che lo schizzo è da sempre di proprietà della famiglia SerbelloniMazzantiViendalmare.
Dunque, Saint Tail non si presenterà, questa
settimana. Men che meno stasera, per il galà col
sindaco».
«Non ne possiamo
essere sicuri», tagliò corto il giovane Asuka. «Non
possiamo rischiare su materie così importanti. Io e mio padre saremo lì,
stasera, per il galà di presentazione col sindaco e con la contessa Viendalmare. Ma con noi, per tutta la settimana, sarà al
nostro fianco l’uomo migliore della polizia italiana».
Meimi
alzò subito lo sguardo. Nei suoi occhi un lampo, di paura e di sorpresa.
“L’uomo migliore della polizia italiana?” pensò la ragazza. “Non sarà mica…”
Un’intera parete, ricoperta da un
soffice velluto rosso, ospitava il piccolo quadro di Osvaldo Paniccia, piccolo per dimensioni ma grandissimo per
quotazione. Si trattava della sala più grande, quella destinata agli esemplari
più preziosi della scultura cinese. Un enorme, quanto unico nel suo genere,
vaso Ming se ne stava appollaiato in un gracile piedistallo, proprio di fronte
agli occhi del commissario Asuka senior.
«Grazie per essere con noi.
Ci affidiamo a lei, Commissario Auricchio!», e si
inchinò leggermente, come richiede il saluto giapponese.
Il commissario Auricchio (a.k.a. Lino Banfi) era
un uomo piccolo e tarchiato, sui cinquant’anni, affetto da seri problemi di
calvizie. Vestiva in borghese, come tutti gli uomini della polizia italiana di
alto grado. Nei suoi occhi l’orgoglio di una professione rischiosa e la
stanchezza di anni e anni di caccia senza riscontri.
«Grezie.Faremo del nostro meglio per difendere il
vostro quedro.» Disse il commissario italiano,
accennando un dubbioso quanto goffo inchino.
«Ci risulta ci siano
concrete possibilità», ammise con preoccupazione l’agente della polizia
giapponese, «che Saint Tail si presenti nuovamente.
Non voglio assolutamente dubitare della moralità dei mecenati vostri connazionali»,
si schernì Asukasr., «ma i
nostri precedenti ci chiedono di aumentare le misure di sicurezza».
«In realtè»,
replicò in accento pugliese Auricchio, «più che per
il quedro, io sono qui per un’importenteindegine dell’Interpol per catturere quella fetecchia
assoluta che ci perseguita…». Il commissario iniziò
ad ansimare pericolosamente. Dal fondo della stanza sopraggiunse di corsa un
ragazzo alto e cappellone, con la faccia spaesata. Un ragazzo che gli amanti
del cinema italiano riconosceranno come De Simone, braccio destro di Auricchio e vice-commissario.
«Commissario…
ha dimenticato le pillole!» disse sottovoce De Simone al suo capo. Un telefono
squillò. «Con permesso», Asukasr
aprì il cellulare e si girò per rispondere.
«Brutto disgrazieto!»,
sbraitò sottovoce, ma ancora perfettamente udibile, Auricchio.
«Sarenno anche chezzi miei!
Lo sai io che ne penso dei dottori!». E, malauguratamente, si appoggiò al
piedistallo. Sì, purtroppo. A quel gracile piedistallo con quel famoso quanto
inestimabile vaso Ming, che si ruppe in mille pezzi.
Asukasr sentì il rumore e si girò di scatto, ma Auricchio, che nel frattempo aveva tirato un calcio a De
Simone e aveva percorso quattro metri di lato a sinistra tossì con forza,
nascondendo con un guizzo da maestro il grave danno che aveva inferto allo
storia dell’arte ceramica cinese.
«Non sa davvero quanto siamo
onorati di averla qui con noi», Asukasr si inchinò di nuovo, «lei è l’unico poliziotto al mondo
in grado di rivaleggiare con la terribile Belva Umana!».
De Simone spalancò
improvvisamente la bocca, con un’apertura angolare che non era mai riuscito a
raggiungere nemmeno dal dentista. Auricchio strinse i
punti, pensò ad un “Porca puttena maledetta” e colpì
con un pestone il pavimento, ottenendo, come unico risultato, che una scheggia
acuminata del vaso Ming gli si infilasse in una scarpa squarciandogli un piede.
«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHH»
«O Santi Numi», gridò anche Asukasr. «il vaso Ming!».
De Simone cercò di salvare
il salvabile: «Vede… Il Commissario Auricchio non vuole che si parli di questa faccenda». «Quale
faccenda?» chiese Asukasr.
“A questo punto meglio si accorga del veso…” pensò
disperato Auricchio, che trovò comunque la forza di
parlare. Anzi, di gridare, a suo modo.
«DE SIMONE!!! MALEDETTO STRONZONE
DISGRAZIETO!!! NON DIRE CHEZZETE! IO NON VOGLIO CHE NON SI PARLI!!!» fu
costretto Auricchio.
«Allora racconti!» intimò Asuka senior.
Nella mente del commissario
italiano l’onta subita tornò lucida. Nella sua anima il peso dell’umiliazione
di quella sera terribile, la più terribile della sua carriera, era più viva che
mai. La sera in cui la Belva Umana, il criminale più efferato del mondo, la
persona più ricercata per l’FBI, la fece franca, di nuovo, sotto il suo naso.
Era una fresca serata di fine giugno: la luce del sole,
ormai quasi del tutto tramontato, faceva capolino tra gli alberi del bosco del
Castello Sforzesco, a Milano. Auricchio si sentiva
spaesato, il cuore gli tamburellava in gola. Non aveva bevuto, eppure avvertiva
nel suo fisico tutti i prodromi di una sbronza colossale.
La Belva Umana era ormai in pugno. La trappola che gli
avevano preparato non aveva precedenti nella storia della Polizia italiana.
Camminò quatto quatto verso
l’albero vicino, al quale era appoggiato, pistola in mano e aria circospetta,
il fido De Simone. Sempre in silenzio, toccò con un dito sulla spalla il
sottoposto per avvertirlo della sua presenza.
«AIUTO!!!» urlò il poliziotto ipertricotico.
Auricchio tacque De Simone con una sberla degna di
un’illustrazione nello Zanichelli: «Taci delinquente! Che chezzo
urli! Se perdiamo la Belva per colpa tua giuro che ti mendo
a fere il vigile urbano a Lampedusa!»
«Mi scusi commissario…» «Mi
scusi il chezzo. Stai attento, comunque. Che questa
volta lo prendiemo, il figlio di puttena!»
La ricetrasmittente che Auricchio
teneva appesa alla cintura iniziò a gracchiare gravemente.
«Commissario…Commissario…» iniziò la voce metallica «L’obbiettivo è
stato intravisto nella sala sotto la torre. Abbiamo fatto bene a piazzarci il
Caravaggio proprio lì. È in trappola. Ci addentriamo?»
«Affermativo» disse con sicurezza, impugnando con forza
il trasmettitore, il commissario d’origini pugliesi. «Però fete
attenzione, ecchecchezzo! L’ultima volta, anche
l’ultima volta, abbiemocattureto
il povero Frecchia al suo posto».
La feroce Belva Umana, assassino, omicida e stupratore
seriale non era infatti quella bestia senza cervello che il nome potrebbe
suggerire a un lettore di fatti di cronaca disattento. La Belva Umana era sì
feroce, ogni sua azione nascondeva una sete di sangue e di violenza
riscontrabile solo nelle bestie più selvagge, eppure non era uno stupido. Anzi.
Cinico e freddo calcolatore, usava i meandri più oscuri della sua anima nera
con estrema razionalità.Dava sfogo ai
suoi più bassi istinti all’interno di piani ben congeniati che gli facevano
scalare, mese dopo mese, l’hit parade della scena mondiale del crimine. Il
furto di antichi artefatti e capolavori dell’arte, la rapina delle banche più
sicure, i sequestri di industriali più ricchi e di eredi al trono dei
principati in Arabia lo avevano reso il criminale più ricercato del mondo.
Esistono sette nostri sosia perfetti in giro per il mondo
in questo momento. Quando la Belva Umana aveva appreso che la sua copia
spiccicata si trovava a Roma, dove svolgeva una triste esistenza quale ultima
ruota del carro in una fabbrica di cioccolato, aveva deciso di approfittare
subito della ghiotta occasione.
Un sosia perfetto è un ottima esca per polizia e
carabinieri nella scena di un furto. È un’ottima pedina da giocare negli
incontri coi vertici della malavita organizzata. Ed è un ottimo potenziale
cadavere per convincere tutti, in caso di estrema necessità, della propria
dipartita.
«Giandomenico Fracchia»,
continuò la voce metallica, «è stato avvistato 15 minuti fa all’interno del suo
appartamento. Non vi sono dubbi, commissario».
«Va bene!», quasi esultò Auricchio,
«Comincemo!»
Dagli alberi sbucarono improvvisamente, come ninja
addestrati, decine e decine di poliziotti. Un reparto dei carabinieri, armato
di tutto punto, circondava le mura del palazzo milanese. «Dentro voi!» diede
ordine al megafono Auricchio, in preda all’orgasmo
della situazione. Il megafono gracchiò e sibilò. È nota infatti l’avversione
reciproca tra il commissario interpretato da Lino Banfi e ogni marchingegno
vagamente tecnologico.
«Madonna Benedetta!», sibilò con sofferenza Auricchio. «Perché non funziona? Prova te». E passò il
megafono al giovane De Simone. «PROVA. PROVA». Nelle mani del vice-commissario
l’arnese funzionava benissimo. Con una zampata Auricchio
si riappropriò del megafono, che, immediatamente, tornò a fischiare e a fare i
capricci. Il commissario gettò per terra l’apparecchio, ci saltò sopra per
disintegrarlo e iniziò a sbraitare, in modo che la Belva, asserragliata dentro
la torre del Castello Sforzesco, potesse sentirlo. Dalla gola di Auricchio uscì fuori una voce titanica, di gran lunga
superiore a qualsiasi amplificatore di fabbricazione orientale: «BELVA UMENA!!!
ESCI IMMEDIATAMENTE. SEI CIRCONDETO!!!».
«Nell’ala est non c’è», gracchiò una voce dalla
ricetrasmittente. «Ala ovest, negativo», se ne aggiunse un’altra. Un lampo di
preoccupazione tendente al panico balenò negli occhi di Auricchio.
«De Simone! Seguimi!». Mostrando una dote atletica
impensabile per delle maschere del cinema comico italiano, Auricchio
e De Simone si fiondarono, beretta alla mano, all’interno dell’edificio, quando
alla loro sinistra sentirono dei passi e delle grida. «Sta scappando!». Un uomo
canuto con un vestito grigio elegante, piuttosto tarchiato, veniva verso di
loro, inseguito di corsa da venti e più uomini di un reparto speciale della
Guardia di Finanza. Auricchio non si fece sfuggire
l’occasione. Con un placcaggio degno degli AllBlacks anticipò l’uomo e lo stese a terra. Entrambi
stettero immobili, sul pavimento, per pochi, forse tre o quattro, interminabili
secondi. Dalla folla degli inseguitori partì persino un applauso, la
celebrazione, a tratti quasi commovente, di un lungo lavoro che vede la fine.
«Belva. Finalmente ti ho cattureto!».
Gli occhi del commissario iniziarono ad inumidirsi.
L’uomo a terra, mentre veniva ammanettato, iniziò a
lamentarsi con lunghi vocalizzi: «AAahh…Scusi… Chi è? Ahia, che male».
De Simone fece trapelare un atroce sospetto toccandosi la
fronte col palmo aperto. Ma Auricchio era al settimo
cielo. «Non fare lo gnorri! Sappiemo tutti chi sei!
Non ci schempi. Questa rapina d’arte t’è andata mele!
Molto mele!»
L’uomo si limitò a continuare coi suoi vocalizzi, aprendo
la bocca e stendendo la mascella, in preda a un’evidente crisi di salivazione
azzerata.
«Per chi lavori questa volta?» incalzò Auricchio «I Balaban? I SerbelloniMazzantiViendalmere? I Casalesi? Avanti, dillo!»
«Mah…» esordì l’uomo «mi
ricordo solo che ero a terra… su, su, su Pino.»
«Su Pino o supino?»
«Mi è stato detto di starmene su Pino. E poi ho visto
l’arte. La rapina. Una rapina supina…» farfugliava
incomprensibilmente l’uomo, agitando una lingua felpata paragonabile ormai a
una pelle di daino.
Alcuni finanzieri iniziarono a scuotere la testa,
parlottando tra loro. Auricchio non ci voleva
credere.
«Lei per caso. Non è che lei…»
continuò Auricchio, volenteroso di ritardare il più
possibile la risposta da parte del suo interlocutore. Non poteva essere. Di nuovo.
«Io… io?» ribadì confuso
l’uomo.
«Lei è Frecchia?» domandò
mettendosi le mani nella pelata il povero Auricchio.
Ma più che una domanda, era un’amara constatazione.
«Ah…» aprì nuovamente l’ampia
bocca il povero maitre chocolatier, «quello era il
nome», con un sibilo che pareva l’esalazione dell’ultimo respiro.
«PORCA PUTTENA MALEDETTA…
DUNQUE LA BELVA…» in quel momento l’allarme scattò.
Il Caravaggio era stato strappato dalla sua teca. Auricchio
corse fuori, verso il chiostro, per avere una visione d’insieme del Castello
Sforzesco. D’istinto lanciò il suo sguardo verso la cima della torre, a più di
quaranta metri d’altezza. Un uomo, del tutto uguale a Giandomenico Fracchia se ne stava in piedi sul cornicione più alto.
Nonostante fosse distante alla vista, poté notare il suo sguardo. Uno sguardo
truculento, feroce. Da Belva, appunto. In mano, piegato sul fianco, il
Caravaggio rubato.
Con un rumore assordante quattordici riflettori della
Polizia si accesero, mettendo a fuoco la figura, abbagliandola con le luci. Con
esse, si riaccesero anche le speranze per Auricchio.
«ARRENDITI BELVA!» gridò con tutto il fiato che aveva in
corpo. Ma non appena vide, distante ma limpido, un sorriso feroce illuminare il
volto della Belva, Auricchio comprese, al di là di
ogni ragionevole dubbio, che la sua caccia era finita. Mai però si sarebbe
immaginato il passo successivo della Belva.
Il criminale corse verso il chiostro, e si lanciò nel
vuoto.
«È pezzo!» Gridò Auricchio.
Vide in poche frazioni di secondo il corpo della Belva avvicinarsi al suolo.
Sempre con quel suo sorriso stampato sul volto. Un’espressione che valeva cento
discorsi. “Non mi prenderete mai” pareva dire.
A pochi metri da terra, la giacca del feroce ladro si
squarciò. Dalla schiena della Belva uscirono due asticelle in teflar, dalle quali, in poche frazioni di secondo, si
stesero due ali nere in tessuto sintetico. Prima che chiunque potesse
realizzare cosa stesse succedendo, la Belva prese il controllo del
marchingegno. Con il Caravaggio in mano, il criminale più ricercato d’Europa –
e del mondo – planò dolcemente oltre le mura del castello sforzesco,
scomparendo alla vista.
Seguirono alcuni minuti di silenzio irreale. Qualcuno
azzardò una ricostruzione.
«A quanto pare lo ha rifatto», commentò timidamente De Simone,
«ha narcotizzato il Fracchia, lo ha portato qui e lo
ha usato come diversivo. E mentre noi lo inseguivamo, lui trovava il tempo per
rubare il Caravaggio, assolutamente indisturbato».
Auricchio
rimaneva in piedi. Ancora quel senso di confusione paragonabile ad una sbronza.
Ma se prima si trattava di una sbronza allegra, quella che viene bevendo birre
tra amici vedendo una partita di calcio della nazionale nella quale si sta
vincendo, questa era una sbronza triste, una di quelle che puzzano di whisky e
vomito.
La ricetrasmittente attaccata ai pantaloni quasi impazzì.
«È scappato commissario» «È fuggito commissario» «Ce lo
siamo fatti scappare, commissario». Le voci si sovrapponevano le une alle
altre. Poi iniziò a sibilare, gracchiare. Persino a catturare qualche
interferenza. Si poteva sentire chiaramente sullo sfondo una canzone di Mino Reitano. Auricchio si strappò con
rabbia la ricetrasmittente dalla cintura. Sfortunatamente, assieme alla
ricetrasmittente venne via anche una buona porzione del tessuto dei pantaloni
firmati. Si morse la mano con violenza e gettò il trasmettitore a terra, a far
compagnia ai sassi bianchi e lucidi del chiostro sforzesco.
Era a piedi, mancavano pochi
metri e sarebbe tornata a casa, dove il suo divano l’attendeva. Per almeno una
ventina di minuti avrebbe spento il cervello. “Solo per venti minuti,
basteranno!” implorava una parte di sé.
Otto ore di scuola, per lei,
erano decisamente troppe. Non poteva essere Saint Tail
solo per una manciata di sere al mese, solo per effettuare i suoi colpi ad
effetto.
Doveva esserlo ogni sera,
ogni notte. Costante allenamento fisico, perenne studio dei trucchi del papà e
preparazione del suo arsenale, fatto di colombe, coriandoli, palloncini e
fuochi d’artificio.
Era sempre più stanca.
Stanca di Asuka Jr, per il quale provava un affetto
spropositato ma che non riusciva a dimostrare concretamente. O meglio, lo
faceva, sempre in qualità di Saint Tail. Quella caccia
continua, quei continui biglietti di sfida dentro le quali si nascondevano
implicite infuocate lettere d’amore, quel continuo gustarsi le facce che faceva
e i sorrisi inebetiti che gli lanciava quando, ormai in lontananza, volava via
coi palloncini dalle scene dei suoi furti.
Quanto sarebbe stato bello
lasciarsi quella doppia vita alle spalle? Una vita che andava avanti da troppi
anni. Troppi falsi litigi in classe. Troppi film visti al cinema, feste di
compleanno, gite fuori porta fatte senza di lui, pensando sempre a lui.
Si tolse le scarpe, come
vuole l’etichetta giapponese, fece per salutare i genitori ma non vide nessuno.
Suo padre non era spaparanzato sul divano, come al suo solito, provando i suoi trucchetti di magia per gli spettacoli serali e sua madre
non era lì, vicino a lui, a guardarlo estasiata.
«Siamo qui», avvertì la
madre Eimi dal piano superiore.
Meimi
salutò e salì le scale, sovrappensiero. Appena mise il piede destro nel
corridoio del piano superiore, strabuzzò gli occhi con forza. Non li aveva mai
visti così belli. Suo padre indossava un abito italiano da sera con tanto di
guanti bianchi di velluto, sua madre, una sfolgorante trentaseienne ancora nel
pieno della giovinezza, sembrava uscita da una rivista patinata di moda, con un
lungo abito azzurro cielo che le lasciava le spalle e la parte superiore del petto
nude.
«Ma…ma… che succede?» spalancò la bocca la giovane
ragazza.
«Non ti ricordi?» la ammonì
con un pizzico di severità la madre.
Improvvisamente le venne
tutto in mente. Quel bel vestito rosa comprato poche settimane prima dalla
madre che attendeva ancora incartato nel suo armadietto. Quella generica serata
dell’alta società di cui ogni tanto si parlottava a tavola, per il quale suo
papà era stato invitato come artista dell’anno. Quel galà del sindaco… Il galà del sindaco? Proprio quello? Stasera?
«Veloce, tra mezz’ora
partiamo!» gli disse sorridendo suo padre. Non l’aveva mai visto arrabbiato in
vita sua, a differenza di sua madre. “Forse – si diceva spesso – proprio perché
sono così simile a lei”.
Corse subito in bagno per
farsi una doccia, si asciugò in fretta e si guardò allo specchio. I capelli.
“Ci sarà anche Asuka”. Arrossì. Doveva pensare ad un
modo di sistemarsi quei capelli castano chiari, dei quali lo specchio,
annebbiato dal vapore, restituiva un’immagine distorta e agghiacciante. Ma
quale ragazza ha il coraggio di guardarsi allo specchio e sentirsi bella? Tentò
invano di accomodarli in una decina di modi diversi, poi, sconfortata, si
decise ad indossare il lungo vestito rosa, orlato di pizzi e di merletti. La
mamma Eimi la raggiunse, e, senza parlare, raccolse i
lunghi capelli della figlia in un unico chignon, dal quale fece cadere
sporadici ciuffettini. Un filo di perle furono il tocco finale.
“Spero proprio”, pensò Meimi, apprezzando gli sforzi della madre e contemplandone
i risultati allo specchio “che Saint Tail questa sera
non debba intervenire”. E pregò con tutto il cuore che lo schizzo di Paniccia appartenesse veramente all’altezzosa Contessa,
anche se una parte della sua mente sapeva che non era così. “Anche questa sera
Saint Tail interverrà” disse una voce. “Anche questa
sera il tuo Asuka sbaverà di fronte a Saint Tail e continuerà ad ignorare te” le fece eco un’altra
voce, più sincera ma assai più dolorosa della prima.
Le campane batterono cinque
rintocchi. Da mezz’ora, tra i banchi in rovere chiaro della chiesetta dell’istituto
St. Paulia, diciotto religiose vivevano il cuore
della propria giornata.
Ore 16.30 l’adorazione
eucaristica. Ore 17.00 i vespri. Una liturgia, una serie di preghiere che in
quel momento condividevano con la Chiesa di tutto il mondo, sotto gli occhi
dell’ostia consacrata e delle statue di san Francesco, di santa Chiara e di san
Francesco Saverio, che per primo fece conoscere il Vangelo al popolo
giapponese.
Tra le diciotto religiose,
due, le più anziane, avevano già il velo quando la bomba atomica fece scempio
di Hiroshima e di Nagasaki. La più piccola, invece, Seira,
era poco più di una bambina. Quindici anni e mezzo, quasi sedici.
«O Gesù redentore, immagine del Padre, luce d’eterna luce, accogli il
nostro canto».
Il canto delle suore era
acuto: un flauto, per raggiungere la loro tonalità, avrebbe dovuto fischiare
orribilmente. Ma le voci delle religiose erano soavi, eteree. Quasi di un altro
mondo. Anche Seira aveva iniziato quel canto. Anzi,
lei era il canto.
«Fa salire le nubi dall’estremità della terra, produce le folgori per la
pioggia, dalle sue riserve libera i venti».
C’è chi la chiama vocazione.
Chi una pessima idea. A Seira non importava. Era nata
innamorata: la vita in abito bianco, mani giunte e occhi verso il cielo era la
sua cerimonia di matrimonio, una cerimonia che lei sapeva, anzi, ne era certa,
non sarebbe finito mai. Aveva detto sì, prestissimo. Anche nell’ordine qualcuno
aveva torto la bocca nel pensare ad una novizia così giovane. Ma la provvidenza
la volle lì. Giovanissima. Innocente.
«Signore, il tuo nome è per sempre. Signore, il tuo ricordo per ogni
generazione», continuò la liturgia di quel venerdì pomeriggio. Al termine,
sarebbe rimasta in Chiesa a pregare ancora un po’. Sfruttava ogni più piccolo
ritaglio di tempo per stare con il suo “Amore”. La sua settimana, del resto,
era piena di impegni. Perché Seira era una suora, ma
allo stesso tempo, era una liceale. Doveva frequentare la scuola e ascoltare le
lezioni tenute proprio dalle sue consorelle, che non le alleggerivano per nulla
i carichi di studio in virtù della sua vocazione, anzi, sembravano proprio
volerla mettere alla prova. Dopo la scuola l’attendevano gli impegni nella
chiesetta, nella vicina parrocchia e lo studio. Altro studio, che però gradiva
di più: Teologia, Cristologia, studio delle vite dei santi, etica, morale. «Mi
aiutano», confidava sempre a Meimi, la sua migliore
amica, «ad avvicinarmi a Dio».
Già, Meimi.
Saint Tail era un’idea di Seira.
Mettere le doti atletiche e le conoscenze di magia di Meimi
al servizio del bene. Quelle, ovviamente, e la ribellione di entrambe. “Può una
suora essere ribelle?” si domandava spesso. “Sì”, era la risposta che si dava.
Architettava furti in ampio
stile, ma per lei non aveva mai voluto nulla. Era la complice numero uno della
criminale più ricercata in città, eppure aveva rinunciato a tutto. Nel suo
cuore pregava perché, finché ce ne fosse stato bisogno, la Provvidenza
continuasse a servirsi del tutù rosa e dei palloncini d’elio di Meimi / Saint Tail. Ma pregava
anche perché tutto finisse. Perché Meimi, finalmente,
nascondesse Saint Tail e fosse solo Meimi agli occhi di Asuka jr.
Nella chiesetta risuonò il
Magnificat, poi tutto tacque. Silenziosamente le sorelle lasciarono la
chiesetta. Alcune andarono a correggere compiti in classe, altre si diressero
nel vicino ospizio degli anziani per la loro visita settimanale.
A far compagnia al
tabernacolo, nel giro di pochi minuti, rimase Seira
da sola. Ed era proprio in quel frangente che, di solito, la Divina
Provvidenza, tramite la giovanissima religiosa, riceveva i suoi “clienti”.
Un uomo fece il suo ingresso
nella chiesetta. Il parquet in legno rumoreggiò sotto i suoi passi. Era
anziano, con radi capelli grigi. Grossi occhiali a fondo di bottiglia e la
bocca perennemente aperta. Si trattava chiaramente di un occidentale, anche se
l’età gli aveva sfigurato i tratti somatici.
A fatica, con un bastone in
mano, l’uomo si fece il segno della croce e si inginocchiò.
«Signore, aiutami», non
disse, quanto sospirò, con un soffio profondo e tetro. Seira
si alzò in piedi e fece alcuni passi in direzione dell’uomo, che vestiva una
camicia a righe e dei pantaloni da pensionato.
«Preghiamo insieme il
Signore affinché da lassù ci protegga», rassicurò sorridendo, con gli occhi
chiusi, la giovanissima religiosa.
«Grazie», continuò, sempre
con pochissima voce l’uomo, «il Signore mi faccia la grazia…»,
stette zitto un istante per riprendere fiato, «di riavere ciò che è mio».
Seira
comprese all’istante. “Altro lavoro per Saint Tail”,
pensò. «Come si chiama, gentile signore?».
«Osvaldo…»
tuonò espirando profondamente, a bassissimo volume, con una voce da oltretomba.
«Osvaldo Paniccia».[1]
Sarà
giusto, per completezza di informazione e per rendere più scattante e agevole
la nostra storia, fare un salto nel tempo indietro di qualche giorno. Tre, per
l’esattezza. Dal venerdì pomeriggio all’istituto Saint Paulia
in Giappone ci trasferiamo alla notte tra il martedì è il mercoledì. Città:
Roma.
L’orribile orologio a cucù,
con tanto di uccellino impagliato parzialmente mangiato dalle tarme, che
dominava il corridoio del piano superiore ripeté il suo verso, cupo e
gracchiante allo stesso momento, per ben tre volte.
Giandomenico Fracchia era l’unico in grado di sentirlo, seppur si
trovasse molto distante da esso, nel magazzino dall’altra parte della fabbrica
di cioccolatini. Stava facendo, per la terza volta in dieci giorni, una
sessione di straordinari non pagati.
Goffamente, senza l’ausilio
del muletto che i suoi superiori non si fidavano utilizzasse, raccoglieva con
le sue mani scivolose dei grossi sacchi di cacao da un camion arrivato in
azienda il pomeriggio precedente. Nel silenzio più assoluto, rotto solo da
qualche suo lamento e dallo scricchiolio delle sue vertebre, trascinava i
sacchi a molti metri di distanza, mettendoci un particolare impegno a
rovesciare per terra almeno il 75% del loro contenuto. Arrivato a destinazione,
si accorgeva ogni volta di aver raggiunto il settore sbagliato, quindi, in
preda ad una crisi esistenziale, tornava indietro, interamente ricoperto di
finissima e dolce polvere marrone, chiedendosi ripetutamente chi fosse
veramente, spesso non nella maniera filosofica, ma proprio in quella
anagrafica.
Giandomenico Fracchia, sperduto scapolo
45enne, fin da bambino aveva sognato di lavorare in una fabbrica di cioccolato.
Era rimasto infatti estasiato dopo la visione del film, con Gene Wilder, “Willy
Wonka e la fabbrica di cioccolato”. Solo che si immaginava
di essere Willy Wonka. Mai, nella sua mente di
bambino sempliciotto avrebbe sognato di essere uno dei sottopagati e
schiavizzati OompaLoompa,
quei nanetti deformi adoratori del cioccolato.
Fracchia in
effetti era peggio di un OompaLoompa.
Gli OompaLoompa potevano
fare carriera. Fracchia, invece, nella pulsantiera
dell’ascensore sociale, aveva solo il tasto “GIU’”. Entrato a vent’anni in
azienda come semplice impiegato, anno dopo anno venne retrocesso a posizioni
via via sempre più umilianti e agghiaccianti.
Assaggiatore di cioccolatini nonostante i ripetuti coma diabetici. Zerbino per
il megadirettore. Ostaggio da scambiare nelle trattative con i latifondisti
senza scrupoli dell’America Latina, per avere il cacao a prezzi sempre più
ridotti. Persino fermacarte e spugnetta per inumidire i francobolli.
Fracchia era
peggio di un OompaLoompa
anche perché gli OompaLoompa
sono un gruppo, insieme condividono gioie e dolori. Magari, tramite il loro sindacato,
potevano avere, con la concertazione, la possibilità di scucire qualcosa all’industriale
Wonka. E, terminati i loro turni, quei nanetti
deformi potevano scendere nelle loro caverne, bere una birra assieme e fare una
partita a tresette. Ma Fracchia era solo,
completamente solo.
Fracchia era
l’ultima ruota del carro in tutti i sensi. Persino i ragazzini di sedici anni
che d’estate, in azienda, facevano gli stage, si permettevano di farlo oggetto di
atti del più truculento nonnismo.
Ripensando alle sue
disgrazie, troppo umile persino per lamentarsi, Giandomenico Fracchia si caricò goffamente in grembo un sacco da
settanta chili di cacao, abbracciandolo stretto come un condannato a morte
abbraccia il suo patibolo, e ricominciò a vagare nella sua bolgia personale.
Improvviso, da sinistra, l’operaio
percepì il rumore di vetri rotti. Ma l’allarme non suonò. Fracchia
non era un uomo intelligente, ma in un istante comprese immediatamente. «Ci
risiamo», sospirò. E il suo sospiro pareva l’esalazione dell’ultimo respiro di
un novantenne sul letto di morte.
Dalla finestra si calò
furtivamente una persona. In mano una pistola magnum, semi-coperta dal polsino
svolazzante di una giacca azzurra chic anni ’70. Il vestito elegante e
raffinato ben si intonava con gli occhi di ghiaccio dell’uomo. Sebbene fossero
fisicamente due gocce d’acqua, nessuno in quel momento, avrebbe notato la
benché minima somiglianza tra Fracchia e la Belva
Umana. Sporco di cacao e spaesato il primo, sicuro di sé e feroce il secondo.
Immediatamente, però, la scorza
coriacea che sembrava rivestire il feroce criminale lasciò intravvedere una lieve
scalfitura. La Belva starnutì, vistosamente.
«Cacao…
A me non piace il cacao».
Il destino gli aveva giocato
un tiro crudele. Il suo sosia perfetto, l’imbecille che utilizzava spesso in
occasione di rapine, stupri e omicidi in giro per il mondo lavorava in una
fabbrica di cioccolato. E lui era allergico al cacao. Lo odiava, fin da
bambino.
Fracchia
alzò subito, con l’istinto servile che lo contraddistingueva, le sue braccia al
cielo in segno di resa. «Buonasera, Signor Belva. Cosa posso fare per lei?». Ma
in realtà, pensava: “Proprio a me doveva capitare. Anche questa volta”.
«Ammanettati da solo», disse
con celerità l’assassino, lanciandogli un paio di manette di metallo con una
mano e portandosi un fazzoletto al naso con l’altra. Le manette colpirono il
povero ex-impiegato sulla fronte, ridotto, in decenni di oppressione, ad operaio
altamente non qualificato.
Fracchia,
con un vistoso salto indietro, cadde per terra, facendo alzare dal terreno una
nuvoletta marrone che avrebbe fatto un’ottima impressione sopra un tiramisù. La
Belva starnutì di nuovo, nonostante il fazzoletto. Poi puntò di nuovo la
pistola verso Fracchia e lo fulminò con lo sguardo.
«Non farlo mai più».
«Scusi, eccellenza», disse Fracchia, disteso a terra, intento a trovare il modo per
stringersi le manette ai polsi nel modo più stretto possibile. «Dove andiamo
questa volta?», osò dire Fracchia. Come don Abbondio nei confronti dei Bravi, ogni parola, in questi
casi, era meglio di un tenebroso e poco promettente silenzio.
«Caraibi? Messico? Londra?»,
ricordò Fracchia, «Sa… da
quella volta con la regina», Fracchia estrasse la
lingua, strinse la testa sul suo petto e iniziò a sfregarsi morbosamente le
mani, «poi ho detto ai poliziotti che era stato lei…però…mmmmhhh».
La Belva parve ignorarlo.
«Giappone», rispose freddamente «ho una faccenda da sistemare con una mia
affezionata cliente». Fracchia non capiva bene il
mondo che lo circondava, ma riconobbe il lampo d’odio fulminante che balenò
negli occhi del suo sosia. Doveva solamente obbedirgli, fare come diceva lui e
poi sperare che, a colpo finito, le autorità del luogo si accorgessero della
sua identità e gli garantissero l’innocenza. Solitamente Auricchio
mandava De Simone in aereo a riportarlo a casa. A parte quella volta, in quel
paese caraibico alle prese con una guerra diplomatica con la Farnesina. Stette
sei mesi chiuso in cella con Enrique, un viados spacciatore di pericolose
droghe chimiche che ebbe purtroppo l’opportunità di conoscere approfonditamente.
Enrique… Quasi lo rimpiangeva, in quella situazione.
«Fammi strada verso la tua
auto, merdaccia!» ordinò la Belva, calando la pistola, in verità più
interessato a scansare i mucchietti di cacao per terra che a controllare la sua
vittima. Una preda che ormai, già da parecchi anni, considerava far parte del
suo carniere.
Fracchia
domandò: «Ma, all’aeroporto, prima che mi rimetta dentro la valigia, che zio
devo dire di incontrare? No vede, per i miei tratti somatici, non so se mi
crederanno ancora. L’ultima volta avevo detto di essere giamaicano e…»
«Lo zio Yamamoto»,
tagliò corto la Belva, mentre insieme si dirigevano camminando verso l’uscita
dello stabile. A parte le manette, Fracchia non era né
legato né vincolato a forza dalla Belva. Chi li avesse visti da lontano li
avrebbe scambiati per fratelli (uno normale e uno un po’ scemo), intenti a
passeggiare.
«Yamamoto?»
domandò sospirando Fracchia.
«Yamamoto»,
confermò la Belva, «Tokyo, distretto di Nerima».
«Ah. No perché, otto mesi
fa, lo zio in Argentina, ho scoperto che c’era sul serio.»
«C’era». Sorrise, per la
prima volta in quella lunga notte la Belva. Un sorriso crudele.
«Aaah…»
spalancò la bocca Fracchia. «Aveva appena trovato il
petrolio. Io ero l’unico erede».
«Appunto.» Confermò
freddamente la Belva.
La bianchina
di Fracchia era ormai davanti a loro. «Entra! Merdaccia!
Guido io!», ordinò a voce alta la Belva.
«Posso dire solo una cosa?»
Si permise, con un estremo atto di libertà, il povero Fracchia.
«Quanto è umano lei…»
Sembravano dei soldati, e in
effetti, forse, lo erano. Soldati della chiccheria,
del buongusto, del galateo.
Asuka jr
li osservava quasi estasiato, mentre trasportavano tavole, stendevano tovaglie
pregiate e sistemavano, di fianco a piatti bianchissimi, decine e decine di
posate di diversa grandezza stando bene attenti che fossero paralleli tra di
loro. Erano dei camerieri davvero eccezionali, i migliori della città, senza
alcun dubbio.
Le sala grande del Minato
Art Museum, che ospitava il capolavoro di Osvaldo Paniccia e una nutrita collezione di vasellame cinese,
stava per diventare la sede dell’evento mondano dell’anno.
Il sindaco avrebbe dato un
ricevimento, per più di duecento persone, la creme della creme della città, in
onore della Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare, la nobile mecenate che aveva permesso
alla cittadina giapponese di ospitare per una settimana il quadro più prezioso
della sua vasta collezione. Dati i precedenti dei Serbelloni,
il pericolo Saint Tail era più di una possibilità.
Una parte di sé odiava suo
padre, Asuka senior, che lo aveva costretto, appena
tornato da scuola, a darsi una strigliata e vestire l’abito più elegante che
aveva. “Ti servirà solo per seppellirmi”, aveva detto un anno prima al padre,
quando, dopo averlo trascinato per forza in una boutique alla moda, un sarto un
po’ effeminato lo torturò con spilli e metro per poterglielo fare su misura. E
ora lo indossava. Lui era lì per dare la caccia a Saint Tail,
ma doveva per forza essere elegante, per rispetto alla Contessa e al galà
d’eccezione. In realtà si sentiva un fesso: il completo blu scuro, con dei
vistosi bottoni neri, lo faceva assomigliare più al cantante attempato di
balera romagnola che alla promessa della polizia giapponese quale era.
«Hai sentito?» disse uno dei
camerieri a un suo collega, posando con attenzione un vaso di camelie al centro
di un tavolo, facendo attenzione fosse il centro esatto.
«Cosa?» gli domandò l’altro,
senza alzare gli occhi, controllando che il coltello del pesce si trovasse
esattamente ad un centimetro e mezzo da quello vicino.
«Mi pareva strano che non
dovessimo servire noi, ai tavoli, più tardi». «Lo so», continuò l’altro,
posando le forchette «c’è un’altra squadra. La Daisuke
catering?».
«Macché!», quasi urlò
l’altro. «La contessa si è portata gente dall’Italia, anche la cucina. Piena di
italiani!».
«Lascia perdere», gli disse
l’altro, toccando lievemente un cucchiaio perché fosse allineato esattamente
con gli altri. Orgoglio professionale e sindrome ossessiva compulsiva andavano
in lui si stringevano la mano. «Pensa a lavorare».
“Cucina italiana”, pensò Asuka jr, “Forse non mi andrà così male stasera. Speriamo
che Saint Tail non rovini tutto”. In realtà, un omino
del suo cervello (grazie Andy)[1]
gli suggerì che l’eleganza del luogo e la straordinarietà della serata sarebbero
solo aumentate se il codino castano di Saint Tail
avesse fatto la sua comparsa.
Il sindaco, l’uomo che si
era fidato così tanto da affidargli un distintivo speciale, si stava
avvicinando verso il giovane detective, in compagnia di un altro ometto, un occidentale,
con una folta pelata (ah, gli ossimori) e degli strani tic nervosi.
«Carissimo Asuka», iniziò il sindaco, «volevo presentarti il
commissario Auricchio, della Polizia Italiana. Questo
giovane qui, mio caro commissario, è Asuka jr,
responsabile delle indagini per la cattura della ladra Saint Tail». Il commissario interpretato da Lino Banfi storse gli
occhi.
«Con permesso», chiese con
gentilezza, ma con fretta, l’italiano. Dopo aver fatto tre passi indietro, si
girò. «De SIMONE!!!» urlò con forza.
Asuka jr
era ancora lì, impietrito, con la mano protesta in avanti in attesa di una
stretta che non sarebbe mai arrivata.
Il giovane vice-commissario
corse verso il suo capo. «Mi ha chiamato?». Auricchio
prese con una mano l’orecchio del suo vice e se lo portò alla bocca, con la
stessa delicatezza con la quale un pendolare assonnato si attacca alla maniglia
di un tram colmo fino all’orlo.
«Ci prendono per il culo! Ecchecchezzo!», voleva parlare in privato, ma i suoi
strepiti venivano uditi da tutti, perfettamente. «Saremo affiencheti
qui per catturere la Belva da un ragazzino. Porca puttena maledetta!»
De Simone, sottovoce, provò
a rispondere qualcosa. Si udì solo “Saint Tail, non
la Belva”, ma Auricchio tornò alla carica, urlando
più di prima, rosso paonazzo in volto, agguantandolo per la cravatta. «Ecchicchezzo se ne frega di Santa Tellaocchiccazzé. A noi interessa le Belva, solo e soltento la Belva!». All’ultimo “Belva” gli diede uno strattone
così forte che la cravatta del giovane poliziotto gli rimase in mano.
«Scusi!» gridò Asuka jr all’indirizzo del commissario.
«Dice a me?» si voltò di
scatto Auricchio, sorpreso e leggermente disorientato
dallo sbalzo di pressione. Eppure il suo cardiologo lo aveva ripetutamente
avvertito.
«Sì, dico a lei. Credo che ci
siano molte cose che ci deve dire!». Asukanon ne poteva più. Molti lo avevano giudicato
troppo giovane per un incarico del genere, ma nessuno aveva mai osato mancargli
di rispetto in modo così sfacciato. L’onore è una cosa seria, soprattutto se
cresci in Giappone, se sei un maschio e se hai sedici anni. Ma il povero
giovane detective non poteva nemmeno lontanamente immaginare che il commissario
Auricchio era veramente convinto di parlare sottovoce.
«Giovanotto. Stiamo chelmi. Io sono un commisserio
della Polizia della Repubblica Italiena. Alla tua età
io portavo rispetto per i più vecchi. Io sono buono e chero,
però quando mi inchezzo divento una belva…» Il panico sconvolse gli occhi di de Simone. Auricchio se ne accorse troppo tardi e tentò, invano, di
salvarsi in corner: «ehm… una bestia, divento. Porca puttena maledetta!».
Il vecchio sindaco era
rimasto per tutta la scena fermo e sorridente, come se si trovasse in un altro
paese, come se il suo corpo non gli appartenesse. Calmo e serafico come un
Buddha di marmo.
«Una belva, eh?». Asuka jr era raggiante. Aveva 15 anni ed aveva in pugno
quello strano poliziotto italiano. Si sentiva in estasi, come il detective Monk, nei suoi brevi momenti di felicità, mentre spiega
come ha trovato l’assassino dell’ennesimo delitto perfetto.
«Lei non è qui per
proteggere il quadro da Saint Tail. No». In momenti
del genere i suoi omini del cervello (Andy grazie)[2]
assistevano all’aumento vertiginoso dell’indicatore di autostima. “Se mi
vedesse Sawatari… morirebbe d’invidia”.
«La polizia italiana»,
continuò «non manderebbe un commissario, un vice-commissario e un intero
reparto di uomini in un paese straniero, dopo, immagino, una trattativa tra
Ministri degli Esteri, per proteggere un solo quadro, che tra l’altro
appartiene a una signora i cui precedenti penali basterebbero a riempire
un’intera enciclopedia». “Chissenefrega di Sawatari. Se mi vedessero loro…”
Le immagini di MeimiHaneoka
e di Saint Tail gli si sovrapposero in testa. Entrambe
gli sorridevano, e con toni estatici riconoscevano la sua genialità. Erano sue.
Entrambe.
Il sindaco ascoltava in
silenzio. Auricchio sudava freddo. Si passava
continuamente sul volto un fazzolettone bianco
gigante, probabilmente la federa di un cuscino o il vestitino bianco del
battesimo di un bambino innaturalmente gigante. Non si stava asciugando il
sudore, ma si stava quasi soffocando. A forza di sfregarsi il viso la pelle
morta gli cadendo per terra accumulandosi in piccoli riccioli.
«Ha parlato della Belva
Umana», colpì basso Asuka jr. «Abbiamo dei piani anti-SaintTail. Non siamo pronti
per altro. Se c’è qualcosa che dobbiamo sapere, non esiti a dirla».
Auricchio
respirò profondamente. Contò mentalmente fino a tre e poi si decise a sputare
il rospo.
«La Belva Umena… qualche giorno fa, ha rapito il suo sosia.» Stette
zitto e si mise il fazzoletto in bocca, per strapparlo con i denti.
«Questo prelude ad un
colpo», continuò un serio De Simone.
«Secondo nostre fonti»,
aggiunse drammaticamente Auricchio, «sarebbe diretto
proprio in Gieppone!».
La presenza di Saint Tail, inutile negarlo, per Asuka
jr era quasi fonte di gioia. Rubava ai ladri per restituire il maltolto ai
legittimi proprietari, bella come il sole. Ogni caccia era un appuntamento. Le
coppie normali andavano al cinema, al luna park, a
bere un caffè. Lui e Saint Tail si sfidavano nell’eterno
gioco delle guardie e ladri.
Ma forse, quella sera,
avrebbe avuto a che fare non la bellissima prestigiatrice, ma con la Belva.
Aveva letto su internet il suo modus operandi. Saint Tail
giocava con le vittime, al massimo le narcotizzava o le faceva svolazzare per
qualche secondo a pochi centimetri d’altezza. La Belva squartava e ammazzava.
Non lasciava testimoni delle sue atrocità: solo le forze dell’ordine che
giungevano troppo tardi sulle scene dei suoi crimini. Molti arrivavano a dare
le dimissioni, sconvolti dai corpi sfigurati che vi trovavano, ma soprattutto
per le parti dei corpi in questione che non vi trovavano più.[3]
Nei forum criptati della polizia giapponese aveva visto alcune foto, un giorno,
mentre navigava dal computer del padre. Quegli scatti lo sconvolsero, tanto da
non farlo dormire la notte, come un bimbo spaventato dall’uomo nero.
Provò una profonda vergogna
per aver fatto fare una così brutta figura a quei poliziotti italiani. “Loro
non amoreggiano con i criminali. Io da Saint Tail
ricevo letterine e pupazzi. Loro resti umani.” E stimò, forse solo per una
frazione di secondo, quel piccolo uomo calvo che non aveva esitato, in poco
meno di 72 ore, a volare dall’altra parte del mondo per dare la caccia al suo
nemico giurato e mettere così fine alle sue efferatezze. Quell’uomo che ora
stava sputando un pezzo di fazzoletto che aveva ingoiato per sbaglio e che lo
stava soffocando, era l’unico uomo al mondo con gli attributi da sfidare a viso
aperto il macellaio di Dusseldorf.[4]
Pregava però perché tutto si
risolvesse in un abbaglio. Che la pista di Auricchio
fosse sbagliata e che quella sera avrebbe dato, nuovamente, con gioia, la
caccia alla sua amata Saint Tail. Sarebbe stata bellissima
anche quella sera. Sarebbe stata sua, con quelle sue parole dolci, con quel suo
sorriso, con quel profumo di vaniglia che si lasciava alle spalle. Lo sentì di
nuovo penetrargli le narici, ma dietro quella fragranza fresca che gli scaldava il
cuore avvertiva un forte retrogusto pungente. E dietro il sorriso celestiale di
Saint Tail intravide il ghigno diabolico della Belva.
D’argento i capelli, rosse grondanti sangue le mani.
[1]
Ringraziamento fatto prima che Andy commentasse così gentilmente la mia fic.
[3]
Da Wikipedia: “Omicidio di Anne e BabetteBrown: amanti della Belva umana, che egli ha fatto a
pezzi con un rasoio da barba e poi ha nascosto i pezzi mischiandoli fra loro in
due valige per sviare le indagini.” http://it.wikipedia.org/wiki/La_Belva_Umana
[4] Da wikipedia:
“Strage di Düsseldorf: All'aeroporto di Düsseldorf (Germania) la Belva ha
rapinato i viaggiatori e ha causato la morte di 13 persone.” http://it.wikipedia.org/wiki/La_Belva_Umana
Scese le scale, bella come
una dea, avvolta dalle spire di quel lungo vestito rosa come un fiore ricoperto
dai petali. Si era accorta che, tutto sommato, sua madre aveva fatto un ottimo
lavoro. “Forse Asuka mi preferirebbe persino a Saint Tail”. Arrossì di nuovo. Per cacciare quei pensieri si
rivolse a suo padre, che l’attendeva vicino alla porta.
«Hai già tirato fuori l’auto
dal garage?» chiese in velocità, con tono dimesso.
«Auto? Ci vengono a prendere
loro», rispose suo padre, imbarazzatissimo.
«Tuo padre è una celebrità!»
confermò gonfia d’orgoglio la signora Eimi, la cui
stima per Genichiro era di molto superiore alla
fiducia che il mago dalla pettinatura hippie provava per sé stesso.
Meimi
scese un altro scalino con un po’ di difficoltà: per un istante maledì Saint Tail e il suo spiccatissimo senso della giustizia. Già,
perché, pur non avendo certezze, pur non avendo sentito nulla da parte di Seira, sua migliore amica e committente dei suoi furti,
aveva deciso di portarsi dietro tutti i trucchi di Saint Tail.
Come, solo con una borsetta
e un ampio e vaporoso vestito? Arturo Brachetti vi ha mai detto dove nasconde i
suoi centomila travestimenti? Il Mago Silvan vi ha mai comunicato come riesce a
far sparire le cose? No? Un elettricista potrebbe dirvi come riesce a fare i
suoi impianti, uno chef potrebbe – anche se è assai difficile – rivelare i
segreti di qualche sua ricetta, ma un mago… un mago
non lo farebbe mai, perché i segreti, per un mago, sono tutto. E Saint Tail, prima di essere una ladra, era una maga, una maga
eccezionale. Tv da tutto il mondo si erano messe alla sua caccia per offrirle
contratti milionari, anziani illusionisti di Las Vegas e di Los Angeles si
erano dati battaglia, attraverso pubblici appelli, affinché Saint Tail venisse negli Stati Uniti e imparasse i trucchi, in
qualità di erede ufficiale, di uno di loro. Lei non aveva mai risposto, ma
sapeva benissimo che il suo futuro era proprio quello.
Ogni tanto vagava con la
mente e con il cuore immaginandosi da grande. Un sogno che a volte la
imbarazzava. Non c’era nessuna missione né nessun irrinunciabile senso di
giustizia. C’erano invece i più grandi teatri del mondo, c’erano i trucchi più
eccezionali, e c’erano in prima fila, ad applaudirla, David Copperfield, Dynamo, Penn e Teller, Criss Angel con i suoi vestiti di pelle e gli attempati Siegfried
e Roy con la loro tigre siberiana al guinzaglio. E c’era Asuka,
incantato. Ma sul palco ci sarebbe stata Meimi, non
Saint Tail. “Ma allora potrebbe sapere chi sono…” rimurginava continuamente.
In effetti, ringraziava il cielo che Asuka non avesse
una particolare passione per gli illusionisti, Saint Tail
a parte: se per caso un giorno si fosse presentato a teatro per vedere uno show
di GenichiroHaneoka, il
suo cervello di detective avrebbe fatto subito 2 +2, riconoscendo nello stile
del mago hippie un inconfondibile tocco di Saint Tail.
E da lì, arrivare a Meimi, sarebbe stato un gioco da
ragazzi.
Mise il piede fuori casa.
Quasi non credeva ai suoi occhi. “Quanti soldi spendono per questo
ricevimento?” si domandò osservando la Maserati, con chauffeur incorporato, che
si ergeva maestosa davanti a lei. “Ma mio papà è così importante?” prese nota
mentalmente, imbarazzata.
Anche i suoi non erano avvezzi
a così tanto lusso. «Mi scusi?» domandò il signor Genichiro
all’autista della vettura di lusso. «Ma la manda proprio il sindaco?». L’omino,
con un cappello d’ordinanza, guanti bianchi e un paio di baffetti d’ordinanza
che maggiordomi, camerieri di lusso e chauffeur comprano nello stesso negozio,
rispose con dignità: «La signora Contessa ci tiene fermamente che tutti i suoi
illustrissimi ospiti vengano trattati con la giusta cura». La signora Eimi si strinse le spalle. Aveva goduto il lusso da giovane,
quando vestiva i panni della ladra senza scrupoli Lucifer.
Poteva farlo ancora, senza tanti problemi, per una sola serata. Genichiro, leggermente in imbarazzo, salì in auto e iniziò
a giochicchiare con una pallina tra le mani. Grazie alla presenza di un
sottilissimo filo di nylon, sembrava che la palla levitasse all’interno di un
campo di forza generato dal ki del mago.
Meimi fu
l’ultima a salire. Prese posto, silenziosamente. Ignorò le chiacchiere che i
suoi si scambiavano, fantasticando su cosa avrebbero visto e con chi avrebbero
avuto l’opportunità di parlare. Ci sarebbe stato il lanciatore dei Dolphins, il soprano Mayuko
Kawasaki, l’attore Kenzo Otonashi. Eimi comunicava al marito la presenza di una folta
delegazione italiana, comprendente una manciata di critici d’arte, due o tre
sottosegretari del governo e l’ambasciatore di un’importante regione a statuto
speciale, regione che non aveva più soldi in cassa per pagare gli stipendi ma
che continuava a tenere aperte dieci uffici di rappresentanza in giro per il mondo.
Ma la star, la vera protagonista della serata sarebbe stata lei: la Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare. Così celebre, così discussa, così stravagante.
Stravagante al punto da spendere una fortuna per regalare a dei perfetti
sconosciuti un giretto in Maserati.
Meimi se
ne stava in silenzio. Non era particolarmente colpita da quel lusso sfrenato.
In effetti, stentava a capire le differenze tra la station wagon di suo padre
che spesso puzzava di polvere da sparo, conigli e colombe bianche e quella
elegantissima auto italiana nella quale si avvertiva distintamente l’utilizzo
di deodorante alla fragola.
Nella sua testa, un solo pensiero.
“Ci sarà anche Asuka. E mi vedrà così.”
«Ho sentito» si rivolse a
lei suo padre, preoccupato per il silenzio prolungato della ragazza, «Che ci
sarà un’intera squadra di cuochi italiani che cucinerà per noi!». Sorrideva e
la incalzava per scucirle una risposta.
«Non ho moltissima fame».
“Mangiare? Ma se mi viene da vomitare!” gridò con forza dentro sé stessa Meimi. Asuka jr l’avrebbe vista
così, stasera. Chissà quale sarebbe stata la sua reazione. L’avrebbe vista con
gli stessi occhi con i quali vedeva Saint Tail o si
sarebbe limitato a prenderla in giro, come faceva ogni mattina in classe? O
peggio ancora, l’avrebbe ignorata totalmente?
Il turbinio di pensieri
furono interrotti da “Kanashimiyokonnichiwa”, la suoneria del suo cellulare. Lo
estrasse dalla borsetta. “Seira”, recitava il
display. La ragazza con l’indice accompagnò verso sinistra il tastino verde del
suo android samsung.
«Sì, Seira?»
domandò alla sua amica religiosa.
«Ciao Meimi.
Puoi venire un momento in chiesa?». Seira non sprecò
le parole. Meimi intuì e il suo stomaco, già
piuttosto ingarbugliato, si contrasse ulteriormente.
«Veramente Seira… Ti ricordi quel galà con il sindaco di cui si
parlava stamattina? È stato invitato anche mio papà dunque…»
si giustificò la giovane Meimi.
«Devi andarci anche tu, non
è vero?» Sospirò al telefono la novizia.
«Sono già in auto. Hanno
mandato un’auto a prenderci!» confermò Meimi, e col
suo tono voleva dire assai di più di quello che le parole comunicavano.
«Scusami. Posso parlarti lo
stesso, sottovoce?» chiese, con un filo esilissimo di voce, Seira.
«Certo!» squillò a voce alta
Meimi, quasi per non dare sospetti.
«Hai già avuto a che fare
con la Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare. Ti ricordi?» Iniziò la religiosa.
«Sicuro! Ci ha invitato
nuovamente alla sua festa di compleanno?» parlò in codice la ragazza.
«Sì. Il quadro di Osvaldo Paniccia, lo ha fatto rubare».
«A chi ha fatto il regalo? E
in quale negozio lo ha acquistato? Scusami ma non capisco bene.»
«Il quadro di Osvaldo Paniccia lo ha fatto rubare proprio ad Osvaldo Paniccia. Pensa che quel povero signore anziano è venuto in
Giappone dall’Italia per reclamare ciò che è suo, ma al museo lo hanno cacciato
in malo modo, scambiandolo per un vecchio pazzo. Le autorità italiane ignorano
persino che il quadro fosse suo».
«Scommetto…»,
si inalberò leggermente Meimi, tanto che suo padre si
girò per pochi secondi verso di lei, «Scommetto che l’ha comprato in quel
solito negozio d’animali».
«Già, la solita Belva Umana.
È lui che procura le opere d’arte alla Contessa. Per rubare quel quadro ha
sparato a bruciapelo a due guardie giurate. Un uomo di sessant’anni e un
ragazzo di ventidue. Pensa che stava per sposarsi».
Meimi
strinse il pugno nella mano sinistra, mentre la mano destra che reggeva il
cellulare iniziò a tremare. Era furente. Spesso le accadeva nella sua carriera
di ladra gentildonna. Riportare manufatti e preziosi ai legittimi proprietari
era un ottimo modo per smaltire la rabbia: non solo, per Meimi,
quella missione da giustiziera era un’occasione di avvicinarsi a Dio, quasi
quanto la vita monastica lo era per Seira.
«E la festeggiata lo
sapeva?» domandò con malcelata rabbia. Anche suo padre non poté fare a meno di
rivoltarsi verso di lei. Sua madre invece aveva già capito tutto, ma, come al
solito, non lo faceva notare.
«Non
lo so», rispose Seira, con un filo di voce, «di
sicuro sa che tipo di persona è quella belva lì. Il signor Osvaldo è disperato,
Meimi. Aveva già venduto tutti i suoi quadri a prezzi
irrisori quando la sua arte è stata finalmente riconosciuta dai critici e dal
mercato. Quel quadro era l’unica cosa preziosa che gli rimaneva: è troppo
anziano per dipingere ancora. L’eredità che avrebbe voluto consegnare ai suoi
nipoti era tutta in quel dipinto. Saint Tail deve recuperarlo»,
implorò la religiosa.
«Ho già pensato al regalo,
tranquilla». Affermò decisa Meimi.
«Grazie, sei un tesoro! Che
il Signore da lassù ci protegga!». Poi, improvvisamente, un pensiero le
sovvenne. “Asuka jr – anche lui sarebbe stato alla
serata – e Meimi avrebbe avuto l’opportunità di stare
con lui – Non più però, per colpa di Saint Tail…”
«Mi dispiace, Meimi!»
«Non preoccuparti, Seira!», mentì la ragazza. “Anche stasera lui la vedrà”.
Era gelosa, gelosa di sé stessa. Era Meimi la persona
più derubata da Saint Tail, da quell’alto ideale di
giustizia contenuto in un tutù rosa e in un vasto repertorio di trucchi di
magia. Le aveva rubato il tempo, i nervi, il sonno. Ma soprattutto Asuka jr.
Ma quella era la sua
missione. La sua vocazione. Non poteva tirarsi indietro. Ammirava Seira, che a poco più di quattordici anni aveva dato il suo
sì perpetuo al Signore. Anche Meimi aveva detto il
suo sì, e lo aveva detto alla giustizia. Salutò la religiosa e spense il
telefono. Piegò leggermente la testa e posò la sua mano sinistra nei risvolti
vaporosi della sua gonna. Sotto il tessuto rosa e pregiato “chissà quanti soldi
ha speso mio padre” poteva toccare un piccolo astuccio in pelle. Un mazzo di
carte rigide e taglienti, dei veri e propri shuriken,
polverine magiche e decine di altri trucchi. Strinse tra le sue braccia, quasi
a coccolarla, la borsetta. Dentro, il costume di Saint Tail.
“Anche stasera ha vinto
lei”, ammise Meimi. “Mi vedrà e sarà ancora più
innamorato di me”, gioì dentro di lei Saint Tail,
ogni giorno più importante, ogni giorno più ingombrante, ogni giorno più la sua
vera identità. La ladra che operava per conto della Divina Provvidenza avrebbe
trionfato un’altra volta. Ignorava però che anche la concorrenza, uno degli
esponenti di spicco della ditta avversaria, progettava di farsi vivo.
P.S.
Sono particolarmente gradite
le recensioni e i suggerimenti. Grazie per tutti coloro che fino ad ora hanno
dimostrato di gradire questa semplice storia.
Le ossa di Giandomenico Fracchia scricchiolavano come dei gessetti da lavagna
tenuti troppo a lungo dentro la loro scatola, ben oltre la data di scadenza. Gli
ultimi giorni per lui erano stati agghiaccianti, eppure termini come
drammatico, tragico e agghiacciante, erano entrati in pianta stabile nel suo
dizionario quotidiano, da quando la Belva Umana, suo sosia crudele, il criminale
al primo posto della lista dei ricercati dell’FBI, era entrato nella sua già
triste vita.
Dopo l’uscita dall’aeroporto
lo aveva portato in un ristorantino di pesce malfamato gestito da Kenzo
l’infame, terribile boss della Yakuza locale
completamente tatuato, l’unico uomo in Giappone che si poteva vantare di avere
picchiato un membro della famiglia imperiale dopo una lite per un parcheggio
che lui stesso aveva innescato. Un figlio di buona donna di primissima
categoria, tale da guadagnarsi la stima e il rispetto del più grande criminale
del bel paese.
Da dieci ore Fracchia era stato rinchiuso in uno sgabuzzino sul
retrobottega, adibito dallo staff del ristorante a deposito dei rifiuti. Se ne
stava seduto su uno sgabellino da pescatore, vicino a
una cassa di teste di pesce in putrefazione e un’infinità di altri rifiuti organici
non meglio identificati. Nonostante lo sgabellino
fosse scomodo come l’inferno a causa del piede mancante, e nonostante ogni
venti minuti venisse colpito da una secchiata di interiora di pesce da parte di
KensureWatanabe, garzone
di bottega dispettoso fino al midollo, Fracchia non
poteva lamentarsi. A confronto di quello che aveva passato poco prima quella
sistemazione gli sembrava il paradiso.
Diciassette ore di volo
transcontinentale all’interno di una gabbia metallica, seppur protetta dalle
correnti d’aria da un folto lenzuolo in pelle, fiaccherebbero in effetti le
resistenze di chiunque. Ma la Belva non poteva rischiare: a volare da Fiumicino
a Tokyo, per le autorità italiane, almeno per le prime ore, risultava essere
stato Giandomenico Fracchia. Lui e quel suo mastino
napoletano gigante dal pedigree purissimo. Uno degli uomini della Belva, un
controllore aeroportuale corrotto fino al midollo e cresciuto tra i viottoli
più selvaggi di Scampia, aveva esaltato di fronte ai suoi colleghi le doti cinofile
del signor Fracchia. Il promettente allevatore era
diretto in Giappone per far accoppiare il suo mastino Fufi
con Principessa, cagna partenopea donata qualche anno prima al Ministro del
Commercio nipponico da parte dell’allora sindaco Iervolino.
Ma a latrare selvaggiamente,
dentro quella grata che disegnava dei perfetti quadratini sulla sua ciccia, era il povero geometra. Fracchia,
seppur soffocato da un puzzolente lenzuolone in pelle
nera, aveva obbedito ciecamente agli ordini del suo rapitore, e non fu giusto,
sotto tutti i punti di vista, sotto ogni legge e umana e divina, quello che
avvenne subito dopo.
«Vedo dal pedigree e dalle
carte veterinarie che il suo cane è ok. Ma gli manca la vaccinazione per la
filaria», disse un integerrimo controllore aeroportuale, una di quelle persone
così brave, così diligenti e così ligie al loro lavoro da rappresentare una
minaccia per l’intera umanità. «Gliela possiamo fare noi», aggiunse
meccanicamente, ignaro della crudeltà della situazione, siringa in mano.
«Se permette», rispose
l’uomo che secondo i documenti si chiamava Giandomenico Fracchia,
con gli occhi glaciali, «al mio cane la puntura gliela faccio io».
Strappò quasi con violenza
di mano la siringona piena di liquido al ligio
controllore e la piantò col pugno sulla cassa. L’ago oltrepassò la pelle e si
conficcò nella schiena di Fracchia. Con violenza il
liquido passò il sottile canale metallico e si riversò tra le vertebre del più
sfortunato geometra del mondo. Un vocalizzo lamentoso emerse da sotto la coperta
in pelle, «UUuuuaaaaaahahhahahaha», più simile allo
sbadiglio di un cane che all’urlo di dolore di un uomo. L’omino dell’aeroporto
squadrò la Belva Umana con uno sguardo sorpreso. Poi pensò che il trattamento
che quel signore riservava al suo cane non era poi così dissimile da quello che
gli altri allevatori destinavano alle loro bestiole. Il suo dovere l’aveva
fatto, dunque, indirizzò senza problemi in business class
il feroce criminale che a lui risultava essere il geometra Fracchia
e fece spedire tra i bagagli la gabbia che riteneva contenere Fufi, grosso e giocoso mastino da monta.
Chi rimanesse scandalizzato
e compatisse il povero Fracchia dovrebbe sapere che
quello non fu il viaggio peggiore dello sfortunato cioccolataio: due anni
prima, sfruttando un cargo da Saragozza a Città del Messico, la Belva lo fece
imbarcare dentro una gabbia un po’ più grossa in compagnia di Miguel eldiablo, imperioso toro nero da
corrida che nella sua carriera aveva spedito al creatore già quattro toreri e
un venditore di noccioline.
Il garzone Watanabe aprì la porta dello sgabuzzino e vi gettò il
contenuto di un vassoione pieno di sushi andato a
male. Fracchia aveva una fame boia: nessuno si era
ricordato che anche i sosia dei criminali più efferati hanno bisogno di nutrirsi.
Per lui dunque, quelle palline di riso colloso con un cuore di pesce puzzolente
erano invitanti come le crocchette di patate delle migliori cliniche del Sud
Tirolo[1].
Non resistette per molto.
Utilizzò la sua grossa ma flaccida mano come una vanga, la riempì di riso e
pesce ormai umidiccio e stantio e se la portò alla bocca, ingoiandone
selvaggiamente il contenuto. Improvvisamente la porta si aprì.
Per i primi istanti pensò ad
uno specchio: erano passati anni dall’incontro con la Belva, ma non si era ancora
abituato a quella sorte terribile alla quale la Provvidenza lo aveva destinato.
«Che fai, mangi,
merdaccia?», lo salutò senza astio la Belva. Merdaccia, per Fracchia,
era un nome proprio. Come Giovanni o Francesco.
«Bbbnuuoo»,
mentì spudoratamente Fracchia, mentre un vermetto del pesce crudo gli dondolava tra le labbra.
«Devo spiegarti due o tre
cose. Mi darai una mano». Aggiunse la Belva, freddo come un ghiacciaio.
L’inferno non erano i novemila gradi Farheneit che
descrivono certi affreschi in certe chiese, pensava Fracchia.
L’inferno era il gelo negli occhi del criminale più efferato degli ultimi
trent’anni.
Cosa lo aspettava questa
volta? Come lo avrebbe piegato alla sua volontà il truce assassino, rendendolo
pienamente partecipe del suo piano? Addestramento, droga, minacce, paura? La
Belva aveva fatto di Fracchia la sua arma segreta nei
colpi più difficili, plasmandolo ogni volta a suo piacimento. Non un complice
ovviamente, ma un individuo piegato dal terrore che avrebbe fatto ogni cosa gli
avesse ordinato.
«Scusi, eminenza. Se
permette, cortesemente» iniziò il Fracchia con la
bocca ancora impestata di marcio.«Per gestire la mia situazione nel modo
migliore, ehm! Cioè, per aiutarla meglio, per servirla meglio signor Belva… Dove devo farmi arrestare questa volta?». Fracchia si era trovato molte, troppe volte di fronte a
quella situazione. Pensò che anticipare le richieste del suo sosia, mostrandosi
volenteroso e obbediente, gli avrebbe reso la vita migliore. Magari, la volta
successiva, per i trasporti, la Belva gli avrebbe permesso uno straccio di
posto di terza classe di una compagnia low cost e non
lo avrebbe più sottoposto a vaccinazioni utilissime per i canidi ma
potenzialmente mortali per l’uomo.
«Nessuno si farà arrestare»,
proseguì con calma la Belva. Dietro il truculento senzadio, nello sgabuzzino,
fece il suo ingresso un omino giapponese completamente calvo, dall’età
avanzata, vestito con una camicia bianca aperta sul petto, un ciondolone che si
muoveva come Tarzan tra le liane tra i peli del petto e un paio di sandali
infradito.
«Mi aiuterai a recuperare un
oggettino di mia proprietà», aggiunse con nera compostezza, dietro i suoi occhi
gelidi, il boia di Anne e BabetteBrown[2].
SI voltò, fece un cenno all’omino villoso e se ne uscì dallo stanzino nel quale
il puzzo del pesce aveva già creato un perfetto amalgama col sudore mefitico di
Fracchia.
L’omino, piccolo, ma con due
occhi castani piccoli e fissi come dei raggi laser, squadrò il geometra
cioccolataio con evidente disprezzo. Si tolse poi il ciondolone che stava
dormicchiando tra i folti peli del petto e iniziò a dondolarlo ritmicamente
davanti alla faccia inebetita del Fracchia.
L’odore acre del cespuglione di peli ispidi sul suo petto. Il dondolio
ossessivo del ciondolone ocra opaco. Qualche parola in una lingua straniera,
quasi sicuramente giapponese. Poi il buio.
-
Grazie a tutti coloro che
stanno seguendo questa storia. Lasciatemi pure un breve feedback: ogni
suggerimento, consiglio o critica sarà assai gradito.
[2]
Da Wikipedia: “Omicidio di Anne e BabetteBrown: amanti della Belva umana, che egli ha fatto a
pezzi con un rasoio da barba e poi ha nascosto i pezzi mischiandoli fra loro in
due valige per sviare le indagini.” http://it.wikipedia.org/wiki/La_Belva_Umana
Una tela incisa di
Lucio Fontana[1] dominava
una delle salette laterali del Minato art Museum. Uno
squarcio nero e violento in un sottile e delicato metro di velluto blu. Trovandoselo
di fronte, mentre attraversava il dedalo del più importante museo della
prefettura, Asuka jr fantasticò di creare opere
simili con tutti i materiali che si trovava di fronte. Ridurre a brandelli i
drappi rossi e i preziosissimi quadri che lo circondavano lo avrebbe aiutato a
smaltire quella feroce collera che gli cresceva in seno.
Non era mai stato così
tanto arrabbiato in vita sua. Aveva passato tutto il pomeriggio a fantasticare
sull’arrivo di Saint Tail, immaginandosi il suo
vestito, la sua leggiadria, il suo effluvio di vaniglia che lo mandava in
estasi. Nessuno si era preso la briga di prenderlo da parte e spiegargli che
quella sera non ci sarebbe stato tempo per giocare. Avevano atteso che si
presentasse fiero e baldanzoso, col suo bel distintivo di bigiotteria donatogli
dal sindaco, per fare la figura da cioccolatino di fronte ai vertici della
polizia italiana. Lo avevano trattato per quello che era. Un ragazzino.
“Ma perché diavolo?” si
tormentava Asuka jr. “Perché in Giappone, quando quel
quadro è quasi sempre in Italia?”. Una domanda che sembrava nessuno, a parte
lui, si fosse posto.
L’umore del giovane
detective era crollato dalle stelle alle stalle. Dieci minuti prima aveva il
mondo in mano. La pelata di Auricchio infuocata dal
sangue dell’imbarazzo, la mascella di De Simone crollata per lo stupore. In
pochi istanti la sua brillante giovane mente deduttiva si era accorta che la
polizia italiana, sbarcata in forze in Giappone, stava cercando di addentare un
osso decisamente più grande e più duro del tutù rosa di Saint Tail. Della sua Saint Tail. Poi l’umiliazione.
Camminava per le sale
del museo, tra camerieri e staff vario, in preda a una rabbia incontrollabile.
A farlo imbestialire però, più di tutti, poliziotti, sindaci, autorità e
mecenati messi insieme, al punto che avrebbe giocato volentieri a bowling con
le preziosissime statuine dogu[2]
che poteva osservare in una teca a pochi metri da lui, era suo padre. De Simone
gli aveva raccontato tutto: di come la polizia giapponese sapesse già tutto, di
come Saint Tail fosse una copertura per non fare insospettire
la Belva, abituata a ben altre sfide.
Nonostante la faccia da
pesce lesso il giovane vice-commissario italiano mostrava un fiuto non da poco.
Un talento che difficilmente poteva essere notato in uno che lavorava dieci ore
al giorno fianco a fianco con un mostro sacro come Auricchio,
noto non solo per il nome che si era fatto arrestando nella sua lunga carriera
i peggiori mafiosi, brigatisti e terroristi neri del suo paese, ma anche per il
suo carattere irascibile, specie nei confronti dei suoi sottoposti. A De Simone
Asuka jr aveva fatto un’ottima impressione. Era
rimasto colpito da quei suoi occhi di fuoco, dalla passione per un mestiere
duro, sporco e spesso privo di soddisfazioni, dalla voglia di emergere che
manifestava con tutto sé stesso, la voglia di un segugio cresciuto in mezzo a
una muta di cani mediocri, il desiderio di spiccare il salto di qualità.
Ma De Simone aggiunse
anche un altro piccolo dettaglio: «È tuo padre, Asuka
senior, il nostro riferimento. È meglio che tu ti faccia una chiacchierata con
lui e direttamente da lui tu possa prendere ordini per la serata. Potrai
esserci comunque utile, nel caso oltre alla Belva si manifestasse anche la
vostra misteriosa Kaitou Saint Tail».
«Mio padre?». Furente,
iniziò a cercarlo per tutto il museo. In mezz’ora la serata di gala avrebbe
avuto inizio. La creme della creme della città si sarebbe radunata per pendere
dalle labbra del sindaco e della contessa SerbelloniMazzantiViendalmare, stravagante
parvenu italiana che riversava liquidità in tre quarti delle imprese locali.
L’avrebbero adorata, osannata e compiaciuta all’inverosimile, sebbene il suo
passato e il suo presente non fossero particolarmente rispettabili.
La contessa aveva
voluto portarsi i cuochi e i camerieri per la cena dall’Italia. Appresa la notizia,
le quattro imprese di catering della città erano andate in escandescenze, protestando
via carte bollate con il primo cittadino. In un giornale locale era scoppiata
persino una polemica di tutt’altro genere, innescata da un professore d’arte
moderna dell’università di una città vicina.
«Impensabile e di
cattivo gusto», aveva scritto nelle colonne del quotidiano più venduto nella
prefettura, «che una pacchiana cena di gala si svolga in luogo così prezioso,
così circondato dalla creme della creme dell’arte di tutto il mondo. Se qualcuno
suggerisse un brunch all’intero della cattedrale cattolica o del tempio shinto assisteremmo in poche ore ad una levata di scudi da
parte di tutti. Perché dunque si osa trasformare il tempio dell’arte in una
trattoria?».
La polemica più furente
rimaneva quella delle aziende locali, che si vedevano, non solo economicamente,
ma anche moralmente, privati di una così grossa occasione per mettersi in
mostra. La soluzione, salomonica ma geniale allo stesso tempo, era stata
trovata dal vecchio e serafico sindaco. «Prima della cena italiana», dichiarò
in una veloce ma affollatissima conferenza stampa, «faremo un rinfresco
giapponese». Nessun giornalista della stampa locale osò porgli altre domande.
Lo scroscio di applausi che circondò il primo cittadino bastava e avanzava a
riempire un pezzo da tremila battute.
Asuka
jr era giunto nell’anticamera della grande sala dove, di fronte agli
antichissimi vasi Ming, era stato appeso il più grande dipinto del Novecento
italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Ormai era
ora. Una schiera di camerieri in livrea bianca accoglieva gli ospiti più
illustri della città, giunti quasi tutti in largo anticipo, offrendo rotolini di sushi e stuzzichini nipponici. Il direttore del
museo guardava preoccupato i grossi vassoi di leccornie del sol levante che
continuavano ad arrivare per soddisfare gli appetiti del centinaio di invitati
– e dei quasi duecento imbucati – al Galà di presentazione del quadro. “Se
questi si abbuffano qui e disdegnano i piatti dei cuochi della contessa”,
pensò, mentre una goccia di sudore gli rigava il viso “quella è capace di
offendersi e ritornarsene subito in Italia col suo quadro”.
Finalmente, il giovane
detective scorse tra la folla suo padre. La collera gli aveva fatto dimenticare
la vergogna del vestito che indossava: un lungo completo blu dai vistosissimi
bottoni neri che lo facevano assomigliare al cugino più sborone
dello sposo in un matrimonio festeggiato in un agriturismo della costa
romagnola.
«Papà!» il suo, più di
un richiamo, un urlo di rabbia.
«Junior», lo notò,
distaccando gli occhi dall’assessore ai trasporti, una procace quarantennedai lunghi capelli neri rimasta, come lui,
vedova in giovane età.
«Dobbiamo parlare!»
urlò di nuovo. Suo padre lo squadrò con decisione, salutò con gentilezza il suo
possibile obbiettivo amoroso e gli si avvicinò, facendosi largo tra la folla di
gentildonne e gentiluomini in abito da sera, tutti con in mano stuzzichini e
flute di vini pregiati francesi. Un sottilissimo quanto indelicato smacco agli
chef e ai camerieri italiani, che entro pochi minuti avrebbero preso le redini
culinarie della serata.
«Papà!» iniziò con
decisione Asuka jr. «Perché non mi hai detto niente
della Be…». Il commissario giapponese bloccò il
figlio coprendogli la bocca con una mano.
«Non c’entri nulla con
questa storia» replicò, con sorprendente calma e tranquillità, Asuka senior. «Ti prego, per quanto so che vorresti fare
qualcosa, di starne alla larga».
«Perché mi hai voluto
qui?» insistette a bassa voce, controllando di non catturare l’attenzione della
marea umana che circondava lui e suo padre, Asuka
junior. «Il vestito, l’invito, io sono venuto».
«Sei qui perché sei mio
figlio», continuò il commissario, «se ti avessi tenuto a casa avrei destato
sospetti. Dobbiamo mantenere un clima sereno e non farci prendere dal panico». Asuka senior, più che per fare il poliziotto, era nato per fare
il capo. Suo figlio, che con lui non aveva un rapporto così invidiabile,
avrebbe scommesso tutta la sua paghetta (oltre al suo piccolo stipendio di
investigatore part time che il sindaco aveva
insistito per scucirgli) sul fatto che, prima o poi, suo padre sarebbe divenuto
capo della polizia, ministro dell’interno o qualche altro ruolo del genere. Un
ruolo riassumibile in scrivanie in mogano, riunioni su riunioni, cravatte da
duecento dollari e doni di rappresentanza da mettere all’asta per beneficienza.
«Ma Saint Tail potrebbe presentarsi», più che al codino, alle lunghe
gambe ricoperte da calze nere e al suo profumo intenso Asuka
jr aveva in mente il suo incarico. Lui era il “cacciatore di Saint Tail”. Non voleva starsene lì come figlio di un poliziotto
o come banale studente di liceo. Il suo incarico di detective era per lui più
di una divisa. Senza si sentiva nudo, inutile. «In più occasioni», continuò
speranzoso «praticamente ad ogni visita della contessa SerbelloniMazzantiViendalmare in
Giappone, Saint Tail si è fatta viva. Perché non
dovrebbe farlo anche questa volta?» insistette con forza, aggrappato al codino
castano chiaro come un naufrago alla fune lanciatagli da una nave di passaggio.
La sola nave che sarebbe mai passata vicina alle sue acque.
«Non ti ha mandato la
sua solita letterina, ricordi?» lo fulminò suo padre. Era vero. Saint Tail glielo aveva promesso. Solennemente. Prima di entrare
in azione, la giovane ladra avrebbe avvertito il suo instancabile inseguitore.
Si chiedeva spesso il motivo di questa tradizione, ma il suo cervello non
sapeva dargli una spiegazione. Il suo cuore, invece, comprendeva benissimo.
Un punto a favore di
suo padre: nessuna lettera, nessun biglietto scritto con una vistosa quanto
elegante grafia femminile per tutta la giornata. “Forse il Paniccia
originale appartiene legalmente alla Contessa, a differenza delle altre opere”,
dovette ammettere a sé stesso. La polizia e Asuka
sapevano benissimo che la nobildonna adorava l’arte rubata. Eppure gli agenti
nipponici, i poliziotti italiani e persino il giovane detective ignoravano che
il feroce criminale che sospettavano volesse sottrarre alla Contessa il suo
quadro più prezioso fosse lo stesso che così frequentemente la riforniva di
opere d’arte rubate.
«Ti ha mandato la sua
letterina?» insistette suo padre, che dimostrava di conoscere benissimo la
risposta.
«No». Ammise sconsolato
Asuka jr. Sapeva che non avrebbe visto il suo viso,
quella sera. E per un attimo ne fu rinfrancato: la giovane ladra non si sarebbe
messa in concorrenza per il quadro con la Belva Umana. In effetti, Saint Tail non aveva mai affrontato la crudeltà: aveva sfidato la
cattiveria, l’avarizia, la menzogna, il furto. Non un omicida che avrebbe
ucciso sua madre senza farsi troppi problemi[3].
Suo padre gli toccò una
spalla, la cosa più vicina alla carezza che il signor Asuka
fosse mai stato in grado di fare. «Saint Tail non ha
mai ucciso nessuno, la Belva va fermata al più presto. La Belva deve essere la
priorità anche per noi. Dobbiamo aiutare Auricchio e
la sua squadra».
«Che devo fare, io,
precisamente?» esclamò il sedicenne entusiasta. Forse sarebbe stato utile a
qualcuno. Forse lo avrebbero lodato. Forse si sarebbe sentito meno inutile.
«Lo stabile è
circondato da quattro squadre di artificieri, ognuna con i migliori cani da
esplosivo». Iniziò ad elencare Asuka senior. «Sui
tetti dei palazzi vicini abbiamo piazzato dei cecchini. Gli italiani hanno
pensato a tutto il resto: posti di blocco pronti a scattare da parte della loro
polizia, mentre tra la folla, camuffati da ricchi industriali italiani, ci sono
alcuni dei loro migliori carabinieri in borghese. Gente che ha rischiato la
vita in Afghanistan e in Libano. Tutti nascosti e veloci come ninja».
«Dunque» domandò il
ragazzo, «a cosa servo io se ci sono tutti questi esperti?». Si sentì inutile,
di nuovo.
«Servi. Perché gli
italiani hanno un loro piano per prendere la Belva. Un piano che pur prevedendo
la salvaguardia di vite umane, dovrebbe permettere finalmente la cattura di
questo criminale senz’anima».
«E in cosa consiste?»
insistette il giovane.
«Nel far sì che il
furto abbia successo», replicò con franchezza il poliziotto nipponico. «Nel
mostrare alla Belva che non pensavamo minimamente a lui, ma solo a Saint Tail. E tu ci servi per questo».
“Perché permettere alla
Belva di completare il furto? Temono che ogni tipo di reazione dia il la a quel
mostro per fare una carneficina? Tanto vale mandargli il quadro per posta…” pensò il giovane, ormai troppo umiliato e con
l’autostima così ridotta sotto le scarpe da non provare nemmeno a replicare al
padre. Avrebbe obbedito. Del resto, non c’era solo Saint Tail.
«Insomma, devo far
finta di essere io a gestire le operazioni di sicurezza, come per Saint Tail, così la Belva pensi che non avevamo minimamente
pensato a una sua sortita?» chiese riepilogando tutto nella sua mente il
giovane Asuka jr.
«Precisamente».
Confermò suo padre.
«Non c’è il rischio che
ci rimanga secco?» domandò, quasi ridendo Asuka jr.
«Voglio dire, basta vedere come ha gestito le sue altre rapine. Tutti quei morti…» faceva il gradasso per esorcizzare la paura. Ma
dentro di se tremava.
«No. La Belva è
crudele, non è stupida. Ha ucciso, stuprato, ammazzato. Non ha però mai torto
un capello a chi gli si era già arreso. Non ha tempo da perdere, va sempre al
dunque».
«Puoi permetterti di
rischiare?» chiese affannosamente il giovane. «Sono sicuro che andrà tutto
bene», ammise suo padre, chinando gli occhi. “Non sei sicuro, papà”, gli urlò
contro nella sua testa Asuka jr. Ma era il suo
lavoro. O meglio, lo sarebbe stato, forse, in futuro. E rischi del genere
doveva accettarli. O tanto valeva andare a fare il gelataio.
Gettò un’occhiata
svogliata verso la porta d’ingresso, dove eleganti maitre continuavano ad
accogliere il fiore della società nipponica. Riconobbe qualche idol, in particolare una cantante, famosissima pochi anni
prima, ormai completamente dimenticata da tutti, con il naso dilatato e gli
occhi arrossati. Vide il solito lanciatore dei Dolphins
in compagnia di una dolcissima morettina. Notò Sawatari,
il suo compagno di classe, che scattava foto a tutti senza alcun ritegno e
senza chiedere il permesso. Si era ovviamente imbucato a caccia di qualche
scoop. E vide un volto familiare. Vestito rosa da principessa. Cappelli
raccolti. Occhi immensi e umidi.
“Saint Tail?” ormai vedeva il suo volto in tutte le ragazze. Un
altro tuono dentro il suo cuore. «Meimi?» non poté
fare a meno di urlarle. Era fantastica, sotto tutti i punti di vista. I capelli
castano chiari rifulgevano sotto le luci dei lampadari. Il velluto rosso dei
drappi che circondavano la stanza mettevano in risalto la sua pelle rosea e
fresca. Persino la compostezza e la rigidità dell’esercito di raffinati
camerieri giapponesi mettevano in luce la leggiadra ma stabile presenza della
ragazza. Suo padre Genichiro e sua madre Eimi, dietro di lei, completavano un quadretto familiare
che gli scaldava il cuore. Era amore circondata da amore, elemento del quale
sentiva una mancanza, una nostalgia tremenda all’interno della sua vita. “E io che
in classe la prendo sempre in giro”. Provò un turbinio di sentimenti
contrastanti. Avrebbe voluto fermare il tempo, piazzarsi di fronte ai suoi
occhi e specchiarvicisi dentro. Perdersi in quegli
occhi languidi e gentili. “E io che in classe la prendevo sempre in giro”. SI
sentì ridicolo e felice allo stesso tempo. Il suo cervello non capiva perché,
ma per il suo cuore tutto era chiarissimo. Improvvisamente, però, qualcosa
squarciò il quadretto che si era creato nella sua mente. “La Belva”.
La Belva sarebbe stata
lì quella sera. La violenza truce e senza traccia di umana pietà del malvivente
italiano più crudele della storia sarebbe stata a pochi metri dalla dolcezza
infinita che Meimi irradiava da ogni poro. Le
immagini del web gli si riproposero in testa con la violenza di un pugno nello
stomaco. I morti di Düsseldorf, i corpi di Anne e BabetteBrown tagliuzzati in tranci di trenta centimetri
ciascuno e rimescolati dentro due valigie.
«Meimi!
Anche tu qui!» corse verso la ragazza, simulando il sorriso più convincente che
il suo arsenale di facce e di smorfie gli poteva mettere a disposizione. Meimi si girò verso di lui. Spalancò gli occhi per qualche
secondo, poi, vedendo il sorriso del giovane detective, ricambiò il saluto con
esuberante compostezza. «Asuka! Eccoti qui, come sei
elegante». Parole pronunciate con un velo di squisito imbarazzo. I battiti del
cuore del giovane detective accelerarono improvvisamente, all’impazzata, come dopo
un intenso scatto di corsa. “Perché era lì?” Si chiese. “Che diavola c’entrava?”
D’un tratto si ricordò di alcuni articoli sul giornale. “GenichiroHaneoka artista dell’anno”. Gli vennero in mente
anche le continue congratulazioni e richieste d’autografi che Meimi riceva in classe ogni settimana, per conto di suo
padre, da parte di tutti gli studenti del St. Paulia.
La ragazza gli si avvicinò. Poteva sentirne il profumo dentro le narici.
Vaniglia. Il suo cuore sussultò. Di nuovo le immagini delle gemelle Brown. Poi il codino di Saint Tail.
Al diavolo la polizia
italiana, al diavolo suo padre, al diavolo la Belva. “Al diavolo anche Saint Tail” arrivò a pensare. La sua missione, quella sera,
sarebbe stata una, e una soltanto. Tenere lontano quell’angelo dal diavolo che
sarebbe potuto comparire in ogni istante.
«Come va?», domandò
imbarazzato. La risposta era tutta in quegli occhi bovini, nei quali non poteva
far altro che perdersi.
-
Grazie
dei feedback positivi: oserei chiedere da parte vostra ulteriori commenti per
capire anche in quale direzione vorreste andasse la storia. Non vi prendo in
giro però: la storia c’è già ed è già tutta dentro la mia mente. I capitoli
sono abbozzati fino al 75%, attendetevi delle sorprese, anche grosse. Mi
piacerebbe però sapere come la fareste continuare voi, come si dovrebbero
comportare i nostri protagonisti, in particolare Meimi,
Asuka e Auricchio.
Se
questa fic vi piace condividetela anche tra i vostri
contatti: un parere in più farebbe sempre comodo, anche se, lo ammetto a me
stesso, man mano che questa storia sta andando avanti, all’interno di questo
file di Word sempre più pesante, mi accorgo di come abbia voluto scrivere questa
fic essenzialmente per me, e per me soltanto. È un
modo, anzi, il modo per dimostrare a me stesso che quella parte creativa in me
non è morta, ma si è rafforzata, anche se è stata in letargo per molti, forse
troppi, anni.
Nel
prossimo capitolo ci sarà una sorta di divagazione che a una prima lettura
potrà sembrare addirittura scioccante, ma rientra perfettamente nel mio disegno
della storia e per l’evoluzione della Meimi che ho in
testa.
[3]
Guardatevi Fracchia la Belva Umana, con Gigi Reder (il geometra Filini) nel ruolo en travesti della
madre della Belva. Per quanto la Belva cinematografica provasse un affetto
spropositato per sua madre, pochi riuscirebbero ad andare a trovare una madre
del genere senza provare l’intenso desiderio di soffocarla. http://www.youtube.com/watch?v=Neoo7WmT_4E
Piccola
nota: mi si perdoni la così vasta apparente divagazione, ma le prossime righe hanno
un’importanza fondamentale per il proseguimento di questa semplice storia.
Entrò in silenzio,
poggiandosi sul suo vecchio bastone, che ogni tanto tamburellava con le sue
dita ossute al suolo solo per sentire il ticchettio metallico che la punta
registrava toccando il pavimento. Con lui, il vicario generale e il suo
segretario personale. Indossava un clergyman vecchio quasi quanto lui,
leggermente sgualcito ma lavato e stirato impeccabilmente da una fidata
domestica.
Quando lo videro, la folla
di atleti, artisti, industriali e politici radunatisi al galà della Contessa si
aprì in due, come se dovesse passare un camion e non un esile vecchietto. La
statura non era solo una questione fisica. Gli si avvicinò l’assessore al
bilancio, volenteroso di afferrargli la mano con le dita e dargli un vistoso
bacio all’anello. Ma il vecchio Vescovo, uno che non si era mai abituato ai
convenevoli che il suo ruolo richiedeva, voltò velocemente il braccio,
trasformando in modo del tutto impercettibile e con assoluta naturalezza un
pomposo bacio sull’anello in una calorosa stretta di mano.
Era alto non più di un
metro e sessanta, mingherlino, occhi sempre bassi e voce flebile, come quella
di un uccellino. Un corpicino da nulla, segnato dagli anni, ma nel quale
dimorava un’anima titanica. Tutti in città lo conoscevano, pochi però si
ricordavano il suo nome. Per tutti era il “vecchio Vescovo”. Nessuno riusciva
ad immaginarselo giovane, o addirittura bambino, e quando, frugando nei vecchi
archivi, qualche giornalista o topo da biblioteca ripescava una sua vecchia
foto, non poteva far altro che sbottare: «Toh! Un bambino uguale sputato al
vecchio Vescovo!».
Era diventato Vescovo
all’età di 39 anni, un record. Ma vecchio lo era diventato prestissimo. Era sì
diventato subito vecchio, ma non quel tipo di vecchio che non vede l’ora di
lamentarsi delle generazioni successive o che attende senza speranza la
malattia, l’inabilità e la morte. Ma quel vecchio saggio, leggermente distaccato,
eppure sensibile e generoso, capace di guidare gli altri per le strade che ha
già percorso.
Era diventato ufficialmente
vecchio all’età di sette anni, quando vennero a prendere a casa suo padre. Colpevole
di essersi rifiutato di partire per una guerra che non condivideva. Fortunatamente
il bambino non dovette subire per molto l’assenza del papà: glielo riportarono
a casa presto, non più di tre giorni dopo, dentro una scatolina nera.
Decapitato per diserzione e cremato senza funerali.
La mamma gli venne dietro
poche settimane dopo, vinta dal dolore.
Ma almeno, quando toccò a lei, il piccolo fu in grado di posarle un fiore e una
corona del rosario tra le mani prima che il fuoco, secondo le tradizioni del
Sol Levante, ne disfacesse pietosamente le carni.
Il bambino crebbe tra i
frati di un orfanotrofio cattolico per espressa volontà della mamma cristiana. E
per i primi tempi un tarlo gli martellò quella sua testolina così piccola e
così già vecchia. Perché il dolore? Perché la sofferenza? Perché il male?
Perché un’idea così alta e così nobile aveva fatto morire suo papà come un cane?
Perché ad Hiroshima e Nagasaki molti bambini come lui erano stati ridotti in
polvere da una cinica strategia del terrore? Perché i nobili benefattori del
convento esponevano con così tanta cura e vanto le loro antiche spade
taglienti, capaci solo di rompere e ammazzare? Perché, dato che così spesso
ospitavano gli orfanelli in casa per donar loro qualche caramella e rivedere
nelle loro facce i figli morti da soldati in Indonesia, non esibivano con
altrettanta cura i fazzoletti di stoffa con cui asciugavano le loro lacrime?
Perché non mettevano sui loro altarini le merendine dolci capaci di rendere
felici qui bambini senza niente anche solo per pochi istanti? Perché? Dio, perché?
Trovò la risposta a
quattordici anni, mentre, in ginocchio e con una pezza in mano, lavava i
pavimenti in marmo della chiesetta dell’orfanotrofio. Alzò lo sguardo, e vide,
dopo averla solo guardata per molti anni, l’espressione del Cristo crocifisso di
legno che sorgeva sopra l’altare. Una smorfia di dolore intenso. Intenso, ma
non disperato. Ed era lo stesso Cristo, stessi occhi, stessi capelli, stesso
autore, che dominava, con un cuore rosso in mano all’altezza del petto e lo
sguardo fiero, una delle cappelle laterali della chiesetta. Lo stesso identico Gesù
Lo stesso identico Cristo. Lo stesso identico Dio.
Dominatore dell’universo
ma capace di soffrire non tanto per gli uomini, ma con gli uomini. Nell’anima del
piccolo vecchio bambino Il dolore e i lutti del passato non scomparvero, ma
vennero ricondotti ad un disegno più grande. Tra le gocce di sangue che
ricoprivano il petto del Cristo crocefisso dell’altar maggiore c’erano anche le
grida disperazione di sua madre e le deiezioni che suo padre espulse quando gli
comunicarono che sarebbe morto da lì a un’ora. Ma l’amore di sua madre e gli
immensi valori di suo padre si trovavano comunque lì, a pochi metri di
distanza, tra le mani del Cristo della cappella laterale, assieme a quel grosso
cuore rosso pulsante che teneva all’altezza del petto. Nulla era andato
perduto. Tutto era rimasto.
In quel momento, tra le
fibre del suo cuore, iniziò a crescere il seme di una chiamata, di una
vocazione. Di una missione ben più grande. Rendere partecipi i suoi
connazionali di questo Amore così grande, unica forza in grado di sconfiggere
il dolore. Di lì la sua storia fu molto simile a quella di tanti altri. Forse
persino banale. Il seminario, l’ordinazione a sacerdote, gli studi
specialistici a Roma, una carriera velocissima tra i sacri palazzi. Chiese
però, fresco di zucchetto rosso, di poter tornare in patria. Venne subito
nominato arcivescovo della sua Diocesi d’origine, alla giovane età di 43 anni.
Con lui si portò qualche souvenir della capitale italiana, un container di
libri e quindici scolopie[1], religiose con la
vocazione dell’insegnamento. Acquistò immediatamente, con grande dispendio
delle risorse economiche della piccola curia, un grande parco, dove, nel giro
di quattro anni, sorse, pietra su pietra, una scuola immensa. Decise di far
scegliere ilo nome alle suore: queste non ebbero alcun dubbio. L’onore sarebbe
andato a santa Paula MontalFornés[2], la loro fondatrice,
proprio da qui, “Saint Paulia”. Un mega istituto nel
quale i bambini entravano per l’asilo e ne uscivano a vent’anni, dopo aver
completato il ciclo di studi. Una scuola privata e prestigiosa, sì, ma che
accoglieva anche i figli dei più poveri in virtù dei prezzi stracciati, che la
rendevano gettonatissima anche tra i non cattolici e
i non cristiani, ovvero la quasi totalità della popolazione. Da sempre la
Chiesa in Giappone aveva deciso di investire tutte le sue risorse nella scuola:
un ottimo modo per farsi conoscere e per trasmettere quel messaggio d’amore per
la quale era stata fondata.
«Avvocato Heiki, come sta sua figlia?» domandò ad un uomo calvo,
leggermente sovrappeso e con una sottile barbetta che se ne stava alla sua
sinistra.
«Molto bene eccellenza!»
gli rispose sorridendo. Le cure stavano avendo effetto.
«Dottoressa Ikari, procede bene il suo lavoro?» chiese ad una donna che
si trovò davanti, sbucata nel bel mezzo del marasma di persone che volevano
avvicinarsi e salutarlo. «Tutto ottimamente», confermò la cinquantenne primaria
del reparto di oncologia dell’ospedale cittadino, «i nuovi macchinari fanno
benissimo il loro lavoro».
«Bene», ammise serafico il
pastore di quella diocesi del Sol Levante, che aveva un pregio non da poco. Una
capacità sulla quale molti, spesso, si interrogavano, chiedendosi come fosse
possibile un prodigio così mirabile: il Vescovo, infatti, conosceva tutti per
nome. Non come una parrucchiera incline al gossip, ma come un pastore che si
affeziona alle sue pecore, una per una. Non si sentiva però un santo:
nonostante tutti lo venerassero come tale, si sentiva spesso profondamente
sporco. A tormentarlo, il più delle volte, il dualismo tra giustizia e legge,
un tarlo, un dilemma tremendo che non lo faceva spesso dormire la notte. Il
cristiano si azzuffava con il Vescovo, gli alti ideali si picchiavano con i
timori degli scandali, il Vangelo si accapigliava con il buon senso. Un dilemma
di famiglia.
Anche suo padre era rimasto travolto in questo
bivio dai fatti che la vita gli aveva posto d’innanzi. Giusto rispettare un
decreto imperiale e combattere una guerra manifestamente ingiusta? E per lui: è
giusto denunciare un lavoratore clandestino giunto nel paese o è meglio nasconderlo
e offrirgli una possibilità di ripresa? È giusto stringere mani sporche di
malaffare e corruzione per riuscire a tenere aperta una scuola così bella? Era
giusto accettare l’invito di una persona non onorevole per mantenere buoni
rapporti con i poteri della città? Quest’ultimo dilemma, però, era riuscito a
risolverlo. Si trovava infatti lì, quella sera. Aveva detto di sì.
I pensieri svanirono: due
volti in lontananza gli scaldarono il cuore. Li riconobbe, li chiamò.
«Asuka
junior se non sbaglio. E la giovane MeimiHaneoka, figlia di Genichiro.
Entrambi del Saint Paulia, anche voi qui?» si
avvicinò ai due ragazzini con un sorriso stampato in volto. Un sorriso
composto, sottile, ma che racchiudeva in sé il senso di mille e mille parole.
Asuka e
Meimi si scambiarono una veloce occhiata, poi,
abbozzarono un sorriso e salutarono con un inchino l’anziano presule. Alle
spalle del vecchio Vescovo, il vicario generale, un sessantenne calvo e con una
leggera pancetta e il segretario, un trentenne magro e spilungone che pareva
uscito dal depliant di un seminario maggiore. Entrambi si lanciarono le solite
occhiate. “Ecco, ti pareva”, sembrava si dicessero, “un veloce salutino ai
politici e agli industriali e poi si ferma a parlare a mezz’ora con i ragazzini
e coi vecchietti”. Occhiate che non contenevano alcuna malizia o giudizio. Solo
una grande ammirazione per un vecchio religioso capace di vedere tutte le
persone allo stesso modo, come esse sono realmente. “Quello ci da le piste in
santità”, ogni tanto pensava sconsolato il suo giovane segretario, forse un po’
troppo severo con sé stesso.
«Siete venuti qui
insieme?» sorrise il vecchio Vescovo. I due sedicenni si lanciarono l’un
l’altro una veloce occhiata, poi l’imbarazzo piombò sui loro visi sotto la
forma di rossore diffuso.
«No», si azzardò Asuka jr, «ci siamo trovati qui quasi per caso». Sebbene i
miracoli siano materia di esclusiva competenza del divino e dei suoi
rappresentanti, Asuka jr, con un triplo salto
carpiato e un doppio avvitamento di emozioni, riuscì a compiere qualcosa che a
un miracolo si avvicinava molto. Riuscire insomma a non passare per fidanzatini
di fronte agli occhi del vecchio Vescovo senza però ferire in alcun modo le
emozioni della ragazza. “I tempi in cui la prendevo in giro come un deficiente
sono finiti”, si impegnò con sé stesso, percependo al suo fianco il respiro di
quel piccolo angelo, gustandosene il profumo fino al momento – drammatico –
dell’espirazione.
«Monsignor Hikamura», si voltò il vescovo verso il vicario generale.
«Mi dica eccellenza»,
rispose veloce il curiale, avvicinando il volto.
«Fra quanto dovremo essere
presenti al tavolo della signora Contessa?» chiese a voce bassa.
«Tra mezz’ora, eccellenza»,
rispose in velocità. Il vecchio Vescovo conosceva benissimo la risposta, ma
gradiva sentirsela ripetere da qualcun altro.
«Perfetto. Allora,
ragazzi, dato che studiate nella nostra scuola, vi propongo una breve visita
all’esposizione che abbiamo allestito noi dell’arcivescovado con un po’ di
vecchi oggetti e ricordi in una delle sale di questo museo. Vi va?». Il
segretario e il vicario gli lanciarono un’occhiata. Questa volta davvero
perplessi.
Meimi e
Asuka si lanciarono l’ennesima occhiata. Rifiutare
sarebbe stato scortese. Non si dice di no così gratuitamente ad un arcivescovo.
Soprattutto a quell’Arcivescovo lì, in particolare. In effetti, i due ragazzi
non disdegnavano un motivo per stare vicino l’uno all’altra. Entrambi temevano
che la timidezza li avrebbe separati per ancora una volta. Dissero entrambi di
sì, anche se Meimi continuava a pensare a Saint Tail e Asuka alla famigerata
Belva. “Un momento di tranquillità prima della tempesta”, osservò il giovane
detective dentro di sé.
«Bene», osservò il
Vescovo. «Monsignor Hikamura, don Masaho,
potete pure aspettarmi qui e gradire un po’ di sashimi, che, da quel che dicono,
sembra davvero eccezionale». Un chiaro invito a togliersi di mezzo. “Avrà in
mente qualcosa”, pensò il vicario generale, mentre si allontanava,
pregustandosi anche qualche bel rotolino di sushi: “La suora portoghese che
cucina per noi in curia queste leccornie non ce le fa mai, mannaggia a lei”.
«Seguitemi», disse il
vecchio Vescovo. Mentre camminava lentamente, non poté fare a meno di notare
quelle improvvise rigidità percettibili sotto gli sbuffi e gli svolazzi del
soffice vestito della ragazza. I muscoli del braccio tesi per tenere una
borsetta, forse un po’ troppo pesante. Pensò alla giovane novizia Seira, alle sue idee sulla giustizia e sulla legge. Idee
che condivideva in pieno ma che non si poteva permettere di esprimere in
pubblico. Troppo grande lo scandalo che ne sarebbe derivato. Si girò e fissò
nuovamente gli occhi di quella ragazza sorridente. La giustiziera che aveva
così spesso ammirato, e che molte volte aveva persino guidato da lontano. Suor Seira aveva voluto fin dal principio informarlo su quella
strana idea di giustizia e di difesa dei deboli: lui aveva fin da subito
sposato il progetto, guidando nell’ombra la religiosa con i suoi consigli. Una
complicità profonda che Meimi ignorava. Già, Meimi. Poteva quella ragazza continuare ad addossarsi tutto
il peso di una missione così delicata, così stressante, così rischiosa? Era in
grado di fregiarsi della pazienza, della tenacia, della solidità che il titolo
di “Saint” – Santa, richiedeva? O forse era meglio farla desistere, prima che
il suo galante quanto persistente inseguitore la consegnasse alle autorità? Ma
non era forse vero che l’esempio e la testimonianza di Saint Tail stavano cambiando in meglio la città, che furti e
rapine erano diminuiti, che la corruzione veniva denunciata con maggiore
solerzia? E non era meraviglioso vedere i volti raggianti delle persone aiutate
dalla giovane illusionista?
Di solito era la gente che
si rivolgeva a lui per delle risposte. Il brutto di un mestiere come quello del
Vescovo è che raramente hai qualcuno che possa darti dei consigli, a parte
quelle rare volte in cui il centralino del Vaticano riesce a passarti il Papa.
Sperava dunque che parlando insieme alla ragazza, la Divina Provvidenza avrebbe
dato il suo responso.
“Ti prego Signore”, pregò
sottovoce, mentre, con Meimi e Asuka,
lasciava la sala del rinfresco per imboccare un lungo e vuoto corridoio, “dammi
un segno”.
-
Nei
prossimi giorni il nuovo capitolo. Nel frattempo, vi prego, lasciatemi i vostri
feedback, consigli, suggerimenti o insulti.
Grazie
a voi per l’attenzione.
[1]
Esistono veramente: http://www.escolapias.org/donde_japon.htm
Un po’ diverso l’abito da quello del manga, ma mi piace pensare alle suore del
Saint Paulia come a delle scolopie.
Decisamente non
se l’aspettava. Quando era scesa dalla lussuosa Maserati in compagnia di mamma
e papà, prima che un discreto maitre la accogliesse nell’anticamera ricca di antipasti
giapponesi e vini francesi, in testa aveva solo due pensieri: l’Osvaldo Paniccia da recuperare e la presenza di Asuka
jr.
Non avrebbe mai
pensato di lasciare per un po’ i suoi genitori e camminare lungo un corridoio
sola proprio con Asuka jr e con l’anziano Vescovo, religioso
che prima d’allora aveva visto solo da lontano, alle cerimonie d’apertura e di
chiusura dell’anno scolastico.
“Io lui e un
sacerdote”. Immagini di un matrimonio. Non fece nemmeno in tempo ad arrossire a
quel pensiero che il vecchio Vescovo si fermò.
«Eccola qui». Un
addetto alla sicurezza si inchinò di fronte al presule ed aprì la porta.
«Di che si tratta
esattamente?» chiese un curioso Asuka.
«Vecchi oggetti
che tenevamo chiusi nelle cantine e negli sgabuzzini, che qui hanno almeno la
possibilità di prendere un po’ d’aria», sorrise il vecchio Vescovo.
“KakureKirishitans”, lesse Meimi su un cartellino. “Cristiani nascosti”. Dentro le
vetrine e sopra le teche decine di statuette, tavolette di bronzo incise e un
quantitativo spropositato di pergamene.
«Ho già sentito
nominare questa storia, ma non me la ricordo bene», ammise Asuka
jr. «Te la racconto io», iniziò Meimi, sotto lo
sguardo divertito del vecchio Vescovo. Un’ottima occasione per parlare
tranquillamente di un argomento a prima vista distante dalla loro quotidianità,
da Saint Tail, dai litigi in classe, da quello che
provavano o non provavano.
Meimi
spiegò di come a metà del sedicesimo secolo san Francesco Saverio arrivò in
Giappone e iniziò a predicare il cristianesimo, e di come questo sia attecchito
in velocità, nonostante le improvvise e continue persecuzioni. Raccontò poi di
come lo shogun Tokugawa[1] avesse
reso illegale la nuova religione. Il sangue era scorso a fiumi.
«Molti si
rifiutarono di abiurare la loro fede. Vennero torturati e uccisi a decine di
migliaia. Migliaia e migliaia invece parteciparono a una delle più grandi
rivolte nella storia del nostro paese, capeggiati dal celebre samurai Akamusa[2]. Anche
loro trovarono la morte. Tutti quanti». Il Vescovo continuava a fissarla. Notò come
i suoi occhi si fossero illuminati nel menzionare il sacrificio di così tanti
martiri.
«E gli altri?»
domandò con goffa curiosità Asuka jr.
«Gli altri chi?»
replicò Meimi, altrettanto goffamente.
«I cristiani
nascosti!» le ricordò ad alta voce il giovane detective.
«Beh, loro hanno
resistito in clandestinità per 250 anni, fino alla riapertura dei confini e al
ritorno degli occidentali. Tra l’altro i missionari sono rimasti stupiti di
trovare ancora traccia del cristianesimo dopo un così lungo periodo di assoluto
isolamento», tergiversò la ragazza.
«Sì, ma, se hai
detto che hanno ucciso tutti», fece notare con calma Asuka
jr, «chi sono allora i “KakureKirishitans”?».
«Sono i cristiani
che hanno preferito nascondersi» iniziò a parlare il vecchio Vescovo, «non
l’hanno fatto né per viltà né per paura, ma per continuare a credere e poter dare
ai propri figli un futuro. Vedete queste tavolette?». Mostrò, conservate in una
teca, una serie di riquadri in legno e in pietra raffiguranti pie immagini: il
Cristo crocefisso, la Vergine Maria. «Sono tavolette Yefumi[3],
letteralmente, da calpestare».
«I funzionari
dello shogun», continuò il vecchio Vescovo, «obbligavano tutti gli abitanti dei
villaggi cristiani a camminarvicisi sopra come segno
della loro abiura. Molti lo fecero». Un istante di silenzio, interrotto da un
intervento ad alta voce.
«Come hanno fatto
a rinunciare alle proprie idee e al loro Dio?» quasi protestò Asuka.
«Non tutti sono
chiamati al martirio», continuò serio il Vescovo. «Secondo le cronache
dell’epoca, sarebbe stata la stessa Madonna a convincere molti cristiani a
passare sopra alla sua immagine, pur di salvare la vita, e poter così poi testimoniare
la fede ancoraa lungo, seppur in
clandestinità».[4]
Meimi
non poteva concepire un tradimento del genere. Pensava agli uomini, alle donne,
ai bambini, che dopo una vita nella fede cristiana avevano deciso, solo per
salvarsi la pellaccia, di tradire tutto quello per cui avevano lottato e
sofferto. Tutto ciò in cui avevano creduto. Provò orrore per i loro piedi,
pronti a calpestare, sopra le tavolette Yefumi, le
immagini fino ad allora venerate.
«Apparizioni o
non apparizioni», replicò decisa Meimi, catturando
anche l’attenzione di Asuka, «si sono arresi».
«Non si sono
arresi», replicò con calma, ma con assoluta decisione, il vecchio Vescovo,
«guarda là», e indicò una vetrina riempita fino all’orlo di statuette ed
immagini del Buddha. Alcune raffigurazioni erano in pietra, altre in bronzo,
qualcuna in legno.
«Cosa sono?»
chiese Meimi al vecchio Vescovo. Aveva già visto
qualcosa di simile, ma la sua memoria, in quel momento, l’aveva tradita.
«Ma come»,
sorrise l’anziano presule, «conosci così bene la storia della nostra religione
in Giappone e ignori Maria-Kannon[5]?».
L’ammonimento scherzoso fece tornare in mente alla ragazza la vera natura di
queste statuette.
«Assomigliano a
dei Buddha», ricordò ad alta voce Meimi, «ma sono la
Vergine Maria. Alcune di queste hanno il bambino in braccio, altre le dodici
stelle».
«Sopravvivendo
hanno permesso al cristianesimo di continuare a fecondare queste terre»,
continuò il Vescovo, con una voce decisamente meno acuta e più solenne del
solito, guardando verso l’alto, «hanno testimoniato rimanendo nascosti, ma
continuando con le opere di carità e di giustizia. Non sempre è necessario
sacrificare tutto per le proprie idee».
Il cuore di Meimi ebbe un improvviso sussulto. Di che diavolo stava
parlando il Vescovo? Dei cristiani che rinnegarono apparentemente la loro fede
e continuarono a vivere o di qualcos’altro? Meimi era
sicura: se fosse vissuta nel diciassettesimo secolo, per lei, non ci sarebbe
stata altra scelta se non il martirio.
«Anche oggi c’è
gente che è chiamata a prendere decisioni molto forti. Ma non sempre sono
quelle giuste. Del resto», continuò il Vescovo, lanciandole sorridendo uno
sguardo così penetrante e sibillino che Meimi si
sentì quasi nuda di fronte a lui – senza schermi, o protezioni, «il Signore non
ci sottopone mai a delle prove che non possiamo superare».
Parlava a lei. O
forse no? Sapeva? Quasi certamente no. Ma Meimi si
sentì colta sul vivo. Era giusto sacrificare tutto per quell’alto ideale di
giustizia? Non era troppo per una ragazzina di quell’età? Non era troppo grosso
il rischio di venir acciuffata, l’identità scoperta, con una vita che avrebbe
subito preso una piega del tutto diversa?E se, ancor peggio, durante una “riparazione” fosse stata colpita a
morte da un criminale vero, da un boss della Yakuza,
fosse scivolata da un tetto o caduta dalle sue mongolfiere artigianali? Si
immaginava i suoi genitori mentre ricevevano la notizia terribile dalla
polizia, magari proprio da Asuka senior. O da Asuka jr? La madre a terra in lacrime, il padre in piedi,
impietrito, con i trucchi di magia che gli cadevano dalle mani paralizzate.
Avrebbe voluto
dannatamente smettere. Lo desiderava con tutto il cuore. Desiderava dormire a
casa sua ogni sera, dalle dieci alle sette della mattina. Sognava di terminare
quella doppia vita. Dimenticarsi della giustizia, dei furti. Limitare le
applicazioni della sua coscienza alla messa domenicale, alla confessione mensile
e alle preghierine del mattino e della sera. Lo
desiderava. Avrebbe con tutto il cuore calpestato una, dieci, cento tavolette Yefumi con il volto di Saint Tail
scolpito sopra. Sia il vecchio Vescovo che Asuka si
accorsero delle lacrime che gli rigavano il visetto. Era tempo di dire basta,
sì. Eppure…
Eppure non
poteva. Pensò ai volti delle persone aiutate. Pensò al ghigno dei ladri e degli
usurpatori che dopo la comparsa del tutù di Saint Tail
volgeva nel giro di pochi istanti alla disperazione della sconfitta. Pensò a Seira, che credeva in lei, quasi quanto credeva al Signore
al quale aveva consegnato chiavi in mano tutta la sua vita, per sempre. E pensò
anche ad Asuka jr, con il quale sì condivideva
un’accesa storia d’amore camuffata per una partita di guardie e ladri, ma che
in ogni situazione riconosceva i meriti e l’assoluta moralità dell’avversaria.
Erano del tutto uguali, sì, ma nella partita tra legge e giustizia avevano
scelto di giocare in campi diversi. Non poteva smettere. Perché il suo cuore,
di fronte alle statuine di Maria Kannon e ai
crocefissi nascosti dentro immagini buddiste, si accorse, forse per la prima
volta, che Meimi non si trasformava in Saint Tail. Meimi era Saint Tail. E lo sarebbe sempre stata, anche senza codino, anche
senza tutù, anche senza trucchi di magia.
Il disprezzo per
i cristiani nascosti si mutò in pena. Loro avevano dovuto prendere quella
strada. Lei lo avrebbe desiderato. “Chissà”, si domandò, “magari anche ShiroAkamusa avrebbe voluto
calpestare la tavoletta Yefumi. Ma come me, non poteva,
proprio non poteva”.
«Abbiamo tutti
una scelta», riprese il Vescovo, calmo ma sempre solenne, come se invece del
clergyman indossasse una veste bianca merlata d’oro, una mitra[6]
altissima e il bastone pastorale. Gli occhi protesi, pontificali, la sfidavano
apertamente. “Fa’ la tua scelta, ragazza!”
«Alcuni di noi no»,
pronunciò la sua risposta Meimi, voltandosi di scatto
verso il Vescovo. Il volto rigato dalle lacrime ma deciso. Come se le lacrime
fossero appartenute a qualcun altro, come se quegli occhi non fossero arrossati,
come se non fosse appena passata per un rapido ma doloroso sconvolgimento
interiore.
«Capisco»,
rispose solennemente il Vescovo, con un forte sospiro che si tramutò subito in
un sorriso. Un sorriso non di cortesia, ma di spassionata ammirazione. Asuka jr guardava la scena come se si trovasse in un altro
luogo. Non comprendeva la commozione di Meimi per dei
fatti di quattrocento anni prima, non capiva perché il Vescovo insistesse in
certi discorsi. Del resto, tutti sanno come l’intuito maschile sia una chimera,
al pari dell’araba fenice o di un contratto telefonico conveniente: i detective
della scuola deduttiva, del resto, nei rapporti sociali sono quasi sempre delle
frane, anche se sono in grado di inchiodare un uomo in tribunale con l’accusa
di omicidio partendo solo dalla cenere di una sigaretta o dalla differenza tra
i calli di un violinista e quelli di un violista.
Lo sguardo di Meimi non cedette nemmeno per un secondo. Fiero, quasi ai
limiti della rabbia, quasi a voler sfidare l’anziano presule. “Non mi arrenderò
mai, se è questo che vuoi sapere”, pareva non dire, ma gridare, con quegli
occhi bellissimi e immensi che si ritrovava.
«Ci sono molti
modi di servire una propria idea», continuò il Vescovo, più conciliante, «e non
tradire la propria missione. Non serve rinunciare proprio a tutto», disse
muovendo il viso dal basso verso l’alto indicando esplicitamente Asuka jr. Meimi divenne rosso
fuoco, ma gli omini del cervello di Asuka senior[7]
erano tutti troppo ubriachi del profumo della ragazza per accorgersene.
L’anziano Vescovo le sorrise nuovamente, poi alzò gli occhi al cielo. La Divina
Provvidenza aveva parlato.
“Sosterrò Saint Tail”, pensò il Vescovo, “anzi, sosterrò MeimiHaneoka, qualunque sarà la
modalità con la quale questa straordinaria ragazza continuerà a portare avanti
la sua, la mia, idea di giustizia”.
Una voce, la
solita voce che tormenta i sant’uomini molto di più dei comuni mortali – anche
perché i miseri mortali non hanno bisogno di ascoltarla per farsi del male da
soli, il più delle volte – tornò a parlare alla testa dai radi capelli del
vecchio Vescovo. «E se la arrestassero, che scandalo ne verrebbe fuori? E se la
uccidessero, non ti perdoneresti mai? E se…»
l’anziano sacerdote troncò sul nascere la voce del solito spiritello, e si
affidò più in alto. «Proteggila te», disse alla Provvidenza, prima di
congedarsi calorosamente dai due ragazzi e raggiungere nel grande salone il
tavolo delle autorità. Sorrideva. Era sicuro che la Provvidenza l’avrebbe
protetta lei.[8]
-
Come vi è sembrato il vecchio Vescovo? Siete d’accordo
con la scelta di Meimi? Fatemelo sapere commentando
questa fan fiction! Ogni commento sarà gradito!
[8]
Dolci sgrammaticature volute come omaggio all’amatissimo Giovannino, lo
scrittore contadino che ha donato al mondo un oasi di guerra pacifica quale
Mondo Piccolo.
Se vi trovaste all’interno
dei Minato Art Museum, nella serata più importante
della sua storia, con un galà di lusso organizzato da una distintissima
nobildonna, vi rechereste mai nell’ala est dell’edificio, attraversando uno
stretto corridoio, per entrare, dopo aver aperto una porta dalla maniglia
scassata, in un sala denominata “Arte femminile lappone degli anni ’60 del
secolo diciannovesimo”?
È molto probabile che vi
rechereste, almeno una volta nel corso della serata, in una delle due salette
gemelle denominate “Toilettes”. Potrebbe anche essere
che, presi a noia dalle interminabili discussioni sulla politica estera con l’ambasciatore
del BurkinaFaso, potreste
pensare di dare un’occhiata ad alcune salette dei corridoi, con il beneplacito
di qualche vigilante permissivo. Ma, in quel caso, vi immergereste nei paesaggi
della sala “Vedute del 1700”, nei ritratti della sala “Rinascimento Italiano”,
nelle romanticherie degli “Impressionisti francesi”. Sicuramente, però, per
nessuna ragione al mondo, nemmeno per fare una telefonata o per rubare alcuni
metri di filo di rame entrereste in una saletta intitolata “Arte femminile
lappone degli anni ’60 del secolo diciannovesimo”.
«Chezzo
sono un genio», quasi urlò Auricchio, in velocità, mollando
un coppino da decapitazione a uno dei sedici tecnici
della polizia che se ne stavano seduti di fronte a sette tonnellate di monitor,
computers, microfoni e cuffie. Tutta tecnologia
avanzatissima per registrare e tenere sotto controllo tutte le stanze del
Minato Art Museum, il suo giardino e ben cinquecento
metri di dintorni. L’idea di chiudere uomini e attrezzatura in una saletta era
stata sua. O meglio, era stata di De Simone, ma, in un continuo ed evidente
caso di furto di proprietà intellettuale[1], l’ipotesi di nascondere
la polizia italiana dalla vista della feroce della Belva venne attribuita in un
secondo momento al commissario che condivideva il volto con il celebre Nonno
Libero.
«Per ora nessuna traccia
né di Fracchia né della Belva, commissario», squittì
un omino seduto su una sedia di diverse misure più grande di lui.
«Grezie»,
replicò veloce Auricchio, «ma sicuramente non si farà
becchere così fecilmente».
Passò nuovamente in rassegna con i suoi occhi inquisitori tutto quel bendidio tecnologico composto da vecchie strumentazioni
della Polizia Italiana e apparecchi futuristici di fabbricazione nipponica,
acquistati per l’occasione.
Appesi al muro si
trovavano venti schermi piatti da quaranta pollici. Ciascuno ritrasmetteva le
immagini di otto telecamere ad infrarossi disseminate nei paraggi. Sopra le
scrivanie un groviglio infinito di cavi provenienti da laptop, telefoni fissi,
caricatori di cellulari, qualche fax e una telescrivente, che non funzionava
dal lontano 1986 ma alla quale gli uomini, in primis Auricchio,
erano affezionati.
Ma l’arma più grossa di
tutte, l’amo d’oro al quale, finalmente, dopo anni di durissima caccia, avrebbe
abboccato la Belva, si trovava chiusa in una valigetta nera, posata con
delicatezza nell’unica zona della scrivania che non era stata fatta preda del
disordine che contraddistingue onorevolmente il maschio italiano.
“Sarei mio, brutto figlio
di puttena”. Anche i pensieri di Auricchio,
oltre che ai suoi discorsi, erano in stretto pugliese.
Troppe le cacce andate a
vuoto. Troppe le delusioni. Troppi i momenti nei quali la Belva sembrava a
portata di mano: sembrava bastasse allungare il braccio e stringere la propria
presa sulla preda per concludere un incubo durato anni. E invece no. Conoscete
quegli assurdi macchinari che gente senza scrupoli, installa, spesso in accordo
con preti senz’anima e senza briciolo di umana pietà, nelle sagre di paese?
Quegli scatoloni di vetro pieni di peluche fantastici e costosissimi, da
provare a catturare, con un apposito arpione, al modico prezzo di 2 euro? Io
sì. La vostra morosa (o colei che aspirate diventi tale) è lì a guardarvi.
Desidera quel particolare pupazzo di Spongebob. Non
ne vuole altri, anzi, li ripugna. E allora voi siete lì, piegati dallo sforzo.
Dopo 14 euro buttati state per chiudere le vostre fauci elettroniche sullo
stramaledettissimo Spongebob, cartone che tra l’altro
odiate con tutto il cuore. Ma, puntualmente, l’intoppo. E vi ritrovate a mani
vuote, senza Spongebob e senza morosa, che, nello
stesso momento, sta sbavando a dieci metri di distanza per un energumeno con la
seconda elementare che si diverte, con il punjiball,
a fare punteggi a tre zeri.
Auricchio,
però, negli anni, si era ritrovato in una situazione ancora peggiore: invece di
Spongebob, non si ritrovava tra le mani un
dignitosissimo pugno di mosche, ma una scimmietta di peluche brutta come la
morte e mangiata dalle tarme. Così brutta che la vostra morosa non vi
ignorerebbe per sbavare di fronte alle zaffate di testosterone dell’energumeno
di turno, ma vi prenderebbe lei direttamente a calci.
Come potete intuire, la
scimmietta di peluche non era altri che Giandomenico Fracchia,
un asso che la Belva aveva imparato a giocare benissimo. La Belva aveva capito
la tecnica migliore per far sì che Auricchio non
pescasse mai Spongebob, ma la scimmietta. Si
sostituiva al più sfortunato dei geometri direttamente sulle scene dei crimini,
calcolava ogni variabile, studiava ogni dettaglio. E così, puntualmente, decine
di volanti della polizia lo ignoravano e si gettavano all’inseguimento
dell’innocente e inutile Fracchia.
Un giorno Auricchio sbottò: «Cerchiemo
tutti e due, ecchecchezzo! Uno dei due sarà la Belva,
Madonna Benedetta!». E, puntualmente, la Belva trovò il modo per farsi ancora
beffe della legge. Dopo un furto, un omicidio o una rapina truculenta venivano
di solito identificati sulla scena del crimine i due target. Target A e target
B, i due gemelli del male. La Belva e Fracchia. Auricchio, ogni volta, dava disposizioni, affiancato anche
dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Di norma, un reparto inseguiva il
soggetto A, un altro si metteva alle calcagna del soggetto B. Dopo una caccia di
poche ore, tutti trionfavano. “L’abbiamo preso noi!”, “No, questo è il nostro,
noi dovevamo prendere l’altro”, “Ma come maresciallo, non dichicastronate, questo è il B, noi dovevamo inseguire il
B”, “Comandante, guardi che la prendo a sberle, riconoschi[2] che questo è il soggetto
A”. In un punto cieco della caccia, pensava Auricchio,
la Belva riusciva a far perdere le sue tracce, indirizzando tutti gli uomini
che lo seguivano verso Fracchia. E non si trattava di
banali corsette, ma di inseguimenti a volte lunghi giorni, in città, a volte in
stati, molto lontani da dove colpiva.
Ma quelli erano solo i
casi in cui la Belva si faceva – o voleva farsi – beccare. Il piano B era lui:
Giandomenico Fracchia. Nei vertici dei servizi
segreti si pensò persino a “far sparire” il pericoloso sosia. Una celletta in
regime di 41bis, un viaggetto senza ritorno da qualche parte non meglio
precisata.
«No», aveva sempre
protestato Auricchio, «La Belva la voglio catturere rimanendo un essere umano, ecchecchezzo».
Nessuno poteva opporsi di fronte a tanto orgoglio e a tanto insensato coraggio.
Perché, in terra
nipponica, seppur fosse teso come un fuso e la tensione gli avesse già
provocato la dislocazione di molte articolazioni degli arti inferiori, non era
mai stato così tanto ottimista?
Solo una settimana prima
si ritrovava nel suo ufficio, cercando di far funzionare la maledettissima
radio nuova che aveva appena messo sopra la scrivania.
«Balliamo, è da tanto
tempo che non lo facciamo[3]». Dall’apparecchio si
poteva sentire chiaramente la celebre canzone di Fred Bongusto. La rabbia gli
fece assumere una colorazione rossiccia tendente al viola. Tutti i prodromi di
un attacco cardiaco. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento avrebbe
digitato immediatamente il 118 nel suo cellulare, dicendo: «Sì, salve. C’è
bisogno di un’ambulanza… Bah… provate a venire, ma
per sicurezza chiamo già il becchino». Ma dato che nella sua stanza non entrò
qualcuno, ma il fido De Simone, la guardia medica non venne allertata.
«De Simone, provaci te a
farla funzionere. Voglio ascoltare il radiogiornele!». Urlò. Non appena De Simone mosse
timidamente il suo dito verso la radiolina, la canzone in stile Sinatra del
cantautore di Campobasso si tramutò nella fredda lettura delle notizie del
radiogiornale: «Tragico incidente questa notte nel raccordo anulare di Roma. Un
uomo, in palese stato di ebbrezza, ha fatto uscire di strada, nel corso di
un’azzardata manovra di sorpasso, un autobus pieno di boyscout. Dieci le
vittime, tra cui otto bambini. Il pirata, piantonato dai carabinieri in
ospedale, ha commentato così ai nostri microfoni la dinamica dell’incidente».
Le mani di Auricchio si avvicinarono alla manopola
della radio. «Andavo a cento allora per trovar la bimba mia yeyeye, yeyeye», rispose canticchiando
Gianni Morandi. Un lampo d’odio negli occhi del commissario, che decise di
disfarsi rapidamente dell’ennesimo marchingegno elettronico che con lui non
voleva funzionare. L’infernale apparecchio ruppe la finestra e centrò, in mezzo
alla strada, un vigile urbano che stava solo facendo il suo lavoro, lasciando
orfani i suoi tre figli.
«De Simone, disgrazieto, che diavolo ci fai que
dentro?», cambiò discorso Auricchio.
«C’è un professore che la
vuole», tagliò corto De Simone, sicuro di ricevere a breve una punizione
corporale per aver ardito disturbare.
«DE SIMONE???», urlò
sputacchiando il commissario pugliese, di nuovo rosso come magma, «MA CHE
DIEMINE ME NE FREGA A ME DI UN PROFESSORE??? CHE DEVO
IMPARERE LE TABELLINE???»
«Ma commissario…»
insistette, seppur con una dose abnorme di timidezza, De Simone, «dice di aver
risolto il dilemma della Belva».
«CHE DIAMINE STEI DICENDO,
DE SIMONEEE??? ECCHECCHEZZ’É IL DILEMMA DELLE BELVA???»
«Ist
il dilemma della Belva. Molto conosciuta da tutti noi professori teteschi di psicologia cognitiva dell’Università di Wundt». Un uomo dalla faccia seria entrò nella stanza. Il
solito lampo negli occhi di Auricchio.
«Fracchia?»
esitò per un istante. «Belva?» non ci capiva più niente. No. Non poteva essere.
Effettivamente quell’uomo assomigliava molto sia al banale cioccolataio che al
feroce criminale. Eppure era vistosamente più giovane. I suoi capelli non erano
bianchi, ma ancora castani. E, dalla sua, quello strano professore dall’accento
tedesco, aveva una ventina di chiletti in meno.
«Lei chi è?», domandò Auricchio, calmatosi per un miracolo della bontà divina.
«Meglio lo lasci parlare»,
interruppe sorridendo De Simone, ricevendone in cambio un’occhiata assassina da
parte del suo superiore.
«Otto von Kranz[4], professore all’UnifersitàWilemWundt di Germania. Voi folere
catturare Belva?».
«Che mi piglia in giro?»
rispose sconsolato Auricchio, sfarfallando su e giù
le mani giunte, «è anni che ci occupiemo solo di
quello!».
«Io afere
fatto analisi dei fostri studi e fostre
ricerche», ammise Kranz con toni concilianti. «MA»,
urlò improvvisamente», facendo fare, con la sua parlata autoritaria teutonica,
un balzo sulla sedia al povero commissario, «FOI NON AFERE TENUTO CONTO DEI
FOSTRI INSEGUIMENTI DEL DETTAGLIO PIU’ IMPORTANTE».
«Quale?», domandò
umilmente, dopo essersi ripreso, un attonito Auricchio.
Kranz
ripercorse, criticando con perfidia germanica, i metodi illogici con i quali la
polizia italiana sperava di acciuffare un così feroce criminale. Prima
cercavano inutilmente di chi capire chi fosse la Belva. Ma la Belva li
indirizzava tutti verso Fracchia. Poi avevano
iniziato a dividersi, cercando di acciuffarli entrambi per poi capire chi fosse
la Belva Umana, ma la Belva, con un’abile manovra, mandava tutti i suoi
inseguitori nella direzione del povero cioccolataio.
«Foiafere tenuto conto nella fostra
equazione di tutte le fariabili. Ma non del falore stabile comune a tutte».
«Cosa sta dicendo?» si
alzò in piedi il commissario, sorpreso e curioso.
«Qvesto
è il dilemma della Belfa, io lo afere
risolto. Pensi un attimo all’unica fatto che essere comune in tutti i colpi
della Belva».
«Che noi ce lo pigliemo in quel posto». Ammise sconsolato Auricchio.
«Che alla fine è sempre
lui ad andarsene con quello che voleva rubare». Osò dire De Simone.
«DE SIMONE, CHEZZO
INTERVIENI SEMPRE TE? CHI TI HA DETTO DI PARLARE???»
sbraitò sputando un polmone l’irascibile commissario.
«Capisce di che io stare
parlando?», continuò, ignorando il diverbio, il severo professorone germanico.
«Ma è ovvio, anzi, è chiero», quasi protestò il commissario, «alla fine la Belva
se ne va sempre con quello che voleva rubare», disse alzando ripetutamente su e
giù il viso. De Simone si limitò a scrollare le braccia, impotente di fronte
all’ennesimo furto di proprietà intellettuale.
Improvvisamente gli si
illuminò il viso. Come se gli fosse sempre tutto stato chiaro. Come se avesse
appreso tutto in un’altra vita e ora semplicemente gli stesse tornando tutto in
mente. Sì maledì anche, in un veloce frangente, per non averci pensato prima,
ma la gioia era troppo grande. La lotta sarebbe finita. Sapeva come avrebbe
battuto la Belva.
Ricordò di aver
ringraziato di cuore il professor Kranz e di aver
promesso un pubblico riconoscimento degli sforzi dell’Università WilemWundt una volta che la
Belva fosse stata catturata. Poi era entrato in auto, aveva pigiato a mille
sull’acceleratore, venendo più volte fermato – e poi puntualmente lasciato
andare – dai vigili urbani. Entrò, quasi buttando giù la porta a pedate, nel
laboratorio “Informatica e telecomunicazioni” della Polizia Italiana.
«DOVETE SUBITO FERMI»,
urlò, tirando con forza in contemporanea il cravattino di due giovani tecnici
occhialuti, «DOVETE FERMI UN LOCHELIZZATORE GPS MICROSCOPICO!!!».
«È s..see..mpl…semplice», confermò uno dei tecnici, con la pelle ormai
di colore bluastra, mentre l’altro aveva già perso i sensi. Più che per il poco
sangue che gli arrivava al cervello, era rimasto terrorizzato dalle urla e
dall’espressione omicida di Auricchio.
Al responso positivo di
uno tecnici occhialuti, il commissario scoppiò in una fragorosa risata. «È
fetta!», gridò. Se ne sarebbe fregato di inseguimenti inutili e cacce all’uomo
dispendiose. L’importante era localizzare l’oggetto d’arte perduto, che, per
vie traverse, passando di mano in mano, finendo in cantine, pozzi, satelliti o
aerei, sarebbe finito, prima o poi, tra le mani della Belva. Il suo unico vero
obbiettivo. Eliminando ogni possibile variabile.
«È fetta», gridò di nuovo,
quel venerdì sera, in Giappone. I tecnici della “sala di controllo”, come l’avevano
chiamata, si guardarono tra di loro, sorpresi e imbarazzati. Auricchio tornò in sé.
«Meglio farsi un giretto»,
ammise. Aveva bisogno di un po’ d’aria fresca. Si aspettava la belva, si
sarebbe trovato di fronte esseri ancora più squallidi.
-
Grazie per i commenti! Se questa fan fiction vi
piace commentate e condividete! Grazie!
Avevo promesso che ogni
capitolo sarebbe stato un POV (pointofview – punto di vista) unico.
Eppure, scrivendo questo capitolo, ho disatteso questa mia indicazione. Portate
un po’ di pazienza…
Uscì con discrezione dalla saletta “Arte femminile lappone
degli anni ’60 del secolo diciannovesimo”, e per discrezione intendo che diede
un tale calcione alla porta che questa, aprendosi, andò a rovinare
pericolosamente sulla testa di una povera guardia giurata del museo che non
aveva fatto nulla di male. Anche quel povero uomo aveva moglie e figli.
Guardò prima a destra e poi a sinistra. Nel lungo corridoio,
a parte la salma esanime della guardia dietro la porta, non c’era anima viva.
“Meno mele”, pensò Auricchio, “così nessuno mi può
rompere le pelle…”. Diede un respiro profondo e si
incamminò verso l’esterno, per sgranchirsi le gambe, fumarsi una sigaretta e
dare uno sguardo alle stelle del cielo che spuntavano tra le chiome degli
alberi più alti. Fece qualche passo, ma, subito, sentì un peso sulla fronte.
Una sensazione a metà strada tra l’oppressione di una giornata di caldo
soffocante e il fardello di un cappello troppo pesante. Nulla di tutto questo.
Era una mano, una mano aperta, che, ritmicamente, gli tamburellava la pelata.
«Auricchio! Puccettone!».
Si girò di scatto. “O Madonna Benedetta…” pensò,
affidandosi alla Vergine. Tre delle più feroci iene e sanguisughe dei palazzi
del potere romano si trovavano di fronte a lui.
C’era il sottosegretario Plinio della Vernaccia, feroce
cinquantenne la cui scarsa altezza veniva compensata dal pizzetto demoniaco e
dallo sguardo infuocato. Era entrato in parlamento come l’ultimo dei
portaborse, ma nel giro di pochi anni, leccando i sederi più sporchi e
pugnalando al cuore i più deboli nei momenti di difficoltà, si era fatto notare
dai più feroci lupi del palazzo in qualità di loro degno compare. Campione
nazionale di bustarella agonistica nel 2007,campione intercontinentale di trasformismo nel 2008, era legato alla sua
poltrona da un agghiacciante patto di sangue che aveva sancito con i peggiori
demoni che si aggirano tra le segrete di Montecitorio. Demoni che in pochi
conoscono, ma che esistono davvero, che si cibano di carne umana e delle
scatole con le firme dei referendum di iniziativa popolare rimaste abbandonate.
L’onorevole della Vernaccia, però, era entrato nella storia per essere riuscito
a formare, nel giro di poche ore, grazie a qualche telefonata e all’uso
sconsiderato di un libretto d’assegni firmato in bianco, un nuovo gruppo
parlamentare che racchiudeva al suo interno, come un’arca di Noè, un esponente
di sesso maschile e uno di sesso femminile proveniente da ciascun partito dell’arco
istituzionale.
L’altra iena che il povero Auricchio
si trovava di fronte era il cavaliere Abelardo Mariade Cavarzerotti.
Entrato a 19 anni come amministratore delegato dell’impresa di famiglia, aveva
subito delocalizzato la produzione in uno stato del
terzo mondo riconosciuto come “canaglia” dalla Nato, nel quale gli operai,
pagati un dollaro la settimana, accettavano di buon grado punizioni corporali e
l’espianto di uno degli organi doppi (reni e polmoni). Per aver, con una sola
mossa, decuplicato i guadagni dell’azienda e lasciato senza lavoro interi
comuni del nord-est ormai ridotti alla fame, qualcuno, a Roma, dotato di gran
senso dell’umorismo, pensò bene di nominarlo cavaliere del lavoro. Nominato per
un quadriennio responsabile di una nota associazione di categoria, aveva
intrecciato ancor di più i suoi tentacoli con quelli del potere più becero e,
mese dopo mese, ne godeva sempre di più i frutti. I suoi hobby la numismatica e
la caccia col fucile “al negro”, in Africa.
L’ultima delle teste di Cerbero, presente davanti ad Auricchio in quel corridoio deserto del Minato Art Museum, era il peggiore di tutti: il ragionier
Filippo de Franciscis. A fronte di quella faccina da impiegatinotimidino che Madre
Natura gli aveva donato, questo figlio di una buonissima donna controllava, con
un complesso meccanismo di scatole cinesi, l’80% dell’economia italiana. A
venticinque anni aveva investito dieci mila euro in una piccola azienda, che a
sua volta aveva acquisito, con un prestito e una fideiussione falsa, un’azienda
un po’ più grande. E via così, fino ai colossi dell’industria e della finanza. Poggiava
il sedere in venti poltrone di altrettanti consigli di amministrazione,
ricopriva il ruolo di amministratore delegato in sette istituti bancari
diversi, ufficialmente concorrenti tra di loro. Trovava persino il tempo per
dedicarsi alla sua fondazione privata, con la quale offriva un allettante
megafono ai politici suoi amici e a varie clientele. Aveva dieci figli legittimi,
quattordici illegittimi ed era legato sentimentalmente ad una ex-shampista di Alberobello,
che, dopo aver condotto il Festival di Sanremo, era stata da lui nominata
amministratore delegato di una grossa impresa metalmeccanica
pugliese, poi fallita nel giro di poche settimane.
Per i tre simpaticoni, dunque, la presenza dell’originale ma
onesto commissario di polizia, ben conosciuto nella capitale e dai media per la
sua caccia alla Belva, rappresentava un grosso motivo di ilarità. Rischiare la
vita dodici ore al giorno per uno stipendio di 1800 euro mensili li faceva
letteralmente scompisciare dalle risate. Ma in loro, ciò che provocava in
particolare ondate di buonumore, era proprio la persona del commissario Auricchio. Sempre ben ligio al dovere. Sempre dalla parte
della legge. Mai disposto a chiudere un occhio di fronte ai soprusi dei
potenti. Anche i loro. Soprattutto i loro. Quella era dunque un’occasione coi
fiocchi per rivalersi, graziati dalla terra straniera sulla quale il
commissario non aveva alcun potere giurisdizionale.
«Auricchio», iniziò il ragionere, «puccettone, che ci
facci lei qui nel Sol Levante?», gli fece, mollandogli il solito ceffone a mano
aperta sulla pelata.
«Oh! Il nostro piccolo poliziotto…»,
continuò il cavaliere, come se stesse parlando a un neonato di novanta chili,
«gioca a fare guardie e ladri? Ma bravissimo sei, bravissimo sei». Ennesimi
schiaffetti sul cranio, che rimbombava come il migliore dei bonghi, questa
volta seguita da un pizzicotto sulla guancia di cui, a distanza di mesi, il
famoso commissario portava ancora il segno.
«Commissario», si avvicinò più cupo dei suoi colleghi bestie il
sottosegretario della Vernaccia, «devo ancora ringraziarla per aver così
calorosamente accompagnato a casa certe ragazze che erano intervenute alla mia
festa». Evidentemente non gli perdonava quella retata contro quel giro di
prostituzione. Gli si avvicinò, gli toccò con una mano la giacca e gliene
strappò con precisione chirurgica un sottile ma lunghissimo lembo. Auricchio rimase impietrito, senza fiatare, anche quando
subì i classici e ripetuti schiaffi sulla pelata.
Dal fondo del corridoio, con ancora in mente le parole del
vecchio Vescovo, avanzavano in silenzio, senza guardarsi in viso l’uno con
l’altra, Meimi e Asuka jr.
Venivano proprio nella direzione di Auricchio, occhi
bassi e passo lento. Le tre bestie senz’anima pensarono bene di farsi da parte.
«Puccettone. Ti salutiamo». E
voltatigli le spalle, se ne andarono, cercando di non dare troppo nell’occhio.
«Commissario!» lo salutò il giovane Asuka,
alzando improvvisamente il viso e assumendo l’aria più cordiale che i suoi
nervi potevano permettergli. Avrebbe giocato anche lui un ruolo importante nel
corso della serata. Meglio tenerselo buono.
«Ehmm.. Asuko…Esuke…Asuka coso lì… Salve». Era ancora troppo scosso per il vergognoso caso
di bullismo di cui era appena stato vittima per fingere un saluto cordiale o
quanto meno normale.
Meimi spalancò gli occhi. “Ma è lui l’uomo
migliore della polizia italiana?”. Lo conosceva. Di notte, oltre a provare i
suoi giochi di prestigio o saltellare per i tetti della sua cittadina compiendo
la giustizia divina, si informava. Navigava sul web per ore e ore, al solo
scopo di documentarsi, farsi venire l’ispirazione e magari copiare i trucchi
migliori dei suoi colleghi “professionisti”. Arsenio Lupin III, KaitouKuroba, Renato Rinino. Ugualmente, però, studiava le menti dei più grandi
detective della storia, per immergersi nei loro meccanismi deduttivi e
comprendere le modalità con cui questi cervelli straordinari, a partire da un
piccolissimo indizio, un’impronta infinitesimale di una scarpa o una
sottilissima inflessione nel parlato, riuscivano ad inchiodare i più ingegnosi
criminali del pianeta. Doveva per forza, in quella sua testa ricoperta da
voluminosi capelli castani, immagazzinare il maggior numero di informazioni per
studiare le contromosse da adottare. Comprendeva benissimo che se si fosse
fatta beccare per lei sarebbe stata la fine. Morte? Carcere? Riformatorio?
Eppur lo sapeva. Aveva già commesso troppi errori. Troppi
indizi lasciati in giro, troppe tracce sulla sua vera identità. Se un serio detective
professionista avesse incrociato i suoi passi con quelli di Meimi,
il vero volto di Saint Tail sarebbe stato
spiattellato entro poche ore su tutte le prime pagine dei giornali. Pensava al genio
statunitense AdrianMonk[1], al fenomeno mediatico
londinese Sherlock[2],
a quel sacerdote italiano che aveva visto con i suoi occhi, nel corso di un
veloce pellegrinaggio con la scuola a Roma, far arrestare un uomo, in coda per
i musei vaticani, per l’assassino di un tassista, solo grazie a un pezzettino
di spago rosso rimastogli impigliato in un mazzo di chiavi[3].
Non aveva a che fare con loro, fortunatamente. Non che Asuka non potesse aspirare a diventare in futuro un
detective geniale. Ma con Saint Tail, Meimi lo capiva benissimo, il giovane Asuka
non era mai riuscito a pensare in maniera lucida e razionale, facoltà
imprescindibile per ogni uomo di legge.
E di fronte a lui c’era quell’infallibile detective Auricchio, il Maigret italiano, un uomo il cui nome faceva
rima con giustizia, terrore dei criminali, flagello degli assassini, tagliola
dei corrotti, proveniente da Barletta. Un uomo che adesso quasi tremava di
fronte a loro, dopo l’incontro con quei tre brutti ceffi.
«Piacere», si inchinò la ragazza, secondo le norme di buona
educazione, «MeimiHaneoka».
Il commissario per un attimo rimase interdetto. “E mo’ chicchezz’è questa qui?”. Poi torno in sé. E per tornò in
sé, intendo nei panni dell’iroso commissario Auricchio.
«Piacere reghezzina, sono il commisserioAuricchio, non sono
la statua di san Giovanni decolleto», rispose
bruscamente, non abituato a ricevere inchini. Si voltò subito dopo verso Asuka, ignorando totalmente la presenza della piccola Meimi. «Mi reccomando, questa
sera non facciamo chezzete. Io rimengo
qui, tutto il resto lo affido a tuo pedre!». Il suo
volto tornò rosso. La sua mente rivolta solo e soltanto alla Belva.
Anche il volto di Asuka si
infiammò. «Mio padre mi ha già informato di tutto!», urlò, ignorando Meimi, «anch’io questa sera farò il mio dovere!». «Maronna benedetta...» sospirò Auricchio,
«speriemo tutto vada bene…»
“Si aspettavano venissi…” si incupì
Meimi. Il pizzico di egocentrismo che
contraddistingue tutti gli adolescenti le fece pensare che l’italiano stempiato
fosse lì per difendere il quadro di Paniccia da Saint
Tail. Nemmeno nei suoi peggiori incubi avrebbe
immaginato di doversi misurare direttamente con un criminale come la Belva
Umana, i cui torti, in passato, aveva già riparato più volte. Per Meimi, anche quella sera, sarebbe stata una faccenda tra
lei e il giovane detective.
Asuka jr si decise a tagliar corto. «Noi
andiamo», e si inchinò, come un signorino ben educato del paese del Sol
Levante.
«Uè, ma che sono, un capitello
della Madonna Addoloreta?» si sorprese Auricchio. «Che c’avete te e la tua fidenzetina?».
Sicuramente il commissario protagonista del miglior film degli anni ’80 ignorava
le più basilari norme del galateo nipponico, ma aveva capito benissimo, anzi,
non aveva capito, aveva semplicemente visto, come Asuka
e Meimi camminavano, si guardavano, stavano fianco a
fianco l’uno con l’altra. Dunque, non comprese per quale assurda logica, in
pochissimi secondi, il giovane detective e la sua bellissima amica erano
riusciti a diventare più rossi di lui.
«Si tratta di un banalissimo inchino!» sbraitò Asuka, più imbarazzato che arrabbiato, «come la vostra
stretta di mano». Un istante dopo aver pronunciato “mano”, ringraziò il cielo
di non aver esordito urlando: “Non è la mia fidanzata”. Era vero, ma avrebbe
fatto infuriare Meimi. O no? O forse passare per
fidanzatini gli andava anche bene? “Sì, mi andrebbe bene” ammise a sé stesso,
disarmandosi da anni di scudi mentali.
«Nessun problema Asuka», si
intromise una calmissima Meimi, «neanche noi
conosciamo tutto il galateo, le riverenze ed i saluti occidentali, giusto?»,
sorrise. Al giovane detective bastò guardarla una frazione di secondo per
arrossire completamente. Non la stava solo vedendo o sentendo, ma la percepiva:
il profumo, il calore corporeo, gli spostamenti d’aria dei suoi movimenti.
Troppi sensi in gioco per mantenere una facciata impeccabile. E i flash di
quello che sarebbe potuto succedere iniziarono a trasformare la dolce
sensazione della presenza di Meimi in un inquieto
presagio, in un turbamento interiore sempre più forte, sempre più doloroso.
«Commissario», continuò Meimi, con
un pizzico di civetteria e con un dolcissimo sorriso che tutte le donne – anche
le più anziane, anche le più brutte – hanno a disposizione per piegare gli
uomini alla loro volontà, «che tipo di saluto era quello che le hanno rivolto
prima quei tre suoi amici?». Gli schiaffoni alla pelata. Quel famigerato caso
di vilipendio delle istituzioni non punibile per extraterritorialità. Quel
riassunto di seconda repubblica da far impallidire ogni amante della
Costituzione.
«Bé», sbiancò Auricchio. «È un saluto… Un saluto… Di chi si sta simpatico…», pensò di essersi salvato in corner il
commissario. Un istante dopo, la mano leggera di Meimi
ritmicamente, ma dolcemente, batteva la pelata
del poliziotto pugliese. Auricchio non poté far altro
che sorridere: se fosse stato il personaggio di un anime un gocciolone gli
avrebbe penzolato dietro la nuca. Ma siccome era il protagonista di una
commedia italiana, si limitò a digrignare i denti e ad attorcigliarsi da solo
le dita dei piedi e delle mani, assumendo via via
coloriti facciali diversi e inimmaginabili, dubitando in cuor suo della
moralità di alcuni personaggi recentemente canonizzati da papa Benedetto XVI.
Asuka si voltò divertito verso Meimi. Sorrideva deliziata, un pizzico di perfidia nei suoi
occhi, ma sempre pura e semplice come una rosa. Lo aveva fatto per difendere il
suo onore? O per prendere un po’ in giro quel poliziotto per quel “la tua fidenzetina”? Non lo sapeva. Ma l’avrebbe difesa, anzi,
avrebbe difeso tutti dall’incubo della Belva che si stava avvicinando a quella
serata altresì perfetta. L’avrebbe difesa. L’avrebbe dovuta difendere. Nessuno
avrebbe potuto toccarla. Nessuno. I corpi di Anne e BabetteBrown. Le vittime di Düsseldorf. Le foto del pc di suo padre. Guardò Meimi,
sana, viva, bellissima. Ripensò all’orrore della Belva. Nessuno l’avrebbe
toccata. Sarebbe morto piuttosto. Morto. Nessuno doveva farla soffrire. Nemmeno
una parola. Il ghigno della Belva. Un brivido di freddo allo sterno, un
improvviso peso alla tempia sinistra, una dolore forte alla caviglia destra.
Poi il buio.
Grazie! Sono assai
graditi i commenti! Anche solo una riga, anche solo una parola, tanto per poter
utilizzare un vostro feedback, positivo o negativo che sia.
Meimi
era seduta al lungo tavolo da quaranta persone riservato agli artisti, agli
uomini di spettacolo, alle celebrità mondane. Alla sua destra il padre Genichiro, mago e artista dell’anno. Alla sua sinistra, la
madre Eimi. Entrambi alle prese con un tris di primi
italiani, un deciso sforzo degli chef della Contessa per esaltare l’unita
nazionale: pappardelle all’anitra per il nord, risotto con gli scampi per il
centro, orecchiette con cime di rapa per il sud. Di fronte a lei il lanciatore
dei Dolphins, che raccontava a bocca piena, tra una
forchettata e l’altra, i suoi tre strike-out al nono inning dell’ultima finale.
Ad ascoltarlo c’era solo l’idol dimenticata, con lo
sguardo perduto. Anche lei stava addentando una forchettata di risotto. Ma Meimi non mangiava.
Nemmeno Asuka aveva appetito. Così impegnato ad osservare la
ragazza, purtroppo per lui, solo di spalle e solo da lontano. Gli seccava non
potersi avvicinare a lei, non poterle parlare. Si sentiva vistosamente a
disagio: la sedia su cui lo avevano fatto sedere era morbida, troppo scomoda.
Cercava di bilanciarsi accavallando le gambe e di concentrarsi su qualche
noiosissimo discorso sulle tasse e sulla viabilità che alcuni suoi vicini di
tavolo avevano intrapreso con fierezza, come i commensali di don Rodrigo alle
prese con le bastonate ai portatori. Anche suo padre, vicino a lui, assisteva
alla nobile guerra di ingegni tra
alcuni funzionari della polizia e un paio di assessori tecnici ossuti e
occhialuti, tragicamente incapaci di trattare qualunque argomento non
riguardasse il lavoro.
Distolse lo
sguardo dall’abito rosa di Meimi e osservò il tavolo
delle autorità, posizionato proprio sotto l’Osvaldo Paniccia
originale. C’era la Contessa, il Vescovo, il sindaco e qualche altro pezzo
grosso. Piegò il viso verso il suo piatto di primi, ancora integro. Quegli
scampi avevano proprio una brutta cera. Sembravano lo guardassero con i loro
occhietti neri: “Noi non è che stiamo bene, ma anche tu sei preso piuttosto
male, non è vero?”.
Improvvise urla
dal fondo della sala. Le grida si moltiplicarono. Rumori di sedie sbattute per
terra, clangore di posate, piatti rotti.
«La Belva!!!»,
urlò qualcuno. Un uomo vestito di bianco, capelli color argento avanzava
lentamente. Nelle mani non teneva armi, ma, legata all’altezza della pancia,
faceva mostra di sé una bella cintura esplosiva che tutti abbiamo imparato a
temere nelle immagini di Al Jazeera.
Asuka
scattò in piedi, preceduto dal padre commissario. «Non commettiamo
sciocchezze». Urlò Asuka senior. L’uomo non fiatò,
continuò a camminare lentamente verso il tavolo delle autorità. Asuka senior gli si avvicinò, mentre il figlio non poteva
che rimanere impietrito di fronte a quella scena tanto assurda. Meimi era in piedi, ancora lì. Alle sue spalle le grida
della folla che si accapigliava e quasi si pestava nel tentativo di scappare da
quella scena assurda. La sua mente provò a calcolare tutte le variabili e le
possibilità per uscire indenni da quella situazione. Ma c’era il vuoto.
«Belva…» iniziò suo padre, ma non ebbe il tempo di
concludere. Gli occhi di Asuka jr si chiusero di
scatto. Un potentissimo spostamento d’aria accecò tutti per qualche istante.
Dopo gli occhi toccò alle orecchie, violentate dal suono di una fortissima
esplosione. Ancor prima di recuperare i sensi, Asuka
comprese ciò che era successo. “Ha usato Fracchia
come un cavallo di troia”. Se ne era reso conto ancor prima di realizzare che
suo padre, la Contessa, il Vescovo, il sindaco, le autorità, chissà quanti
altri erano già stati uccisi. Forse anche lui stesso era ferito mortalmente.
Non lo sapeva ancora. E Meimi? Gli istanti duravano
secoli. Si ritrovò a terra, dolorante. Aperse con estrema difficoltà un occhio
per trovarsi di fronte a una scena spettrale. Gli odori acri di sangue, di
fumo, di escrementi e di carne bruciata si mescolavano nell’aria. La sintesi di
questi olezzi era il profumo della morte. Il quadro di Paniccia
era ancora lì: la teca in vetro antiproiettile si era rotta in più punti, ma il
quadro sembrava intatto. Non osò guardare per terra: chissà quanti cadaveri. Si
girò di scatto verso il tavolo di Meimi. La ragazza
era seduta a terra: l’abito spiegazzato, i capelli arruffati, e – “oh mio Dio,
no!” – un rivolo di sangue che gli gocciolava da un braccio. “Braccio o
moncherino?”. Non capiva. “Dio no! Dio no. Dio ti prego no! Dio se esisti fa’
che non sia vero”.
Passi dietro di
lui. Asuka, con uno sforzo gigantesco, si alzò in
piedi. Barcollando, cercava di avvicinarsi a Meimi.
Venti metri, non di più, ma per lui era una maratona. I passi da dietro
aumentarono la loro frequenza. «Spostati», una voce fredda, metallica. Una
bracciata lo sbatté di nuovo a terra, impotente. Inconfondibile sguardo di
ghiaccio, capelli color argento, profumo francese acuto e tagliente, abito
bianco alla Romanzo Criminale. La Belva.
Il senzadio
superò senza esitazioni le decine di cadaveri che aveva seminato nel terreno.
Aveva persino trasformato il suo sosia in una bomba umana. “Bastardo”. Ruppe
con un punteruolo la teca, già rovinata, e raccolse il piccolo quadro di Paniccia. Poi il terrore. «Perché???» pianse a dirotto Meimi. «Perché???».Pur ferita, rannicchiata a terra e con il vestito lacerato, per Asuka era sempre bellissima. Urlava la sua disperazione.
Perché quel dolore? Perché quel male?
La Belva si girò.
Con il braccio sinistro teneva in mano il quadro di Paniccia.
Qualche breve passo in direzione della ragazza.
«No, ti prego,
no!», urlò Asuka, disperandosi e maledicendosi per
non essere in grado di alzarsi. «Perché?» pianse nuovamente Meimi,
di fronte alla Belva, toccandosi il braccio sanguinante.
La Belva non
rispose nemmeno. Nei suoi occhi nessun barlume di umanità. Alzò il braccio
destro. La pistola in pugno. Freddo come un iceberg. Le dita sul grilletto.
Asuka
urlò con tutto il fiato, con tutte le energie. La gola gli bruciava, stava
forse rompendosi i capillari. Sulla bocca il gusto inconfondibile del sangue.
Gli occhi gelidi della Belva. Gli occhi disperati, bellissimi, di Meimi. Le dita sul grilletto. Il fragore di un tuono. La
ragazza sorrise. Si girò verso Asuka. I suoi denti
bianchi iniziarono a tingersi di rosso. Subito anche il mento, il petto si
tinsero di quel colore, in un rivolo sempre più fitto. Gli occhi sempre più
assenti. Provò a guardare Asuka, con le ultime
energie. Prima di crollare a terra senza vita. La bocca si mosse, ma nessun
suono fuoriuscì. “Aishiteru.” Cadde su se stessa. Non
c’era più.
«MEIMI!!!» un
urlo ripetuto. Asuka si ripiegò al suolo, sperando
con tutto sé stesso di morire subito.
-
«Meimi, Meimi, Meimi,
Meimi». Un improvviso dolore alle guance. Poi il
freddo. Bagnato? Acqua. Era acqua.
«Perché mi stai
chiamando?». La voce di Meimi.
«Reghezzino. Che c’hai? Bevuto troppo? Ma in Gieppone non sei troppo piccolo per bere?». Auricchio?
Spalancò gli
occhi. «Ma…ma… che
diavolo?».
Era riverso a
terra, in quel corridoio ricoperto da velluto rosso. Meimi,
in ginocchio a terra, teneva in mano un bicchiere di vetro ormai vuoto ma
ancora gocciolante. Auricchio era riverso su di lui:
il palmo aperto del commissario e il dolore che sentiva alle guance gli fecero
capire di essere stato schiaffeggiato fino a pochi istanti prima. Per
svegliarlo o perché semplicemente gli stava antipatico?
«Mi hai fatto
preoccupare!!!» lo ammonì Meimi, decisamente
infuriata. «Che diavolo ti è successo?». Asuka la
vide accaldata. Forse gli importava qualcosa di lui. “Grazie Dio. Sta bene.”
«Perché mi chiamavi?» aggiunse.
«Niente, ho fatto
un brutto incubo», rispose, senza nemmeno pensarci.
«Cosa vorresti
insinuare?» urlò Meimi, irata. “Dannazione”, Asuka tremò, “ecco la figura da cioccolatino”.
«Niente, niente.
Non eri tu l’incubo», si incupì il giovane detective, «anzi, tutt’altro».
L’espressione seria, seppur addolcita da un tiepido sorriso e dagli occhi
umidi, colpirono la ragazza.
«Va bene, Asuka», le sorrise. “Non si è arrabbiata…”.
Asuka ne rimase profondamente colpito. “Se fossimo
stati in classe… non mi avrebbe parlato per anni…”. Ma nel profondo del suo sguardo lesse una
comprensione e un’empatia smisurata. “È cambiato qualcosa?”. Meimi non sapeva nulla di Saint Tail,
della Belva, della paura che quella sera stava provocando in tutti, ma aveva
intuito l’onestà profonda di Asuka. Lo sguardo
infuocato di Auricchio lo fulminò. “Che diemine ti è preso, reghezzino!”, pareva dire, “guerda che se crolli per così poco non potrai mai essere un
detective”. Forse Auricchio non sapeva dei dilemmi
interiori di quelli di Asuka[1],
ma stava di fatto che il giovane era crollato.
Aveva sempre e
solo affrontato una ladra ragazzina cortese, incapace di fare del male a
qualcuno, e che agiva solo per raddrizzare i torti e trasformare le lacrime in
sorrisi. Il male vero lo spaventava. Al punto di farlo crollare. Al punto di
farlo sprofondare negli incubi più neri. Si vergognava come un ladro per quella
debolezza. La sua debolezza. Ma aveva una missione. Più forte di tutti i suoi
limiti. Difendere quell’angelo.
“È successo veramente,
però”, rabbrividì Asuka, che comprese l’origine del
suo sogno, “Agosto di tre anni fa. Gioielleria di Monaco di Baviera”. Lo aveva
letto nel pc del padre. Un atto di spregiudicata
crudeltà che gli aveva dato il voltastomaco, un po’ diverso però da come lo
aveva riprodotto – e ingigantito – nel suo sogno. Fracchia
infatti quella volta non aveva addosso degli esplosivi, e, a differenza del suo
incubo, il povero cioccolataio non era morto: erano morti tutti gli altri,
però, freddati da alcuni precisi colpi di pistola dai pali della Belva. I
complici del feroce criminale, presenti nel negozio, avevano in pochi minuti
eliminato tutti gli ospiti, avventori e agenti della polizia, che avevano osato
mettere le loro mani addosso al povero Fracchia, dopo
che quest’ultimo aveva gridato, come da istruzioni, «Questa è una rapina».
«Sto meglio»,
mentì rialzandosi.
«Sicuro?», Meimi lo afferrò per un braccio. I capelli della ragazza
toccarono la spalla di Asuka. Sentì il cuore
sussultargli. Nuovamente.
«Sì. Andiamo, è
tardi». L’orologio parlava chiaro. La cena ufficiale era iniziata da quattro
minuti esatti.
Auricchio
sibilò all’orecchio del giovane detective: «Mi reccomendo.
In sela ci sei te. Quendo
arriva la Belva, o il Frecchia per lui, è
indifferente, te non fere chezzete. Stettene buono e lescia che si
prenda il quedro. Poi lo becchiemo
noi col GPS e lo inculiemo».
Asuka
annuì. Il commissario si congedò: «Io vedo».
«Vedo che vede»
replicò Asuka, che già per la magia della fan fiction
comprendeva l’italiano ma non tutte le flessioni dialettali.
«Che chezzo hai chepito? Vedo. Torno…» tossì, «dentro. Dentro». Asuka
gli lanciò un’occhiata che mescolava la sorpresa con un pizzico di delusione.
«Non fetechezzete», mentre
camminava all’indietro verso la sala “Arte femminile lappone degli anni ’60 del
secolo diciannovesimo”. Urtò l’ennesimo vaso in cima ad un piedistallo e solo
Dio sa come fece, con un guizzo acrobatico, a pescarlo al volo prima che
cadesse. I due ragazzi non riuscirono a trattenere una timida risata, mentre,
proteso in avanti, Auricchio teneva il vaso con il
braccio destro teso come un tuffatore mentre la cravatta gli avvolgeva il collo
come una sciarpa. «Non fete gli stronzi», intimò
sommessamente, prima di rimettere il vaso al suo posto e tornarsene nella “sua”
saletta.
«Tanta polizia,
eh, Asuka?» chiese sorridendo Meimi.
«tutti qui per Saint Tail?». Asuka
arrossì. «Ehm… sì». Non arrossì perché stava
mentendo. Arrossì perché si sentì sporco nel sentir parlare di Saint Tail proprio di fronte a Meimi.
Da parte di Meimi. Il cuore lacerato in due metà. Ma
vivissimo in entrambe.
Rimasero in
silenzio percorrendo quei pochi metri che li separavano dalla sala principale.
Nel corso dell’incubo così vivido, così reale, il suo inconscio gli aveva
suggerito alcune preziose indicazioni. “Mi devo sedere vicino a lei. Qualunque
cosa accada.” Lo avrebbe desiderato forse anche in una situazione normale? “Sì,
vestita così sì”. Ma non era il vestito che la rendeva straordinaria. Anzi, non
c’era effettivamente nulla che la rendeva diversa da quello che era realmente.
Certo, il vestito rosa svolazzante ne esaltava la femminilità, ma erano i suoi
occhi, il suo profumo, la sua presenza a colpirlo. Anzi, a tramortirlo. Che
c’era di diverso? “La scuola!”, pensò, “la maledetta scuola”. Gli sguardi dei
compagni, le regole del “branco”. L’orgoglio del non essere il primo a cedere.
Tutta roba da buttare nella spazzatura. Camminando le loro mani si sfiorarono.
L’ennesimo veloce batticuore confermò quella sua intuizione.
Di fronte ai loro
occhi la sala principale. Tovaglie bianche, camerieri in livrea, posate di
lusso. Il quadro di Osvaldo Paniccia dominava la
scena. Gli ospiti erano già quasi tutti seduti, ma i tavoli erano molto più
piccoli e “intimi” di quelli che la mente di Asuka si
era immaginato poco prima, nel corso di quel suo terribile incubo da svenuto.
Il tavolo della Contessa e delle autorità era però ancora deserto: solo il
vecchio Vescovo se ne stava seduto, a pochi metri dal quadro di Osvaldo Paniccia, intento a mandare sms con il suo iPhone.
«Dove ci
sediamo?». Anche Meimi usò il plurale. Asuka adocchiò il posto ideale, al termine di un tavolo da
quindici persone, dal quale avrebbe potuto tener d’occhio facilmente tutte le
entrate, il quadro, e gli ospiti più illustri. Ma non era quella la sua
missione, quella sera.
«I miei sono lì»,
osservò la ragazza. Genichiro ed EimiHaneoka li salutarono con la mano da distante.
Superarono i camerieri, le signore impellicciate e gli uomini con la cravatta
buona.
«Sono desolato Meimi», si scusò Genichiro, suo
padre. «Ma èarrivato un signore che si
è preso il posto che avevamo riservato per te…». Una
delle tre iene senz’anima, a un metro da loro, si stava già abbuffando di pane.
Genichiro era desolato, ma sorrideva. Sua madre
confermò: «Tuo padre è gentile con tutti», il suo sorriso si tramutò in uno
sguardo severo, «anche troppo. E ci va di mezzo sua figlia». Oltre alla bestia
senz’anima sedevano a quel tavolo alcuni rimasugli del periodo Tokugawa, tra i quali KaoriMasamune, esilissima centoquarantaquatrenne,
vedova di un TozamaDaimyo,
imparentata con la famiglia imperiale nonché balia all’epoca del piccolo futuro
Hirohito, che sonnecchiava a bordo della sua sedia a
rotelle.
«Nessun
problema», sorrise Meimi. «Chiederemo aiuto al
cameriere». “Di nuovo, anche lei, il plurale”, notò Asuka,
la cui attenzione da detective non erano ancora stata del tutto azzerata.
«Cameriere!», la
anticipò Asuka, chiamando un giovane ragazzo
giapponese vestito come un damerino.
«I vostri
camerieri questa sera saranno altri», disse cupamente, mentre si avvicinava
verso di loro, il damerino nipponico. «Posso però esservi utile?».
«Sì», confermò il
ragazzo, «siamo in due. Dove possiamo sederci?». Era così focalizzato nel suo
obbiettivo da non notare il volto, paonazzo per l’ennesima volta, di Meimi. Troppi plurali così scontati, così naturali, così
dolci.
«Beh…» rimuginò annoiato il pomposo cameriere, «ci sono
ancora quattro posti in quel tavolo lì», disse, indicando un tavolo pieno zeppo
di imprenditori italiani con le loro ricche e viziate consorti. «Oppure…» aggiunse, guardando l’orologio – il suo turno
stava per finire, «ci sarebbe quel tavolino da due lì». Lo vide: classico
tavolo rotondo, due piatti ancora vuoti, un vaso di camelie al centro. C’era
persino un candeliere con tre fiamme accese. E la luna, che faceva capolino
dall’ampio lucernario in vetro, sopra le loro teste, sembrava sorriderci sopra.
«Quello lì», quasi urlò Asuka. «È perfetto». Meimi raramente lo vedeva così deciso. Solo quando si
metteva sulle tracce di Saint Tail, forse.
«Vi faccio
strada». Si limitò a dire il cameriere. Li fece accomodare e poi si congedò in
fretta. Quasi stesse scappando da qualcuno.
Asuka
e Meimi si ritrovarono vis a vis. Il giovane
detective era soddisfatto: la visuale era perfetta. Di fronte a sé Meimi, le entrate, il tavolo delle autorità, Meimi, il quadro di Paniccia, Meimi, la finestra, Meimi, i vasi
Ming, Meimi, il corridoio, la porta, Meimi, Meimi, Meimi.
C’era solo lei nella sua testa. Le fiammelle delle candele le illuminavano gli
occhi. Quegli occhi che aveva visto spegnersi in quel suo incubo. Spegnersi e
sorridergli. Di nuovo quel brivido allo sterno. Strinse il pugno. “No”, ordinò
a sé stesso, “sarò forte”. Doveva farlo per quel viso. Doveva esserci. Per lei.
Rumori dal fondo
della sala. Si alzò il brusio. Qualche gridolino. «Vadino,
vadino. Se ne eschino». Una
voce maschile puntigliosa, pomposa e sgradevole. «Vadino,
ora toccherà agli chef e ai gran gourmet che la Contessa ha portato
dall’Italia. Vadino, se ne eschino
dalle palle». Asuka si girò verso l’origine di quel
frastuono. Un omino era entrato in sala. Magrolino, non molto alto, era
riconoscibilissimo per un paio di occhiali spessi tre centimetri, che
distorcevano l’immagine degli occhi in un due macchie indistinte. Un pomposo
vestito da cerimonia lapalissianamente rubato a un
figurante del Carnevale di Viareggio o un attore di un film live action su Lady Oscar lo faceva apparire ancor più goffo e
sgraziato. Vagava, con la bocca spalancata perennemente in un sorriso, occhi
(meglio, occhiali) protesi verso l’alto.
«È quel maledetto
Filini», sbraitò sottovoce un italiano dal tavolo dietro di loro, «è diventato
il braccio destro della Contessa e si crede chissà chi».
Con finta
cortesia e un vistoso sorriso l’omino stava cacciando a pedate il damerino
nipponico che aveva appena fatto accomodare Meimi ed Asuka. Asuka non comprese il
perché di quella fretta. “Se ne stava andando per conto suo” borbottò dentro di
sé.
«Fuori dalle
palle!» urlò felice. Come se stesse urlando «Viva gli sposi!» alzando un calice
di vino bianco.
«Chissà chi ci
porta la Silvana…» udì Asuka
dal solito tavolo di italiani alle sue spalle. Si girò. Una specie di
funzionario dell’ambasciata italiana a Tokyo stava parlottando con dei suoi
connazionali dandosi delle vistose pacche sulla fronte. «Che figura di merda
che ci facciamo stasera…» quasi proruppe in un pianto
sconsolato.
«Se ne sono
cavati tutti dalle palle?» domandò, di fronte al tavolo delle autorità, sotto
il quadro di Paniccia. Dietro a lui, solo il vecchio
Vescovo, che, imperterrito, continuava a spedire sms, o a rileggersi il vespro
su iBreviary[2].
«Bene!» confermò
a se stesso. «Carissime madame, gentilissimi signori, si alzino in piedi per
dare la giusta accoglienza alla nostra generosa ospite di questa sera». Meimi si alzò e si girò verso il signor Filini, del quale
ignorava, come tutti, il titolo di ragioniere. Asuka
prese esempio dalla ragazza.
«Ecco a voi»,
continuò pomposo, «l’illustrissima e nobilissima Silvana Contessa Silvani SerbelloniMazzantiViendalmare!!!». Una luce illuminò il fondo della sala. La
star del galà, che rideva sguaiatamente, fece il suo ingresso trionfale.
-
Un grazie ai recensori, passati e
futuri, sul sito di EFP e un grande grazie ai recensori “orali”. La più bella
recensione me l’ha fatta una carissima amica, sul capitolo 10 “Meimi”. «Sei riuscito a trasmettere una così grande
sensibilità d’animo che pareva scritto da una ragazza». E io che pensavo di non
conoscere l’universo femminile! Scherzi a parte, grazie di cuore, siete
preziosissimi in tutto e per tutto.
Chiedo ai gentili lettori, comunque,
di lasciarmi una breve recensione, bastano due parole, per capire se la fiction
aggrada o non aggrada.
A presto!
Un’anticipazione: se siete fan dell’epopea
creata da Paolo Villaggio, non potrete perdervi il prossimo capitolo per
nessuna ragione al mondo…
C’è chi le chiama
“arrivate”. Chi “parvenu”. Chi “arrampicatrici sociali”. Giudizi di chi difende
ciecamente le fortune accumulate senza meriti o di chi non ha avuto né il
coraggio né la capacità di raccoglierne altrettante.
Eppure, la
Contessa era in tutto e per tutto un’”arrivata”. Una “parvenu”. E forse, era
anche un’arrampicatrice sociale. Ma se qualcuno avesse trovato il coraggio di
sfidare apertamente le sue sette ville, i suoi milioni in banca, le sue vaste
partecipazioni azionarie e dirglielo in faccia, se qualche nobile gli avesse
gridato il suo disgusto vis a vis, se qualche giornalista prevenuto gli avesse
fatto le solite domande volgarotte e antipatiche, la
Contessa gli avrebbe dato pan per focaccia. Decisamente.
Dopo il
baroccheggiante annuncio di Filini, bardato con quel suo vestitone
settecentesco rubato dalla bara di chissà quale nobile in chissà quale sacrario
della Francia meridionale, la Contessa fece il suo ingresso nel salone
principale del Minato Art Museum.
Il volto
ricoperto da profonde rughe, solcate non dagli anni ma dall’uso smodato di
trucchi chimici, tossici e cancerogeni. I capelli alla Marge
Simpson, tinti con una spenta sfumatura di rosso. Un naso prominente che
spiccava nel bel mezzo di un viso ossuto da strega delle favole.
Avanzava come una
pin up stagionata, una Silvana Pampanini scheletrica,
avvolta in uno strettissimo abito vermiglio che non lasciava spazio alla
fantasia, dal quale emergeva con violenza un seno vistosamente rifatto. Quell’abito,
su Jessica Rabbit, avrebbe fatto la sua porca figura,
così, invece, sembrava più una figura porca[1]. Gli
artisti, i politici, gli sportivi e le autorità della cittadina giapponese la
guardarono fissi con i loro occhi a mandorla. Fermi, senza proferire alcun
commento. La controparte italica, già abituata a quell’insolito spettacolo,
salutò la Contessa con inchini, riverenze e saluti servili.
La Contessa
Silvani SerbelloniMazzantiViendalmare mostrò di gradire quegli atti di
sottomissione. Quelle pubbliche riverenze che la rendevano speciale, ben al di
sopra della massa degli inferiori e delle merdacce.
Perché la
Contessa Silvani SerbelloniMazzantiViendalmare era la Contessa Silvani SerbelloniMazzantiViendalmare solo da pochissimi anni. Perché la Contessa
Silvani SerbelloniMazzantiViendalmare, fino a pochi anni prima, era una
merdaccia come tutte le altre, forse peggio delle altre. Perché la Contessa
Silvani SerbelloniMazzantiViendalmare, non più di trenta mesi prima, era solo
la ragioniera Silvana signorina Silvani, zitellona impiegata nell’Ufficio
Sinistri della Megaditta, che si vantava solamente di essere stata eletta dai
colleghi Miss 4° piano per due volte consecutive.[2]
Se insomma
qualcuno avesse osato accusarla di essere un’arrampicatrice sociale, la
Contessa, mescolando un contraffatto accento francese/nobiliare con la sua
inconfondibile parlata romanesca, avrebbe notato: «E Cenerentola, che era?». In
effetti, tutti avevano perdonato le principesse della Disney per aver rinunciato
allo status di proletarie fuggendo in compagnia del principe azzurro. Perché
non perdonavano lei per aver sposato sul letto di morte l’anziano vedovo Conte SerbelloniMazzantiViendalmare, senza figli e senza speranze?
Forse, tutti si
accorgevano della drammatica differenza tra la mora/rossiccia ex-impiegata e la
sofisticata e bionda vecchia Contessa, mancata tragicamente qualche anno prima.
Il triste complesso Diana/Camilla della corona inglese applicato alla nobiltà
della finanza italiana. Perché la vecchia Contessa era una donna di classe[3],
che si circondava del meglio ma esigeva il meglio da parte di tutti,
dall’ultimo dei giardinieri ad Amedeo d’Aosta, quando si trovavano sotto il suo
tetto. Una distinta signora che possedeva il 33% delle azioni della Megaditta, destinava
qualche migliaia di euro al mese per i «negretti e i disgraziati» (sue testuali
parole) e non si perdeva un’inaugurazione, un taglio di un nastro, un varo di
una nave.
Proprio lì,
secondo alcuni giornalistuncoli da strapazzo, avrebbe
firmato la sua condanna a morte. Uno scribacchino, un certo Marco Travalico[4],
aveva persino ricostruito la vicenda in una sbrodolante articolessa
di sei colonne.
La Contessa era
stata trovata morta nella cattedrale. Causa del decesso un forte trauma cranico,
provocato dal colpo di un vaso di piante ornamentali. Un delitto terribile, in
quanto alla Contessa, mentre era ancora in vita, confermò l’autopsia, erano
state tagliate con un’accetta tutte le falangi, parti del corpo che nessuno
avrebbe mai più ritrovato.
Qualcuno, in
particolare il cronista giudiziario, vi lessero analogie con l’incidente di
pochi mesi prima[5].
Anche la scena del delitto indicava il possibile responsabile.
“CRIMINI
VATICANI: PROVE INCHIODANO ARCIVESCOVO PER L’ASSASSINIO DELLA CONTESSA
SERBELLONI MAZZANTI VIENDALMARE”, aveva titolato il suo quotidiano, noto per
non voler ricevere finanziamenti pubblici. Un titolo ad effetto che innescò una
bufera mediatica durata solo per alcuni giorni, poi tutti se ne scordarono.
Nessuno poteva immaginarsi un delitto così efferato per mano di un arcivescovo.
E poi di prove, contrariamente a quanto aveva scritto il giornalista d’assalto,
proprio non ce n’erano.
In
effetti, però, da quel giorno, quel particolare arcivescovo alto e che
prediligeva le vesti antiche, aveva iniziato a mostrare un ghigno di feroce
soddisfazione, come Torquemada al tiepiduccio
per un fuocherello di eretici. Ma per tutti, dal più influente dei curiali
all’ultimo dei fedeli, si trattava solo di una spregevole speculazione.
Fatto
sta che il novantatrenne Conte SerbelloniMazzantiViendalmare,
azionista di spicco della Megaditta, uno degli ultimi proprietari di navi
negriere ancora in attività, finanziatore di dittatori sudamericani e Grande
Ispettore Inquisitore Commendatore della famigerata loggia massonica P2, si era
ritrovato da solo. O meglio, poteva ancora contare su un vasto giro di troioni da sbarco. Ma donnini
come Moira la tigre del ribaltabile[6] o
la sempiterna Giovannona[7]
non potevano venir presentate al circolo del bridge.
Fu
così che i suoi occhi caddero sulla procace Signorina Silvani, ragioniera
geometra dell’Ufficio Sinistri che, come il dottor Jekyll
e mrHide, alternava momenti
di squisita femminilità nobiliare ad episodi di burinismo
estremo. Una donna stranissima ma affascinante, che nei giorni di ferie era
capace di visitare una mostra dei macchiaioli toscani la mattina e di chiudersi
in una bisca a fumare e a bestemmiare il pomeriggio in compagnia di Arnaldo
detto “Er pantera” e Checco “Er pagnottaro”.
Il
vecchio Conte se ne innamorò, anzi, ne rimase folgorato, e iniziò a
corteggiarla selvaggiamente. Prima con bigliettini, poi con regalini via via più costosi, dal piccolo anellino col diamante
all’intitolazione a suo nome di un’Isola del Pacifico. C’è da dire che la
signorina Silvani finse solo giusto qualche resistenza, per non dare l’immagine
di sé come di una “preda facile”, per non rovinare insomma anche al vecchio Conte
il gusto della conquista galante. Ma in cuor suo la ragioniera geometra
dell’Ufficio Sinistri accolse la notizia come un 6 al superenalotto. Anzi, come
se di 6 al superenalotto ne avesse fatti trecento. Quello più o meno l’impero
economico di cui si stava parlando. Altro che le merdacce che la corteggiavano
da una vita dentro quel tetro reparto della Megaditta[8].
«Silvana,
vuoi sposarmi?» le chiese un giorno, a bordo di un megayacht sul lago di Como
così grosso che, non potendo passare per i piccoli affluenti del lago, era
stato elitrasportato da quattro mega elicotteri dell’esercito americano.
“Famose
ingroppà da sta mummia”, pensò leggermente schifata
ma immensamente felice. In realtà esitò qualche secondo, fingendo una timidezza
più consona alla protagonista quattordicenne puccettosa
di un manga shojo che a una cinquantenne
scommettitrice sui cavalli nelle bettole più sporche e luride della capitale.
Poiesclamò: «Sì, amore!».
Non
era bella, ma poteva piacere. Esistono ragazze/donne/anziane di questo tipo, le
conosciamo tutti. Oggettivamente sono brutte. Hanno dei difetti troppo evidenti,
sono troppo magre o troppo grasse, hanno un naso troppo grande, una fronte
troppo spaziosa, dei capelli troppo stopposi o dei dentro troppo storti perché
possiate, all’interno di una compagnia maschile, dire impunemente: «Quella è
proprio bella» senza scatenare polemiche asperrime in grado di rovinare le
amicizie. Il 99% degli uomini non si avvicinerebbe a queste signore nemmeno se
fossero le ultime donne rimaste sulla faccia della terra, nemmeno sotto
tortura.
Eppure,
queste bruttone oggettive non sono mai condannate a
un’esistenza solitaria, tutt’altro. Infatti, se il 99% del mondo maschile
volterà loro le spalle non tanto nel senso metaforico, ma proprio nel senso
fisico per non vedersele di fronte e rivedere la cena del giorno prima per
terra, ci saranno sempre e comunque alcuni disperati che vedranno in loro non
delle belle ragazze/donne/vecchiarde, ma le loro ragioni di vita.
I
seni cadenti diventeranno nella loro mente malata un petto prosperoso e
materno, il loro alito fognante un olezzo di fiori, i loro capelli stopposi una
chioma rifulgente di luce. Non parlate di altre donne a questi eterni perdenti,
non vi staranno ad ascoltare: la loro è una malattia mentale gravissima,
incurabile. È l’amore.
E
fu proprio questa malattia a portare alla morte il povero vecchio conte SerbelloniMazzantiViendalmare, 92 anni, senza figli e senza speranze. Quel
“sì” sul lago di Como gli risultò fatale. Un coccolone decise di portarselo via.
A quel punto la signorina Silvana Silvani temette seriamente di rimanere tale
per tutto il resto della sua vita da zitellona impenitente.
Costrinse
dunque il cappellano dell’ospedale Sant’Anna di Como a maritarli lì, sul letto
di morte del Conte.
«Ma
perché il matrimonio sia valido a tutti gli effetti», commentò un anziano
avvocato, ricoverato nel letto a fianco per un’angina pectoris, «deve essere
consumato!». La signorina Silvani si diede un manrovescio in fronte, un facepalm epico per la delusione. Il vecchio prete fece
cadere a terra il benedizionale, il Conte sul letto di morte invece annuiva
estatico, con un sorriso a 72 denti.
“E
famolo morì contento”, si sacrificò la nuova
Contessa, alzando gli occhi al cielo.
La
camera ardente fu qualcosa di eccezionale: le nobildonne guardarono con
disprezzo l’ex impiegata assurta a un ruolo di alta nobilità,
i nobiluomini invece rimanevano più a lungo a fissare il volto felice e soddisfatto
del fu Conte Serbelloni, come quello di un bambino
addormentato a cui la mamma ha appena rimboccato le coperte. In effetti, dati
gli ingenti quantitativi di Viagra ingeriti dall’uomo prima di spirare, gli
addetti della lussuosa impresa funebre ebbero qualche difficoltà a chiudere la
bara e permettere al Conte di gustarsi il meritato eterno riposo.
Fatto
sta che da un giorno all’altro la signorina Silvani si ritrovò ad essere la
Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare. Il suo incontro con l’esecutore
testamentario del marito fu un susseguirsi di “Mecojoni”
e “Limortacci”. Nemmeno nei suoi sogni più spinti si
era mai immaginata di ritrovarsi ad essere la donna più ricca d’Europa. Ma così
era avvenuto. Così la sorte aveva decretato.
Dopo
alcuni giorni di paradiso, si accorse del clima torbido vicino a lei:
maggiordomi compassati, i manager dei vertici societari, persino le cameriere
della megavilla la guardavano come una ladra. Non poteva non notare quegli
sguardi di riprovazione e persino di manifesto disprezzo quando le servivano la
cena, le riassumevano a fine giornata l’andamento delle sue azioni o le
portavano il tè delle cinque.
La
Silvana proletaria che ruggiva dentro di lei, la fiera popolana che aveva
trasformato il suo assenteismo cronico in lotta di classe, tornò a galla,
giorno dopo giorno. Quel 14 aprile entrò nella storia: persino il Sole 24 ore
ne parlò, con un caldo editoriale del direttore Roberto Napoletano. Un
repulisti, una vera e propria epurazione che vide eliminati nel corso di una
notte molti dei vertici della Megaditta ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica,
tutti i membri dei CDA delle controllate Serbelloni e
tutto il personale impiegato nelle sette ville di famiglia.
L’unica
testa a salvarsi fu quella del
Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam, potente
come il Re Sole e feroce come un drago rosso di Dungeon and Dragons.
Del resto, non era lui l’obbiettivo della vendetta della Silvani: anzi, il
feroce nobile, che sedeva su una poltrona in pelle umana sollazzandosi di
fronte all’acquario degli impiegati estratti a sorte, godette della perfidia
della parvenu, anzi, se ne rallegrò e la incoraggiò. “Una degna erede”,
commentò estatico ascoltando la drammatica diretta su Radio24, con un Oscar
Giannino spaventato e teso come un inviato della FOX in Iraq nel 2003.
Caddero
il Professor Guidobaldo Maria Riccardelli
e la sua cineteca d’eccezione, il Megadirettore Ereditario Visconte Cobram e le sue biciclette, persino il Direttore Onorevole
Cavaliere Conte Diego Catellani e la sue stecche di
biliardo.
Al
loro posto una nuova generazione di merdacce, profumate e rivestite, assumeva
le posizioni di comando, con titoli nobiliari vistosamente fasulli, cavalierati
di ordini medioevali ormai decaduti, pronti a sottomettere ad uguali torture
una nuova generazione di inferiori e sottoposti. Li scelse, forse con un
anelito di cameratismo, proprio tra coloro che nell’Ufficio Sinistri avevano
condiviso con lei per anni angherie, torture, proiezioni di film in
cecoslovacco e olimpiadi aziendali.
Il
geometra Luca Calboni, col titolo di Marchese Eroe
dei Due Mondi Fil. De. But. Gran Visir si ritrovò a
controllare la divisione attività illegali della Megaditta: l’ufficio Sinistri,
l’ufficio Raccomandazioni e Bustarelle, l’ufficio Ricatti e l’ufficio Impiegati
Smarriti. Il ragionierFonelli
fu assurto al ruolo di Megadirettore generale dell’ufficio neocolonialismo e
schiavitù, dell’ufficio traffici di droga e del reparto tratta delle bianche.
Il ragionier geometra Renzo Silvio Arturo Filini, già
tragico organizzatore delle gite aziendali, arbitro delle sanguinolente Scapoli
– Ammogliati che così tante vedove e orfani producevano ogni anno, venne scelto
dalla neo Contessa come maggiordomo, primo consigliere e tuttofare. Un ruolo
che ricoprì con orgoglio: predisponeva meeting con pontefici e teste coronate
con la stessa nonchalance con la quale prenotava un pullman da trenta posti per
portare i colleghi alla fiera della salsiccia il sabato sera. Anche il povero
Fantozzi ebbe il suo riscatto: capo-cameriera della Megavilla, con vestito maiden d’ordinanza dei peggiori anime fan service mai
realizzati dai più pervertiti mangaka nipponici.
Dopo
però una buona azione – o almeno, aver sconvolto gli scenari di ciò che
rappresentava il 3% del PIL italiano per una stupida ripicca la percepiva una
buona azione – si sentì in credito con la sua coscienza. Un credito enorme, che
la rendeva tranquilla nello soddisfare tutti i suoi vizi.
Partì
con le cose legali, di quelle cose che si perdonano ai più abbienti perché così
“gira l’economia” e “aumentata il gettito fiscale”, grazie alle forti tasse sul
lusso imposte dai governi con l’acqua alla gola: cavalli veloci, auto di lusso,
gioielli, yacht e gigolò africani. E l’arte. Già, l’arte. Assieme ai cavalli la
sua vera passione. Solo che i cavalli poteva comprarli, l’arte, però, non
sempre.
Nelle
segrete della sua Villa di Portofino, in pochi mesi, aveva allestito un vero e
proprio museo, uno di quelli che se avesse voluto avrebbe potuto aprire al
pubblico, chiedere un biglietto e guadagnarci persino sopra. Ma quella era la
sua collezione privata, una collezione sterminata, una collezione – il suo
regno – che aveva tutta intenzione di
espandere. Con ogni mezzo.
Dopo
le prime aste, le prime offerte d’acquisto a qualche museo prestigioso, i primi
ricatti, le prime minacce, iniziò la sua carriera di committente. Non però una
committente come lo furono i Papi del rinascimento, in grado di ricoprire Roma
di tesori ineguagliabili, ma una committente di furti d’arte. Il suo appoggio
principale: la Belva Umana.
Un
feroce ladro di cui aveva tanto sentito parlare ma che non aveva mai visto di
persona: era Filini che curava i rapporti con lui. «Com’è questa Belva?» aveva
domandato una volta al suo tuttofare. «Assomiglia vagamente a Fantozzi. Più
giovane, più magro». «A chi? Alla merdaccia?» osservò schifata la Contessa.
«Strano eh?» commentò a bocca aperta il solito Filini. La Belva era puntuale,
precisa, pulita. Spargeva sangue solo se necessario. Un unico intoppo però
all’ultimo furto, pochi mesi prima. Quello del Paniccia
originale[9].
«Chiede
20 pippi[10]
in più per il piccolo problemino incontrato durante il suo lavoretto», informò
la Contessa un imbarazzatissimo Filini.
«Esticazzi? Lo paghiamo già abbastanza…»
la sua smisurata ricchezza non l’aveva resa una scialacquatrice. I soldi a sua
disposizione erano tantissimi, ma non aveva intenzione di gettarli al vento.
«Gli
dii quei soldi o ci mettiamo nei casini», la implorò
Filini.
«20
pippi? Mecojoni». La
replica della Contessa.
In
Giappone però non aveva badato a spese. Nonostante un incidente, anni prima, in
un ristorante nipponico[11],
amava la cultura del Sol Levante. E ci teneva a fare bella figura: ecco perché
le auto, ecco perché gli autisti, ecco perché il galà.
Arrivò
al suo posto, accompagnata da Filini. Alla sua destra il ragioniere, alla sua
sinistra il signor sindaco. Rimase in piedi e si rivolse agli invitati:
«Carissimi amici», pronunciò a bocca aperta, con un esagerato accento
nobiliare, «sono estasiata di avervi tutto qui, al Mirato art museum…». «Minato», suggerì Filini sottovoce. «Minato,
Mirato, stessa cosa…» si adirò leggermente la
Contessa, che tossì. Anzi, scatarrò.
«Ecco… Siamo qui insieme per ammirare questo fantastico
quadro del compianto artista italiano Osvaldo Paniccia!»
declamò sorridendo l’ex signorina Silvani.
«Veramente
è ancora vivo», suggerì sottovoce un serio Filini. La Contessa si girò verso di
lui, e commentò sottovoce. «Cioè quando schiatta vale de più?» domandò seria. «Uuuuuhhh», agitò il braccio in segno di soddisfazione
Filini. «Mazza aho…» commentò ridendo. Le compunte
autorità giapponesi li guardarono stupiti, tranne la vecchia KaoriMasamune, nobile 144enne imparentata
con la famiglia imperiale, che russava beatamente a bordo della sua sedia a
rotelle. Qualcuno, tra i più conosciuti, arrivò a pensare si trattasse di uno
scherzo, e iniziò a scrutare la stanza per cercarvi delle telecamere. Anche in
Giappone, infatti, esiste il format di Scherzi a Parte.
«Dunque,
cioè…», la Contessa non sapeva più che dire, «… ah sì… per magna’… Ho pensato», tornò a declamare e scandire
le parole con il suo accento pseudo nobiliare, «a dei bravissimi quanto
simpatici chef di un pittoresco locale romano». Brusii e sguardi allarmati tra
gli invitati. Quel “pittoresco” mise in allarme moltissimi, soprattutto della
delegazione italiana. «Prego!!!», urlò allegra, «le pietanze!!!».
Meimi
e Asuka jr si scambiarono un’occhiata di
preoccupazione. Poi si voltarono verso le porte delle cucine, allestite per
l’occasione in una saletta attigua. Alcuni omazzi in
canottiera e braghette bianche unte trascinavano stancamente un carrello cigolante
con due pentoloni. Uno di loro aveva addirittura una sigaretta in bocca. Meimi spalancò gli occhi, cercando lo sguardo di Asuka, troppo scandalizzato e sorpreso perché questo
potesse ricambiarlo.
Un
omino aveva portato una pianola portatile al centro della stanza, seguito da un
altro, vistosamente obeso e anziano, con una maglietta blu sudaticcia e i peli
del petto che gli spuntavano ispidi dal collo a V, con in mano una chitarra. Si
diedero un’occhiata complice e cominciarono a pigiare tasti e strimpellare.
La
cena con Sergio e Bruno era appena iniziata.
-
Avete appena letto il capitolo 21.
Con la narrazione sono al capitolo 28/29. Verso il fine settimana aggiungerò il
numero 22, dedicato a Sergio e Bruno, due colonne portanti di questa fiction.
Se questa fic
via piace, condividetela con i vostri contatti ma soprattutto lasciate un
feedback, anche breve, anche solo una parola. Ammetto però – lo so, mi sto
ripetendo – che questo esercizio serve prima di tutto a me, per riscoprire una
capacità che pensavo di non avere più.
Certo che un “mi piace” o un “mi fa
schifo” in più mi aiuterebbero a capire un po’ meglio.
-
Vi propongo un giochino:
Provate ad immaginare gli sviluppi
della storia. Chi vi si avvicinerà di più vincerà un “brofist™”[12] o una “fetta di torta”
virtuale a seconda del suo genere d’appartenenza.
Buona vita!
[1]
L’italiano regionale del Nord-Est contiene questa locuzione.
[8]
Stiamo parlando ovviamente del geometra Calboni e la
sempiterna merdaccia Ugo ragionier Fantozzi
[9]
Suor Seira ce l’aveva già raccontato. Per sottrarre
l’Osvaldo Paniccia la Belva aveva freddato due
guardie giurate Un uomo di sessant’anni e un ragazzo di ventidue.
[10]
Milioni, secondo il gergo di Fantozzi in Paradiso
Se uno vi dice,
di fronte a un bel bicchiere di vino rosso, che l’Italia è il paese più bello
del mondo e che Roma è la capitale del globo per la sua storia, per i massi
caduti dei Fori Imperiali o per i lucidi pavimenti del Pantheon, ebbene, costui
è un imbecille.
E se questo
imbecille cercasse di giustificarsi avanzando argomenti quali la cultura, la
bellezza di Piazza di Spagna, i corazzieri a cavallo, sarebbe ancor più
imbecille.
E se cercasse
ancora di affermare che Roma è la capitale del mondo per la presenza del Papa,
ribaditegli la sua imbecillità, in quanto il Papa è stato un secolo ad Avignone
e di Avignone se ne sono fregati tutti lo stesso.
Ma se il vostro
amico tre volte imbecille vi domandasse, questa volta sconsolato: «Qual è la
capitale del mondo, allora?». Voi dovrete rispondere, senza esitazione, per non
passare per imbecilli anche voi: «Roma».
Perché Roma è sì
la capitale del mondo, ma non lo è per i sassi al suo interno, per le chiese o
per le frotte di politici e impiegati ai ministeri che la popolano. Roma è Roma
per i romani.
Perché i romani
non sono gente qualsiasi. Perché per vivere degnamente in una città eterna come
Roma bisogna essere delle persone altrettanto straordinarie. Per un romano il
sole non sorge ogni mattina per dovere o per una semplice rotazione del cielo.
Il sole sorge per lui: perché se non sorge all’ora stabilita il romano
giustamente si incazza, e persino il sole ha ragione di temerlo.
Il romano è il
dominatore del mondo: persino l’ultimo degli impiegati del catasto o lo
spazzino precario che raccoglie le cicche a Torpignattara
ha nel suo sguardo, riassunti in secoli di storia, l’orgoglio di Cesare, la furbizia
oratoria di Cicerone e quel pizzico di follia e fiodenamignottaggine
di Caligola. Basta guardarli negli occhi. Eccoli lì.
Ma più che per lo
sguardo, il romano lo si riconosce dal cuore. Perché Il romano, anche il più
lurido, ha un cuore grande così. E non voglio mancare di rispetto ai milanesi,
ai torinesi o ai palermitani, ma il cuore di un ragazzo di borgata è così
grosso che dentro ci stanno comodi comodi il fegato
di un devoto alla Madunina, un paio di polmoni
corrosi dallo smog di un operaio di Mirafiori e l’intero sistema digerente di
uno scugnizzo di Brancaccio. È il cuore che permette a un ragazzo di borgata di
affrontare armato solo con un cric un’intera tifoseria avversaria e poi, in
ospedale, lasciare il reparto di ortopedia per far sorridere con barzellette e
canzoni volgarotte i bambini ammalati.
Nel cuore dei
romani ci sta il dito in bocca di Totti, i cd ormai consumati di Rugantino e gli lp di Venditti
che girano per decenni dentro la stessa autoradio, ma soprattutto ci sta la
cucina. Una cucina povera ma verace.
Di fronte a tali
eccellenze, non potete aspettarvi, mangiando a Roma, quelle misere liturgie dei
tristi ristoranti di tutto il mondo.
«Buongiorno
dottore». «Cosa le porto oggi?» «Il menù è di suo gradimento?» «Porto i suoi
rispetti allo chef». «Abbiamo il caviale arrivato oggi, è eccellente». «Le
suggerisco una ratatouille leggerissima con la tapioca».
I camerieri
sciccosi in livrea, dal comportamento marziale, che Asuka
aveva prima ammirato con orgoglio per la loro compostezza, a Roma verrebbero
percossi, giustamente, non per bullismo, ma per il loro bene e per farli rigare
dritto.
A Roma i
camerieri non sono quei servi della gleba di derivazione medievale che servono
il padrone come unica ragione di vita. A Roma i camerieri sono i padroni di
casa: voi siete i mendicanti che osate rompergli le scatole per un piatto di
spaghetti all’amatriciana. E dunque dovete trattarli con rispetto. Il fatto che
alla fine voi paghiate è di secondaria importanza. E se vi sembrano scortesi
perché si rifiutano di pulirvi il bicchiere o di servirvi una pizza con poca
mozzarella nel torto siete voi. Anzi, siete nel torto marcio, perché discutere
con un cameriere nel suo ristorante è alto tradimento, è diserzione. Del resto,
siete stati voi ad entrare nel ristorante. La colpa è vostra.
«A magnete sto’
supplì, ah merdaaa!!!» un omazzo
con una canottiera bianca, capelli lunghi e due sudaticce foreste di peli sotto
le ascelle[1]
prese un arancino con le mani villose dal vassoio e lo spiaccicò con forza sul
piatto della moglie dell’industriale giapponese Mifuni.
La povera settantenne non poté far altro che svenire signorilmente di fronte a
tanta ricercata maleducazione. Un altro cameriere osò addirittura chiamare «Ah gnoccolona!» l’anziana KaoriMasamune, nobile 144enne, che non osò nemmeno replicare.
Forse non aveva nemmeno capito, nel suo sonno misto di coma e demenza senile.
La scena era
spettrale. Gli invitati e gli imbucati al galà del sindaco in onore della
Contessa avevano sfoggiato i loro abiti migliori. I camerieri nipponici avevano
trasformato il salone di un museo in un ristorante a sette stelle. “Cuochi
italiani?” I più ottimisti si misero a pensare agli chef padovani de Le
Calandre[2],
oppure a qualche cuoco belloccio, idolo delle massaie italiche, proveniente da
“La prova del cuoco”. Se gli invitati italiani se lo aspettavano, e
sopportavano di buon grado le “cure” dei camerieri, gli ospiti giapponesi
rimanevano impietriti. Offesi nel profondo. Qualcuno guardò intensamente il
novantenne Kenzo Komaki, altissimo funzionario in
pensione, proveniente da una famiglia di fieri samurai e pluridecorato nella
seconda guerra mondiale, sospettando per un secondo che il vecchio stesse
pensando di impugnare il coltello da bistecca e fare giustizia: ne sarebbe
stato capace. Solo il vecchio vescovo se ne stava appollaiato tranquillamente sulla
sua alta sedia al tavolo delle autorità, gustandosi, forchetta e coltello alla
mano, un pezzettino alla volta, il supplì d’antipasto.
Nessuno era
preparato per uno scenario così drammatico. Perché il ristorante preferito
dalla Contessa, il cui staff era giunto in aereo direttamente da Trastevere,
era proprio “Da Sergio e Bruno – Gli incivili”[3].
Non una banale trattoria romana in cui se domandi un’omelette ti mandano – giustamente
– a cagare. Ma il regno della maleducazione e della cafoneria, portate così
allo stremo da risultare geniali.
I clienti
venivano ripetutamente insultati: «Ah frocio!» ai maschi, «Ah mignottone!!!» alle donne. I camerieri indossavano discinte
canottiere per esaltare gli effluvi delle loro ghiandole sudorifere. I piatti
erano stati ribattezzati con nomi volgari, coprolalici e pornolalici,
dai famosi “Fagioli alla scorreggiona” ai “Saltinculo
alla mignotta”. Stornellatori con chitarre e pianole non lasciavano un attimo
in pace gli avventori. Uno “stile” per cui la Contessa Silvana SerbelloniMazzantiViendalmare andava pazza.
Eppure, Sergio e
Bruno, che avevano fondato il locale una cinquantina d’anni prima, erano
entrambi due ragazzi di borgata. Due ragazzi con un cuore grande così. Perché
per loro un “esticazzi” o un “mettete a sede’, ah strunzone” nei
confronti di un cliente era un atto di profondo rispetto. E se i loro
stornelli, in particolare all’arrivo di clienti dal sesso femminile,
raggiungevano vette di volgarità ineguagliabili, dentro il loro cuore erano
cortesi e gentili. Meglio forse un cameriere che ti insulta direttamente o uno
che ti tratta con i guanti bianchi e magari, in cucina, di nascosto, sputa sul
tuo piatto?
Un dilemma che
non ha una soluzione: proprio per questo molti a Roma non avrebbero potuto
rinunciare a loro. Bruno[4],
in particolare, alternava al suo lavoro un toccante servizio di volontariato
per un’associazione a tutela dei bambini down del suo quartiere. Li caricava
sul suo Ducato e li portava ad Ostia, ai parchi di divertimento, li scorazzava
per i Castelli romani. Voleva a tutti loro un gran bene. «I miei mongole’» li
chiamava con affetto. Ma il giorno che un ragazzino neopatentato, fiero nella
sua Ritmo usata, osò, passando lungo un marciapiede, insultare i suoi ragazzi
con lo stesso appellativo: «A mongole’», Bruno non si fece prendere preda dalla
rabbia. Si incazzò semplicemente come non aveva mai fatto in vita sua. Telefonò
ad alcuni suoi amici dell’Aci che provvidero ad agganciare la Ritmo in corsa
con un loro mezzo di soccorso e a far rottamare il veicolo, col ragazzino in
lacrime ancora dentro, da un gruppo di ultrà della Roma armati di catene. Una
punizione così perfetta che non sfigurerebbe come illustrazione
nell’enciclopedia Treccani. Il ragazzino, infatti, era anche della Lazio.
La Contessa
applaudiva estatica, mentre Sergio, chitarra in mano, canticchiava: «Ma che ce
frega, ma che ce importa, se l’oste ar vino c’ha
messo l’acqua…». Poi iniziò, accompagnato dagli
accordi della chitarra e con voce armoniosa a raccontare quello che avveniva
solitamente in diverse osterie molto simili tra di loro, riconoscibili
attraverso il loro numero. I volti sconvolti delle delegazioni giapponesi e di
molti esponenti della spedizione italiana, che si aspettavano Sergio e Bruno ma
non questi Sergio e Bruno in questa forma così eccezionale, mostrarono che
quello che avveniva di solito in codeste osterie non erano punto belle cose[5].
Qualcuno alzò la testa per pregare, ma in risposta, la faccia della luna piena
dal grande lucernario sembrava rispondere: “E io che ci posso fare?”.
Un cameriere calò
con le mani un grosso supplì dall’aspetto invitante sui piatti di Asuka e Meimi, seduti in un
piccolo tavolo rotondo elegante al margine della sala. Non li guardò neppure
negli occhi. La tovaglia merlata, i fiori profumati e il candeliere d’argento
poco si intonavano con le schiette movenze popolane di Sergio, di Bruno e del
loro staff. «A magnate st’arancino, a cinesino, coso…», disse il cameriere, prima di esplorare con l’indice
una delle sue cavità uditive.
Asuka
lanciò un’occhiata a Meimi, di fronte a lui. La
ragazza non proferiva parola: era una vera e propria statua di sale. Eppure
all’inizio della serata sembrava così solare, così sorridente. Quando però il ragionier Filini aveva deciso di fare il proprio ingresso a
suon di «Se ne eschino dalle balle», evidentemente
qualcosa in lei si era spento. Come la fiamma di una candela sorpresa da una
folata di vento. Per Asuka era stato diverso:
solitamente non avrebbe gradito una così fiera esibizione dell’orgoglio burino,
eppure, la geniale maleducazione dello staff di Sergio e Bruno aveva avuto il
pregio di distogliere la sua mente dalle immagini dei cadaveri tagliuzzati
delle vittime della Belva.
«Un po’ coloriti,
no?» chiese Asuka, mentre si accingeva, nonostante un
pizzico di disgusto, ad incidere con il coltello il suo supplì.
«Un po’», replicò
gelida Meimi. E per gelida intendo che il mercurio
del termometro che ne avesse in quel momento misurato la temperatura corporea
si sarebbe cristallizzato e frammentato in mille pezzi.
Dal fondo della
sala qualcuno evidentemente non ne poteva più. E si trattava di un italiano.
Non una delle tre bestie senz’anima: quelle replicavano tranquillamente agli
insulti dei camerieri con insulti ancor più pesanti, del resto nel letame ci
sguazzavano già beatamente. Si trattava del funzionario della Farnesina,
avvezzo a frequentare la capitale ma fiero dei suoi loden, del suo doppiopetto,
delle sue lauree e dei suoi master all’estero. Un tipo che alla dignità ci
teneva.
«Mi scusi», si
alzò in piedi, dopo che un cameriere aveva leggermente dubitato della sua
virilità urlandogli «Ahhhfrocioooo!!!»
mentre scambiava pareri sui trattati anti-spread con uno dei suoi omologhi
nipponici.
«Non si permetta
mai più di rivolgersi con quel tono nei miei confronti, o nei confronti di
tutte le altre gentildonne e di tutti i gentiluomini presenti in questa
illustre sala». Nel museo piombò il silenzio. Tutti si voltarono verso colui,
che, unico, aveva avuto il coraggio di gridare l’indignazione di tutti. Solo la
contessa, seduta al centro del suo tavolo, rideva sguaiatamente, con
un’espressione degna del miglior Commodo del
Gladiatore. Anche i camerieri si guardarono l’un l’altro.
«Ah frocio», gli
si avvicinò spingendo un cigolante carrello con dentro una grande varietà di
primi il canuto Bruno, «non rumpe’ erca’ e mettete a sede’» e con una manata su una spalla lo adagiò
tranquillamente seduto al suo posto. I camerieri, la contessa, le tre belve
senz’anima e qualche altro figlio di buona donna scoppiarono in una fragorosa
risata.
Meimi
digrignò i denti. “Non doveva andare così questa serata. Non di fronte al mio Asuka”. Una lacrima le rigò il viso. “E ci mancava anche
solo Saint Tail”. La sua serata perfetta era ormai a
rotoli.
-
Da questo capitolo –
forse – qualcuno avrà notato che adoro la capitale e i suoi abitanti.
Tranquilli: amo tutta l’Italia in egual misura. Ma Roma è Roma.
“Schiavi di Roma?”
qualcuno si domandava qualche anno fa con una t-shirt verde e un dito medio. A
parte che nell’Inno di Mameli “schiava di Roma” non sarebbe l’Italia ma la
Vittoria, essere considerati “schiavi di Roma” sarebbe per ogni popolo, a mio
avviso, un onore di cui andar fieri. Cose mie comunque, che quando sento la
Marcia del Piave mi commuovo come una ragazzina del 1997 quando vedeva
sprofondare come un barilotto pieno di birra nell’oceano il cadavere di
Leonardo di Caprio. Che non seguo molto il calcio durante l’anno ma quando
gioca la nazionale ho continui sbalzi di tensione, come se la partita la stessi
giocando io in quel momento. Ripeto: problemi miei.
Mi piace come prosegue
questa fan fiction. A me sta dando molto, spero che i miei lettori (venti
direbbe Manzoni, ma per la questura sono tre-quattro –
e in questo caso la questura ha ragione) la gradiscano quanto me. Qualcuno mi
ha detto: ma perché hai scelto questo fandom così
sfigato? Non sono stato io a scegliere la fan fiction, ma la fan fiction –
quella bozza da 5 mila battute di 8-9 anni fa che ha scelto me. È per colpa sua
che insomma ho ripreso a scrivere – per me – in modo creativo, e non solo per
lavoro. È per colpa sua se sto riscoprendo quest’altro lato di me. Un lato che
mi piace e che spero non torni in letargo come ha già fatto più volte.
[3]
Il locale di Sergio e Bruno, del quale avete potuto ammirare la “pittoricità”
nel film di “Fracchia e la Belva Umana” (http://www.youtube.com/watch?v=A3iYxLG_3fE),
purtroppo non esiste. Ma esiste un locale, per fortuna, che ha ispirato gli
sceneggiatori di questo film: “Cencio e la Parolaccia” (http://it.wikipedia.org/wiki/Cencio_la_Parolaccia).
Youtube è zeppo di video testimonianze, amici mi
hanno raccontato scene fantastiche. Purtroppo non ci sono ancora stato, ma alla
mia prossima sortita nella capitale del mondo una visita da Cencio non potrà
mancare.
[5]
Il termine “punto” usato come avverbio alla toscana mi è sempre piaciuto
moltissimo. Perdonate questi regionalismi e questi arcaismi (lo usò molte volte
persino Manzoni nei suoi “Promessi Sposi”). E non vi metto il link agli
stornelli delle osterie se no mi tocca innalzare il rating di questa fan
fiction.
Ancor prima che Roma
venisse da lei, Meimi era già stata a Roma.
Due anni prima[1],
quando aveva appena 14 anni e Saint Tail aveva
iniziato a riparare torti solo da pochi mesi, la giovane aveva accettato di
partecipare ad una visita-pellegrinaggio con il Saint Paulia
nella capitale del mondo. E poiché suo padre, ex studente, era ancora il
pupillo, nonostante i lunghi capelli da hippie cannato e la vita da bohemienne, delle più vecchie e severe suore scolopie della sua scuola, Meimi
si ritrovò ad essere l’unica studentessa ad avere con sé, in gita, entrambi i
genitori. Genichiro ed Eimi,
infatti, accettarono senza problemi di ricoprire il ruolo di responsabili nel
viaggio intercontinentale.
Meimi
non ne soffrì, anzi. Non era proprio il tipo di adolescente che misura la sua
felicità con i propri metri di distanza dai genitori: aveva con loro un
rapporto franco, sereno, non nascondeva praticamente nulla. Saint Tail a parte, ovviamente.
Vide i monumenti,
mangiò la grattachecca in un bar di fronte al
Colosseo, acquistò alcune t-shirt, pregò sulla tomba di Giovanni Paolo II e su
quella di san Pietro, si sentì come Leonardo di Caprio sulla prua del Titanic,
regina del mondo, dominando la città eterna sulla sommità del Cupolone, aperto
ai turisti al modico prezzo di 5 euro senza ascensore, 7 euro con l’ascensore
(che però vi porta solo fino a un terzo della salita).
Ma di quella
settimana di maggio due furono gli avvenimenti che le rimasero impressi per
sempre: entrambi riguardanti le espressioni del viso dei personaggi coinvolti,
i loro occhi, il loro sguardo, che, senza parole, riuscivano a comunicare il
contenuto di milioni di biblioteche.
Aveva ancora in
mente gli occhi azzurri di quel don Matteo. Feroci inizialmente, appuntiti come
raggi laser, capaci di inchiodare con due occhiate alle sue responsabilità
l’assassino di quel tassista, che cercava di fuggire mischiandosi tra i
visitatori in coda per i Musei Vaticani. Eppure quegli occhi, dopo aver compiuto
il loro dovere come imponeva la giustizia, erano stati poi capaci di muoversi a
pietà, tenerezza, profonda pena per quell’uomo, rimasto solo con la sua
incredibile e ingestibile colpa. Quella carezza mentre la gendarmeria vaticana
lo portava in cella, a far compagnia al corvo. “Non sei da solo”, come a dire,
“anche se hai sbagliato c’è amore anche per te”.
Il secondo
sguardo – un mare di sguardi – quello fra i suoi genitori, mentre cenavano in
un ristorantino di piazza Navona. Meimi era seduta
con alcune sue amichette in un tavolo di otto posti: Genichiro
e Meimi avevano preferito invece quel tavolino per
due così appartato, così elegante, circondato, protetto, quasi abbracciato da
una siepe di piante ornamentali che permettevano comunque ai due di ammirare
l’architettura dei palazzi di una delle piazze più belle del mondo. Quasi non
fece attenzione ai discorsi che le sue amiche intavolarono durante quella cena,
in quel tardo pomeriggio di fine maggio. Guardava solo i suoi genitori, che
cenavano fissandosi negli occhi l’uno con l’altra senza accorgersi di nulla: né
delle frotte della gioventù romana in cerca di un aperitivo, né del quarantenne
psicotico che vendeva libri tavolo per tavolo per un conto di una setta senza
scrupoli, né tantomeno degli occhi fissi su di loro della loro figliola. Odiava
quando i suoi genitori si scambiavano effusioni, bacetti e carezze in casa,
alla sua presenza. Ma lì era diverso. Meimi non stava
vedendo la sua mamma e il suo papà. Stava guardando i due fidanzatini che erano
stati, molto tempo prima, come se stesse viaggiando in un’arcana macchina del
tempo.
Il ristorantino
era perfetto: vino leggero, un primo delicato, un’insalatina e un pezzettino di
torta alla frutta, da accompagnare con un buon caffè aromatico che i turisti di
tutto il mondo, una volta assaggiato in Italia, si sognano di ritrovare a casa
loro, dove il caffè non è altro che una zuppa di acqua sporca e polvere nera,
che nel bel paese useremmo solo per ricaricare le penne stilografiche o per
avvelenare i topi in cantina.
I suoi genitori
non parlavano: si guardavano negli occhi. E ciascuno, nelle pupille dell’altra,
leggeva storie, si proiettava con la fantasia in altri mondi, in galassie
visibili e splendenti. Era quella l’opera d’arte, la statua, il monumento più
bello che aveva visto a Roma. Quell’amore eterno, eterno come la città il cui
suolo aveva avuto il privilegio di calpestare.
Quell’immagine le
era rimasta impressa, per cui quando, mese dopo mese, colpo dopo colpo, lettera
d’avvertimento dopo lettera d’avvertimento Meimi, e
la sua controparte Saint Tail, avevano iniziato a
guardare Asuka sempre meno come un pericoloso
piedipiatti e sempre più come qualcos’altro, l’immagine dei suoi genitori,
cullati dalla brezza primaverile romana e da un bicchiere frizzantino di Est!
Est!! Est!!![2],
aveva assunto nella sua mente connotazioni sempre più diverse, più forti. Il
quadretto dolce che si era costruito nella mente, come se lo sarebbe fatto una
bambina di otto anni innamorata del suo principe azzurro, disparve, per far
spazio a un’agitazione indefinita, a un’ansia inspiegabile, persino
all’inquietudine, un’inquietudine però preludio non più di quella dolcezza
stomachevole da caramella stantia, ma ad un mare di sentimenti in tempesta,
forti e violenti, verso il quale non si può che far rotta.
Il quadretto di
quella cenetta cambiava nel suo cuore di settimana in settimana non solo per l’intensità
con la quale la ricordava, ma anche per i protagonisti che vi vedeva coinvolti.
Sempre più, infatti, il volto di GenichiroHaneoka prendeva le fattezze di quello di Asuka jr. I lineamenti di EimiHaneoka, invece, ringiovanivano pian piano, quel tanto che
bastava per renderli uguale ai suoi, a quelli di MeimiHaneoka. Un pensiero puro, casto, eppur
inconfessabile. La mano di lui che le versa non più il vino prezioso di
Montefiascone, così buono da mandare all’altro mondo persino un pontefice, ma
aranciata o succo di mela. Gli occhi di lei che fissano il giovane detective,
mentre lui dice qualcosa. Qualunque cosa. Quelle mani che vogliono afferrare la
stessa saliera e che si toccano per sbaglio: i volti che arrossiscono.
E il quadretto era
divenuto realtà, finalmente, quel venerdì sera, in quel galà di presentazione
al Minato Art Museum con la Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare. O meglio, sarebbe potuto diventarlo.
Perché al posto
della brezza romana c’era l’olezzo del sudore dei camerieri in canottiera, al
posto delle siepi decorative dei carrelli arrugginiti con piatti sporchi sopra,
al posto del vociare dei giovani romani in cerca di aperitivi i rutti dei
camerieri e gli stornelli pieni di parolacce di quei maledetti burini con la
chitarra in mano, e nei volti di Meimi e di Asuka non il rossore della casta timidezza, ma il pallore
dell’incredulità, che, per Meimi, si mescolava con il
verde della rabbia.
Era meglio se
quel quadretto non si fosse realizzato per nulla: si sentiva presa in giro
dalla sorte, perché tutto, fino a quel momento, Saint Tail
a parte, le cose erano andate proprio come in quel suo desiderio, in quella sua
proiezione. Ma poi qualcuno aveva pensato di coglierla sul vivo, come se le
Parche avessero deciso di mettere in scena un’orrenda parodia della cenetta
romantica che sognava intensamente fin dal primo incontro con Asuka jr, dalla prima volta che lui l’aveva fatta
arrossire.
Fu Bruno stesso, con
addosso un grembiule da macellaio con degli schizzi di sangue che nemmeno le
più feroci candeggine erano riuscite a cancellare, che si recò al tavolo di Meimi e di Asuka. In mano due
piatti riempiti di spaghetti fino all’orlo, in un tris di specialità.
Il disgusto in Meimi si moltiplicò. “Non doveva andare così”, protestò.
“Prima Saint Tail e adesso…
Adesso questi qui…”.
Molto era
cambiato da quando si era vista allo specchio, con una pettinatura alla Audrey
Hepburn, un vestito rosa vaporoso e la certezza di dover condividere un evento
dell’alta società con Asuka jr. Certo, era
spaventatissima, temeva che Asuka jr l’avrebbe presa
in giro come a scuola, l’avrebbe ignorata, l’avrebbe disprezzata. Ma un
puntolino del suo cuore, il centro del suo cuore, sapeva come in condizioni
normali le cose sarebbero andate a finire. Non era pronta a rinnegare Saint Tail – non lo avrebbe fatto mai – eppure quel quadretto
ideale che si era prefigurata con Asuka la spingeva a
sognare ciò che la razionalità le impediva persino di pensare.
«Ah zoccolè» Bruno le si rivolse mettendosi una mano davanti
alla bocca per intensificare il volume della sua voce, «che voi magnà o aspetti che er tu moroso
entri nea pubertà?». Il supplì giaceva ancora intonso
nel suo piatto. Ignorò l’insulto, quel “moroso” e il modo con cui quel coatto
le si era rivolto. «Mangio più tardi». “Mi ha chiamato zoccola?” quando se ne
accorse un lampo di ferocia attraversò i suoi occhi. Come Saint Tail avrebbe potuto farlo sparire e farlo ricomparire alle
Hawaii, come era in grado di fare anche David Copperfield[3],
ma pensò che non fosse proprio il caso.
Bruno posò sul
tavolo i due tris di primi e se ne andò imprecando in direzione di altri
sprovveduti. Asuka non aveva assistito alla scena,
alle prese con il suo smartphone.
«Sai», alzò gli
occhi verso Meimi, «credo di avere capito chi siano
questi qua».
«Chi sono?» la
ragazza era possibilmente ancor più glaciale di prima.
«Sergio e Bruno,
gli incivili di Trastevere» iniziò Asuka jr, leggendo
una pagina di Wikipedia.
«E dunque?» Meimi si accorse che si stava esprimendo ai limiti della
scortesia più becera. Dietro di lei molti parlottavano. Superato lo shock
iniziale i giapponesi chiedevano agli italiani chi fossero quei brutti ceffi
così maleducati, altri, ormai schiavi dei muri invisibili che la nuova
tecnologia ci pongono innanzi, come Asuka jr,
cercavano sul web le risposte che avrebbero potuto ottenere dai vicini di
tavolo con una semplice richiesta a voce.
«Beh, sono molto
amati dai turisti per il loro stile…» riportò Asuka.
Meimi
si infuriò, questa volta, e parlò come se stesse sfidando Asuka
nel quotidiano bisticcio di classe. «Stile? Mi prendi in giro? Hanno quasi
picchiato un signore prima! Puzzano, sono sporchi, dicono un sacco di parolacce
e insultano le persone! Mi hanno persino appena dato della…»
non completò la frase. La sua educazione le impediva di riferire certe parole
non punto belle.
Asuka
però non si alterò. “Eppure quando inizio così lui risponde sempre prendendomi
in giro” pensò Meimi, pentitasi nonostante la
sfuriata fosse più che legittima. «Il loro è un gioco», sorrise il giovane
detective, «in tutti i ristoranti i clienti vengono trattati bene, nel loro
locale invece i clienti vengono presi in giro». «Insultati» puntualizzò Meimi, più serena ma con decisione. «Anche», accettò
l’osservazione Asuka, «ma in modo tipicamente romano,
leggo qui», sorrise. «Non arrabbiarti troppo Meimi»,
la guardò sorridendo, «è solo un gioco. Pesante, ma pur sempre un gioco».
Il quadretto era
in fumi sì, ma Meimi si accorse che non tutto era
stato bruciato da quella sorpresa non voluta. Fissò Asuka,
o almeno, provò a farlo senza arrossire. Il ragazzo era rimasto profondamente
sorpreso, proprio come lei, dall’energia e dalla volgarità di quegli italiani,
eppure era sereno. Era sereno e la stava guardando con un sorriso. La brezza
romana, il vino buono, i camerieri cortesi, il vociare allegro dei ragazzi, la
siepe, piazza Navona. Non c’era niente di quel quadretto. Ma rimaneva la cosa
più importante: Asuka jr.
«Sai che ti
dico?» il giovane detective ruppe il silenzio, dopo quaranta secondi di puro imbarazzo.
«Io mangio».
Non si trattava
di un piattino da ristorante minimalista. Ma un bel piattone generoso degno di
un pranzo in casa della nonna. Un bel piatto liscio da pizza con sopra, in
mucchietti separati e distinti, i tre primi per eccellenza della cucina romana,
a formare un triangolo di delizie. Nessuna guarnizione, nessun fiorellino o disegnino
coi condimenti sulla superficie del piatto bianco. Tutte cose belle da vedere
ma che non si mangiano, dunque sempre ignorate da Sergio e da Bruno che erano
sì dei burini da esposizione mondiale, ma che di cucina se ne intendevano. Un
tris ben diverso da quello che il giovane detective aveva sognato nel suo
incubo, ma pur sempre un tris di primi. Asuka prese
in mano la forchetta e la affondò subito sulla prima montagnola: una bella porzione
di spaghetti cremosi, amalgamatisi nella parte finale della loro cottura con i
tuorli e gli albumi delle uova. A dar tono al piatto, cubetti di guanciale
soffritti con un pizzico infinitesimale di cipolla e una generosa dose di pepe
nero. Fu quello il primo incontro di Asuka jr con gli
spaghetti alla carbonara. E fu amore a prima vista.
Meimi
lo osservò mentre assaggiava deliziato anche i bucatini all’amatriciana. Diede
un’occhiata al resto della sala del museo: il clima, grazie al trionfo del
carboidrato trasteverino, si era decisamente disteso. Nei tavoli si parlottava
tranquillamente. La contessa rideva sguaiatamente di fronte al vecchio Vescovo,
che molto probabilmente le aveva raccontato una storiella delle sue: le
barzellette degli uomini di Chiesa sono infatti molto più divertenti di quelle
dei laici, in quanto, quasi sempre, sono tratte da storie vere. Sono storie
vere. A pochi metri di distanza lo stornellatore aveva smesso di insultare in
musica le mamme degli ospiti. Cantava strimpellando “Roma nun
fa’ la stupida stasera”, accompagnato da un cameriere, che, dopo aver portato
ad un tavolo delle bottiglie d’acqua minerale, eseguiva la linea del basso
scoreggiando con l’ascella[4].
Qualcuno li stava persino applaudendo.
Lanciò uno
sguardo anche ai suoi genitori. E il cuore ebbe l’ennesimo sussulto. Erano lì,
fianco a fianco, seduti al termine di una lunga tavolata: in effetti, era forse
la tavolata più disastrata del grande salone del Minato Art Museum.
Ad un metro da Genichiro una delle tre bestie senz’anima
parlava ad alta voce col telefonino, proferendo un gran numero di eresie. Un
cameriere, dietro alla sedia di Eimi, si stava
vistosamente grattando i gioielli di famiglia, seppur dall’esterno dei
pantaloni, come se volesse pinzare e schiacciare con le punte delle dita
eventuali insettini nascosti. La vecchia KaoriMasamune di 144 anni
russava rumorosamente a pochi metri da loro: l’aria, uscendo dai suoi polmoni,
agitava vistosamente le labbra producendo suoni buffissimi. Eppure, il modo con
il quale i suoi genitori si stavano guardando era lo stesso di quell’ormai
lontana serata romana. Non erano immersi in ragionamenti troppo complicati:
qualche parola, un sorriso, una battuta, una risata. Ma gli occhi dell’uno non
lasciavano per un istante il volto dell’altra. La stessa intensità. Lo stesso
amore?
Meimi
rigirò lo sguardo verso Asuka jr. La stava fissando,
mentre, posata la forchetta, senza guardare quello che faceva, si versava un
po’ d’acqua. Aveva voluto assaggiare quel piatto, aveva mostrato di gradirlo,
ma sembrava non avesse poi così fame. Meimi lo guardò
con tenerezza. Sembrava così stanco. “La caccia a Saint Tail…
a quella Saint Tail che si aspetta…
E non gli ho ancora mandato il biglietto…” “Il
biglietto!” Era così importante dopo tutto. “Gliel’ho promesso”. Perché voleva
bene ad Asuka? Non ne aveva proprio idea. “Per il suo
senso di giustizia? Per la sua onestà? Perché con quel darmi la caccia mostra
così tanto di tenere a me?” O per ben altro? Immersa in quei pensieri, non si
accorse della posizione che aveva assunto. Con un gomito reggeva il braccio
dritto sul tavolo: la testa posata sulla mano aperta ad accarezzargli la
guancia. Gli occhi fissi su di lui.
«Tutto bene Meimi?» domandò Asuka. La ragazza
si riscosse. «Sì», arrossì ancor più vistosamente. Il cuore le batteva
all’impazzata. «Prova a mangiare qualcosa», la incalzò il ragazzo. Le
sorrideva. “Però è così bello”. Il suono della chitarra le ricordò la presenza
di Sergio e Bruno e il loro maleducatissimo staff. Decise di assaggiare qualcosa:
anche il suo stomaco era bloccato, ma non voleva venir insultata nuovamente dal
turpe individuo in canottiera. Due forchettate. Quei rigatoni con la pajata non erano affatto male.
«Buoni, eh?» Asuka le sorrise ancora. Di nuovo quell’improvviso sussulto
al cuore. Lo sguardo tutto per lui. «Un po’ troppo salati…
Devo bere qualcosa». Allungò la mano per prendere la bottiglia d’acqua minerale
fresca ma fu preceduta da Asuka. Le loro mani si
toccarono. Fu un istante, seguito immediatamente da un veloce ritrarsi di mani
e di scuse affettate. Ma per loro furono secoli. Non solo gli occhi, non solo
l’udito, il respiro, il calore percepibile a un metro di distanza. Tutti i loro
corpi erano in quel momento trascinati in quel microscopico e veloce tocco
involontario. Ma che fu potente come un milione di scariche elettriche,
lasciando i due ragazzi attoniti, come dopo un giro sulle montagne russe. “E
l’ho solo sfiorato”. Tutto il suo corpo, tutta la sua mente, tutta la sua anima
in quel momento gridavano assieme una risposta così ovvia ma così difficile da
darsi. Le stelle e la luna, sorridenti dalle vetrate del lucernario, sembravano
confermarla.
È incredibile che
dopo milioni e milioni di anni, dopo che centinaia di miliardi di esseri umani
nella storia siano nati, cresciuti e tornati alla polvere tra le terre di
questo pianeta, e dopo che la maggior parte di loro abbia vissuto per almeno un
momento nella loro vita un sentimento come questo, l’umanità continui a
ritenere l’amore un argomento così interessante[5].
Fatto sta che Meimi si accorse, finalmente, che il quadretto di quella
cena romana a lume di candela si era lì lì
ricomposto. Che non servivano brezze romantiche, panorami mozzafiato, camerieri
cortesi o siepi ornamentali. Anzi, non servivano nemmeno i vestiti eleganti, le
tovaglie, i piatti di portata, le tavole, persino le sedie. Bastavano loro due.
Nell’anima della
ragazza la razionalità diede una mano al cuore nel formulare, solennemente, un
altro sì. Un sì identico a quello che Seira aveva
pronunciato il giorno che aveva scelto di divenire religiosa. Un sì del tutto
simile a quello che aveva dato alla giustizia accettando di diventare Saint Tail, un sì che nonostante tutte le difficoltà avrebbe
continuato a difendere con la vita. Ma questo era un sì solenne, ma di una
solennità che richiede che le parole vengano pronunciate sottovoce. Gli occhi
bassi. La mente lucida. Il cuore inondato.
“Siamo tutti
chiamati a vivere l’Amore”, le aveva detto qualche anno prima una guida per lei
importante, “ma la forma con la quale dobbiamo viverlo è diversa per ciascuno
di noi”. In quel venerdì sera, seduta ad un tavolo nella sala principale del Minato
Art Museum, MeimiHaneoka decise che avrebbe fatto di tutto perché l’Amore,
nella sua vita, assumesse la forma della persona che gli stava davanti. AsukaDaiki junior.
-
Wow. Rileggo queste righe, dopo averle buttate giù quasi un
mese fa, per la prima volta, allo scopo di cercarvi errori. Mai avrei pensato
di poterne scrivere di simili. Per me il genere romantico era off limits, come il deserto del Sahara per un pinguino o l’Oktoberfest per una dama della continenza. Vabbé. Non si finisce mai di imparare.
Una richiesta: nel caso abbiate compiuto l’impresa di leggere
fino a questo punto, non vi costerà più di tanto lasciare un breve commento. Mi
sarebbe molto utile.
Una notiziola: d’ora in poi pubblicherò un capitolo a
settimana: di norma il venerdì, ma potrebbe accadere anche di sabato, di
domenica, di lunedì. Non posso promettere nulla. Questo è il numero 23. Sto
scrivendo in questi giorni il 32, dunque, ce n’è di roba…
State sereni! Prima o poi la storia arriverà a conclusione!
Un saluto e un grazie a tutti! Lasciate un commento, prima di
uscire!!!
[1]
Di questa visita avevamo appena fatto accenno nel capitolo 19, quando
raccontammo la visita a Roma di Meimi e l’incontro
casuale con il parroco di Gubbio nel corso di una tormentata visita ai Musei
Vaticani.
Fumava perché era
un poliziotto o era un poliziotto perché fumava? Non sapeva darsi una risposta.
Spense la
sigaretta su un portacenere di porcellana, con dipinto sopra lo stemma del
museo, prima di tossire due o tre volte. Sebbene fumasse da anni il suo fisico
protestava ad ogni boccata, come fosse la prima, come se fosse ancora quel
ragazzino capellone al primo anno della scuola superiore della Polizia di
Stato. In effetti, tutti i poliziotti che conosceva fumavano almeno un pacchetto
di venti sigarette al giorno. Fumare per un poliziotto era un tratto
distintivo, come i baffoni all’umberta per i carabinieri
di inizio novecento, o il continuo e incessante bisogno fisico di grappa per
gli alpini. Si grattò i capelli ricci con la punta dell’indice e diede un
profondo respiro. “Potevo anche non accenderla …”, pensò, aspirando ampie
boccate di fumo passivo. Nella saletta dell’”arte femminile lappone degli anni
’60 del diciannovesimo secolo” la visibilità era ridotta a zero, in una nuvoletta
di fumo indistinguibile, come in un bagno turco. In effetti, tutti i poliziotti
della squadra di Auricchio stavano spipacchiando chi la decima, chi la ventesima Malboro. Qualcuno, amante del pericolo, si gustava persino
una vecchia “nazionale”, conservata per decenni con un pizzico di romantica
nostalgia.
Tornò a fissare
le immagini delle telecamere a circuito chiuso: i camerieri avevano iniziato a
portare i secondi, gli ospiti parlottavano tra loro come a una cena qualsiasi.
“Meno male”, tirò un sospiro di sollievo, memore di altri disagi patiti nel
locale di Sergio e Bruno. Un giro di “Qui tutto ok” accompagnato da strani nomi
in codice animò per qualche minuto la ricetrasmittente che teneva legata alla
cintura, vicino alla fondina della sua Beretta 92, in dotazione a ogni uomo
della Polizia di Stato.
«Si farà vivo il
figlio di puttena…» commentò Auricchio,
seduto, dietro il solito tavolo, su una morbida sedia da ufficio con lo
schienale alto. Di fronte a così tanti schermi e a uomini impegnati a
monitorare un così ampio flusso di informazioni, si sentiva come il capitano
Kirk. De Simone era il suo Spock: «I nostri colleghi giapponesi sono tutti al
loro posto», osò osservare, «anche i carabinieri».
Auricchio
era troppo concentrato per mandarlo a quel paese. «Speriemo
solo non facciano cazzete. L’importente
che non si muoveno di impulso. Certo che quella cretina
della Contessa… Proprio Sergio e Bruno…»
era ancora memore delle disavventure subite in quel locale di Trastevere. Il
commissario e il suo vice cercarono tra le telecamere i poliziotti giapponesi e
i carabinieri italiani, mescolati tra la folla.
Vicino a una
delle iene senz’anima vigilava con gli occhi spalancati il brigadiere Giovanni
Esposito, reduce da Nassiriya, un uomo che pareva fatto con lo stesso stampino
dal quale avevano tirato fuori Salvo D’Acquisto. Il militare si guardava
continuamente in giro. Avrebbe voluto almeno fingere di mangiare: nella mano
destra teneva il coltello e nella mano sinistra la forchetta, impugnate secondo
le regole del galateo, ma in mezz’ora non aveva ancora toccato un boccone. Su
un altro tavolo l’omologo di Auricchio: il giapponese
AsukaDaiki senior, intento
a flirtare con l’assessore ai trasporti, quarantenne mozzafiato, vedova come lui.
Su un altro ancora KensukeMatsumoto,
muscoloso agente delle forze speciali, sempre taciturno, sempre a caccia dei
“cattivi”, fiero sostenitore della pena di morte e delle punizioni corporali
nelle carceri giapponesi.
«Hai chepito il dongiovenni?» il
commissario si voltò verso il suo vice capelluto: «Noi qui a cerchere di catturere la Belva e
lui lì a gozzovigliere con MademaButterfly lì». «E il figlio è come il padre»,
ironizzò, con un velo di tenerezza, De Simone, osservando in uno degli schermi Asuka junior e Meimi mentre
parlavano a bassa voce, occhi negli occhi. Rivedeva in loro sé stesso e la sua
ex fidanzatina ed innamorata, ormai trasfigurata nel più spartano ruolo di
moglie italiana. «Quello lì è un deficiente», tagliò corto Auricchio,
«la regazzina ci starebbe fecilefecile e lui è lì a giochere
al poliziotto, per via di quella Santella, Santa
Delia, comechezzosichiema». De Simone si girò verso
di lui, incuriosito. «Pensa che se l’aspetteva qui
anche questa sera, ma non siamo qui a pettinere le bembole. Dobbiamo prendere quel figlio di puttena della Belva». «Però sono carini», osservò
nuovamente De Simone, sorridendo con l’aria leggermente stralunata. “Una faccia
da ebete”, per il commissario. «Carini il chezzo»,
tagliò corto Auricchio, che da vero uomo le
romanticherie le trattava per quello che erano: robette da donnicciole in
attesa dal parrucchiere.
«Verrà lui?»,
domandò, dopo qualche secondo di silenzio, il giovane vice-commissario. «Lui o Frecchia non ha importenza.
Sicuramente qualcuno verrà. E lo ferà questa sera», Auricchio tornò a guardare il muro di schermi di fronte a
sé: «Non importa chi prenderà il quedro. Importa chi
lo avrà alla fine. Nessuno si deve muovere».
«Eppure», lo
interruppe di nuovo De Simone, «Asuka junior dovrà
farlo. La Belva si aspetta un po’ di vigilanza». La squadra di Auricchio sapeva che in Giappone, molte opere delle
collezioni della Contessa, erano già state sottratte dalla giovane illusionista
e riportate ai legittimi proprietari. Spesso in semplici pacchi postali. E, se
loro lo sapevano, sicuramente ne era già a conoscenza anche la feroce Belva, un
vero stratega per ogni suo colpo. Se le forze dell’ordine avessero cambiato il
loro modus operandi, proprio per quel caso, si sarebbe insospettito. Avrebbe
magari temuto che fossero già lì, ad aspettarlo. Sicuramente la Belva conosceva
i metodi anti-SaintTail
(metodi poco efficaci, tra l’altro) della polizia giapponese. Scavalcarli per
lui sarebbe stato un giochetto. Non dovevano lasciare il minimo sospetto.
«Il reghezzino dovrà stare fermo al suo posto», chiosò il
commissario, «solo al massimo fersi vedere. In questo
modo non gli chepiterà nulla di male», borbottò.
Neanche lui, come del resto neanche Asuka senior,
poteva esserne sicuro. «Anche perché», continuò «mi gioco il collo, l’infememenderàFrecchia. Non rischierà». Ma guardava in basso.
«Vedremo…». De Simone non riuscì a completare la frase. Venne
subito interrotto dal suono di un’intera orchestra di allarmi, sirene e
campanelli, attivati, anzi, scoppiati, all’unisono.
«La Belva!» urlò
uno dei poliziotti, facendo cadere a terra la sigaretta che teneva stretta tra
le labbra. Il poliziotto capellone girò la faccia verso il monitor. Una pioggia
di cristallo stava ricoprendo la parte centrale della sala. Gli ospiti cercarono
di mettersi al riparo: chi sotto la tavola, chi poco distante, per impedire che
ulteriori vetri rotti cadessero loro in testa.
«Oh Madonna
Benedetta!!!» tuonò Auricchio, balzando in piedi,
colpendosi ripetutamente la pelata con dei manrovesci che avrebbero mandato KO Cammarelle. «Il lucernerio!!!».
«Stiamo calmi commissario»,
provò a calmarlo De Simone, «il furto deve andare a buon fine…
Il GPS ci condurrà dalla Belva».
«Ma lui dove chezzo è?» il cinquantenne pugliese, preoccupatissimo,
provò a cercare il pericoloso criminale in ogni punto del muro di schermi LCD.
«Dove sei? Dove sei maledetto…». Vide solo molte
persone in piedi, altre che scappavano a destra e a manca in preda a una crisi
di panico. Notò anche Asuka junior prendere per un
braccio la sua giovane amica Meimi per poi sbatterla con
forza sotto il tavolo. «Tu non ti muovi da qui, me lo prometti?», dagli occhi
sprigionava fuoco e fiamme, poi lasciò andare la tovaglia e si allontanò. Meimi era più sorpresa che spaventata: “Che diavolo sta
succedendo?”
Nella sala, dopo
un momento di gelo, iniziò a diffondersi il brusio. Che diamine era stato? Il
carabiniere Esposito si alzò in piedi. Aveva ancora tra le mani forchetta e
coltello, ma i baffoni d’ordinanza tradivano la sua vera identità. Qualcuno si
avvicinò alla zona del lucernario, per guardare cosa avesse provocato la rottura
di una vetrata così grande.
Avvenne tutto in
una frazione di secondo. Un uomo dai capelli argentati, che indossava un
elegante vestito bianco alla Alain Delon, si calò dall’abbaino. E per “si calò”
intendo che piombò giù come una pera cotta, andando a precipitare proprio su
uno dei carrelli arrugginiti di Sergio e Bruno, pieno di piatti sporchi e rimasugli
di spaghetti mangiucchiati. I piatti caddero a terra con un fragore infernale,
il carrello invece, con a bordo Fracchia, partì a
tutta birra verso il tavolo delle autorità. Disteso sull’affare a rotelle come ArminZoeggeler, il povero
geometra, distruggendo piatti e fiori come una palla da bowling i birilli, andò
a schiantarsi contro la Contessa. La povera nobildonna non poté far altro che
urlare qualche parolaccia prima di rovinare a terra. Il corpo dell’uomo sopra
di lui.
«È Frecchia» Auricchio crollò sulla
sedia. De Simone si attaccò alla ricetrasmittente. «È Fracchia!
Tutti fermi. Mi raccomando! Tutti fermi! Nessuno intervenga». “Ecco il suo
modus operandi di questa sera”, pensò De Simone, scuotendo la testa su e giù
come a dire: “Ho capito tutto”. «Vaffa…» non era
un’imprecazione, ma il codice 3. Quello più abusato dalla Belva. “Và Avanti
Fracchia e
Fatti Ammirare”, l’avevano ribattezzato gli uomini della Polizia. Una
tattica semplice ma efficace, che il feroce criminale utilizzava soprattutto in
caso di rapine o furti apparentemente semplici ma in luoghi sorvegliati, colmi
di forze dell’ordine e di misure di sicurezza. E un quadro della Contessa, in
Giappone, con lo spauracchio Saint Tail, doveva per
forza essere un luogo sorvegliato. Mandare avanti Fracchia
permetteva alla Belva di manovrare la sua pedina da distante, con il non
trascurabile vantaggio di evitare il rischio di beccarsi qualche pallottola in
proprio. E con il pregio di far capire alle forze dell’ordine: “Sono qui, molto
vicino. Fate uno sgarro e siete tutti morti”.
Qualcuno uno
sgarro l’aveva fatto: a Monaco di Baviera, pochi anni prima. Fracchia, quella volta, aveva alzato la sua voce tremante:
«Questa è una rapina!». Il brutto della vicenda il fatto che a puntargli la
pistola alla tempia non era stata una cattiva persona. Otto Klugen,
semplice guardia giurata, era anzi un buon padre di famiglia con la passione
per la caccia e la pesca. Il suo unico difetto l’imbarazzante strabismo, che
nascondeva, anche al chiuso, con un paio di occhiali da sole a specchio. Occhiali
che decretarono la condanna a morte non solo di Otto, ma anche delle altre diciotto
persone presenti nella gioielleria Edelweiss: la guardia giurata infatti non riuscì
a riconoscere quel volto così familiare, così temuto, e si comportò come se si
trattasse di un comune e banale ladruncolo. I complici della Belva, presenti
nel negozio di preziosi, aprirono immediatamente il fuoco e in pochi secondi,
sotto lo sguardo stupefatto del povero Fracchia,
riempirono di appuntamenti l’agenda lavorativa di tutti i becchini della
capitale mondiale della birra. Non toccarono nulla, nessun gioiello andò a
finire quel giorno nelle tasche della Belva. Il feroce criminale portò a casa infatti
un bottino ben più ambito, un tesoro assai più prezioso. Il terrore di tutti i
governi europei e lo spregevole rispetto della comunità criminale tedesca.
La Contessa a
terra cercò di scrollarsi quel non esile uomo di dosso. Lo fissò in volto,
disgustata: «Ah Fanto[1]’…
e te che ci fai qua?». L’aveva scambiato per la sua capo cameriera. Ma così non
era.
«Contessa»,
sibilò Filini, alle sue spalle, «quello non è il ragionier
Ugo Fantozzi. Quello è la…», si guardò a destra e a
sinistra, del resto non era conveniente ammettere la connivenza con un
assassino di tal calibro, «quello», con un filo di voce acutissimo confermò, «è
la Belva».
L’espressione del
viso della Contessa passò rapidamente al disgusto all’interesse. «E così», disse
strabuzzando gli occhi, palesemente infoiata, «questa è la terribile Belva». Fracchia balzò in piedi, sguainando la pistola da una tasca
con un veloce movimento del braccio, ma col gomito colpì la mandibola del
sindaco lì seduto. La dentiera del poveruomo partì in volo e andò a posarsi nel
piatto di trippa che il Vescovo stava provando ad assaggiare prima che
succedesse il finimondo. Un piatto di trippa che divenne d’un tratto meno
invitante.
«Nessuno
si muova e nessuno si farà male» sbraitò, ma pareva il lamento di un cavallo
stanco di ricevere frustate da un sadico fantino.
«Ha
così paura?» domandò De Simone ad Auricchio, «perché
ci fa capire di essere Fracchia? Spesso la Belva lo
faceva ipnotizzare perché non capissimo si trattasse del suo sosia. O almeno
perché non se la facesse sotto dalla paura». «Veffa,
De Simone» tagliò corto Auricchio. «Il Vaffa, certo, la tattica 3. Ma mi chiedevo perché…» puntualizzò. «No, no, De Simone. Veffa. Veffanculo a te e Veffanculo anche a soreta. Taci per
l’amor del cielo e femmi seguire che fa Frecchia». Il vicecommissario incassò con discrezione il
colpo e tornò a scrutare il monitor.
Alla
vista del luccichio della pistola si verificò un fuggi fuggi
generale nella sala principale del Minato Art Museum.
Fracchia con la destra teneva la Beretta puntata
verso la Contessa, con la sinistra invece cercava – invano – di aprire il
forziere con il vetro antiproiettile.
«Ma
come diamine…Mmmmhh…ahhh…ahia…» il volto sempre più
rosso contratto nello sforzo per aprire quello strano chiavistello.
«Permette»,
Filini tornò a fare il Filini, avvicinandosi col suo solito sorriso a bocca
spalancata verso il quadro. Nonostante gli orli vaporosi della camicia
settecentesca che lo rendevano più goffo, aprì agilmente lo scrigno
antiproiettile, prese l’opera d’arte e la consegnò in mano al Fracchia.
«Ma
che sei scemo?» osservò stupefatta la Contessa. «Niente affatto» tornò a
sibilare Filini, digrignando i denti, «questo è la Belva. Se lo facciamo
incazzare ci ammazza tutti». La Contessa sgranò gli occhi. L’arte era
importante, ma la vita di più. “Era meglio se li tiravamo fuori ‘sti 20 pippi”, sembrava ammonirla
il ragioniere con il solito sguardo pedante, amplificato dalla paura.
«Grazie
dottore» osservò Fracchia, estasiato. «Si figuri»,
riprese Filini, che era sempre Filini e che aveva elevato il suo servilismo a
status symbol.
Asuka
junior alzò nuovamente la tovaglia sotto il tavolo. «Ti prego Meimi, non muoverti per nessuna ragione». «Ma che succede?»
il suo vaporoso vestito rosa sembrava molto meno nobile se chi lo indossava era
riversa a terra, carponi. «Ti spiegherò tutto dopo, te lo prometto, ora devo
andare», e ripiegò la tovaglia. Meimi però, in quelle
poche frazioni di secondo, vide nel volto di Asuka
quella stessa agitazione, quello stesso incubo incarnato che gli aveva visto
poco più di un’ora prima, quando, riverso a terra e tempestato di ceffoni da Auricchio, chiamava, anzi, piangeva il suo nome. “Meimi”. Ma vide anche qualcos’altro. Stava per commettere
una pazzia? Si sarebbe ricordata per sempre di quella serata – tra le altre
cose, anche decisamente più importanti – come della “sera in cui Saint Tail si fece trovare impreparata”.
«Belva!»
gridò il ragazzo, che sembrava in quel frangente ancor più giovane dei suoi
sedici anni e mezzo.
«Ecco
che fa la chezzeta», commentò con un sospiro acuto Auricchio, sprofondando nuovamente sulla sedia e coprendosi
gli occhi con i due badili che aveva per mani.
Fracchia
si girò verso di lui. «Dice a me?», confuso come non mai. «No, a tua sorella»,
ironizzò il commissario dalla sua saletta, che più che Auricchio
pareva la Gialappa’s band.
«Posa
la pistola e vattene con il quadro. Non fare del male a nessuno! Il tuo scopo
l’hai ottenuto!», tremava. “Non sarò mai un poliziotto”, si rimproverò,
ignorando di avere davanti lo sprovveduto Fracchia.
«Sei uno spietato criminale, ma sei anche una persona d’onore, dicono. Dunque
vattene da qui con quel quadro».
«Cretino,
cretino e triplemente cretino» sbraitò Auricchio, rialzandosi, sputacchiando sul monitor come un
pastore maremmano. «Ma quello è Fracchia», lo
interruppe De Simone. «Infetti. Lo fa solo rallentere.
Non ha capito un chezzo. Doveva starsene lì, fermo e trenquillo come una guerdia
inglese della regina. E invece fa lo scemo». Era furioso.
Ripensandoci
con più calma anche Asuka si accorse di aver fatto
una cavolata. Avrebbe dovuto starsene lì, fermo, seduto. Magari avrebbe potuto
nascondersi sotto lo stesso tavolo di Meimi. Ma aveva
voluto gridare, aveva voluto fare appello al briciolo d’umanità che sapeva
risiedere dentro la Belva, aveva voluto in qualche modo sentirsi utile.
“Sentirmi utile?” Un atto inutile e stupido, animato però dalla più alta delle
nobili intenzioni.
«Io
ora me ne vado» urlò Fracchia, in un lamento che
ricordava molto il pianto del mastino da monta all’aeroporto. Superò il tavolo
e si avviò verso l’uscita, anche perché tornare da dove era venuto (un
lucernario rotto collocato a cinque metri d’altezza) era pressoché impossibile.
«MAI!!!»
KensukeMatsumoto, agente
delle forze speciali, alto e muscoloso, sputò a terra. «SE GLI ORDINI SONO
DISONOREVOLI IO NON POSSO SEGUIRLI». E puntò la sua pistola addosso a Fracchia, il quale, anche lui, armato, teneva la Beretta con
la destra, il quadro di Paniccia con la sinistra e
stava in quel momento proprio davanti a Genichiro e MeimiHaneoka. La bestia
senz’anima era invece nascosta sotto il tavolo, a tremare come una foglia, dopo
essersi accorto, per la prima volta nella vita, che né i suoi soldi né i suoi
agganci tra i potenti avrebbero potuto salvarlo da una pallottola, se un
grilletto fosse stato premuto.
«Porca
puttena maledetta», pianse Auricchio.
«E dopo il reghezzino deficiente ci tocca il samurei rincoglionito».
«Matsumoto, non fare sciocchezze», lo freddò Asuka senior, poco distante, prima più tranquillo, poi,
d’un tratto, cupo come la notte: «Questo ti costerà caro». Stava mettendo a
rischio non solo l’intera operazione, ma anche le loro stesse vite. E forse,
come a Monaco, i complici della Belva stavano già, in quel preciso istante,
caricando le pistole o innescando gli esplosivi. Asuka
junior, infatti, pur nella sua stupidità di ragazzino innamorato (un livello di
stupidità difficilmente raggiungibile da altri esseri umani normodotati), aveva
agito secondo il canovaccio del piano ordito da Auricchio
e dal professor Kranz. Matsumoto invece
stava facendo esattamente quello che non si doveva fare con la Belva: sfidarla
apertamente.
«Asuka chiudi il becco» urlò Matsumoto,
«quest’uomo sta rubando e noi lo lasciamo andare? Sei impazzito? Ti sei rammollito,
come quel pappamolle di tuo figlio! Siete entrambi una vergogna per la polizia
del nostro paese. Non si deve mai, e ripeto MAI scendere a patti con i
criminali», i muscoli del viso in tensione, il dito sul grilletto, un sorriso
di sfida sulle labbra. Un orgoglio che nemmeno due bombe atomiche erano
riuscite a spegnere.
“Siamo
morti” pensò Asuka senior, che si limitò a sospirare,
prima di guardare verso il figlio e sorridere. “Sei stato bravo, figliolo”,
sembrava dire.
Ma
nessun aguzzino della Belva si fece vivo, né scoppiò alcuna bomba, né si
presentarono tantomeno degli aspiranti kamikaze. A trovare una via d’uscita da
quella drammatica empasse fu proprio Fracchia. Perché
omuncoli del genere, nettamente inferiori al resto dell’umanità, nati solo per
servire e per strisciare a terra come miseri vermi, ogni tanto cacciano fuori
il tiro da tre punti che sorprende tutti. Se un campione dell’NBA fa canestro
da centrocampo al massimo qualcuno applaude un po’ più forte, ma se la stessa
azione viene compiuta dall’ultimo degli imbecilli, un gesto, seppur difficile,
assume i connotati dell’impresa.
Fracchia
si girò verso il tavolo degli Haneoka, e prima che Matsumoto potesse premere il grilletto e mandare all’altro
mondo il povero geometra/cioccolataio, Fracchia afferrò
la sedia a rotelle della 144enne KaoriMasamune, intenta a sonnecchiare, schiaffò tra le sue
ginocchia il quadro del Paniccia e puntò la canna
dell’arma sui capelli canuti della balia dell’imperatore Hirohito.
«PRENDO
LA VECCHIA[2]»
urlò feroce, sorridendo come non aveva mai fatto prima. Era sì stato istruito
tramite ipnosi sul da farsi in caso di necessità o di pericolo, ma questo
salvataggio in corner era tutto frutto del suo repertorio. Era Fracchia, che, seppur rimanendo schiavo della Belva, ogni tanto
ci teneva a mettere in luce anche le sue – seppur infime – qualità.
Iniziò
a correre verso l’uscita, spingendo la carrozzina come una massaia frettolosa
spinge un carrello della spesa verso il reparto delle offerte. Matsumoto fece cadere la pistola. Nella sua mente
nazifascista, seguace delle idee di HidekiTojo[3],
la famiglia imperiale era roba sacra, per cui non poté far altro che arrendersi
e inginocchiarsi a terra, prima di tentare, invano, di commettere harakiri[4]
con un cucchiaione da portata, ancora sporco di pajata,
sottratto all’attonito Bruno. Il vecchio vescovo, che fino ad allora era stato
una statua di ghiaccio, si alzò in piedi e cercò di rincorrere, appesantito
però dall’età, il geometra, urlando: «Lasciala andare, che ti ha fatto?».
Fracchia
non riuscì a sentire niente, e corse fuori, verso la libertà, proprio mentre
l’anziana, appena risvegliatasi, gridava a squarciagola per il panico. Il
poveruomo ruppe con la carrozzina l’ampia parete a vetri che lo separava dalla
libertà. Dopo pochi metri avrebbe raggiunta la sua auto.
Purtroppo
per lui – ma soprattutto purtroppo per l’anziana KaoriMasamune – ignorò la ripida rampa per disabili che lo
attendeva appena oltre la vetrata. Fracchia si resse
sulla sedia a rotelle, saltando con i piedi sopra i freni laterali, come i
pedali di un carrello dei cercatori d’oro, ma subito si ritrovò lanciato in
aria.
ShinjiOnibata, operatore ecologico 62enne che stava, a
bordo del suo camion, raccogliendo la spazzatura dai cassonetti nel suo giro
serale, giurò di aver visto, sopra la bianca luna piena, le ombre di uomo e di
un carro, forse uno strano ufo. Per questo venne ricoverato e sempre per questo
passò il resto della sua vita in un ospedale psichiatrico.
Fracchia
si ritrovò, dopo alcuni istanti di blackout, disteso sul portellone posteriore
dell’auto che la Belva gli aveva preparato. Il quadro del Paniccia
sopra la pancia. Felice di essersela cavata anche quella volta, chiuse il
quadro nel bagagliaio e, dolorante come non mai, entrò nell’abitacolo e partì a
tutto gas. Lo seguiva, impigliata con la gonna nel portellone posteriore della
Toyota Yaris, una velocissima KaoriMasamune.
Le
ruote della sedia a rotelle producevano scintille a contatto con l’asfalto.
Sembrava che volesse sorpassare la macchina del Fracchia.
E non aveva nemmeno l’accortezza di mettere la freccia, sebbene le sue grida,
stravolte dall’aria che le entrava in bocca a 95 chilometri orari,
assomigliassero al rumore di un clacson sgasato.
[1]
Esistevano ovviamente altri sosia della Belva, oltre a Fracchia,
che era quello più somigliante. Ci stiamo riferendo al professor Kranz, che abbiamo già accennato e al ragionier
Ugo Fantozzi.
Dalla cucina si udì
rimbombare un urlo disperato e arrabbiato nel contempo, come se Munch avesse incontrato Tarzan e Califano:
«LI MORTACCI VOSTRA!!! E MO’ CHE CE FACCIO CON
CINQUANTA CHILI DE ABBACCHIO E QUARANTASETTE METRI DE CODA ALLA VACCINARA?».
Qualcuno aveva comunicato a Sergio, chef capo del ristorante “Sergio e Bruno”,
che un brutto arnese, rubando il quadro per il quale quella festicciola era
stata organizzata, aveva messo in serio dubbio l’allegro proseguimento della serata.
«DOV’E’ STO
‘NFAMONE?» un omazzo sudato incazzato come un toro a
Pamplona[1]
scappò fuori dalla cucina, mannaia insanguinata in mano, mentre alcuni minuti
ma coattissimi camerieri cercavano – invano – di
trascinarlo di nuovo dentro.
Ma l’infamone non c’era più: era scappato con il quadro del Paniccia e con la venerabile KaoriMasamune, 144enne di sangue imperiale, catturata come
ostaggio. A testimoniarne l’arrivo e l’altrettanta rapida sortita i vetri rotti
al centro della sala, dove sopra sorgeva il lucernario dal quale Fracchia, sosia della Belva, si era calato, ed altrettanti
vetri rotti dove un tempo una vasta parete a vetri congiungeva le opere d’arte
dell’interno con il fiorente giardino all’esterno.
La Contessa,
aiutata dal sindaco e dal Vescovo, si era rialzata e si era messa a sedere.
«Era mejo se glieli davo quei venti pippi»,
sussurrò a Filini. In effetti, l’intervento della Belva gli era costato 300
mila euro. Venti pippi in più e ora l’agghiacciante
schizzo di Paniccia sarebbe rimasto minaccioso alle
sue spalle.
«Ma che diavolo
state a fa’?» urlò, vedendo i suoi illustrissimi ospiti che, ammutoliti,
indossavano timidamente i loro cappotti, si toglievano le scaglie di vetri
rotti dai vestiti e si avviavano barcollanti verso l’uscita.
«Questo galà
terminerà solo quando lo deciderò io. Cioè, quando la polizia riporterà
indietro il mio quadro!» i suoi non erano più occhi, ma lanciafiamme. Filini
gli si avvicinò, le toccò il braccio con la mano ricoperta da un orripilante
orlo svolazzante alla Conte Fersen e le sussurrò,
nuovamente: «Ma se quelli non sono nemmeno stati in grado di riportarle i
quadri rubati da quella ragazzina lì, Santa Eufelia,
non riusciranno mai a mettersi contro uno come la Belva». «Belva o no» gridò,
in modo che tutti la sentissero, «IO SONO SILVANA, CONTESSA SILVANI SERBELLONI
MAZZANTI VIENDALMARE, EREDE AL TRONO DI GERUSALEMME,
GRAN CROCE DELL’ORDINE DI SANT’EUSTACHIO MARTIRE,
AZIONISTA DI MAGGIORANZA E CAPO DEL GRAN CONSIGLIO
DEI DIECI ASSENTI DELLA MEGADITTA
ITALPETROCEMETERMOTESSILFARMOMETALCHIMICA!!!».
Asuka
junior sospirò, anzi, soffiò a pieni polmoni ed inspirò come non aveva mai
fatto in vita sua. Temette per un secondo l’ennesimo capogiro. Poi si riscosse.
“È tutto finito. Davvero?”. Poi il classico lampo squarciò i suoi occhi, come
un banale tuono in una banale tempesta serale estiva. “Meimi!”.
Corse verso il tavolino, alzò la tovaglia incurante di far cadere a terra
piatti, fiori e candele. Ma lei non c’era.
«Sono qui, Asuka!». Si girò. La ragazza aveva raggiunto i genitori al
loro tavolo. Genichiro ed Eimi
erano intenti a consolare, invano, KeikoMasamune, fanciulla di 116 anni in preda all’angoscia dopo
che un brutto ceffo, pochi minuti prima, le aveva sottratto sotto gli occhi la
sua onee-chan[2]Kaori. 72 anni per gamba.
«Stai bene?» Asuka puntò dritto su di lei. Meimi
rispose con un’altra domanda. «Mi devi una spiegazione. Quello lì chi era?».
Stava bene dunque.
«Beh. Ecco. Non so
se posso». Tentennò. Un’occhiata di quelle tipicamente femminili lo costrinse a
vuotare il sacco. Non era una di quelle occhiatacce che Meimi
le rivolgeva in classe mentre litigavano sulle sciocchezze. Questa era
un’occhiataccia di ordinanza, piena d’affetto, quelle che vogliono dire: “Ehi
tu, io ti voglio bene, so che sei una brava persona. Ma se non mi dici tutto
quello che voglio sapere nel giro di una manciata di secondi tu, ti giuro su
Dio e su tutte le schiere angeliche, vai a finire male, mio caro”.
«Ecco, Meimi», non poteva tacere, «Quella – forse – credo proprio
di sì. Era la Belva Umana». «Come?» un “Come” che riassumeva l’incredulità più
estrema. Se gli avesse detto: “Era Babbo Natale” sarebbe rimasta meno sorpresa.
«Sì», continuò Asuka, che, come al solito, non aveva
capito niente, «quel tremendo criminale. Era sulle tracce del quadro. Mi
dispiace non avertelo detto prima io…io…». Di nuovo quella fitta allo sterno. Doveva farsi
controllare. Ma qualsiasi dottore con un po’ di sale in zucca lo avrebbe
guardato con un sorriso paterno e lo avrebbe rispedito a casa a sospirare sulle
sue pene d’amore. “Come il povero scemo qual era”, avrebbe battuto Asuka jr sulla tastiera, in quel momento, se si fosse
trovato al mio posto nello scrivere questo resoconto in virtù dei miei
venticinque lettori.
Meimi
però appariva ancor più turbata del ragazzo. Ma in mente non aveva, come Asuka, pensieri e paure romantiche. Nella sua testa
frullavano e si susseguivano ragionamenti complicati intavolati a trovare il
perché la Belva Umana, feroce e tremendo criminale italiano, fosse venuto in
Giappone per riprendersi un quadro che lui stesso aveva rubato. Un’opera d’arte
che lui stesso aveva sottratto al legittimo proprietario, nonché al suo autore,
per consegnarlo nelle mani ossute della Contessa vestita di rosso. Aprì la
borsetta e cominciò a frugare. Forse aveva bisogno di un fazzoletto per
asciugare i sudori freddi che le scendevano per la fronte. O forse no.
«Figliolo», esordì
Asuka senior, rivolgendosi al figlio. «È meglio se
andiamo di là». Il ragazzo si voltò verso il padre, che, con un’occhiata in
codice che solo padri e figli sono in grado di comprendere, quasi gli gridava:
“Andiamo di là da Auricchio per capire come ci
dobbiamo comportare”. Con lui avevano già formato un capannello, i carabinieri,
i poliziotti e gli agenti nipponici in borghese. Solo l’estremista Matsumoto non si muoveva, disteso a terra, intento a
piangere sul suo onore perduto.
«Scusa Meimi. Forse è meglio che tu te ne vada a casa». La loro
serata perfetta era giunta al termine. Ora doveva pensare al lavoro, quel
lavoro così totalizzante che già si era scelto per tutta la vita. Si fece
violenza per lasciarla andare. Eppure, a casa, assieme al signor Genichiro (che guardava con sospetto per via di quei lunghi
capelli) e alla signora Eimi (il suo cervello
maschile esultò al pensiero che anche Meimi sarebbe
invecchiata così bene come lei) sarebbe stata al sicuro. «Grazie per questa
sera, mi sono molto divertito». “Stupido, stupido, stupido. Divertito? Ma che
diamine mi salta in mente? Chi mi scrive i discorsi?”.
Meimi
lo fissò. Il suo sguardo trasmetteva una compassione infinita, nel vero senso
etimologico del termine. “Soffro con te”, pareva dicesse, “Sono con te”. Asuka quasi svenne di nuovo quando Meimi
gli si avvicinò, posò la testa sul suo petto e gli si strinse con le braccia
alla schiena. Dopo un momento di shock chiuse gli occhi e si lasciò cullare da
quel magico contatto. “È la prima volta che mi abbraccia – che ci abbracciamo”.
Il suo profumo, il suo calore, la sua presenza che già prima mandavano in
estasi i suoi sensi si moltiplicarono. “Vorrei che questo istante durasse per
sempre”. “Vaniglia”, i capelli della ragazza a pochi centimetri di distanza dal
suo naso gridavano: “Vaniglia. Lo stesso profumo di Saint Tail”.
Ma a pensare era solo il suo cuore, dato che la sua mente in quel momento
poteva contare su ben poco ossigeno, sostanza che il suo corpo non stava più
ricevendo a sufficienza e che dirottava totalmente sul sistema muscolare perché
quel povero ragazzino non piombasse nuovamente a terra come un sacco di patate.
Meimi
si ritrasse. Asuka rimase ancora lì, inebetito, come
sotto una qualche sostanza inebriante. Si girò nuovamente verso il padre. Solo
che questa volta, assieme ad Asuka senior e al camion
rimorchio di piedipiatti internazionali che lo seguivano in attesa di ordini,
c’era Auricchio, irato e rubicondo come non mai.
«ANDIEMO!!! SE
QUELL’ULTIMO SEMUREI LA’ NON FOSSE STETO FREGHETO DEL FRECCHIA, ORA SEREMMO
TUTTI MORTI, FORSE. ANDIEMO DI LA’ CHE PREDISPONIEMO
LA SECONDA PERTE DEL PIENO». Il commissario italiano urlava sputacchiando,
descrivendo con la sua testa torsioni continue di 180 e più gradi. Altro che
Linda Blair[3].
I suoi occhi incrociarono quelli di Asuka. Si bloccò
e si avvicinò a passi spediti verso di lui. «Grezie a
Dio è andeta bene. Ma che ti avevamo detto? Non fere chezzete», lo rimproverò, meno arrabbiato del solito, come
un nonno severo che fa la paternale al ragazzino tanto intelligente che però
non si applica in matematica. «Ora lesciaandere la reghezzina, seguici e sta’ zitto, se vuoi imparere
a fere questo mestiere». Si rivolse a Meimi,
«Signorina, mi scusi, noi dobbiemoandere. Le auguro una buona sereta!»
e si inchinò verso di lei, come faceva di fronte alla statua della Madonna
Addolorata (per lui Addoloreta) che dominava la
chiesetta parrocchiale dove andava a messa la domenica mattina. La giovane dai
capelli castano chiari sorrise. «Vedo che ha imparato i nostri saluti!»,
esclamò felice. La sua espressione contrastava vistosamente con la scena
desolante alle sue spalle, composta da vetri rotti e Contesse sbraitanti: «Anch’io
ho imparato le vostre riverenze»,e
riassestò ad Auricchio una singola schiaffata a mano
aperta sulla sua pelatona lucida, grazie alla quale i
figli del commissario, nelle sere d’estate in montagna, individuavano e
descrivevano le costellazioni in essa riflesse.
Auricchio
sembrò non badarci più di tanto. Aveva tutt’altre priorità. L’ira con la quale
si era scagliato, in terza persona, contro Matsumoto,
da lui ribattezzato “L’ultimo samurai”, svanì, per lasciare lo spazio alla
concentrazione del pescatore. L’amo era stato gettato. Ora toccava a lui tirare
la lenza. «Andiemo, raghezzi!»,
e si avviò lungo quel corridoio che conduceva alla saletta dell’arte femminile
lappone degli anni ’60 del secolo diciannovesimo. Lo seguì una caserma intera
di poliziotti, carabinieri italiani e agenti giapponesi. In coda a tutti il
giovane Asuka, che, prima di sparire nel lungo
corridoio, salutò Meimi agitando in aria la mano come
in preda a un attacco epilettico. “Erano in così tanti qui dentro?” si stupì la
ragazza, che subito mise la mano dentro la borsetta. Un beep
a bassissimo volume le strappò un lieve sorriso. “Funziona”. Un altro beep. “Anche questo”. Doveva recuperare quel quadro, e, per
cominciare, prima di imbastire un nuovo piano, doveva reperire tutte le
informazioni di cui aveva bisogno.
«Mamma, papà!»,
gridò verso i genitori. «Io vado via con una mia amica, Sayaka[4],
torno con loro!», mentì doppiamente Meimi: Sayaka non era presente al galà e soprattutto Sayaka non era una sua amica. Genichiro
fece come per raggiungerla e domandarle: “Che cosa hai detto?” ma Eimi lo bloccò e lo tranquillizzò. Da lontano rivolse un
sorriso alla figlia, che stava correndo chissà dove. Un sorriso pieno di
complicità. Lo sapeva, forse? Del resto, anche lei aveva vestito i panni, in
gioventù, di una ladra dall’identità misteriosa.
Meimi
si infilò in un lungo corridoio, spalancò la prima porta a sinistra e si fiondò
dentro un’oscura saletta, adibita ad archivio dal personale del museo. Aprì
nuovamente la sua borsetta ed estrasse un piccolo macchinario del tutto simile
ad uno smartphone. Toccò due piccoli bottoni, frugò
nuovamente nella borsa per trovare i suoi auricolari, si sedette per terra con
la schiena rivolta a un archivio in metallo e si mise all’ascolto. Perché, con
quell’abbraccio e quello schiaffetto alla pelata, Meimi
era riuscita ad installare, tra le altre cose, addosso ad Asuka
e ad Auricchio, due piccole microspie.
E che microspie.
“GPS, flusso d’audio, autonomia di 36 ore, trasmettono fino a 20 chilometri di
distanza. E sono piccolissime, difficile notarle. Si attaccano anche sulla pelle”,
Meimi si ricordò di quanto Seira
fosse radiosa quando aveva aperto, sotto i suoi occhi sconvolti, quel pacco
proveniente dall’Italia. “Ti possono sempre essere utili”, aveva sorriso, “portale
dietro, non si sa mai”. «Grazie Seira», sussurrò,
prima di iniziare a decifrare le voci che sentiva.
«Ok. Possiemoappurere senza ombra di
dubbio che quello che abbiamo prima visto prima era il Frecchia»,
Auricchio stava briffando[5] i
suoi uomini.
“Fracchia?” pensò Meimi. Riaprì la
borsetta, estrasse lo smartphone e digitò quel nome.
Google le restituiva centinaia di risultati. Aprì la prima finestra, da “lastampa.it”. Una notizia di pochi mesi prima.
“Giandomenico Fracchia, sosia della terribile Belva
Umana, arrestato per sbaglio a Matera nel corso di una gita aziendale della ‘Orimbelli cioccolato’”. Toccò, nel suo Opera Mobile,
l’icona di un’altra finestra, da “ilmessaggero.it”:
“Rapinato portavalori a Ventimiglia. Carabinieri catturano per errore il sosia
della Belva Umana, il romano Fracchia”. Un’altra
ancora, un editoriale de “ilfattoquotidiano.it”:
“Giandomenico Fracchia e la Belva Umana: complici?”.
Comprese. “Un
sosia, eh?”. Ma continuava a non capire: “Perché qui, in Giappone?”
Auricchio
continuava a parlare: «Allora, come ben sappiemo,
quando la Belva manda aventi il Frecchia al posto
suo, a pochi minuti dalla fuga del suo sosia, il fetente si presenta per
prendergli l’oggetto del furto. Poi scheppa, e di
solito noi catturiemo il Frecchia».
Meimi
sentì, oltre alla voce di Auricchio, indistinto
brusio. Più chiare invece le parole pronunciate sottovoce da Asuka jr, che riceveva dall’altra microspia. Il giovane
detective si era lamentato con suo padre: «Dunque quello non era la Belva? Ah… Ho fatto una figura da idiota di fronte a tutti…». L’imbarazzo del giovane detective fece spuntare
sul volto di Meimi un sorriso compassionevole.
Auricchio
continuò: «Non ci resta che aspettare il GPS… Quando Frecchia si fermerà anche il segnele
del setellitere si fermerà. Quando ripertirà sapremo che è la Belva ad avere il quedro». «Così», ridacchiò, «in chempo
aperto, senza rischi per i civili, becchiemo il
figlio di puttena, riprendiemo
il quedro e lo riportiemo
alla legittima proprieteria, la Contessa». I
borbottii aumentarono, ma il commissario zittì tutti: «Lo seppiemo,
anche se non siemo mai riusciti a proverlo,
che a volte la Contessa si è rivolta a non meglio precisetirepinetori d’opere d’arte. Ma tutte le nostre fonti
ci confermeno che questa volta, quel quedro, è proprio suo».
Meimi
sussultò, al punto da urtare con la nuca voluminoso archivio in metallo alle
sue spalle. “Non sanno che è la Belva a rubare i quadri per la Contessa”, pensò,
massaggiandosi la testa dolorante. Invidiava, per certi aspetti, la sicurezza
dei poliziotti. Loro stavano seguendo un piano che non faceva grinze, lei invece
era nel marasma più totale. Perché la Belva voleva rubare un quadro proprio
alla sua migliore cliente? Un quadro che lui stesso le aveva procurato?
«Zitti tutti!»
urlò qualcuno nella saletta dell’arte femminile lappone degli anni ’60 del
secolo diciannovesimo. E tutti tacquero. Il giovane De Simone, con gli occhi
fissi sul ricevitore del GPS, sul quale girava un intelligentissimo plug-in di
Google Earth, annunciò: «Si è fermato! Si è
fermato!».
«Ok, sta facendo
lo schembio». Nell’espressione d’Auricchio
la felicità del pescatore di Trota Lago[6],
che, finalmente, dopo non aver preso nemmeno una scardola[7]
per tutta la giornata, vede verso sera la sua canna sussultare violentemente,
come ad annunciare: “Questa è una trota da trofeo!”.
«Ora stiemo buoni», calmò tutti, soprattutto sé stesso, un
sudatissimo Auricchio. «Pronti a muoverci. Quando riperte con l’auto lo becchiemo!».
La luna si ergeva
maestosa in una tarda serata senza nuvole, luminosa più del solito. Pareva che
non volesse addormentarsi e rimanere sveglia in una notte di caccia, che,
sapeva anche lei, sarebbe stata lunga e faticosa.
-
Grazie, grazie! Se
avete tempo lasciateci un commentino, anche veloce, tanto per capire se vi
piace oppure no. Pace!!!
La Toyota
decelerò gradualmente e andò ad accostarsi lungo un sottile parcheggio, a
ridosso dell’impetuoso canale. Oltre il guard-rail l’acqua nera gorgogliava
cupa parecchi metri più in basso, scorrendo veloce nel suo letto artificiale,
nel quale anziani in pensione e liceali appassionati, gettavano, di volta in
volta, la loro lenza.
Fracchia
aveva deciso di fermarsi: aveva troppo paura che se avesse dovuto frenare
improvvisamente, per evitare di schiacciare un cane o per scansare un posto di
blocco, la vecchia sulla sedia a rotelle, attaccata al bagagliaio ad un metro e
mezzo dietro di lui, avrebbe sfondato il lunotto posteriore e gli sarebbe
finita tra le braccia.
«La smetta di
seguirmi!» sbraitò, posando il piede sull’asfalto e uscendo dal veicolo. La
vecchia KaoriMasamune,
ancora a bordo della sua sedia a rotelle, urlava e piangeva battendo i pugni
con violenza sul portellone dell’auto alla quale la sua gonna era rimasta
impigliata. Il cioccolataio rimase disgustato dalla puzza che la vecchia
emanava: non si trattava però di materia organica, cosa comprensibile a
quell’età, ma di gomma bruciata. Lanciò un’occhiata alla sedia a rotelle: la
base era ormai fusa a causa l’attrito del terreno.
«Hentai! Anata ha watashitoisshoni
ai gafusokushitaibaai
ha, choudowatashiniiraisuruhitsuyouga ari masu!» urlò la vecchia.
«Che ha detto?», Fracchia le si avvicinò. Aprì il portabagagli e liberò
l’orlo della gonna ormai sfilacciato che la teneva impigliata. Pensò poi di
lasciarla, seduta sopra i resti della sedia a rotelle, sul bordo del
marciapiede, nella speranza che prima o poi un’anima pia, passando, l’avesse riportata
a casa.
«Watashi ha, kareragahoshii mono o te niireruhouhou
o shit te irudanseigasukidesu. Watashi no mifunetoshio o watashinimotteiko u!» urlò nuovamente la signora Kaori, e con un anelito in lei sopito findal lontano 1918, saltò e si avvinghiò a Fracchia.
«Watashi o toru, watashi ha anata da!» ululò.
Il geometra era
nel marasma più totale. «Mi lasci!» piangeva, «Mi facci andare!». La vecchia lo
baciava sulle guance con le sue labbra screpolate e sbavanti. Un rivolo di
saliva ottocentesca già gli scendeva per il collo. Gli arti ossuti della fosca
vegliarda lo ghermivano come una mantide religiosa, mentre il suo olezzo, un
misto d’incenso e naftalina, riportava il Fracchia
con la mente alle camere ardenti delle cerimonie funebri a cui aveva
partecipato.
«Se ne vadi!» implorò Fracchia. «Kimi woAishiteru!!!» ansimava la
cariatide. Di nuovo quel guizzo da campione che le merdacce sfoggiano una volta
soltanto nelle loro miserande vite. Fracchia urlò:
«Mi lasci in pace, vecchiaccia schifosa!» e le assestò sul mento una gomitata degna
di Randy Couture[1].
La vecchia cadde sul tettuccio di una Toyota Avensis
lì vicina. Con un altro balzo si riaggrappò sul poveruomo: «Daisukidesu!!!». Fracchia fece
qualche passo nel tentativo di liberarsi dalla presa mortale. Finalmente riuscì
ad arpionare un braccio della vecchia e a sbatterla con forza sull’asfalto.
«Prendi!!! Prendi!!!» gridò come indemoniato, somministrando all’anziana una
buona dose di calci in bocca. «Ahishiteru!!!»
continuava la vecchiaccia, che con le punta delle dita tentava di toccare le
caviglie dell’uomo. Un calcione sul mento, un altro pugno in faccia alla BrockLesnar mentre l’abbietta tentava
di rialzarsi. Si guardò poi attorno, a destra e a sinistra. Fece per andarsene,
ma colei che era stata la balia dell’Imperatore gli cinse, con le ultime forze,
le braccia attorno alla vita.
Fracchia,
insicuro e spaventato, abbozzò qualche passo in avanti. Si proiettò con lo
sguardo oltre il guard-rail che separava il parcheggio dal fiume e si decise.
«Ecco, un attimo, solo», pronunciò come a chiedere il permesso, prima di
spingere l’anziana signora oltre la barriera di sicurezza. «Ecco fatto». Non
ebbe nemmeno il coraggio di guardare. L’anziana KaoriMasamune, nobildonna centoquarantaquattrenne,
urlò per qualche interminabile istante prima di sprofondare come un sasso nel
fiume in piena.[2]
Ancora attonito,
si diresse verso la Yaris affidatagli dalla Belva. Aprì il portabagagli per
controllare che il quadro fosse ancora al suo posto e ripartì, sgommando, lungo
il tragitto che il feroce criminale gli aveva fatto apprendere a menadito
tramite una lunga e dolorosa seduta di ipnosi.
Quella non fu
l’ultima volta che qualcuno dichiarò di aver visto la nobildonna. È credenza
che dimori ancor nel mondo l’anima perduta della Masamune,
e che ogni tanto spunti fuori nelle spiagge di Okinawa per importunare i
bagnini con avance indecenti.
-
Ok, è breve. Lo so. Ma
mi piaceva tenerlo in un capitolo a parte…
A presto novità.
Ringrazio per le recensioni e abbiate fede! La storia continuerà, prima o poi
ne leggerete il finale. Grazie a tutti!
Una brezza
sottile, entrando da sotto lo stipite della finestra socchiusa, le accarezzava
delicatamente i capelli. Un ultimo atto di tenerezza che la natura le
rivolgeva, inconsapevole, prima che la battaglia cominciasse.
Meimi
ripose gli auricolari dentro la borsetta, si alzò in piedi e trasse un profondo
respiro. Guardò in basso per vedere in alto. Chiuse le mani una con l’altra per
aprire il cuore e si lasciò attraversare dal caldo soffio della fede.
«Perdonami
Signore, perché nel mio agire non uso malizia né inganno. Proteggimi. Tu sei
mia luce e mia salvezza. Di chi avrò timore? Sei difesa della mia vita. Di chi
avrò paura?».
Non era più Meimi. Non era più solo Meimi.
Stava per diventare un simbolo, come lo era diventato Steve Rogers[1] accettando
di subire il trattamento del dottor Erskine. Ma se i
muscoli di quell’uomo pulsavano solo per rappresentare gli Stati Uniti
d’America, il cuore di Meimi, quando vestiva l’abito nero
e il tutù rosa di Saint Tail, batteva solo per
rappresentare la giustizia. Quella giustizia implacabile che ti perseguita per
tutta la vita – e anche oltre – al solo scopo di raddrizzare i torti da te
commessi. Quella giustizia implacabile che prima poi ti presenta il conto con
gli interessi e ti fa pagare i danni fino all’ultimo centesimo. Non per odio, o
per vendetta, ma per regolare gli ingranaggi dell’universo.
Si assicurò che
la porta fosse chiusa e che nessuno potesse sorprenderla senza niente addosso,
mentre svestiva i panni di MeimiHaneoka
per indossare quelli della ladra Saint Tail. Guardò
in alto, e appurò con soddisfazione come l’occhio di Auricchio
non arrivasse in quello stanzino. Nessuna telecamera di sicurezza spuntava
indiscreta a spiarla.
Si sfilò il lungo
abito rosa svolazzante, ancora pregno del profumo di vaniglia. Sognava di
poterlo indossare ancora, almeno una volta. Sognava che Asuka
l’avrebbe vista nuovamente così. Piegò accuratamente il costoso vestito e lo
ripose, all’interno di una borsa di plastica, nel sottile spazio tra l’archivio
e il muro. Venirlo a recuperare, in un secondo momento, sarebbe stato un
giochetto da ragazzi. Sopra le calze, a mo’ di giarrettiera, aveva addosso una
scatolina in metallo, piena di trucchi e marchingegni che avrebbero, anche in
quella sera, garantito il suo successo. L’aprì e ne esaminò il contenuto. “C’è
tutto. Ottimo”.
Aprì nuovamente la
borsetta. Da una tasca laterale estrasse le scarpe, la lunga calzamaglia e
l’abito di Saint Tail. Un abito che non avrebbe per
nulla sfigurato nello spettacolo di punta di un casinò di Las Vegas. Un abito
perfetto per la sua missione. La sottile e aderente seta nera ricoprì la sua
pelle come un guanto. Il tutù rosa ne esaltò ancor di più la femminilità.
Ultimo tocco, i capelli. Saint Tail doveva il suo
nome a quella coda di cavallo, quel tipo di pettinatura agevole e
caratteristico divenuto in poco tempo un simbolo. Sciolse la pettinatura alla
Audrey Hepburn, “Grazie mamma, era stupenda!”, e intrecciò i suoi lunghi
capelli castani con il fiocco nero che
la contraddistingueva. Saint Tail era pronta.
Sebbene i fini di
Meimi fossero in tutto e per tutto gli stessi di
Saint Tail, qualche psicanalista prevenuto avrebbe
potuto riscontrare nella ragazza un principio di sdoppiamento della
personalità. Perché Meimi era insicura, pasticciona,
goffa. Nessuno dei suoi compagni avrebbe mai pensato di copiare da lei durante
un compito in classe. Da lontano qualcuno – che di donne non capiva niente –
l’aveva giudicata persino troppo cicciottella per piacere. Ma quando vestiva i
panni di Saint Tail l’insicurezza diventava quasi
spavalderia, la goffaggine abilità estrema, la testa svampita di una normale
sedicenne si trasformava in una mente geniale da scacchista sovietico, capace
di calcolare in pochi istanti centinaia di variabili e non sbagliare mai un
colpo.
Indossò
nuovamente gli auricolari e diede un’occhiata all’aggeggio, simile ad uno smartphone, che le aveva donato Seira.
I segnali GPS delle microspie che aveva installato sulla pelata di Auricchio e sul corpo di Asuka
junior erano forti e chiari. La polizia italiana, però, poteva contare in quel
frangente di un segnale GPS assai più interessante: quello che indicava, con l’approssimazione
di un metro e mezzo, massimo due, dove si trovava in quel preciso momento il
quadro del Paniccia. La tattica che Meimi scelse per quella serata fu dunque dettata della
necessità: avrebbe dovuto solamente seguire le forze dell’ordine e anticiparle
nel recupero del quadro. “Questa sera affronterò finalmente la Belva”. Meimi, nascosta in profondità sotto la seta nera del
vestito della prestigiatrice, stava piangendo come una fontana, ma in quel
momento la ragazza non era Meimi. Era Saint Tail. E per Saint Tail
confrontarsi con il senzadio più sanguinario del mondo era – o almeno, doveva
essere – ordinaria amministrazione..
«Il segnale del
GPS indica che il quadro si sta muovendo di nuovo. La Belva è ripartita», urlò
felice una voce dall’auricolare. Era De Simone. Tutto era andato secondo i
piani che la polizia italiana aveva messo a punto, grazie alla collaborazione
di uno psicologo cognitivista tedesco.
Riepilogando, Fracchia aveva lasciato il museo indisturbato: nessuno lo
aveva seguito. A bordo della sua Toyota viaggiava anche il quadro di Osvaldo Paniccia, che nascondeva, nei bordi della cornice,
invisibile all’occhio inesperto, un efficacissimo trasmettitore del segnale
GPS.
Quando la Belva decideva
di mandare avanti il Fracchia per un furto (il caso
VAFFA), solitamente si incontrava con lui dopo poco per recuperare il quadro,
il gioiello o il reperto storico agognato, e quindi se la dava a gambe. E quel
momento, secondo la polizia italiana, era appena arrivato. Il segnale del GPS
del quadro era rimasto immobile per alcuni minuti nel display del portatile di
De Simone, aperto ancora all’interno di una preziosa valigetta nera in pelle.
Poi, come uno di quei raggi laser con cui adoriamo far impazzire gli animali
domestici, il puntino rosso aveva iniziato a muoversi a velocità inaudita lungo
la mappa. Un puntino rosso che sembrava gridare: “Qui c’è la Belva, che
aspettate, piedipiatti?”
«Perfetto. Ora ci
muoviemo e andiemo a
prendere quel figlio di puttena. Mi reccomendo! Tutti quenti! Veloci»
gridò Auricchio.
«Non così in
fretta», sussurrò sorridendo Saint Tail dal suo
stanzino. «Uno, due…e tre!» schioccò le dita. La prima magia di quella serata. Nella sala
dell’arte femminile lappone degli anni ’60 del secolo diciannovesimo scoppiò il
putiferio. La giacca blu da cantante di balera del buon Asuka
junior si rigonfiò, come se qualcuno vi avesse infilato all’interno unodi quegli aggeggi che usano i giardinieri
pigri per soffiare via le foglie piuttosto che spazzarle con la scopa come i
cristiani fanno da secoli.
«Che diavolo?»
urlò Asuka. I poliziotti, i carabinieri e gli agenti
giapponesi che stavano imboccando l’uscita si bloccarono di colpo, sconvolti
dall’insolito spettacolo. La giacca continuò a gonfiarsi sempre di più, al
punto che il giovane detective pensò bene di liberarsene prima di venir
sospinto in volo dallo strano pallone. Intuì, e per una frazione di secondo,
ancor prima che il suo volto potesse assumere un’espressione adatta, provò
un’ondata di gioia indescrivibile. “Avevo ragione. Ci sarà anche lei”. La
giacca raggiunse il soffitto della saletta, e subito, con uno scoppio
fragoroso, confermò quello che Asuka aveva soltanto
intuito. Una variopinta pioggia di coriandoli ricoprì interamente la saletta,
tra le imprecazioni in stretto pugliese di Auricchio
e un «Ooooh!» di ammirazione di De Simone. Nel
turbinio di colori e stelle filanti, la giacca del ragazzo toccò il pavimento.
Integra. Non trovando il classico biglietto di sfida, Asuka
junior si fiondò sulla giacchetta. «Vediamo!». Raccolse quell’orrendo capo di
abbigliamento. «Nulla di strano». La rigirò. Ricamata sulla parte interna del
lato posteriore, l’unica in nero in quel mare di velluto blu elettrico, con una
scritta marcatamente femminile, la classica sfida: «Questa sera ruberò
l’Osvaldo Paniccia originale. St. Tail».
«Ve lo dicevo
sarebbe venuta anche lei!». Asuka quasi soffocò Auricchio nel tentativo di fargli vedere la giacca da
vicino.
«MADONNA
BENEDETTA!!!» tossì il commissario. «Passa qua!». Arpionò la giacca e sgranò
gli occhi.Alcuni istanti di silenzio
tesissimo, interminabile.
«De Simone»,
sospirò. «Tu lo sai il giapponese?». Sgranò gli occhi.
«Io no
commissario», replicò immediatamente, con la vergogna di chi stesse ammettendo
di essere stato lui, nel novembre 1978, ad aver rubato la marmellata di
albicocche dalla dispensa della nonna.
«NEMMENO IO!!!»,
urlò ricoprendo di ettolitri di saliva i poveracci che aveva davanti, «E ALLORA
CHE DIEMINE MI PASSETE A ME?».
«Dia qua», si
fece avanti un imperioso Asuka senior. «Sì», dichiarò
subito, «è lei. Saint Tail farà la sua comparsa
questa notte».
«Il che
significa», aggiunse AsukaDaiki
junior raggiante, «che anche questo quadro è stato rubato».
«MACCHEDIEMINE
STETE BLATERENDO?», sbraitò Auricchio. «Andiemo veloci se no la Belva ci scheppa».
«Ma Commissario», lo interruppe De Simone, «potremo avere a che fare questa
sera non solo con la Belva, ma anche con questa ladra!». De Simone, infatti, aveva
fatto i compiti a casa, e si era informato a dovere. Conosceva dunque i
precedenti fallimentari delle esposizioni nipponiche della Contessa. Terminate
tutte con la comparsa di un’enigmatica ladra prestigiatrice e con la riconsegna
di importanti opere d’arte ai loro legittimi proprietari. Come polizia avevano
le mani legate: poche prove, mancanza di certificati, testimonianze
discordanti. Saint Tail aveva bypassato tutto e tutti
e aveva, semplicemente, fatto giustizia. Il commissario sembrò tornare calmo.
«Dov’è adesso la
Belva?», chiese con pacatezza. «A dieci minuti da qui. A quanto pare sta
facendo un giro strano, rimanendo nei dintorni, per evitare i posti di blocco
che abbiamo posto nelle principali arterie della città». De Simone non era più
un vicecommissario italiano, era Google.
«Andiemo a prendere la Belva, una cosa per volta. Se altri,
tra cui questa Santa Tella, ci metterenno
i bestoni tra le ruote, penseremo anche a loro! Via!»
e puntò dritto verso l’uscita. I suoi uomini lo seguirono, fieri e baldanzosi.
Gli sprazzi di concentrazione che il loro capo aveva emanato più volte nel
corso della serata avevano aumentato in loro la fiducia per la buona riuscita
di quella che fino a poco tempo prima aveva solamente i connotati di un’impresa
irrealizzabile.
Ma a rendere
pressoché impossibile ad Auricchio e alla sua ciurma
l’uscita da quello strano stanzino l’entrata in scena di uno strano omone. Alto
quasi due metri, nella mano sinistra, aperta e distesa verso l’alto, teneva in
equilibrio un piatto da pizza bianco, con sopra il già apprezzato tris di primi
di Sergio e Bruno. Delle tre pietanze carboidratose,
solo gli spaghetti alla carbonara erano – per il momento – sopravvissuti, ma la
forchetta che l’omaccio teneva con la destra faceva
intuire chiaramente il destino di quei poveri listelli di grano duro ricoperti
di albume scottato. La barbona nera dell’omazzo, che
sfiorava le teste dei poliziotti più alti, era un campo di battaglia: in quella
foresta di peli neri dondolavano pezzettoni di carne
dell’amatriciana e resti di pajata. L’aspetto trasandato
e l’aria sognante lo rendevano assai meno minaccioso di quello che la sua mole,
la sua panza e i suoi muscolacci avrebbero suggerito
a un passante disattento.
«Rizzo!!! Meledetto! Adesso arrivi!!!”» sbottò Auricchio.
Eppure quel Rizzo[2],
che di Auricchio era collega e non sottoposto in
quanto anch’egli commissario, non osò protestare né alzare la voce. Disse solo
in sua difesa: «Controllavo le cucine, Auricchio». «Controllevi il chezzo», riprese
il commissario pugliese. Gli uomini – in particolare quelli provenienti dal bel
paese – assistevano muti a quello scambio di battute. Era uno scontro tra
Titani, anche se l’unico che poteva assomigliare a un titano, per altezza e
forza bruta, conosciuto da tutti solo come Piedone, pareva il più debole in quello
scambio verbale.
«Che facciamo,
Commissario?» Rizzo detto Piedone guardava in basso. E non lo faceva perché Auricchio si trovava a settanta centimetri più in basso di
lui, ma proprio perché non riusciva a nascondere uno strano senso di colpa e di
vergogna. Come un bambino che pudicamente si accusa di aver rubato la
marmellata con tutto il corpo e con ogni espressione possibile, pur non
arrivando a farlo esplicitamente con la voce, in un mondo magari in cui tutti i
suoi coetanei fanno esplodere – come minimo – i gatti randagi legandoli a dei
petardi. E guardandolo, un bambino lo sembrava proprio: non era stupido, né
tantomeno ritardato, ma tradiva una purezza, una pacatezza e un candore che in
società come la nostra possono persino diventare una colpa.
«Vabbene. Te nemmeno ci stai in mecchina.
Rimeni qui, Rizzo, nel cheso succedesse quelcosa. Noi abbiamo la questione in pugno!», dichiarò Auricchio, superando il gigante e iniziando la marcia
trionfale. Piedone non ebbe nulla da ridire. Nonostante tutto, si fidava dei
suoi colleghi romani e nutriva una stima spropositata per tutta la task force creatasi per quell’operazione transcontinentale. Non
conosceva bene la vicenda della Belva umana: Rizzo veniva dall’antidroga, e
sempre di droga si era occupato, fin dal suo ingresso in polizia. E la Belva di
tutto si occupava, meno che della droga. Non che avesse, ovviamente, scrupoli
morali, ma buttare via tempo per via di traffici così veniali, così comuni,
così – avrebbe commentato quel bastardo figlio di buona donna – banali, non era
cosa da lui. Meglio le opere d’arte, i gioielli, e i delitti eccellenti. Per
tutto questo, meno di cinquanta ore prima, Rizzo accolse aggrottando le ciglia
come un bambino imbronciato quella convocazione del capo della Polizia, ma, da poliziotto
qual era, obbedì. Ritornare nelle cucine degli ormai affranti Sergio e Bruno
gli parve – dunque – un’ottima risoluzione.
«Verso le auto!»
urlò qualcuno, ignorando Piedone e tornando con la mente alla missione di
quella sera. I tappeti rossi del lungo corridoio ricoperto da velluto vennero
calpestati da una caserma intera di grossi arnesi che non si sarebbero fatti
fermare nemmeno da un bulldozer. Alle loro spalle, come un cucciolo d’elefante
rimasto ai margini di una mandria di pachidermi dalla scarsa pazienza,
scalpitava Asuka junior. «Saint Tail
la catturerò io!». Provò a saltare in groppa a un carabiniere, proveniente da
un reparto di corazzieri e dunque altro 2 metri e mezzo, per osservare l’intera
scena. «La ragazza è mia!» gridò.
«Sì, sì», mormorò
il brigadiere Giovanni Esposito accendendosi una sigaretta, «la ragazza è tua,
certo». Ma nella sua testa c’era spazio solo per le immagini degli omicidi
efferati della Belva, capaci di rivaleggiare con gli orrori in cui si era totalmente
immerso in medio oriente.
Le forze
dell’ordine corsero verso il parcheggio: tra le decine di Maserati, Lamborghini
e Rolls-Royce, spiccavano sospette alcune Nissan Skyline della polizia
giapponese e alcune Toyota noleggiate per l’occasione da poliziotti e
carabinieri italiani. A guardarli con un sorriso, tra i rami di un’alta Cryptomeria[3],
Saint Tail, pronta a seguirli come un segugio. “Saranno
loro a condurmi al quadro”, confermò a sé stessa con sicurezza. Ma di sicurezze
ne aveva assai poche. Perché diamine la Belva doveva sottrarre, con un colpo
così spavaldo, nel bel mezzo di un galà internazionale, un quadro che lui
stesso aveva rubato poco prima? Che logiche nascondeva quel Maramaldo? E che
ruolo avrebbe giocato quell’inetto del suo sosia?
“E se fosse una
trappola?” si domandò. “No. Il sosia è partito con il quadro, lo hanno visto
tutti”, si calmò, “ed è una tattica che ha già usato”. Forse era troppo
spavaldo con la polizia italiana? Non lo sapeva. Ma sapeva ci era. Sapeva cosa
era stato in grado di fare. Quella sera avrebbe affrontato la malvagità più
nera. Non l’ingordigia di qualche ereditiera, non le bugie di qualche piccolo
truffatore, né tantomeno la stupidità di qualche ladruncolo da strapazzo. Ma il
male in persona. Il male perverso che tocca le profondità più oscure dell’anima
ma che allo stesso momento parla con un linguaggio forbito, seduce con quegli
occhi di ghiaccio e con un fascino oscuro. Un male che non si limita a far
soffrire, ad uccidere, a strangolare le proprie vittime, ma che le trascina in
basso e le corrompe nei baratri più oscuri della perversione.
“Non importa”,
disse a sé stessa in quella che sembrava una preghiera, “non conta quanto sia
grande l’ostacolo da superare. Alla fine la giustizia vincerà sempre. In questo
mondo o nell’altro”. E scomparve nella notte, saltando da un albero all’altro
come una ninja provetta. Nelle orecchie il suono delle sirene, attaccate
all’accendisigari e fissate con un gancetto sul tettuccio delle auto. Nella
mente la missione da portare a termine, ripassata interiormente e imparata a
memoria come un Ave Maria. Nelle tasche interne, sotto il tutù rosa, un
armamentario di trucchi magici di tutto rispetto, per confondere il nemico e
rallentare gli onesti funzionari della già lenta giustizia di stato. Nel cuore
un turbinio di emozioni contrastanti, riflessi di un abbraccio a una giacca blu
durato molto più del tempo necessario per attaccarvi una microspia e un po’ di
stelle filanti esplosive. Ma ancora troppo poco.
Le 22 erano
passate da pochi minuti. Tardissimo, per una suora. Specie per una novizia. Ma non
si trattava ancora di un orario così scandaloso da venir presa a manrovesci
dalla superiora.
E poi suor Seira non dava fastidio a nessuno. Anzi, qualcuno l’avrebbe
anche lodata, se, dopo la Compieta[1]
alle nove di sera, non si era fiondata tra le coperte come quasi tutte le sue
consorelle. Se ne stava seduta alla scrivania della sua celletta, intenta a
ripassare un interminabile tomo di Storia della Chiesa, che doveva imparare a
memoria in vista di un esame importante. Preferiva di gran lunga le materie che
le scaldavano il cuore, come la Parola
di Dio o qualche trattato di spiritualità, eppure, non di rado, nascosti tra le
pagine – anche quelle più cupe – della storia della Chiesa, scopriva esempi
eccelsi e testimonianze illuminanti che la ispiravano, la spingevano a fare
sempre meglio. Chiuse il tomo con un colpo deciso e una piccola nube di polvere
si sollevò dallo scrittoio. Seira si alzò dalla
sedia, diede un sospiro profondo, si tolse il velo che le cingeva la fronte e
si lanciò, come una qualsiasi ragazzina di sedici anni con la mente intrisa di
pensieri, sul suo soffice letto. A pancia in giù, coccolata dalla tiepida
freschezza delle lenzuola pulite e profumate di lavanda, abbracciò il cuscino e
volò con la testa in mille pensieri. Due minuti così poi avrebbe trovato la
forza di indossare il pigiama e strisciare sotto le coperte, in vista della
sveglia delle cinque, l’ufficio delle letture (il vecchio mattutino), le lodi e
la messa. L’ultima delle sue preoccupazioni, in quel momento, era Meimi.
Certo, aveva
pregato per lei un’ora intera dinnanzi al Santissimo, e nel salmo doloroso
della Compieta di quel venerdì si era riflessa nei dolori, nella paura, nel
dubbio che la sua amica doveva affrontare ogni volta per far trionfare la
giustizia. Ma non era per nulla preoccupata. Perché Saint Tail
era Saint Tail. Di colpi ne avevano architettato a
dozzine e tutti erano andati bene. Perché stare in pensiero dunque?
Poteva sembrare
addirittura paradossale. Ma per una sedicenne che aveva lasciato la famiglia,
aveva fatto una promessa perpetua e aveva puntato fino al suo ultimo spicciolo sul
tavolo del casinò pascaliano[2],
essere la complice di una rinomata ladra era forse l’avventura meno
emozionante. Per lei quel riparare i torti in combutta con la sua migliore
amica era un servizio rischioso sì, ai limiti della moralità anche, azzardato
persino, ma non era poi così tanto diverso dall’accompagnare i bambini dell’asilo
al mare o far volontariato tra le vecchie carampane in ospedale.
Distesa a pancia
in giù sul suo letto, il profumo di lavanda riempiva tutta la sua testa. Lodava
suor Tomoko, la lavandaia, per quello speciale tocco
femminile anche nei mestieri più banali che nei monasteri maschili si sognano.
Anche se – da quel che si raccontava – lì si mangiava molto meglio.
La scrivania
iniziò a tremare. Seira aprì un occhio prima di
accorgersi che non era la sua piccola scrivania a tremare, ma il suo cellulare,
sempre in modalità silenziosa, che vi era sopra riposto. La novizia si alzò in
piedi in velocità: quel telefonino, infatti, quando vibrava, non era più un
Sony Ericsson, era una Micro Machine capace di
raggiungere velocità da punti in patente. Afferrò dunque l’apparecchio prima
che questo, a furia di vibrare, le si sfracellasse nuovamente a terra, come
soleva – o come pareva gli piacesse – fare.
«Pronto, Seira!» Non lesse nemmeno il nome o il numero del
chiamante, ancora in preda all’adrenalina di quella brusca interruzione del
dormiveglia.
«Suor Seira. Da quel che mi risulta», una voce maschile, pacata,
già sentita. Ma chi era? “Oh mio Dio”. «Mi scusi Eccellenza, non l’avevo
riconosciuta», e si inchinò vistosamente, nonostante nessuno, a parte il
Signore, avesse potuto vederla in quel momento nel segreto della sua celletta.
«Non
preoccuparti, carissima», continuò sereno il Vescovo dall’altro lato della
cornetta, «ti chiamo per domandarti se per caso la tua amica Meimi, quella di cui mi parli così spesso, avesse voluto,
questa sera, diciamo», tossì, «compiere un atto di carità». In quel momento la
giovane religiosa non si sentì per nulla a suo agio, ma il vincolo
dell’obbedienza al quale aveva accettato di sottostare la costrinse a rivelare
piani che avrebbe volentieri tenuti segreti.
«Sì, Eccellenza»,
respirò profondamente, «La Contessa italiana, conosce? Quella famosa[3].
Insomma, sta presentando un quadro di recente acquisizione al Minato Art Museum. Quello a cinque minuti dal nostro convento. Oggi si
è presentato in chiesa da noi il legittimo proprietario di quell’opera d’arte,
il pittore in persona. È l’unica cosa di valore che ancora possedeva e che
voleva lasciare in eredità ai figli e ai nipoti. Pensavamo», quasi si
giustificò come si trattasse di un peccato per un’azione che il Vescovo aveva
già dimostrato di gradire, «di riportare quel quadro al pover’uomo. Cosa ne
pensa?» Era agitatissima. Avrebbe desiderato solo un “ok”, oppure un “va bene”.
Insomma, un atto di approvazione che le ricordasse come l’endorsement
del prelato non fosse solo un’invenzione del suo cervello.
«Peccato»,
replicò il Vescovo al telefono, facendo letteralmente sbiancare Seira, che si sentì mancare la terra sotto i piedi. «Un
vero peccato», insisté l’anziano pastore, «siete state anticipate!». La
religiosa non ne fu particolarmente fiera, ma tirò un sospiro di sollievo da
Guinness: “Non ce l’ha con me, anzi…” poi però
trasalì, quasi urlando alla cornetta e dimenticando di avere dall’altra parte
del filo il capo supremo della sua diocesi: «Come anticipate?».
«Se te lo dico,
carissima sorella Seira», continuò il Vescovo con
gentilezza, «è perché sono proprio qui al Minato Art Museum
e la scena l’ho vista con i miei occhi. Una persona si è presentata armata e ha
preso quel quadro. Mi dicono si tratti di una certa Belva…»
Seira lo interruppe: «State bene?». «Sì», continuò
leggermente imbarazzato il prelato, che non si aspettava domande personali,
«non ha fatto del male a nessuno. Beh, a parte rapire la vedova del TozamaDaimyo, speriamo stia
bene. Non riesco a darmene pace».
«La Belva? È
sicuro?», insistette Seira, che si dimenticò di
parlare con Vescovo. «Sì, perché? Io chiamavo solo per domandarti di Meimi, dato che né io né suo padre riusciamo più a
trovarla», rispose possibilmente ancor più imbarazzato.
«È impossibile
possa trattarsi della Belva Umana», continuò la religiosa “Meimi
se la caverà benissimo da sola”, «la Belva è l’artefice dei furti della
Contessa! Tutte le opere d’arte che abbiamo restituito ai proprietari, dopo
essere state trafugate da quella donna, erano state sottratte dalla Belva!».
«Oh…beh…», si fece serio il Vescovo.
«Questo cambia tutto». E rimase in silenzio per venticinque interminabili
secondi. «Cosa può fare Meimi allora?».
«Se conosco la
mia migliore amica», continuò Seira, ormai sicura nel
parlare, «si sarà fiondata a recuperare il quadro». «Ora capisco», si dimostrò
più sicuro l’anziano pastore, «avrà seguito tutti quei poliziotti appena
partiti. Da quel che ho sentito», si incupì, «però, dicono la Belva sia un
sanguinario feroce».
«Il peggiore di
tutti», confermò Seira, «ma Meimi
non avrà problemi a recuperare quel quadro». In effetti,la fiducia che la
religiosa nutriva nei confronti della ragazza era di gran lunga superiore a
quella che Meimi aveva per sé stessa.
«È ammirevole la
tua fede, suor Seira», riprese il Vescovo, «ma anche
la prudenza non è mai troppa», la ammonì dolcemente.
«Dunque?»,
domandò, di nuovo timida, la religiosa. «È chiaro che qualcosa stia bollendo in
pentola. Rubare un quadro già rubato? Non lo farebbe nemmeno un ragazzino…» il prelato continuò coi suoi pensieri ad alta
voce per un bel pezzo.
«Cosa possiamo
fare, dunque?», alla fine sbottò Seira. «Carissima,
tu torna pure in chiesa e chiedi al Signore di darci una mano. Esco dal bagno e
torno di lì, avverto Hikamura e Tokigawa[4],
di fare attenzione. Staremo lì con gli occhi aperti. È l’unica cosa che posso
fare. Mandami per sicurezza il numero della tua amica Meimi.
Ha il cellulare con sé mentre, diciamo… agisce?».
«Ha un numero
speciale che conosco solo io. Ve lo mando immediatamente via sms!» si fece
trovare pronta Seira, ignorando totalmente il
dettaglio di come, per tutta la durata della conversazione, il vecchio Vescovo
si trovasse all’interno della toilette del museo. «Ottimo. Forse sono io che mi
preoccupo troppo. Ma tu, carissima, perdona le idiosincrasie di questo vecchio,
e prega anche per me, di fronte al Santissimo! E sta’ allegra. Niente ci può
separare dall’amore di Cristo, ci diceva san Paolo!»
«Lo farò
sicuramente. Pregherò per tutti voi, Eccellenza», e spense il telefono.
Raccolse il velo che si era tolta e si cinse nuovamente la testa. Aprì la porta
della sua cella e si incamminò verso la cappellina
del convento.
“La mia fede è ammirevole… ma anche la prudenza non è mai troppa”. In
testa si ripeteva le parole che gli aveva rivolto per telefono quel successore
degli Apostoli. “Forse mi fido troppo di Meimi? Sono
troppo sicura che le andrà sempre tutto bene?” Effettivamente negli anni la sua
mente l’aveva dipinta sempre di più come una super-eroina, una donna
infallibile. Una santa, per l’appunto. Ma Meimi
rimaneva Meimi, quella sua compagna di scuola
pasticciona, con qualche chiletto di troppo e un po’
timida.
E dunque i
racconti delle efferatezze della Belva (delle quali, per sua fortuna, non aveva
mai visto, a differenza di Meimi e Asuka, le immagini), assunsero nuove connotazioni, più
cupe. Non erano più delle manifestazioni generiche del male alle quali
contrapporre un altrettanto efficace manifestazione del bene, come Saint Tail, ma il simbolo dell’opzione che aveva per titolo: “E
se andasse male…”
Non accese
nemmeno la luce. Ad illuminare il tabernacolo e la croce ci pensavano due
candele e una lampada ad olio ancora accese. Si inginocchiò per terra di fronte
all’Eucaristia e offrì, nuovamente, tutta sé stessa, in quella canzone d’amore
che chiamava vita. E con il profumo di lavanda col quale si era inavvertitamente
intrisa pareva un altro fiorellino di fronte al tabernacolo.
-
Capitolo
breve, e forse un po’ al di fuori del filone principale. Ma mi è piaciuto
scriverlo e mi è piaciuto anche leggerlo. Lasciatemi un commentino. Mentre
pubblico questo capitolo – il numero 29 – mi accingo ad iniziare il capitolo
38. Un buon margine, direi, ma dati gli impegni lavorativi, le serate tutte occupate,
la testa che a volte vaga di qua e di là, non posso promettere la pubblicazione
settimanale di questa fic. Pubblico man mano che vado
avanti con la storia. Lasciarmi dei capitoli “scoperti” mi permette di poter
fare qualche modifica anche tanto tempo dopo aver buttato giù un brano, darmi
maggior sicurezza per l’avanzamento della storia e mille altri scrupoli che mi
pongo.
Non
preoccupatevi: per quanto il futuro non mi appartenga credo proprio che porterò
a termine, prima o poi, questa fiction, che credo raggiungerà (o supererà di
poco) i 50 capitoli. Potrei finirla per Natale (improbabile), per la Primavera
inoltrata (molto probabile) o per dopo ancora. Non lo so. So che questo gioco
mi sta dando tanto, non solo perché mi fa capire quanto mi piaccia scrivere e
incanalare in qualche modo una creatività che mi è utile anche a fini
professionali, ma anche perché mi permette di salvare su carta, graziate dal
camuffamento sotto forma di racconto inventato, alcune – chiamiamole – “idee”
per me molto importanti a questo punto del mio cammino.
Ringrazio
tutti per la cortesia e per la grazia che mi fate di continuare a “giocare” con
me, tra i trucchi di Saint Tail, i “dilemmi di quelli
di Asuka”, le parolacce di Auricchio,
la fede del Vescovo, lo strano odore dolciastro degli smoking (in tutti i
sensi) di Genichiro e la sfiga del Fracchia, in questo magico venerdì notte di una stellata
sera giapponese.
Fumare in
macchina è una delle più grandi carognate che si possano fare. Non solo perché
obblighi chi ti sta vicino a beccarsi profonde zaffate di materiale cancerogeno,
ma soprattutto perché rovini per sempre gli interni della tua quattroruote impregnandoli di smog, nicotina e catrame. E
trovare qualcuno che te la compri usata diventa un’Odissea.
Per questo Asuka junior odiava stare in auto con suo padre, un
termovalorizzatore umano, eppure, quel particolare giro non se lo sarebbe perso
per nulla al mondo.
«AsukaDaiki junior, questa è
l’ultima volta che te lo ripeto», decretava severo il poliziotto giapponese, «Quando
arriveremo tu resterai qui in macchina. Hai già corso abbastanza rischi per
questa sera…». Le mani fisse sul volante, gli occhi
sulla strada. Non lo guardava per un mero scrupolo di prudenza o perché non
aveva il coraggio di fissarlo in volto?
«Ma Saint Tail interverrà anche questa sera!» insistette Asuka junior, «io devo essere lì. Il sindaco mi ha…»
«Il sindaco ti ha
nominato detective per il caso Saint Tail perché hai
pressappoco, forse, la sua età, e puoi entrare meglio nella sua testa. E io non
ho avuto obiezioni perché Saint Tail è solo una
fuorilegge. Non è una criminale. Non rischi con lei». Sputò fuori in velocità Asuka senior, continuando a fissare la strada. Davanti a
lui le auto della polizia. Dietro anche. Non avevano ancora voluto accendere le
sirene per evitare di dare nell’occhio, ma entro pochi istanti sirene e
lampeggianti avrebbero annunciato al mondo una delle più grosse operazioni anti-crimine
della storia del Giappone.
«Ma papà, io devo…» insistette. «Devi non fare sciocchezze», tagliò
corto il padre, «Saint Tail è un’esca che ci aiuta a
catturare dei criminali. E qui si parla della Belva Umana. Non mi piace come
sta andando questa faccenda. Non mi piace per niente…»
nella sua testa i dubbi e le perplessità che attanagliavano in quel preciso
istante anche una certa ladra ragazzina e un certo Vescovo della Chiesa
Cattolica.
«Ma se Saint Tail…» continuò Asuka junior, ma
suo padre era pronto a tutto. «La Belva ha priorità su Saint Tail, ricordatelo. E la cattura di quel criminale ha la
priorità su quel quadro». Superarono un cavalcavia. Dalle ricetrasmittenti dei
canali criptati della polizia si rincorrevano i «Stetechelmi» ed i «Ora lo freghiemo»
ripetuti come un mantra tibetano da Auricchio.
Nel cuore di Asuka tornò quel senso di inutilità che spesso lo avvolgeva
quando aveva a che fare con gli adulti. “Che ci faccio io qui in mezzo a questi
poliziotti veri?”. E se qualcuno gli avesse letto il curriculum di alcuni di
quegli uomini che erano con lui quella sera, si sarebbe sentito ancora più a
pezzi. Ovvio che a sedici anni non si può essere un eroe decorato di Nassirya come il carabiniere Esposito, né un poliziotto con
dieci anni di esperienza come casco blu dell’ONU come Yamaguchi,
ma di nuovo la consapevolezza di non essere utile in alcun modo prese il
sopravvento, gettando nello sconforto il giovanissimo detective. Non che
avrebbe desiderato di scendere dall’auto e tornarsene a casa in autobus:
l’occasione era troppo ghiotta e importante non solo per “farsi notare”. Ma anche
per imparare qualcosa. Nella sua futura carriera di uomo di legge non ci
sarebbero state, ovviamente, solo ladre dolci e avvenenti come Saint Tail. Eppure quella sera troppe cose gli balenavano in
testa per godersi quella strana “scuola di polizia”.
Un altro pensiero
gli sconvolse, nel giro di un secondo, l’anima, come una tagliola arrugginita
che improvvisamente ti azzanna una caviglia. Asuka
junior si rese conto che anche Saint Tail era in
pericolo. Già. In pericolo, pronta a sfidare, armata di tutù, carte da gioco e
coriandoli uno come la Belva Umana. E la Belva Umana odiava farsi sfidare. I
pochi che lo avevano fatto apertamente, a parte Auricchio
e De Simone, erano finiti dentro i piloni di cemento della Salerno – Reggio
Calabria. Cosa gli garantiva che quella sera la sua Saint Tail,
quella sua avversaria così nobile, così onesta, “così bella” non facesse la
stessa fine di Anne e BabetteBrown?
Aveva temuto per Meimi, poco più di una mezz’ora
prima, ma Meimi era dolce e indifesa. Saint Tail, invece, non avrebbe temuto né pistole né coltelli. Ne
era sicuro. Eppure quel tarlo gli si innestò nel cuore, e si vergognò di aver
così tanto desiderato, per quella sera, la comparsa della sua rivale. “Con quei
capelli castano chiari e quel profumo di vaniglia”.
Passarono sotto
un altro cavalcavia. Qualche sparuta nuvola comparsa dal nulla si mise a giocare
con la luna, nascondendola e mostrandola nuovamente ogni manciata di secondi. Sopra
un cartellone pubblicitario, con la velocità della luce del lampo, un’ombra
nerissima apparve e scomparve. Lo stesso gioco pochi istanti dopo sopra il
tettuccio di un camion. Poi su quello di un’auto, più avanti. Keiko Roppongi, trentenne impiegata entrata
psicologicamente nei bagordi del weekend, credette di
aver visto l’immagine di una ragazza con un lungo codino castano, ma imputò la
visione alla birra di importazione da
otto gradi che si era appena scolata.
Dalla
ricetrasmittente un altro avviso di Auricchio: «De
Simone garantisce che tra cinque minuti arriveremo a contetto
con la Belva!». Una voce più tenue gli si contrappose: «Sette minuti,
commissario!». «Maledetto disgrezieto!» e la
comunicazione si interruppe.
Suo padre non
resse il lungo silenzio del figlio, e provò a tirare fuori un argomento di
conversazione. Avrebbe potuto parlare di baseball, avrebbe potuto parlare di
calcio. Avrebbe potuto persino domandargli come era andato quell’ultimo compito
in classe di fisica, o quell’interrogazione di letteratura giapponese. Invece
scelse di fare una domanda diretta, imbarazzantissima,
come fanno tanti padri ai loro figli, dimenticandosi di aver avuto sedici anni
anche loro. «Così, hai cenato con quella tua amica, stasera. Com’è?».
«Chi? Meimi-chan? Io…» arrossì come Auricchio prima di un infarto miocardico e guardò in basso,
per accorgersi dei tappetini in pelle nuovi. Il suffisso “chan”
l’aveva tradito. A questo punto AsukaDaiki senior, avendo avuto, qualche anno prima, anche lui
sedici anni, aveva compreso tutto. Ma poiché era passato proprio tanto tempo da
quando aveva avuto quell’età, si dimenticò come ci si sente quando qualcuno ti
fa una domanda del genere a bruciapelo ed insistette per ulteriori particolari.
«Carina, eh?»
ammiccò con un’espressione più consona ai dotti ragionamenti dei quarantenni della
palestra che frequentava che all’inseguimento di un ricercato internazionale.
«Papà, che dici? Non c’è assolutamente niente», mentì sapendo di mentire Asuka junior, «ora dobbiamo pensare a Saint Tail», disse dimenticandosi della Belva. Meimi. Saint Tail. “Oh. Diavolo.”
Forse, per la prima volta, si accorse lucidamente di essere perdutamente
innamorato di due ragazze diverse. La mente si arrese al cuore. O meglio,
avrebbe pensato così un qualsiasi frettoloso osservatore esterno. In realtà, le
cose erano assai più complesse. Succede a tutti. Perché il cuore è un artista
romantico. Uno di quei bohemienne senza patria né
famiglia che, portati a vedere i Fori Imperiali, rimarranno tutta la giornata a
fissare una margherita spuntata per caso nel bel mezzo un’aiuola. Il cervello,
invece, è uno scienziato. Metodico, preciso, sistematico, a tratti, lo si deve
riconoscere, anche geniale. Ma nulla più. Quando lo scienziato, che è la mente,
decretò dentro Asuka: “Ok cuore. Hai ragione. Questo
stupido ragazzino si è innamorato di due donne”, quella che apparentemente per
la materia grigia rappresentava una sconfitta si trasformò in un dannoso passaggio
di consegne. Il cuore, riconosciuta la vittoria, fu costretto a cedere la
“pratica Meimi/Sant Tail”
al cervello, che iniziò a rimuginare, pensare, farsi venire sensi di colpa,
indagare sulle origini di determinati sentimenti mettendo in mezzo teorie,
frasi sentite dire, idee di sé completamente sbullonate, sindromi e disturbi
mentali sentiti in giro. Lo scienziato, insomma, strappò quella timida
margheritina di cui l’artista si era invaghito nei Fori Imperiali e la portò
nel suo triste laboratorio. La pesò, l’analizzò, la tagliuzzò. Della margherita
originale non rimaneva niente: del sole che la illuminava, dell’occhio
dell’artista che la ritenne bella, della terra che gli dava nutrimento. Solo
una serie inconcludente di dati e analisi chimiche che non servivano a nessuno.
È un fenomeno vecchio come il cucco: le pippe
mentali. Asuka non replicò ulteriormente a suo padre,
troppo impegnato a farsi teorie su Meimi, Saint Tail, la madre morta, la timidezza, la legge, il sindaco,
l’istinto, la ragione, la sessualità, la scuola, l’odore di vaniglia e suo
padre. Ma quella dannatissima risposta che il suo cervello stava cercando era
vicinissima, maledettamente vicina: bastava chiedere all’inquilino del piano di
sotto, il cuore, che già sapeva tutto. Del resto, però, chi si rivolge a un
pezzente artista bohemienne che passa le giornate ad
annusare le margherite?
Nulla avrebbe
potuto distogliere Asuka da quel suo sano esercizio
di onanismo mentale. Niente e nessuno. A parte Auricchio.
«Occhi aperti
gente. Tra due minuti», «Tre!» precisò De Simone, «Tre minuti dannezione De Simone, ai deficienti come a te dovrebbero derli in pesto ai leoni...». Auricchio
tossì. «Quando arriviemoarriviemo.
Il punto è un altro, maledizione. Alcuni uomini hanno visto qui attorno saltellere una reghezzina…». Asuka junior si riscosse e saltò sul sedile come se
qualcuno gli avesse sparato una taserata[1],
«Mi raccomendo, la massima attenzione! Per quel che
ne sappiemo quella reghezzina,
Sant’Eustella[2]
potrebbe benissimo essere una complice della Belva!!!».
“No”. La
reazione, all’interno della mente di Asuka jr, già
gravata non dalle seghe, ma dalle motoseghe a nastro mentali, fu pacatissima.
“Non è vero. Saint Tail non è mai stata complice di
nessun ladro o malavitoso, ma ha sempre infranto la legge per fare del bene e
riparare dei torti. Va fermata in quanto punibile dalla legge, ma mai e poi mai
collaborerebbe con un criminale come la Belva. Per quali scopi poi? Basta
domandare a qualunque poliziotto/giornalista/esperto/psicologo giapponese che l’ha
seguita. Affermerebbe serenamente che Saint Tail non
si schiererebbe mai dalla parte di un criminale convinto come l’italiano che
chiamate Belva Umana”. Peccato che Asuka non usò
queste parole. Si attaccò al microfono dell’auto di suo padre e comunicò,
pressappoco, il discorso che aveva pensato. Ma usò delle espressioni un po’
diverse da quelle riportate qui sopra.
Il fatto che Asuka senior quasi sbandò con l’auto e che dalla
ricetrasmittente, per alcuni secondi, non arrivò nulla tranne che un silenzio tombale, dimostrò che forse – quelle
parole – in quella particolare forma – era meglio se non le pronunciava.
Dopo alcuni
istanti di silenzio, giunse anche la reazione di Auricchio:
«ASUKA SENIOR. GIURO SU DIO CHE SE VUOI EVITERE CHESINI DOPO, QUENDO CI FERMIEMO, DEVI CHIUDERE QUELL’IDIOTA DI
TUO FIGLIO DENTRO LA MECCHINA E IMPEDIRGLI DI USCIRE».
«Ma papà!» urlò
il ragazzo, che con l’occhio cercava di guardare a destra, a sinistra, in alto
e in basso nel tentativo – nella speranza – di intravedere il tutù rosa della
sua avversaria, «Conosci come opera Saint Tail! Ti
pare che si metterebbe a collaborare con uno come la Belva?», protestò, prima
di tirare fuori il colpo da maestro, un asso dalla manica che gli avrebbe
permesso di vincere ogni battaglia dialettica: la missione. «Hanno detto che
vogliono la Belva, giusto? E che il quadro non è importante? Se si metteranno
ad inseguire Saint Tail la Belva potrebbe
approfittarne per sfuggire!». Suo padre tacque.
«Quando
arriveremo, figliolo», riprese un minuto dopo, «è meglio se tu rimani in
macchina». Non si voltò nemmeno a guardarlo. Non avrebbe forse dovuto perdere
le staffe con Auricchio? Il commissario della polizia
giapponese era deluso di lui? «Non ne combino una giusta», si riaccusò ad alta
voce, prima di tornare a martellarsi nei suoi deliri di autodistruzione
mentale. Non sarebbe stato di nessuna utilità quella sera. Dentro la scatola
cranica del ragazzo, quelli di Asuka[3] erano
impegnati in una serena riunione. Marlowe piangeva rannicchiato in un angolino,
Spade, col suo tablet, visionava siti web non raccomandabili “Tanto sto qui non
combinerà mai nulla”, Watson misurava la resistenza del muro della sala d’incontri
con capocciate alla Zidane che staccavano, ad ogni
impatto, pezzi d’intonaco che cadevano a terra mentre Harper, signorilmente ancora
seduto al suo posto in un’alta poltrona in pelle, accarezzava la canna di una Colt da collezione, carica e senza sicura, cercando il
coraggio per infilarsela in bocca e mettere fine a quello scempio.
“Si fida ancora
di me”. Qualcun altro aveva sentito le ultime parole del ragazzo, oltre a suo
padre. “Grazie, Asuka-chan”. Sorrise. Saint Tail seguiva la colonna di volanti della polizia
saltellando tra un’auto e l’altra, veloce come una ninja. Nell’orecchio
sinistro, fissato con una molletta, uno degli auricolari del sistema donatagli
da Seira. Non si stava stancando più di tanto: il
trucco era quello di tenere sott’occhio la colonna di auto trovando una comoda
sistemazione sul tettuccio di un camion. Poi, quando i veicoli dei poliziotti
giapponesi e italiani si allontanavano, andando molto più veloce del traffico
normale, recuperava la distanza: pochi salti ed era di nuovo in testa al
gruppo. La ragazza si teneva aggiornata ascoltando il flusso di informazioni
che poteva trarre delle microspie collocate su Asuka
junior e su Auricchio e dalle frequenze con cui
uomini di legge giapponesi e italiani si scambiavano le loro comunicazioni.
Quasi tremò, quando, dal tettuccio di un SUV, si accorse che i fari delle auto,
illuminando la pelata del commissario italiano a bordo di una distinta berlina,
metteva in risalto, unico punto nero di una sfera tendente al bianco, la cimice
che gli aveva incollato. Sperò che De Simone, seduto in un sedile posteriore a
fianco del suo capo, non la notasse: del resto, non muoveva gli occhi da quel
puntino rosso sul suo notebook. La Belva Umana. Saltò di lato per salire sul
tettuccio di un camion che veniva dal senso opposto, prese lo slancio e si
ritrovò sopra una piccola utilitaria: saltò di nuovo ed era al sicuro su un
furgoncino di un lattaio. Il codino svolazzava, mosso dal vento e dalle
velocità dei veicoli, come la coda di una cometa. Si chinò nuovamente. La
colonna delle forze dell’ordine aveva appena imboccato la strada principale.
Cosa la rendeva
così atleticamente straordinaria?
Ancora lattante,
appena aveva capito che l’essere umano è un animale bipede e aveva deciso di
comportarsi di conseguenza, sua madre, nel gioco, le aveva insegnato a correre
veloce, a saltare in alto, a muoversi silenziosamente. E poi, corsi su corsi:
ginnastica artistica, atletica, corsa campestre. Maquasi tutto l’aveva appreso da sua madre. Da
quei strani “giochi”. Con Eimi si arrampicava sugli
alberi, sui tetti, e poi, verso gli otto anni, imparò a saltare da un tetto di
una casa all’altro. Tutto questo, rigorosamente, di notte. Soprattutto
d’estate, lontano dagli occhi del papà. Da bambina aveva raccontato a grandi
linee, a qualche sua amica e a qualche maestra suora, questi suoi “giochi”. Le
bambine l’avevano presa per pazza, le suore, conoscendo molto bene i bambini,
avevano attribuito la colpa di quei racconti così improbabili alla spiccata fantasia
di una bambina di quell’età. Ma era tutto vero. Crescendo si era fatta delle
domande: non più di tante, però. “Perché?” Forse sua madre era l’erede di una
qualche scuola di ninjutsu o di qualche strana arte
marziale, tipo quegli strani Tendo e Saotome che abitavano
in fondo alla strada, sempre sulla bocca delle vicine pettegole? Forse. Poi,
però, all’età di 14 anni, venne a sapere la verità: sua madre, da ragazza, era
stata anche lei una ladra funambolica. Ma rubava per sé stessa, non per gli
altri. Meimi non le aveva mai rivelato la sua seconda
identità, ma ne era ormai quasi sicura: sua madre sapeva di lei, di lei e di
Saint Tail. Ma erano pensieri lontani in quel momento.
“Non appena metto
le mani su quel quadro, lo aggiusto io”. Si ripeteva. “Devo dimostrare che la
giustizia trionfa sempre”. Non voleva solo recuperare il quadro. Il suo piano
prevedeva di appropriarsi del Paniccia originale e
poi consegnare su un piatto d’argento, imbavagliato da decine di metri di
fazzoletti colorati, il feroce criminale alla polizia giapponese, se ne avesse
avuto la possibilità.
Schivò con un
balzo felino un segnale di svolta e si riadagiò sul tettuccio del furgoncino
del lattaio. Uno che aveva una fretta bestia, dato che correva come un dannato.
Saint Tail ne era entusiasta. “Posso rimanere qui
sopra più a lungo”. Il traffico in quel tratto di strada sembrava aumentare.
Stavano – non capiva perché – tornando verso il centro abitato. A poco meno di
tre chilometri il grosso fiume, attraversabile grazie ad un lungo e futuristico
ponte sospeso. Dall’auricolare si rialzarono le voci, eccitate e confuse, di De
Simone e di Auricchio.
«Non capisco!»
urlò il vicecommissario, in un pensiero a voce altissima, «si era fermato al fiume… Ma secondo il GPS ha preso strade laterali in direzione
est, poi ha virato per la principale in direzione ovest! È diretto ad un altro
ponte sullo stesso fiume… Avrebbe potuto fare la
stessa strada in tre minuti invece che venti…»
«Non lo chepisci…» lo prese in giro Auricchio,
la cui concentrazione si era trasformata per pochi istanti in spavalderia, «non
lo chepisci? Il disgrezieto
maledetto sta girando intorno. Pensa un attimo. Lui viene qui, in Gieppone. Ruba il quedro. La
polizia dove cercherebbe un criminele straniero?»
«Allestirebbe dei posti di blocco e controllerebbe le auto sospette agli
imbocchi delle autostrade, alla stazione ferroviaria e all’aeroporto», disse
sicuro De Simone, recitando a memoria il manuale. «Esetto!»
confermò Auricchio, colpendosi la pelata e distraendo
il poliziotto alla guida, «lui pensa che noi pensiamo che lui pensi di fuggire.
Ma noi sappiemo che lui non sa che noi sappiemo. Dunque lo inculiemo».
De Simone si voltò e lo guardò in viso, perplesso. «Eeeh?»
domandò. «De Simone, i pirati del seicento a quelli come te in pasto ai
coccodrilli glieli deveno. Chepiscimi!
Lui gira qui attorno nei dintorni per non dere
sospetti. Il fetentone cerca di fregherci.
Ma noi lo freghiemo». Ringraziò il cielo di quella
soffiata che gli aveva rivelato il paese dove, presumibilmente, la Belva si
stesse dirigendo in compagnia del suo infimo sosia, Giandomenico Fracchia. Ringraziò i contatti che la polizia italiana
riusciva ad avere anche nel mezzo degli ambienti più oscuri della malavita.
Forse il regno di terrore della Belva era al termine. «Il GPS ci aiuterà»,
auspicò Auricchio. «Infatti», il volto di De Simone si fece
raggiante, «è qui. Due chilometri più avanti».
Saint Tail si alzò dal tettuccio del furgoncino dove era distesa.
Con pochi balzi si ritrovò in cima alla colonna di auto. A questo punto non le
importava se qualche poliziotto l’avesse vista. L’aspettavano.
Auricchio
si attaccò alla ricetrasmittenti. «Tra due chilometri metri» «Ormai uno,
commissario» «Un chilometro è qui deventi la Belva.
Mi raccomendo. Occhi spalancheti
e pronti a piombarci sopra come lupi». «Sì, commissario!» urlarono tutti.
Saint Tail aperse gli occhi, li sgranò, li roteò, li distense, li strabuzzò. Come riconoscere tra tutte le auto
del traffico del venerdì sera l’auto particolare della Belva? Poteva essere
un’auto – o persino una moto – qualunque. Solo De Simone, con in mano il
notebook con il segnale GPS, poteva essere più preciso. “Dove sei… dove sei, dannazione». Gli occhi della ragazza si
posarono – casualmente – su una Toyota Yaris bianca. Era sulla corsia delle “lumache”:
per i giapponesi, che guidano al contrario come gli altri geniacci
degli inglesi, a sinistra. Procedeva a passo d’uomo, tant’è che tutte le auto
la superavano a destra. D’un tratto, come se si fosse accorto della fila di
macchine alle sue spalle, tutte uguali, tutte in fila, tutte alla stessa
velocità, sgommò, passando dai 20 ai 100 in pochi secondi, in direzione del ponte.
“Vuole farsi vedere… Perché?” si interrogò Saint Tail, confusa. Un principio di vaga angoscia si risvegliò e
le fece tamburellare il cuore.
“Eccolo”, pensò.
«È la Belva!» ruggì Auricchio alla ricetrasmittente «Prendiemolo, una volta per tutte». “Non farà più del male a
nessuno, questo maledetto assassino”, pensò commosso il commissario italiano.
La solennità del momento riuscì, per una volta, a farlo pensare in italiano
corretto.
-
Attenzione: quello
che segue è un aborto di proporzioni immani. Andare avanti con la lettura è
inutile e aggiungerei sottolineare, sconsigliato.
La posta del
cuore di ATL
Impossibilitato a rispondere a tutti
personalmente, ho deciso di contenere in una rubrica una tantum tutti i
messaggi e le domande che ho ricevuto per poter fornire a tutti una giusta risposta.
Andrea.
Carissimo Andrewthelord, sono Cola da Rienzo. Ho letto la tua fan
fiction e devo dire, con malcelato disprezzo, che i primi capitoli sono molto
diversi dagli altri. Perché questo obbrobrio? Come ti giustifichi?
Anch’io, caro Cola, pochi giorni fa mi sono voluto fare del male. E ho
riletto i primi capitoli. Si tratta di una semplice translitterazione di roba
di 9 anni fa. «Maledizione», mi sono detto, «’sta roba è illeggibile. E non c’entra
una beneamata ciufola con questa storia». In effetti
è così. La vicenda che sto descrivendo ha preso tutta un’altra direzione, verso
un fine preciso che ha poco a che fare con la semplice parodia o il “famose du risate”. Non appena finirò questa mia avventura
letteraria penso li riscriverò. Te Cola, però, sta’ un po’ più calmino.
Caro ATL, sono
Scolastica da San Piero in Bagno. Sono, come te, da quando ho capito dalla tua fan
fiction, una grande fan di Lino Banfi. Cosa ti aspetti dalla prossima stagione
di “Un Medico in Famiglia”?
Mi aspetto che inizi a parlare in pugliese stretto, dandosi
ripetutamente pacche sulla pelata, picchiando e insultando i suoi familiari
come ai bei tempi. E che affitti alcune stanze della villetta a un personaggio
simpatico, interpretato da Alvaro Vitali, che da contratto, almeno tre volte a
puntata, esegua con maestria la gag del “Col fischio o senza”, aggiungendoci
però anche scurregge e rutti a volontà. Il tutto
rigorosamente in prima serata su RaiUno.
Carissimo Andrewthelord, sono Annabella da Pavia. Cosa vorresti in
più per questa fan fiction? Ti piacerebbe vederla trasposta in un anime?
Cara Annabella, ho sempre odiato le illustrazioni. Credo sia giusto
lasciare la libertà ai lettori di dare una forma ai personaggi, ricostruire le
scene d’azione, immaginarsi la forma delle nuvole, il flusso del vento, gli
orli dei vestiti dei personaggi. Ma entrando più in profondità nel magico mondo
delle light novel giapponesi (Sword
Art Online e Accel World in particolare) mi sono
accorto di quanto possa comunicare questa forma di espressione. Le light novel, per chi non lo sapesse sono romanzi che si avvalgono
di una decina di illustrazioni atte a fissare qualche dettaglio, un volto, una
scena, un’immagine (magari senza scadere nel fan service, ecco, quello lo odio,
perché rischia di far passare qualsiasi fruitore di queste opere per un pervertito
alla Happosai). Penso che due-tre
illustrazioni darebbero un tocco in più a questa strana storia che si sta
sviluppando e sta raggiungendo, almeno nella mia testa, il suo agognato
traguardo.
Uè,
testina. Sono Giampiero da Milano. Mi è piaciuta la parte in cui parli tanto
bene di Roma. Farai la stessa cosa con Milano?
Ma manco per il
cavolo.
Distinto Andrea,
con tutte le opere che ci sono in giro nel mondo, proprio un manga shojo con la sigla di Cristina d’Avena dovevi prendere per
mescolarlo con i mostri sacri della commedia italiana! Perché Lisa e Seya? Un po’ non ti vergogni? Salvatore da Teramo.
Caro Salvatore, mi chiedi perché proprio un manga shojo?
Già, perché doveva capitare proprio a me che odio la formula monsterof the week, odio la
ripetitività, aborro il moe e tutte quelle faccine e situanzioncine scolastiche di cui i Giapponesi vanno
profondamente pazzi e che a me fanno girare gli ammennicoli? Ripeto. Non ho
scelto io la storia, è la storia che ha scelto me. Perché rimestando, nel
luglio di quest’anno, la cartella di vecchi scritti mi sono deciso a riprendere
proprio questo? Ho provato anche a rivedermi alcune puntate di Saint Tail. Viste ad 11 anni sono una cosa. Viste a più del
doppio di quell’età sono tutt’altra. Però Saint Tail ha
quel quid – la spiritualità, la missione, l’ineludibilità del destino anche nei
rapporti umani – che, pur comprendendo certi difetti dell’opera in questione,
prendono sempre, ti coinvolgono che tu abbia 11 anni o ne abbia molti di più.
Di quel vecchio scritto però mi ha riconquistato quella commistione di Saint Tail col diverso. Con l’estremo diverso. L’anatra con l’arancia.
Il formaggio con le pere. La mozzarella con la Nutella. Accoppiamenti tra
diversità estreme che – non si capisce il motivo – funzionano così bene. Ecco,
questo elemento ha concesso a quest’opera di rinascere dopo anni di hiatus.
Gentile Andrewthelord, quando si può
considerare finito un autore di fan fiction? Andreuccio
da Perugia.
Quando si inventa lettere strampalate e imbastisce una rubrica come
questa.
Mi avvalgo però anch’io di questa
formula, e mando anch’io la mia letterina. Certo di ricevere attenzione e
risposta.
Carissimi Otaku là fuori.
Mi rivolgo a voi nelle vostre stanzine piene di actionfigures, manga incellofanati e mai letti perché se no
si rovinano, poster di Haruhi “scassa minchia” Suzumiya a grandezza naturale. Mi sono imbattuto alcuni mesi
fa in Sword Art Online, un anime bellissimo, come non
ne vedevo da anni, e sulle rispettive light novel.
Bene. Per essere sempre informato sui nuovi episodi, per discutere sulle varie
teorie che vi sono dietro, per accalappiare qualche spoiler o per decidere se Kuroyukihime di Accel World sia o
non sia la figlia di Kirito e Asuna
di Sword Art Online, mi sono iscritto a qualche
paginetta facebook e ho iniziato a lurkare su qualche forumino in
giro per il web.
Ora, mannaggia la miserietta, è possibile che
io mi debba imbattere in un sottobosco di teorie sui pairings
che non fregano un beneamato pistillo a nessuno, in una serie di fan art in cui
il protagonista limona a turno con tutte le personagge
di sesso femminile (e non solo) e dove alla protagonista si riducono sempre di
più i vestiti e aumentano sempre di più le tette? Così, carissimi Otaku, non è che poi va mica così tanto tanto
bene. Perché pensate solo alle poppe e al fan service?
Ora, non è che le poppe siano sbagliate, anzi, ma oltre a quelle c’è
molto altro, tanto ma tanto altro. Perché fantasticare sempre su improbabili pairings quali personaggio X per personaggio Y o personaggia Z per personaggio X e Y contemporaneamente o personaggia Z per amico del personaggio X perché X c’aveva
da fare e vicino di casa del personaggio Y che poi non si è sentito molto bene
e al suo posto è venuto il lattaio, significa voler profondamente mancare di rispetto
all’autore che ste robette le ha pensate e con tanto
lavoro e fatica ve le ha fatte arrivare. Sì, non ho paura di ammetterlo. Ogni
volta che vi crogiolate su una versione superdeformed
di un personaggio di un anime/manga, un autore muore, oppure, per vendere e
continuare a vivere, quell’autore è costretto a venirvi dietro nella vostra
spirale di perversione, e creare opere tipo Campione! Ecco. Campione! è solo ed
esclusivamente colpa vostra.
Con affetto e con la richiesta immediata di scuse, distinti saluti
Andrea
[1]http://en.wikipedia.org/wiki/TaserWikipedia mi ringrazierà per tutto il traffico che
gli genero. Magari mi tolgono quelle foto strappalacrime di gente brutta che mi
domanda soldi.
Peli. Un inferno
di crini. Ispidi, cespugliosi, unti e appicicaticci. Sempre
e soltanto peli. Continuava a sentire l’odore acre di quella boscaglia. Il
sudore come rugiada ricopriva e appesantiva la vegetazione del petto dell’omino
calvo. Il ciondolone continuava ad oscillare da destra a sinistra, da destra a
sinistra. In continuazione. E la voce sibilante dalla fortissima inflessione giapponese,
ordinava: «Quello che devi fale», l’olezzo acre del
sudore lo ricopriva, «quello che devi fale»,
l’inferno doveva essere così, per forza, «quello che devi fale».
L’omino era calvo come una biglia: probabilmente tutti i capelli erano migrati
al piano inferiore, su quel petto ipertricotico.
«Quello che devi fale», «quello che devo fare». Non c’era
più un “adesso”, un “ora”, un “in questo momento”, ma una continua oscillazione
tra i traumi del passato, i terrori del presente e la paura del futuro.
Aveva la
salivazione azzerata, sulla lingua bolle bianche e sulla pelle sfoghi cutanei
per lo stress acuto. Non si accorgeva nemmeno più di quello che gli accadeva
dalla cintola in giù. Intestino e vescica, molto probabilmente, per sfogare la
tensione avevano pensato di agire per conto proprio. Era allo stremo:
totalmente lucido e razionale osservava una parte oscura di sé mentre
controllava totalmente il suo corpo, la sua voce. L’ipnosi funzionava a dovere.
Si sentiva misero e meschino come non mai.
Carissimi
lettori, a questo punto, i più deboli tra voi potrebbero, forse, provare anche
della pietà per lui. Errore madornale. Mai, ripeto, mai, provare pietà per le merdacce.
Giandomenico Fracchia era una merdaccia, quella era
la sua condizione. Tutti gli uomini sono uguali, ma le merdacce non sono
uomini. E provare pietà per esseri del genere significa non riconoscerne la sua
vera natura. Come le vecchie un po’ rincoglionite che nella loro solitudine danno
ai loro cagnolini nomi da cristiani, li vestono in abiti firmati e intestano
loro la casa e i pochi risparmi che hanno in banca. La stessa comica tristezza.
«Fai quello che devi fare e tutto andrà bene». Erano gli odori però che lo
avevano inchiodato. Puzza, olezzi ed effluvi diversi che lo avevano piegato
nuovamente a quelle rigide costrizioni. Il ciondolo continuava a danzare di
fronte a lui. Ogni tanto entrava come Tarzan nella giungla sudata di peli e se
ne usciva, grazie al movimento pendolare, con la stessa agilità. Pensava
pochissimo, Giandomenico Fracchia, ormai in stato di
trance in quello sgabuzzino del ristorante di pesce di Kenzo l’infame,
ipnotizzato dall’omino e istruito sul da farsi dalla Belva. Eppure un pensiero
riusciva a rimanergli lucido in quella cappa di schiavitù psicologica: “Non
riuscirò mai a togliermi dal naso questa puzza…”.
L’odore acre del sudore, il pesce andato a male, i vermetti
del sushi marcio che gli impastavano la bocca erano ancora lì, con lui, mentre
a bordo di una Toyota Yaris gironzolava per la cittadina giapponese. Alle sue
calcagna un Ministero degli Interni e uno per la Difesa insieme.
Le prime volte la
Belva lo faceva picchiare per inculcargli le istruzioni per i colpi. Scariche
elettriche, veleni a basso dosaggio e botte, tante botte. Ma non funzionavano.
La Belva capì presto che a dare ceffoni a una merdaccia ci si sporca solo le
mani: la forma cambia, ma la merdaccia rimane tale. Meglio soggiogarlo, farne
uno schiavo, fare appello al suo servilismo ed innalzarlo a virtù, ricavandosi
all’interno della merdaccia uno spazio in cui agire indisturbato. L’operazione Fracchia, per lui, era stata dunque un successo. Tanto che
qualcuno, nel campo nella cronaca nera, era arrivato addirittura ipotizzare una
complicità tra lui e il Fracchia. “I gemelli del
male”, aveva titolato il giornale del vice-direttore Marco Travalico. La Belva
si era sempre ritenuta offesa persino dall’idea. Lui complice di una merdaccia
come il Fracchia? Per lui Fracchia
era un oggetto, uno strumento, schifoso e ripugnante tra l’altro. Non si può
essere complici di un cacciavite rotto o di una chiave inglese scheggiata. Fracchia veniva utilizzato. E come un oggetto qualunque
poteva persino venir gettato, in caso di necessità. Ma non era quello il caso.
Fracchia
respirò profondamente. Era in seconda sulla corsia delle lumache. Tutti lo
stavano superando. Era già un piccolo miracolo che non stesse guidando a
destra, e quindi contromano in Giappone, come da sua abitudine, ma l’ipnosi
faceva meraviglie. Era lucido, era sé stesso, ma in testa, rome
un refrain, si rincorrevano chiare e limpide tutte le istruzioni impartitegli.
In modo naturale. “Magari mi avessero insegnato le cose all’istituto per
geometri così facilmente”, pensava. A volte la Belva aveva provato a forzare la
mano: «Ammazza la guardia… Ammazza la guardia… Ammazza la guardia…». Ma
non poteva funzionare. Puoi istruire una merdaccia a camminare dritto, ad
aprire la porta giusta, a premere proprio quel pulsante e non un altro, a
prelevare un quadro o un gioiello, persino a gridare – tradito dal panico -
«Questa è una rapina». Ma la cosa finiva là. Non poteva fare del Fracchia una copia di sé, astuta, intelligente, senza
paure. Poteva solo fargli fare su comando quello che era già capace di fare,
poteva farlo funzionare al meglio delle sue possibilità. Che in effetti non
erano molte, come avrebbe potuto confermare un qualsiasi invitato al galà della
Contessa che ne aveva osservato poco prima le prodezze.
Cambiò marcia, rallentò
ulteriormente. La macchina noleggiata dalla Belva aveva un orripilante
pendaglio di HelloKitty
che dondolava dallo specchietto. Il cordoncino attorno al collo sotto quel
faccino kawaii e inespressivo. La gattina pareva
impiccata. Si girò per guardarsi dietro, secondo le istruzioni della Belva.
Dopo una craniata al pupazzo osceno,si guardò alle spalle. E vide quello che
avrebbe dovuto vedere. Saltò due marce, premette sull’acceleratore e schizzò
via nella notte, diretto al ponte.
Iniziò a sciorinare
una serie di invocazioni comprendendo tutti i principali santi della
cristianità. E, già che c’era, si affidò pure a Buddha, ad Allah e a Ron Hubbard. Le sirene si accesero. L’avevano visto e lo
stavano inseguendo. «Perfetto!» gridò raggiante la parte di Belva, che, come un
tumore, a furia di ipnosi e di droghe stimolanti, era cresciuta dentro di lui.
“Perfetto proprio non direi”, pensò solamente la parte di Fracchia
che resisteva dentro la sua materia grigia, che era il 98% del totale ma che
non osava nemmeno alzare più di tanto la voce. “Se quelli mi prendono mi fanno
un mazzo tanto”. «Che hai detto?», gridò la Belva. “Niente, dottor Belva”,
chiese scusa umilmente il Fracchia.
Sgommò ancora,
superò alla sinistra una station wagon con a bordo un’allegra famigliola in
partenza per il weekend. Un ragazzino con la divisa delle superiori a bordo di
uno scooterello, fu costretto per evitarlo a centrare
un palo in pieno. Mancavano pochi metri al ponte.
«Gira per la
città» gli ripeteva la Belva tra neurone e neurone. “Fatto, capo…”
si genufletteva Fracchia. «Rimani vicino al ponte.
Vicino al ponte». “Sempre stato vicino!” esultò persino Fracchia.
Doveva servire, almeno era felice di farlo bene. «Guardati alle spalle. Quando
c’è la polizia – la riconoscerai per una fila di auto tutte uguali, ammassate
tra loro anche in mezzo al traffico – corri verso il ponte e attraversalo».
“Fatto!” confermò sicuro il geometra.
Era già in
quinta. Viaggiava sui 100 chilometri orari. «BELVA!!! FERMATI BELVA!!!», Auricchio, con testa, braccia e petto fuori dal finestrino,
parlava al megafono, «QUI C’HANNO LA PENA DI MORTE!!!
FERMETI, ORMEI SEI NOSTRO!!!», ma l’accellerazione
dell’auto e l’effetto vela gli fecero volare via il megafono. Questo andò a
schiantarsi contro il cristallo di un’auto che viaggiava nel senso posto
rompendolo in mille pezzi. Il trentenne otaku alla
guida sbandò e andò a cozzare contro un’auto parcheggiata. Non era nemmeno
assicurato.
Asuka
jr si appoggiò con la destra alla maniglia della sua portiera, mentre, con la
sinistra, cercava di non perdere l’equilibrio toccando la maniglietta del vano
portaoggetti dell’auto del padre. Ma si posò troppo, aprendo lo sportellino e
facendo cadere a terra tonnellate di pacchetti vuoti di sigarette. «Scusa
papà!», urlò, mentre l’auto continuava a guadagnare velocità e il carosello di
sirene rendeva impossibile udire a qualcuno qualunque cosa. «Di nulla,
figliolo», gli rispose Asuka senior, gridando. «Non è
strano che sia partito così? Non era un campione di freddezza questa Belva?»
gli domandò gridando a pieni polmoni il giovane detective. «Non lo so,
Junior!», ma dagli occhi sembrava aver intuito qualcosa. Qualcosa che non gli
piaceva.
Il geometra sobbalzò
violentemente a bordo della sua Toyota. Capì di aver colpito la striscia
metallica orizzontale che segnala l’ingresso al ponte sospeso. Dalla tasca
della giacca estrasse un oggettino nero, grande poco meno di un
telecomandodi una vecchia tv e poco più
di una di quelle chiavette che servono ad aprire a distanza i cancelli
automatici.
«Mi raccomando!»,
gli ricordava la Belva, «abbi sempre almeno cento o duecento metri di distanza
dalla prima delle auto della polizia. Poi, non appena oltrepassi quel ponte,
premilo!». Non era giusto però. Ma lo avrebbe fatto. Non era più un uomo, o
meglio, non lo era mai stato.
Il ponte sospeso
sul fiume, inaugurato quattro anni prima, era una di quelle novità per le quali
bisognava buttare via e stampare di nuovo tutte le guide turistiche della Pro
Loco. Non era lunghissimo, ma faceva la sua porca figura, soprattutto in virtù
di quell’unica arcata al centro: sottile, altissima, dalla quale i piloni
scendevano 60 metri in basso fino a conficcarsi nelle più basse profondità
della terra, oltrepassando le agitate acque del fiume. Mille e mille funi
partivano dall’arcata blu scuro per andare a congiungersi e sostenere, forti e
vigorose, ogni metro quadrato di cemento e acciaio sospeso. Oltrepassarlo
pareva attraversare un portale verso un altro universo. Lo oltrepassò. Era a
metà del ponte.
“Non è giusto.”
«Ma lo farai». “Lo farò”. Lo avrebbe fatto perché non poteva fare diversamente.
La vita delle merdacce non vale nulla perché per conservarla, nonostante tutto,
accettano come naturali dei compromessi e delle umiliazioni che la rendono vuota,
triste, inutile. Ecco perché provare pietà per le merdacce è un errore
madornale.
Fracchia
si girò. La polizia aveva appena imboccato il ponte. Un’auto degli “sbirri”,
sorpresa dal famoso dosso in metallo, sbandò di colpo e si diresse a folle
velocità verso il guard-rail, lo sfondò e iniziò a cadere gli abissi. Una
macchia indistinta, nera e rosa, si gettò sul veicolo mentre questo già
precipitava. Pochi istanti dopo, l’auto con a bordo due agenti della polizia
giapponese planava dolcemente verso la riva, avvolta da uno strano ciambellone rosa.
«BELVA!!!», la
voce di un altro megafono in mano a un altro poliziotto giapponese, «ARRENDITI!
NON CE LA PUOI FARE!!!». La Belva, che si era ricavata un bell’angolino dentro
l’anima del Fracchia tornò a ruggire, in un misto tra
improvvisazione e flashback delle parole che il feroce criminale aveva ripetuto
al geometra poche ore prima..
«Grazie a te, Fracchia», gli aveva detto, camminando avanti e indietro
per il corridoio di fronte allo stanzino del ristorante di Kenzo l’infame,
«otterrò quello che voglio. Il rispetto. Lo sai su cosa si basa un mestiere
come il mio? Sul rispetto». Gli occhi più gelidi che mai. Ancor più gelidi in
quel frangente nel quale la Belva pareva aprire, anche se per pochi secondi,
anche se solo per i suoi fini, la tenda che celava i suoi segreti. «Loro
credono di fregarmi. Di liberarsi di me una volta per tutte. Hanno abboccato a
quel loro pseudo-informatore. Pensavano di avermi in
pugno. In realtà non ci sarà un solo momento in cui Auricchio
e i suoi scagnozzi non si troveranno esattamente nel luogo in cui io voglio che
loro si trovino». Fracchia aveva alzato gli occhi,
timoroso, ardito come non mai: «E allora?». Si era morso subito la lingua,
conscio di averlo interrotto. Ma la Belva era più accondiscendente che mai. «Mi
libererai di tutti loro. Finirò – finiremo», si corresse, «su tutti i giornali.
E avrò il rispetto che merito. Anche qui», sorrise il senzadio in un ghigno
diabolico.
Pochi metri
all’uscita del ponte: già lo aspettava il dosso gemello e poi la sua auto
sarebbe proseguita per la campagna. Solo la sua, però. Si guardò indietro e
chiuse gli occhi. Pronto a premere quello stramaledettissimo pulsante. Dopo anni
di soprusi, dopo anni in cui era stato solo una povera e incolpevole vittima di
crudeltà in un disegno assai più grande di lui, sarebbe divenuto un criminale.
Quanti i morti? Cento? Duecento? Trecento? Quante le famiglie che avrebbero
pianto un caro? Quanto lo shock per la popolazione? Ma ormai non gli importava
più niente, era ben distante da porsi quelle sacrosante domande. Era un criceto
che girava su una ruota. La direzione era solo una. Una lacrima gli rigò il
viso. Non era mai stato un uomo. E in pochi secondi non sarebbe più stato
nemmeno una merdaccia, titolo al quale era però affezionato. Sarebbe divenuto –
malgrado tutto – anche lui, una Belva. Stupida, incapace, triste, inutile, ma pur
sempre una belva feroce, con le zampe flosce macchiate di sangue rossissimo.
200 chili di C4
legati con corde sicure e un tessuto nero al pilone ovest del ponte sospeso sarebbero
stati gli artigli con cui avrebbe dilaniato le sue prede.
L’umanità si può
dividere in due: le persone normali e le ragazzine. Le prime, nonostante alcuni
alti e bassi e alcune tragiche eccezioni, hanno dei gusti più o meno normali. I
più fortunati si dilettano di opera lirica e di serial americani, alcuni
adorano film e commediole romantiche da botteghino. Ci sono poi punti bassi,
bassissimi, come le telenovelas tedesche o i reality
show. Gusti orribili, certo, ma ancora contemplati nel vasto panorama del
genere umano. E poi… poi, ci sono le ragazzine.
Esistono ragazzine di ogni età, di ogni sesso, di ogni estrazione sociale. Ma
rimangono sempre ragazzine. E le ragazzine adorano roba che non si può nemmeno
classificare brutta, perché sta fuori da ogni scala, umana e divina. Puoi
mettere su una stessa scala la potenza di una Colt
dell’800, un Ak-47 russo di metà ‘900 e un M4 moderno in dotazione ai marines americani:
la bomba all’idrogeno, però, dentro questa scala, proprio non ci sta.
Le ragazzine
ascoltano cantanti prepuberali androgini che vengono
drogati per impedire in loro lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, come
i baffi, la capacità di guidare e la perdita del condone
ombelicale per renderli carucci e inoffensivi. Le
ragazzine leggono libricciouli tutti uguali che vanno
a finire tutti nello stesso modo per impedir loro che la sorpresa le turbi più
di tanto e le faccia – anche solo per sbaglio – pensare. Le ragazzine guardano
MTV in cui ragazzine come loro si divertono ad essere messe incinta a 15 anni
da ragazzini dai tratti femminei che non si capisce da dove abbiano tirato
fuori gli spermatozoi necessari a tale compito. E le ragazzine sono le stesse
in tutto il mondo. Anche in Giappone. Dove esiste un aborto come ilSeraMyu[1].
NaokoTakeuchi, mangaka creatrice
di Sailor Moon, non può rivoltarsi sulla tomba per questo obbrobrio per due
semplici motivi: in Giappone esiste solo la cremazione e le ceneri non si
girano, al massimo si rimestano, inoltre, non è ancora morta e dunque ogni
paragone funereo appare fuori luogo, ma tutti gli altri ci starebbero benissimo.
Questa bella signora, infatti, che nella vita ha anche sposato quel geniaccio di
Yoshihiro Togashi, papà di Yu Yu Hakusho e di Hunter x Hunter, ha avuto il
pregio di ricostruire negli anni ’90 il genere Mahou Shojo, con il manga Sailor
Moon. L’anime ha rovinato quel bel fumetto, eliminando ogni conflitto o
tematica troppo complicata per ridurre il tutto a chiacchierate insulse tra
ragazzine e combattimenti tutti uguali, con mezzore intere di trasformazioni e
attacchi riutilizzabili per contenere il budget. Un anime che è in parte un
delitto, ma non un abominio come il SeraMyu. Il SeraMyu
è un musical live, nel quale le cantanti, invece di dare a Gesù Cristo della
“Superstar”, invece di salutare Evita Peron con il
pugno chiuso, invece di consolare il gobbo per la morte di Esmeralda, vestono
da guerriere sailor, e invece di combattere come
sarebbe loro dovere contro mostri bavosi cantano canzoncine d’amore idiote del
peggior J-Pop stomachevole. Al confronto assistere alla prima di “Natale e scurregge” con Boldi e de Sica è come ascoltarsi in prima
fila l’Orfeo di Monteverdi al Regio di Parma. A nessuno può piacere un aborto
di tali dimensioni, a parte agli otaku – gente malata
che non fa parte dell’umanità[2] e,
per l’appunto, alle ragazzine. E Meimi Haneoka era
una ragazzina anche lei, amante così tanto del genere MahouShojo da diventare anche lei una “maghetta”.
Nella vita reale.
Aveva 10 anni.
Saint Tail era ancora grafite nella matita di Dio, ma la piccola Meimi già
frequentava il Saint Paulia e già bazzicava le severe
ma misericordiose monache. Era il giorno del suo compleanno: finalmente
superava il decennio, e suo padre aveva deciso di fare le cose in grande. Quattro
biglietti in prima fila per la prima cittadina del famigerato SeraMyu. Solo da questo si può intuire l’immenso amore che GenichiroHaneoka nutriva per la
figlia, disposto a sacrificarsi e assistere a due ore e mezza di canzoncine
irritanti e a ballettini che sono tanto kawaii ma che al maschio adulto fanno pure un attimino
girare le balle. Una roba che però la bambina adorava con tutto il cuore:
quando Genichiro le aveva mostrato, pochi giorni
prima, i biglietti accompagnati da un fiocchetto rosa, quasi svenne dalla
gioia. Erano le sei di sera: Meimi stava indossando la sua giacca pesante
mentre suo padre si stava allacciando le scarpe. In pochi minuti sarebbero
saliti a bordo dell’auto del mago hippie, ma improvvisamente il cellulare di
mamma Eimi squillò.
«Ciao Eiko! Come… Seira non può venire
con noi?» sorrise. Poi si incupì. «Come? Ah... E lei come sta? Ah bene. Grazie
a Dio… Bene dai! Domani mattina passeremo a
trovarla!». «Che è successo a Seira?» trasalì Meimi, che già a quell’età
considerava la futura novizia come la sua migliore amica. «Oh!», Eimi si accorse di aver parlato troppo, «nulla di grave
tesoro!». Ma Meimi, nonostante a scuola non fosse un geniaccio, era molto
sveglia per la sua età. «Mamma!», e la gelò con il suo solito sguardo deciso,
da PM di Mani Pulite. «Niente. Seira ha avuto un piccolo incidente…
Nulla di grave, però! Sta bene!». La piccola non volle sentire ragioni.
Rinunciò senza esitazione all’adorato spettacolo delle Sailor Senshi per passare la sera del suo compleanno nel reparto
ortopedia dove la piccola Seira faceva i conti con un braccio rotto e con il
senso di colpa per aver allontanato la sua amica dal suo desiderio più grande.
Unico regalo il privilegio di essere la prima a firmarle il gesso, oltre allo
sguardo di totale ammirazione dei genitori, che sapevano sì di avere una figlia
buona e generosa, ma non a tali livelli. Il senso di questo sacrificio così
grande lo potevano capire solo loro, che per un anno intero, si erano sorbiti
da parte di Meimi gli elogi di tal musical, i poster delle cantanti, i cd del SeraMyu che ripetevano per ore e ore in loop
le cantilene, gracchianti e acute delle attricette assurte al ruolo di
guerriere Sailor. Ma quando la vollero lodare per quel gesto lei si limitò a
rispondere: «Veder sorridere la mia migliore amica è stato un regalo più
grande». Una risposta capace di ammutolire tutti. Nessuno parlò di quel gesto
ulteriormente.
Seira uscì
dall’ospedale quattro giorni dopo. Nel lettore cd di Meimi il disco del SeraMyu iniziò a girare sempre meno. Alla lunga la ragazza
perse ogni desiderio di vedere il musical su Sailor Moon tanto che, quando lo
spettacolo dopo meno di un anno tornò in città, la futura Saint Tail declinò
l’invito dei genitori di andarlo a vedere. I gusti erano cambiati, come succede
a molti, ma Meimi rimaneva comunque sempre una ragazzina. Nel suo cuore alcuni
inascoltabili complessini J-Pop, dei quali iniziò a frequentare gli orrendi
concerti.
Meimi crebbe. Sfortunatamente
rimase antropologicamente una ragazzina, con tutti i suoi gusti orridi, ai
quali, si sarebbero, sciaguratamente uniti cantanti inutile di nome Giustino e
boy band inglesi la cui unica direzione dovrebbe essere quella che porta alla
miniera.
Eppure,
fortunatamente, Meimi conservò anche quel senso di sacrificio e di dono di sé.
La stessa Saint Tail non era che un continuo e straziante sacrificio: di tempo,
di serenità, di pace e persino d’amore. Era la sua coscienza le imponeva questa
strana forma di apostolato continuo.
Ed era ancora lì,
quel venerdì sera, a sacrificarsi nuovamente, saltellando sopra veicoli in
corsa per seguire la polizia nella loro caccia alla Belva Umana, solo per
recuperare un quadro rubato da restituire al legittimo proprietario, del quale
ignorava persino il volto.
Poco dopo il
ponte, un’auto della polizia giapponese sbandò e si diresse ad altissima
velocità verso le transenne. Ruppe le barriere e iniziò la sua caduta verso
l’acqua, molti metri più in basso, spingendo i suoi occupanti verso una sicura
condanna a morte. Lasciò perdere per un istante la caccia alla Belva e saltò
giù. Con una velocità impressionante – ai limiti della magia vera e propria – avvolse
l’auto in una strana cintura di gomma e premette un bottoncino. Innescò dunque
uno di quei meccanismi che permettono ai gommoni di salvataggio in dotazione
nelle navi di gonfiarsi in pochi secondi. La miscela di gas, però, era assai
ben diversa. Una formula segreta che aveva carpito da un mago britannico
collega del padre. L’auto iniziò a planare verso la riva del fiume. Saint Tail,
in piedi sul tettuccio dell’auto fluttuante, si passò il guanto di seta nera
sulla fronte per asciugare un sottile rivolo di sudore, alzò gli occhi verso il
ponte prima di spiccare il balzo che l’avrebbe rimessa in gioco. Ma ciò che si
vide di fronte l’obbligò ad emettere un grido di puro terrore.
Dal basso aveva
una visuale perfetta: le luci della città e i suoi occhi di gatto[3] le
permettevano di vedere i grossi piloni gemelli in cemento che sostenevano il
ponte come se fossero le dieci di mattina e non le dieci e mezza di sera. A
terrorizzarla, però,non erano
propriamente i piloni, ma una specie di giarrettiera nera rigonfia, alta un
metro e spessa una buona quarantina di centimetri che stava avvinghiata ad uno
di essi poco al di sotto della carreggiata. “Esplosivo”. Le suggerì il suo
quinto senso e mezzo[4].
“Un lavoro da professionisti”, aggiunse il suo intuito. “Era tutta una
trappola”. L’ordigno, presumibilmente C4, non poteva trovarsi lì da molto
tempo. Tutt’altro. Se n’era accorta in un attimo, era impossibile che
l’esplosivo si trovasse lì da più di due ore. Sicuramente non prima del
tramonto. Perché voler far saltare un ponte?
Tutti i punti
oscuri di quella serata le furono chiarissimi, con una limpidezza quasi
violenta. Ecco perché la Belva guidava così piano e rimaneva nei paraggi.
Voleva farsi trovare? Voleva ucciderli tutti? Forse mancavano veramente pochi
istanti prima che tutto saltasse in aria. Eppure, aveva sentito di come la
Belva non fosse violenta se non incontrava resistenze. Forse era venuta a
sapere di avere Auricchio alle calcagna anche in Giappone e aveva deciso di
chiudere con lui una volta per tutte? Probabile. Ma su quel ponte, in quel
momento, c’erano decine e decine di persone innocenti. “Oh mio Dio!”. C’era
anche Asuka jr. Quel ragazzo con cui fino a pochi minuti prima aveva condiviso
una cena – così strana – ma così romantica. Quel ragazzo che non riusciva a
guardare negli occhi senza che i capillari del volto si rompessero e
crogiolassero il suo viso in un delicato – e incantevole – rossore. Quel fiero
avversario di Saint Tail, così vicino, così simile. Afferrò senza pensare il
ricevitore/radio donatogli da Seira, premette un pulsante e iniziò a gridare,
in piedi su quello strano velivolo all’interno del quale due poliziotti
giapponesi, in stato di shock, tremavano e pregavano.
«ATTENZIONE!!!
SONO SAINT TAIL». Le radio delle auto dei poliziotti iniziarono a trasmettere
la voce della prestigiatrice all’unisono. Asuka junior diede una capocciata sul
tettuccio dopo aver, per la sorpresa, spiccato un salto sul posto. «SOTTO IL
PONTE HANNO PIAZZATO DELL’ESPLOSIVO!!! LA BELVA VUOLE UCCIDERVI TUTTI!!!».
Qualcuno inchiodò con l’auto, altri schivarono quei loro colleghi timorosi e
continuarono nella loro strada. Le auto in coda alla fila si limitarono ad una
più dignitosa inversione ad U.
“Non ce la
faranno mai”. Entro tre, massimo quattro secondi, la Toyota della Belva avrebbe
toccato la terra ferma. E la ragazza che a scuola non era una cima ma che come
Saint Tail era un genio capì che in pochi secondi sarebbe finito tutto. La
Belva si sarebbe guardata dietro con quei suoi occhi di ghiaccio, poi,
sorridendo di fronte a tutte le auto della polizia in trappola sopra quel
ponte, avrebbe premuto il maledetto pulsante in un qualche maledetto
marchingegno demoniaco. Dopo un sordo botto, il pilone si sarebbe spezzato. Si
ricordò poi il motivo per il quale l’ingegnere e l’architetto responsabili
della costruzione del ponte, pochi anni prima, vennero coinvolti da un esperto
in sicurezza in una furiosa polemica nei giornali locali: il troppo peso
dell’arco di metallo che sosteneva le carreggiate. Un arco troppo solido,
troppo unitario. Senza sostegno, la struttura metallica si sarebbe sbilanciata
totalmente a destra, per poi cadere integra sul fiume: le funi che
assicuravano, con potenti cime in metallo, metro dopo metro, la carreggiata in
cemento armato, sarebbero schizzate via via come
fruste impazzite, come un tessuto strappato. Se l’arco non avesse trovato la
forza per rompere, precipitando, la base di tutto il ponte, ci avrebbe pensato la
forza di gravità a finire il lavoro, facendo precipitare asfalto, macchine
della polizia, lampioni per l’illuminazione, parapetti in metallo e piste
ciclabili sessanta metri più in basso, sul fiume. Morte certa per tutti.
“Non faranno mai
in tempo”. Si sentì misera e impotente. Ma poi l’adrenalina che aveva in corpo
suggerì al suo cervello un’idea bislacca. Impossibile. Demenziale. “Devo
provare”.
GenichiroHaneoka, ometto magro e dai fluenti capelli raccolti
con una coda da cavallo, ancora innamorato perso della moglie Eimi, poteva sicuramente fregiarsi del titolo di miglior
prestigiatore del Giappone. Non che avesse poi in patria questa grande
concorrenza, però se la giocava con i migliori del mondo. Prima di conoscere Eimi era stato alcuni anni in America, vivendo ai limiti
del vagabondaggio, girando di città in città per copiare i trucchi dei
migliori. Ora l’America la vedeva tre volte all’anno, per delle tournee di tre,
massimo quattro settimane. E adesso erano i giovani maghi di Las Vegas che
prendevano l’aereo per studiarne le magie nei principali teatri del Giappone. I
proprietari del Planet Hollywood di Las Vegas gli
avevano offerto cifre astronomiche perché si esibisse lì tutti i giorni
dell’anno. Ma Genichiro non poteva staccarsi dalla
sua villetta a tre piani con ampio giardino, dai suoi amici d’infanzia, dalle
suore che l’avevano cresciuto, dalla sua tranquilla routine. Ma nonostante la
sua attitudine pantofolaia, Genichiro osava di più
degli altri. Sempre di più. A volte troppo. E non sempre tutto gli riusciva.
Alcuni suoi trucchi li definiva “sperimentali”. Ogni tanto funzionavano, ogni
tanto no. Forse non sapeva cosa, a volte, andasse storto oppure il buon Genichiro non sapeva nemmeno spiegarsi come fosse in grado
di compiere certe magie indescrivibili? Nessuno l’aveva mai scoperto.
Come quel trucco,
pomposamente nominato “Il cappello dei ricordi”, poco adatto al grande pubblico
ma assolutamente formidabile. Chiamava una persona sul palco, le faceva
indossare uno strano cappello a cilindro, e questa poteva giurare di rivivere,
come se fossero presenti, alcuni momenti particolarmente importanti della
propria esistenza. I “sì” detti al momento del matrimonio, la nascita di un
figlio, il ricevimento di una bella notizia: come se accadessero in quel
preciso momento, quando la mano di Genichiro posava
sul capo degli spettatori quel cappello a cilindro. Con un po’ di fatica, Meimi
era riuscita a scoprire come diavolo suo padre fosse in grado di una magia di
quel tipo: un piccolo dispositivo a microonde, innestato sulla base del
copricapo, stimolava il cervello dei “pazienti” a recuperare i ricordi più
belli. Per essere grandi maghi bisogna avere molti amici: e uno dei più grandi
compagnoni del buon Genichiro era nientepopodimeno
che KayabaKentaro, uno dei
pionieri delle biotecnologie applicate alle neuroscienze. Non fu
particolarmente difficile, dunque, per quell’Harry Potter hippie un po’ cresciutello, aggiungere quell’aggeggetto
al suo arsenale. Ma il trucco, per quanto fantastico, non prendeva più di tanto
il pubblico. Del resto, anche Geinichiro, in poco
tempo, si rese conto che vedere un ebete sul palco con un altro ebete che dopo
aver indossato un cappello aumenta la sua ebetudine
con un sorriso da ebete, non vale il prezzo di un biglietto da 70 dollari. E il
cilindro finì nel dimenticatoio. Per la precisione, in uno degli armadietti di
uno stanzino adiacente al garage di casa Haneoka: un
posto che per una ragazzina con manie da giustiziera rappresentava il paese
della cuccagna. E dunque “Il cappello dei ricordi” finì nell’armamentario di
Saint Tail. Non solo gli oggetti, ma anche le tecniche scartate da Genichiro finivano nell’arsenale della maga giustiziera.
Per di più, trucchi “sperimentali”. Uno di questi si chiamava “Teleport”. Simile al “Portal” del
collega e amico David Copperfield, la magia sarebbe dovuta consistere nel
teletrasportare, di fronte a tutti, senza schermi, con degli appositi e
piccolissimi macchinari dalla dubbia provenienza, degli oggetti o delle persone
a pochi metri di distanza. Nessuno dei suoi colleghi aveva capito come diamine
facesse. I maghi non rivelano i propri segreti se non a giovani promettenti. E
né io, né voi lettori, siete giovani maghi promettenti. Solo Meimi era riuscita
a vederlo all’opera più volte, a capire come faceva e a “duplicare” la strana
apparecchiatura necessaria. Effettivamente “Teleport”
era un trucco di tutto rispetto. Le prove erano andate piuttosto bene.
Tavolini, fiori, palloncini e microfoni sparivano semplicemente alla vista e
riapparivano a qualche metro di distanza. In un istante. Anche con le persone
funzionava: Genichiro si era divertito parecchio a
far scomparire Eimi dalla cucina e farla riapparire
in salotto, fino a che la moglie si era ribellata e lo aveva minacciato con
certi sottili argomenti che convincono i mariti a tacere e rigare dritto nel
caso volessero continuare a godere di certe particolari attenzioni. Il mago
hippie s’era finalmente deciso: “Teleport” avrebbe
debuttato allo Staples Center di Los Angeles. Ma,
durante la prova generale, assieme alla biondona
americana che gli faceva d’assistente, svanì, davanti agli occhi dei tecnici pure
lui, Genichiro, che per copione sarebbe dovuto
rimanere beatamente al suo posto. La biondona
ricomparve subito nel punto esatto dove sarebbe dovuta ricomparire. Lui, invece,
lo ritrovarono mezz’ora più tardi, dolorante e confuso, dentro un condotto
d’areazione[5].
Per estrarlo lo staff dello Staples Center fu
costretto a rompere con una picozza uno spesso muro
di cemento. Dopo il tour, tornato in Giappone, il buon prestigiatore provò e
riprovò. Ma tutto fu inutile: un qualcosa, un quid stramboide,
una variabile non considerata faceva fallire il più delle volte quel suo
trucco. E per fallire intendo che nel 75% dei tentativi, assieme all’oggetto,
all’animale o alla persona da “teletrasportare” si spostava anche lui. Il più
delle volte proprio nella stessa direzione (qualche metro in più, qualche metro
in meno) rispetto alla quale si sarebbe dovuto muovere anche l’obbiettivo del
suo trucco. Affranto e amareggiato, Genichiro
parcheggiò quella sua intuizione e si dedicò ad altri nuovi – e più promettenti
– prestidigitazioni, tipo far perdere di colpo cinque chili alle spettatrici
più in carne o far parlare con voce umana i cani (esperimento fallito in quanto
i cani iniziavano a proferire volgarità e bestemmie a iosa).
Ma in quel
momento Saint Tail non riuscì ad escogitare altro. Strappare il cinturone e
gettarlo sul fiume avrebbe richiesto troppo tempo. E se quel trucco fosse
funzionato – forse – avrebbe potuto salvare tutti. E se con l’esplosivo si
fosse “trasportata” anche lei? Sarebbe stata morte certa. Non c’era tempo.
Decise. “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia, la troverà”, aveva detto qualcuno. Era nel suo DNA.
Decise, ma c’era poco da scegliere, in quanto non avrebbe pensato ad altro. In
questi frangenti però, in poche frazioni di secondo, sono in grado di scorrere
lunghi come film in cecoslovacco ma coi sottotitoli in tedesco, eppure ben più
interessanti, discorsi, romanzi, poesie e lunghi ricordi. Pensò al vecchio
Vescovo, alle statuette di Maria-Kannon e alle
tavolette Yefumi. Proprio non riusciva a calpestarle.
Sorrise dentro di sé. Pensò a ShiroAkamusa e a san Paolo Miki, due
facce della stessa medaglia. E pensò a quel giovane detective, che amava
profondamente e al quale aveva promesso ben più di un’altra cena servita dai
pittoreschi Sergio e Bruno. La tristezza, quella più cupa, quella più funerea,
l’avvolse. Forse non ci sarebbero stati più, per loro, spaghetti alla carbonara
e penne con la pajata da condividere insieme, gli
occhi dell’uno su quelli dell’altra. Ma gioì nel pensarlo vivo e sano, per
sempre. E con un pizzico di egoismo se lo immaginò adulto, bello, giusto, ai
vertici della polizia giapponese ma sempre in compagnia di una piccola ombra
nera e rosa, con la coda di cavallo e i capelli castani, capace di gettarlo
nella malinconia nei momenti più felici e in grado di fargli venire un sorriso
in quelli più tristi. Sperò che però si ricordasse anche di quella sua amica
pasticciona con cui tanto aveva litigato, che però, mentre seguiva la lezione,
non poteva far altro che fissargli da dietro la testa, ricoperta da capelli
corvini e sempre immersa nella caccia a Saint Tail. “Proteggilo”, disse a Qualcuno
in alto, non accorgendosi che con tutta probabilità mentre Asuka sarebbe stato
al sicuro, lei, sempre con tutta probabilità, sarebbe, in un altro luogo,
lontano dal ponte, esplosa in mille pezzi, assieme ad una tonnellata di
esplosivo, quando la Belva, al sicuro, si sarebbe decisa a premere un maledetto
tasto.
Erano passati non
più di dieci secondi da quando aveva avvertito i poliziotti della bomba. In
mano aveva ancora il simil-smartphone donatole da
Seira, con il quale decise di parlare di nuovo: «PROVO A PORTARE LA BOMBA
LONTANO DA QUI». E aggiunse, fuoriprogramma, un ultimo saluto: «ASUKA…» tutti udirono il singhiozzo che seguì, «…SIIFELICE…».
Saltò dal
tettuccio dell’auto verso quel telo nero pieno di freddo esplosivo. Gli occhi
chiusi. Le braccia aperte. Pronta ad abbracciare la sua fine, come si abbraccia
un amante.
-
Capitolo lunghissimo,
lo so. Il prossimo sarà assai più breve. Se avete letto, vi chiedo di
commentare, anche in breve, che ne pensate.
Nelle prossime
settimane potrei saltare, qualche volta. Forse. Portate pazienza!
[4]
Lo metto come riferimento ma evito persino di dirvi a cosa è riferito
[5]
Sì, questi anacoluti sono voluti perché mi piacciono un botto. Grammar nazi se avete tempo da perdere andate a correggere
gli anacoluti dei “Promessi Sposi”…
«FERMA LA
MACCHINA PAPA’!!!». Respirava affannosamente, raggelato, infreddolito e
inchiodato dalla paura come se stesse camminando nudo in una steppa siberiana.
L’aria fredda, sputata e ingoiata con la bocca a ritmi forsennati, si scontrava
con i denti e li feriva, come le scariche di un vento polare. «FERMA L’AUTO,
PAPA’!!!». Urlò di nuovo. Non era una richiesta, ma un ordine. Asuka senior inchiodò
immediatamente, come se gliel’avesse ordinato il primo ministro del Giappone in
persona, anche se, molte auto, confuse dal messaggio di Saint Tail, avevano
ignorato la caccia alla Belva e si erano già fermate in un groviglio disperato
di veicoli che nemmeno la Salerno-Reggio Calabria.
Spalancò la
portiera, saltò giù dalla macchina e iniziò a correre come un disperato. Non
aveva un fisico da buttare via, eppure era stato scartato dal club di atletica
per i suoi scarsi risultati. Se l’avessero visto in quel momento, così
scattante, così veloce, avrebbero decisamente cambiato idea. Corse con tutte le
energie che aveva e anche con quelle che non aveva. Conosceva quel ponte: lo
attraversava ogni mattina per andare a scuola. Senza pensare si diresse verso
l’arco in metallo, sotto il quale si erigevano i famosi piloni. Saint Tail
aveva comunicato loro come uno di quelli fosse gonfio d’esplosivo. Era un
inganno? Conosceva la ladra maga. Non avrebbe mai mentito così spudoratamente.
Soprattutto su una materia delicata come la vita e la morte. E poi… “Asuka… Sii felice…”. Le parole della ragazza gli rimbombavano in
testa. Ripetendogli la scontatissima verità.
Non si stava
sacrificando per suo padre, per i poliziotti, per la pelata di quello strano
Auricchio o per i capelli di De Simone. Si stava sacrificando per lui. Solo per
lui.
La paura che
l’aveva atterrito, l’accorgersi confusamente che con buona probabilità quelli
erano gli ultimi istanti della sua vita, cedettero il passo alla certezza: “Saint
Tail ci salverà, metterà fuori gioco quella bomba!”
Perché Saint Tail non bluffava. Ce l’avrebbe fatta
anche questa volta. Ma il tono della voce implicava che molto probabilmente la
salvezza di tutti gli agenti, i poliziotti, i carabinieri sopra quel
dannatissimo ponte sarebbe stata pagata dal suo sangue.
Gli occhi di
Asuka junior, per una frazione di secondo, vennero quasi accecati da un
abbagliante riflesso a destra. Si voltò. Un’auto di alcuni suoi “colleghi”
stava galleggiando a mezz’aria? Un guard-rail rotto. Uno strano pallone rosa
gigante a sostenerlo. E lei. Saint Tail?
«ASPETTA!!!»,
gridò, correndo verso la ragazza. Venti metri, non di più, ma lunghi come una
vita ed estenuanti come una maratona, anche se li percorse in poco meno di
cinque secondi. La vide. Leggera e veloce come sempre. Il lungo codino svolazzava
in preda al vento, mentre la lunga frangetta le celava, come al solito, quegli
occhi misteriosi ed intelligenti. Il volto si contrasse. Era un sorriso? Asuka,
nella sua corsa, si trovò di fronte al parapetto che separava la carreggiata
delle auto dalla lunga pista ciclopedonale. Saltò, ma inciampò e cadde rovinosamente,
con la faccia a terra, sul duro asfalto. Gli occhi rivolti verso di lei.
Saint Tail spiccò
quel suo ultimo – leggiadro – balzo. Le braccia aperte, gli occhi chiusi. Non
stava saltando in alto. Stava scendendo in basso. Sotto di lui. Verso quel maledettissimo
esplosivo. Cosa avrebbe fatto? L’avrebbe strappato e sarebbe caduta con quella
tonnellata di C4 tra le acque del fiume?
“La mia vita vale
la sua?”. “No”, si rispose. Non se lo sarebbe mai perdonato. Come uomo, come
futuro – e attuale – uomo di legge. E, per diamine, come amante. Amava quel
codino profumato, amava venir raggirato ogni volta, amava fare smorfie con la
bocca e al contempo ridersela internamente di gusto, vedendo ogni volta
farabutti vestiti di raso e velluto, rispettati e temuti dalla gente, venir
puntualmente consegnati alla giustizia per le loro malefatte. E gridò,
nuovamente, come aveva fatto nel suo incubo, quasi per fermarla: «MEEEEEEEEEEEIMI-CHAAAAAAAAAAAAAAAAANNNNNNNN!!!».
“Meimi-chan?” Il suo cuore prese per un momento le redini
delle sue corde vocali. Il cervello, che odia le spinte creative degli
individui e recriminò per quell’ignominiosa mancanza di rispetto, diede un
cazzotto all’organo cardiaco e lo rimise al suo posto. “Perché diavolo l’ho
chiamata Meimi?” pensò, in quell’infinitesimale frazione di secondo, mentre
Saint Tail correva incontro alla sua più che probabile fine, “si assomigliano,
è vero, ma sono troppo diverse…” Ma poi comprese, e
per comprese intendo che la sua materia grigia, dopo aver confinato nelle
segrete della razionalità più cupa ogni barlume di sentimento e di originalità,
provò a dare la spiegazione più logica possibile. Ma la logica è un’invenzione
del cervello, e non si applica necessariamente al tutto il resto: un po’ come
pretendere che il codice della strada possa regolare la migrazione delle
anatre.
“L’ho chiamata
Meimi perché Meimi mi piace. Proprio come mi piace, per motivi diversi, Saint
Tail”. E si sentì marcio e schifoso, come una donna fedifraga che chiama il
proprio marito con il nome dell’amante nel bel mezzo di un amplesso. Ma per un
millesimo di istante gli parve di essere ancora lì, all’acquario cittadino[1],
durante quello strano appuntamento con Meimi: si erano ritrovati in uno
stanzino, impregnato dalla puzza del mangime per i pesci, dove lui le aveva
confessato di essere innamorato di Saint Tail. Un’altra figura da scemo e da
traditore. E si odiò ancor di più, pensando che forse Saint Tail avrebbe potuto
sentirla, e che quel tremebondo equivoco, forse, era l’ultima espressione della
sua voce che la giovane maga avrebbe potuto udire in questo mondo. Si sentì
vuoto, sporco e impotente, mentre la silhouette corvina della sua amatissima avversaria
sprofondava verso l’oblio.
-
Questo è il capitolo
32. L’ho appena riletto dopo aver finito di scrivere il capitolo 40. Volevo
scrivervi qualcosa, ma è meglio non anticiparvi niente. Altri 12-13 (lunghi) capitoli
ed è fatta. Si fa per dire. Mi perdonerete se non rispetterò con precisione i
tempi (che non rispetterò, ve lo dico già). Ma la storia, prima o poi, vedrà il
termine.
Nel mio arsenale ci
sono ancora 8 capitoli già scritti che hanno solo bisogno di una rilettura
prima dell’imprimatur e una tredicina di capitoli già
sceneggiati (intrecci, cause ed effetti, dinamiche a grandi linee). Con il
tempo tutto vedrà la luce. «Abbiate fede», vi direbbe Seira.
Come sempre, vi chiedo,
come un clochard all’incrocio di un semaforo affollato, l’obolo dei vostri
commenti e, se ne avete di più, della condivisione della storia con altri
esseri umani che pensiate possano gradirla.
Nella giornata di giovedì 29 novembre 2012, è mancato nella sua
abitazione di Terracina Osvaldo Paniccia, anziano
artista divenuto una star di Youtube e della memetica italiana grazie ad un video di un critico d’arte
assai conosciuto come idolo pop.
Ho riflettuto se fosse il caso di cancellare questa fanfiction
che lo cita, seppur di sfuggita, o, magari, camuffare il suo nome nei capitoli
già pubblicati. Perché sui morti non si scherza, sui morti non ci si diverte e
i morti non si usano per giochetti letterari come questo.
Ma ho deciso di non ricorrere a queste soluzioni così drastiche. E l’ho
fatto per una ragione precisa. Esiste un capitolo 36, da me scritto a metà
ottobre, che voi leggerete, grazie alle regole che mi sono dato per la
pubblicazione, forse verso fine anno (sempre se i Maya avevano torto – cosa di
cui comincio, seriamente, a dubitare). Ebbene: come questo capitolo è
espressamente dedicato alla “merdaccia” Giandomenico Fracchia,
il capitolo 36 sarà dedicato ad Osvaldo Paniccia. Non
spoilero nulla, ma il ritratto che ne verrà fuori mi
pare rispettoso e delicato, – per quanto non sia mai stato in grado in vita mia
di avere dei giudizi obbiettivi sui miei lavori – anzi, seppur immerso in un
contesto di fantasia ciò che ho riletto in queste ore mi pare persino un
omaggio verso quelle persone che all’arte credono e che all’arte dedicano molte
delle loro forze.
Confesso di aver aggiunto, all’inizio di questa storia, il nome di
Osvaldo Paniccia come richiamo alla maschera comica –
l’anziano frastornato dalle dotte parole del critico d’arte – resa celebre dal
web. Ma poi, divenendo questa storia assai più seria, anche il mio sguardo
verso Paniccia si è fatto più profondo. Ed è a questa
profondità che devo rendere conto.
Spero anch’io di invecchiare come Paniccia:
amando ciò che mi ritroverò a fare, esalando creatività assieme ai miei ultimi
respiri, credendo nell’opera delle mie mani, del mio pennello, della mia
tastiera. E sebbene avranno il suffisso –anta, non si potranno nemmeno definire
“vecchiaia”, questi ultimi anni della mia vita, se così vissuti. Innamorati
della propria arte.
La terra ti sia lieve, artista.
Andrea
Li contò, cercò
di trattenerli il più possibile dentro la testa, dentro il cuore. In pochissimi
istanti la Yaris bianca che lo trasportava sarebbe sussultata alla presenza di
un altro dossetto metallico. Segno inequivocabile della
fine del ponte. Cercò di trattenere gli istanti, contando persino i decimali
dei secondi, esattamente come fecero milioni di personaggi avvinazzati e con
cappellini buffi in testa nella notte tra il 31 dicembre 1999 e il primo
gennaio 2000, credendo di vivere gli ultimi attimi del secondo millennio,
quando in verità, il millennio del basso medioevo, del rinascimento, della
scoperta dell’America e delle scarpe da ginnastica sarebbe durato per ulteriori
dodici mesi.
Non ci sarebbe
stato nessun brindisi, nessun trenino con canzoni brasiliane, nessun augurio di
una vita migliore. Ma la fine di una vita da innocente e l’inizio di una nuova
esistenza. Quella da belva. Quella da carnefice. Il suo corpo quasi si muoveva
da solo, per la paura di una punizione esemplare da parte della vera Belva,
quel criminale senza briciolo di timor di Dio e di pietà verso gli uomini. Non
era l’ipnosi – comprese – ma quella paura, quella paura per tutto che lo aveva
iscritto, già al momento della nascita, nell’affollato registro delle merdacce,
un librone ben distinto dall’anagrafe degli esseri umani rispettabili. La paura
lo aveva reso quella macchietta comica, la sua paura avrebbe ucciso decine e
decine di persone, ma la paura, del resto, lo avrebbe potuto tenere in vita.
“Per fare che…” recriminò un angolino sano della sua
coscienza. Raccolse dal sedile di sinistra[1] il
telecomando che avrebbe innescato la bomba a distanza, squarciato il ponte e
ucciso decine – forse centinaia – di persone. Nel prenderlo quasi si impigliò
con il braccio con la corda che impiccava l’odiosa HelloKitty.
Avevano sempre
riso di lui. Da bambino, a scuola, lo deridevano i compagni di classe, che gli
nascondevano nella cartella ragni, rane, persino topi morti, tra le
sghignazzate generali. Da ragazzo, durante la naja, lo
deridevano i suoi commilitoni, che gli avevano messo nel letto chili di sale e
di zucchero, escrementi di cani, persino una troia sessantenne senza un braccio
e ceca da un occhio, così, per passare il tempo e far scorrere più veloci i
giorni sotto il giogo del Ministero della Difesa. Da grande, in fabbrica, i
colleghi, tutti ridevano di lui: caricandogli sulle spalle il lavoro degli
assenteisti di turno, bruciandogli la maniglia dell’armadietto che avrebbe
tentato di aprire provocandosi ustioni di secondo grado, prendendolo a calci in
un’inumana variante dello schiaffo del soldato, durante la quale imbrogliavano
come una giuria di boxe dilettantistica sovietica in un match tra un atleta ucraino
e un campioncino americano.
Ma pochi, anzi,
nessuno, avrebbe riso, vedendolo in quel frangente. Dieci metri. Il
telecomando, strumento di morte e della perdizione finale della sua anima,
stretto in pugno. Cinque metri. Respirò forte, chiedendo scusa a tutti i santi,
ai vari aspetti della Madonna, Immacolata, Annunciata e Addolorata insieme. Le
gomme davanti sussultarono: stava passando il confine. Il confine tra la
merdaccia e l’uomo di merda. Pensò alla sua mamma, morta giovane, che lo
difendeva sempre, unico essere umano ad aver mai provato amore per Lui, che dal
cielo lo proteggeva – o almeno ci provava. E che da oggi non l’avrebbe più
fatto, per quella legge che impedisce alle schiere iperuraniche
di lavorare per la concorrenza. Le ruote posteriori sobbalzarono. Tutto il
coraggio della sua anima – ben poco in verità – tentò una sortita disperata,
affinché non facesse quella carognata infinita. Ma gli occhi della Belva,
piantatisi dentro il cervello come le luci di un flash, che rimangono per molto
tempo, anche se chiudi gli occhi, bene impressi, gli fecero prefigurare già su
questa terra le pene dell’inferno. La Belva lo squadrava dal suo alto trono,
composto di ossa e umido di sangue raggrumato. Ordinò. “Premi quello
stramaledetto bottone!”. Negli occhi, gelidi come il nulla, l’eterna dura
verità della legge del più forte, che tutto schiaccia, che tutto piega. La merdaccia
rispose.
Il pollice,
colpevole, si mosse da solo, e, senza esitare colpì il bottoncino rosso del
nero dispositivo. Il geometra cioccolataio, ormai un aggeggio insanguinato che
la Belva aveva usato per togliere delle vite, nemmeno si girò, nemmeno fissò lo
specchietto dal quale continuava a dondolare, strangolata dal cordino, la
raccapricciante HelloKittyMade in China.
Sentì alle sue
spalle un rumore sordo, un “THUN” gigantesco di un sordo ma imponente
spostamento d’aria. Poi un tremolio più diffuso, più scoppiettante, come quello
del fuoco che divampa e circonda, improvvisamente, grazie a una generosa
quantità di cherosene, una “Vecchia” di paglia e cartone, bruciata nel
pomeriggio dell’Epifania, da un gruppo di ragazzi resi allegri dal vin brulé e
dalle ultime fette di pandoro.
“È fatta”, si
disse. “La Belva non mi ucciderà”. In mano ancora quel dannatissimo
telecomando. La parte della sua scarsa materia grigia che aveva premuto
affinché il cioccolataio obbedisse si sentì soddisfatta, e mollò la presa.
Grave errore, però: i neuroni più responsabili che solitamente vagavano nella
sua scatola cranica come ebrei nel deserto, partirono alla carica. Ma ormai la
frittata era fatta. Giandomenico Fracchia fu preso
dal senso dell’orrore più nero, dalla macchia del peccato più torbido che non
può aspirare ad assoluzioni. Non riuscì più a respirare e tutto si fece bianco,
e freddo. I muscoli si irrigidirono, gli sfinteri del suo corpo cedettero
tingendo la sua serata del colore che – forse – si meritava. O forse no. Perché
alle merdacce non possiamo applicare i dettami etici degli esseri umani.
In mano quel
telecomando, quel dannatissimo telecomando. Tese il braccio quasi a
sbarazzarsene, ma si impigliò nel cappio del gatto antropomorfo nipponico senza
bocca e senz’anima. Esattamente come lo era lui. Premette e tirò fino a strappare
il filo, piegando lo specchietto e facendo cadere sotto il sedile il
pupazzaccio. A pochi metri dal ponte una curva. Andava a una velocità sconsiderata
e sconsiderevole. Tentò di frenare. Ma la gattaccia
che piace tanto alle ragazze e alle donne di ogni età, liberata dal nodo
scorsoio che la faceva penzolare come Giuda in uno dei suoi momenti migliori,
si era andata proprio a posizionare – come la belva malefica qual’era – sotto
il pedale del freno. Fracchia pigiò il piede per
inchiodare con l’auto. Ma il freno gli resistette. Provò con più forza, ma
ottenne soltanto di sentire il suono stridulo dell’HelloKitty strizzata, come un gioco per bambini e
cagnolini piccoli. Alzò gli occhi, impotente.
All’angolo della
strada, il venditore ambulante di Takoyaki e Sakè
caldo fece appena in tempo a schizzar via dal tuo carretto: la Toyota Yaris
condotta dal Fracchia andò a schiaffarcisi
contro. Il cristallo anteriore andò in mille pezzi, Fracchia
si ritrovò l’auto piena di pezzi di legno, braci roventi e trancetti
di polipo. Imboccò lo sterrato. Un sasso che era lì da sempre, ma che al
geometra parve uscito dal nulla, si impattò con la ruota anteriore destra,
facendola letteralmente esplodere. La Toyota in quel momento cercò di fermarsi
e arrestare dignitosamente la sua corsa, ma un improvvidenziale riflesso del
Fracchia gli fece girare del tutto il volante, costringendo l’incolpevole
autovettura di fabbricazione giapponese a girarsi più volte su se stessa e a
fermarsi per sempre, ruote all’aria, adagiata alla corteccia di un maestoso
ciliegio.
Ma non era
primavera. Non c’era lo spettacolo dei fiori rosa a cui assistere. Forse perché
i petali sulle merdacce non si posano.
«Maledetto De
Simone! Sta’ tranquillo, manneggia a te, maledetto!
Quella ci vuole freghere!». Auricchio digrignò i
denti e mostrò i pugni al suo sottoposto, cercando di calmarlo.
«Ma
commissario!», protestò quasi urlando il trentenne capellone, «ha detto che c’è
una bomba! La Belva vuole ucciderci!». Pochi istanti prima, infatti, la ladra
gentildonna aveva lanciato il suo avviso accorato: «SOTTO IL PONTE HANNO
PIAZZATO DELL’ESPLOSIVO!!! LA BELVA VUOLE UCCIDERVI TUTTI!!!».
«Steichelmo! Vuole che ci fermiemo. Quella o è una complice della Belva oppure vuole freghere noi e prendersi il quedro
lei. Steichelmo!»,
confermò Auricchio, che si girò verso il ragazzino alla guida, un poliziotto
diciannovenne alla sua prima uscita al di fuori dell’Italia, «Alberto, andiemo aventi!».
Ma Alberto,
contravvenendo alle indicazioni del commissario, inchiodò in quel preciso istante,
di colpo, facendo sbattere i suoi superiori sul retro dei sedili davanti. Non
frenò per spirito di disobbedienza o di testardaggine, ma perché l’auto che
viaggiava di fronte a lui aveva appena fatto altrettanto. Non conosceva ancora
bene Auricchio, non sapeva che vette riuscivano a raggiungere le sue ire,
dunque, tra un duro tamponamento e il contravvenire a un ordine preciso, scelse
il secondo partito.
«Che diemine!» imprecò il commissario. Di fronte a lui un
torpedone di auto confuse: alcune si erano toccate, altre avevano virato,
sgommando, invadendo l’altra corsia. Aprì lo sportello e saltò giù dal veicolo,
pregando la Madonna Addoloreta[1] di
vedere, più avanti, qualche automobile della polizia, giapponese, italiana o
persino peruviana il cui conducente non se la fosse fatta sotto e che avesse
avuto il fegato di continuare a correre per acchiappare quel dannato criminale.
Ma uno sbrillucicchio catturò la sua vista. Si girò
verso destra, e la vide. Sopra un’auto svolazzante – “Eppure non ho bevuto” –
tenuta in volo da una specie di salvagente rosa di diversi metri di diametro,
stava in piedi una ragazzina con lunghi guanti neri e una calzamaglia dello
stesso colore. Sulla pista ciclabile/marciapiede, invece, a terra come un povero
idiota, il buon Asuka Daiki Junior.
«Che diemine sta facendo!», urlò Auricchio al suo vice, i cui
capillari del viso cessarono di rompersi per la rabbia e iniziarono a farlo per
la paura, «non sta inseguendo la Belva per prendergli il quedro…
E rimane qui, a portata di mano nostra», gridò ancora, quasi piangendo.
Saint Tail spiccò
un balzo, che per la mente del commissario fu infinitamente più veloce che per
il cuore confuso del giovane detective giapponese. La ragazza, dapprima levatasi
in aria, a braccia aperte, iniziò la sua discesa, fino a sparire dagli occhi di
quelli che la guardavano da sopra il ponte. Auricchio corse, scavalcò con un
salto all’Olio Cuore – notevole per la sua età e per la sua stazza fisica – il
parapetto che separava la carreggiata per le auto dalla pista ciclabile/marciapiede
per velocipedi[2]
e pedoni, e si sporse, occhi verso il basso, oltre l’ultimo scorrimano
di sicurezza. L’oscurità della tarda serata gli permise di vedere solo i flutti
del fiume nero agitati dal vento.
Poi un calore
improvviso lo pervase. Anzi, per l’esattezza, gli scaldò il collo e la lucida nuca.
Tra le onde nere un’improvvisa e sgargiante luce riflessa. Alzò il viso verso
il cielo con un movimento improvviso, accusando per qualche istante persino un balzo
di pressione: alla sua età, con lo stato delle sue coronarie, cosa più che
comprensibile.
Una palla di
fuoco illuminava il cielo, sopra la sua testa. Da quell’incendio, pigramente,
come se andassero al rallentatore, calarono pian piano, come resti luminosi di
un fuoco d’artificio, alcune scie gialle e rosse, spegnendosi un poco alla
volta. Un lungo crepitio, come di legna sul fuoco, accompagnò quell’insolito
spettacolo.
Il commissario
crollò, col sedere a terra. «Aveva regione… Aveva
regione lei…», e con un fazzoletto così esteso che
avrebbe potuto fungere da bavaglino per Giuliano Ferrara, iniziò ad asciugarsi
febbrilmente i sudori dalla fronte.
«Ci ha salvati
tutti». Vicino a lui, Asuka Daiki Junior provò a
rialzarsi, ma cadde nuovamente sulle ginocchia, viso a terra. «Ci ha salvati
tutti». Le lacrime iniziarono a cadere a terra copiose. Era vivo. Ma che vita
senza di lei?
«Insomma, reghezzo», ansimò Auricchio, «vuoi dire che ha tolto la
bomba e l’ha fetta sperire in eria?».
Il ragazzo annuì, tra un singhiozzo e l’altro. «E lei è…»
non completò la frase. Guardò il ragazzo, abbassò gli occhi e comprese. “Ce ne
fossero di più di ledri così. Ledri
che muoiono per salvere i poliziotti. Certo che in Gieppone sono molto aventi come civiltà” pensò il
commissario, il quale, le poche volte che pensava, lo faceva comunque in
stretto accento pugliese.
Le
ricetrasmittenti, ancora a tutto volume, accese dentro le macchine parcheggiate
alla rinfusa lungo la carreggiata del ponte sospeso, iniziarono a ruggire
furiosamente tutte insieme.
«Qui il
Brigadiere Esposito», esordì l’eroe di Nassiriya con la sua parlata
marcatamente meridionale, «sono già fuori dal ponte. In lontananza vedo la
macchina della Belva che si è ribaltata ed è attualmente fuori strada. Ripeto:
l’auto della Belva è ribaltata e fuori strada».
Auricchio, come
il mostro di Frankenstein prese vita in un lampo grazie alla scossa di un
fulmine, si rianimò in un istante, saltò nuovamente il parapetto, entrò nella
prima auto di fronte a lui, con una gomitata stese un poliziotto giapponese per
appropriarsi in fretta della ricetrasmittente che teneva in mano.
«ESPOSITO!!!»
urlò. «Sei sicuro?», e attese la risposta come se da questa dipendesse tutta la
sua vita. E in effetti, così era.
«Affermativo
commissario», confermò il fiero carabiniere.
«E LUI È ANCORA
DENTRO?» gridò a pieni polmoni, come se urlando la sua voce potesse arrivare
prima, a poco più di trecento metri di distanza, dove il carabiniere, il primo
ad aprire il corteo delle forze dell’ordine, poteva raggiungere la Belva ad un
tiro di schioppo.
«Affermativo
commissario. Forse c’è stato un problema meccanico. Fatto sta che ha colpito un
carretto, è scivolato su un campo e ha sbattuto contro un albero. Potrebbe
essere ferito. O forse anche morto».
«NON MUOVERTI!!!
ARRIVIEMO!!!», ululò Auricchio, spinto dall’orgasmo della situazione. Il
sacrificio di un’anonima ladruncola giapponese era passato in secondo, anzi, in
terzo piano. Ma c’era da comprenderlo. Da anni Auricchio si svegliava pensando
alla Belva, faceva colazione in compagnia delle immagini delle vittime della
Belva, andava a lavoro temendo eventuali ritorsioni della Belva, assisteva alle
partite di calcio del figlio quattordicenne pregando perché gli artigli della
Belva non lo raggiungessero mai. La prospettiva che tutto stesse per finire lì
lo mandò in estasi. “È fatta!”, giubilò. E iniziò a correre come un disperato
verso la fine della sua caccia pluriennale, con le braccia di Zanardi, il cuore
di Pistorius e la gambe di UsainBolt.
«C’E’ QUALCUNO CON LUI!!! IO VADO!!!» la voce dallo spiccato
accento meridionale del brigadiere Esposito tornò a rimbombare tra una
ricetrasmittente e l’altra. Né Auricchio, né De Simone, né i suoi uomini
risposero alla comunicazione, troppo impegnati a correre. Prendere un’auto
ormai impossibile: tra gazzelle tamponatesi l’una con l’altra, volanti in
testacoda e poliziotti giapponesi che vomitavano per la tensione e lo scampato
pericolo in mezzo alla strada, il modo più veloce di muoversi era proprio
utilizzando i piedi.
“E adesso chi
c’è?”, pensò il commissario, il cui unico modo per velocizzare i tempi entro i
quali avrebbe ottenuto l’agognata risposta era quello di correre più veloce.
Sperando che Esposito mettesse a bada quel “qualcuno”. “Un complice?” La sola
eventualità lo angosciava. I complici della Belva erano il fior fiore dei
criminali e dei figli di buona madre che l’umanità produce e seleziona con
tanto affetto e cura. Forse, proprio in quel preciso momento, Esposito stava
affrontando qualcosa di ben più pericoloso di un criminale ferito dentro ad una
macchina rovesciata.
Asuka Daiki Junior non si unì alla corsa preoccupata ma a tratti
liberatoria di quei poliziotti. Anzi, quasi non si accorse di quel trambusto.
Saint Tail non c’era più. E in quel momento nulla aveva senso. Quello stupido
distintivo di bigiotteria donatogli dal sindaco, le sue notti insonni a caccia
di un’ombra, quel suo desiderio di acciuffare quello sfuggente codino. In tutti
i sensi. Pensieri vani. Lei non c’era più. Ma a farlo imbestialire, a fargli
sbattere per terra i pugni fino a sanguinare, il viso inondato e trasformato in
una maschera gelatinosa da un fiume di lacrime, il fatto che lei era morta per
salvare lui. Sì, ne era sicuro. Quell’ultimo invito ad essere felice. Era morta
per lui. E lui avrebbe dovuto trascorrere tutta la vita in perenne debito con
un fantasma. Più che una vita, una condanna all’ergastolo.
«De Simone… Corri disgrazieto!». In
quel frangente tutti gli osservatori esterni avrebbero dato qualche anno in
meno al commissario barese e molti anni in più al suo vice capellone. Auricchio
saltò giù dal marciapiede e iniziò a correre per quel campo di terra scoperta.
Aveva piovuto: l’auto della Belva aveva scavato un solco profondo, prima di
schiantarsi contro quell’albero. Lanciò un’occhiata più avanti. Esposito se ne
stava in piedi, dritto come un fuso. Sotto di lui, disteso, come una preda in
una foto ricordo che i cacciatori solgono farsi fare dopo una giornata
fruttuosa, un uomo dai capelli d’argento, il cui lucido e prezioso vestito
bianco era simile all’abito di arlecchino per una serie variopinta di macchie.
Rosa per gli strappi, rosso per il sangue, nero per la morchia e l’olio motore,
marrone per il fango – e non solo. L’agognata Belva attendeva soltanto di
essere pesata prima di finire, con la testa impigliata, sopra il caminetto
della casa di montagna di Auricchio. Il commissario pugliese già si immaginava
la scena, fregandosi le mani di gusto.
Unico particolare
che non rientrava, in quella scena comunque caotica, il bagagliaio dell’auto
ribaltata, completamente spalancato.
«Che è successo,
Esposito?». La scena era commovente: mai, nella storia del genere umano, un
poliziotto si era rivolto con così tanta stima, fiducia e ammirazione nei
confronti di un carabiniere. Mai.
Il militare in
borghese, a cui solitamente mancava solo quel vecchio cappello alla Napoleone
per potersi tuffare di diritto in una cartolina di fine ottocento, fisso come
una statua, rispose marzialmente: «Se n’è andata, commissario». «Chi?» digrignò
viso e bocca Auricchio, come se il carabiniere avesse proferito una frase in lingua
berbera.
A poche centinaia
di metri di distanza, Asuka Daiki Junior osservava l’asfalto
di quel ponte. O meglio, avrebbe potuto farlo se i suoi occhi non si fossero
ridotti a una crosta umidiccia e arrossata di dolore. Per lui era tutto finito.
Quei minuti di puro dolore, in ginocchio, piegato verso terra, iniziavano a
provocargli delle fitte spaventose ai muscoli della schiena. Ma non gli
importava. Anzi: avrebbe gradito di buon grado se qualcuno avesse deciso di
appoggiargli qualche bastonata o se l’avesse preso a schiaffi. La sua salute
mentale non gli permetteva di farsi del male fisicamente come certi ragazzini
fanno, soggiogati dal dolore. Troppo prezioso il sacrificio della sua amata –
“Sì, amata”, avrebbe gridato al mondo Asuka – per disprezzarlo. Però, se prima
d’allora avrebbe giudicato come appestati i suoi coetanei che arrivavano
all’autolesionismo, ad incidersi le carni com’era di moda tra i ragazzini di
metà anni ’00, dopo quella sera la sua mente sarebbe stata assai più
comprensiva.
In quell’apogeo
di dolore mentale, che si ripercuoteva sotto forma di spasmi e crampi anche a
livello fisico, percepì – forse uno scherzo dei nervi? – un tocco vellutato sul
suo collo. Caldo e delicato, come la caduta di un petalo di ciliegio. Quasi una
carezza. Forse era la mamma morta che dal cielo gli voleva stare vicino. Sì,
era una carezza. Forse era Saint Tail che, sempre dal cielo, voleva fargli
sapere che stava bene. Non era molto religioso, ma sapeva che Saint Tail sarebbe
andata sicuramente in paradiso. Rimase come pietrificato, come un bambino
ferito a un ginocchio diventa una statua di ghiaccio quando la mamma gli passa
il disinfettante sulla sbucciatura. Troppo reale. Realizzò. Quel profumo di
vaniglia? Lei? Alzò di scatto la testa, saltò in piedi come una molla. Quasi
svenne quando i polmoni di colpo gli si aprirono per dare un improvviso sospiro
e riprendere in pochi secondi litri e litri d’ossigeno persi. Si guardò
ovunque, si girò, mosse la testa a destra e a sinistra, corse su se stesso fino
ad avvertire i prodromi di un capogiro. Non c’era nessuno. Si era illuso.
Nuovamente. Abbassò il volto, e si odiò per quell’ultima flebile speranza. Un
gioco di luce, un riflesso, un lampo. Si girò di scatto a quarantacinque gradi,
verso la direzione dalla quale il plotone di Auricchio era giunto a spron battuto per inseguire e catturare la Belva.
Il classico
stormo di palloncini di diversi colori e dimensioni trasportava, leggiadra e
bella come non mai, la misteriosa ladra Saint Tail. Sotto il braccio sinistro,
tra l’ascella e il polso, il quadro di Osvaldo Paniccia.
Volava a bassa quota, a pochi metri da lui, sopra il fiume, parzialmente
nascosta dall’oscurità di quella sera. Era sana, era viva. Il codino, però, era
più scapigliato del solito, e sopra la calzamaglia marrone scura, tendente al
nero, c’era ben più di uno strappo. Anche la sua presenza era un po’ più
arrancante del previsto. Non era morta, ma c’era mancato poco.
Aveva il quadro.
“All’inferno anche il quadro”, concluse velocemente il giudizio della sua
coscienza Asuka junior. L’importante che fosse viva. Che le cacce fossero
continuate. Che quei biglietti fossero ancora arrivati. Ancora per molto. Per
sempre.
«Grazie, Saint Tail-sama», urlò a squarciagola il giovane detective,
ignorando tutta una serie di regolamenti e dettami, a partire, ovviamente,
dalla norma non scritta che vietano agli uomini di legge di ringraziare i
criminali a squarciagola. Ma se qualcuno, in quel momento, gliel’avesse fatto
notare, Asuka Daiki junior gli avrebbe mostrato in
pochi istanti il lato più triviale e sconveniente di sé. “Era viva”. Fece un
passo in avanti, non per inseguirla, ma per poterla vedere ancora più a lungo,
ma il vento, con uno scossone improvviso d’aria fresca, mosse qualcosa che
produsse un sonoro fruscio alle sue spalle.
Cos’era? Un’altra
folata, sentì qualcosa “tirargli” la giacca, dietro la schiena. Comprese. Aveva
qualcosa attaccato alla giacca blu da cantante di balera. Con difficoltà riuscì
a strappare un foglietto attaccatogli alle spalle con una puntina. “Possibile
che prima? La carezza?” Ma la carezza era sul collo…
Era stata Saint Tail? Ma perché? Era troppo buio per leggere: estrasse dalla
tasca il cellulare e con il display illuminò il pezzo di carta.
V’era scritto,
con una grafia veloce e disordinata, ma spiccatamente femminile, un messaggio
che pareva una presa in giro. «Ma è impossibile!» urlò Asuka junior, prima di
scattare in direzione contraria, verso i poliziotti, verso Auricchio, suo padre
e De Simone, «ma allora lui dov’è? E allora perché questo? Ma che diamine sta
succedendo?». Portava, stretto in pugno, quel foglietto, consegnatogli
personalmente da Saint Tail. Testo del messaggio: «彼らはフラッキアの目です[3] – Sono gli occhi di Fracchia».
-
Ecco a voi la puntata 34. Un
commentino è sempre gradito.
Vi auguro in anticipo un Buon
Natale e un felice 2013 ricco di soddisfazioni!
[1]
Non l’Addolorata, ma proprio l’Addoloreta, venerata a
Barletta.
[2]
Le biciclette per quelli che lavorano nella Polizia Locale. Conosciuti anche come
Vigili Urbani.
La
linea temporale di questo capitolo anticipa di mezzo minuto il capitolo
precedente. «Abbiate pietà», direbbe il Fracchia.
Era in piedi,
ritto di fronte alla sua preda, e la difendeva dalle grinfie di chi gli si
avvicinava desideroso di toccarlo come farebbe un qualsiasi fedele cane da
caccia, mentre attende l’arrivo del suo padrone.
Non so se sappiate
come funziona il cervello di un cane da caccia professionista, uno di quei
cani, insomma, che non perde tempo a rincorrere gatti o postini ma investe
tutte le sue forze nell’onesto ma talentuoso mestiere di ferma pennuti.
Tralasciamo l’annosa questione e la stanca polemica che da decenni si trascina
tra animalisti, ex ministri dai capelli cotonati e dalle calze a rete alla
ragazza Cin Cin[1] e
pensionati che pensano tutto l’anno solo a quel colpo di schioppo e a quella
cena di polenta e uccellini. Pensiamo all’anima di quei cani, che dimostrano
un’abnegazione e una fedeltà non tanto al proprio padrone, ma al loro mestiere
di cani da caccia. Un attaccamento alla causa che supera di gran lunga quello
che gente come Maldini, Zanetti e Del Piero ha avuto
per le proprie maglie.
E stiamo parlando
di cani che a casa sono cani uguali a tutti gli altri, anzi, sembrano persino
più stupidi degli altri: dormono venti ore al giorno, abbaiano al sole e alla
luna solo per scaldarsi la gola e per rompere i coglioni ai vicini, girano su
loro stessi anche per venti minuti per trovare la posizione più comoda per
sedersi, tanto che persino un Chiwawa malformato
potrebbe mangiar loro i risi in testa. Eppure, quando questi veltri si
ritrovano in mezzo a un campo di granturco appena trebbiato, con il loro
padrone alle spalle che cammina bilanciando un costoso semiautomatico Beretta
tra le mani, i cani in questione si ricordano di avere un Pedigree a quindici
stelle e ci tengono a fare bella figura. Sentono la tranche agonistica: si
esaltano. Corrono come disgraziati, annusano le molecole più impercettibili
nell’aria lasciate da qualche povera quaglia o leprotto addormentato, cercano
in ogni sprazzo, in ogni fosso, animati da una furia degna di agenti del KGB
sotto la gestione di Vladimir Putin. E, una volta trovata la preda, si fermano
come statue di ghiaccio, attendono il via del loro socio col fucile in mano e
mettono in fuga la preda. Il più delle volte, a questo punto, il cacciatore
inchioda con una rosa di pallini l’animaletto, volatile o piccolo mammifero che
sia, al suo triste destino. E, se non ci riesce, i cani sono giustamente in
diritto di ringhiargli contro: «Io la mia parte l’ho fatta, se poi tu prendi le
padelle assumitene la responsabilità, idiota!»[2].
Ma l’atto più sacro del cane da caccia è il riporto. Se il fagiano e la starna
di turno decidono di rendere al tandem uomo-cane le cose più difficili, possono
andare a cacciarsi, prima di morire, in un campo distante, in un fosso fangoso,
persino in mezzo a un fiume. Lo sanno, e godono come i maledetti, per
quest’ultima loro saporosa vendetta. Ma il cane da caccia professionista parte
come un razzo, pronto ad ogni pericolo: salta fossi, attraversa fiumi, morde
altri cani. Non gli interessa: per lui c’è solo quella preda esanime da
consegnare al padrone. E se qualcuno, anche il più caro e affezionato amico di
famiglia, anche il bambino di dieci anni che gioca sempre con lui, osa
avvicinarsi alla preda prima che lo faccia il padrone, può benissimo beccarsi
nel migliore dei casi una ramanzina a suon di ringhiate, oppure, cosa assai
probabile, un’azzannata di quelle che si ricordano per tutta la vita, anche
grazie alla vistosa cicatrice che solgono lasciare.
Perché i cani
quando vanno a caccia non giocano, per loro è una faccenda dannatamente seria. Come
i centurioni ci tenevano a tenere sempre in piedi, e persino difendere con il
sangue le insegne legionarie dalle aquile pennute, di fronte agli occhi di Caio
Giulio Cesare, così il cane da caccia ci tiene a preservare la preda per il suo
padrone.
E per il brigadiere
Esposito, quella sera, la preda era l’ometto ferito vestito di bianco, e il suo
padrone era il suo diretto superiore: il commissario Auricchio. Una cosa
meravigliosa, che avrebbe fatto piangere di gioia generazioni e generazioni di
tutori della legge: il brigadiere, infatti, era un carabiniere, Auricchio,
invece, come si sa, era un poliziotto. Ma quella speciale squadra interforze
era, a quanto pare, riuscita nel proprio obbiettivo, superando ogni pregiudizio
e antipatia covata in seno, per il bene della nazione che tutti servivano. Un
po’ come quando Oliver Hutton e Mark Lenders dopo anni di calci reciproci sugli stinchi nei
derby giovanili si erano ritrovati ad essere trequartista e punta titolari
della nazionale del Sol Levante.
«Ehi! Facci
controllare!» urlò un poliziotto giapponese. «Faccelo vedere!!!», urlò un
altro. Arrivavano di corsa dal ponte, dove avevano lasciato le loro macchine,
e, sempre di più, si accalcavano di fronte a quell’omino vestito di bianco,
sporco e ferito. Un omino a cui molti di loro, in particolare quelli senza gli occhi
a mandorla, avevano dato la caccia per anni. Un omino che quattro minuti prima
aveva tentato di ucciderli tutti con una Cambogia[3] di
esplosivi. La strage, però, era stata evitata grazie al sacrificio eroico di
una giovane fuorilegge nipponica.
«Facci vedere la
Belva!», iniziarono a gridare anche gli italiani. Ma Esposito, senza neppur
muovere un muscolo, riusciva non si capisce bene come a tenerli tutti a
distanza. E poi dicono che il ki, l’haki, l’aura, come diamine volete chiamarla, non esiste.
«Esposito!
Esposito!». Auricchio arrivò di corsa. Pareva Mennea. Alle sue spalle si
trascinava stancamente, come se stesse per crepare da un momento all’altro, il
povero De Simone. I capelli afro grondanti di sudore gli scendevano lungo le
tempie. Non pareva più Brook di OnePiece, ma SeverusPiton di Harry Potter.
Il brigadiere scattò
sull’attenti. Il che rasenta l’incredibile, in quanto Esposito, sull’attenti,
già ci stava.
«Fammelo vedere… Fammelo vedere sto fetentone!!!”
e si chinò sul corpo dell’ometto. Il cacciatore era arrivato, il cane di razza
pregiata parve calmarsi.
«Ti abbiemo preso, finalmente!». Il vestito bianco prodotto
dallo stesso sarto di Felicetto Maniero. Il rolex di cattivo gusto al polso. Era la belva. Le macchie
di sangue e di fango, i capelli scapigliati e il fatto che fosse lì disteso a
terra come una pelle di daino ne diminuivano, però, di molto, la consueta aura
minacciosa.
«Una ragazzina,
commissario. Era vestita di nero e di rosa. Un lampo, da non crederci. L’ho
vista solo per qualche istante, prima vicino alla Belva, poi ha aperto il
bagagliaio ed è scappata via. I ninja esistono veramente, a quanto pare».
L’inflessibile Esposito, che aveva presto letteralmente a calci sui denti i
rimasugli dell’esercito di Saddam, era in preda all’agitazione. Ma più che
agitazione, pareva entusiasmo.
«Spiegati,
maledizione!», il commissario barese pareva stesse iniziando a perdere la
pazienza. A continuare però fu De Simone, che aveva avuto il tempo per
rifiatare. «Si è portata via il quadro!», e, dopo aver tuffato il viso dentro
il bagagliaio, se ne uscì agitando come un triste trofeo un piccolo pezzettino
di metallo. La microspia GPS con cui avevano seguito la Belva.
Auricchio si fece
scuro per qualche istante, poi esclamò, ridendo: «Macchissenefrega
del quedro! Noi abbiemo la Belva!
Così impera la Contessa! Adesso che avremo più tempo inculiemo
pure lei!», promise con un velo di minaccia il commissario barese, tra gli
applausi dei suoi sottoposti e la tacita ammirazione degli agenti nipponici. «Ebbrava Santa Donetella!», esclamò
protendendo il pugno destro in aria in un immaginario brindisi. De Simone non
ritenne conveniente ricordare al suo superiore che giusto pochi minuti prima
aveva esplicitamente messo tutti sull’avviso riguardo alla misteriosa Saint
Tail, arrivando ad ipotizzare la sua complicità con la Belva.
«Non sarà il caso
di chiamare un’ambulanza?» suggerì qualcuno. In effetti, “la Belva”, pareva
proprio messa male.
«Macchè», tagliò corto il commissario, «sono solo botte. Ci
vuole ben altro per freghere la Belva. Magheri spera che in ospedele la guerdia sarà ridotta». E si chinò, tronfio e soddisfatto,
sul viso dell’omino, più di là che di qua. «Col chezzo
che ti porto in ospedele! Piuttosto su una veligia, ti chiudo, e ti porto a Regina Coeli,
ti porto!». «Bravo!!!», applaudirono commossi i suoi agenti, mentre Auricchio,
questa volta goffamente, si inchinava sull’ometto per ammanettargli ipolsi, con tutta probabilità rimasti fratturati nel corso
dell’incidente. La “belva”, non dava segni di resistenza. E un atroce sospetto
iniziò sibilare nel cuore di De Simone. “Si è fatto prendere troppo facilmente.
Che sia?” E si avvicinò all’uomo, ormai ammanettato, che non aveva ancora
proferito parola. Era il silenzio del brigante impassibile, che non vuole dare
soddisfazione ai suoi aguzzini, o si trattava piuttosto del mutismo angosciato
di un povero idiota?
«Ehi tu!». De
Simone si avvicinò all’uomo, cercando, per quanto gli fosse possibile, di
carpirne i segreti. Ma, come risposta, aveva ricevuto solo un prolungato
silenzio.
«Andiemo a chiudere questo figlio di puttena
a doppia mandeta in consoleto!»
tuonò gioioso Auricchio, «poi in un attimo si fa rapporto. Tempo mezzora, poi
tutti quelli che steveno nella saletta con me e non
hanno mangieto si sta allegri fino a domeni mattina». Gli italiani applaudirono, i giapponesi
non capirono bene, eppure Auricchio si dimostrò conciliante. «Anche voi,
Asuka!», si rivolse ad Asuka senior, appena arrivato. Anche lui col fiatone.
«In consolato c’è un ottimo cuoco pugliese. Orecchiette, ‘nduja,
capocollo e burrata per tutti. Offro io!». Il colorito delle gote e il
carattere gioviale parevano suggerire che il commissario avesse già stappato e
bevuto quella bottiglia di Lizzano pugliese che da
tanti anni aspettava di aprire.
De Simone però
era cupo. «Siamo sicuri sia lui?». Ad Auricchio parve come se qualcuno gli
avesse offeso la mamma. «De Simone, che chezzo dici?
Ma lo hai visto? È la Belva, aveva il quedro, ci
voleva ammazzere. E invece lì, Santa Tellia, Santa Eufelia, comechezzosichiema, Dio la benedica, c’ha salvato a noi e
l’ha inculeto a lui».
«Sì ma…», provò a controbbattere. «Sì
ma il chezzo. È lui. La prova è che il quedro ce l’ha Santa Eustachia.
Fine della discussione». Ma qualcuno quella discussione non solo la continuò,
ma lo fece rovesciando violentemente i piatti della bilancia dove si pesavano
torti e ragioni.
«È Fracchia!!! È Fracchia!!! Non è
la Belva quello lì!!!». Asuka junior correva come un forsennato, in virtù della
sua età, verso di loro. Auricchio lanciò un’occhiata al ragazzino: l’abito blu
da attempato cantante di balera e la camicia bianca sottostante erano sporchi,
in parte graffiati, dai sassetti nel nerissimo manto
stradale. Le guance erano arrossate, ma era un rosso diverso rispetto a quello
che era abituato a vedere allo specchio. Le sue condizioni erano penose, ma la
sicurezza dei suoi passi, il portamento del petto e l’intonazione della sua
voce lo facevano sembrare più fiero e più grande rispetto alla sua età. Il
commissario barese alzò gli occhi al cielo, invocando la Vergine.
«È viva papà!!!
Saint Tail è ancora viva!!! L’ho vista!!!», gridò radioso in direzione di Asuka
senior, incurante dell’omino incrostato di sangue che giaceva esanime per terra.
Il detective, sigaretta d’ordinanza in bocca, si lasciò scappare un sorrisone a
settantadue denti. «Bene. E dunque?», tagliò corto Asuka senior, che era sì uno
stramaledetto don Giovanni ma era anche uno sbirro di tutto rispetto, e aveva
capito che c’era dell’altro. «Mi ha lasciato questo biglietto!». Il ragazzo
consegnò tra le mani del padre il pezzettino di carta, scritto con una grafia
disordinata e frettolosa, ma con quel pizzico di civetteria femminile a cui
ormai erano abituati. Nel porgerglielo fece attenzione non si piegasse ulteriormente
e non si rovinasse, come se gli stesse passando una reliquia. E in effetti lo era.
Diede un’occhiata agli ideogrammi, spalancò gli occhi solitamente socchiusi in
un uno sguardo sardonico e assente e fece cadere dalle labbra la solita
sigaretta dozzinale rigorosamente spiegazzata. «È impossibile!» si lasciò
scappare. E gli occhi non potevano che spostarsi e rimanere fissi sull’omino
disteso impotente a terra.
Auricchio sbuffò,
sospirò, fece il diavolo dentro di sé, furioso come non mai. Non ce l’aveva con
la sorte che percepiva incombere su quel suo momento di gloria, né con gli
sguardi sorpresi e sperduti degli agenti giapponesi che via via
prendevano visione di quel foglio dalle mani di Asuka Senior. Avrebbe però in
quel momento strozzato Asuka junior con una sola mano, si sarebbe goduto la
torsione della sua gola e del suo pomo d’Adamo come un violento Homer Simpson, lo avrebbe spedito a calci sul sedere fino a
Pechino. Quel marmocchio, con quella brutta faccia sorridente da ebete che si
ritrovava. Il ragazzino era eccitato come un cagnolino di fronte alla sua
pallina preferita, il sorriso a 130 denti, felice solo per la sopravvivenza di
quella ladruncola e incurante di tutta quella grandiosa operazione
internazionale delle forze dell’ordine.
«Commissario
Auricchio», si decise Asuka senior, «Saint Tail, nostra nemica ma fonte
decisamente affidabile, ha lasciato un biglietto il cui contenuto dovrebbe
conoscere immediatamente». Auricchio, imprecando in stretto barese perché non
solo i giapponesi, ma anche gli italiani, non comprendessero nel dettaglio le
eresie che proferiva, si avvicinò frettolosamente al suo omologo giapponese, gli
strappò con violenza il foglio dalle mani e rimase fermo, come impietrito, a
fissarlo. Ad aggravare la situazione il giovane Asuka junior, che zampettava
qua e là raccontando ai poliziotti giapponesi con cui aveva maggior confidenza,
i dettagli dell’apparizione di Saint Tail dopo l’esplosione. Cose che neanche i
veggenti di Medjugorie.
Auricchio era lì,
immobile, silenzioso. Pareva una statua tardo-ellenica. De Simone non riuscì a
tacere. «Commissario!!! Commissario!!! Che c’è scritto??? Che c’è scritto???”.
«De Simone»,
pronunciò solenne Auricchio, come un monaco tibetano che sta per declamare una
di quelle frasi da baci Perugina ma che in bocca di un vecchio saggio possono
riassumere il significato della vita. «De Simone…».
«Mi dica,
commissario», replicò il giovane capellone.
«De Simone… SECONDO TE IO SO IL GIEPPONESE???», e d’un tratto,
come le luci di un albero di Natale passano dal verde più calmo al rosso più
acceso nel giro di una frazione di secondo, Auricchio assunse una colorazione
pompeiana, mentre De Simone, con un estremo atto di coraggio strappò a sua
volta il foglietto ormai spiegazzato dal furente commissario e lo porse con
decisione di fronte agli occhi di Asuka senior. «Mi dica che c’è scritto!!!».
Non era più lui, era Callaghan in persona.
Asuka senior gli
si rivolse con serietà: «Ripeto: Saint Tail è una nemica delle legge.
Ripetutamente commette furti e mette in scacco i miei uomini. Però, a sua
difesa, devo affermare che non ha mai mentito nei suoi messaggi e dunque
bisognerebbe almeno prendere in seria considerazione questo suo ammonimento…»
«CHE C’É
SCRITTO???» urlò De Simone, con un tono che in Italia sarebbe stato giudicato
come scortese, e che dunque in Giappone era passibile di fustigazione.
«Sono – sono… gli occhi di Fracchia!»
sputò fuori Asuka senior, intimorito dagli ormoni di coraggio maschile,
trattenuti per una vita, che il vicecommissario stava in quell’istante
espellendo in copiosi rivoli, tali che avrebbe ingravidato solo con l’estro
eventuali passanti di sesso femminile.
«Non è
possibile», si incupì De Simone. «Non è possibile», con un tono che però pareva
dicesse: “È possibile, è possibilissimo. È così.”
«Gli occhi di Fracchia» ripeté meccanicamente. “Gli occhi di Fracchia”? Trasalì. Dopo
un momento di smarrimento De Simone con due balzi fu sull’omino disteso, con
una manata allontanò persino Esposito, si mise in ginocchio a carponi sulla
preda supina e fissò gli occhi sul volto confuso del tipo ammaccato vestito di
bianco.
«Sei la Belva?
PARLA!!!». Auricchiò, immobile e statuario, si girò
leggermente verso di lui. «Lescia perdere, De
Simone!!! Quello è la Belva, non ci sono dubbi!!! Aveva il quedro,
voleva ucciderci tutti, ma Santa Eufelia ha fregheto a lui e ha salveto a
noi!».
Il giovane
poliziotto continuava però a fissare quel volto. L’ometto si lamentava
sottovoce, muovendo il viso di pochi gradi e mugugnando nelle fasi di
espirazione e inspirazione. «Guardami!», urlò De Simone. Nessuna risposta.
«Apri gli occhi!!!». L’omino iniziò ad aprirele palpebre pesanti. Due pupille grosse e assenti lo guardarono. Non gli
occhi di chi chiede pietà, ma gli occhi del vitello al mattatoio che sa di non
avere speranza e attende la morte quasi con distacco, come se il coltellaccio
del macellaio stesse per affondare sulle carni di qualcun altro, quasi
desideroso di farla finita al più presto.
«Ma questo…», disse con sorpresa, ritraendosi con orrore dal
ferito, «non è la Belva…». Non era un leone in
gabbia, indiavolato, pronto a godersi la vendetta. Non erano quegli occhi di
ghiaccio, visti solo da lontano, iniettati di sangue e crudeltà. Aveva di
fronte un uomo inerme, senza difese. Una merdaccia.
«Commissario!»,
esordì. «Commisserio il chezzo!»,
Auricchio gli si parò davanti sputacchiando, con l’energia di Gandalf di fronte al Balrog. «Non
ti mettere strene idee in testa…
Quello lì è la Belva».
«COMMISSARIO!!!»,
urlò a pieni polmoni, «NON PRENDIAMOCI IN GIRO!!! LO GUARDI, LO GUARDI BENE, E
DICA CON COSCIENZA CHE QUELLO E’ LA BELVA!!!». L’allievo – che grazie a Dio
aveva imparato poco – superò il maestro.
Auricchio lanciò
un’occhiatina, ma non riuscì a mantenere il contatto visivo con l’omino vestito
di bianco per più di una manciata di secondi e dovette – per forza – girarsi
nuovamente verso De Simone. Anche lui, non era più sicuro di niente. Però,
effettivamente, non se la immaginava così la cattura della Belva. Perché la
Belva avrebbe lottato, gridato, graffiato, si sarebbe fatto aiutare da
qualcuno. Sarebbe stata in grado di uccidere qualcuno – era sicuro fosse nelle
sue facoltà – solo con la pressione delle dita. E invece era così, disteso,
come una pelle di daino. Impotente. Ma troppa era la speranza, troppo il
desiderio che fosse già tutto finito. Che la Belva stesse fingendo. Sì, poteva essere… Ma quegli occhi. Quegli occhi arrendevoli non
mentivano. E così, d’un tratto, un nuovo argomento corse in soccorso di quella
che era una posizione – se n’era accorto anche lui – indifendibile.
«Ma sì!!! Kranz!!! Deve essere la Belva. È tutto chiero!!!
Il professor Krenz ci ha detto…»
«Il professor Kranz», continuò De Simone, «ha detto che dopo trenta
minuti, massimo un’ora dal colpo, sia nel caso la Belva fosse intervenuta di persona
sia nel caso avesse mandato avanti il Fracchia, l’obbiettivo
che si era prefigurato sarebbe giunto nelle sue mani», ricordò ad alta voce con
una lucidità estrema.
Il piano era
stato preparato nei minimi particolari, grazie all’intuizione teutonica del
professor Kranz. Non potendo appurare con certezza
l’identità di chi si fosse presentato per prendere il quadro, Kranz aveva suggerito – anzi, da connazionale di Frau Merkel aveva ordinato – di catturare la Belva a colpo
avvenuto, in quanto, il pericoloso criminale, a poche decine di minuti, massimo
poche ore, dopo l’entrata in scena sua o del Fracchia,
avrebbe necessariamente messo le mani sull’opera d’arte o sull’artefatto
agognato.
«Infetti. E il quedro ce l’aveva lui…» Forse
quell’omino era davvero la Belva. Forse è davvero tutto finito. «E Santa Tatanka se l’è porteto via. C’ha lascieto persino la microspia…
Ecco, prendila!», e gliela porse in mano. Il beep del
notebook di De Simone, ora in mano al maresciallo Bottazzi
dei celebri RIS di Parma non mentiva.
«Sì, concordo»,
insistette De Simone con una forza e un’insistenza che non pareva nemmeno sua,
mentre poliziotti, giapponesi e italiani, pendevano dalle sue labbra nel
tentativo di raccapezzarsi in quel marasma. «La Belva, poco dopo il colpo, ha
nelle sue mani il suo obbiettivo». E qui rimase in silenzio, forse per calarci
una bella pausa drammatica. «Ma se non fosse stato il quadro il suo
obbiettivo?».
La mascella di
Auricchio calò di colpo e così rimase, come in un fermo immagine. Le voci si
rincorsero. Che diamine stava succedendo? Era la Belva o era sempre il solito Fracchia? Erano intervenuti troppo presto, prima che lo
scambio fosse avvenuto? Forse avevano catturato il sosia del feroce criminale
prima che potesse consegnare il Paniccia originale a
quel senzadio? O forse, veramente, la Belva aveva tutt’altra preda, come
suggeriva De Simone?
Quale il partito
da prendere? Effettivamente, quale altro obbiettivo avrebbe potuto avere la
Belva?
«C’era solo il quedro», pensò ad alta voce, occhi al cielo e grattandosi la
pelata con l’unghia dell’indice.
A pochi
chilometri di distanza, nella sala principale del Minato Art Museum, il sottosegretario della Vernaccia stava versando
nel calice della Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare del prezioso
Pinot grigio. In pochissimi avevano accettato l’invito della nobildonna di
rimanere fino al ritorno delle forze dell’ordine. Bruno, ammassando su un
carrello arrugginito i piatti sporchi raccolti dai tavoli deserti, maledisse a
denti non troppo stretti il Giappone, l’Imperatore, la Contessa e la Lazio di
Cragnotti.
-
Carissimo Andrewthelord,
francamente mi hai deluso. Mi piacevano le parolacce che
mettevi in bocca a Sgarbi, le scene cacca-scurregge-maschilismo
delle altre tue fan fiction che hai cancellato dal web in concomitanza con la
pubblicazione di questa storia. Ma hai cominciato a mettere roba triste, anzi,
deprimente, francamente impossibile da leggere senza spararsi potentemente con un
bazooka sui coglioni. Sì, coglioni. COGLIONI. Ah Ah. Dico le parolacce, cosa
che tu non vuoi più fare, nel tuo delirio da fan fiction “adulta”. Ebbasta con le commistioni dei generi! O dolce o salato. O
bianco o nero. O roba che si rida o roba che si pianga.
Ambrogio Brambilla da
Caltanissetta
P.S.
Muori.
Carissimo
Ambrogio,
hai ragione su tutta la linea.
Sì. Basta. Ora mi darò solo ed esclusivamente alla Fanfiction
Triste. Ma non quella triste e basta, quella ti viene una sottile vena di
malinconia, di quelle malinconie dolci che se ne vanno presto lasciandoti un
sorriso. No: quella tristezza colossale, quella depressione cosmica che ti
stronca come un asteroide di dieci chilometri di diametro se sei un Parasaurolophus e vivi nei pressi del golfo del Messico.
Ti anticipo, dunque, o cortese e
onesto lettore, tre soggetti tristissimi delle mie prossime fan fiction.
Fanfiction
basata su di un anime. Da CaptainTsubasa:
l’Italia ci attende.
Mark
Lenders, Oliver Hutton e Benji Price hanno realizzato il loro sogno: divenire
calciatori professionisti nel campionato più bello del mondo, la serie A italiana.
Lenders diventa il top player della Juventus, Hutton il trequartista del Milan mentre Benji
Price riveste la maglia numero 1 della Lazio. Dopo essersi affermati nei primi
mesi come rispettabili campioni, la forza di propulsione del loro debutto
comincia presto a scemare. Benji Price cade presto in
depressione quando un noto commentatore sportivo decide di sbagliare apposta la
pronuncia del suo cognome[4], Mark Lenders
viene trovato positivo al nandrolone dopo una scorpacciata di cinghiale in un
agriturismo sulla Maremma[5], mentre Oliver Hutton, dopo aver assaporato il successo ed essersi
fidanzato con la figlia del presidente, cade in disgrazia dopo le scelte
sbagliate del Milan club che appesantiscono troppo il suo fisico e lo
trasformano in una macchina per infortuni.
Fanfiction
basata su di un manga. Da OnePiece:
la verità.
Sanji si fa visitare da Chopper, che gli
tronca ogni speranza: “Hai fumato troppo. Hai un cancro ai polmoni: 2 mesi di
vita”.
Fanfiction
basata su di un manga. Da Naruto: Naruto
e l’amore vero.
Naruto ignora una ragazza stupenda come Hinata per continuare ad andare dietro a una bastarda
colossale dai capelli rosa che è follemente innamorata tipo dell’Osama Bin Laden del suo mondo. Ah, no, questo c’è nell’originale.
Fanfiction
basata su di un romanzo. Da Harry Potter: Harry Potter e il mistero del tapiro.
Un
ragazzino idiota di diciassette anni scrive (o almeno, inizia a scrivere), una fan
fiction scema e nonsense su Harry Potter, che lascia pubblicata online nella
speranza che qualcuno prima o poi lo denunci e lo obblighi a scontare i suoi
numerosi e disgustosi peccati[6]. Quello stesso ragazzino
idiota, dieci anni dopo, accende MySky e si guarda un
film trash, “Box Office 3d”, con Ezio Greggio nei panni di Harry Potter, il romaccio dei Cesaroni come Ron Weasley, un ingrifato Gigi
Proietti nel tunicone di Silente e la sempiterna Anna
Falchi nei discinti panni di Hermione. E ci rilegge
la stessa urenda visione, la stessa perversa logica,
le stesse gag con Biscardi e Bruno Pizzul. E capisce, terrorizzato, di non
essere il solo essere umano così malato nel pianeta terra: «L’EPIDEMIA», urla,
«È INIZIATA!». Convinto di essere un zombie, si mette a mordicchiare gente per
strada per convertirli al trash più puzzolente.
Fiction (tanto di moda sull’internet),
basata su cantanti. One Direction e Justin Bieber: un concerto per sognare.
I
simpaticissimi One Direction e lo scoppiettante
Justin Bieber uniscono le loro forze per uno storico
concerto di beneficienza. E cantano insieme. Più triste di così c’è solo un
pullman di una casa di riposo che cade da una scarpatadopo una gita sulle Dolomiti.
[1]http://www.youtube.com/watch?v=iOOCECXSLIY
Ai bei tempi questo era il massimo della trasgressione. I bei tempi in cui gli
anime emozionavano, in cui si giocava per strada senza la paura delle macchine,
in cui eravamo piccoli e credevamo, come dei Comte
ottocenteschi, che tutto sarebbe dovuto andare per forza solo ed esclusivamente
meglio. I tempi in cui l’adolescenza alle porte veniva vista come un’avventura
da iniziare per il meglio e non come la fiera dei casini e delle turbe
psichiche che sarebbe immancabilmente stata. E questo vale per tutti.
[2]
Parziale plagio di Guareschi. Cioè, è una somiglianza con un pezzo della storia
in cui don Camillo e Ful incontrano un ragazzino
aspirante cacciatore. Ma preferisco essere e onesto e farvele notare. Almeno
quelle esplicite. Se ci sono altre somiglianze in questa fic
con altre opere, sono involontarie e dunque, un po’ di più, originali.
Osvaldo Paniccia è mancato due mesi fa. Pensavo
di cancellare questo capitolo, modificarlo, togliere il nome in rispetto di un
morto in quella che rimane, nel migliore degli ipotesi, una celia per passare
il tempo, non dissimile da un puzzle o da un sudoku.
E invece no. Perché questa roba venuta fuori mi sembra così rispettosa,
così delicata, che sarebbe un peccato cambiare anche solo una virgola. In poche
parole, in questo capitolo, in cui di comico c’è poco o nulla, ho voluto
indagare sull’uomo Osvaldo Paniccia, trasformato in
una macchietta del web dal “giovane dagli occhi bovini e vitrei”. In maniera –
ripeto – veramente seria.
Questo è quello che ne è venuto fuori. Ovviamente siamo dentro alla
linearità del canon più assoluto della nostra fanfiction.
Grazie già da ora per i vostri commenti e per le vostre recensioni
sempre gradite.
-
Quando si alzò
dalla sua poltroncina impacchettata da un anonimo strato di nailon, la rotula
del ginocchio destro protestò vibratamente con un secco e doloroso schiocco.
Tutte le membra del corpo gli ricordavano l’età veneranda, gli acciacchi e le
malattie dai nomi impronunciabili che si trascinava dietro, ma il suo cuore
d’artista, in quella tarda serata di un venerdì senza nuvole, lo obbligava a
specchiarsi, per un’ultima volta, sul cielo stellato di un paese straniero. Gli
astri erano meravigliosi, anche se visti dalla finestra del più squallido
alberghetto giapponese. Non era propriamente un love hotel[1],
ma dato che vi si avventuravano solo impiegatuncoli
di infimo livello accompagnati da baldraccone
all’ultima spiaggia, erano pochissimi i clienti con sane intenzioni che
prenotavano una camera per passarvi la notte. Per di più, a parte le coppiette,
vi capitavano solo turisti stranieri squattrinati che non si erano presi la
briga di consultare le guide turistiche. E Osvaldo Paniccia
era uno di questi.
Solo che Osvaldo Paniccia non si considerava propriamente un turista. Perché
Osvaldo Paniccia avrebbe immaginato di poter fare
tutto nella vita, meno che prendere praticamente senza preavviso un aereo per
un paese straniero per compiere un vero e proprio viaggio della speranza. Non
avrebbe mai pensato di poter viaggiare da solo, men
che meno in Giappone. Ma era tutto quello che poteva fare. Doveva almeno
tentare.
Osvaldo Paniccia era prima di tutto un artista. L’arte, per lui,
era «una cosa seria». Fin da giovane, si era diviso tra il suo grigio lavoro e
il suo colorato passatempo. Per anni aveva sfornato decine di tele all’anno.
Non appena i costosi colori ad olio da viscosi divenivano solidi,
potenzialmente imperituri incatenati da un matrimonio indissolubile a una tela
bianca, Osvaldo li passava in rassegna. L’occhio severo, il cuore
insoddisfatto. Su pochi faceva ricadere il suo compiacimento: quei pochi li
inchiodava in salone prima di venderli per pochi spiccioli, ventimila,
trentamila lire per pagare bollette e affitto. Con l’età, però, dipingere gli
risultò sempre più difficile. Nature morte, vedute, soggetti astratti, gli
uscivano dal pennello con crescente fatica, oserei, addirittura, dire, con un
pizzico di dolore. Facile per un fruitore d’opere d’arte, per un lettore di
romanzi o per un fan di un cantautore reclamare con puntualità, come fosse un
diritto acquisito, di vedere il nuovo quadro, di leggere il nuovo libro o di
ascoltare la nuova canzone. Perché queste cose non si sfornano con la stessa
facilità con cui un sarto cuce un abito o un metalmeccanico assembla uno
scooter. Cose rispettabilissime, nessuno lo nega, ma l’arte o c’è o non c’è. Un
artista, infatti, per fare il suo mestiere, deve essere innamorato. Non che
debba perdere la testa, trascinato dall’amore verso una persona: questa è una
visione che i dilettanti hanno dell’innamoramento, riconducendolo solo alla
sfera romantica e sessuale. Un artista per essere tale deve essere innamorato
di ciò che fa. Deve svegliarsi la mattina pensando ai colori della sua natura
morta, deve uscire di casa canticchiando le note di una canzone appena nata,
deve addormentarsi conversando con i personaggi del suo nuovo romanzo. Deve
abbandonare amici, parenti, deve fregarsene del lavoro e degli impegni. Deve
fidanzarsi con la sua tavolozza, far l’amore con la sua chitarra, sposarsi con
la tastiera del suo pc. E allora l’arte scorre,
naturalmente, dolorosamente, dal cuore e diventa eterna. Per molti anni era
stato così, poi, l’arrivo dei figli, dei nipotini, degli acciacchi, aveva
retrocesso l’arte, nel cuore di Osvaldo, da amante focosa a ricordo di
gioventù.
La stagione della
vecchiaia, del dolore, delle ristrettezze era stata squarciata, poco più di un
anno prima, da un lampo di luce abbagliante. Da una folgore che può
trasfigurare un uomo in puro materiale di gloria o incenerirlo in pochi
istanti.
Nessun tuono
rimbombante, però, solo il suono del campanello di casa. Nessun barlume acceccante, solo un uomo giovane, alto, sbarbato, con due
occhi bovini e vitrei, dalla parlata forbita e suadente, che gli aveva
ricordato i fasti e le velleità artistiche della gioventù. E d’un tratto,
Osvaldo Paniccia non era più un povero pensionato
dalla salute malferma, ma il Picasso dei nostri giorni. La critica lo
acclamava, i suoi quadri venivano battuti da Christie’s
per cifre che avrebbero comodamente ripianato i debiti pubblici di diversi staterelli del terzo mondo. Ma gli applausi delle signore
impellicciate nei musei e lo domande accondiscendenti della stampa non
rendevano omaggio ad Osvaldo Paniccia, ma alla
maschera funebre di un uomo morto molto tempo addietro. Aveva provato,
incoraggiato dalla gloria, a riprendere in mano quel pennello, ma dopo pochi
minuti, la tela bianca gli si parava di fronte immacolata, inesorabile. Non ci
si può rinnamorare dell’arte a comando. E la rabbia cresceva.
Quante tele aveva
distrutto, negli anni, perché secondo lui “non perfette”? Quanti quadri aveva
venduto per pochi spiccioli… Quanti ne aveva
regalato? E si mangiava le mani pensando di aver venduto, pochi mesi prima, le
ultime due nature morte a dei vicini di casa, che ora potevano vivere di
rendita per tutta la vita. I soldi, effettivamente, non gli servivano. Però,
avrebbe voluto, almeno, lasciare qualcosa, un segno del suo passaggio su questa
terra, ai nipoti.
E quando trovò,
in soffitta, quel suo vecchio schizzo, credette di
impazzire dalla felicità. Ma la felicità durò pochissimo. Aveva accettato di
esporre l’unica sua opera di cui disponeva, per alcune settimane, in un
rispettabile museo di Londra, prima di volare ad Abu Dhabi e venderla per
diversi milioni di euro ad uno stravagante sceicco che non si toglieva mai gli
occhialoni da sole come ogni sceicco che si rispetti. Poi, dopo la gloria, una
la telefonata, la folgore che lo incenerì. Due guardie giurate erano morte nel
tentativo di difendere il suo quadro dalle grinfie da un criminale il cui nome,
negli ambienti dell’arte, passava di bocca in bocca pronunciato con disgusto
estremo. I mesi successivi furono i peggiori della sua vita, diverse volte
pensò di farla finita, lasciare la sua abitazione e rinchiudersi in un’anonima
casa di riposo, fingendo di essere un pensionato come tutti gli altri. Anche se
non lo era. Fino a quel pomeriggio, nel baretto sotto
casa, quando fece quasi un colpo di fronte a una notizia del quotidiano locale.
“La Contessa SerbelloniMazzantiViendalmare la settimana prossima in Giappone per
presentare il suo ultimo acquisto in fatto d’arte: il Paniccia
inedito”. Tirò giù qualche eresia con quella sincerità tipica degli over 80 e strapazzò il giornale fino a strapparlo. Nessuno
volle ascoltarlo, nessuno volle credergli. Nemmeno le forze dell’ordine: uno
scandaloso caso di fascicoli perduti, rapporti scritti male e scarsa
collaborazione tra le polizie dei diversi paesi impedì di fatto ad Auricchio,
che nel frattempo lavorava in un thinkthank in compagnia del professor Franz, di venire a
conoscenza della connessione tra la Contessa e la Belva.
Parlò con
chiunque, si confidò con tutti i suoi conoscenti, con tutti i suoi amici, con
tutti i suoi parenti. Ma pochi azzardarono un consiglio o un parere, e fra
questi, nessuno incoraggiò l’anziano Osvaldo a lottare per il suo quadro. Un
povero vecchio con la pensione minima contro uno dei Moloch della finanza
italiana? Anche i più onesti e cortesi tra i suoi conoscenti credettero fosse meglio per quel timido artista starsene
tranquillo e attendere con serenità la fine dei suoi giorni. Ma in Paniccia il senso di giustizia e la rabbia per il torto
subito si mescolarono, lentamente, con l’immagine dei suoi nipoti. Quei ragazzi
il cui successo della sua impresa avrebbe potuto trasformare – in meglio – il
futuro. Perché, diciamoci la verità, 200 milioni di euro possono permettere una
certa sicurezza. Decise razionalmente di trasformare quell’immagine in una
missione, e quella missione nel suo scopo di vita. Nell’ultimo suo scopo di
vita.
Con maggior
discrezione, bussò alle porte di persone che non lo conoscevano, persone che
non provassero pietà di lui e che dunque assecondassero anche i suoi disegni
più assurdi. Fino all’idea più bislacca: «Vada in Giappone e si presenti al
Museo!!! Lei è Osvaldo Paniccia in persona, che
diamine! Se Picasso si presentasse al Reina Sofia di
Madrid per farsi ridare Guernica, gliela darebbero!!!». L’omino che gli diede
quel suggerimento, solo perché i suggerimenti si danno via gratis, era un
rispettabile professionista di quelli che indossano giacca e cravatta anche per
andare dal salumiere, che forse, pur conoscendo l’esatta ubicazione di Guernica,
ignorava il fatto che Picasso non era più tra noi, o, forse, nella sua testa
aveva descritto la presenza del Paniccia ad una
mostra a lui dedicata come l’apparizione di un fantasma, l’arrivo di un uomo
già morto.
Svuotò il conto bancoposta ed acquistò un biglietto solo andata per la
terra del Sol Levante. Preparò la valigia senza avvisare i familiari, e poi,
scomparve. Sceso dall’aereo, dopo aver lottato come un leone per trovare
qualcuno che riuscisse a capirlo, si fece portare da un taxi al Minato Art Museum. All’arrivo si inchinò ripetutamente verso il suo benefattore,
poi, sempre armato di bastone, si diresse verso l’entrata del pulitissimo e
distinto tempio dell’arte. Un signore alla reception stralunò gli occhi: «Ma è
uguale alla foto dell’artista del quadro? Ma questo è Paniccia?»,
commentò, rivolgendosi a una studentessa d’arte, che confermò scuotendo la
testa su e giù con decisione. Si diressero verso di lui, con inchini a
profusione. Osvaldo osò sperare, ma l’uccellino della fiducia che osò alzarsi
in volo venne subito fatto secco da una schioppettata. «ALT!!!» dalla porta
corse fuori un omino con gli occhiali a fondo di bottiglia, italiano, che
abbiamo già conosciuto. «Ma quello non è Paniccia!!!»,
pontificò spalancando le braccia con sicurezza, «è un povero pazzo che ci
tormenta anche in Italia!!! Vadi via, lei, se ne vadi,la prego!», ma
un osservatore attento avrebbe visto nei suoi occhi un barlume di terrore. Per
sua fortuna, invece, il custode e la studentessa nipponica si limitarono a
voltare le spalle all’omino italiano e ritornarsene dentro, ignorando le sue
proteste, le sue urla, il suo pianto.
Vagò per qualche
ora, arrancando sul suo bastone. Impotente. Poi, come in un miraggio, come
un’oasi nel deserto, gli comparve, al termine di un grande parco verde, una
piccola chiesetta in legno bianco. Entrò, stanco e affannato, con le lacrime
agli occhi. Un ultimo riparo prima della resa. Ma la Provvidenza, che rende più
forte l’uomo proprio nel momento in cui è più debole, lo raccolse, mettendogli
vicino una sua intermediaria, una sua messaggera. Un angelo.
«Preghiamo che da
lassù il Signore ci protegga», aveva esordito la novizia Seira, osservando gli
occhi disperati dell’uomo, e lasciò che si sfogasse, con una voce a tratti
rotta dalla commozione e dal continuo bisogno d’ossigeno di una respirazione,
per l’età e per gli acciacchi, difficile. Senza prevederlo, Osvaldo Paniccia era entrato nell’unico luogo dove qualcuno lo
avrebbe ascoltato per quello che era, gli avrebbe dato il supporto di cui aveva
bisogno non solo con le parole e con il sostegno morale, ma anche – e questo
non avrebbe mai potuto, nemmeno lontanamente, aspettarselo – con i fatti.
Suor Seira lo
invitò a trovarsi un albergo, pregare e attendere con fiducia. «Il Signore ti
risponderà». E così Osvaldo, fissando senza speranza le stelle di quel cielo
giapponese in quella notte di venerdì, ripassava nella sua testa quella
promessa, così certa, così sicura. Abbassò il volto per assecondare un sospiro
e subito rialzò gli occhi. E c’era una stella in più. O forse no? Qualcosa
stava venendo verso di lui. Era giallo, grosso, luccicante. Un pallone? Non
propriamente un palloncino a elio, ma nemmeno una mongolfiera in miniatura.
C’era qualcosa attaccato. Una cesta in vimini? Ormai era a pochi metri di
distanza quando gli occhi di Paniccia iniziarono ad inumidirsi,
sempre di più, sempre di più. Le lacrime gli scorrevano giù per le guancie
rugose e si reincontravano nello stesso punto, al
termine del mento, per accumularsi poi giù, lungo il collo e il bavero della
camicia. La bocca però si dilatò in un sorriso, lungo e singhiozzante, quando
il cesto in vimini entrò delicatamente dalla finestra mentre il pallone, non si
sa con quale diavoleria, si staccò e volò via verso il cielo senza nuvole.
Nel cesto, un
pacco e un vecchio telefono cellulare. Il vecchio artista di Terracina non aprì
nemmeno il pacco, la dolcezza e la gratitudine che provava in quel momento, a
tal punto da farlo piangere come un bambino, gli avevano illustrato chiaramente
cosa questo contenesse. «Il Signore ha risposto veramente», esaltò sottovoce,
gustandosi le parole mentre le diceva come se stesse assaggiando del miele. Sul
cellulare, però, non si raccapezzava. Forse chi gli aveva riportato il quadro
voleva mettersi in comunicazione con lui? Lo afferrò e – subito – il vecchio
Nokia 3310 iniziò a suonare. Con difficoltà, maneggiando l’apparecchio con le
sue dita tozze e grosse d’anziano, rispose.
«Pronto?»,
salutò, con la sua voce cavernosa.
«È il maestro Paniccia?», rispose dall’altro capo della cornetta una voce
dal forte accento straniero.
«Sì, chi è lei?»,
riprese. «Ci siamo già sentiti. Sono Kabir de Ayyub,
collaboratore dello sceicco RashidyaSalamelecch…». La mano di
Auricchio che teneva stretto il cellulare all’altezza della guancia tremò
improvvisamente, mentre i tasti duri del telefonino finlandese gli grattavano
l’orecchio destro.
«Sappiamo che è
in Giappone con il suo quadro per una mostra, mi ha descritto una sua giovane
collaboratrice, è ancora interessato alla nostra offerta? Siamo pronti a
raddoppiarla!». Paniccia nemmeno si accorse della
menzione a quella “giovane collaboratrice”, al fatto che stesse parlando con il
rappresentante di uno degli uomini più ricchi del pianeta, disse subito di sì,
«Venite a prenderla!» e, tremando, pensò all’officina che avrebbe potuto aprire
suo nipote, agli studi specialistici che avrebbe potuto affrontare quell’altra
sua nipote, alla sicurezza che non sarebbe mai mancata a tutti loro, in un
periodo in cui la crisi spegne i sogni e impedisce ai ragazzi di diventare
uomini.
Alzò nuovamente
gli occhi al cielo, e ringraziò il Signore della bellezza di quelle stelle, la
dolcezza delle loro geometrie e della loro distante ma vicina perfezione, il
colore del cielo che seppur macchiato dall’inquinamento luminoso rimaneva
stupendo. Rivide l’ordine nella creazione e il cuore gli sussultò di nuovo. E
si accorse, ritirando le fila dei suoi ragionamenti, mentre spegneva il
telefono, che l’artista dentro di lui si era – finalmente – risvegliato. Era
innamorato di nuovo.
Torno dall’oltretomba, non
so quando tornerò di nuovo. Ho alcuni capitoli da parte. In questi mesi sono
stato fermo per impegni di lavoro e, più banalmente, poca fantasia. La storia c’è,
prima o poi si concluderà. Potrei metterci anni o potrei far fuoriuscire tutto
in pochi giorni, travolto dall’entusiasmo. Chi vivrà, vedrà.
-
La
sera aveva ormai ceduto il passo alla notte. La luna, più chiara che mai,
reclamava, come un feudatario ritornato al suo castello dopo una guerra lunga e
sfiancante, il suo possesso, e, come ad assecondarla, anche i quartieri
residenziali della tranquilla cittadina giapponese parevano essersi
addormentati, inchinatisi a un potere più grande di loro. Tra le strade solo qualche
giovinastro a bordo di sottili biciclette da uomo, qualche gatto panciuto sui
tetti che dopo aver poltrito per un’intera giornata si ricordava di essere un
predatore, e saltellava non per sfamarsi di qualche uccellino, ma per sport,
esattamente come i cani descritti poco tempo fa. Tra quei tetti, anche Meimi saltellava
verso una precisa destinazione. Ma il suo saltellare non era sport, né tantomeno
caccia. Anzi, la caccia l’aveva appena conclusa, la sua missione quella sera era
terminata nel momento esatto in cui le mani di Osvaldo Paniccia
erano rientrate in possesso del quadro dipinto da lui anni addietro.
I capelli erano
raccolti nell’inconfondibile coda di Saint Tail, seppur confusi e a tratti
completamente spettinati. Indossava la calzamaglia nera a tinte violacee, in
qualche punto però sgualcito e rovinato. Aveva ancora il tutù rosa alla vita,
che però mostrava strappi e inconfondibili segni di bruciature.
Per Saint Tail la
serata non era stata una delle più facili, ma quando Meimi vestiva i panni
della maga giustiziera, riusciva a dare il meglio di sé e anche le situazioni
più ingarbugliate e difficli diventavano un gioco da
ragazzi. E, quella sera, aveva impedito a un criminale famoso di compiere una
strage. La sua missione era quella di recuperare un quadro, ma la sorte decise
di affidarle un compito ancor più importante: salvare decine e decine di tutori
della legge. Asuka junior in primis.
“Asuka junior e
basta”, ammise a sé stessa. E si spaventò nel constatare quanto grande fosse
diventato l’amore che provava per quel ragazzo. Certo, Saint Tail avrebbe fatto
la stessa cosa per dei perfetti sconosciuti, tanto era gravosa la missione che
si era data. Saint Tail era l’agape personificata, ma quel salto nel vuoto,
verso una bomba in procinto di esplodere, non avendo la benché minima certezza
sull’esito di quel tentativo di salvataggio era un atto d’amore passionale. Era
frutto dell’eros più estremo che si scopre, imbarazzato e con un pizzico di
rossore, di essere anche agape[1]. E
come unico obbiettivo c’era la salvezza di quel ragazzo dai capelli neri, anche
al costo della certezza che questi non sarebbe mai stato suo. Che sarebbe
invecchiato senza di lei. Quando aprì gli occhi, bruciacchiata e dolorante, in
un prato vicino, nell’istante precedente a quel balzo in avanti che la portò
verso l’auto del Fracchia, ringraziò Dio non tanto
per essere ancora in vita, ma perché con Asuka junior, sia Meimi che Saint Tail,
avrebbero avuto un’altra opportunità. Recuperò il quadro, strappò la microspia
e diede un’occhiata al pericoloso criminale che si attendeva di vedere. Ma lo
sguardo impotente, stanco, simile a quello di un cavallo ferito del far west
che supplica al suo cow boy un pietoso proiettile in testa, le fece capire che
davanti aveva non la terribile Belva, ma il povero geometra Fracchia.
La pietà che provava per quell’uomo si unì all’amore spropositato che nutriva
per Asuka jr. Pensò dunque di comunicare proprio al ragazzo l’identità
dell’omino ferito all’interno della Toyota. Con quel foglietto scritto in tutta
velocità voleva risparmiare a Fracchia una visita
alle pulite e ordinate prigioni nipponiche, che però, per i condannati a morte,
diventano un vero e proprio inferno, e far fare bella figura al figlio del
detective capo Asuka senior. E seppur, su quei tetti, fosse da sola e nessuno
la potesse vedere, le sue guance quasi si infuocarono mentre ripensava alla
calda carezza che aveva dato al ragazzo, mentre lui la piangeva disperato a
terra, prima di sparire nuovamente nella notte. Un ragazzo che – ci poteva scommettere
– la amava sinceramente, forse di un affetto ancor più grande di quanto lei ne
provava per lui. Era un sentimento troppo bello perché rimanesse confinato in
quelle strane – e alla lunga stancanti – liturgie che erano le cacce a Saint
Tail – promise a sé stessa. Ma un altro pensiero – più serio – le scacciò dalla
testa quei dolci ragionamenti.
“E la Belva?” si
interrogò, scavalcando un comignolo affumicato ad ormai pochi isolati da casa. La
ragazza si diede la risposta che in quello stesso momento stavano formulando con
fatica i neuroni dentro la testa rilucente del commissario Auricchio. Il piano
della Belva era – evidentemente – già fallito, e nel modo peggiore di tutti.
Non solo Saint Tail era riuscita a salvare la vagonata di poliziotti,
carabinieri e agenti giapponesi di cui il feroce criminale , a quanto se ne
poteva evincere, si sarebbe voluto sbarazzare, ma lo stesso Fracchia
non era riuscito ad arrivare al luogo del famoso “switch”
teorizzato dall’insigne professor Kranz, in quanto si
era scatafrombolato con l’auto contro un albero,
permettendo a Saint Tail di rubare il quadro e sparire nella notte.
Nonostante il
fallimento, la Belva era comunque ancora in libertà. Libera di colpire. Libera
di vendicarsi. Sicuramente non con il Paniccia: tutto
era già predisposto, in poche ore alcuni uomini dello sceicco lo avrebbero
raggiunto per effettuare lo scambio milionario, ma già in quel momento, ne era
praticamente sicura, qualche agente dei servizi segreti degli Emirati Arabi
Uniti stavano tenendo d’occhio l’anziano artista perché non gli capitasse nulla
di male. E c’era anche un limite alla giurisdizione di Saint Tail. Si
giustificò con sé stessa: “Ho rischiato anche troppo questa sera”. Inoltre,
dopo due anni di interventi e di missioni, aveva raggiunto un tacito accordo
con la polizia giapponese, la quale, comunque, non aveva ancora abbandonato
esplicitamente il desiderio di catturarla: Saint Tail indicava i criminali e
recuperava il maltolto, spettava alla polizia far scattare – nei fatti – le
manette. Perché questa volta sarebbe dovuta andare diversamente? Il suo
altissimo senso morale – per un istante – la rimproverò. La voleva ancora lì,
per le strade, a cercare di individuare, rendere inoffensivo, catturare e addirittura
punire la Belva. Ma Meimi, semplicemente, non ne poteva più. E, giustamente, si
ricordò di essere solo una studentessa sedicenne e che per amare il mondo
bisogna cominciare da sé stessi. Si trovò nel giardino del retro di casa, ma
subito, la ragazza trasalì: “Il vestito rosa!”. L’aveva lasciato al Minato Art Museum. Poco male, poteva benissimo recuperarlo qualche
giorno dopo. Ma come si sarebbe presentata di fronte ai genitori, che si
aspettavano di vederla con quei vestiti? Avrebbe potuto penetrare in camera sua
dalla finestra, cambiarsi, mettersi subito il pigiama e dire a Eimi e Genichiro di essere già
tornata, o aver trovato la porta aperta.
Ma ad
interrompere il filo di tutti questi ragionamenti, tipici di un’adolescente che
tenta di nascondersi ai suoi genitori, e dunque dannatamente comuni, lo squillo
improvviso del cellulare. Come un pistolero estrae in velocità il suo revolver,
Meimi tirò fuori il suo telefonino. Dal display, un numero sconosciuto. Chi
poteva chiamarla, a quell’ora? Fu persino tentata di non rispondere. Riemerse
la paura più profonda legata a Saint Tail. “Qualcuno mi ha scoperto?”, pensieri
irrazionali, sì, ma continui. Ma chi poteva essere? Forse Seira con il
cellulare di una sua consorella. O magari una tra Ryoko
e Kyoko che la chiamavano con il cellulare di un
genitore, per accordarsi sui programmi per il weekend, dopo aver esaurito il
credito a furia di vani messaggini ricoperti da emoticon irritanti. Si
tranquillizzò. E rispose.
«Pronto, qui
Meimi», rispose sorridendo, perché i sorrisi non si vedono per telefono, ma si
sentono benissimo.
«Meimi-san?» Una voce maschile. Calma, ma solenne. «Sì, chi
parla?», replicò. «Sono solo un vecchio prete che poche ore fa ha avuto
l’opportunità di visitare una bella mostra pregiandomi della sua compagnia e di
quella di Asuka-kun», sorrise il vecchio Vescovo,
perché, ripeto, i sorrisi non si vedono per telefono ma si sentono benissimo.
“Lui sa”, raggelò
Meimi. «Come sta Eccellenza? Va tutto bene lì?», esordì la ragazza, che ritenne
imbarazzante e disdicevole interrogare il prelato sui particolari che lo
avevano portato a conoscenza dell’identità di Saint Tail. Perché – ormai era
chiaro – non c’erano altri ragionevoli motivi per in quali un vescovo più che
settantenne si fosse deciso a chiamare al telefono una ragazzina alle undici di
sera inoltrate. Sebbene a scuola non fosse questa gran cima, la giovane non era
stupida. Anzi, si doveva trattare per forza di un genietto
per riuscire a replicare con successo trucchi magici che i prestigiatori che
appaiono in tv nei programmi giornalieri per casalinghe non imparano in tutta
una vita. Proprio per questo motivo Meimi aveva intuito, ascoltando quegli
strani discorsi nella sala dei KakureKirishitan al Minato Art Museum,
come il Vescovo sapesse assai più cose su Saint Tail di quante ne divulgassero
i giornali. Tra queste, in particolare, la sua vera identità, una ragazza che
si era preso la briga di mettere alla prova con ragionamenti sul martirio e il
sacrificio. Una prova che – entrambi se n’erano accorti – la ragazza aveva
superato a pieni voti.
«Qui tutto bene,
carissima. Ma voglio domandare a te, come è andata…»
la voce del vecchio religioso era calma, pacata, serena. Non aveva
assolutamente l’intonazione di un richiamo, o, peggio ancora, di un rimprovero.
Ma Meimi, in quel preciso istante, credette
seriamente che se gli avesse disobbedito, tempo tre secondi e un fulmine,
piovuto dal cielo, l’avrebbe incenerita. “Seira, questa me la paghi”. Solo
Seira poteva aver “spifferato” tutto, ma non per un solo istante la maghetta dubitò dell’onestà della sua amica. «Seira…», esordì la ragazza, non per scaricare sulla novizia
le colpe o per cambiare discorso, ma per sapere se il vescovo conosceva già
tutti i dettagli della storia. Sperava con tutto il cuore di non dover ripetere
tutto e, in questo mondo, non dover perdurare ancora a lungo in una
conversazione imbarazzante. «So già tutto», tagliò corto, sempre con cortesia,
l’anziano prelato, perché il rossore di Meimi non si vedeva per telefono ma si
sentiva benissimo, «vorrei sapere com’è andata».
La giovane fu
telegrafica, raccontò dell’inseguimento in auto, accennò al fatto della bomba
sul ponte tralasciando il suo eroico – quasi – sacrificio, comunicò l’avvenuto
recupero e la successiva restituzione del quadro e, infine, come se si
trattasse di un tema secondario, informò il vescovo dell’identità dell’omino
all’interno dell’auto. Non la Belva, ma Fracchia.
«Capisco…», si incupì il prelato, «dunque il fuorilegge che
chiamano la “Belva” non si è ancora visto…». «No»,
ammise Meimi, che però continuò subito, come a giustificarsi, «credo sia rimasto
in attesa che Fracchia gli portasse quel quadro, ma
invece lui ha avuto un incidente…». «Eppure suor
Seira», insistette, senza pietà, il vecchio religioso, «mi ha spiegato come sia
stato proprio lui a sottrarre il quadro al suo legittimo proprietario. Come mai
ora si trova qui in Giappone per riprenderselo?». Meimi dovette ammettere la
mancanza di logica in quel frangente, provò ad ipotizzare qualche attrito tra
lui e la contessa, ma il Vescovo continuò implacabile: «Inoltre, ti sembra
possibile che un criminale che non fallisce mai un colpo venga neutralizzato
così facilmente mentre cerca di riappropriarsi di qualcosa di già suo?».
La ragazza si
arrese: «Dunque, cosa può volere la Belva?».
«Non lo so»,
ammise sconsolato il Vescovo, «ma non riesco a stare tranquillo…
Meimi!», esclamò, non era più la voce del pastore, ma dell’uomo preoccupato che
risiedeva dentro di lui, «…Meimi, io», ma si
interruppe nuovamente di colpo, come se i fogli A4 che contenevano il discorso
che si era preparato fossero stati dispersi da un’improvvisa e violenta folata
di vento. Il vento della pietà. «Meimi-san, sei
giovane», riprese con voce più calma e malinconicamente dolce, «hai tutta la
vita davanti… Davvero hai scelto questa strada? Molti
pericoli e insidie si frapporranno tra te e la tua ricerca di giustizia. Hai
già sacrificato tanto. Non posso chiederti altro. Sei solo una bambina…». Ed era sincero. Non erano più parole di sfida,
non aveva più bisogno di saggiare la decisione e la fede della ragazza. Era un
estremo atto di pietà, che tentava, disperatamente, di salvare dall’uomo dal
solidissimo senso del dovere il destino di una giovane che aveva già dato
molto.
Meimi già sognava
di sfilarsi quella calzamaglia strappata che puzzava di fumo. Sognava di farsi
una doccia, medicarsi con il disinfettante quei due o tre graffi, infilarsi tra
le coperte al calduccio e risvegliarsi il giorno dopo per godersi un sabato di
assoluto relax. Lo sognava. Ma sapeva che non era possibile. Perché c’era
bisogno di lei. Perché la strada se l’era già scelta, doveva solo percorrerla.
E perché, il convitato di pietra che l’avrebbe accompagnata e fissata torva per
un lungo periodo, se non avesse fatto quello che era giusto, era proprio lì,
pronto a scattare. Si chiamava coscienza.
Non senza un
tremolio, non senza una sottile resistenza, la ragazza interruppe il suo
Vescovo: «Non chieda nulla alla bambina. Chieda a Saint Tail. La supplico». E
quando i santi si vedono superati a destra nell’autostrada verso il paradiso
dalle ragazzine fan delle boyband non ce n’è più per
nessuno.
«Va bene, Meimi»,
riprese sicuro l’anziano monsignore. «Ti chiederei, cortesemente…
lo so, forse è solo uno scrupolo, ma preferirei averti qui questa sera, i tuoi
trucchi, il tuo occhio…» parole confuse, veloci,
sbiascicate, ma chiarissime.
«Vuole che torni
al Minato Art Museum?», replicò la ragazza, sicura di
ascoltare un sì e pronta a ripartire, saltellando come una ninja, nella notte.
«Sì», la accontentò il prelato, che però aggiunse: «Hai dei discreti margini di
sicurezza. Seira mi ha detto che sei agile come un gatto, capace di sparire e
ricomparire ovunque. So di non metterti in pericolo», in parte non era vero, ma
continuò: «ma ci sono delle vite in ballo. E la vita è un dono preziosissimo,
che non possiamo gettare al vento. In particolare le vite di quei poliziotti
che, dopo quella bomba, potrebbero rischiare un nuovo attacco».
Le parole del
Vescovo avevano fatto riemergere in Meimi l’Agape che già, come aveva sognato
di fare anche lei, si stava togliendo i vestiti di Saint Tail e si stava
godendo i vapori di una doccia calda e profumata. Ma non appena l’Agape si era
rimessa le scarpe e si era decisa a fare un’altra scorrazzata per i tetti,
quell’improvviso riferimento alla polizia, e agli eventuali rischi mortali
verso cui la forza pubblica sarebbe potuta andare incontro, destarono dal sonno
anche Eros. L’immagine di un ragazzo dai capelli corvini e dal fare spavaldo si
impresse nel suo lobo frontale. “Asuka!!!” si riscosse la ragazza. In effetti, Daiki Junior era ancora là fuori, in compagnia di una massa
disomogenea di uomini di legge di due diversi paesi, a dare la caccia ad un
fantasma. E comprese che la Belva, quel criminale tessitore di mille trame
ingarbugliate, che raramente aveva fallito, non avrebbe mai potuto fare una
figura così meschina in così poco tempo. La Belva – le parole del Vescovo le
fissarono quella sicurezza – doveva ancora giocare, insomma, in quella partita,
un ruolo di primo piano. Meimi odiò se stessa per aver solo pensato, pochi
minuti prima, a ritirarsi tra le coperte, mentre magari, in quel preciso
istante, Asuka stava combattendo per la sua vita. E per un alto ideale di
giustizia a cui anche lei diceva di ispirarsi. Eros la svegliò a ceffoni dal
torpore e la obbligò a riprendere la strada verso il Minato Art Museum: la sua collega Agape concordava con lui, ma la
velocità, la fretta, l’elevazione di quei salti con cui la ragazza si
avvicinava alla pinacoteca/ristorante dove il Vescovo la voleva, erano tutti
frutto dell’amore passionale. E quando Agape ed Eros puntano nella stessa
direzione, lascia fare.
«Fra quindici,
massimo venti minuti sarò da voi», bisbigliò ansimando, mentre correva all’impazzata,
tra i tetti sporchi di un quartiere pulitissimo. Stava già programmando di
salutare il Vescovo, riporre il suo smartphone,
estrarre l’altro aggeggio e individuare la presenza con il GPS di Asuka junior
e del commissario Auricchio, quando, dall’altro capo del telefono, sentì salire
il rumore di fondo. Un boato, un brusio. Urla?
«Eccellenza!», gridò
Meimi. «Che è successo?» chiese. «Saint Tail», riprese il Vescovo, con una voce
preoccupata ma solenne, pontificale, «mi fido di te. Arriva presto. Io devo
andare. Ama, cara ragazza. Ama anche quando il mondo ti dice di fare il
contrario. Ama te stessa, ama la tua famiglia, ama quel tuo Asuka-kun,
ama la tua missione…» «CHE STA SUCCEDENDO?
ECCELLENZA!!!» Meimi gridava, incurante di svegliare qualcuno, saltando con
maggior decisione sui tetti rompendo addirittura qualche tegola in ceramica.
«Ragazza» il brusio aumentava, le grida anche, «è l’Amore che ci ha salvati. Tu
sii Amore per gli altri. Grazie. E arriva presto, se riesci. Puoi farcela!».
«FACCIO IL POSSIBILE!!!» gridò, «LEI MI DICA INTANTO…» ma non completò la frase. La chiamata era stata
interrotta. “Che diamine è successo?” si interrogò la ragazza, improvvisamente
pervasa da pensieri cupi, atri. A preoccuparla non solo quello che sarebbe
potuto essere successo, ma anche quelle parole oscure, così alte, così lontane,
così solenni. Mise un piede per terra sull’asfalto, si diede lo slancio per
scavalcare un’alta inferriata, atterrò con il sinistro mentre con il destro si
diede un altro slancio, per finire prima sul davanzale e poi sul tetto di una
casa vicina. Rimise in tasca lo smartphone ed
estrasse l’affare donatogli da Seira. Due beep. Asuka
e Auricchio erano a due minuti d’auto dal Minato Art Museum.
Sarebbero arrivati prima di lei. Per trovare che cosa? I muscoli delle caviglie
per un breve istante le ricordarono che esistevano anche loro con uno sprazzo
di dolore lancinante. Era umana anche lei. Ma doveva arrivare in fretta. Verso
non si sa che cosa.
“Ama”. Le parole
le rimbombavano in testa. “Ama te stessa”. Perché quei discorsi? “Ama la tua
famiglia”. Genichiro ed Eimi
sarebbero sempre stati dalla sua parte. “Ama quel tuo Asuka-kun”.
Era così evidente? Non lo sapeva. In quel momento non sapeva niente. Si sentiva
come al centro di un vortice d’ignoranza. Non sapeva che stava succedendo, non
sapeva che doveva fare, non sapeva cosa Asuka Daiki
Junior avrebbe fatto. Ma sapeva che era l’amore a guidarla. E con la stessa
lucidità con cui aveva stupidamente abbracciato una bomba, poco meno di
quaranta minuti prima, abbracciò qualunque destino la sorte avesse voluto porle
davanti.
[1]
L’italiano è una lingua stupenda, però per dire amore (affetto, amicizia,
passione sono altra roba) abbiamo solo una parola: amore, per l’appunto. Il
greco e il latino ne avevano due. Da una parte c’è l’EROS (in latino AMOR) che
è l’amore passionale, quello insomma erotico, quello dei fidanzati e della
passione anche sessuale. Quel tipo di amore che riconosce la bellezza e la
preziosità dell’altro e che dunque vuole “possedere”. Dall’altra c’è l’AGAPE
(in latino CARITAS) che è l’amore caritatevole, quello che non chiede nulla in
cambio, quello dei santi e dei Gino Strada di turno, quello della mamma per il
suo bambino o dell’insegnante per i suoi ragazzi. In ogni amore però EROS e
AGAPE si mescolano in un mix variabile. Per tornare nella nostra storia, Saint
Tail agisce sempre per Agape, ma per Asuka Daiki
Junior Eros ha preso la mano. Il che potrebbe sembrare assurdo, perché nessuno
accetterebbe di sacrificarsi per Eros, perché l’Eros punta al possesso. Eppure,
quando Eros si rafforza, nelle persone buone e sane di mente fa diventare più
forte anche il collega Agape. È un fatto elementare, noto a tutti. Senza questo
meccanismo, non si spiegherebbe la felicità a tratti stomachevole di così tante
coppie di innamorati di ogni età.
Se vi piace, commentate e
fatemi sapere. La storia, seppur a rilento, proseguirà, abbiate fede!
-
«Nun
me ne frega un cazzo se hanno virtoner campo ‘a supercoppa europea contro erManchestèrre… La Lazio de Cragnotti, per me, nella
storia, NUN E-SI-STE!!!».
Tutti i mongoli oggi in
vita, donne e uomini fieri delle loro praterie sterminate, dei loro cavalli
veloci e delle loro tende variopinte, sono eredi diretti di sangue del grande Gengis Khan. Recenti studi hanno indicato, senza ombra di
dubbio, come il prode condottiero noto anche come Temujin,
ingravidatore professionista, abbia lasciato milioni
e milioni di discendenti. Forse addirittura un miliardo. Ma per i mongoli non è
solo una questione di sangue, di mera appartenenza genetica. Gengis Khan ha dato loro un popolo, un’epopea eroica,
l’emblema orgoglioso di una nazione. Ecco, però, senza mancare di rispetto ai
fieri mongoli moderni, noti per le loro ampie riserve di caccia e per un
carattere cordiale e socievole, l’antica Roma è stata tutt’altra cosa. Un
millennio di gloria in grado di lasciare un’eredità così importante e così
pesante da non aver bisogno di essere rinforzata da inutili vincoli di sangue.
Perché il ristoratore
Bruno di Sergio & Bruno, forse, del sangue dei Cesari, non aveva nemmeno
una favilla. Forse Bruno aveva sangue meridionale, o nordico. Forse i suoi avi
erano antichi galli condotti a forza a Roma per vivere da schiavi. Ma se anche
qualche pool di genetisti, che si fossero per assurdo presi la briga di
esaminare il sangue del ristoratore di Trastevere, avessero rivelato a Bruno la
sua origine non romana, il gentiluomo li avrebbe mandati giustamente a cagare.
Perché Bruno la sua eredità l’aveva reclamata e riscossa con successo, senza
bisogno di passare per notai o chiedere alle banche le lettere dei cespiti.
Bruno in quel momento esercitava una delle eredità più alte arrivategli dalla
sua romanità. La passione forense. Non era una bega calcistica. Era quel bravo
figlio di una buona donna Marco Tullio Cicerone in persona.
«Perché, li mortacci sua, c’aveva anche Nesta, nun
me ne frega un cazzo se ha vinto lo scudetto nerdumila, anche se i gobbi se l’è perso loro per li cazzi sua
perché a Perugia, non so se te arricordi, ma Collina
con chella pioggia là…» Ad
ascoltare la sua disquisizione, nell’ampio e quasi del tutto deserto salone
principale del Minato Art Museum, c’era solo il
commissario Rizzo, detto Piedone. Rizzo ascoltava e basta, seduto su un
tavolino a ridosso del tavolo delle autorità, dietro il quale, spiccava ancora
triste la teca in vetro dove fino ad un’ora prima dominava il quadro del Paniccia. Piedone annuiva, impegnato a trangugiare,
direttamente dalla profonda pentola in acciaio, chili e chili di rigatoni con
la pajata. Seduto al tavolino, con lui, uno
sconsolato Bruno, intristito per l’andamento di quella serata, si sfogava
dimostrando con precisi sillogismi come i cuggini
laziali “nunduvessero
rompe erca’ con la menata
dea Lazio de Cragnotti”. «Vabbè, te sto a dì che se
te fai a squadra che nun c’hai nemmeno li sordi per
la tua azienda de pelati der cazzo, è mejo se te ne sta’ zitto. A me li gobbi me so’ sempre stati
sor cazzo, però lo scudetto derdumiladoveano vincerlo loro. Ecco, l’ho detto», continuò. «Mmmhh, mmmhh», annuì Rizzo.
Nel salone del museo
erano rimasti una quarantina di avventori, sperduti e confusi. I camerieri e i
cuochi di Sergio e Bruno stavano raccogliendo solo i piatti, le posate e i
carrelli portati per via aerea dalla capitale d’Italia. «Nujaltri
se portamo via a roba nostra», si sfogò Sergio con un
custode, «vetri rotti, tavoli e tovaje per tera se li tirino su quei mamaluchi
vestiti da rincojoniti de prima». Per i tavoli erano
rimasti per lo più alcuni italiani. La Contessa, infatti, era stata categorica:
“Decido io quando la serata dovrà finire”, aveva urlato, “cioè quando riavrò il
mio quadro”. Al tavolo delle autorità, infatti, solo la Contessa era rimasta al
suo posto. A dir la verità, accanto a lei, era resistito il vecchio Vescovo, il
quale però, giusto qualche istante prima, si era alzato e si era incamminato,
con il suo fare esile e l’andamento incerto tipico dell’età, in uno dei
corridoi laterali. Forse, era parso a qualcuno, per fare una telefonata, dato
che l’avevano visto armeggiare in una delle tasche della giacchetta. Tra i
tavoli, parlottavano tra l’imbarazzato e il confuso qualche agente di
commercio, qualche industriale e qualche politico desideroso di non inimicarsi
troppo la nobildonna. E, tra questi, non serve nemmeno riportarlo, resistevano
le tre iene senz’anima.
Tutti e tre in piedi,
di fronte al tavolo delle autorità, al cospetto della Contessa Silvana SerbelloniMazzantiViendalmare come i Proci di fronte a Penolope.
«Cava contessa»,
sbiascicava con una finta erre moscia da principe Giovannelli[1]
tarocco il ragionier Filippo de Franciscis,
il bancarottiere responsabile del 20% della crisi finanziaria in Italia, «ma
non lo stia ad ascoltave. Il caviale come lo si
mangia a Montecavlo non lo si mangia altvove. Se vuole favmi l’onove di esseve mia ospite in futuvo». La Contessa sorrideva estatica, come in preda a un
lungo e volgare orgasmo.
«Ma che dice,
ignorante», lo ammonì con la voce rasposa il
sottosegretario Della Vernaccia, «il caviale è una menata da stronzi che fanno
gli arricchiti», precisò Della Vernaccia, che per fini elettorali – e non solo
– manteneva vivo il suo legame con il popolo di borgata nel quale era cresciuto
e che aveva fatto di tutto per impoverire con i fondi pubblici dati ai suoi
sette finti partiti, «venga in Toscana, nella mia villa, e ci facciamo una
scorpacciata di polenta e cinghiale».
«Ma pensate solo al
mangiare!», si scocciò il cavalier Abelardo Maria de Cavarzerotti, «la Contessa è una donna di classe. E si
meriterebbe il meglio. In Croazia c’ho ormeggiato un panfilo di settanta metri,
si può progettare, cara Contessa, di farlo arrivare alle Galapagos o alle
Maldive, se preferisce», precisò con un noncelato
invito il cavaliere che era ricco sfondato, ma che preferiva tenere la barca
all’estero per pagare qualche centinaio di euro di tasse in meno per fare un
dispetto a Monti.
La Contessa continuava
a sorridere estasiata, schernendosi con quella finta modestia che è bella nelle
ragazzine ma che nelle anziane ti farebbe venir voglia di emulare Harold Shipman[2].
“Da chi se farà chiavà sta volta?” pensava il
geometra Filini, in piedi nel suo vestito da conte Fersen
a pochi metri di distanza, “a letto se la portano, anzi, è lei che vuole. Ma i
soldi non glieli scuce”, continuò dentro di sé Filini, che le persone le
conosceva.
«Te
dico che prima de tutto er calcio è un gioco de
sordi. Se c’hai i sordi te fai a’ squadra e vinci. Ma se vinci coi sordi non tuoi,
allura è come se non avessi vinto un cazzo. Anche sti sceicchi adesso che se compreno
le squadre, te pare giusto? Nun ci so più i giocatori
de navorta, le vecchie
bandiere. Nujaltri però c’avemo
sempre erPupone e er mitico maggico de Rossi… Buttali via, te». Bruno era un fiume in piena. Le
parole scorrevano copiose dalla sua bocca tanto quanto i rigatoni entravano
velocemente nelle fauci del suo vicino, il commissario Rizzo. Era quello lo
spettacolo più bello di quella sera. Non le avance scriteriate di alcuni
relitti della seconda repubblica verso un relitto, finanziariamente
potentissimo ma pur sempre un relitto, della finanza nobiliare italiana. Ma la sana
passione di un onesto lavoratore e la bellezza virile di un uomo puro, grande, grosso
e peloso che mangia in silenzio. Beato. Boccone dopo boccone. Incurante di
tutto e di tutti. Con la barba unta e l’aria impassibile. Non c’è cosa più
bella da vedere di un uomo con la coscienza pulita che mangia sereno. Bruno
parlava sputacchiando di materie calcistiche, mentre Rizzo, di calcio, non
aveva mai capito nulla. L’unico sport che aveva praticato, in gioventù, anche
con buoni risultati, era stato il nuoto. Curioso per un uomo con un fisico da
judoka di categoria peso massimo.
Non
l’aveva presa bene Rizzo quella convocazione per il Giappone. E non tanto per
le migliaia di chilometri di trasferta da attraversare in poche ore a bordo di
un aereo – era già stato, per la sua lotta ai cartelli della droga, ad Hong
Kong, in Sudafrica, in Egitto – ma quanto per la missione: catturare la Belva
Umana. Un nome che gli faceva ribrezzo, sì, e che avrebbe desiderato
ardentemente veder finire sotto le sbarre. Ma quella era materia di Auricchio.
Per quanto avessero stili diversi, tra i due commissari della polizia italiana,
il primo napoletano, il secondo pugliese ma romano d’adozione, vigeva un regime
di tacito rispetto e segreta ammirazione reciproca. Ma le giurisdizioni erano
diverse, i loro campi erano diversi. E comprendeva l’imbarazzo – la stizza,
addirittura – di Auricchio, che se lo trovava, grande e grosso, tra i piedi.
Del resto, anche a Rizzo avrebbe dato fastidio ritrovarsi, nel bel mezzo di una
scazzottata con degli spacciatori di droga, con uno come Auricchio. Chissà per
quale assurdo motivo il capo della Polizia li aveva voluti lì, entrambi.
«Ce
n’è ancora?», domandò Piedone serenamente, con la sua voce grave calma e
solenne a Bruno. «Coda alla vaccinara te va bene?»,
il cameriere si alzò dalla tavola immediatamente con un sorriso, pronto a
dirigersi verso le cucine. Meglio che quella roba venisse mangiata e goduta da
qualcuno piuttosto che venisse gettata tra i rifiuti. «Butta», sorrise il
commissario. “Non è andata poi così male”, pensò, mentre Bruno, rinfrancato, si
alzava in piedi. Il piano di Auricchio avrebbe avuto sicuramente successo, lui
si era goduto un po’ di cucina romana e… un sibilo.
Un thun secco. Un improvviso dolore allo sterno. Non
ebbe nemmeno il tempo di chinare la faccia in basso per vedere che diamine gli
fosse successo. Il nulla lo prese.
Il finestrino della Land Cruiser nera scese silenziosamente, obbedendo al
comando irresistibile del pulsantino elettronico.
L’infame gettò fuori la sigaretta, ancora accesa ma che iniziava ormai a
consumare il filtro, premette subito la levetta per richiudere lo sportellino e
si riattaccò al binocolo.
«Allora?», domandò,
masticando rumorosamente una gomma, la ragazza che era seduta al suo fianco.
«Tutto pulito, pare».
Rispose Kenzo l’infame. Il locale boss della Yakuza,
alleato nipponico della turpe Belva, ci teneva a rimarcare ovunque, e in ogni
modo, questo tratto particolare del suo carattere che era entrato con stabilità
persino nel suo nome. A partire dall’aspetto: i capelli tinti di biondo, a
spazzola, marchio distintivo dei giovani teppisti e rinnegati dell’ultimo
ventennio nipponico e i tatuaggi, mostruosi ed estesi in tutto il corpo,
centenaria caratteristica dei boss più rispettabili e feroci, ai limiti dell’antopofagia, della Yakuza
giapponese.
Il SUV della Toyota era
parcheggiato a poco più di cento metri dai cancelli del Minato Art Museum, su uno spiazzo che si trovava in una posizione
leggermente sopraelevata rispetto alla casa d’arte. L’assoluta mancanza di
forze dell’ordine che constatarono, cinque minuti prima, appena arrivati a
bordo del grosso veicolo lo confortava. “Il piano funziona”, osservò. “Figlio
di puttana…” lodò a modo suo la Belva.
«Cesso», si rivolse
alla ragazza, che però proprio un cesso non era, «Tutto come previsto. Vetri
rotti, un po’ di casino. L’obbiettivo però c’è ancora. E io che non gli volevo
credere al gaijin[1]».
E le passò il binocolo. Il cosiddetto “cesso” era invero un bel pezzo di
figliola di livello ragguardevole. Minuta, leggera ma estremamente femminile,
compensava quell’apparente trascuratezza del volto non truccato e la
scapigliatura di quei lunghi capelli neri corvini tipicamente nipponici, con
delle curve mozzafiato, morbide sì, ma snelle e muscolari, che quel completo in
pelle alla Natalia Romanoff faceva risaltare.
Nonostante l’espressione perennemente corrucciata, i grandi occhi a mandorla
della ragazza catturavano sempre l’interlocutore, che immancabilmente vi si
perdeva. Il bianco purissimo delle sclere[2] e
il nero prezioso e brillante delle pupille, facevano intuire la presenza negli
occhi della ragazza di misteri ancor lungi dall’essere decifrati.
Il boss della Yakuza non conosceva l’origine di quel soprannome, né
tantomeno poteva sapere perché un tal figone si
fregiasse di un appellativo così turpe, eppure Kenzo, da infame qual era, non
pensò nemmeno per un istante di chiamare altrimenti la scavezzacollo criminale
da tutti conosciuta come “Sakura il cesso”.
«Quando arriva?»,
chiese il cesso all’infame, mentre, grazie al binocolo, scrutava gli interni
della sala dell’arte cinese del Minato Art Museum.
«Arriva», tagliò corto Kenzo, che mal tollerava domande, delucidazioni e
richieste di conferme nel corso di ogni operazione, dalle semplici riscossioni
del pizzo alle grandi manovre internazionali.
La ragazza continuava a
tenere sott’occhio l’obbiettivo e coloro che vi stavano vicini. Al tavolo delle
autorità, sotto la teca ormai vuota, la Contessa dai capelli corvini e dal
vestito rosso fuoco flirtava impunemente con tre ometti in vestiti firmati. Al
suo fianco, un anziano con una giacchetta grigiastra e un colletto bianco si
alzò dalla sua sedia con un inchino e si allontanò, verso una porta laterale,
maneggiando con attenzione un iPhone nero. Sakura il
cesso seguì col binocolo i movimenti del vecchietto. La sala era pressappoco
deserta: qualcuno ai tavoli e un omino con degli occhiali a specchio e un
imbarazzante vestito barocco se ne stava in piedi spalle al muro. In un
tavolino vicino, due italiani, uno sulla sessantina e un gigante con la barba
parlottavano. Anzi: il più vecchio parlava mentre il più giovane, chino su una
pentolaccia, mangiava avidamente. La ragazza si staccò però dal binocolo non
appena sentì, alle sue spalle, un rombo tonante. «È arrivato!».
La Honda da mille di
cilindrata si fermò a fianco del Suv. Dopo aver
spento il motore ed essersi tolto il casco, il centauro dall’elegante completo
bianco panna si decise a scendere dalla potentissima moto. A passi decisi, che
tradivano una fretta impellente, si avvicinò al finestrino destro dell’auto,
nel frattempo fatto scendere da un veloce e pronto Kenzo.
«Pronti?», domandò
l’infame, con un pizzico di cortesia che mal si sposava coi suoi capelli a
spazzola, i denti d’oro e quell’area perennemente strafottente alla EikichiOnizuka.
«Dobbiamo fare presto»,
cambiò discorso la Belva, «la merdaccia non è riuscita nemmeno a fare il suo
lavoro. Auricchio e i suoi sbirri potrebbero tornare da un momento all’altro».
«Dunque la bomba?»,
stralunò gli occhi Kenzo, incredulo. «Ti spiegherò dopo», la Belva rimase in
silenzio per qualche istante, mentre, tirando su con il naso, assumeva
un’espressione schifata, «cos’è questa puzza?». «Ti spiegherò dopo», ripetè a pappagallo l’infame proferendo le stesse parole
che il senzadio italiano aveva pronunciato. «Che schifo…»,
insistette la Belva, «Cesso, sai che è?». «Mangime per i pesci», declamò la
ragazza con voce inespressiva. «Mangime per i pesci», ripeté, schifato la
Belva, guardando il boss della Yakuza con disgusto.
«Almeno è pronto lì?», domandò. «Certo!» cercò di riguadagnare la sua fiducia
Kenzo, ancora sconvolto dell’insuccesso della bomba. Era rimasto appeso fino a
un’ora prima per attaccare tutto quell’esplosivo… e
quegli uomini erano ancora vivi…
«Passa qui», tuonò la
Belva, squadrando con gli occhi il binocolo nelle mani bianche e curate di
Sakura il cesso. «È tutto pulito», cercò di tranquillizzarlo Kenzo, «tutti i
poliziotti hanno seguito te, non hanno lasciato dentro nessuno». «Quella
baldracca di tua madre», replicò la Belva. «Come?» trasalì il boss biondo, con
una delle classiche smorfie da teppista.
«Al tavolo c’è ancora
un commissario della Polizia Italiana. Un bastardo dell’antidroga, tipo
pericoloso. Mi domando che diamine ci sia venuto a fare qui con Auricchio. E
soprattutto perché non li abbia seguiti. Forse lo stronzone
è più intelligente di quello che sembra». La Belva abbassò le mani che tenevano
in alto il binocolo e si rivolse al criminale giapponese.«Prima di entrare»,
comunicò con voce bassa, «dobbiamo toglierlo di mezzo».
Kenzo l’infame nemmeno
fiatò, ma si girò, ancora seduto al posto di guida, per frugare dentro un
borsone nero adagiato sopra il sedile posteriore. Con l’espressione di un
bambino accontentato dal vecchio con la barba la mattina di Natale, mostrò alla
Belva un Dragunov, fucile da cecchini, d’importazione
russa.
«No», scosse la testa
la Belva. «Troppo rumore. Scapperebbero tutti in pochi istanti». Nel frattempo,
anche il Cesso si era tuffata nel borsone, riemergendo con degli strani dardi
appunti, molto simili alle freccette con cui si gioca nei bar.
Il volto del criminale
italiano si contrasse in un feroce sorriso. «Neurotossine. Spariamo uno di
questi attraverso quel vetro rotto. Nessuno sente nulla. Una di queste uccide
un uomo nel giro di quindici secondi. Questo è un po’ più grosso, lo manderà
all’altro mondo nel giro di trenta». La ragazza si spiegò in fretta, con
decisione, fredda come il ghiaccio di una pubblicità sexy della vodka. Uno
stile che piacque alla Belva, anche se Kenzo abbassò gli occhi intristito come
un qualunque scolaro che sbaglia a rispondere di fronte alla maestra e che
viene corretto dal vicino di banco secchione.
«Procedi!» ordinò il
senzadio vestito di bianco. Sakura il Cesso scese dal Suv,
muovendosi con eleganza, come una raffinata top model.
Tra le mani, un fucilone di precisione. La Belva, invece,
fece il percorso contrario,dirigendosi
verso la porta anteriore del passeggero del Suv. Con
un veloce movimento di mano, lanciò alla ragazza qualcosa. «Le chiavi della
moto», spiegò, «Io e Kenzo prendiamo l’obbiettivo. Adesso facciamo il giro, scendiamo
per questa strada. Quando ci vedi all’ingresso spari, d’accordo?». «Sì»,
affermò, glaciale, la ragazza. «Ottimo. Quell’affare è silenzioso. Quando ti
sentiremo scattare a bordo della moto, entreremo in azione. Aspettaci già lì.
Avremo bisogno di te, dato che Fracchia ha rovinato
tutto, come al suo solito». La Belva, dopo essere salito in auto, salutando il
“Cesso” non poté fare a meno di insultare il povero geometra romano: ma si
trattò di un atto profondamente ingiusto. Fracchia si
era sempre comportato bene per lui, e la colpa del mancato massacro di quella
sera era tutta della velocità, del coraggio e della destrezza inumana di una
certa ragazzina.
La Land
Cruiser si mise in marcia. Il boss della Yakuza
iniziò a condurre il Suv giù dal dolce pendio. «Fai
proprio schifo. Un sacco intero, scommetto. Non potevi cambiarti?», la Belva,
già famosa per la sua idiosincrasia con il cacao, era molto suscettibile in
fatto di odori. E quel pungente e acuto odore da vaschetta delle tartarughe già
avrebbe rovesciato lo stomaco ad una persona normale, figuratevi per uno
schizzinoso come la Belva. Kenzo finse di ignorare quell’ultimo commento:
avrebbe potuto giustificarsi con un “non c’era tempo” o con un “dovevo venire
qui per sistemare i cavolacci tuoi” e cose del
genere. Ma tacque. Del resto, ogni accordo in ambito criminale è legato dalla
legge del “Do tu des”. Nessun’amicizia o vincolo
d’onore, per lui, che era fiero di essere un “infame”, cosa paradossale per
ogni giapponese, anche il più violento e assetato di sangue. Nel paese del
sushi e della seconda lega di baseball al mondo, all’onore ci tengono. Ma lì
era solo questione di soldi. Del resto, la Belva si fidava di lui, ma quando
lavoravano insieme, lo facevano solo per il tornaconto di entrambi. Non c’era assolutamente
bisogno di essere amici.
«Qui va bene». Kenzo
frenò l’auto a pochi metri dalla vetrata già finita in mille pezzi. Le sparute
auto nel grande parcheggio del museo, da lì poco distante, sparpagliate a gran
distanza l’una dall’altra, facevano capire che fino a poco prima ci doveva
essere stata una gran marea di gente. Lo stesso spettacolo che attende gli
spettatori dell’ultima proiezione di un cinema che se ne escono dai multisala
alle prime ore del mattino. «Giù», ordinò laconico la Belva. In mano la fida
Beretta che tanti lutti aveva addotto nella sua famigerata carriera da pistolettone. Kenzo, invece, prelevò dal suo solito borsone
un più sobrio Ak-47 russo arrugginito, ancora però capace di fabbricare orfani
e vedove in massa. «Il resto?», domandò il criminale italiano. Il suo omologo
giapponese si limitò ad esibire il contenuto di una tasca della sua giacca: un
paio di scintillanti manette.
Un sibilo fendette
l’aria. «Andiamo?» domandò un impaziente Kenzo. La Belva si limitò a dargli uno
strattone che voleva dire centomila cose: “Il segnale, maledetto! Dobbiamo
aspettare la moto del Cesso… Sei sordo o sei solo
stupido?” pareva dire la Belva, che anche senza parlare si faceva capire
benissimo, con quegli occhi di ghiaccio che avrebbero trasformato l’inferno in
un set invernale per cinepanettoni. Il gurentai[3]
comprese ancor di più di essere il cane sottomesso, l’underdog
della situazione, e rimase il più possibile calmo in attesa di nuovi e
definitivi ordini.
Il rombo di una moto di
grossa cilindrata ruppe il silenzio della notte. «Andiamo». Il senzadio italico
mollò la mano dal braccio del boss della Yakuza,
tolse la sicura dalla pistola e iniziò a correre. Girò l’angolo e si ritrovò,
seguito a stretto giro da Kenzo, di fronte ai resti della parete in vetro
sostenuta da sottili ed esili listelli di legno bianco, ormai ridotta ad
informi mucchietti confusi di vetri rotti. Le luci nel salone del Minato Art Museum erano ancora accese, ma i tavoli più vicini alla
parete a vetri erano per di più deserti: quasi nessuno si accorse dunque
dell’entrata in scena dei due criminali. Kenzo strabuzzò ancor di più gli
occhi, per abituarsi al passaggio tra il buio e la forte luce al neon. Il
gigante, colpito dal dardo avvelenato del Cesso, era riverso a terra, con un
capannello di curiosi sopra di lui. Al tavolo delle autorità la Contessa
svettava in piedi, sopra la sedia, per vedere da lontano che diamine fosse
successo. Tra i tavoli, voci confuse. Poi un urlo.
«HA UN FUCILE!!!». “Si
va in scena”, pensò Kenzo, che aprì le danze con una sonora smitragliata
al soffitto: rimasugli di vetri ancora non crollati dal lucernario si
staccarono e caddero per terra, come del resto fecero alcune scaglie di
intonaco particolarmente debole. Dopo l’overture del
nipponico, fu la volta del solista, il tenore protagonista della serata: la
Belva.
«Fate come vi dico e
nessuno si farà male», esordì, prima di gridare in velocità: «Nessuno si
azzardi a fare una mossa se non vuole fare una brutta fine». Lanciò uno sguardo
a Filini, spaventato come un gattino di fronte a un dobermann con la bava da
rabbia alla bocca: «Una brutta fine peggiore della morte…
Una pallottola», commentò con voce calda e minacciosa, avvicinandosi a una
signora italiana in abito da sera che rimaneva seduta, pietrificata, al suo
posto, «diciamo… qui», disse, toccandole il collo
appena al di sotto della nuca, «non vi uccide. Ma vi condannerà ad una vita da
vegetale, su un letto, senza la possibilità di muovere il vostro corpo, di
accarezzare i vostri cari, persino di controllare i vostri sfinteri». E rise:
una risata che non voleva dire gioia, né soddisfazione, né persino un piacere
sadico. Era un’espressione totalmente falsa, manifestatamente
falsa, ma che serviva a rendere quello spettacolo ancor più spaventoso agli
occhi di ogni malcapitato spettatore.
«Tu!», si volse verso
la Contessa, ancora stupidamente in piedi sulla sua sedia, pietrificata. Prima
gli occhi, poi la Beretta. Kenzo, Ak-47 tra le mani, corse verso il tavolo
delle autorità.
«Che vuole da me?». “È
tornato? Perché diamine è tornato? Cosa vuole ancora?” L’ex zitella Silvana
Silvani non riusciva a capire. A quanto pare ignorava l’esistenza dei “Gemelli
del male”, fatti conoscere al grande pubblico dalla penna appuntita di tal
Marco Travalico, ma percepiva grazie al suo intuito femminile, nella seconda
sortita dell’uomo dai capelli d’argento elegantemente vestito con colori bianco
panna, una ferocia e una sicurezza che prima non aveva avvertito per nulla.
«Taci se vuoi che non
ti tagli quella gola», rispose per conto della Belva il buon Kenzo,
sopraggiunto alle spalle della nobildonna. L’afferrò per la vita e la gettò
sopra il tavolo, facendo cadere a terra alcuni piatti. Nessuno, tra i pochi
rimasti, venne in soccorso della Contessa. Le scariche di AK-47 e il dardo che
emergeva dal petto del gigante Rizzo, a terra esanime, avevano cancellato ogni
barlume di coraggio anche nel più scavezzacollo degli imprenditori, notabili e
ospiti rimasti. Le tre bestie senz’anima, invece, si erano dignitosissimamente
rifugiate sotto la tovaglia dello stesso tavolino, preda degli smottamenti
intestinali che la paura porta seco: provarci con l’ossuta Contessa era, in
quel preciso momento, l’ultimo dei loro pensieri. Dovevano semplicemente non
dare nell’occhio, sopravvivere, per tornare trionfalmente in patria ad
aumentare, con i loro comportamenti riprovevoli e illegali, l’indice dello
spread tra bund tedeschi e btp
italiani.
La Contessa si
dimenava, urlava come una sirena dei pompieri raggiungendo tonalità altissime,
ma a fiaccare sul nascere ogni resistenza il “clic” metallico delle manette,
allacciate ai polsi della donna, dietro la sua schiena, da un Kenzo in quel
momento particolarmente infame. Il boss della Yakuza
tirò a sé la donna, ormai inerme, e la spinse in avanti, oltre al tavolino,
dove fu raccolta, afferrata per i capelli, dalla Belva.
«Cammina!», urlò,
indelicato, il criminale. «Certo che puzzi… Ma che è
sta roba? Vaschetta delle tartarughe?», si lasciò sfuggire la nobildonna, ma
uno schiaffo dell’infamone le fece capire con
disarmante chiarezza in che situazione si trovava. Iniziò a piangere, ad
invocare aiuto, a gridare come un’ossessa, ma nessuno rispose. Solo un
indistinto brusio che voleva dire tutto e non voleva dire niente. La Contessa
Silvana SerbelloniMazzantiViendalmare era tornata ad essere la pezzente,
sofisticata e burina signorina Silvani. I soldi non le sarebbero corsi in
aiuto. “Anzi”, si rese conto, “sono loro che mi hanno cacciato qui”. “Altro che
i 20 pippi”, si maledì.
«Cammina!», urlò di
nuovo l’infamone, ancor più feroce. Ma la dama in
rosso continuò ad opporre resistenza. Kenzo, allora, la sollevò da dietro, per
la vita. Portarla a forza fuori da lì sarebbe stato immensamente più veloce che
convincerla con le buone. Nessun poliziotto, carabiniere o guarda giurata
avrebbe cercato di impedire quel rapimento. Ma, forse, qualcun altro sì.
«Ragazza…».
Un vecchietto, con un vecchio clergyman nero, sbucato da un corridoio laterale,
si muoveva calmo, ma spedito, verso di loro, mentre parlava al telefono. Gli
occhi fissi sulla scena ma la testa da un’altra parte. «È l’Amore che ci ha
salvati», declamò solenne. Parlava al suo interlocutore, ma si trattava di un
discorso assai più esteso. «Tu sii Amore per altri», continuò. «Grazie», Kenzo
lo fissò come se si trattasse di un alieno. “Il capo dei cattolici”, lo
riconobbe, conservando però nel suo sguardo un’estrema sorpresa. «E arriva
presto, se riesci. Puoi farcela!», concluse. La Belva non era sorpresa, ma dava
segni di una profonda seccatura.
Il vecchio staccò dall’orecchio
il telefono e con un tocco chiuse la chiamata.
«Signori», esordì,
guardando in faccia la Belva, che ancora teneva, stretta per i capelli, la
nobildonna italiana. «Vi supplico di lasciarla andare». Dal nulla, un sorriso
si formò sul suo sereno volto senile.
Avevano fatto schifo.
Inutile farci tanti giri di parole. 11 a 5 nel baseball significa che hai
proprio fatto schifo. Perché per fare punti, nel nobile giuoco del diamante,
basta colpire la palla e correre veloci. Ma per difendere bisogna fare squadra,
capirsi al primo sguardo, effettuare passaggi veloci. Tutte cose che si erano
dimenticati di fare.
Il sole di giugno,
ardente come non mai, sembrava li guardasse con disprezzo, stesi come feriti di
guerra sul campetto da gioco. Persino il vento pareva essersi rifiutato di
soffiare il benché minimo alito di brezza, come per punire la squadretta della
scuola dei frati. «Lasciamoli soffocare dentro quelle luride maglie sudate»,
era come se dicesse, tronfio e bastardo più che mai.
E YusakuIbakari sapeva di aver fatto schifo. Era il prima
base, del resto. La colpa di quella disfatta era in gran parte sua. «Che dici, Shinji?», domandò al suo compare, seduto con lui in una
panchina di legno completamente scheggiata che pizzicava loro il sedere. «Gli
idioti della Kamata ce l’hanno fatta ancora», e sputò
per terra, «odio quegli imbecilli». Avevano dodici anni, ma sia Yusaku che Shinji parevano più
piccoli per la loro età. Timido e coi tratti del viso più dolci il primo,
selvatico, con la faccia sempre volta in un’espressione strafottente, il
secondo.
Seduti alcuni sulle
panchine, altri per terra, i ragazzi assaporavano l’amaro gusto della
sconfitta, bevendo the freddo portato dalla mamma del catcher, Shiro Roppongi, dodici anni ma pareva averne trentacinque,
per via del metro e ottanta di altezza, i settantacinque chili di muscoli e un
paio di baffi abbozzati sopra la sigaretta che teneva tra le labbra. C’era un
silenzio spettrale. Nessuno osava proferire parole od espressioni più
complicate dei lamenti gutturali.
Non era una squadra
pessima: nel campionato cittadino gli studenti delle scuole medie dei frati si
posizionavano nelle zone d’alta classifica. Proprio per questo le sconfitte,
quando arrivavano, facevano male.
Un uomo, camicia bianca
a mezze maniche e pantaloni neri da impiegato, si avvicinò al gruppo di
ragazzini. “Ora si comincia”, pensò Yusaku, mentre
una profonda ondata di amarezza lo avvolgeva. «Daisuke!»,
e sorrise, placido, sereno, verso un ragazzino spilungone disteso sull’erba a
braccia spalancate, l’esterno destro della squadra «allora?». «Male, papà. Ho
sbagliato quella presa e il tipo con gli occhiali ha mandato in base due dei
loro», si accusò, alzandosi stancamente. «Sì», ammise suo padre, «ma nell’altro
inning sei riuscito a prendere quella palla difficile. Quanti metri avrai
corso? Quindici?». «Saranno stati anche venti, forse», riprese Daisuke, leggermente rinfrancato. «Dai che ci fermiamo al chioschetto degli okonomiyaki…»,
promise l’uomo, allontanandosi in compagnia del figlio.
Nessuno dei tredici
ragazzi della squadra sembrò notare l’arrivo dell’uomo e le poche parole
scambiate con il figlio. Nessuno, a parte Yusaku, che
non riuscì a staccar loro gli occhi di dosso. “Di nuovo”, ripensò con dolore il
ragazzo, quando la mamma del corpulento Shiro si
presentò per invitare il figlio a tornare a casa al più presto. Sempre con
quelle parole di consolazione. I genitori di quei ragazzi erano più o meno
tutti lì, quella domenica pomeriggio. Alcuni, seduti su panchine possibilmente
ancor più scheggiate di quelle su cui stavano rifiatando i loro figli, si
facevano aria con un giornale arrotolato o con dei ventagli colorati. Ma la
mamma e il papà di Yusaku non erano tra loro.
«Ragazzi», si alzò, «io
vado. Ci vediamo domani a scuola…» Possibilmente
ancor più sudato di quando si era seduto, Yusaku
salutò i suoi compari e si incamminò. Indossava ancora la casacca scucita e
scolorita della sua squadra. Attraversò due isolati. Le case, protette da alte
mura in cemento come da tradizione nipponica, parevano ancora immerse, alle sei
del pomeriggio inoltrate, nel sonnellino pomeridiano. Non c’era un cane per
strada, l’unico, il molossoide del signor Akamura, dormiva pancia all’aria, nella sua cuccia che dava
sulla strada, legato a una grossa catena in ferro arrugginito. Girò la strada,
e si trovò di fronte a casa. O meglio, l’unico posto che poteva definire casa,
che era, nello stesso momento, la sua scuola.
Il convento dei frati.
Entrò per una porta laterale in un lungo corridoio, buio e afoso. Silenzioso
come un gatto, si fiondò in cucina. Aprì il rubinetto, e, con una tazza in
ceramica scheggiata, si riempì la pancia di acqua freschissima e dissetante.
Poi si diresse in bagno, dove si fece una doccia veloce. Gli sembrava di essere
l’unica persona in quel grande edificio, e forse lo era davvero. I frati erano
tutti impegnati nelle funzioni del pomeriggio, molti degli altri bambini erano
andati ad una scampagnata, altri stavano finendo i compiti per l’indomani.
Orfanelli o semplici studenti, per i frati, la severità da applicare nel
rapporto insegnante-studente era la stessa.
Mentre si cambiava i
vestiti, rigorosamente di seconda e anche di terza mano come è di moda tra gli
orfanelli, Yusaku pensò di nuovo alla partita, dove,
assieme ai suoi compagni di classe, aveva decisamente fatto schifo. Nel secondo
inning una palla facilissima gli era sfuggita dal guantone, permettendo a un
suo avversario di arrivare salvo in base: non era più stato eliminato e dunque
aveva fatto punto. Un punto subito, dunque, che era anche colpa sua. Pensò ad
altri errori commessi nel corso della partita, anche in fase di attacco. Quei
due strike-out vergognosi quando si era trovato alla battuta. E si avvilì.
Forse il baseball non era per lui. Magari sarebbe stato bravo con il Kendo… ma per un orfanello entrare in una squadretta di
baseball è possibile: bastano un guantone e una mazza prestati, mentre, per
fare kendo, bisognava trovare un dojo, acquistare l’armatura… era meglio non pensarci nemmeno.
Si arrovellò nei
pensieri. Non poteva fare altrimenti: suo papà e sua mamma non erano lì a
consolarlo. I suoi genitori non potevano ricordargli che sì, nel secondo inning
aveva pasticciato con una palla, ma che aveva anche, nel terzo e nel settimo,
compiuto delle eliminazioni al volo da manuale. E suo padre, da esperto
sportivo qual era stato, non era lì a spiegargli che se in una partita fai due
strike out, ma poi batti un fuoricampo da tre punti, è come se avessi fatto un
punto a battuta, una media straordinaria persino per un giocatore
professionista. Il papà di Yusaku infatti era stato
fucilato come disertore, sua madre era invece mancata per malattia, poco dopo.
Se lo portò dietro per
tutta la vita, Yusaku, quel difettaccio maledetto.
Perché gli scrupoli eccessivi su quello che si fa, la totale comprensione per
le azioni delle altre persone e la puntigliosità, la severità estrema, la
crudeltà verso le proprie, è un ostacolo enorme. Uno scherzo fatto da madre
natura solo ed esclusivamente alle persone per bene, financo
ai santi, che si dolgono e soffrono come delle bestie per una parolina fuori
posto o per non aver dato trentadue quando già avevano dato trentuno, mentre
generazioni e generazioni di senzadio, evasori fiscali, tronisti
di Maria de Filippi e abbandonatori compulsivi di
cani in autostrada se la godono che è un piacere.
Quel difettaccio, che
sarebbe stato capace di mandare in terapia anche il più composto degli
individui, unito però a una fede incrollabile e alla certezza che tutto abbia
un senso in un questo strano universo, fu comunque in grado di trasformare,
dolore dopo dolore, fatica dopo fatica, il timido orfanello, il prima base YusakuIbakari prima in un
diligente seminarista con l’acne, poi nell’umile don Yusaku
e infine nel vecchio e claudicante Vescovo, sempre pieno di impegni, sempre
alle prese con incartamenti, documenti sinodali e sempre in fuga dalla concreta
possibilità che qualche bontempone, nei palazzi romani, osasse suggerire a
Giovanni Paolo prima e a Benedetto poi di ficcargli una berretta rossa in testa
durante una pomposa cerimonia in Palazzo Apostolico.
«Fra dieci minuti sarò
da voi», la giovane voce femminile lo rincuorò per telefono. Era in piedi,
sicuro sul suo bastone, in un corridoio laterale del salone più grande del Minato
Art Museum. Non era più quel salone festoso, dove
prima un buffet e poi una cordiale cena romana aveva accolto schiere di
notabili italiani e giapponesi. Era pressoché deserta, presidiata dalla
Contessa, attorniata da pochi fedelissimi, ancora in trono, a pretendere che
onesti poliziotti le riportassero indietro un quadro che non le era mai
legalmente appartenuto.
Ma, a preoccupare
l’anziano presule, l’ombra del feroce criminale, la Belva Umana, che si
allungava in quella strana tarda serata giapponese. Improvvisamente, un
vociare, crescente, dall’interno della sala.
«Sta male!». «È caduto
con la faccia sulla pentola». «Ma no, che dici. Se sarà addormentato…».
«Ma cos’è questa? Una siringa?». «È caduto a terra! Aiutatelo!!!». «C’è un
dottore?». Il vescovo allungò gli occhi oltre la porta del corridoio,
socchiusa. Qualcuno si era sentito male, forse. Un brutto presentimento
squarciò il suo vecchio cuore, ma la sua testa non ebbe il tempo di ragionarci
su, quando, una sonora smitragliata, fece piombare il
più cupo silenzio nella sala.
«Fate come vi dico e
nessuno si farà male», gridò un uomo in mezzo alla sala: «Nessuno si azzardi a
fare una mossa se non vuole fare una brutta fine». Accanto a lui,
inconfondibile, un uomo vestito di bianco. Occidentale, occhi di ghiaccio. Lo
stesso di prima?
“No”. Comprese il
Vescovo, più serio che mai, che dagli occhi leggeva i cuori. Eppure, un accenno
infinitesimale di un sorriso gli spuntò al margine destro delle labbra. Aveva
ragione. Qualcosa bolliva in pentola. “Signore, mi affido a te”, disse in alto.
Aveva capito tutto. Non poteva andare diversamente. Era così che tutto era
stato pianificato. “Va bene”, sorrise. Fece alcuni passi indietro, verso
l’interno del corridoio. Ma non aveva alcuna intenzione di nascondersi. Pensò
agli occhi di Meimi, così sicuri, mentre parevano sfidarlo a chi aveva più fede
nella sala dei KakureKirishitians.
«Saint Tail», esordì solenne, preoccupato ma sereno al tempo stesso, «mi fido
di te. Arriva presto». Stava per chiudere il telefono, quando, complici le voci
e le grida che provenivano dal salone principale, si sentì in dovere di dire
qualcosa in più. “Non si sa mai”. «Ama, cara ragazza», era il senso di tutta
una vita, dolorosa ma felice. Aveva poco tempo, ma sapeva benissimo, il vecchio
vescovo, che sarebbero bastate a dirle tutto. E fu invaso da una profonda
tenerezza. «Ama te stessa», le suggerì amandola, «ama la tua famiglia», le
ordinò, amandola, «ama quel tuo Asuka-kun», la
implorò, amandoli entrambi, «ama la tua missione», concluse amando quella sua
cittadina, quel suo mondo, quell’universo nel quale si era ritrovato ad
esistere. La ragazza iniziò ad urlare, preoccupata, dall’altro capo della
cornetta. Ma le grida provenienti dal salone vicino erano assai più forti.
Decise dunque di spalancare la porta del corridoio e di entrare, senza fretta,
con la tranquillità di chi passa dal salotto alla cucina, verso il salone principale
del Minato Art Museum, dove, in quel momento, si
stava scatenando l’inferno. «Ragazza», il vecchio condensò una Bibbia in poche
parole, «è l’Amore che ci ha salvati. Tu sii Amore per gli altri. Grazie». Ma
era sicuro di lei, come non era mai stato sicuro di nessuno in vita sua:
«Arriva presto, se riesci. Puoi farcela!». Si staccò dal telefono, fece un
profondo respiro, e fece l’unica cosa che avrebbe potuto fare in quel momento.
Attorno a lui, gente
per terra, nascosta sotto le tovaglie ormai macchiate dei tavoli. Il
commissario Rizzo era disteso, esanime, a pancia in su, con un il braccio
sinistro dietro la schiena. Davanti a lui, invece, si ergevano sicure come
colonne, nonostante non fossero più alti di lui, due criminali, uno più
trascurato, dalla strana capigliatura e dall’aspetto strafottente, un mitraglione russo in mano, l’altro, vestito come un playboy
di una discoteca della Francia meridionale negli anni ’70, teneva in pugno una
Beretta scintillante. Con loro, ammanettata e scalciante, la Contessa. Le
lacrime avevano fatto sì che il trucco le rigasse il volto di nero come un
triste Pierrot. Kenzo non nascondeva la sua sorpresa, ma la Belva, più che
sbalordita, pareva irata. Ma di una rabbia serena, controllata, pronta ad
esplodere in feroci piani freddissimi ma implacabili.
«Signori, vi supplico
di lasciarla andare», domandò sorridendo il vescovo. Come se stesse loro
domandando: “Che ore sono?”. «TIRATEMI VIA QUELLE MANACCE DI
DOSSO!!!», parve riprendere coraggio la Contessa.
Kenzo spalancò ancor di
più la bocca. Non sapeva come sarebbe andata a finire. Sapeva però cosa avrebbe
fatto lui, se fosse stato al comando. Ma in quel momento, il sanguinario boss
della Yakuza, al comando, proprio non lo era. Era uno
scagnozzo in tutto per tutto: ma essere scagnozzo della Belva era un po’ come
per il sindaco di un grosso paese diventare ministro della Repubblica. Prima
sei il capo assoluto di una singola città, poi devi sottostare a un primo
ministro e ad un presidente della Repubblica. Sei sì un sottoposto, ma la tua
giurisdizione si allarga, e hai un potere ancor più grosso di prima.
Kenzo, se fosse stato
al comando, avrebbe dato un sonoro spintone al vecchietto. Al massimo un pugno
con il suo sguardo da ronin, pieno di disprezzo. E il
vecchietto sarebbe caduto di fronte a lui, rompendosi un femore o dovendo
prendere appuntamento al più presto col suo odontotecnico. Ma, ripeto, Kenzo,
al comando, proprio non lo era.
Seguirono pochi attimi,
non più di due secondi, di silenzio totalmente irreale. Persino la Contessa
smise di belare e di scalciare come una disperata, come se avesse compreso la
gravità del momento. «Vi supplico, per l’amor di Dio, di lasciarla andare». Il
Vescovo rinnovò la sua richiesta. Era calmo, pacato, come uno zingarello senza denti che domanda l’elemosina. Ma dentro
la sua voce, pareva rimbombasse, come negli immensi spazi di una cattedrale
barocca, l’eco di secoli. Come se l’intero insegnamento di quel falegname
galileo fosse racchiuso in quell’omino. Il presule guardò la Belva, ma la
maschera di ghiaccio non lasciò intravedere alcuna crepa.
In effetti, il vecchio
religioso aveva molti dei tratti di quel Federigo
Borromeo che inetti professori del Liceo ci hanno fatto – immancabilmente
–odiare[1].
Il suo portamento era composto, i segni dell’astinenza si mescolavano anche in
lui a una specie di floridezza verginale, una pace raggiunta nella convinzione
che è l’amore che regola l’universo, persino, oserei dire, i tratti di una
bellezza senile.
A dispetto di ciò, la
Belva, non aveva invece un briciolo dell’uomo che è passato alla storia come
Conte del Sagrato prima, e senza nemmeno un nome poi. Non aveva, a differenza
del fiero nobile lombardo, trascorso la notte precedente in bianco,
attanagliato dall’orrore delle sue azioni. Aveva invece dormito le sue giuste
cinque ore, prima di mettersi, con la precisione di uno scacchista russo, ad
architettare il suo piano di morte. Il suo ostaggio, poi, non era quella bella
e pura contadina secentesca dai capelli corvini e il portamento umile, ma una
racchia colpita dalla menopausa come un gazebo claudicante da una tempesta
caraibica, già volgare di suo ma alla quale la ricchezza aveva rafforzato la
trivialità e la spocchia. Inoltre, non aveva nelle mani quel tremolìo di terrore e di agitazione che connotava il
terrore di Milano, ma in pugno, ferma come il bisturi di un chirurgo di fama
mondiale, una Beretta fiammante.
Il Vescovo vide quello
sguardo. E vi lesse un annuncio che sapeva insieme di condanna e di
liberazione. La Belva neppure parlò.
Uno. Due. Tre. Nel
petto dove risiedeva quel grande cuore, si fecero largo, fredde come gli occhi
del loro mittente, tre piccole capsule in piombo. Sorrise, prima di cadere a
terra.
I presenti raccontano
che il vecchio Vescovo parve cadere al rallentatore. Un testimone, un oscuro
funzionario del Commercio Internazionale del Ministero per gli Affari Economici
è persino arrivato a dire, alla commissione d’inchiesta, mentre una lacrima gli
accarezzava la guancia bocconiana, che l’anziano religioso «pareva un petalo
che si posa sul terreno trasportato da un vento sottile».
Qualcuno urlò,
qualcuno, che prima, spinto dalla curiosità – una forza così grande a volte da
fare a pugni con l’istinto di sopravvivenza e metterlo ko – era emerso da sotto
i tavoli, vi ci tornò tremando.
La Belva, come se nulla
fosse, rimise la pistola nella fondina. Nessuno avrebbe osato disturbarlo
ulteriormente. Kenzo rimase ancor più impietrito. Non avrebbe mai ammazzato un
vecchio così, a sangue freddo così. Come un cane, così. Era un infame per gli
standard giapponesi, ma forse non lo era abbastanza per quelli italiani. Kenzo
avrebbe potuto dire: “Capo, ma perché?”, avrebbe potuto pensare di fermarlo, di
evitare quell’inutile morte. Ma non era lui al comando. E si rese conto che se
la Belva era in effetti così potente, così incontrastata, così maledettamente
temuta lo doveva ad una semplice regola, che si era dato fin dall’inizio della
sua prospera attività criminale. «Chi si mette in mezzo, è morto». Nessuna
eccezione, Auricchio a parte. Trascinò di peso un’ormai attonita Contessa, i
cui occhi erano appannati, quasi spenti, da quel guizzo di crudeltà inumana, fuori
dal salone. Si allontanarono in silenzio, verso l’esterno, verso la macchina
che avevano lasciato, chiavi dentro la toppa, pronta a sgommare diretta al
rifugio all’interno del quale il complesso piano del mostro avrebbe visto il
suo epilogo.
«SUA ECCELLENZA!!!» si
fiondò sopra il corpo del pastore di quella Diocesi il vicario generale Hikamura. Il monsignore, un uomo sulla sessantina calvo
come una palla da biliardo era in tutto per tutto nella curia quello che
definiscono un maresciallo. Serio, meticoloso, organizzava la macchina
diocesana come un orologio svizzero, domandando a tutti i collaboratori una
disciplina ed un attaccamento al lavoro inusuali anche per un paese come il
Giappone. Raramente lo vedevanosorridere.
Nessuno lo aveva visto scherzare o aprirsi un po’, raccontare qualcosa di sé.
Ma in quel momento,
sopra il corpo agonizzante del vecchio Vescovo, dal cui petto bucato e dalla
cui bocca usciva ad intervalli regolari fiotti di sangue rossissimo, piangeva
come un bambino, singhiozzando e tirando su con il naso.
«SUA ECCELLENZA!!!»,
gridava, «FATEVI FORZA!!! ORA CHIAMANO L’AMBULANZA!!! RESISTA, RESISTA LA
PREGO!!!». Eppure, nonostante quel sangue, quel dolore, quel corpo che si stava
lasciando andare, il vecchio Vescovo sorrideva.
«Abbi fede», disse con
un rantolo, «e assolvimi…». Richiamato dal dovere, il
monsignore, sotto lo sguardo commosso dei pochi presenti, con le dita tremanti
tracciò un segno della croce sulla fronte rugosa del vecchio pastore e gli
impartì l’assoluzione in articulomortis.
Ma non appena ebbe finito di recitare, in fretta ma con precisione, la formula
del rito, tornò ad urlare come prima: «LA PREGO… SI
FACCIA FORZA, IO», osò dire, «NOI TUTTI, ABBIAMO BISOGNO DI
VOI».
«Lei», riprese con un
filo di voce il vecchio Vescovo, «arriverà. Fidati di lei. Aiutala. È giovane
ma crede più di noi che siamo vecchi».
«Lei chi?» domandò
sorpreso Hikamura. Ma non c’era più tempo. «Vi
benedico», disse con un filo di voce il piccolo grande uomo, e, subito dopo, in
punta di piedi, con la delicatezza tipica dei suoi piccoli gesti minuti, lasciò
il salone del Minato Art Museum, le cene con le
autorità potenti dai doppi fini, l’agenda degli impegni, la paura del
cardinalato, gli allarmi della società giapponese, le ferite di un mondo malato,
le cicatrici di una guerra che l’aveva reso vecchio prima del tempo, la
condizione mortale ereditata dai coniugi Adamo.
-
Era di nuovo nel
campetto da baseball in fondo alla strada.
Il clima di fine giugno
lasciò in magazzino il suo repertorio di afa e solleoni e si mise in mostra con
la sua merce migliore: un cielo di un azzurro splendente, impreziosito da
paffute nuvole bianche, e una brezza frizzante che ti scorre tra la pelle e la
solletica piacevolmente. Nell’aria l’odore di gelato. Gelato. E takoyaki.
Era di nuovo Yusaku. Aveva di nuovo dodici anni. Indossava di nuovo la
maglia della squadra dei frati e con lui c’erano di nuovo i suoi amici Shinji, Shiro e Daisuke. La partita era appena finita.
Si sedette sull’erba
verde e rigogliosa deciso a ripensare, come nelle peggiori trasmissioni
sportive delle reti locali, ad ogni attimo, ad ogni istante, di quella sua
lunga partita. Com’era andato? Aveva fatto schifo? Aveva giocato bene? Ma non
ebbe troppo tempo per entrare in profondità della moviola. Si accorse dai
rumori che molta gente era lì, in piedi, oltre la recinzione in filo di rame
che separava il campetto dalla strada. Con un balzo e con l’agilità tipica dei
suoi dodici anni, si ritrovò in piedi. Dopo un istante fermo sul posto, per
permettere al sangue di defluire dal cervello al resto del corpo, si accorse di
quanti aveva davanti.
Erano veramente
moltissimi. C’erano uomini, donne, bambini. Persone che aveva visto per qualche
istante o amici con cui aveva condiviso una vita intera. C’erano i frati che
l’avevano cresciuto, con la loro barba lunga, gli occhi a mandorla in mezzo al
loro piccolo volto rugoso e un’espressione gioviale. C’era il signor Akamura e c’era il suo grosso cane, che però adesso non
dormiva e se stava invece ritto in piedi con la lingua di fuori. La coda in
perenne movimento. C’era Kyoko, la sua amica
d’infanzia. C’era Tayuki, che era stato ordinato
sacerdote con lui. C’era persino Emma, la domestica dei suoi anni romani, ed
Enzo, il barista che ogni mattina gli portava in studio caffè e cornetto. C’era
Soichiro, il sacerdote diocesano che aveva mandato
come fideidonum in
Nigeria, bruciato vivo tre anni prima la notte di Natale mentre celebrava la
messa dentro la sua chiesa. Ma quando vide che c’erano anche sua madre e suo
padre, il cuore parve scoppiargli di gioia. Corse verso di loro, lasciando
cadere a terra il pesante guantone di cuoio. «Papà, mamma!!!», aprì la porta –
quattro pezzi di ferro ricoperti da fil di rame e tenuti su da due precarissime
cerniere arrugginite – e si lanciò verso di loro. Poi, improvvisamente: “la
partita!”. E si ritrasse dal loro abbraccio.
«Papà, mamma», alzò gli
occhi verso di loro, il soldato disertore impiccato e la donna morta di dolore,
«ho fatto schifo».
«Ma che cosa dici?», lo
rimproverò suo padre, con un sorriso pieno di comprensione e di amore, «sei
stato bravissimo!». «Ti abbiamo visto e abbiamo sempre fatto il tipo per te, Yusaku-kun», aggiunse sua madre. Quant’era bella.
«Ma no», insistette
lui, testardo come ogni ragazzino di dodici anni, «ho rifiutato Roma e i suoi
doveri. Ho delegato troppe cose. Ci sono i problemi finanziari delle suore scolopie del Saint Paulia…». I
suoi genitori e la moltitudine di persone che lo circondavano lo fissavano
sorridendo, «…ho deluso molti…
e Meimi… ho posato un fardello troppo grosso in
quelle giovani spalle innocenti».
Quando tacque, sua
madre, chinandosi leggermente su di lui, con un fare ironicamente severo, gli
domandò: «Hai finito?». E tornò a spalancare la bocca in un sorriso solare.
Quella bocca che Yusaku aveva visto, per l’ultima
volta prima d’allora, aprirsi agli spasmi della morte.
«Ti ripeto», continuò
suo padre, «anzi, ti ripetiamo tutti: Yusaku! Sei
stato un grande!!! Vero, gente?».
E scoppiò,
all’unanimità, improvvisamente, un applauso fragoroso. I più anziani, battevano
le mani composti, mentre i più giovani, gli amici d’infanzia, morti chissà
quando e chissà come, saltavano come pazzi e gli battevano sonore pacche sulle
spalle.
«Grazie», sussurrò il
ragazzo. «Grazie veramente». E una lacrima gli rigò il viso. Sorrideva,
finalmente. Imbarazzato, abbassò il volto e si schernì: «Io non merito tutto
questo». Era troppo per lui. Ma non era finita. La folla si aprì, e da in mezzo
ad essa, entrò Qualcuno. L’Amore della sua vita.
«Yusaku!
Eccoti!», la Voce parlò. Quella Voce che per tutta una vita aveva cercato in
testi polverosi, conferenze filosofiche, esperienze altrui e negli spazi più
profondi del suo silenzio. Finalmente lo vide. Nell’immensità di luce notò
delle ferite. Ferite profonde, dolorose, ma nelle quali vi si poteva
rispecchiare. E un profondo amore che rendeva quelle stesse ferite dolci come
il miele.
«Yusaku»,
riprese, «andiamo! Tutto questo è per te!». Dalla folla ripartirono, più forti
che mai, gli applausi e i festeggiamenti. Il ragazzo alzò gli occhi verso la
fonte di quella luce inondante. Prese per le mani i suoi genitori e si lasciò
coccolare da quel mare di gioia. Era amato. Era a casa.
[1]
Non il mio, un professore, un maestro, una persona fantastica sotto ogni
aspetto. Mi manchi, prof. Rimedio, da lassù guarda tutti quelli che hanno avuto
la fortuna di incontrarti e di imparare da te.
Eccomi qui.
Un mese fa, quando ho caricato il capitolo 40, ero da mesi arenato nel capitolo
43. Oggi, invece, grazie all’accelerazione dovuta all’incoraggiamento di Cinzia
Aka Sakura, mi trovo a iniziare il 51. I numeri non
contano assolutamente nulla senza riferimenti. E gli spoiler sono un veleno
mortifero. Però vi posso dire che la storia vera e propria terminerà con il
capitolo 50, dato che gli episodi seguenti sono una sorta di continuazione, di
stasi serena tra il prima e il dopo.
Non che siano
inutili, anzi, sono forse i capitoli più belli che devo ancora iniziare a
scrivere, ma di ben altro si tratta.
Ora però
siamo ancora nel vivo: il Vescovo è morto, la Contessa è rapita, la giustizia
ha perso in tutti i fronti possibili. Accompagniamo i nostri protagonisti nel
loro cammino verso l’ineluttabile.
Andrea
41
Asuka Jr (prima parte)
Erano le undici passate ma non
gliene fregava un accidentaccio a nessuno.
Le sirene delle volanti della
polizia italiana e giapponese, attaccate ai tettucci con delle clip precarie,
parevano gridare come ossesse alla tranquilla cittadina giapponese, ormai
ostaggio di Morfeo, che dormire non era per nulla un’opzione contemplabile. Che
tutto era ancora in forse. E che le parche, in quei minuti, stavano giocando
coi fili del destino in modo non dissimile da come i gatti sgrammaticati di
Internet si sollazzano con dei paffuti gomitoli di lana colorata.
Erano più di vent’anni che
l’asfalto di quelle stradine era stato posato con perizia, sulla base dei
precisi progetti degli onesti funzionari degli Uffici tecnici del Comune.
Nemmeno nei loro sogni più strani quei geometri e quegli ingegneri avrebbero
pensato, che, prima o poi, delle auto vi sarebbero sfrecciate sopra con tale
furia.
Centoventi
chilometri orari. Centotrenta. Una pazzia. Forse l’unica possibilità rimasta al
campo del bene.
«ANDIEMO!!!» gridava la voce di
Auricchio nelle frequenze radio della polizia. «ANDIEMO!!!» ripeteva ciclicamente,
come un capogalea romano aizzava i suoi schiavi,
incatenati ai remi, battendo periodicamente il suo grosso tamburone
in pelle di bue.
Gli uomini che quella sera erano
sotto i suoi ordini erano il meglio del meglio. Avevano visto di tutto. Alcuni
di loro avevano affrontato pericoli e ostacoli che nessun uomo comune
sognerebbe di trovarsi di fronte in tutta una vita. Eppure, quella singola notizia
li aveva tramortiti. Come un pugno nello stomaco quando non te lo aspetti.
«È il Frecchia
o la Belva, questo fetentone che abbiemochettureto?». Si interrogava pochi minuti prima
Auricchio, e, complice il microfono della ricetrasmittente dell’auto rimasto
acceso – una delle tante umiliazioni che il commissario aveva subito nella sua
storica guerra contro la tecnologia – tutti i poliziotti nelle auto a seguito
lo stavano ascoltando, godendosi, senza volerlo, gli sproloqui del loro capo in
quel lento e confuso ritorno alla base.
«No, seriemente, dimmi, De Simone!
Io non ci chepisco un chezzo!!!».
Ma quel particolare “chezzo”, ormai, tutti lo avevano
capito. Nessuno, però, osava pronunciarne forma e consistenza, appesi a
quell’ultimo filo di speranza. Lo fece però qualcun altro, e nella sua
descrizione lo rese ancor di più crudo e indigesto.
Crudele come un pugno sul mento,
infatti, dissipò ogni dubbio la telefonata dell’onesto funzionario della
Farnesina – quello che si era beccato l’ ”ah frocio” dei ristoratori romani –
che era rimasto al suo posto, imperterrito, nel salone del Minato Art Museum. Una comunicazione veloce, che tutti udirono grazie
allo sfortunato mix tra vivavoce e microfono della ricetrasmittente aperto.
Fu solo grazie all’intercessione di
qualche santo particolarmente scrupoloso che qualche macchina non finì fuori
strada, mettendo sotto, magari, una di quelle signore che fanno la
passeggiatina col cagnolino prima di andare a dormire.
«ANDIEMO VELOCI, ACCENDETE LE
STRACHEZZO DI SIRENE PORCA PUTTENA!!!», l’unica
risposta di Auricchio, letteralmente ruggita alla ricetrasmittente. Il ruggito
di un leone sconfitto su tutta la linea.
Poche sono le parole capaci di
racchiudere il senso di una tragedia di tali dimensioni, il senso di una serata
andata completamente storta. Così poche da poter venir contenute in un tweet: “La Belva aveva rapito la Contessa, Rizzo e il
vescovo Ibakari erano morti. La giustizia aveva
perso”.
Asuka Junior udì quell’annuncio
ferale mentre si trovava a bordo dell’auto di suo padre. Aveva aperto la bocca
e stava per pronunciare, nella sua stupidità da sedicenne, le parole: “Saint
Tail aveva ragione”, ma un’improvvisa ventata di buon senso gli fece capire che
quello non era né il luogo né il momento di rimettere in mezzo la sua grande
cotta. Si girò a destra, verso il padre. Asuka Senior non parlò, limitandosi a
ingranare di colpo la quinta e accelerare – imitato da tutti i suoi colleghi
che con lui stavano tornando alla base – come manco Valentino negli anni migliori,
prima che gli dessero una moto del cavolo. Ripensando a quei momenti, Asuka junior avrebbe dichiarato che non aveva
subito afferrato l’entità di quella tragedia. E che, sebbene avesse compreso il
senso di quelle strane parole, sospirate dall’affranto funzionario italiano,
non era ancora riuscito a metabolizzarle a dovere: «Rizzo dell’antidroga è
caduto a terra. Ha una specie di freccia nel mezzo del petto. C’è un medico,
parla di veleno, ma il commissario non respira e non dà segnali. E sua eccellenza…Beh… Si era messo in
mezzo, ma lui gli ha sparato subito. È morto nel giro di due minuti. Siamo qui.
Venite».
Ma che senso aveva venire? «Kranz aveva ragione», era De Simone, questa volta,
dall’altra parte della ricetrasmittente rimasta accesa. «Chezzo
dici?» Auricchio non aveva nemmeno l’energia per arrabbiarsi come il suo stile
dettava. «Kranz aveva ragione», riprese il
sottoposto, con una serietà che poteva tranquillamente essere scorta dal tono
della sua voce anche per chi lo ascoltava solo per radio, «la Belva si prende
sempre quello che vuole. Ma non era il quadro che voleva. Voleva la Contessa».
Nessuno replicò. «Andiemo lì subito», continuò con un filo di voce Auricchio.
“Ma a cosa serve?” pensò Asuka Junior. E aveva ragione. A che cosa poteva servire
raggiungere la scena di un delitto, dopo che questo era stato commesso, quando
tutti conoscevano chi l’aveva compiuto? Non serviva essere un detective: tutto
era chiaro come il sole, ormai. Ed era troppo tardi. La polizia italiana, per
molti anni, non aveva avuto la necessità di “scoprire” la Belva. Avrebbe “solo”
voluto catturarla. Ma finora, ogni tentativo era risultato un buco nell’acqua.
Eppure, apparentemente, non c’erano alternative. Bisognava fare qualcosa, anche
solo per tentare – inutilmente – di mettere la coscienza a posto. Ma che cosa?
La Belva aveva agito indisturbata. Aveva fatto allontanare tutte le forze
dell’ordine. Avrebbe addirittura voluto uccidere tutti quegli uomini di legge
in borghese, ma, grazie al provvidenziale intervento del codino di Saint Tail,
non c’era riuscito. Eppure, almeno una parte – la più importante – di quel suo
piano di morte, aveva avuto successo.
“Eccoci”, pensò il ragazzo, mentre
le auto, tra cui quella di suo padre, piombarono nell’ampio, ormai quasi
deserto, parcheggio del museo. Le portiere delle macchine si spalancarono
all’unisono e ne uscirono, correndo, decine e decine di agenti e militari. La
sconfitta tatuata nelle espressioni di una serata in cui tutto ciò che poteva
andare storto lo era andato.
Anche Asuka Jr scese dall’auto. “Forse
Meimi è ancora qui” si interrogò, ma il suo cervello gli comunicò come fosse
assai più probabile, date le abitudini pantofolaie dei suoi genitori, che la
ragazza fosse già a casa, in pigiama, magari a controllare le notifiche su
Facebook o a rincorrere i primi sogni della nottata. “Chissà cosa penserà
quando sentirà in tv cos’è successo qui”, si domandò.
Superò la parete di vetri rotti e
fu quasi colpito dalla scena desolata che si trovò davanti. I resti di una cena
interrotta, qualche sedia per terra, e alcuni capannelli di persone, negli
angoli della stanza, stretti l’uno con l’altro come a volersi proteggere da
eventuali altri scherzi del destino. Non pareva nemmeno essere più la stessa
stanza dove si era perso negli occhi di quella ragazza così bella. Eppure,
quanto tempo era passato? Due ore? Forse addirittura meno.
Mentre lui si interrogava e vagava
nei meandri del suo cervello adolescenziale, i poliziotti avevano subito
ripreso, ordinatamente ma in velocità, il loro lavoro, come a volersi rifare
della figuraccia patita.
«Le telecamere», gridò qualcuno,
seguito da altri cinque o sei agenti. Italiani e giapponesi mescolati insieme.
«Magari riusciamo a vedere qualcosa», spiegò, mentre si incamminava nel
corridoio laterale. Altri, tra cui un particolarmente affranto Auricchio, si
diressero invece dai testimoni, cappeggiati da un fiero e composto funzionario
della Farnesina con il loden nuovo di zecca e il portamento signorile. Asuka
rimase inebetito, a vagare in quello strano campo di battaglia.
“Oh Mio Dio, no.” Un pensiero,
dettato non dalla pietà, dalla paura, dal ribrezzo. Ma da un netto rifiuto di
quello che stava vedendo. Non doveva in alcun modo essere vero. Certo, l’aveva
sentito annunciato per radio. Ma vederlo era tutta un’altra cosa. E non era
giusto. Non doveva andare così. Sentì, in quanto componente di quella
sgangherata formazione di uomini di legge, una frazione di responsabilità per
quanto era accaduto, e provò una pena sconfinata per Auricchio, il comandante
in capo, che avrebbe dovuto, per il resto della sua vita, convivere con
quell’orrore.
A pochi metri di distanza l’uno
dall’altro, ai piedi di due tavolini, i corpi senza vita di un uomo, grosso e
barbuto, e di un vecchio. E che vecchio. Il suo Vescovo. La persona con cui
aveva parlato poco prima. Uccisi come cani per mano di un criminale.
“È questo il male”. Nessuno sentì
il buonsenso di prendere sottobraccio il ragazzo, accompagnarlo fuori dalla
porta, portarlo via da quell’orrore e magari dirgli qualche parola
rinfrancante, di quelle inutili ma che sono capaci di scaldare il cuore. Era un
ragazzino, Asuka Daiki Junior, e che diamine, si era
ritrovato quasi per caso a far parte della task force
per la cattura del criminale più ricercato del mondo, dopo la morte di Bin
Laden. Ma ora era lì, in piedi, di fronte ai cadaveri di due buoni barbaramente
uccisi.
“È questo il male”. E si odiò,
perché comprese di non essere in grado di affrontare fardelli così pesanti.
Perché è dannatamente facile portare appeso alla cintura, tronfio e spensierato
come ciascuno dei suoi coetanei, un distintivo di bigiotteria dal valore di due
mila yen per catturare una bella ragazza che non aveva mai fatto del male a
nessuno. Quello era il male. Il male più puro. Il male capace di pervertire e
corrompere tutto ciò che incontra, il male che non si limita a spezzarlo.
«Neurotossine», scrollò tristemente
il capo il maresciallo Bottazzi dei RIS di Parma,
annusando, tenuto in mano dentro un fazzoletto bianco, una siringhetta
come quella che usano i veterinari per anestetizzare le bestie feroci nei
documentari di National Geographic. Vicino a lui,
Bruno era in lacrime e tirava su con il naso come un pupo qualsiasi. Il
ristoratore romano non avrebbe mai raccontato, all’uomo che tutti chiamavano
Piedone, il perché lo scudetto della Roma del 2001 era da considerarsi
superiore, dal punto di vista dell’impresa sportiva, anche a quello, comunque
fantastico, della Roma del compianto Di Bartolomei. Bottazzi era una di quelle facce che puoi vedere solo tra i
carabinieri, parlando in stretto gergo lombrosiano[1].
Forse per quello aveva preferito abbandonare la sua carriera accademica
nell’università di Bologna per vestire una divisa e mettere le sue conoscenze a
servizio dell’Arma. Ma fu proprio in quel momento che l’uomo di scienza dovette
fare i conti con un vero e proprio miracolo.
«Che ore sono?» Piedone, in uno
spasmo della bocca, lanciò un sonoro sbadiglio. «Che c’è? Perché questa luce?».
Si rigirò, liberando il braccio che aveva sotto la schiena, per poi spalancare
entrambi i suoi arti superiori al terreno, come a stiracchiarsi dopo una lunga
notte di sonno. «Impossibile» decretò Bottazzi, nato,
cresciuto e di stanza a Parma, nel suo accento emiliano, «basta una goccia di
quella roba lì per mandare all’altro mondo pure un elefante!». E non si
sbagliava. «Miracolo! Sto brutto fio de na
mignotta!», gridò ridendo Bruno, alzando gli occhi al cielo, unendo religiosità
popolare e coattitudine, capace di trasformare, nella
sua genuinità, anche una parolaccia in preghiera. Continuò a stiracchiarsi,
poi, chiudendo gli occhi, domandò, serio: «Che è successo?». «Ti hanno sparato,
Rizzo. Dovresti essere morto», replicò Bottazzi,
«quel veleno è entrato in circolo. Hai la pellaccia durissima, amico mio…». E in effetti, Piedone, la scorzaccia dura, ce
l’aveva. Fece per alzarsi, ma fu in grado solo di venire su con il tronco,
gambe ancora indolenzite a terra. «Ma come diavolo sono riusciti, io stavo
mangiando, non mi rico…» ma si interruppe, vedendo
l’altra persona, a terra, a pochi metri da lui. E per quella, gli bastò uno
sguardo veloce, non c’erano chance di miracoli. Rizzo si fece silenzioso,
serio. Più cupo che mai. Avevano fregato anche lui. Anche lui, come Asuka Jr,
ritenne ciò che si trovò davanti una tremenda ingiustizia.
Ma, a differenza del ragazzino, non
provò angoscia. Provò solo rabbia. Una rabbia gigantesca. E quando questo
succedeva, diventava il migliore di tutti. Avrebbe lasciato alla rabbia le
chiavi del suo corpo. La rabbia lo avrebbe guidato. Perché la rabbia viene
descritta come una brutta bestia, un’abitudine da evitare, un’inclinazione da
soffocare e da lasciar deperire, per evitare che essa trasformi delle brave
persone in uomini e donne poco rispettabili. Ma è falso. Perché la rabbia è
come la dinamite. Può far saltare in aria vite innocenti o può far deflagrare
un pezzettino di montagna per permettere ad italiani e francesi di abbracciarsi
nel bel mezzo del traforo del Monte Bianco. E quando una giusta, sana rabbia,
la rabbia dei saggi, la rabbia dei buoni, la rabbia dei santi si impadronisce
di una persona per bene, può trasformarla in un implacabile strumento di
giustizia. E Rizzo, uno strumento di giustizia, lo era già: ma con la rabbia,
lo diventava al quadrato. Persino Bruce Banner avrebbe potuto prendere lezioni
da lui.
Asuka Jr si avvicinò al corpo senza
vita del vecchio Vescovo. Piegato su di lui vi era ancora, con il volto rosso
corroso dalle lacrime, il mons. Hikamura. Il Vescovo
aveva un’espressione serafica: il sorriso che aveva al momento della morte si
era parzialmente ricomposto. Pareva dormisse. Asuka sospirò più volte: “La
morte è arrivata qui, alla fine”, negli occhi ancora l’incubo di poche ore
prima. Ne avvertì tutti gli spasmi, tutta la paura, tutto il terrore. Un
terrore divenuto realtà. E si riappropriò delle parole che aveva sentito, ma
che forse non aveva compreso, che il Vescovo e Meimi si erano scambiati nella
saletta dei KakureKirishitans.
“Per quanto parlassi di tavolette Yefumi”, pensò il
ragazzo, quasi stesse parlando con quell’omino senza vita disteso a terra,
“alla fine nemmeno tu sei riuscito a calpestarla”. Fece per girarsi,
sopraffatto da tanto orrore, ma ebbe il coraggio di concludere: “Grazie”. E
giurò che nemmeno lui l’avrebbe mai calpestata.
«ASCOLTETEMI TUTTI!» Auricchio
ormai era libero da ogni convenzione sociale. Si mise in piedi su una sedia, al
centro della sala, a pochi metri dal cadavere ancora caldo del Vescovo e gridò,
con voce sonora: «IL FETENTONE C’HA FREGHETI. C’É POCO DA DIRE». Ammise la
sconfitta, ma continuò, subito. Non era una resa. «Io, signori, non mi fermo».
Non parlava l’uomo delle istituzioni, l’uomo di legge. Parlava l’uomo che,
nonostante tutti i difetti, aveva fatto del valore della giustizia la sua regola
di vita. Tutti si voltarono verso di lui: poliziotti, carabinieri, agenti
giapponesi, civili che erano rimasti con la Contessa fino all’ultimo. Persino i
camerieri dello staff di Sergio e Bruno, che, ritti in piedi, parevano anche
loro dei cavalieri della tavola rotonda. «C’ha fregheti.
Ma noi fregheremo lui. Io non mi fermerò mai, dovesse ammazzere
anche me come ha fatto con Rizzo e il Monsignore!».
«Sono ancora vivo», obiettò con un
filo di voce Piedone, ancora a terra scosso, non sentito dal commissario di
origine pugliese. «Ho visto in questi anni», continuò implacabile, «troppe
persone morire. Troppe persone rapinete, troppe
persone soffrire per quel basterdone lì». Gridava,
meno rosso del solito. «Sapete?», continuò, interrogando la folla nel suo improvvisato
comizio, che però stava seminando nel cuore di tanti stanchi poliziotti, una
nuova ragione per continuare a lottare, «Sapete perché esistiemo
noi come poliziotti? E non perlo dei vigili urbeni, dei poliziotti di quertiere
che mettono al messimo le multe per i divieti di sosta…Perlo di noi. Noi, che
ogni giorno siemo lì fuori ad affrontere
il peggio del peggio. Assessini, stupretori,
quella gente lì?». Tutti lo osservavano muti, senza fiatare, sull’attenti.
Sentivano nelle gambe il peso di anni di lotta, ma che dal cuore, memore di
tanti successi, annunciati al ritmo di manette scattanti e sentenze passate in
giudicato, traevano la forza per andare avanti.
«Noi esistiemo
non tento per proteggerli. Noi siemo una barriera,
porca puttena maledetta. Noi siemo
il muro che divide le persone per bene dalle fetecchie,
perché non vogliemo nemmeno che le persone per bene
le vedano, si accorgano che questi qui esistono. Non voglio che abbieno paura di loro. Non voglio», e sopraffatto
dall’emozione, continuò, con un filo di voce: «non voglio che possano nemmeno pensere di poter diventere come
loro». Asuka Jr lo guardava, inebetito, stravolto. Non provava simpatia per
quel presuntuoso poliziotto italiano, come, del resto, Auricchio non aveva mai
dato a vedere - nemmeno per un istante - un pizzico di umana empatia nei
confronti del sedicenne dai capelli corvini.
Eppure, diamine, aveva ragione. Era
quello lo scopo delle forze dell’ordine. Separare il bene dal male. Impedire
alla feccia di far del male agli innocenti. Ma soprattutto di pervertirli. Di
macchiarli. Di far ritenere loro possibile l’eventualità di svegliarsi una
mattina e di ritrovarsi ad essere, anch’essi, delle belve. Degli uomini e delle
donne capaci di ammazzare, rapinare, fare il diavolo…
Era quello il punto del discorso.Perché
il male comune può distruggere il bene. Ma il vero Male, quello con la emme
maiuscola, fa di peggio: non distrugge il bene, ma lo trasforma, lo perverte,
anch’esso, in male.
E si ritrovò ad ammirare come non
mai quell’uomo dagli occhi lucidi e dalle parole balbettanti, in piedi su una
sedia dall’equilibrio precario. Il ragazzo sapeva che Auricchio non si sarebbe
mai arreso, che prima di pensare persino ad avviare le pratiche per la pensione
con l’INPDAP avrebbe voluto accompagnare personalmente dietro le sbarre del 41
bis il suo acerrimo nemico: la Belva umana. Aveva solo sedici anni, per tutta
la serata si era comportato solo come uno stupido ragazzino innamorato. Ma,
dannazione, ora si sentiva grande. Era attorniato da decine di poliziotti anche
loro decisi a non arrendersi, e se avrebbe potuto dare anche il benché minimo
contributo alla causa della giustizia, quella sera, l’avrebbe dato.
«Il fetentone
è ancora in questa città», continuò Auricchio «non può essere distente. Lo prenderemo e lo mandiemo
alla sedia elettrica, lo mandiemo!». Tutti annuirono
decisi, solo uno osò parlare. «E che facciamo, capo?». Ovviamente, l’unico
capace di interrompere la solennità di quel momento, non poteva che essere De
Simone.
«De Simone, manneggia
a te, a dirigere il treffico sul ReccordoAnulere ti mendo», la
piccata risposta del suo principale. «Mi fei solo
perdere tempo. Comunque», rifiatò, tornando, per quel che poteva, normale, «ora
vi dico che facciemo…». De Simone sospirò e guardò
per terra, abituato a quel tipo di trattamento.
«Le rediofunzioneno?», domandò a tutti il commissario.
«Affermativo», il coro unanime, per il quale la polifonia di accenti giapponesi
e italiani plasmava un’insolita ma non per questo non apprezzabile armonia. Il
fatto che la tecnologia funzionasse perfettamente alla presenza dello spartano,
nemico di ogni innovazione, poliziotto pugliese, forse stava a significare che
la sorte, dopo essere stata per tutta la serata nemica di quel plotone
interforze, aveva deciso di cambiare, come il vento, i suoi favori.
«Ottimo». Affermò deciso Auricchio.
«Ecco che feccemo. Non è niente di scientifico,
niente di preciso, niente di moderno come le nuove scuole e i telefilm americheni ci vorrebbero come rincoglioniti a fere…», tutti ascoltavano con attenzione, come gli spartani
di fronte al signor Leonida[2].
«Siemo
poliziotti! Recuperiemo le vecchie cose che c’hennoinsegneto in accademia. Noi
adesso si esce e si va per tutta la città. Sirene spente e messima
discrezione», tuonò, «e lo troviemo, il figlio di puttena!», urlò, agitando le braccia come a rinforzare le
parole.
«E come?», ruppe nuovamente la
magia De Simone.
«Meledetto
deficiente! In Cina a quelli come te li fucileno,
maledetto!», lo sgridò, improvvisamente rosso fuoco. «Ecco come li troviemo», continuò, imperterrito, tornando al suo colorito
normale, «cerchete in tutti i posti dove potrebbero
essere nascosti. Si sono presi la Contessa. Chiederenno
un riscatto subito, forse, o forse vorrenoespetriere per gestire le trettetive
in un altro paese», scrollò la testa, «non lo sappiemo.
E per questo chiedo a tutti i giepponesi qui di pensere ai vostri agghenci, ai
vostri testimoni. Se hanno visto qualche streno
passeggio, qualche strana informazione…», i
poliziotti giapponesi parlottarono tra di loro, qualcuno arpionò un cellulare
pronto a digitare un po’ di tasti per inviare gli sms a qualche talpona.
«Andiemo
aventi ad oltrenza, non possiemosbagliere. Ognuno seguirà la sua pista…»,
e dopo un momento di silenzio, continuò, più lentamente e più piano, come a
voler pronunciare un segreto, «…quandoaddocchiete qualcosa di streno, ci
chiemete con le ricetrasmittenti. Entreremo in scena
insieme. Non fetevi vedere, vi prego. Se no quello è chepece a sperire di nuovo. O, peggio,
di fervi fuori anche voi».
L’entusiasmo di Asuka Junior, a
quelle parole, tornò a scemare inesorabilmente. “Non sa che pesci pigliare…” Ma nel suo cervello di sedicenne, sempre così
pronto a contestare agli adulti ogni comportamento scorretto o semplicemente
diverso dal suo modo di pensare, non si alzò nemmeno una nota di polemica. “Io
farei lo stesso”.
«Mescolati in che senso?», osò
l’inosabile De Simone.
«De Simone, disgrazieto,
vuoi che ti feccia un disegnino? Vi voglio mescoleti
per nezionalità, per forze, per gruppi…
Veloci! Dobbiemosbrigherci,
prima che quel disgrezieto prenda un aereo o una neve
e ci freghi».
“Giusto”, commentò dentro di sé un
particolarmente attento Asuka Jr, “questa è una caccia. Tre persone con lo
stesso background e le stesse caratteristiche contano per uno…
Se mescola le carte avrà in giro sensibilità diverse insieme. Bravo Auricchio…”. Tutti si dispersero e iniziarono a parlottare,
prendendo accordi sul da farsi, pensando ai possibili nascondigli della Belva e
alle modalità in cui intervenire. C’era aria di disperazione, ma nessuno si
sarebbe arreso, quella sera.
Alle spalle del ragazzo, in coda al
drappello delle forze dell’ordine, Asuka Senior si volse verso Yamaguchi, il poliziotto con anni e anni di esperienza
all’ONU, che avanzava con un omino sottobraccio: «Sentito qualcosa?» Yamaguchi fu telegrafico: «Questo è il maggiordomo della
Contessa. Signor Filini, giusto?».
«Ragioniere Geometra, se non le
dispiace», ci tenne a precisare con pedanteria pure in un momento così tragico.
Asuka Junior si girò verso di loro e ascoltò con attenzione la loro
conversazione.
«Prima mi accennava», lo imboccò Yamaguchi, «qualcosa riferito a un complice del criminale
che ha rapito il suo principale…»
«Certo. Era brutto», continuò
gesticolando come un perfetto italiano il ragionier
Filini, «aveva i capelli biondi tinti, un mitra in mano…
le braccia tatuate, mi pare…».
«Qualcos’altro?», gli chiese,
grattandosi il mento, Asuka Senior.
«Aveva una faccia da ebete». «Kenzo
l’infame», decretarono sicuri, all’unisono, Yamaguchi
e Asuka senior.
«Proviamo ad andare nei locali che
controlla. Potremo trovare alcune informazioni», suggerì il commissario
giapponese, «Yamaguchi, penso dovremo fare un giro di
telefonate ai nostri canarini tra gli Yakuza».
«Certo».
«C’è dell’altro», li bloccò Filini,
richiamandoli con un veloce gesto della mano da cui si agitò il rivolo della
sua camiciotta alla Lady Oscar. «Dica», lo incoraggiò
a parlare Yamaguchi. «Può sembrare una cavolata»,
rimase qualche istante in silenzio, «ma la Contessa Silvana, quando lui se l’è
arpionata, ha detto che da vicino puzzava come la vaschetta delle tartarughe…».
Yamaguchi
e Asuka Senior si guardarono l’un l’altro, come a cercare reciprocamente
conferma. Non trovando però appigli, derubricarono l’informazione come
irrilevante, e si girarono di nuovo verso Filini. «Grazie del suo contributo»,
esordì il commissario giapponese, «lei rimanga qui al Minato Art Museum insieme ai nostri agenti, potrà esserci utile in
ogni momento».
«Ha detto la vaschetta delle tartarughe?»,
quasi gridò Asuka Junior, sorprendendo suo padre e Yamaguchi.
A quanto pare, quel dettaglio apparentemente irrilevante, aveva letteralmente
sconvolto l’aspirante detective.
«Sì», confermò, guardando verso
l’alto, il ragioniere dagli occhiali spessi come fondi di bottiglia.
«Daiki»,
lo richiamò suo padre quasi a frenare la scintilla d’entusiasmo che aveva letto
nei suoi occhi, «può essere puzza di pesce… Sappiamo
benissimo che Kenzo ricicla il denaro sporco grazie ad una catena di sushi-bar…
Ci bastava un’occasione come questa per schiaffarlo dentro…»
«Ma ha detto proprio vaschetta
delle tartarughe!». «Certo», assicurò nuovamente Filini.
«Ti viene in mente qualcosa?», lo
incoraggiò Yamaguchi.
Ma ad Asuka non venne in mente qualcosa:
il suo cuore fu letteralmente travolto da un ricordo che coinvolgeva, anzi,
abbracciava tutti i suoi sensi. Solo una volta, in vita sua, Asuka Junior ebbe
a che fare con la cosiddetta puzza da “vaschetta delle tartarughe”. Ed era
stato uno dei momenti più importanti della sua vita fino a quel momento.
noto con
piacere che le visite a questa fic sono sempre più
alte, forse grazie alla pubblicità positiva che mi hanno fatto in molti.
Vi chiedo
però un favorino, un favorino
piccolo piccolo: se questa fic
vi piace, o se la leggete solo perché volete capire quali rivoli di schifo
potrà raggiungere nei prossimi – e ultimi – capitoli, lasciatemi un commentino
piccolo piccolo. Una piccola recensioncina:
“Bellina, dai”. Una piccola accusa: “Fai schifo!”. Una piccola minaccia di
morte, perché servono anche quelle. Piccola, piccola, ma per me grande grande.
Andrea
42
Asuka Jr (seconda parte)
Era domenica, ed erano all’acquario
cittadino: il biondo e allupato Sawatari, pochi
giorni prima, era riuscito a mettere le mani su cinque biglietti omaggio per
l’esposizione ittica così di moda tra gli studenti del St. Paula.[1]
Nel suo cervello da marpione già si
immaginava, recandosi a scuola il venerdì, di poter trascorrere la domenica
come una sorta di Hugh Hefner dei poveracci, accompagnato da Meimi e Seira, e fare
lo sborone in compagnia di due ragazze di fascia medio-alta in mezzo a famigliole venute per vedere i pesci
pagliaccio e bambocci innamorati dei delfini come il minushabens della pubblicità delle caramelle.[2]
Sfortunatamente per lui, i
biglietti con cui si era presentato quella mattina a scuola erano troppi, e la
sorte si frappose ai disegni del giornalistuncolo,
grazie ad una manovra da scroccone del buon Asuka Junior, che nella sua mente
matematica realizzò la sempiterna verità: cinque è maggiore di tre. Per cui, a
quella sorta di scampagnata, avrebbe potuto partecipare anche lui, e si autoinvitò,
com’era suo diritto. Alla comitiva si aggregò anche la sbarazzina rompicoglioni
di Rina, la bionda nipote del sindaco alla quale – purtroppo – non si poteva
dire di no se non si voleva correre il rischio di venir menati come la batteria
di Christian Meyer in “Pagano”.[3]
Asuka non aveva in mente nulla
quella mattina: dei pesci e degli acquari, come al 95% della popolazione
mondiale, non gliene fregava alcunché. Era spinto solo dall’estremo piacere che
tutti proviamo quando rompiamo le uova nel paniere a qualcuno di
particolarmente antipatico. Il tutto impreziosito dal gusto sopraffino dello scroccaggio. Comprereste mai un’alabarda da esposizione? Se
poteste portarvela a casa aggratis, lo fareste senza
pensarci.
Giunto all’acquario, ai cancelli
d’ingresso notò Seira, in borghese, coi suoi capelli cortissimi da novizia, poi
Sawatari e Rina che già stavano battibeccando, e
infine, lei. Meimi. Non comprese il perché, ma già il cuore gli rimbalzò in
gola.
Il destino – o la Provvidenza – vi
rimise lo zampino. Grazie ad un ascensore stipato fino all’inverosimile di
visitatori, Meimi ed Asuka rimasero separati dal resto della comitiva. Il resto
lo fece quella santa donna di Seira, decisa a semplificare, sbrogliandolo come
una matassa, quel pentagono di relazioni amorose adolescenziali, tenendo
distanti dalla sua migliore amica e dal giovane detective gli scassa minchia Rina
e Sawatari.
Meimi e Asuka rimasero dunque da
soli per l’intera mattinata. Prima dell’incresciosa situazione riguardante un
certo delfino[4],
i due ebbero la possibilità di parlare da soli, indisturbati. Tra loro si
ergeva ancora un muro di imbarazzo. Ma non c’erano i compagni di classe,
nessuna legge del branco da rispettare, nessun ordine di scuderia. Nessuno li
stava vedendo, persi in quella folla anonima, tra pesci strani dai nomi
impronunciabili e paffuti trichechi che li guardavano annoiati, tristi dopo
anni di prigionia in quel carcere di barre trasparenti di plexiglas. Asuka era
in preda del marasma più totale. Meimi doveva essere solo quella compagna di
classe da prendere in giro, la destinataira di
scherzi o frecciatine di cui pareva, quasi per genetica, l’unica vittima
possibile. E invece, quegli strani sussulti del cuore, gli trasmettevano le
stesse sensazioni che provava quando, nelle sue cacce notturne, si trovava di
fronte alla strana ladra col codino. Ma non erano, come per Saint Tail, miste
all’adrenalina della lotta e alle endorfine della corsa, ma si mescolavano con
il panico del dubbio e il capogiro della confusione.
Eppure davanti aveva sempre lei:
Meimi Haneoka. La stessa Meimi Haneoka
che sedeva sul banco dietro di lui. La stessa Meimi Haneoka
che sfotteva. Ma quella mattinata, vestita casual, senza l’uniforme scolastica,
pareva un’altra. Aveva già visto quei lunghi capelli castani. Quegli occhi azzurri
e profondi. Quel visetto composto e sbarazzino. Ma era la prima volta che li
osservava per quello che erano.
Quell’attrazione che avrebbe
chiamato con un nome preciso solo nel salone del Minato Art Museum,
per la prima volta gli si profilò con nitidezza di fronte agli occhi. Era
ovvio. Se la ragazza era sempre nei suoi pensieri, non solo in classe, doveva
esserci un motivo. Affetto? Simpatia? Amore?
L’ansia nel suo cuore pareva già
rispondere. Ma il suo ideale era un altro. Era l’ideale che seguiva di notte,
tra i tetti delle case e i giardini delle ville dei ricchi usurpatori[5],
un lungo codino, la figura leggiadra, un senso di eterna giustizia e un leggero
profumo di vaniglia.
Davanti a Meimi si era troppo
esposto, si sentiva troppo a disagio, e decise di moltiplicare le distanze.
Rimarcando quella che era la pur semplice verità. Ma che non era tutta la
verità.
È così, scendendo al piano
inferiore su delle apparentemente moderne ma rumorosissime scale mobili,
sguardo basso, con Meimi al suo fianco, dichiarò apertamente il suo amore per
Saint Tail. Quella rivelazione, uscita dalle sue labbra, gli fece gustare un attimo
di pace profonda. E alzò lo sguardo, verso le pareti trasparenti, dietro le
quale centinaia di pesci coloratissimi guizzavano veloci nell’acqua blu
cobalto.
«Attento!», gli gridò qualcuno. Non
fece in tempo ad abbassare lo sguardo che si ritrovò scagliato in avanti. Era
giunto al termine delle scale mobili, e un laccio delle sue scarpe da
ginnastica nuove, impigliatesi sul rostro del rullo in metallo, lo fece
ruzzolare a terra come l’ultimo dei pirla. Nel cadere, con la testa, andò a
sbattere contro l’omino dell’«Attento!». L’omino, un sessantenne con un piccolo
scoglio di capelli in un mare di calvizie, indossava una tuta blu spento sporca
e appiccicosa e procedeva, curvo e appesantito, portando in braccio un sacco da
venti chili di mangime per i pesci.
Ora, a parte gli effluvi che si
possono odorare in un cimitero con pochi fiori in un pomeriggio d’agosto con la
canicola, nulla in questo mondo è in grado di puzzare di più del mangime per i
pesci. L’olezzo è qualcosa di terribile, un misto tra un vespasiano chimico di
quelli che installano ai concerti e un vassoio di cozze andate a male. Come
tutti i lettori che hanno avuto a che fare con galline, cani di grossa taglia e
bovini sanno, i sacchi industriali di mangime sono fatti di cartoncino
sottilissimo. Di quelli che ci metti pochissimo ad aprire e – purtroppo – anche
a rompere innavertitamente.
E fu quello che avvenne. Nonostante
quell’«Attento!» gridato a voce altissima, il povero Asuka, cadendo in avanti,
andò a sfracellarsi nel bel mezzo del sacco, esattamente come un karateka di
quelli più tosti va a rompere con il cranio una lastra di marmo tenuta tra le
braccia di due suoi allievi in un programma del cacchio della Barbara d’Urso.
Una nuvoletta di gamberetti essicati, alghe andate a male deidratate e scorie della
centrale di Fukushima si spansero nell’aria, impregnando
ogni strato dei vestiti e dell’epidermide del povero detective. Una nube
velenosa che ricordava moltissimo l’inconfondibile e disgustoso odore delle “vaschette
per le tartarughe”. Meimi, che a poco più di un metro di distanza stava ancora cercando
di trovare le parole per quella che reputava una diretta dichiarazione d’amore,
non potè far altro che prorompere in una virogosa quanto – a dir la verità – poco femminile risata.
Un po’ per stemperare la tensione di una notizia che le aveva fatto assumere il
colorito di Tiziano Crudeli durante un improbabile derby Milan – Inter con una
tripletta di Jonathan, un po’ perché la scena del ragazzo, a terra, disteso su
una montagnola maleodorante di granetti marroncini
inquietanti intento a maledire i numi e sputare gamberetti morti, era davvero
spassosa.
Il resto della giornata andò come
dove doveva andare: dopo che lo staff dell’acquario ebbe aiutato il ragazzo a ripulirsi,
Meimi ed Asuka continuarono a bighellonare per la mostra ittica, avendo persino
la possibilità di conoscere un certo ragazzino e un certo delfino, i cui
problemi sarebbero stati risolti più avanti dai trucchi fantastici di una certa
maga[6].
Quel clima di malcelato romanticismo non scese più tra i ragazzi in quella
giornata. Continuava ad alleggiare, però, come una coltre, la fraganza cimiteriale da vaschetta per le tartarughe, ormai
stabilmente innestata nella persona di Asuka jr.
«L’acquario», gridò Asuka jr.
«L’acquario!», ripetè, di fronte a suo padre e a Yamaguchi, mentre Filini, svolta la sua funzione, rimaneva
davanti a loro con lo sguardo di uno che passa per caso. Sempre che qualcuno
fosse stato in grado di decifrare uno sguardo sepolto da occhiali fondi come la
fossa delle Marianne.
«Come?», domandò Yamaguchi, «perché l’acquario?». In quel preciso istante,
nel salone semidistrutto del museo più importante della città, tutti stavano
facendo dei ragionamenti simili. «La Kagata
corporation![7]»,
«Il vecchio macello!», «il bordello di Takeshi il zozzone». Più o meno, tutti, stavano elencando i possibili
luoghi dove un criminale, con appoggi considerevoli della malavita locale,
avrebbe potuto giocare la sua partita nascondendo una donna, secondo le stime
di Forbes, da 13 miliardi di euro. Asuka non era
un’eccezione.
«Ma sì», insistette, «l’acquario
comunica con il mare: con un natante potrebbero scappare in pochi minuti verso
le acque internazionali. E in queste settimane il posto è chiuso per lavori».
Asuka senior tentennava: «Non è
territorio della malavita, Junior. E non è deserto. Stanno facendo per
l’appunto dei lavori di ristrutturazione. Gli operai vedrebbero».
Yamaguchi
però si grattò il mento: «L’appalto è stato vinto dalla Satou
corporation». «La Satou?», si incupì il detective
baffuto, che non ignorava le voci che volevano l’impresa edile prosperare
grazie a delle connessioni con la malavita organizzata.
«Sì, ma…»,
continuava imperterrito Asuka jr, «io ci sono stato e ho visto di che labirinto
si tratta… Nel piano più basso, quello sul retro… Ho visto quante stanze hanno, spogliatoi,
laboratori, rimesse…»
«Quando ci sei stato?», esordì
domandando suo padre, che, immediatamente, accennando una risata, fece capire
al figlio di essersi ricordato le circostanze di un certo incidente col
mangime. «È lì, che?», chiese divertito. «Sì», ammise abbassando il capo per
l’imbarazzo Asuka jr, «quando sono andato a darmi una ripulita da quello
schifo. È veramente un dedalo quel postaccio…
Potrebbero essere lì…».
Perché il ragazzo aveva pensato
proprio all’acquario? Sicuramente il fatto di essersi trovato completamente
immerso nel mangime per pesci era rimasto impresso nella sua memoria, ma l’aver
dichiarato poco prima a una ragazza della quale aveva capito di essere
innamorato di aver perso la testa di un’altra ragazza, inchiodava per sempre
quegli attimi nel più profondo della sua anima.
Asuka senior trattenne il respiro
per pochi istanti, poi, con un movimento sussultorio del viso, comunicò il suo
assenso. «Sì, direi che vale la pena di tentare. Yamaguchi!
Trova due italiani e va’ te a dare un’occhiata. Daiki,
ti chiamo un taxi e te ne torni a casa. Direi che te la sei cavata stasera…»
Un brivido sconvolse il ragazzo.
Non poteva essere finita così. E quella sera – lo sapeva benissimo – non se
l’era “cavata”. Aveva fatto schifo.
«No, papà! Sono stato con voi
fin’ora. Ho rischiato di venir fatto a pezzi su quel ponte. Ora non puoi
mandarmi a casa!». Non era la supplica piagnucolosa di un bambino che fa i
capricci. Ma la legittima richiesta di un uomo che ci teneva a ribadire la sua dignità. “Non può finire qui”.
Il commissario giapponese guardò
Asuka jr con profondo rispetto. Dopo un istante di silenzio, annuì nuovamente.
«Va bene. Yamaguchi, ti affido il ragazzo», sorrise,
«mi raccomando, però. Fate come ha detto Auricchio. Avvicinatevi come se
passaste lì per caso. Non scendete neppure dall’auto. Se vedete luci accese,
auto parcheggiate o qualsiasi stranezza, lanciate l’allarme. Saremo lì in pochi
istanti tutti. Non fate sciocchezze!». Erano rassicurazioni di routine, più
rivolte a suo figlio che a Yamaguchi. Un uomo tutto
d’un pezzo che avrebbe seguito – ci potevano mettere le mani sul fuoco – ogni
dettaglio degli ordini ricevuti.
«D’accordo, papà!», annuì sicuro
Asuka junior. Yamaguchi, l’ex casco blu, uno
spilungone smilzo che dimostrava poco più dei 35 anni che si ritrovava, si
congedò dal commissario e si mise alla ricerca di qualche italiano che condividesse
con lui e Asuka jr quella visita fuori tempo all’acquario cittadino.
«Figliolo»,Asuka senior avvicinò a sé il ragazzo
afferrandolo per una spalla, «non avresti dovuto vedere tutto questo». Nei suoi
occhi un’amarezza profonda. In quel preciso istante, a pochi metri da dove si
trovavano, Bottazzi dei RIS, sotto lo sguardo
disperato di mons. Hikamura, vegliava, dopo aver
ricoperto pietosamente con un lenzuolo bianco, le care spoglie del vecchio
pastore della città, in attesa che il magistrato desse il via libera allo
spostamento della salma. Nemmeno Hikamura riuscì a
reggere alla tristezza di quel momento. Alzò gli occhi al cielo, verso la luna
che faceva capolino dal lucernario ormai privo di copertura, strabuzzò gli
occhi e corse verso l’esterno. O almeno così pensò Bottazzi,
grattandosi i mustacchi che lo rendevano una copia sputata di suo nonno, già
senatore della Repubblica[8].
Asuka junior, invece, nonostante lo
shock iniziale, era ancora lì. In piedi, sicuro. Aveva dato il suo contributo
suggerendo un possibile nascondiglio della Belva. Era rimasto impassibile, e
non se lo sarebbe mai aspettato. Perché sapeva di avere una missione. Non
poteva farsi prendere dal panico, non poteva perdere il controllo. Saint Tail
quella sera era riuscita a far trionfare la giustizia, per quel che le spettava.
Ora toccava a lui. Sapeva benissimo di essere solo una goccia nel mare della
giustizia. Che non avrebbe ancora potuto competere minimamente con l’arguzia di
suo padre, il coraggio di Yamaguchi e persino con
l’esperienza di Auricchio. Ma avrebbe detto la sua. Anche solo per mettere a
posto la coscienza. E il fatto di sapere di poterlo fare, di poter dare anche
un minimo contributo alla giustizia, in quella sera, gli riscaldava cuore:
forse era proprio quella la strada che avrebbe dovuto percorrere. Forse il
mondo si aspettava da lui ben altra missione che catturare una ladra
gentildonna. Ma non era quello il momento per pensieri fini a sé stessi. Per le
“pippe mentali”, come le chiamano i profani. Il cuore
e il cervello avevano trovato un punto d’accordo, e avrebbero fatto il
possibile per fornire tutte le energie possibili al ragazzo, in quella tarda
serata che si avvicinava a grandi passi alla mezzanotte del sabato.
«De Simone e il carabiniere
Esposito saranno dei nostri», Yamaguchi arrivò con la
notizia.
«Sì?», domandò sorpreso Asuka
senior. «Auricchio dunque è disposto a liberarsi del suo prezioso vice?».
Chiunque, anche l’osservatore più ingenuo, avrebbe letto in quell’espressione
divertita del commissario giapponese una profonda vena di ironia. «Già», lo
seguì Yamaguchi, «ha detto che se non ce lo predavamo
noi ce lo spediva lui a calci in culo». Asuka senior sorrise, mentre, dal
taschino della giacca, estraeva il pacchetto del Malboro
rosse.
«Tu che fai papà?» lo fulminò Asuka
Daiki Junior.
«Vado anch’io. Ho delle piste da
seguire. Ho intenzione di perlustrare i locali di Kenzo. Almeno ci darà qualche
indizio. Mi raccomando Daiki!», si rivolse al
ragazzo, «fa’ il possibile».
Non più, come pochi minuti prima,
un “sta’ attento”, né, come gli avrebbe detto Auricchio in quel frangente, un
“non fere chezzete!”. Ma un «fa’ il possibile».
Investi tutto te stesso. Credi nell’obbiettivo.
Il ragazzo uscì dal salone del
Minato Art Museum, con l’aria gelida della notte che
scendeva nel giardino illuminato a giorno e già invaso dalle telecamere dei
media, diretto verso la Nissan di Yamaguchi. Alle
loro spalle, De Simone, che si grattava virogosamente
i capelli ricci e il carabiniere Esposito. Erano tutti in borghese, ma
Esposito, persino col vestito da festa che ancora indossava dopo averlo
sfoggiato alla cena di gala per nascondersi tra gli invitati, sarebbe passato,
dato il suo incedere, per un carabiniere anche nel bel mezzo di un centro
commerciale affollato da ragazzine sceme.
Asuka sentiva la stanchezza
scendergli giù per le ossa. Molti i dubbi che portava con sé. Eppure, nelle
orecchie, gli rimbombavano le parole di suo padre. «Fa’ il possibile». E sapeva
che lo avrebbe fatto. Si accorse, forse per la prima volta, di come tutta
quella strana faccenda, gli ordini da rispettare, i cattivi da catturare, le
persone da difendere, persino i rapporti di potere tra comandanti, sottoposti,
appuntati e diavolerie varie, erano, per lui, del tutto naturali.
Aprì la porta posteriore dell’auto
di Yamaguchi. Entrò. Il ronzio della ricetrasmittente
comunicava che nessuno stava ancora parlando. Ma che forse, presto, qualcuno
avrebbe cominciato a farlo. Per annunciare la vittoria o decretare la resa? Non
si poteva ancora sapere. Ma ci sarebbe stato anche lui, quella sera, quando quella
storia sarebbe stata scritta.
Il volto e i capelli corvini del
ragazzo si riflettevano nello specchietto retrovisore della Nissan, restituendo
l’immagine di un ragazzo pallido, leggermente sottopeso, dall’aria spaurita. Ma
Asuka sapeva che quello specchio si stava sbagliando. Non era più quel ragazzo
pallido e impaurito, svenuto poche ore prima di fronte a una delle due ragazze
che amava. Era Asuka Daiki. Uomo di fiducia del
sindaco. Uomo di legge. Uomo, non più ragazzino.
Nella famiglia della
giovane studentessa Meimi Haneoka altre persone
avevano scelto di vivere di applausi, nutrendosi dell’amore delle folle e del
brivido della perfomance. Se GenichiroHaneoka, infatti, era tuttora uno dei maghi più quotati del
mondo, la pro-zia Rikka[1],
83 anni portati benissimo, era stata, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, una
delle stelle più luminose del circo europeo. Quando il circo era ancora il
circo, e sotto il tendone clown, trapezisti, giocolieri e bestie feroci
mostravano a un mondo appena uscito dall’orrore di una guerra mondiale che
sognare in grande era possibile.
Dalle lande devastate
dal conflitto della Renania ai deserti del meridione
della Spagna franchista, migliaia di ragazzini attendevano per mesi, a volte
anni, il passaggio delle carovane dei Chipperfield,
degli Orfei, dei Togni. Il circo rimaneva in paese per cinque, massimo sei
giorni. Ed erano giorni stupendi, intrisi del caramello appiccicoso dello
zucchero filante, delle mele candite, dei pop corn
salati, della frutta secca a mezzo sacchettino il soldo. I bambini ammiravano
bestie fino ad allora sconosciute e le raffrontavano con le illustrazioni a
pastelli dei loro libri di scuola, trovandone gli errori, mentre nei loro cuori,
con l’entusiasmo e lo spirito di emulazione tipico dei più piccoli, si
ricavavano il loro spazio i mimi francesi con la loro simpatia, le cavallerizze
italiane capaci di saltare da un Frisone occidentale[2]
all’altro con una leggiadra piroetta, i lanciatori di coltelli turchi coi baffi
a punta e le loro procaci assistenti vestite come Liz
Taylor nei film in costume, i giocolieri dalle mani veloci e gli acrobati. Già,
gli acrobati, come RikkaHaneoka.
Quando, a trenta metri
d’altezza, passo dopo passo superava l’abisso camminando senz’asta lungo una
fune tesa di sette centimetri di diametro, pure il pubblico più esigente di
Monaco, presieduto da un giovane principe Ranieri, taceva, e, col cuore in gola
mormorando in silenzio una preghiera, attendeva il momento nel quale il piede
della poco più che ventenne ardita, proveniente dal paese delle Geishe, avrebbe toccato la piattaforma in legno alla fine
del percorso per prorompere infine in un applauso così fragoroso da spandersi
per tutto il mar Tirreno.
Un’esibizione sublime,
carica di pathos e di emozione, ma che a Rikka non
bastava, volendo superare in bravura tutte le sue amiche e colleghe. Rese più
difficile il suo numero, lo migliorò, lo affiancò ad altri sfoggi di destrezza.
Conquistò in lungo e in largo i tendoni di tutta Europa, e, ancora giovane, di
punto in bianco, si ritirò. Lo fece mentre era ancora sulla cresta dell’onda,
provocando un vero e proprio shock nell’ambiente circense, che si ritrovò
orfano di una stella che avrebbe potuto splendere ancora a lungo. Ma Rikka aveva ben altro per la testa, anzi, per la pancia. Un
ben altro tutto rosa di tre chili e mezzo, biondo come il padre, con gli occhi
neri e grandi della madre e bello come il sole. Ma questa è un’altra storia.
Meimi era cresciuta
aspettando con trepidazione le pur frequenti riunioni di famiglia degli Haneoka. Nonni, prozii, cugini vicini e lontani, una festa
continua: gli Haneoka, infatti, pur essendo in tutto
e per tutto (con qualche eccezione) dei giapponesi purosangue, venivano
considerati dai più austeri vicini e conoscenti come mancanti di una o più
particolari rotelle. Assieme alle abilità dell’anziano e irrequieto prozio Kentaro, capace di far sparire una moneta dal palmo della
mano e di farla riapparire lesto nella dentiera del non altrettanto simpatico e
narcolettico zio Taro, assieme alle doti canore dello
zio Ashikaga, attore di Noh[3] in
pensione, le frotte di cuginetti Haneoka, un numero
esorbitante di marmocchi castani, si mettevano lì imbambolati ad ascoltare i
racconti della vecchia zia Rikka. E così si perdevano
nelle storie di quanto era bella Grace Kelly il giorno del suo matrimonio al
quale lei – unica giapponese – era stata invitata, di come fosse bello
quell’argentino Manuel Fangio, amico fraterno della solare Evita Peròn, capace
di lasciarsi dietro tutti, a bordo della sua Alfa Romeo, nelle strade
adamantine del principato di Monaco. Ma al di là dei tanti racconti sui
ricevimenti delle teste coronate nella vecchia Europa, i cuginetti Haneoka morivano dalla voglia di udire dalla sua voce,
ancora giovanile per una cariatide di tal guisa, le gesta spericolate
dell’esile circense. Bocca spalancata, viso all’insù, i piccoletti sognavano e
tremavano, rivivendo le suspance dei pubblici di
altri continenti vissute più di cinquant’anni prima. Di quella volta che Rikka aveva deciso di sfidare la sorte saltando bendata al
trapezio altalena, o di quel giorno che attraversò la fune senz’asta e senza
rete di protezione…
«Ma come facevi?», gli
domandavano sempre i ragazzini. Aspettandosi la stessa risposta. «Il trapezio e
la fune… Bisognava sentirli», e sempre ripeteva
quelle parole così elusive, ma paradossalmente vere: «l’allenamento, i sensi,
la costanza, aiutano fino ad un certo punto… Ma è
l’istinto che ti porta a sapere se quella è la serata in cui tutto il pubblico
ti applaudirà con forza… O se andrai incontro a una
fine terribile», insisteva, calcando le parole come fanno le nonne quando
raccontano una fiaba ai loro nipotini, «è l’istinto che ti guida!
Ascoltatelo!». Quelli che erano aneddoti interessanti per i cuginetti Haneoka, per la piccola Meimi divennero presto lezioni da
assimilare. Perché Saint Tail, nonostante le lunghe preparazioni, i duri
allenamenti, la tenacia, agiva prevalentemente d’istinto. Quel famoso sesto
senso capace di farti trovare la via d’uscita in una situazione senza speranza.
Un istinto allenato, affinato, approfondito e divenuto ormai imprescindibile
per le attività da giustiziera della giovane maga.
E quella sera, mentre
Meimi Haneoka, con la calzamaglia e il vestito di
Saint Tail ormai strappato e bruciacchiato in più punti dall’esplosione sul
ponte sospeso, correva disperatamente verso il Minato Art Museum,
richiamata dalle strane parole del Vescovo, l’istinto parlava chiaramente:
qualcosa di molto brutto era successo. Qualcosa di tremendo.
Con un piede toccava la
cima di un comignolo mentre con l’altro, dopo un veloce balzo, era già sul
culmine di una muretta. Quanto le mancava? Di solito,
quando architettava i suoi colpi, arrivava in largo anticipo: non aveva bisogno
di correre come una disperata se non per fuggire dal suo amato inseguitore. Ma
quella volta era diverso. Quella era la serata in cui Saint Tail si era fatta
trovare impreparata. Una serata che avrebbe cambiato in ogni senso la sua vita.
Ma quanto le mancava? Ormai era questione di istanti, eppure, forse
inconsciamente, una parte del suo corpo rallentava in maniera infinitesimale i
suoi movimenti per ritardare, seppur di pochi secondi, il momento in cui
sarebbe giunta a contatto con la tremenda realtà. Una realtà che si aspettava.
«Eccoci». E si ritrovò
sopra il ramo più spesso di quella cryptomeria dalla
quale aveva assistito alla fiera e baldanzosa partenza dei poliziotti. Parevano
passati cent’anni: ma l’orologio, che dei fatti umani poco o nulla si
interessa, stabiliva fermamente come non fossero passate più di due ore e
mezza.
Nel parcheggio
sottostante, posteggiate alla rinfusa, decine di auto tutte uguali: le berline
di gamma media in dotazione alla polizia giapponese. «Sono qui, di nuovo…perché?».Non
era una domanda, ma un intercalare.
Un altro salto: osò
scendere nel parcheggio, dribblò auto dopo auto, nella speranza che nessuno la
notasse, si voltò e rivide i vetri rotti dalla rocambolesca fuga del disperato Fracchia. L’inaspettatamente veloce sedia a rotelle della Masamune era bastata a squarciare l’intera parete a vetri,
ormai una profonda ferita nel fianco del Minato Art Museum,
che di danni, per una serata, ne aveva già subiti abbastanza.
Il vociare proveniente
dall’interno e le ombre di due o tre omazzi che
fumavano silenziosi di fronte allo squarcio della vetrata, con l’aria
profondamente malinconica, la rese ancor più cauta. Comprese come in quel
frangente la scelta migliore fosse quella di dominare la scena dall’alto. Un
balzo e si attaccò ad un’insegna, con un piede si diede una spinta e si ritrovò
a penzolare da un cornicione: un altro salto ed era sopra il tetto del salone
del Minato Art Museum. L’ala che ospitava i vasi Ming
e che era stata scenario della cena di quella sera era infatti la più moderna: un solo piano, che si sviluppava per una miriade di metri quadrati.
Un'estensione del tutto ragguardevole per i limiti imposti, di solito, dalle
stringenti regolamentazioni edilizie di terra nipponica. Più a nord,
invece, la struttura moderna si congiungeva con la parte più antica: una solida
palazzina di tre piani che dominava il complesso come una villa di campagna
domina su di un lungo porticato e le sue rimesse.
L’ampio lucernario da
cui per tutta la serata la luna aveva avuto la possibilità di benedire con i
suoi raggi d’argento la strana ma romantica cena di Meimi e Asuka, ora le
avrebbe fatto capire, dal suo scorcio, che cosa diamine fosse successo per
costringere tutti gli uomini di legge a far ritorno al museo.E fu uno squarcio sull’orrore più assurdo.
Vide un tessuto bianco
con vistose e disordinate pieghe in più punti: al centro una vistosa macchia
rossa. Gli occhi della ragazza non valutarono con precisione la distanza dal
tetto, e suggerirono al cervello la possibilità che quel forte contrasto bianco
e rosso potesse trattarsi, banalmente, di una tovaglia macchiata di vino rosso,
tirata e sgualcita durante i disordini della serata. La luminosità della
pavimentazione in granito però le fece capire che non di un tavolo si trattava,
ma del pavimento. Il cuore le scoppiò in gola quando vide, al termine del
lenzuolo, un indistinto oggetto scuro che si accorse essere uno scarpone di
color nero. Un bastone da passeggio particolare, che aveva già visto prima,
inconfondibile. Il rosso troppo rosso per essere del vino. Cadde sulle
ginocchia, a pochi centimetri dal margine del lucernario. Un pezzo di vetro
scheggiato le ruppe la calza in tensione. Fu un miracolo se non si ferì. Ma non
le importava in quel momento.
Abbassò lo sguardo, boccheggiando,
e comprese finalmente, per quello che erano, le strane parole del Vescovo. Un
addio. Si sentì indegna di tutti i privilegi goduti durante la serata: la
visita, in compagnia del sant’uomo, alla sezione del museo dedicata ai
cristiani nascosti. Una visita che era stata una lezione di vita – l’ultima –
che la ragazza aveva dato al Vescovo: anche se lei, in quel momento, avrebbe
detto l’esatto contrario. Le parole sull’amore. La fiducia che sembrava riporre
in una che la collettività e i suoi tutori avevano già etichettato come una delinquentella. E come se qualcuno avesse premuto un
bottone, si sentì improvvisamente svuotata: non provò angoscia, nessuna
lacrima, nessun pensiero. Solo una completa e desolante aridità.
Due occhi la fissarono.
Due occhi arrossati come quelli di un bambino dopo un lungo pianto. Due occhi
che conosceva, ma che mai si sarebbe aspettata di vedere così ridotti. Erano
quelli di mons. Hikamura, taciturno e schivo vicario
generale della diocesi giapponese. Il tipo, insomma, che dedicava anima e corpo
alla gestione degli affari correnti – quelli più noiosi e tecnici – che ogni
grossa amministrazione contempla, riservando al Vescovo le questioni a lui più
care: i temi pastorali, la cura delle anime, la compilazione di messaggi pieni
d’amore e ricchi di contenuto che però – lo sapevano tutti – ben pochi
leggevano o comprendevano. A parte i giornalisti, che estrapolavano qualche
frase ad effetto qua e là per sparare due o tre titoli. Una storia già sentita.
Hikamura
era in piedi, a pochi centimetri dal corpo senza vita del Vescovo. Quando vide,
sopra di sé, una strana ragazza col codino che fissava quel lenzuolo, fu
tentato di gridare. Non pensò che potesse essere una complice degli assassini,
o una malintenzionata: ma vedere una ragazza vestita in modo assurdo, di notte,
sopra un tetto, nel bel mezzo della scena di un crimine efferato, avrebbe
sbalordito chiunque.
«Lei arriverà». Prima
che potesse aprire la bocca le parole del Vescovo gli rimbombarono dentro. “Lei
chi?”, aveva risposto. «Fidati di lei», continuava la voce del Vescovo da
dentro la memoria di Hikamura, da dentro la sua
anima, dal luogo in cui era andato. “Chi è? Che cosa sta succedendo?” provò a
ribattere confuso il vicario generale. «Aiutala», ribadiva il Vescovo. Parole,
le ultime, che aveva pronunciato. Ma che forse stava pronunciando proprio in
quel preciso momento, da qualche parte, dovunque fosse finito.
«È giovane, ma crede più di noi che siamo vecchi», aggiungeva.
Lanciò il cuore oltre
l’ostacolo: continuò a fissare la ragazza, ma la sua espressione era non più di
sorpresa. Pareva tornato il boss della curia che era. Un ordine intimato con un
movimento del capo appena accennato ma che pareva un urlo deciso: «Di qua».
La ragazza si riscosse
e si mosse senza pensare nella direzione accennata dal corpulento sacerdote.
“Obbedisco”, pareva dire. Scavalcò con un salto il lucernario, procedette di
una decina di metri, fino ad arrivare ai limiti di un piccolo chiostro interno:
una piccola porzione del museo che permetteva ai visitatori di riposarsi
all’ombra di un salice tra un’esposizione e l’altra su una comoda panchina.
Forse il vicario generale aveva pensato di parlarle proprio lì.
Il giardino era buio:
nonostante ciò, la ragazza non ebbene alcuna difficoltà a calarsi dentro, e
seppur fosse vestita con la calzamaglia nera, col tutù rosa e armentari vari dal peso superiore ai dieci chili, si
sedette, come se fosse la cosa più naturale del mondo, sulla panchina.
Respirò a fondo. Era
morto davvero. Era sempre stato il protagonista di quella piccola realtà
cristiana in un paese dove i cristiani si contavano con le dita di una mano. Ed
era anche grazie a lui se quella piccola realtà era riuscita a seminare così
tanti fiori di bene. Ma ora non c’era più. Si sentiva, nel suo piccolo, come
miliardi di persone si erano sentite alle nove di sera di quel 2 aprile 2005.
Quando si spense la luce di Giovanni Paolo II. Smarrita. Impaurita per il
futuro. Esausta. Ma una luce, se è luce, non può scomparire per sempre.Quando la porta di plexiglas trasparente si
aprì, per far passare un circospetto mons. Hikamura,
la ragazza si alzò in piedi. E fece quel che riteneva giusto.
«Mons.
Hikamura», salutò. Il suo tono di voce cortese, ma
distante. Sebbene si fidasse del sacerdote – non aveva alternative – era la
prima volta che la sua identità di ladra misteriosa appariva così disarmata di
fronte a un altro essere umano. L’unica – al di fuori di lei – a conoscenza
anche degli aspetti più intimi e segreti di Saint Tail era la giovane suora
Seira. E quell’”obbedisco” di garibaldina memoria fu in sintesi un atto di
violenza che la ragazza si fece.
«Tu…
tu sei…» esordì Hikamura,
scettico e dubbioso, «…la maga che finisce sui giornali… Saint Tail?». Anche lui si stava facendo
violenza. A guidarlo nessun filo logico o razionale. Solamente quelle ultime
parole arcane del pastore della diocesi.
«Sì», affermò lapidaria
la ragazza. Non servivano ulteriori spiegazioni o precisazioni.
«Lui mi ha detto che
saresti arrivata» replicò a stretto giro il vicario generale, con una velocità
che non avrebbe consentito a Meimi di aggiungere altre parole oltre a quel sì.
Non era un atto di maleducazione o di prevaricazione. Con quelle parole il
vicario generale voleva vuotare il sacco, passare il testimone. Non sapeva che
pesci pigliare. Hikamura era quello che sei mesi
prima, quando era stato a Roma in occasione dell’ennesimo sinodo, si era
portato via quattro valigie di libri nel caso gli fossero serviti. Non lasciava
nulla al caso: quando doveva redigere una lettera pastorale o un documento
programmatico ci teneva a completare il lavoro almeno due mesi prima della
scadenza. Quando i parroci preparavano le prediche per l’Avvento lui aveva già
pronte le meditazioni per la Via Crucis del Venerdì Santo. Era fatto così. Ed ora
che la situazione non era per nulla in suo controllo, anzi, stava lì a giocare
un ruolo marginale in una vicenda che lo aveva purtroppo coinvolto totalmente,
era a pezzi. Quella ragazza era il suo ultimo, tragico, irrazionale appiglio.
«Cosa le ha detto con
precisione?». Era una statua di ghiaccio.
Hikamura
cominciò a perdere la sua consueta calma. Una maschera di cui aveva deciso di
dotarsi nuovamente imboccando il corridoio e puntando verso il chiostrino. Ma che ora, crollava, inesorabilmente, di nuovo
a terra. Si incurvò. I tratti di voce ogni tanto interrotti da un singhiozzo. E
raccontò tutto. L’arrivo dei criminali, la confusione nella sala, gli ultimi
istanti – eroici e folli al tempo stesso – di un piccolo e grande vecchio.
La ragazza rivisse ogni
singolo momento con l’anima e con il corpo. Se lo immaginò, il vecchio vescovo,
mentre avanzava lento ma deciso verso il feroce criminale. Ben sapendo che
sarebbe andata a finire così. Ma doveva farlo. Non poteva fare altrimenti. Era
quello stesso senso di giustizia profondo che la guidava. Che li guidava.
«Sapeva anche lei che
sarebbe andata a finire così?» sorrise amaramente verso Hikamura.
«Sì», ammise, come riappacificato,
il vicario generale. Alzando gli occhi al cielo come se lo volesse cercare tra
le stelle che spuntavano nel firmamento.
«La sua ultima volontà,
in qualche modo, era quella di impedire che alla Contessa venisse fatto alcun
male», tirò le fila la ragazza.
«È per quello che l’ha
ucciso».
«La riporterò sana e
salva», quasi lo interruppe con sicurezza Saint Tail.
«Ma perché lo fai?» le
domandò, quasi sconsolato, Hikamura. Umanamente non
poteva comprendere il perché una ragazzina così giovane, seppur così dotata,
avrebbe dovuto sacrificarsi, mettersi a rischio, per aiutare degli sconosciuti.
«Perché lo ha fatto
lui?». Una domanda che comprendeva mille e più risposte. Hikamura,
a tratti umiliato dal senso del dovere della ragazza, tacque.
«Io vado» la ragazza si
avvicinò al sacerdote, nell’atto di compiere un inchino rituale pieno di
rispetto.
«Aspetta», la anticipò Hikamura. «Non sarai solo tu, anche la polizia ha delle
piste».
Piste? A quella parola
Meimi cascò dal pero. Dove erano andati a cacciarsi la Belva e i suoi complici?
In che lande potevano essersi andati a nascondere?
Prima aveva avuto tutto
sotto controllo: o almeno così pensava. Le microspie, i Gps, le
ricetrasmittenti. Adesso, in mano, non aveva nulla. Come rintracciare quei
malviventi? Dove?
«La polizia», continuò Hikamura, «sembra avere delle idee. Ma non molto chiare. Da
quel che ho capito, l’italiano senza capelli ha invitato i suoi colleghi a
cercare qua e là. Credo siano disperati anche loro».
E fu in quel momento
che Saint Tail dovette fare i conti con la realtà: non aveva nemmeno lei la
benché minima idea della posizione o delle intenzioni della Belva. Ma qualcosa
doveva pur tentare. Un lampo e un sussulto al cuore. Aprì lo smartphone. Due punti rossi stavano muovendosi in direzioni
diverse. Una era la microspia sulla pelata di Auricchio. L’altra la cimice
nella giacca di Asuka.
«So dove andare».
Proclamò sicura la ragazza, prima di spiccare un salto e scomparire nella
notte.
Il cervello non poteva,
e del resto, non ne sarebbe stato in grado, di dirle dove la Belva potesse
essere andata a nascondersi con cotanto ostaggio. L’unica voce che poteva
ascoltare in quell’istante era la voce del cuore. “Segui Asuka”. Una voce
irragionevole ma fortissima. E la seguì.
Hikamura
la vide saltare sopra l’albero, poi sul tetto, infine, libera, verso la notte
stellata.
«Va’,
ragazza. Riportala indietro». Ad Hikamura non
interessava granché della sorte della maleducata Contessa. Era sì un sacerdote,
ma i sacerdoti non sono quelle figurine uscite dai catechismi tutte buone e
care capaci solo di parlare d’amore e di perdono. Sono uomini come gli altri
che hanno un peso in più, un peso che si sono scelti loro e che tutti, più o
meno, sono felici di portare. Hikamura non era tanto
diverso dalla media, ma ad una cosa, fermamente, credeva. Anche i suoi modi
precisi, le sue ritualità maniacali, testimoniavano a gran voce il fondamento
della sua vita: la profonda certezza che tutto avesse un ordine preciso
nell’universo. Un ordine che poggiasse le sue fondamenta nel motore immobile
teorizzato da Aristotele e riscoperto con la fede da san Tommaso.
Ebbene,
quella sera, qualcosa si era inceppato in quel meccanismo. Un giusto era morto.
Eroicamente, santamente, ma era morto. In quel momento, le tenebre avevano
vinto. Ma era spuntata una luce: rosa e delicata, leggera e pura, sotto la
forma di una ragazza piena di doti e di inventiva. Una ragazza che era divenuta
un testamento vivente.
Hikamura
pregò più forte verso il cielo. La vittoria di Saint Tail avrebbe riaggiustato
quell’ingranaggio. E, cosa più importante di tutte, avrebbe confermato in lui
quel poco di fede che può spostare le montagne.
[1]
No, non è la famosa “zia ricca” di Filini, quella che gli passava gli abiti di
seconda mano più improbabili del globo.
Un avviso
che forse ad alcuni farà piacere… Ho praticamente finito la storia. Certo, mi
restano dei capitoli di post-fazione con dei dettagli in più che voglio
aggiungere con calma, dettagli che per me sono il vero finale. Eppure, tutto l’intreccio,
la storia vera e propria, è felicemente conclusa.
Un grande grazie a
Cinzia, betareader ma non solo, ai cui
incoraggiamenti si deve principalmente la conclusione di questa iniziale
intuizione.
«Homo Homini
Lupus. L’avete mai sentita questa frase, ragazzi?». Il ’68 aveva travolto la
professoressa Caruso come un’isoletta caraibica di pescatori dall’onda
impetuosa di uno tsunami. Nessun insegnante si sarebbe mai sognato di iniziare
una lezione così fino a una manciata di anni prima. Ma ormai tutto era
cambiato. Persino a Palermo, dove neppure il passaggio di mille energumeni
vestiti di rosso, un secolo prima, era riuscito a cambiare qualcosa.
A rompere l’imbarazzante silenzio,
tra i diciotto ragazzi della II C, ci pensò, come al solito, Giuseppina.
Giuseppina la classica secchiona: brufolosa, capelli ricci e confusi, brutta
come una cozza, che però era riuscita a farsi amare da tutti mettendo la sua
intelligenza a servizio del gruppo, insegnando a tutti, anche ai più zucconi, i
misteri della consecutio e le begole dell’aoristo
greco.
«Homo Homini
Lupus. L’uomo è lupo dell’uomo. È un aforisma piuttosto pessimista circa la
condizione umana», spiegò, tranquilla. La Caruso era rispettata, ma non temuta
dalla classe. Il ’68, checché ne dicano, aveva avuto anche dei lati positivi.
«Esatto!», sorrise la prof. «Compare per la prima volta nella commedia di
Plauto, l’Asinaria, che racconta una bella storia
d’amore».
Era una lezione interessante, certo,
ma Letteratura Latina, alla quinta ora di un sabato di maggio, non sarebbero
riusciti a seguirla nemmeno se a raccontare le filippiche di Cicerone gli si
fosse presentato Zurlì, il mago del giovedì.
«Però mi sembra proprio brutta come
frase!», protestò Gianni, 17enne della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica
e già militante dossettiano della Dc. «L’uomo non è
una bestia. Mi rifiuto di pensare che l’uomo possa essere lupo verso gli altri
uomini».
«Apri i giornali baciapile!», lo
interruppe Giacomo, il carismatico capoclasse. Gli studenti smisero di
dormicchiare: la cosa si stava facendo interessante. «Guarda le guerre, la
criminalità, il terrorismo. Le bombe che mettono, anche in queste settimane.
L’uomo è peggio dei lupi».
«Ma abbiamo delle regole», chiosò
Antonietta, la ragazzina yeye
che pareva l’incrocio tra una vedova siciliana e il peperino della Rita Pavone.
La Caruso fissò i ragazzi sorridendo: le discussioni le piacevano. Del resto,
si respirava ancora l’aria del ’68. E in più, non doveva per forza spiegare.
Erano i ragazzi a imparare da loro stessi. Lei era solo un’ostetrica di corsia
nel reparto maieutica di Socrate.
«Regole che ci diamo per impedirci
di diventare lupi», continuò Giacomo. Alto, spettinato, largo di spalle ma
dalla faccia gioviale: il leader perfetto. «Ammettilo Gianni, dobbiamo essere
tenuti a freno. Se no, come me li spieghi i carabinieri, l’esercito, le
guerre…»
«E perché il lupo deve essere il
cattivo e l’uomo il buono?». Tutti si girarono di colpo. Aveva parlato. Non lo
faceva mai. Salvatore. Diciannovenne ripetente dell’ultimo banco. Il figlio di
Totò o’ Leone, spregevole boss del quartiere. Nessuno osò replicare. Il ragazzo
continuò, con voce melliflua e dal forte accento dialettale: «Il lupo domina
sul branco di pecore. Il lupo domina. Il lupo non sbrana tutte le pecore, ma le
domina, le controlla. Il lupo serve…».
«Non sono d’accordo». Incredibile,
qualcuno l’aveva interrotto. Rosaria. La vice secchiona, che però, a differenza
di Giuseppina, era un gran pezzo di ragazza. «L’uomo domina sulla natura.
L’uomo domina sulla sorte, su questo non si discute. Ma se l’uomo ce l’ha fatta
ad uscire dalle caverne, a inventare la scrittura, la tecnologia, il razzo
spaziale, l’ha fatto perché ha smesso di divorare i suoi simili e ha iniziato a
collaborare. Sono le società complesse che funzionano. Società dove ciascuno ha
il suo ruolo e dove tutti concorrono per il bene comune. Il predatore da solo,
invece, certo, può predominare. Ma non migliora mai la sua condizione».
Dopo un momento di silenzio,
qualcuno vociò: «Brava!». E scoppiò, fragoroso, l’applauso, al quale si unì
anche la Caruso. Del resto, soffiava ancora il vento del ’68. Salvatore
sorrise, alzò le braccia, e si unì all’applauso, ammettendo la sconfitta in
quella gara di dialettica. Non banale, per un mafioso in pectore.
Anche Paolo, seduto sul banco
dietro la ragazza, applaudiva. E come avrebbe potuto non farlo? Rosaria era la
sua vita.
Paolo non era un brutto, ma
certamente non era il più bello della classe. Non era stupido, ma non era
nemmeno il più intelligente. Non era imbranato, ma non era nemmeno il più
brillante. La mediocrità, o almeno, il percepirti come mediocre, a quell’età ti
sega alle gambe. Soprattutto se dal primo giorno della quarta gennaio sei
innamorato perso della tua vicina di banco, più cotto della mela che mangiano i
vecchietti a pranzo al reparto di geriatria.
Rosaria sapeva di questa
infatuazione, e non le dispiaceva. Anche lei, forse, provava qualcosa per il
ragazzo, non ne era sicura. Ma, del resto, non erano quelle le sue priorità,
tutt’altro. Partecipava a tutti i gruppi studenteschi: il giornalino, le
assemblee, le giornate culturali, il teatro. Studiava come una forsennata per
spirito di dovere e per senso di conoscenza. Non aveva tempo, né le energie
mentali, per un fidanzato. Ma a Paolo andava bene così. Gli bastava starle
vicino, studiare ogni tanto assieme, fare la strada assieme. Vederla.
Proteggerla.
La campanella, pietosa, squillò. Il
weekend era iniziato. La prof salutò tutti e si congedò, scappando fuori dalla
classe. Del resto, erano ancora gli anni del ’68.
I ragazzi, preparando gli zaini e
uscendo fuori, parlottavano riguardo a schedine, discoteche, dancing, totip e
gite fuori porta.
«Che fai oggi Paolo?». Salvatore si
avvicinò al ragazzo. Tutti lo sapevano che era un mafioso, ma Paolo lo vedeva
per quel che era: un diciannovenne poco maturo che faceva battute divertenti.
Non se lo immaginava con la lupara e la coppolla in
testa, come il cattivo di un film di Franco e Ciccio.
«Oggi studio», spiegò il ragazzo.
«Domani sono coi miei cugini dalla nonna».
«Capisco», il volto di Salvatore si
fece un tantinello deluso. «Non vieni proprio al
Cucaracha?».
«Non posso», sorrise Paolo, per
nulla intimorito, «ma la settimana prossima se vuoi ci sono». «Ci conto», tornò
a sorridere il giovane delfino della famiglia di o’ Leone.
«Paolo, andiamo?» Rosalia lo
guardò, nemmeno sfiorando con lo sguardo Salvatore. Facevano la strada insieme:
del resto, vivevano a due condomini di distanza. Capita anche questo: cresci
insieme nello stesso quartiere e poi scopri l’esistenza delle persone solo
quando ti trovi in classe insieme.
«Arrivo!». Si caricò lo zaino in
spalla e corse dietro alla ragazza.
Uscirono dal cancello, svoltarono a
destra, attraversarono la strada in completo silenzio. Solo le auto, nel
traffico cittadino, ruggivano di smog. Il sole e un caldo feroce amplificavano
l’inquinamento sublimandolo nella forma di canicola.
«Che ne pensi di quel che ho
detto?». Interruppe il silenzio Rosalia.
«Riguardo a?». Gli occhi azzurri di
Paolo erano sinceri. Stava già pensando agli Spaghetti alla Carrettiera della
nonna.
«Homo homini
lupus». Tagliò corto la ragazza leggermente seccata. Era ancora più bella
quando teneva il broncio. Rosalia era più alta di Paolo, ed era uno dei
classici esempi da spiaccicare in faccia ai razzisti quando dicono che il
miscuglio delle razze è una piaga per l’umanità. In lei le diverse etnie che
componevano la Sicilia si erano sposate alla perfezione: alta e magra, occhi
verdi mare, tipici dei normanni, capelli neri color inchiostro, lisci e lunghi,
labbra rosse carnose come ogni perfetta donna di quella terra baciata dal sole
e stuprata dalla criminalità. La pelle bianchissima poi impreziosiva ancor di
più quella specie di gioiellino umano.
«Ah già. Homo homini
lupus. C’hai ragione», sorrise, «beh, ci sono uomini più uomini e uomini più
lupi, secondo me. Ed è giusto contenere gli uomini più lupi per far stare
meglio gli uomini-uomini».
«Allora perché vai così d’accordo
con Salvatore?». Altra occhiata diffidente e dubbiosa.
«Beh, ma Salvatore che ha fatto?».
Rispose candidamente Paolo. In effetti, Salvatore non aveva fatto nulla.
Ancora.
«Lo sai che dicono di suo padre,
Totò o’ Leone?». Lo incalzò, con la tenacia e la parlantina tipica delle donne
siciliane.
«Beh… C’ha un leone». Totò o’
Leone, infatti, era un mafioso. E i mafiosi sono gente strana. Gente che ama
gli eccessi. Se domandi a un mafioso un bicchiere d’acqua lui ti riempie una
damigiana di vino. Se domandi a un mafioso che ore sono lui ti dice che sono le
dieci anche se sono le sette. Se dai uno schiaffetto a un mafioso lui come
minimo ti crivella di colpi, getta il tuo corpo sull’acido e ne getta i resti
in una betoniera che mescola calcestruzzo liquido. Quando il figlio gli chiede
di comprargli la macchina, il mafioso gli regala il Ferrari, quando il figlio
fa la cresima, il mafioso ingaggia per il pranzo cantanti che sono stati a
Sanremo, quando il figlio domanda un animaletto domestico, il mafioso compra
nel mercato clandestino di sfruttatori senza scrupoli un cucciolo di leone
africano. Che poi, però, cresce. E come se cresce.
«C’ha un leone, c’ha una villa con
piscina, è maleducato, non mi piace», continuò Rosalia.
Paolo la interruppe: «Ma non ha
fatto nulla di male», sorrise, «Salvatore non è un lupo. Sarà forse figlio di
lupi, ma è un ragazzo ok. Forse se vogliamo essere noi uomini e non lupi ci converebbe non giudicare in anticipo le persone».
Solitamente i ragazzi innamorati a quell’età perdono ogni tipo di logica e
danno sempre e comunque ragione alle loro amate. Paolo invece amava di Rosalia
il fatto che la ragazza non avrebbe mai accettato di venir adulata o
assecondata, ma che anzi gradiva il contrappunto dialettico. Si sentiva bene
con lei, si sentiva capito e poteva essere sé stesso. Ed era anche per quello
che la amava alla follia.
Rosalia sospirò, ancora
imbronciata. «Forse hai ragione». Sbuffò. Poi sorrise: «È questo che mi piace
di te. Sei buono». E subito si accorse di averla detta grossa. Arrossì come la
polpa di un’arancia rossa di Sicilia dop. Paolo, in
quanto maschio, se ne accorse dopo, ma quando si accorse, il battito del cuore accellerò improvvisamente, la bocca gli si impastò. Rosalia
abbassò gli occhi. «Sono arrivata, ciao, a lunedì», sparò velocissimo, e corse
dentro il cancello. Paolo rimase imbambolato lì davanti come un pendolare in
attesa del treno regionale ovviamente in ritardo. Poi, col sorriso da ebete, se
ne tornò a casa. Ad attenderlo, un piatto di pastasciutta e cinquanta pagine di
filosofia.
-
Venne a chiamarlo Salvatore la
domenica mattina. Ancora col motorino acceso, urlava il suo nome come un
ossesso. Paolo era già vestito a festa per andare dalla nonna, ma corse giù
dalla tromba delle scale e si fiondò verso il figlio del mafioso. Sebbene si fidasse
del ragazzo, quel modo imperioso con cui l’aveva chiamato non gli mise affatto
una buona impressione.
«Che c’è?», domandò, aprendo il
cancello per fare entrare il motorino del ragazzo. Ma Salvatore non entrò. E si
limitò a inchiodarlo con una di quelle notizie che si svuotano l’anima e ti
lasciano smarrito come un barboncino sull’Austrada
del Sole il 17 luglio.
-
«Co-co-come stai?» e subito si
morse la lingua. Come diavolo gli era saltato in mente di domadarle
come stava? Come diavolo doveva stare?
Le lenzuola bianche erano davvero
candide, ma non potevano competere con il pallore della sua pelle. Ma le labbra
rosse carnose al centro del volto erano, sulla destra, gonfie e violacee. Gli
zigomi arrossati e bluastri, l’occhio sinistro non riusciva ancora ad aprirlo.
Indossava una vestaglia, che le scopriva il collo e lo sterno, graffiati in più
punti I lunghi capelli in ordine, pettinati, impassibili. Era seduta sul letto.
Impassibile. Ma era da un’altra parte. O forse non era da nessuna parte. Forse
non c’era proprio più, Rosalia.
Paolo guardò in basso.
«Tu… Cioè… Cosa posso fare… Cosa ti
serve… Io?». Avrebbe voluto dire mille cose. Avrebbe voluto dire che non era
giusto, che proprio lei non se lo meritava. Ma del resto, chi poteva
meritarselo? Nessuna. E allora perché era successo a lei? Ma lei era bella. Era
una colpa? No. Dov’era lui? Lui non era lì a proteggerla. Era a casa a guardare
Carosello con la madre. Ma dove? Chi? Che cosa era successo esattamente? Ma era
successo proprio quella cosa lì? Quel termine innominabile e impensabile. Lui
non gliel’avrebbe chiesto. Lei non parlava. Non rispondeva a domande innocenti.
Non si sarebbe aperta così a poche ore con lui. E lui forse non avrebbe mai
voluto domandare.
Un’anziana infermiera entrò nella
stanza, e con un cenno cortese, invitò il ragazzo ad uscire. In mano un vassoio
con delle garze e della tintura di iodio. Pensò a quali ferite avrebbe dovuto
curare, dato che a parte le botte non si era accorto di altro, poi la testa
raccontò l’ovvio al ragazzino che sentì una scarica di adrenalina lungo il
corpo e un senso di repulsione. Si vergognava del cromosoma Y che portava
accanto all’X. Bestemmiando interiormente, uscì dalla stanza.
«Allora?». Salvatore lo aspettava
in corridoio. Paolo tremava. E non era paura.
«È lì. Fisicamente non sembra messa
malissimo, i dottori dicono che già domani la dimetteranno», disse velocemente,
senza muovere gli occhi, «ma è scossa. È talmente sotto shock che», bestemmiò,
«io non ci capisco più un cazzo». Poi squadrò Salvatore. «Mi ripeti come?».
«Era andata con due amiche al
cinema. Le amiche fanno la fila per i biglietti, lei va in bagno. Lui la segue,
l’afferra, la porta nel retro e là». Salvatore si interruppe. Sapeva benissimo
che sarebbe diventato anche lui un mafioso. Come suo padre. Che forse avrebbe
ucciso, strangolato, ammazzato. Ma quello gli pareva qualcosa di fuori dal
mondo. Di imperdonabile. Da uomini di merda.
«Chi?» domandò Paolo. Gli occhi
gelidi, di ghiaccio.
«Ancora non lo sappiamo. Lei non
parla. Le amiche non parlano. Fammici lavorare».
L’anziana infermiera uscì dalla
stanza: «Puoi tornare dentro, se vuoi», gli riferì gentilmente. Ma Paolo tremò
ancora: «No, grazie. Andrò a trovarla a casa domani». E girò le spalle.
«Salvo», aggiunse, «fammi sapere».
Uscì dall’ospedale, attraversando
corridoi tutti uguali pieni di gente col gesso, anziani in sedia a rotelle,
gente che aveva avuto intossicazioni varie dopo il pranzo della domenica.
Camminò piano, verso casa. Non pensò nemmeno per un istante a quanto la ragazza
stesse male. Non era quello il punto. Non provò a immergersi nel mare di dolore
che corrisponde alla perdita suprema di ogni dignità. Non si stava parlando di
quello. Tutte le cellule del suo corpo, in quegli attimi, erano assetate di
sangue. La sua mente fabbricò un passato alternativo. Un passato nel quale,
quattordici ore prima, Paolo, invece di accendere la Tv e guardare Carosello
con la mamma, avesse deciso di uscire di casa e recarsi al cinema. Un’ipotesi
impossibile: lui odiava il cinema. Ma, ripeto, non era quello il punto. Si
immaginò in quel momento di frontea Rosalia, mentre
qualcuno di non specificato allungava una mano per ghermirla. E provò un’ondata
di immenso piacere nell’immaginarsi afferrare quella mano lurida e sporca per
torcerla. Godersi la delizia delle ossa delle falangi che si spezzavano una a
una. Si tuffò con la fantasia nel vicolo dietro al cinema. Rosalia per terra.
Ferita, ma non ancora umiliata. E lui che arrivava, prendeva il lurido ancora
senza volto, lo gettava a terra, la testa che batteva contro il muro del
cinema. Le scarpe nere di Paolo che calpestavano la faccia del maiale mentre i
suoi denti saltavano uno a uno col suono delle micette di capodanno. Il sangue
– il sangue del bastardo, non dell’innocente – che zampillava. Sorrideva
estasiato, mentre svoltava a destra e attraversava la strada. Sognava di
prendere il bastardo, legarlo con del fil di ferro appuntito e farlo soffrire
come un cane. Nella sua testa sentiva le urla d’aiuto, lo sentiva piangere,
gridare il nome della mamma, implorare pietà. E si intensificava dentro di lui
il brivido di piacere nell’immaginarsi il bastardo senza volto lì, a piangere.
Impotente. Spacciato. Era un ragazzo timido e impacciato di diciassette anni,
Paolo. Ma non sognava che il sangue in quel momento.
-
Verso le dieci di sera sentì il
suono inconfondibile del motorino di Salvatore. Saltò giù dalla tromba delle
scale e in un attimo era in strada.
«Chi?», domandò. Non c’erano
bisogno di parole. Salvatore lo guardò, dubbioso: «Sei sicuro?». Paolo sorrise,
come un bimbo a Natale.
-
Dicono sia più facile fare il
rivenditore di frigoriferi al Polo Nord che il nerista a Palermo. Puoi scrivere
per i giornali locali di sport, di beghe politiche nei consigli di quartieri,
di inagurazioni di negozi. Ma se devi parlare di un
incidente stradale o di un morto ammazzato, è un susseguirsi di “non so”, “non
ho visto”, “nulla saccio”. Eppure, sui giornali, la
notizia uscì comunque. Era veramente qualcosa di sconvolgente. Persino i
quotidiani e le televisioni nazionali si erano fiondate sul posto per capirne
di più.
Un ragazzo di venticinque anni,
l’attaccante della squadra di calcio del quartiere, sposato da un anno, il
figlio del proprietario di una piccola pasticceria specializzata in
cioccolatini, era stato barbaramente assassinato.
Il modus operandi era quello della
mafia. Senza ombra di dubbio. Accadde il lunedì pomeriggio. Il 25enne era
uscito dallo stabilimento, con il grembiule ancora sporco di cacao, verso le
due, per fumarsi una sigaretta. Non vedendolo tornare, verso le 14.40, i
dipendenti erando andati a cercarlo. Lo trovarono
subito, proprio nel bel mezzo del cortile, dietro un furgoncino delle consegne.
Lo avevano fatto inginocchiare, gli
avevano legato i polsi dietro la schiena. Non presentava lividi, nessuna ferita
evidente, se non per un forellino nel bel mezzo della fronte, rosso come i
cosmetici delle donne indiane.
La tortura era stata psicologica,
era durata sicuramente non meno di dieci minuti. In quel frangente, il ragazzo
sapeva benissimo che sarebbe stato ucciso, e il terrore lo aveva logorato, lo
aveva fatto distrutto, come stabilirono le analisi dell’autopsia sul cuore e
come avrebbe capito chiunque esaminando il contenuto vergognoso dei pantaloni.
Quando la mafia uccide il figlio di
un imprenditore il pezzo si scrive da solo. Ovvio il movente. Le solite storie
di pizzo non pagato, di pressioni, di stupidi che non capiscono come gira il
mondo e non si piegano, e per questo, giustamente, vengono rimessi al loro
posto.
La storia del 25enne, dopo i primi
giorni di scalpore, venne dimenticata, seppellita da un’altra sfilza di
fattacci del tutto simili che in quelle terre si alternano con triste
regolarità.
-
Rosalia era nel suo letto.
Come un fiore spezzato che
rapidamente appassisce, non si era più voluta muovere. Da cinque giorni se ne
stava ferma a fissare i poster degli Abba appesi in cameretta. I genitori,
ovviamente, avevano assecondato questo suo desiderio di non vedere nessuno, non
parlare con nessuno. Era già tanto che non l’avevano considerata complice di
quell’atto di impudicizia suprema, come avrebbero fatto tranquillamente certi
vicini di casa con la mentalità ancora ferma al medioevo.
Gli amici non l’erano ancora venuti
a trovare. La vergogna, il dispiacere e forse la paura di doversi confrontare
con chi era stato poco prima vittima di violenza, li aveva fatti desistere.
Non quel giorno, però.
«Rosalia?», la chiamò, con
delicatezza, la madre dall’altro lato della porta. Rosalia non rispose, ma la
madre, che sapeva benissimo dove la ragazza si trovava e dove si era trovata
nelle ultime 150 ore, continuò: «C’è Paolo, per te».
Rosalia continuò con il suo
silenzio. Ma la madre aprì la porta lo stesso. Paolo entrò. Rosalia vide
qualcosa in lui che non aveva mai visto prima. Non era più quel ragazzo timido
che aveva lottato accanto a lei l’anno prima per memorizzare le credenze dei pre-socratici. Era come se si tattasse
di un’altra persona, che aveva trovato nel negozio di Peppe Villa una maschera
perfettamente somigliante a Paolo. Non camminava come Paolo e soprattutto, non
la guardava come Paolo l’aveva guardata in ospedale. Gliel’avevano detto
com’era finita al figlio di quello che faceva i cioccolatini. Le avevano anche
portato il giornale il giorno prima. Nessuno sapeva che era stato lui a
spegnere l’innocenza in lei, quel sabato sera. Non l’aveva detto a nessuno. Ma
quel sorriso in Paolo, lei che era così brava in matematica, le fece
individuare l’incognita in quella tremenda equazione.
«No». Parlò, per la prima volta
dopo giorni.
Paolo non era stupido. La sua
mediocrità si era spenta, il suo acume si era moltiplicato. Era Superman, e
fino a quel giorno aveva vissuto indossando vestiti di criptonite.
Ora era nudo. Capì, e sorrise.
«Sì. Non ti farà più male. Se lo
meritava». Disse freddo, glaciale, come un bimbo che sa di avere il controllo
sulle sue costruzioni Lego.
«Io me lo meritavo?», una lacrima
scese dalla guancia di Rosalia, che però non piangeva. Anzi, lo guardava con
distacco.
«Non te le meritavi», continuò
Paolo, con la freddezza del giudice che assolve il contadino.
«Nessuno se lo merita. Nemmeno lui.
Non siamo lupi». Si girò dall’altra parte.
«Sì che lo siamo», si scaldò, per
la prima volta, Paolo. «O siamo lupi o siamo agnelli. O divoriamo o veniamo
divorati. Lo capisci? Tu per lui eri solo carne, una bistecca da mangiare».
Ruggì. «Ti ha sbranato… quel cane. E ha avuto quello che si meritava». La
compostezza che l’accompagnava quando era entrato nella stanza della ragazza
era sparita. «Capisci, Rosalia», la pregò, «io l’ho fatto per te».
L’aveva fatto per lei. Era sua.
Un altro l’aveva vista, le si era
avvicinato, le aveva strappato i vestiti di dosso e se l’era fatta sua.
Gliel’aveva rubata. Doveva essere lui. Il primo.
Rosalia alzò gli occhi, come una
bambola fredda di porcellana di epoca vittoriana capace di muoversi da sola
grazie a un complicato gioco di molle e levette. «Sei peggio di lui. Lui era un
animale. Tu sei una bestia. Non ti voglio più vedere». Lo disse senza alzare la
voce, con il tono dello speaker che in radio elenca pigramente dove il traffico
ingorga le autostrade. Ma era come la voce del cherubino che nel giorno del
giudizio ti invita cortesemente a prendere la porticina per l’inferno.
Paolo non potè
far altro che uscire. Salutò con un cenno del volto la madre di Rosalia, si
incamminò per il vialetto senza una meta ben precisa. Era un tardo pomeriggio
di fine maggio: c’era ancora molta luce, ma il cielo decise di togliersi un po’
di peso di dosso sfogandosi in un temporale estivo. La pioggia scrosciante inzuppò
i vestiti del ragazzo, che camminava come in uno stato di trance.
Pochi giorni prima era un ragazzino
innocente, timido, imbranato, innamorato della sua compagna di banco e amico di
uno scapestrato. Quel ragazzino era morto. Non puoi essere un timido, innocente
e imbranato qualunque quando pianifichi nel dettaglio un’esecuzione a sangue
freddo assieme al delfino del boss mafioso per cui metà delle procure italiane
stanno cercando, invano, un capo d’imputazione prima che i testimoni spariscano
nel piloni di cemento delle ennesime, e inutili, grandi opere.
Non lo era più. Era pentito? No.
Era scocciato che la ragazza non avesse compreso. Lui, che aveva fatto di tutto
per riparare il torto che le avevano fatto. Che gli avevano fatto. Era sua. Ma
capiva che non lo era più. Eppure quel nuovo Paolo gli piaceva. Capace di
imporsi, di fare la differenza, di superare le comuni merdacce.
Arrivò davanti alla villetta
dell’amico Salvatore. Il suo amico. Ora anche il suo complice. Lavorava per lui
ora? «No». Si disse Paolo. Era stato Salvatore a dirgli chi aveva stuprato
Rosaria. Ma era stato lui, Paolo, ad insistere per ucciderlo. Era stato lui a
pianificare il tutto. Era stato lui a prendere quel flaccido corpaccione che
puzzava di cacao – non avrebbe più mangiato la cioccolata, gli avrebbe fatto
schifo la cioccolata – e spegnere le sue pulsioni sessuali con un pallina di
piombo. Era lui, Paolo, il boss.
«Paolo, come stai?». Salvatore gli
venne incontro. Pareva aver perso sicurezza di fronte alla fredda macchina di morte
in cui si era trasformato Paolo in pochi giorni. E pareva aver perso sicurezza
di fronte al crimine vero, che sapeva, non era pronto a, o forse addirittura,
non voleva compiere.
«Bene». Mentì Paolo. Ma forse –
pensò fra sé e sé – non stava nemmeno mentendo.
«Arrivi appena adesso, è successa
una cosa strana», tremò quasi Salvatore.
«Cosa?», domandò glaciale, con
indifferenza, il ragazzo.
«Il leone… Ha sbranato il cane
della signora De Pretis», il figlio del boss pareva
stesse ridendo. Era un’evidente finzione, stava facendo finta di essere
qualcuno che non era. In realtà, quel sangue, quei latrati a cui aveva
assistito pochi minuti prima lo avevano atterrito. Ci aveva giocato – quando
nessuno lo vedeva – con quel cane. E il leone stava sempre legato a quella
catena arrugginita: era il classico acquisto da
mafioso insicuro, quello fatto da suo padre qualche anno prima. Ma tutti ne
avevano paura. Persino Totò o’ Leone.
«È ancora qui?», continuò, con
indifferenza, Paolo.
«Sì. Siamo andati a chiamare la signora
per scusarci, ma non c’era. Il cane si è avvicinato per giocare, ma lui con una
zampata se l’è preso».
«Posso vedere?» aggiunse l’ex timidone, con l’indifferenza di chi chiede l’ora. Salvatore
annuì. Entrò nel cortiletto. Il leone era a terra, fiero come la Sfinge. Tra le
zampe un ammasso informe di carne che poco prima era anche capace di abbaiare e
provare e dare affetto. Paolo non notò nemmeno ciò verso cui tutti avrebbero
diretto per prima cosa gli occhi, cioè la povera bestiola straziata, ma fissavano
dritti il leone.
Era in pace. Tranquillo. Aveva
semplicemente dato retta al suo istinto, fregandosene di chi lo aveva legato a
una catena. Si era preso un essere inferiore, non per mangiarlo, non per
necessità. Ma perché poteva farlo. Gli occhi della bestia fissarono quasi con
noia il ragazzo, in piedi, in una posizione però distesa, come quella di chi
guarda un quadro in un museo o legge gli orari dell’autobus sul cartello alla
fermata.
Dietro di lui scoppiò il pianto a
dirotto dell’anziana vedova De Pretis: quel cagnolino
era tutta la sua vita. Salvatore si stava scusando, promettendo alla vecchina
un grosso risarcimento. Paolo si girò, giusto un secondo, con disprezzo. E sì
che fino a pochi giorni prima quel Salvatore gli stava persino simpatico. Era
invece una merdaccia come tutte le altre. Sapeva già che sarebbe finito nel
giro di pochi anni come un anonimo pentito di mafia qualunque: avrebbe venduto
la famiglia e si sarebbe trovato a vivere in un piccolo comune nel nord con
un’identità fittizzia e un banale lavoro d’ufficio.
Il leone, quello sì, era
bellissimo. Lui sì che aveva capito tutto dalla vita. Paolo sospirò forte, come
di fronte a un tramonto bello come quelli che si possono godere solo gli
alpinisti dalla cima della Marmolada. Il leone era forte, era feroce, non era
né giusto né ingiusto. Era semplicemente quello che poteva essere. Senza freni,
senza limitazioni. Paolo comprese che poteva essere altrettanto forte. Anzi,
capì che già lo era. Si era preso la vita di un figlio di puttana perché voleva
farlo. Volere e potere coincidevano.
“Homo homini
lupus…” sussurrò tra sé e sé. Il lupo. Che scelta banale. Solo i deficienti che
leggono solo le favole ritengono il lupo un animale bastardo, assassino e
feroce. Il lupo è l’animale più palloso del mondo, così ligio alle regole del
gruppo e della famiglia, capace di sacrificarsi per il bene degli altri. Se
l’uomo fosse il lupo dell’uomo il mondo sarebbe un paradiso in terra.
“No”. Si disse tra sé e sé. Io sarò
come questo leone. «Sei una bestia». Riecheggiò in lui la voce di Rosalia.
“No”. Protestò. Le bestie sono stupide. Le bestie sono vittime, in fila al
mattatoio per uscirne fuori come bistecche. Avrebbe deciso lui per la sua vita.
Feroce, potente, al di sopra del bene e del male. Passo dopo passo – già se lo
immaginava – sarebbe stato grande. Avrebbe costruito la sua fortuna. Lui, che
non aveva nemmeno un padre e che viveva solo con una madre iperprotettiva che
tutti sapevano fare la prostituta.
«Io sarò diverso», promise ad alta
voce, incurante della singhiozzante signora De Pretis
e di uno sconvolto Salvatore che aveva accanto.
Un grande grazie
sempre a Cinzia per il betareaderaggio. State connessi che a breve vedremo la
fine!
Un rotolo di scotch da
pacchi al supermercato lo trovi a 70 centesimi. 80 centesimi e vuol dire che ti
hanno fregato. Un oggetto apparentemente da nulla, che in quel frangente
Sakura, soprannominata “il cesso”, utilizzava con maestria per immobilizzare ai
braccioli di una vecchia sedia di legno il target di tutta quella serata. Pochi
centesimi per costringere alla più sicura immobilità la donna da tredici
miliardi di euro.
La contessa Silvana
Serbelloni Mazzanti Viendalmare, già nota ai relitti umani dell’Ufficio
Sinistri come signorina Silvani, era in uno stato a dir poco penoso. Le lacrime
le avevano completamente sciolto il trucco trasformandone il viso in una
maschera repellente. Il naso le gocciolava ancora, tanto aveva pianto. Poco
però si poteva vedere: lo scantinato dell’acquario cittadino era già buio di
giorno. Di notte era ancora peggio: la piccola lampadina da quindici candele
che gli inservienti ogni tanto accendevano quando entravano a recuperare i
sacchi di mangime a malapena permetteva a chi vi si avventurava di guardarsi in
faccia. Figuratevi leggere qualcosa.
«Che volete???». Pianse
ancora la contessa. Il viaggio l’aveva fatto bendata, distesa sotto i sedili
posteriori del Land Cruiser della Toyota.
Sakura il cesso la guardava
impassibile. Quel corpicino brutto e deperito valeva così tanto? Chissà come
era riuscita a conquistare quel vecchio industriale così rigonfio di soldi da
far schifo. Non era bella, non era seducente. Era una specie di cornacchia con
i capelli stopposi e color cenere con le spalle che parevano degli attaccapanni
secondo il design esile e futurista dei primi anni ‘70. Sakura il cesso le
notava subito, queste cose. Del resto, quando a 11 anni sei l’idol più
conosciuta del Giappone, passi più tempo a truccarti, a padroneggiare ogni
dettaglio dell’estetica e della cosmetica, a selezionare i vestiti e a prendere
lezioni di portamento piuttosto che a studiare inutili kanji e l’elenco dei
Tokugawa.
Per Sakura Kazuma
quella era la vita: un viso caruccio e a sette anni te ne stai già a scendere e
a salire dai palcoscenici.A 12 anni sei
la maghetta in un live action sceneggiato male e recitato pure peggio. E poi a
14 anni vieni stuprata da un regista noto a tutti come “lolicon” e da tutti
serenamente tollerato. Lolicon. Un termine che i giapponesi usano per rendere
più simpatica la pedofilia, nel loro simpatico paese dove l’ideale di donna è
la studentessa kawaii 13enne, oggetto rigorosamente passivo. Eppure Sakura
Kazuma non era la ragazzina finta ingenua ma in realtà vogliosa di organi
genitali maschili, seppur nipponicamente striminziti, che certi siti e certe
riviste avevano inciso dell’immaginario comune. Era una bambina. Lo era. Perché
da quel momento non lo fu più.
Era la sua bellezza che
l’aveva condotta lì, da sempre, tra le zanne gialle e rivoltanti dell’orco.
Tutta la sua vita – ora se ne accorgeva- non era altro che una preparazione a quel momento di violenza e
squallore. Il trucco, i vestiti, i balletti, le faccine ammiccanti erano il
sangue con cui aveva attirato lo squalo.
Non si trattò di
stupro. Fu omicidio. Sakura Kazuma infatti morì. Morì al pubblico, morì a sé
stessa, morì all’entourage di manager e addetti del mondo dello spettacolo.
Rimase solo Sakura, ragazza problematica, incapace di studiare, reietta dalla
famiglia. Non doversi più truccare, poter fare di testa sua, fu una vera,
quanto inaspettata, liberazione.
Non era più il corpo
che la conteneva, e nemmeno la maschera di ragazzina kawaii che le avevano
fatto indossare. Era lei. Libera. Libera di vendicarsi.Quando uno della banda, una mattina, prima di
una rapina a un negozio di liquori di Yokohama, l’aveva presa in giro per le
sue occhiaie, per i capelli spettinati e persino per l’espressione crucciata,
per lei fu uno dei momenti più belli della sua vita. Non era più l’idol
prepuberale sulle cui foto provocanti – ora lo sapeva benissimo – riversavano
in modo solipsistico le loro energie schiere di distinti gentiluomini. Ma un
cesso come tanti altri. Un cesso a cui nessuno avrebbe più fatto del male.
La Contessa era invece
un cesso in tutto e per tutto. Ed era lei a farle del male. A bloccarla con
nastro adesivo perché non potesse muoversi. Ma non era questione di sesso o di
ricchezza. Solo di soldi e di potere.
Il buio della stanza fu
interrotto improvvisamente da un’ondata di luce. La porta del corridoio si
apriva.
«Ce ne avete messo di
tempo», redarguì con voce fredda, masticando un chewingum, la ragazza.
«Fatti gli affaracci
tuoi!» la rimise al suo posto Kenzo l’infame. La Belva invece non rispose.
Aveva tutto sotto controllo: il perimetro dell’acquario, chiuso per lavori, era
sorvegliato dagli uomini di Kenzo, per l’occasione vestiti banalmente da operai
edili. Sotto l’ascella, tenuto fermo da una mano, un portatile della Apple.
Quando la donna legata
ai braccioli della sedia vide la Belva, trasalì con uno squittio quasi
impercettibile.
«Kenzo. Cesso». Il
criminale dai capelli d’argento li chiamò puntualmente. «Di là. Nello stanzino
a destra». I due sottoposti si inchinarono velocemente, come da usanza
giapponese così innata da venir rispettata persino dai criminali, e poi
fuggirono verso la porta.
«Che vuoi?», mugolò la
Contessa, così tesa per il suo destino da voler anticipare il momento in cui
sarebbe venuta a conoscenza della sua sorte futura.
La Belva non parlò. Si
sedette nel tavolino di fronte a lei e dal taschino della camicia rosa, dopo
aver infilato una mano nella giacca bianchissima, estrasse un paio di occhiali
da lettura. Poi aprì il portatile e iniziò ad armeggiare con esso.
«Quando prende un
taxi», iniziò, con voce calma e tranquilla, «sa già quanto le verrà a costare?»
Gli occhi gelidi fissi sullo schermo.
La Contessa non
rispose. «Le ho fatto una domanda», continuò, con voce serena e appuntita,
senza distogliere lo sguardo dal computer.
«Ehm…
no», gemette la Contessa.
«E perché non lo sa
prima?» continuò la Belva, inflessibile, digitando alcuni tasti con fare
annoiato.
La Contessa rimase
qualche istante in silenzio, poi provò a spicciare una risposta esauriente:
«Beh… Il tempo… Il traffico… la direzione…». In realtà erano risposte più
confuse che mai.
«Già», sbraitò la
Belva, chiudendo di colpo il portatile e alzandosi in piedi. Sbraitò è in
effetti una parola grossa, in quanto non c’era un filo di rabbia nella voce del
criminale. Piuttosto, alzò la voce per provocare scientificamente il panico
nella ricca ereditiera.
«E dunque anche quando
si domanda a dei professionisti un lavoro come quello che lei ha affidato a me…
Ci possono essere degli inconvenienti». Continuò, girando attorno al tavolino e
avvicinandosi alla donna.
La Contessa strabuzzò
gli occhi. Aveva capito tutto. Tutto questo disastro, tutta questa sofferenza,
dai vetri rotti del Minato Art Museum al sangue versato dal vescovo… Colpa di
quei 20 pippi.
“Chiede 20 pippi in
più”, le rimbombava in testa la voce di Filini, “per il piccolo problemino
incontrato durante il suo lavoretto”. E si maledì, ricordando la sua risposta:
“Esticazzi? Lo paghiamo già abbastanza”.
20 pippi. 20 mila euro.
Il costo di un’automobile di fascia medio-bassa.
La sua vita era appesa
ad un filo per una cifra pari a quello che i dividendi delle sue azioni le
facevano guadagnare in due ore e quindici minuti. Non ci poteva credere
nemmeno. La paura, il terrore più cupo che l’avevano accompagnata negli ultimi
quaranta minuti sfociarono improvvisamente in un’ondata di rabbia. Rabbia, e
incredulità: «Famme capi’, Belva», gracchiò, «cioè… te hai mollato tutto ‘sto
casino, tutte ‘ste sparatorie, ‘sta Cambogia per quello che ce faresti
rapinando Nando er Tabaccaro in giorno de Superenalotto?».
«No», continuò serio la
Belva, gli occhi fissi sul computer. «20 mila euro sarebbero stati mesi fa,
quando ne ho fatto gentile richiesta al ragionier geometra… Come si chiama?»,
alzò gli occhi che pareva non fosse nemmeno più lui, «ah, sì, Filini». Era lì,
nel suo elemento, non aveva bisogno di esercitare chirurgicamente terrore e
violenza. Aveva già vinto, del resto.
«Adesso», continuò,
serio, «con gli interessi, sono 200 milioni di euro».
La Contessa spalancò la
bocca, si dimenticò nuovamente di avere a che fare con un criminale di fama
internazionale e non poté far altro che sbottare in un gutturale “Me cojoni…”.
Poi, però, tra lo sciame di maledizioni, pensieri, ricordi e flashback della
sua vita che le vorticavano nel cervello, individuò un’osservazione
inequivocabilmente vera. Vi si aggrappò, con la disperazione del naufrago,
ostentando una sicurezza che era ben lungi dal provare: «Ah. E come faccio a
darte ‘sti 200 mijoni», continuò, esibendo il suo lato più burino, «quanno so’
qua, senza commercialista, senza assegni, e sicuramente coi conti bloccati come
fanno quando rapiscono qualcuno?». “Voglio vedere”, sperò, “come fa ‘sto genio
a farmeli sganciare”. Ma già sapeva che uno come la Belva non era tipo da
costruire una casa e dimenticarsi di fare il tetto.
La Belva sorrise appena
lievemente, quel tanto che bastava perché la Contessa capisse che la sua
obiezione avrebbe lasciato il tempo che avrebbe trovato. Non che la Belva in
quell’istante fosse particolarmente soddisfatta o godesse nel vedere la sua
preda perdere ogni briciolo di speranza con quel pizzico di dignità che le
avanzava, tra il volto rugoso arrossato dalle lacrime e dai cosmetici.
Semplicemente, quel sorriso era l’ennesimo strumento che il malnato utilizzava
per piegare ai suoi fini la realtà che lo circondava. Esattamente quello che
può fare un assegno con molti zeri o una pistola puntata a una tempia in
contesti diversi. La Belva non provava più emozioni da tanto tempo.
Il tipaccio voltò il
portatile facendolo girare su sé stesso. La Contessa, che aveva imparato a
utilizzare bene i computer giocando sui siti inglesi di scommesse on line
durante l’orario d’ufficio, capì subito che cosa stesse succedendo. Il browser
aveva una ventina di sessioni aperte. Tra le icone in alto riconobbe subito i
loghi di alcune banche dai nomi fantasiosi, che riportavano i toponimi di isole
caraibiche, frutti tropicali e persino di pirati morti in modi orrendi qualche
secolo addietro. E bestemmiò ad alta voce, ormai nuda di fronte alla Belva,
come il giocatore di briscola che getta le carte a metà giro, ammettendo di non
aver ormai più alcuna possibilità di vincere.
«Tranquilla», la
consolò la Belva. Bugiarda come al solito. «Non ne farò parola con l’agenzia
delle entrate né con la magistratura». Rise. «Confesso che ammiro questo bel
sistema di risparmiare sui costi. Creare società fittizie in paesi del terzo
mondo, far sì che siano loro a gestire gli acquisti delle forniture, poi far
riacquistare dall’ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica le materie prime a
prezzo maggiorato. La soluzione è ridurre gli utili, e dunque le tasse da
pagare. Ingegnoso. Davvero ingegnoso».
«Ingegnoso
de che???», urlò la Contessa. «Ma tutti lo fanno in Italia!».[1]
«Meglio», continuò la
Belva. «Perché così possiamo comodamente accedere qui, on line, a questi conti
off-shore che fanno capo a lei. E solo con un clic – magia di internet –
potremo riversare cifre dai 10 ai 30 milioni in altri conti, riferiti a me, in
banche che domani nemmeno esisteranno. Ah, grazie a Dio esiste il capitalismo».
E sorrise, ringraziando in cielo Reagan e la Tatcher, che con il loro
apostolato negli anni ’80 si sono resi artefici della creazione di ricchezze
estreme e di estreme povertà.
«I ragazzini che mi
hanno dato una mano a risalire a questi conti sono bravi, ma non al punto da
capire le diverse password, che però, mie precise fonti, ritengono lei sappia a
memoria», aveva la situazione in pugno. Era quasi gioviale. Ma come il cielo di
un pomeriggio d’agosto, che in quindici minuti passa dal bianco del solleone al
nero dei temporali a bassa quota, la Belva cambiò. Dalla tasca estrasse la sua
solita pistola, rea, poco prima, di aver mandato al Creatore uno dei suoi
sottoposti più fedeli, e, con un movimento simile al gancio di un pugile, la piazzò
di fronte agli occhi della Contessa. Vedeva quella specie di tubo argenteo
luccicare con violenza sotto la luce del neon. Il puzzo di polvere da sparo la
tramortiva. Ma alla Belva non bastò.
La Contessa quasi
svenne quando il criminale avvicinò la pistola alla bocca di lei. Infilò la
canna tra le labbra, cozzò contro i denti con forza, tanto che la donna fu
costretta a spalancare la mandibola e a permettere all’arma di farsi spazio tra
lingua e palato. Si sentì soffocare, umiliata come non lo era forse mai stata.
«Dammi le password».
Intimò, calmo, la Belva. Non più la calma serena di poco prima, ma la calma
omicida di uno squilibrato.
E la Contessa, forse
per la prima volta, tornò a desiderare le gite aziendali di Filini, i fiori
sulla scrivania di Fantozzi, le partite a canasta con le amiche zitelle, brutte
e sfigate come lei. A loro non avrebbero infilato in gola una canna pistola per
costringerle a cedere 200 milioni di euro.
«S-s-signore… ehm…». La
porta si spalancò improvvisamente. Era uno dei ragazzi della squadraccia di
Kenzo l’infame.
«Chi sei?». Disse con
freddezza la Belva, non celando un vulcano di rabbia: lo stavano interrompendo
nel momento clou della sua trasferta giapponese.
«Ehm», continuò
tremando un ragazzino magrolino, con una tinta bionda da teppista, «Kenzo-sama
mi ha detto di avvertirla che abbiamo degli ospiti…».
[1]
E ovviamente anche voi dovreste saperlo, viste le cronache giudiziarie
dell’estate 2013.
La strada era pressoché
deserta, ma l’auto procedeva a non più di trenta all’ora. A sinistra Asuka Jr.
scorgeva l’oceano imperioso. Capiva, in quell’oscurità, che si trattava
dell’oceano, per via delle le stelle che vi si specchiavano. Anche la luna
faceva la sua porca figura. Era la zona dei chioschetti: ogni quattrocento
metri c’era il solito vecchietto dentro il solito chioschetto. Chioschetti e
vecchietti parevano essere fatti a stampo, tutti uguali, per il menù, per
l’odore di calamari grigliati che emanavano, per la clientela che all’esterno,
seduta su precari seggiolini di legno, sfogava la sua tristezza ubriacandosi di
sakè, un liquore per gli occidentali paragonabile all’acqua brillante ma capace
di mandare in coma alcolemico un asiatico di media corporatura.
Yamaguchi, che quei
posti li bazzicava vent’anni prima quando aveva ancora addosso la divisa nera
degli studenti delle scuole superiori, si accorse di quanto la tecnologia
avesse modificato l’aspetto, anche esteriore, di quei chioschi. Non c’erano più
– si accorse con un velo di nostalgia – i carretti di legno trainati a mano. Ma
i vecchietti, vecchi all’epoca, vecchi adesso, erano gli stessi: stesso
fazzoletto in testa, stessi occhiali a fondo di bottiglia, stesso atteggiamento
silenzioso e ricurvo sulle griglie.
«È qui», interruppe
l’Amarcord Asuka Jr.
Yamaguchi condusse
l’auto verso un parcheggio dall’altra parte della strada rispetto all’acquario.
«Non c’è un cane»,
asserì sicuro De Simone, seduto di fronte. In effetti, il quadro era desolante.
L’acquario cittadino, una costruzione moderna di quelle concepite da qualche
architetto con l’erre moscia, il dolcevita nero e gli occhiali da sole tipici
delle rockstar, giaceva nella notte silenziosa come un paziente in sala
rianimazione.
L’unica parte del
complesso intonsa era la recinzione. Per il resto, il mostro architettonico era
circondato da alte impalcature che sembravano divorarlo. L’architetto con
l’erre moscia, infatti, aveva fatto sì il suo bel progettino di dubbio gusto,
ma la ditta che aveva eseguito i lavori, la Saitou, era composta da personaggi
poco raccomandabili: i simpaticoni avevano risparmiato su tutto il
risparmiabile, in particolare sulla qualità dei prodotti. Dopo pochi anni,
infatti, l’acquario, una crepa qui una crepa lì, aveva iniziato a crollare su
sé stesso, rendendo urgente l’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione.
Affidati, per ironia della sorte, sempre alla Saitou, che aveva provveduto
subito a spostare gran parte del materiale ittico vivo in rinomati ristoranti e
in apprezzate pescherie. Anche perché, i giapponesi, basta che nuoti e si
mangiano di tutto: dai vermetti alle balene.
«Il parcheggio è
vuoto», asserì Esposito, dall’alto dei suoi baffoni. In effetti, non una
macchina era stata lasciata nel parcheggio interno. Nemmeno un furgoncino della
Saitou, dato che il cantiere chiudeva per il weekend. A confermare la
desolazione del sito l’estrema oscurità in corrispondenza delle finestre, dalle
quali non emergeva nessuna fonte luminosa, pallida o fioca che fosse.
«Gli scantinati sono
sul retro», osservò, con un pizzico di tristezza, Asuka Jr. «Confermo»,
continuò Yamaguchi. Esposito e De Simone, ovvero polizia e carabinieri, si
guardarono tra loro sbuffando.
Ormai Asuka aveva perso
la speranza. Rispetto all’esordio iniziale, quando aveva ipotizzato con
entusiasmo dove la Belva si fosse rifugiata, a questo punto non ci credeva più.
Se ne sarebbero accorti, se la Belva fosse stata lì. Oppure la Belva si sarebbe
già accorta di loro. Cosa che, evidentemente, non era avvenuta.
«Dobbiamo
controllare?», domandò De Simone.
«Meglio di sì», asserì
Yamaguchi, ligio al dovere. Ma per tutti ormai era un’evenienza da inserire
nello spettro dell’impossibilità. Per una serie di numerose, quanto plausibili
ragioni, che avevano appurato in particolare avvicinandosi al sito. Ragioni che
nessun civile, forse, avrebbe addotto, ma che per uomini di legge, abituati ad
aver a che fare con le logiche dei criminali, erano pressoché ovvie. Innanzitutto
il posto: la strada che conduceva all’acquario era lunga e senza deviazioni,
sebbene il traffico fosse quasi assente, molti erano i passanti. Difficile che
la Belva scegliesse proprio quel posto per rifugiarvisi. E poi, soprattutto,
sul davanti non c’era nessuno che potesse dare l’allarme, magari fingendosi un
metronotte o uno dello staff del cantiere.
I tre uomini di legge
però si incamminarono lentamente verso il cancello.
«Ehi, ma… Non abbiamo
un mandato!», quasi li fermò Asuka Jr., che era rimasto al manuale del giovane
poliziotto.
«Non è una
perquisizione…» ammiccò Yamaguchi, «solo un controllo». E sorrise. «Sta’ qui.
Torniamo subito».
Asuka non protestò. Si
voltò indietro. La macchina era parcheggiata dall’altra parte della strada,
così si poggiò con la schiena su un palo della luce. Vide gli uomini scavalcare
il cancello e scomparire nel buio.
Così si trovò lì,
fermo, ad aspettare. Anche a questo giro sarebbe stato inutile. Ma in quel
preciso istante non era a pezzi, come forse avrebbe potuto immaginarsi in una
situazione simile. Ok, l’idea era stata sua: ma chissà in quanti altri soldati,
carabinieri, poliziotti, vigili urbani italiani e giapponesi, con lunghe e
pluridecorate carriere alle spalle, in quella serata stavano facendo, come lui,
degli immensi buchi nell’acqua.
«Ho perso», ammise. La
Belva sarebbe scappata. Di nuovo – da quel che sapeva. Molto probabilmente non
sarebbe nemmeno più tornata in Giappone. E comprese, con inspiegabile sollievo,
che non sarebbe più stato un problema suo. Anzi. Non lo era mai stato, a
pensarci bene. La giustizia fallisce spesso. L’esperienza gli sarebbe stata
utile.
Era meglio voltare
pagina, forse, per quella sera. Lanciò un’altra occhiata al palazzotto di
fronte a sé e si ricordò di quella domenica mattina. Non c’era il puzzo del
catrame e della malta, ma di caramelle e zucchero filato, misto a quella
salsedine. Sì – sorrise fra sé e sé – poi ci sarebbe stato l’olezzo nauseante
del mangime… Ma con lui c’era Meimi.
Nemmeno se ne accorse:
mise una mano in tasca e ne trasse fuori lo smartphone. Non era uno smanettone:
aveva poche app, tutte piene zeppe di notifiche che imploravano un
aggiornamento. Su Facebook ci stava pochissimo: dal pc di casa sfidava gli
amici a una sorta di Fantacalcio con i giocatori della J-League, tanto che
sulla sua bacheca l’unico elemento che compariva, ciclicamente, erano le
notifiche di quel giochino. Ma non potè far altro che toccare con il dito
l’icona dell’applicazione mobile del mostro succhiavite di Zuckemberg. Cercò
Meimi, vide la sua foto profilo. Scorse le immagini, le foto delle riunioni di
famiglia. E la vide sempre bella. Scrollò gli status. Ogni aggiornamento, anche
il più banale, anche il più bimbominkiesco, gli pareva partorito da una delle
menti più geniali del pianeta. E si ritrovò a cliccare “mi piace” a tutto,
dalle notifiche delle applicazioni, alle immagini di cuccioli imbranati, agli
status in cui la ragazza, non senza errori grammaticali, si lamentava dei voti
ricevuti. Ma subito, imbarazzato, cancellò tutti i “mi piace” sperando che la
ragazza non si fosse accorta di quello stalking digitale.
«Sì», disse ad alta
voce, che tanto non poteva sentirlo nessuno, «sono proprio cotto. Meimi, ti amo
davvero. Forse non avrò mai il coraggio di dirtelo, ma penso sempre a te»,
diceva, davanti a una foto in cui lei aggrediva un gelato da fiera mondiale in
compagnia di alcune compagne di classe. Pochi istanti dopo si ritrovò però su
una delle tantissime pagine create da quella sagoma di Sawatari, uno che
aggiornava Facebook pure durante il dormiveglia. Una dopo l’altra, trovavano
spazio le foto sfocatissime di Saint Tail. In alcune nemmeno si riconosceva, in
altre si vedevano solo degli aloni in cui Saint Tail poteva essere scorta solo
dai manigoldi che fanno le foto nelle case vuote e individuano tra le pieghe
delle tende e gli aloni della luce dei minacciosi fantasmi. E rimaneva
impietrito, lì. Avrebbe dato tutto per catturarla, finalmente. Allungare la
mano ed arpionarla per il braccio. Voltarla, guardarla a tu per tu negli occhi.
Capirla. Parlarci insieme. Prenderci un caffè.
Non riusciva a capire.
I sentimenti che provava per la ladra misteriosa erano completamente diversi
dalla cotta fulminante che si era preso per la sua compagna di classe. Più
agitati e confusi i primi, più profondi e nascosti i secondi. Ma il principio
che li animava era lo stesso. Si maledì, sentendosi sporco. Pensò di mandare un
sms a Meimi, magari, che ne so, chiederle se era impegnata l’indomani… Ma non
doveva essere un appuntamento, quello no… Magari avrebbe avuto bisogno di
ripassare qualcosa… O forse si poteva fare già una riunione preliminare per il
festival scolastico… Avrebbe potuto invitare anche altri per evitare che la
proposta potesse venir equivocata… L’importante era vedersi. Essere fisicamente
nello stesso luogo e nello stesso momento. Stava per inviare un messaggio
generico quando pensò a Saint Tail. “E lei… come si sarebbe sentita?”. Ma in una
frazione di secondo si animò. Guardò l’ora: erano passati otto minuti.
Un’eternità. Yamaguchi, De Simone ed Esposito non erano ancora tornati.
Mise il telefono in
tasca e si avvicinò al cancello. Si affacciò, cercando di strabuzzare gli
occhi: non vide nulla. Estrasse il telefono, aprì la rubrica, e poi si accorse,
tragicamente, di non avere nessuno dei tre numeri in memoria. Cosa doveva fare?
Chiamare suo padre?
Dei passi dietro di
lui. Si girò di scatto, ma capì, improvvisamente, di non avere nulla da temere.
Barcollando, avanzava il classico impiegato del venerdì sera: magro come il
Biafra, aveva una cravatta legata attorno alla fronte ed era ubriaco da fare
schifo. Un prodotto tipico dei chioschetti giapponesi, quasi quanto i calamari
e gli okonomiyaki.
«Ragazzo», esordì, non
nascondendo un singhiozzo simile a un conato. «Sei impegnato qui a quest’ora?
Gli studenti ai miei tempi tornavano a casa ben prima». L’etilista fece alcuni
passi in avanti, poi, non si capisce bene come, inciampò intrecciando la sua
gamba sinistra con la destra, e si ritrovò per terra, colpendo l’asfalto con la
faccia.
Fu l’istinto da boyscout
che lo fregò. Asuka Jr. corse verso l’impiegatuncolo per aiutarlo a rialzarsi,
ma si ritrovò ad avere a che fare con un tipo dal volto lucidissimo, che lo
guardava, sdraiato, con in mano una pistola luccicante.
«Sta’ zitto o sparo»,
lo fulminò. Asuka rimase pietrificato. “Avevo ragione”, fu la prima cosa che si
disse, “ci hanno fregato come dei polli”. L’ometto si rialzò, pian piano, ma la
pistola rimase sempre lì, ferma, puntata contro Asuka Jr. Il cancello, dietro
di loro, si aprì.
Due omacci ne
spuntarono fuori e afferrarono per le braccia Asuka. Il finto impiegatuncolo si
rigirò, e scomparve di nuovo nella notte, direzione chioschetti.
“Era di guardia!” si
maledì Asuka. A quanto pare, nessuno degli uomini di legge aveva pensato a
questa possibilità, ovvero al fatto che, tra gli ometti ubriachi e i vecchietti
taciturni, la Belva avrebbe potuto schierare non uno, ma tre corpi di guardia al
gran completo.
I gorilla lo
trascinarono verso il retro con forza, come se fosse un oggetto inanimato da
trasportare da un punto A ad un punto B. Una delle porte di servizio
dell’acquario si spalancò, violentemente. Gli omacci e Asuka vi entrarono, poi la
porta si chiuse di scatto, con efficienza.
Lo trascinarono per un
breve corridoio, lo toccarono ovunque, sottraendogli il portafoglio e il
cellulare con una violenza tale da strappargli un lembo della giacca. Poi,
aprirono una porta e lo sbatterono a terra con violenza.
«Hanno preso anche
lui». Era De Simone, quasi piangeva. Asuka alzò gli occhi. Yamaguchi, De Simone
e Esposito erano in piedi, a ridosso di un muro. La stanza era
inequivocabilmente una sala caldaie. Alcuni barilotti arrugginiti giacevano in
piedi, interconnessi tra loro da altrettanto arrugginiti tubetti di metallo.
Proprio a questi il poliziotto, il casco blu e il carabiniere erano
ammanettati.
«Ci siamo cacciati
proprio in una brutta situazione», osservò sorridendo, ma con una strana voce
ovattata Yamaguchi, che pure in quel momento non rinunciava alla sua
giovialità. De Simone singhiozzava: «Avremmo dovuto capirlo, avremmo dovuto
capirlo…» Esposito non fiatava.
Asuka si alzò,
dolorante. Lo avevano sbattuto veramente forte. La luce della caldaia era
pressoché nulla, ma si accorse, con orrore, dei volti tumefatti dei tre
“colleghi”. Esposito perdeva vistosamente sangue dal labbro e aveva un bozzo
sulla fronte, tanto che penzolava a metà strada tra la veglia e l’incoscienza,
Yamaguchi mostrava un naso irrimediabilmente sfondato. Il conciato peggio,
forse, era De Simone, il cui viso era pressoché irriconoscibile.
Il cervello di Asuka
iniziò a turbinare su sé stesso. Poi, semplicemente, si spense.
Avrebbe potuto
immaginare come uscire da lì, avrebbe potuto pensare alla possibilità che suo
padre o qualcun altro potessero venire e salvarlo. Ma non ci riuscì. Si limitò
a fissare per alcuni minuti buoni, i tre uomini di fronte a lui.
«Ci hanno puntato dei
fucili addosso… Sono sbucati non so da dove», ansimava De Simone, «non abbiamo
fatto in tempo a… a…». Non aveva nemmeno le energie per completare la frase.
«Ci terranno qui, poi
ci libereranno. O chiederanno un riscatto», continuò con voce buffa Yamaguchi.
Parlare col setto nasale sfondato ne fa di questi effetti. «Se avessero voluto
ucciderci l’avrebbero già fatto. Avevi ragione, Asuka», continuò Yamaguchi,
«erano qui. Ti chiediamo scusa per averti messo in questa situazione».
Ma Asuka non ascoltava
nemmeno. Si limitava a starsene lì, in piedi, sperduto. Non aveva nemmeno preso
in considerazione la possibilità di aiutare gli uomini a liberarsi. E, anche se
l’avesse fatto, nessuno ci sarebbe riuscito. Con quelle manette, poi…
La porta si aprì. Asuka
si svegliò immediatamente dal torpore e si attaccò al muro, spaventato come un
gattino di pochi mesi. Entrò un ragazzino coi capelli tinti di biondo. Lo
seguiva, distinto e feroce come al solito, il criminale italiano dal vestito
bianco sgargiante. Pareva fosse entrato il diavolo in persona.
«Come hanno fatto?» si
domandò, con calma assoluta, la Belva.
«Li hanno trovati qui
intorno e li hanno presi prima che potessero lanciare l’allarme», replicò con
ansia il ragazzino biondo.
«Come hanno fatto a
trovarci…», continuò la Belva, lentamente. Pareva imitasse quell’attore bravo
che faceva Severus Piton in quella serie di film scadenti su Harry Potter.
«N-n-non lo so…», tremò
il ragazzino.
«KENZO!!!», urlò la
Belva. De Simone squittì, chiudendo gli occhi e stringendosi ancor di più su sé
stesso, cercando di trovare, inutilmente, una protezione che nessuno poteva
fornirgli. Era la persona, in quella stanza, che conosceva meglio la Belva,
avendo vissuto al fianco di Auricchio tutti quegli anni di caccia. La Belva era
uno scacchista sovietico. Nulla lo provocava e nulla lo toccava. Sentirlo
urlare, anche solo per chiamare qualcuno, quasi lo fece svenire.
L’infame entrò di corsa
nella sala caldaie. Ansimava.
«Chi sono?». La Belva
parlò di nuovo a voce bassa, ma il sismografo della sua rabbia non era sceso di
un millimetro.
«Ho fatto alcune
ricerche fino ad adesso», si scusò.
«Dimmi chi sono»,
insistette la Belva. Tra la voce apparentemente calma un osservatore attento
avrebbe potuto notare il principio di un ringhio.
«Allora. Giovanni
Esposito, carabiniere italiano…»
«Auricchio ha chiesto
rinforzi, dunque. Me lo aspettavo», commentò la Belva.
«Il secondo», continuò,
«è Yuto Yamaguchi. Forze speciali, alcuni anni distaccato nelle Nazioni Unite».
La Belva non fiatò.
«Il terzo è…»
«Il terzo lo conosco.
Dimmi chi è il ragazzino». Tagliò corto la Belva.
«Beh… Non ci sono dei
record veri e propri… Ma quello che si sa in giro», tentennò l’Infame.
«Cosa si sa in giro?».
La rabbia della Belva era palpabile.
« Daiki Asuka Junior.
Per mandato del sindaco aiuta la polizia locale alle indagini sui furti di
Saint Tail, la ladra ragazzina. L’anno scorso mi ha rubato una collana di perle
prima che potessi rivenderla…»
«La ladra ragazzina?»,
riprese la Belva, «quella che si è presa il quadro dall’auto di quel cretino di
Fracchia?».
«Sì, dovrebbe essere
stata lei».
«Capisco». Sospirò la
Belva. «Dobbiamo trovare una soluzione».
«Ah», continuò Kenzo,
«è figlio di Tomoki Asuka, che qui è il capo della polizia».
La Belva si voltò.
Sorrideva. Ed era un sorriso sincero.
La pancia di Asuka
iniziò a brontolare. Un tremolio si impossessò del suo braccio destro. Senza
che se ne accorgesse, la mascella iniziò a battere ritmicamente, con sempre più
violenza, contro la mandibola. Mancò poco che se la facesse addosso. Era un
ragazzino. I suoi compagni, a quell’ora, già dormivano da parecchio: i pochi
svegli, in quell’istante, se ne stavano a sparacchiarsi tra di loro con
l’ultimo Call of Duty o a ricercare raffinate immagini sul web in cui ragazze scheletriche
venivano ricondotte a ragione dalla gravità a causa di seni prosperosi che
manco Marisa Laurito negli anni d’oro. Lui invece era lì, di fronte a un
assassino, incapace di difendersi.
«Mi lasci andare», si
ritrovò quelle parole in bocca senza nemmeno averle pensate. Erano una
preghiera. Una supplica.
La Belva rise.
«Portatelo di là, nel magazzino», ordinò. Gli omoni di prima entrarono nella
stanza, e afferrarono il poveraccio.
«Di loro che
facciamo?», domandò Kenzo con un filo di voce.
«Prendete il capellone
e portatelo di là, dove ci sono gli spogliatoi del personale. Ci faremo
raccontare quali sorprese ha in serbo per me il caro Auricchio». Il ragazzino
biondo guizzò, veloce come uno scoiattolo. Con una chiave liberò De Simone
dalle manette che gli crollò praticamente addosso. «Tirategli fuori quello che
sa, con ogni mezzo».
«E gli altri?».
Insistette il boss della Yakuza.
«Uccideteli». Decretò.
Con lo stesso tono con cui il direttore di una filiale di campagna di un banco
di credito cooperativo chiede al barista di fiducia, alle 8.20 del mattino,
prima di aprire l’ufficio: “Il solito”.
Asuka Daiki Junior si
ritrovò all’età di cinque anni. Era seduto su una panchina troppo alta per lui
in un lungo corridoio dalle pareti color bianco. Ne approfittava per dondolare
ritmicamente le gambine nel vuoto, mentre attendeva che il papà venisse fuori.
A badare a lui c’era una signorina vestita di bianco, che se ne stava seduta di
fianco a lui. Era lì, immobile, da parecchio. E con una mano gli accarezzava la
testa e gli arruffava i capelli. Gli stava simpatica quella ragazza. Ma non gli
piaceva quel posto.
Per troppi giorni lui e
suo papà venivano lì ad aspettare di parlare con la mamma. E non capiva perché
quegli uomini lì volevano tenersi la sua mamma con loro, e la obbligavano a
rimanere lì a letto ferma e le facevano bere continuamente tanti sciroppi
cattivi. Peggio che peggio, le facevano continuamente delle punture che non le
dovevano fare poi così un gran bene, dato che giorno dopo giorno la mamma era sempre
più magra e i capelli nella sua testa erano sempre di meno.
Lui era lì però, in
quel momento, perché suo papà, prima di entrare dentro, gli aveva detto che
doveva starsene buono il più possibile, se voleva che la mamma stesse bene.
E allora era lì, fermo,
immobile, ad aspettare. Ore su ore. Unica licenza, quel dondolio innocuo di
gambe che non disturbava nessuno, anzi, ricordava che in quel lungo corridoio
un po’ di vita c’era ancora.
«Papà!». Suo padre uscì
dalla stanza. Teneva la giacca arrotolata sotto l’ascella. La cravatta era
allentata e la camicia spiegazzata e piena di aloni denunciava l’agitazione di
quelle ore. Il padre si girò verso di lui. Aveva il viso rosso, respirava dal
naso. Ma gli occhi lo guardavano con una dolcezza profonda. Uno sguardo da
madre, più che da padre.
«Daiki». Non disse
altro.
«La mamma?». Domandò,
unendo le sopracciglia in una specie di broncio che un broncio non era.
«La mamma», la ragazza
vestita di bianco strinse il bambino attorno a sé soffocando un singhiozzo, «la
mamma è in cielo. Daiki».
La prese così.
Semplicemente. Sua mamma era in cielo. La prese magnificamente, per come può
prenderla un bambino di cinque anni. Ma un vuoto lo divorava.
E adesso quel vuoto si
mise a gridare.
«NOOOO!!! Non fategli
del male! Non fate loro del male!!!».
Il ragazzo iniziò a
scalciare, a divincolarsi, ma la stretta degli omoni era invincibile.
«NNOOOOO». Urlava, la sua voce si consumava, il timbro era così alto che pareva
una voce femminile.
«Paolo» ringhiò
Esposito, ridestatosi, «sì, ti chiamo per nome, brutto pezzo di merda! Ti
prenderanno, lo so, ti prenderanno. E ti prenderanno qui, in Giappone, dove c’è
la pena di morte. Io muoio per il dovere, tu morirai come un cane». Era eroico,
ma dal suo corpo trasaliva il panico che le bestie esprimono al mattatoio. Il
ragazzo continuava a gridare, mentre gli omini lo trascinavano via.
«Asuka», udì, era la
voce di Yamaguchi. «Sarai un ottimo poliziotto un giorno».
Sentì un rumore secco.
Era la porta che si chiudeva.
Le indagini non
riuscirono a stabilire con esattezza chi avesse eseguito materialmente l’ordine
della Belva. Troppa confusione nella scena del crimine. L’autopsia stabilì che
Yamaguchi morì sul colpo, mentre Esposito sopravvisse per alcuni minuti. Con il
cranio spappolato e un occhio che gli pendeva sulla guancia, secondo le
deposizioni di alcuni membri della cosca di Kenzo, continuò a ripetere, con la
bocca gorgogliante di sangue, alcuni nomi.
Ricordarono, tra i
tanti, Massimiliano, Domenico, Filippo. Li aveva visti morire, quella mattina
di novembre, a Nasiriyya. Ora li raggiungeva.
Era un oggetto come gli
altri all’interno del vasto magazzino.
Attorno a sé scorgeva
ogni sorta di paccottiglia: era uno di quei posti dove i protagonisti degli
show di History o Discovery Channel sarebbero andati in coma diabetico. Vetrate
di diversi colori e misure, un distributore di caramelle di quelli che metti la
moneta e poi giri la manovella, ovunque graffiata, strani pesci di plastica un
tempo appesi alle pareti, attrezzature di ogni tipo e per ogni gusto. Quando
c’era da spostare qualcosa, all’acquario, per dei piccoli lavori di riparazione
o semplicemente per dare il giro alle scenografie di quel ricettacolo di grazie
di Nettuno, si ricorreva immediatamente al magazzino. Quest’ultimo, a braccia
aperte, accoglieva ogni oggetto sperduto, e se lo sarebbe tenuto così stretto che,
complice l’oblio di impiegati e addetti, spesso all’acquario preferivano
ricomprare la roba, quando serviva, piuttosto che costringere qualche povero
cristo a perdere giornate e giornate per vagare tra i meandri del magazzino in
cerca di una presa tripla o di una cornice di legno.
Asuka si sentiva come
quegli oggetti. Erano stati abbandonati lì per caso o per scelta, ma
funzionavano ancora, avevano ancora uno scopo, un valore. Ma il caso o chi per
lui li avevano fatti finire là, dimenticati. Nessuna luce li avrebbe più
illuminati, nessun bambino avrebbe spesso 10 yen per estrarne una caramella
dura all’esterno e gommosa dentro. Anche lui, con tutta probabilità, non
sarebbe più uscito da quel magazzino. Forse, solamente dopo parecchi anni,
sotto la forma di alcuni irriconoscibili pezzetti d’osso. Magari rosicchiato
dai topi.
Sarebbe morto quella
sera stessa, ne era certo.
Gli omoni lo avevano
sbattuto sul pavimento con molta più violenza di prima: Asuka Daiki si era
rialzato da terra, urlando, come impazzito. Nelle orecchie il rimbombo di quei
due colpi di pistola. Fu in quel momento che uno dei due omazzi lo tramortì al
terreno con una manata che alle fiere di paese comporterebbe la vittoria del
peluche più grosso.
Esposito e Yamaguchi
erano morti – meditava, a terra, tra alcune ruote che potevano essere di
carriole o di monocicli – perché la Belva avrebbe dovuto risparmiare invece
lui?
Ci mise pochissimo a
fare uno più uno e capire l’unico, possibile, motivo: fargli domande,
torchiarlo sul perché suo padre gli stesse dando la caccia assieme agli
italiani. Poi, ovviamente, lo avrebbe ammazzato lì, sul posto. Magari lo
avrebbe finito con una pistolettata in fronte, o lo avrebbe soffocato con un
sacchetto di plastica. L’unica certezza è che entro poco non vi sarebbe stato
più nessun Asuka Daiki Junior.
Esisteva veramente una
vita dopo la morte o era un’invenzione dei preti e delle miko? Non lo sapeva.
Sapeva solo che il panico lo stava avvolgendo. Non lo avevano legato: in quel
momento era libero. Sarebbe stato – forse – anche libero di scappare. Ma tutti
sapevano che non lo avrebbe mai fatto. Ormai era impotente. Impotente come il
suo piede sinistro, che continuava a battere ripetutamente il pavimento con il
tallone. La gamba gli tremava, come in preda agli spasmi. E sì, se lo sentiva,
in pochi minuti se la sarebbe fatta addosso.
Non voleva morire, non
voleva che tutto finisse lì, in quell’istante. Suo padre sarebbe morto con lui:
non aveva altri al mondo a cui voler bene. Dopo la perdita della moglie,
infatti, nessun’altra donna era riuscita ad entrare nel suo cuore. Tutte le sue
storie con raffinate impiegate, imprenditrici, idol stagionate – infatti – si
concludevano dopo poche settimane: Asuka Daiki Junior lo sapeva benissimo.
Nonostante suo padre cercasse di sostituirla di volta in volta con milfone di
mezza età dalle ottime credenziali, nessuna sarebbe stata in grado di prendere
il suo posto. Sua madre era stata la donna della sua vita. Quand’era morta lei,
era scomparso anche quel tipo di amore, che mai si sarebbe ripetuto. L’unica
cosa che rimaneva al signor Tomoki Asuka, era quel figlio al quale aveva
trasmesso tutto, persino ogni dettaglio fisiognomico.
Non doveva spegnersi
lì. Poi, però, il terrore si trasformò nell’angoscia più nera.
«Meimi», disse, «io ti
amo», ma parlava al nulla, baciato dai sottili raggi di luna che entravano
dalle finestre in alto, che guardavano all’altezza della strada.
Non l’avrebbe più
vista. Negli occhi gli sarebbe rimasta solo la meravigliosa immagine di lei
bellissima, con i capelli raccolti e con addosso quel fantastico abito rosa.
Una principessa. E lui era il suo principe. Ma la storia non avrebbe avuto, in
quel caso, un lieto fine.
Si ricordò della
lezione di letteratura del martedì precedente, quando suor Akemi, in vista
dell’ennesimo inutile compito in classe, stava ripassando le peculiarità e i
compiti dell’Olimpo della mitologia classica. Diana – aveva appreso con stupore
– non era solo la dea della caccia e Apollo non era solo il dio del sole.
Secondo gli antichi greci, infatti, quando una ragazza nel fiore della
giovinezza e un ragazzo nel pieno della forza improvvisamente tiravano le
cuoia, stroncati da infarto o da un aneurisma, la colpa non era della sfiga o
della genetica, ma dei due fratelli olimpici, i quali, da perfetti stronzoni
invidiosi e figli di papà, quando beccavano per strada qualcuno più bello di
loro si divertivano a stenderlo con una freccia a tradimento, mandandolo al
creatore senza passare dal via.
Quella che avrebbe
dovuto affrontare da lì a pochi minuti non sarebbe stata morte istantanea, ma
sicuramente un dio l’aveva invidiato. Vestito di tutto punto, pur con lo
smoking con cui avevano seppellito Mino Reitano, aveva passato la serata con
una ragazza splendida, per la quale si era accorto sempre di più di nutrire un
amore sconfinato. In quel frangente, stretto dalla drammaticità di una fine che
ormai percepiva come prossima, non nutriva alcun dubbio: con Meimi sarebbe
potuto essere felice. Non c’era più lo spazio per le masturbazioni mentali
tipiche della sua età, e vide la situazione con una chiarezza disarmante. Fuori
da lì lo avrebbe aspettato solo amore. Dentro quel magazzino seminterrato,
invece, solo la morte.
Era già a terra: si
girò, faccia contro il pavimento, e si ritrovò a colpire le mattonelle di
terracotta con il pugno destro. Dal terrore, passando per l’angoscia, era
infine giunto alla rabbia.
«Porca puttana!».
Avrebbe perso tutto. Non le avrebbe mai detto: “Sai, non sei così brutta come
in classe”, o “Sai che mi sei simpatica” o “Ti amo, voglio passare tutto il
resto della mia vita con te”. Non l’avrebbe mai abbracciata stretta. Né
conosciuto il dolce sapore e il calore infinito che si racchiude nell’intimità
di un bacio, di una carezza, di una notte passata insieme nel bagliore di una
luce che sembra non finire mai semplicemente perché non può finire mai.
Se la Belva fosse
entrata nella stanza e gli avesse messo di fronte un modulo prestampato da
firmare, un documento che gli avrebbe garantito una settimana di libertà per
andare da Meimi, confessarle il suo amore e tutto il resto, a patto di tornare
a distanza di sette giorni per essere barbaramente ucciso, lo avrebbe siglato
all’istante.
E accanto alla figura
di Meimi gli balenò in testa il codino di Saint Tail. Anche per lei
un’attrazione infinita. Ma era amore? Forse non l’avrebbe mai scoperto.
Sarebbe tutto finito
lì.
Figuratevi lo scoppio
di gioia che lo avvolse pochi secondi dopo. Forse non ci credeva, lo ritenne
per un istante addirittura un parto della sua mente traumatizzata. Ma fu
proprio così che andò.
«Ragazzo, sta’
tranquillo. Non morirai». Non se n’era nemmeno accorto. La Belva era entrata
nel magazzino senza fare rumore. Con gli occhi offuscati dalle lacrime, vide
una macchia bianca indistinta, che in pochi secondi si concretizzò in un uomo
di mezza età, capelli argentei e che teneva con le braccia, come se la stesse
accarezzando, una robusta sedia di legno provvista di comodi bracciali.
Asuka scattò in piedi,
come un gattino impaurito. La Belva sembrò non badarci: guardava dritto e
camminava verso il centro della stanza.
«Ragazzo, te lo ripeto.
Non mi serva che tu muoia». La sua voce era glaciale: il che era meraviglioso.
Non c’era nemmeno il più piccolo indizio che stesse mentendo.
«Siediti», disse il
criminale, dopo aver posato la sedia. Erano soli nella stanza. «Siediti». La
Belva ripeté il suo messaggio: non cambiò né timbro di voce né intonazione. Ma
questo bastò ad Asuka a scattare come manco Usain Bolt a Pechino e incollare le
terga sulla sedia di legno come un magnete Pirelli a una lastra di alluminio.
Si trattava di una banale sedia da giardino, di quelle che puoi lasciare fuori
al freddo tutto l’inverno a ricoprirsi di foglie marcite e che in primavera,
con un veloce passaggio di strofinaccio, tornano pronte ad accogliere chiappe
vacanziere. Asuka junior, in condizioni normali, avrebbe fatto esattamente il
contrario di quello che gli ordinava un criminale come lo stragista italiano,
ma aveva visto in quella notte cupa un barlume di speranza, e decise di
aggrapparvisi con ogni energia residua. Del resto, non è che avesse troppe
alternative.
«Aspettami». Continuò
la Belva, voltandosi verso la porta. Il ragazzo non era legato né bloccato in
alcun modo. Nessuno però avrebbe dubitato che il giovane detective se ne
sarebbe stato lì, fermo e impalato, ben lungi dal fare sciocchezze.
Non lo voleva morto. Si
toccò la fronte con la mano destra, accorgendosi, tra lo sporco della polvere e
qualche piccolo livido, di grondare di sudore. Strano: non gli pareva di stare
sudando. Brividi freddi lo avvolgevano, mentre dalla bocca, ritmiche,
espirazioni ed inspirazioni si accavallavano facendogli gelare i denti. Odiava
la Belva Umana? Certamente: era un criminale senza scrupoli, aveva messo in
pericolo un sacco di persone, aveva ucciso e fatto uccidere delle brave
persone, quella serata. Ma in quel momento gli pareva persino bello, un dannato
fascinoso coi capelli scarmigliati che lotta da solo contro il sistema, un
criminale alla Felice Maniero, di cui tutti condannano le azioni ma per il
quale, tutti, fanno segretamente il tifo. Dopo pochi secondi, scuotendo la
testa che sentiva ormai arroventata, maledì in cuor suo la sindrome di
Stoccolma. “Chissenefrega”, ammise a sé stesso. Avrebbe fatto qualunque cosa
per uscirne vivo. Meimi sarebbe stata lì, ad aspettarlo. Anche se ferito
nell’orgoglio, si sarebbe goduto la sua vicinanza. Anzi – i neuroni del suo
cervello erano sicuramente più sfacciati di lui – avrebbe potuto sperare
addirittura che Meimi sarebbe stata travolta da un’acuta sindrome da
crocerossina.
Era lì a fantasticare
degli abbracci e degli sguardi puccettosi che avrebbe riscosso da Meimi quando
il criminale rientrò nel magazzino. Con sé, una piccola valigia. Sembrava una
banale ventiquattrore di pelle, ma il ragazzo si accorse presto che era un po’
troppo squadrata e che il braccio con cui la Belva la teneva era troppo rigido
perché dentro vi fossero solo vestiti e documenti. E, cosa ancor più
preoccupante, a differenza di prima, la Belva si era immediatamente girato
sulla porta che si chiudeva per dare due buoni giri di chiave. La speranza,
però, era troppo forte perché potesse svanire del tutto. Guardò verso il
lucernario del magazzino seminterrato. Entrava un po’ di chiarore della luna.
Quante lune piene aveva visto, dando la caccia a un’ombra profumata…
Il criminale posò la
valigia per terra e la aprì, in direzione di Asuka junior, che non ebbe dunque
modo di osservarne il contenuto. Se ne stava lì, inchiodato ai braccioli, non
muovendosi di un millimetro.
«Adesso ti dico che
facciamo», esordì la Belva, la voce ferma e serena, mentre armeggiava tra il
contenuto della valigetta. «Quello che sto tirando fuori da qui è corda. Solo
corda. Ti legherò alla sedia. Rimarrai lì tra le venti e le trenta ore. Ci
darai giusto il tempo di lasciare il paese. Poi, una telefonata anonima
avvertirà le autorità della tua presenza qui». Non stava mentendo: dal
coperchio della valigetta aperta Asuka intravide con certezza le spire di un
gomitolo di spago. Era lo spago sottile che si usa per stringere i plichi:
leggero ma resistentissimo.
La Belva si alzò. Oltre
allo spago, in mano, aveva una forbice e un rotolo di nastro adesivo da pacchi.
Asuka rimase paralizzato. 30 ore, forse addirittura due giorni, immobilizzato a
una sedia. L’avrebbero trovato stremato, in uno stato a dir poco pietoso,
incrostato di escrementi secchi e puzzolente d’urina, senza più dignità. Ma
vivo, almeno. Il ragazzo comprese. Era già fantastico così. La Belva se la
sarebbe svignata, ma non avrebbe avuto il giovane detective sulla coscienza. E
non sembrava il tipo in grado di uccidere bambini appena usciti – a malapena –
dalla fase della pubertà. Non fece alcuna resistenza dunque quando la Belva,
senza mai fissarlo negli occhi, gli afferrò il polso, lo strinse con forza al
bracciolo e iniziò a girarvi lo spago attorno. Era impotente, ma ormai Asuka
aveva fatto la sua scelta: non avrebbe potuto fare in altro modo. Sapeva che
non si sarebbe mai pentito di quella scelta.
«Che ci facevi lì?».
Ruppe il silenzio la Belva. Dopo tre secondi – interminabili – di silenzio,
Asuka domandò: «Lì dove?».
«Al museo». Precisò la
Belva, col suo solito tono di voce piatto.
«E-e-ero lì per Saint
Tail».
«Saint Tail. Ragazza
particolare, no?».
«Già». Pareva il
lamento di un broker di Wall Street, la sera, in un bar di New York di fronte a
un whiskey di riserva, dopo una dura giornata a speculare sul debito pubblico
italiano. Ma era invece solo un ragazzino che veniva legato a una sedia da un
assassino al cui confronto Ted Bundy[1] era Ned
Flanders.
«Tu dunque, saresti…».
«Quello che le dà la caccia. Mi ha dato mandato il sindaco», continuò,
mordendosi immediatamente la lingua. Stava parlando troppo. Era in piena
sindrome di Stoccolma.
«E perché le dai la
caccia?», continuava la Belva, questa volta afferrandogli un piede e
legandoglielo a una gamba della sedia.
«Perché è giusto
così…», parlò, ancora una volta senza aspettare troppo.
«Ah», sospirò la Belva,
«la giustizia. Quanta gente che parla di giustizia. Esiste la giustizia?», ma
parlava con sé stesso, in ginocchio, mentre ricopriva con lo scotch da pacchi i
giri di spago attorno alla gamba sinistra del ragazzo. E Asuka, forse
fortunatamente, non rispose a quelle domande retoriche.
«La giustizia…»,
continuava la Belva, «… come quella di tuo padre. È il capo della polizia di
qui, giusto?».
Suo padre… Che
c’entrava suo padre? Asuka rimase in silenzio alcuni istanti, nel tentativo di
formulare una risposta, ma la Belva, improvvisamente, mutò atteggiamento, e
ruggì: «Ti ho fatto una domanda». Serafico, ma dagli occhi parevano uscire
scintille.
«Sì», esordì in fretta
Asuka junior, «mio padre è il capo della polizia».
«Ed era lì stasera…»,
non era una domanda. «Sì, certamente», tremò il ragazzo. «Con Auricchio»,
concluse la Belva. Asuka Daiki rimase in silenzio.
Ormai la Belva aveva
finito il suo lavoro. Si voltò, e andò in direzione della porta. Il battito del
cuore di Asuka accelerò all’impazzata. Era l’ultima volta che lo vedeva? E se
avesse mentito? Se lo avesse lasciato lì a morire di fame? Grazie a Dio non gli
aveva coperto la bocca. Al massimo, a forza di urlare, qualcuno si sarebbe
accorto di lui. Ma non era comunque una bella prospettiva.
La Belva fece per
toccare la porta, ma la valigia – si accorse con preoccupazione Asuka – era
ancora lì a terra.
«Sai…», la Belva si
girò di nuovo verso il ragazzo, «di solito non racconto ad estranei quello che
faccio. Ma dato che siamo ormai in sintonia farò un’eccezione con te».
Asuka deglutì.
«Questa era una
faccenda esclusivamente tra italiani, che per una strana serie di coincidenze
si è svolta in trasferta, qui, in Giappone». E si avvicinò verso il giovane
legato.
«Non capisco», continuò
la Belva, «perché tuo padre e la sua polizia si siano intromessi. Ho dovuto
fare quello che ho fatto, lo capisci?». E gli mise, quasi paternamente, una
mano sulla testa. «Vedi… Nel mio lavoro, la reputazione è tutto». Si chinò verso
di lui. I suoi occhi erano a pochi centimetri da quelli di Asuka. Il ragazzo
poteva annusarne l’alito: menta freschissima, glaciale quasi quanto lui.
«Ho dovuto eliminare
quei due, il carabiniere e il vostro poliziotto. Lasciarli in vita sarebbe come
stato gridare al mondo: “Sono un debole”. Nel mio ambiente non si può fare». La
Belva si girò di scatto, quasi ridendo: «Ma che ne puoi sapere tu. Sei solo un
ragazzino». Ma aveva ben stampato negli occhi lo sguardo di disprezzo di Asuka,
che voleva sì sopravvivere ad ogni costo, ma che non poteva nascondere l’odio
che provava per quel senzadio.
«Sei solo un
ragazzino», continuò la Belva, che si mise a girare attorno alla sedia, «mi
sono informato su quella Saint Tail. Se fosse stata una professionista saresti già
morto cento volte. Ma è una ragazzina come te. Inutile. Ragazzo, mi dispiace
dirtelo, ma non vali nulla». Asuka strinse i pugni, ma la Belva era girato per
accorgersene. E comunque, era troppo per lui. «So per certo che te la sei fatta
sfuggire in un’infinita serie di occasioni. Per non parlare di come ti sei
fatto prendere stasera. Il trucco del vecchio ubriaco. Sei un dilettante».
Era la Belva in tutta
la sua scaltrezza. Perfido e distruttore. Sapeva che una delle poche ragioni
per cui Asuka Daiki Junior si svegliava la mattina era quella di diventare, un
giorno, un poliziotto. E ora, lo stava demolendo. Perché, in fondo in fondo,
Asuka, sapeva che aveva ragione. Del resto, quello che si trovava legato lì era
lui, impossibilitato a pensare alla fiducia che molti riponevano nel giovane
detective, sindaco e capo della polizia –suo padre –compresi, del fatto
che in quel mare di uomini di legge lui era l’unico che aveva capito dove la
Belva si nascondesse e altri piccoli dettagli che non gli sovvenivano.
«Guarda. Segui il mio
consiglio. Pensa a un’altra carriera. Fa’ qualcos’altro. Sta’ sicuro e vivrai
una vita lunga». E si avvicinò di nuovo verso la porta. Asuka combatté
seriamente per non urlargli contro qualcosa. Ma ci teneva alla vita, ci teneva
a stare in salute. Ci teneva a rivedere Meimi. Forse avrebbe seguito davvero il
consiglio della Belva, ma una parte piccolissima dentro di lui gridava a gran
voce che era nato per fare il poliziotto, e sapeva, armato della virtù dei
folli, che non avrebbe mai desistito da quel disegno, seppur difficile e irto
di ostacoli di ogni tipo. Deglutì e guardò in basso. Ora voleva solo che la
Belva se ne andasse per sempre. Aveva vinto lui. Chissà dov’era la contessa, in
quel momento.
«Un’ultima cosa». La
Belva si fermò davanti alla porta. «Ho bisogno che tu rechi un messaggio a tuo
padre, Asuka Tomoki senior». In due passi era di nuovo di fronte ad Asuka.
Il ragazzo alzò gli
occhi, ma non appena alzò il volto avvertì all’altezza delle guance un brusco
spostamento d’aria. Non fece in tempo a girare le pupille verso l’origine di
quel movimento che il destro della Belva lo colpì violentemente sul naso. Sentì
un crack, un dolore secco. Improvvisamente, non riuscì più a respirare. Le
labbra in pochi istanti gli si fecero prima pesanti, poi bagnate, poi delle
gocce gli caddero sui risvolti della giacca blu e tra i bottoni della camicia
bianca.
Non
era sudore.
Gli aveva rotto il
naso. Gli aveva distrutto il fottutissimo naso.
Sputò.
Che diamine era
successo? Non lo sapeva. Sapeva solo che non era finita lì.
«Sai ragazzino»,
riprese impassibile la Belva, «come si distingue un uomo forte da uno che non
lo è?». Non attese una risposta: «L’uomo forte non ha punti deboli. Puoi
cercare quanto vuoi ma non potrai mandarlo mai al tappeto. Tuo padre, invece,
un punto debole ce l’ha. Ce l’ho io qui di fronte».
La Belva si girò, e
andò verso la valigetta. Si inginocchiò, e iniziò, di nuovo, ad armeggiare.
Asuka vide immediatamente: stava indossando un paio di guanti in lattice.
«Che fa?», sibilò, con
la stessa voce ovattata con cui Yamaguchi, poco prima, aveva pronunciato le sue
ultime parole.
«Lascio il mio
messaggio». Gelido come l’era Würm.
«Avevi detto che non mi
avresti ucciso!», urlò, disperato, sputacchiando sangue, il povero Asuka, il
cui cuore quasi smise di battere.
«Non sono un
truffatorino che racconta balle», sbuffò, e aveva ragione, «ma non ho mai
specificato in che modo ti avrei lasciato in vita. Il mio messaggio per tuo
padre sarai tu stesso, ragazzino».
Era fottuto. Asuka capì
che tutto sarebbe stato possibile, da lì a pochi minuti. Chiuse gli occhi,
iniziò a respirare affannosamente. “Devo farcela, devo farcela, devo farcela”.
Un mantra. Sarebbe stata quella la battaglia della vita. L’avrebbe superata.
Non aveva alternative. Anzi: non vedeva l’ora che la Belva iniziasse qualsiasi
cosa avesse in testa, perché tutto potesse finire entro poco, perché potesse
capire se fosse stato in grado di superare quella prova. Era il dubbio che lo
lacerava, in quei minuti. Aveva di fronte qualche altro pugno o gli avrebbe
tagliato gambe e braccia con una motosega?
«Da cosa cominciamo?».
Era in ginocchio. Frugava. Come il ragazzino che sceglie dal suo box quale
giocattolo utilizzare. «Ah sì». Afferrò qualcosa e si alzò in piedi. Asuka
strabuzzò gli occhi. Di che si trattava? Teneva stretto quest’affarino lungo
nella mano destra. Un cacciavite? Una lima? No, i manici erano due, ben
stretti. Era una pinza.
La Belva, in silenzio,
si avvicinò velocemente. Asuka si mosse sulla sedia. Dove lo avrebbe colpito?
Tremava, ansimava, ed, ecco. Se l’era persino fatta addosso. Non fece nemmeno
in tempo ad accorgersi del calore all’altezza dell’inguine sinistra che, di
nuovo, un pugno della Belva sullo zigomo destro gli sbatté il viso sullo
schienale. Il criminale gli afferrò con la mano sinistra il mento. «Fermo». Non
serviva che glielo dicesse. Ormai era alla sua mercé. Il criminale sollevò la
mano destra, con la quale teneva minacciosa quella pinza da ferramenta. Senza
farsi troppe remore, avvicinò in velocità l’attrezzo alla bocca del ragazzo. Si
fece spazio tra le labbra chiuse e colpì gli incisivi. La bocca di Asuka non
era serrata: fu uno scherzo per la Belva divaricarla del tutto.
Asuka non era tipo da
andare a messa tutte le domeniche, in quella cittadina giapponese dal più alto
tasso di cattolicità nell’estremo oriente, ma in quel momento desiderò esserci
andato più spesso. Forse per imparare le storie di quei pazzi che si facevano
fare di tutto senza praticamente sentire nulla in onore di quel falegname
galileo.
Sentiva l’alito del
mostro su di sé. Poi, però, parlò solo il dolore. Non vedeva nulla, se non il
braccio ricoperto da una manica bianca di una giacca di lusso del criminale.
Che stava facendo? Improvvisamente, sentì qualcosa che gli afferrava un dente,
uno dei molari di sinistra dell’arcata superiore. Un dente che non si vede mai,
ma che è responsabile del 90% di ogni buona masticazione. “Non può farlo”,
pensò, “non può essere così crudele”. Ma lo era.
Un crac, una torsione,
la pinza che si ritraeva. Il suo primo pensiero fu che se non era svenuto dal
dolore in quel momento nessun male fisico lo avrebbe fatto svenire in vita sua.
Pareva gli avessero infilato un chiodo nel cervello, martellando a partire dal
palato. Sentiva come dei pezzi di osso impastargli la lingua e la gola. Vide.
Sul guanto la Belva esibiva un orrendo trofeo. Non pensava che la parte interna
dei denti umani fosse così lunga.
Il dolore si fece
sempre più forte. Sapeva che mai e poi mai sarebbe potuto stare di nuovo bene.
Ormai lui stesso era composto di dolore. Il gonfiore lo abbracciava, gli
accarezzava la bocca, gli saliva per la guancia e si innestava profondo sul
cervello. Il dolore lo cullava. Come una mamma.
Sua mamma, che chissà
quanto aveva sofferto. Era con lei, ora. A soffrire, come su quel letto
d’ospedale. Espirò ed inspirò violentemente. La Belva era di fronte a lui, in
piedi, impassibile.
Poi, non sapeva nemmeno
come avvenne, ispirò su con il naso, dal retrogusto di sangue, alzò le guance,
sbadigliò e iniziò a piangere.
Aveva 16 anni, ma non
era quello il punto. Era solo un bambino, ma non era quello il punto.
Semplicemente, non riusciva a capire perché quell’uomo di fronte a lui lo
odiasse così tanto. Non se ne dava pace.
«Passiamo ad altro». La
Belva tornò nella sua valigetta degli orrori.
«NOOO!!!», urlò Asuka.
«Basta, ti prego, basta!». Era un lamento straziante, a cui nessuno, con un
briciolo d’anima, avrebbe potuto dire di no. Ma in quel frangente piangere era
come agitarsi sul pelo dell’acqua, con una ferita aperta e con una maglietta
con scritto “Foca” in un tratto d’oceano infestato dagli squali.
La Belva si rialzò,
ancora. Questa volta Asuka capì immediatamente di che si trattava. Era una chiave
inglese di quelle grosse. E dunque, di quelle particolarmente impietose se
utilizzate per questi scopi. Fu velocissimo. Due passi ed era già lì. Al terzo
passo la testa della chiave inglese incontrava a gran velocità la rotula
sinistra di Asuka Junior. Il ragazzo sobbalzò. Era troppo per lui, davvero.
La testa gli si piegò
in avanti. La gamba gli pulsava tutta. L’aveva colpito in un centimetro
quadrato, ma era come se gli fosse passato sopra con uno schiacciasassi. Mosse
per un istante i muscoli della gamba, ma semplicemente non riuscì.
Voleva sopravvivere.
Ora desiderava morire. Porre fine a tutto. In bocca, accanto al sapore del
sangue, ora c’era pure il puzzo del vomito, che gli sporcò i pantaloni già
sporchi d’altro.
«Ok. Ora l’ultimo
tocco», continuò, l’infame. Asuka non protestò. Non parlò neppure.
«Dicevo prima che non
avevi la stoffa di fare il poliziotto. Nemmeno tuo padre ce l’ha, ragazzo. E
non lo farà più, te l’assicuro. Soprattutto con un figlio disabile a cui
badare».
Figlio disabile? Alzò
il viso ormai ridotto a una maschera gonfia di sangue, con rivoli di vomito che
gli impiastricciavano il mento. Ma lo sguardo era quello dell’agnello al
macello. La Belva gli si fece accanto, posizionandosi alla sua destra, e alzò minacciosamente
la mano con la chiave inglese. «Un colpo preciso, alla giusta vertebra. Ormai
ho perso il conto di tutte le volte che l’ho fatto. Preferisco essere chiaro
con chi riceve questo trattamento: è una benedizione. Non sentirai più alcun
male. In effetti, non sentirai nulla: in effetti, se il colpo va a segno,
dovresti diventare perfettamente tetraplegico». Solo un malato di mente poteva
utilizzare i termini “perfettamente” e “tetraplegico” nella stessa frase. Ma la
Belva non era malata. «C’è chi ancora riesce a regolare gli sfinteri. Saprai se
sarai fortunato solo tra qualche settimana».
Asuka abbassò il capo.
Come a far spazio al colpo della Belva, ma in realtà, nel cuore, covava una
preghiera. Come avrebbe potuto essere felice con la ragazza dei suoi sogni,
così ridotto? In nessun modo. Era felice però. Perché pure in quel momento
stava pensando a lei. Al suo profumo di vaniglia. Alla sua pelle bianca. Ai
suoi capelli color nocciola. Alle finte litigate in classe e a quando, senza
accorgersene, la sfiorava nel passargli un libro. Alle serate passate a
rincorrersi per le vie della città. Eh, sì. Faceva una gran confusione. Quel
suo corpo così ridotto male mescolava ancora una volta le sue due ragazze. La
prima diventava la seconda e viceversa, in un tripudio di pensieri appannati.
In quella frazione di secondi pensava com’era bello dare la caccia a Meimi di
sera, nei villoni di qualche industriale, o com’era meraviglioso fissare Saint
Tail mentre lottava con le equazioni di terzo grado masticando la matita e
grattandosi quella sua bella fronte spaziosa.
Non sarebbe più servito
a nulla. La Belva lo avrebbe ucciso lì, comunque. Gli aveva fatto troppo male.
Il naso, la bocca, il ginocchio, il sangue, il vomito. Era tutto dolore. Ma era
felice. Era felice perché pure in questo mondo così schifoso, così pieno di
oscenità, di dolore, di dubbio e di confusione, aveva avuto il cuore scaldato
da lei. Da lei che non aveva mai baciato, da lei che non aveva mai stretto per
mano, da lei con cui non aveva mai fatto l’amore coccolato da calde coperte e
dai raggi della luna. E allora il mondo diveniva un posto magnifico: perché
sebbene non avesse mai potuto godere di tutte queste cose, e sebbene fosse
certo che mai le avrebbe godute, aveva capito che l’amore esisteva. L’Amore
c’era. L’Amore era presente e bussava anche al suo cuore. Sorrise, come un
pazzo sotto la ghigliottina. «Ti amo».
Sentì lo spostamento
d’aria della chiave inglese, ormai era pronto. Ma un altro spostamento d’aria,
più forte, più violento, lo sorprese. Un colpo fortissimo di vetri rotti
risuonò improvvisamente nella stanza. Qualche frammento lo colpì persino.
Un’ombra lo avvolse. Fu un flash. Un tonfo fortissimo. L’ombra tornò indietro,
sempre con la velocità di un pensiero. La chiave inglese tintinnò cadendo per
terra. Dietro di lui, subito dopo, un fragore spaventoso, accompagnato da un
altro migliaio di rumoretti attorno come di cose che cadevano. Un nugolo di
polvere. Si girò di scatto verso sinistra. Dove un istante prima c’era la
Belva, ora non c’era nessuno. Uno degli armadi, prima saldamente verticale, ora
era indubbiamente orizzontale, in un tripudio di confusione, pezzi di metallo,
di vetro, di carta e spaghi e fili di ogni tipo. Una mano emerse dalla
confusione, accompagnata da una manica bianca, a cui seguì subito il corpo di
un criminale italiano. Si stava rialzando, capelli scapigliati e uno sguardo
demoniaco.
Che diamine era
successo? Sempre più dolorante, si girò nella direzione della parte della bocca
che gli faceva più male, orfana del dente più importante. Era morto. Sicuro che
era morto. Non poteva essere più felice di così nel mondo terreno.
Al centro del magazzino
la ragazza dal lungo codino era in piedi, attenta e pronta a scattare di nuovo.
Il fiocco nero, illuminato dai raggi di luna del lucernario squarciato, faceva
danzare i suoi risvolti accompagnata da una sottile brezza che entrava nella
stanza. All’orecchio un vistoso auricolare scendeva come un filo attorcigliato
lungo il braccio. Gamba destra e braccio sinistro in avanti, teneva la mano
destra all’interno di una piccola borsa di raso scuro. Il suo volto era
sconvolto. Rosso come il sole al tramonto. Aveva pianto. E parecchio.
«Meimi…», sussurrò il
ragazzo, che ormai non capiva più niente. O forse, per la prima volta, ci stava
capendo qualcosa. Il cuore gonfio d’amore.
La ragazza non lo
guardò neppure.
«Io… Io…». Digrignava i
denti. Asuka era quasi del tutto assente, ma non potè non accorgersi che la
ragazza ansimava. E non era per la stanchezza.
«Io…». Saint Tail
tremava tutta. Non stava guardando verso di lui. Guardava oltre. Verso
l’armadio caduto e la confusione che ne derivava. Verso quel demone dai capelli
bianchi? «Io… Io non so cosa…». Ansimava, respirava affannosamente. Stringeva
il pugno. Tremava tutta. Forse stava addirittura per piangere. Asuka non
capiva, non poteva capire, ma era felice. Felice come non mai.
«Che vuoi?», ruggì la
Belva, alzandosi, mentre con una mano si scrollava la polvere di dosso e con
l’altra puntava dritta una pistola.
«VOGLIO UCCIDERTI!!!»
urlò a squarciagola Saint Tail, stringendo il pugno e agitandolo in avanti.
«VOGLIO UCCIDEEEERTIIIII!!!», ringhiò ancora, con più forza, aprendo le braccia
e chiudendo gli occhi come ad amplificare la voce. Uno sparo, una nuvola di
fumo. Asuka comprese che la battaglia era iniziata.
La ladra misteriosa
aveva combattuto fino a quel momento guidata solo da senso di giustizia. Ogni
sua azione puntava a riparare torti, ad aiutare derelitti e a dare speranza ai
più disperati. Ma ora era una furia senza controllo. Le sue lacrime sincere si
mescolavano a un’inedita quanto spaventosa sete di sangue. Non si sarebbe
fermata, no. Era una macchina da guerra. Una macchina da guerra alimentata dal
carburante più pericoloso che vi sia in natura. L’Amore.
La Coca Cola Zero scese
giù che era una meraviglia. La ragazza gettò la lattina vuota nel bidone della
spazzatura di fronte al distributore automatico lungo la strada, riaprì lo
smartphone, s’infilò di nuovo l’auricolare e balzò, ancora, nella notte.
Direzione: Asuka junior.
“Se qualcuno li
troverà”, ammise a se stessa, di nuovo, con sicurezza estrema, “quello sarà
Asuka”. Si accorse, finalmente, della direzione che stava prendendo l’auto con
a bordo il detective che, a rigor di logica, avrebbe dovuto darle la caccia.
Andavano verso l’oceano.
Non era una tipa
arrendevole, Meimi Haneoka, che in quel momento rivestiva i panni e impersonava
in tutto e per tutto l’eroina Saint Tail. Ma dire che quella sera ci sperasse
sul serio di riportare a casa, sana e salva, la contessa Silvana Silvani vedova
Serbelloni Mazzanti Viendalmare sarebbe uno sproposito. Il Vescovo Yusaku
Hibakari aveva versato il sangue per ribadire che ogni vita umana, anche quella
di una befana dall’alito fognante, era un miracolo da difendere. Però c’era da
essere concreti: nessuno ci avrebbe tirato fuori un ragno dal buco.
“Se qualcuno li
troverà”, ripeté a se stessa, superando con un balzo da olimpionica un
cartellone pubblicitario, “quello sarà Asuka”.
Quanto ci avrebbe
messo? L’auto stava sfrecciando ad alta velocità per la superstrada che
conduceva al mare. Continuò a saltellare, ma il distacco aumentava sempre più.
Per un momento ebbe il timore che l’auto avrebbe continuato la sua corsa per
ore e ore, magari arrivando dall’altra parte del paese. Fu persino tentata di
scendere dai tetti, cambiarsi e prendere un treno notturno, ma preferì svuotare
la mente dai pensieri per ascoltare con l’auricolare, in diretta dalla giacca
di Asuka junior, quello che in auto si stavano dicendo. Capì che erano in
quattro: delle diverse voci, ovviamente, riconosceva solo quella del suo
coetaneo e compagno di classe.
Non si stavano dicendo
molto, in verità: De Simone domandava al collega giapponese Yamaguchi se era
normale, nella polizia nipponica, che i superiori prendessero a coppini i loro
sottoposti, che gli morsicassero varie parti del corpo nei momenti d’ira o che
li inviassero giù per sette rampe di scale solo per risalire armati di
cappuccini e cornetti anche alle tre del pomeriggio. Asuka tamburellava sul
finestrino con la mano sinistra, mentre Esposito, fissando la luna,
fischiettava qualche melodia classica di Gigi D’Alessio, che Meimi non
conosceva e dunque non ebbe modo di disprezzare in maniera adeguata.
«È qui», udì la
ragazza. Asuka junior finalmente aveva parlato. Saint Tail saltò giù
dall’ennesimo palo della luce, raggiunse un vicino parchetto per bambini dalle
altalene colorate, ed estrasse lo smartphone come una rivoltella. Il Gps le
fece capire che erano praticamente lungo la baia. Con la metropolitana, dal
centro cittadino, si raggiungeva in un attimo, ma via auto, soprattutto nei
giorni feriali, era un casino da non augurare a nessuno.
«Non c’è un cane…». Era
una voce da un forte accento italiano. “Isolato, il posto è isolato”, confermò
dentro di sé Meimi Haneoka. «Il parcheggio è vuoto», continuò un altro uomo,
anch’egli italiano.
“Il parcheggio?”.
Un’altra occhiata alla mappa satellitare con il puntino rosso rappresentato
dalla giacca di Asuka. “L’acquario!”. Ci arrivò, finalmente, Meimi, che era sì
una ragazza meravigliosa ma – diciamocelo francamente – nessuno avrebbe mai
avuto il coraggio di candidare al premio Nobel.
Non ebbe mai modo di
sapere in quale maniera Asuka Daiki Junior fosse arrivato a concludere che la
Belva potesse essersi rifugiata proprio lì, ma improvvisamente si accorse che,
per un criminale con molto da nascondere, l’acquario era il posto ideale: posto
fuori mano, chiuso per lavori, un intero oceano da sfruttare come via di fuga.
“Già, l’acquario”. Ci era rimasta male, quando, pochi mesi addietro, ne avevano
annunciato la chiusura per imprecisati lavori di ristrutturazione. Ne
conservava, in effetti, un buon ricordo. Nessuno poteva vederla, mentre,
ripreso il fiato, scattò di nuovo per raggiungere l’oceano. Ma stava
arrossendo.
«Gli scantinati sono
sul retro», continuava Asuka dall’auricolare della microspia. «Confermo». Era
un adulto giapponese. «Dobbiamo controllare?», la voce del primo italiano
esprimeva sicuramente un pizzico di disappunto. «Meglio di sì», continuò il
giapponese, di nuovo: la sua voce non era per nulla entusiasta.
Saint Tail rallentò la
sua corsa. Era ormai notte, e, da quel che capiva, non avevano trovato nulla.
Il posto era sicuramente vuoto. Che fare? Ascoltò con scarso interesse i
poliziotti che invitavano Asuka a restarsene lì fermo mentre loro si facevano
un giretto per assicurarsi fosse davvero tutto a posto. Ma – fece lo stesso
errore Meimi – se non si erano trovati di fronte finestre accese o sicari
armati come Rambo ai cancelli, la Belva sicuramente non si trovava lì.
Calcolando la sua andatura, le mancavano ancora una quindicina di minuti per arrivare
all’acquario. Ma ci sarebbe andata per nulla.
Alzò i tacchi e tornò
indietro. L’unica cosa da fare, per la ragazza, era quella di ripartire dal
Minato Art Museum: lì – l’aveva capito benissimo – c’era la regia centrale di
quella vastissima operazione delle forze dell’ordine. Da lì avrebbe potuto
capirne di più e forse – ma era un forse grande quanto il Monte Fuji – fare
qualcosa.
Ormai era quasi l’una
di notte. Un profondo senso di malinconia l’avvolse. Malinconia. E fame.
È un dato di fatto.
Vero come la gravità, assodabile come la relatività e ovvio come il principio
di conservazione del moto. Ma affermatelo in una conversazione all’interno di
un consesso civile e vi impiccheranno al primo palo come retrogrado e traditore
della parità tra i sessi: le donne sono fottutamente complicate.
E no, non ci stiamo
riferendo alla canzoncina della Mannoia, che descrive le donne come simpatiche
frugolette dall’umore oscillante. No. Le donne sono delle bombe ambulanti, al
cui interno, come tritolo e nitroglicerina, gli ormoni si mescolano, si
confondono, bollono e precipitano, come intrugli nell’impresa familiare di
Walter White[1].
Dareste un pugno sulla lamiera di una testata nucleare nord-coreana? No? Allora
non scherzate con una donna in *quei*giorni*là*.
Meimi Haneoka, della
quale tutti ignoravano le immense doti atletiche che sfoggiava quando indossava
il tutù di Saint Tail, aveva in quella serata tutto il diritto di sentirsi
devastata. Ma le reazioni chimiche dentro di lei, in quel frangente, le gridavano
di mangiarsi qualcosa. Si sarebbe divorata persino il suo amico a quattro zampe
Little ancora vivo, senza nessuna salsetta coreana di accompagnamento. E
pensare che cinque ore prima, a quel tavolo dalle tovaglie lunghe fino a terra,
fu quasi un miracolo se riuscì ad aprire lo stomaco. Ma adesso era la fame a
guidarla.
A casa, con tutti i
sensi di colpa annessi e connessi, sarebbe scesa giù dalle scale e avrebbe
aperto il frigorifero. Le mancavano cinque minuti al Minato Art Museum: ma da
sopra il tetto di una villetta scorse in lontananza, di fronte alla fermata di
un autobus, un distributore automatico. Si guardò in ogni direzione, si
vergognò come una ladra – cosa che era, in fondo, nella realtà – piombò giù e
infilò una moneta nell’alto macchinario di latta. Pigiò un pulsante e una
barretta di biscotto ricoperto da cioccolato e nocciola cadde giù, con un tonfo
sordo. In un lampo, come se stesse derubando la casa imperiale, allungò il
braccio, raccolse lo snack e scomparve di nuovo nella notte.
Si ritrovò nel tetto
della villetta di prima. Doveva fare piano: una station wagon era parcheggiata
in giardino. Il seggiolino per poppanti e delle vistose etichette con scritto
“Bebé a bordo” attaccate alla carrozzeria dell’auto, fecero capire a Meimi che
sotto i coppi su cui poggiava i piedi, con tutta probabilità, stavano dormendo
pure dei bambini.
Aprì l’involucro e
iniziò ad aggredire il cioccolato, il più naturale degli antidepressivi in
commercio. Non era una barrettina di quelle dietetiche, ma un leviatano di
latte e cacao per cui ciascuna ragazza – Meimi compresa – si sarebbe pentita
per il mese a seguire. Chiuse gli occhi, alzò la testa verso il cielo e
sospirò, mentre un brivido di piacere, misto al frescume della serata, le
attraversava tutto il corpo. Aveva fatto bene a concedersi quel piccolo
peccatuccio. Riaprì gli occhi, abbassò il viso per dare il secondo morso,
quando, dall’auricolare, sentì la voce di Asuka: «Sì». “Diamine”, pensò, “l’ho
tenuto acceso. Chissà che la batteria non mi finisca…”.
«Sono proprio cotto.
Meimi, ti amo davvero». La bomba calorica gli cadde di mano, rimbalzò sul tetto
e si incastrò sulla boccuccia di una grondaia. Non stava succedendo davvero.
«Forse non avrò mai il coraggio di dirtelo, ma penso sempre a te». Incurante dei
poppanti che dormivano a un metro sotto di lei, Meimi Haneoka, ormai priva
anche con sé stessa della maschera di Saint Tail, cadde sulle ginocchia.
Per i primi istanti
provò un immenso moto di vergogna: non aveva il diritto di spiare così Asuka.
Era assolutamente scorretto e ingiusto. Odiò Saint Tail, che si intrometteva –
seppur per motivi di “lavoro” – con il suo Asuka. Era Saint Tail che stava
origliando, non Meimi. Ma poi, lo stomaco le si attorcigliò su sé stesso.
“Pensavo fosse innamorato di Saint Tail”. Era vero. Ma mai e poi mai Meimi
avrebbe pensato di che la goffa e cicciottella liceale sarebbe stata in grado
di far breccia nel cuore del giovane e brillante detective. Come Saint Tail,
era tutta un’altra cosa, sì. Come Saint Tail era alla pari, anzi, lo sapeva
benissimo di esercitare un immenso fascino nel suo inseguitore. Ma sebbene – e
quella sera se n’era accorta più che mai – fosse felice di incarnare con ogni
atomo del suo corpo gli ideali della ladra giustiziera, non poteva essere
sempre Saint Tail. Non poteva essere sempre pronta, decisa, scattante. Non
poteva essere sempre all’altezza del ragazzo che compariva ogni notte nei suoi
sogni, anche in modalità che non avrebbe confessato nemmeno al Papa.
E invece lo era. Perché
lì, Asuka, probabilmente seduto in macchina a farneticare da solo, non stava
invocando Saint Tail, stava parlando di lei. Di Meimi. La tipa piena di
difetti, la tipa pasticciona, la tipa sincera che non ci capisce nulla di
matematica. La tipa sui cui capelli si perdeva ad ogni lezione. La tipa il cui
profumo lo mandava in estasi. Dettagli, ovviamente, che non conosceva.
Era lì, ormai seduta
sul tetto. Una moto passò rombando lungo la strada vicina. Dalla casa
dall’altra parte del vialetto uscivano i dialoghi in lingua inglese di un
serial americano. Da qualche parte, a pochi chilometri di distanza, un ragazzo
stava pronunciando il suo nome come se fosse la parola più cara del pianeta.
“Meimi ti amo davvero”.
Le rimbombava in testa. Gliela scombussolava. Ma era un torpore dolce.
Ripensando a quegli istanti si stupì di non aver pensato a nulla di
“operativo”. Erano mesi, se non addirittura anni che sognava che Asuka junior
si accorgesse di lei. Ed era un sogno soffice, ma distante, lontano, percepito
persino come irrealizzabile. Ma ora che, come un fulmine a ciel sereno, come un
pacchetto dono dall’iperuranio, questo si realizzava, la testa della ragazza
non volò a progettare appuntamenti, uscite più meno amichevoli in cui
“approfondire” il legame, sacchetti di cioccolatini da regalare timidamente in
classe, a margine delle lezioni. Rimase semplicemente lì, seduta, a fissare la
luna. E a inondarle il cuore di un calore fortissimo, pure all’una di notte,
non erano né gli ormoni, né la serotonina, né la dopamina.
«Ragazzo», una strana
voce dall’altra parte dell’auricolare interruppe quel momento di coccole, «sei
impegnato qui a quest’ora? Gli studenti ai miei tempi tornavano a casa ben
prima». La testa di Meimi non fece in tempo ad accorgersi che qualcuno aveva
parlato che un’altra voce, che pareva provenire persino da un’altra persona,
tuonò decisa: «Sta’ zitto o sparo».
«Oddio».Saint Tail balzò in piedi. Non sapeva che
cos’era successo, non sapeva come, ma Asuka era in pericolo. Senza pensarci
lasciò il tetto della villetta e si mise a correre come una disperata. Erano
caduti in trappola? Forse no. Forse Asuka aveva a che fare con un banale
rapinatore, o con qualcuno che voleva fargli uno scherzo.
“Scherzi… A
quest’ora?”, si insultò da sola. Qualcuno, sicuramente, in quel momento stava
puntando una pistola addosso ad Asuka. I rumori di passi e di respiri affannosi
che seguirono contribuirono a gettarla ancor di più nello sconforto. Aumentò il
passo: il cuore le scoppiava, e, per quanto fosse allenata come una ginnasta
sovietica, i polmoni stavano iniziando a farle male.
«Hanno preso anche
lui». Un uomo dall’accento italiano pareva piangesse. Uno dei poliziotti?
L’avevano preso? Erano veramente lì. Asuka era riuscito a capire dove si
fossero nascosti i criminali.
Altre voci si ripetevano,
confuse, sovrastante dal respiro affannoso del giovane detective. Erano voci
affannose, di chi aveva appena passato un brutto quarto d’ora.
Meimi pensava solo a
correre. Non aveva alcun “piano operativo”. Nella borsa tutto il suo
armamentario, ma nella testa poco o nulla di pronto. Le voci tacquero
improvvisamente.
«Come hanno fatto?».
Era una voce serena, il tono di un commerciante che esamina la merce portatagli
in bottega dal grossista. Dall’auricolare udì il vociare acuto di un giapponese
che spiegava com’erano stati catturati. «Come hanno fatto a trovarci…»,
continuò il primo. Al balbettio della seconda voce, l’italiano urlò:
«KENZO!!!”». Saint Tail quasi inciampò da un lampione. Era quello che
comandava. Era la Belva. Ne era sicura. «Chi sono?», continuò il criminale.
Dopo un po’ di preamboli, Meimi comprese che con Asuka si trovavano un
carabiniere italiano, Giovanni Esposito, un poliziotto giapponese, Yuto
Yamaguchi e uno che pareva essere una vecchia conoscenza della Belva.
«Dimmi chi è il ragazzino»,
ordinò il volto peggiore del Bel Paese.
Un brivido attraversò
il corpo della ragazza. “Ti prego Signore… Fa’ che non gli facciano alcun
male”, supplicò la ragazza.
«Asuka Daiki Junior.
Per mandato del sindaco aiuta la polizia locale alle indagini sui furti di
Saint Tail…» la voce acuta. «Quella che si è presa il quadro dall’auto di quel
cretino di Fracchia?».
La Belva,
fortunatamente, non pareva interessata a quella sorta d’intruso in un affare da
grandi. «Ah», continuò il giapponese noto a tutti come l’Infame, «è figlio di
Tomoki Asuka, che qui è il capo della polizia». «Mi lasci andare», parlò anche
Asuka. E la Belva rise.
“No, ti prego, no!”.
Meimi, in quel momento, era arrivata al punto all’altezza del quale, poco
prima, aveva fatto dietro front. E non poté non maledirsi per aver gettato così
presto la spugna.
«Portatelo di là, nel
magazzino», continuò la Belva. E subito il segnale divenne disturbato, come
quando un microfono viene sbattuto contro qualcuno: evidentemente, lo stavano
prendendo per la giacca.
«Di loro che
facciamo?», domandò la vocina di prima.
«Prendete il cappellone
e portatelo di là… Ci faremo raccontare quali sorprese ha in serbo per me
Auricchio». «E gli altri?». «Uccideteli».
«NOOO!!!», urlò Asuka.
Al suo grido di unì anche quello di Meimi. Aveva sempre avuto a che fare con
ricettatori, ladruncoli, vecchie matrone che sottraevano gioielli di valore
alle loro cameriere. Quello era un altro livello. Era come se il Borgorosso
Football Club avesse deciso di sfidare il Barcellona al Camp Nou.
Meimi sentì altre
grida, confuse. Riconobbe alcune parole, come “pezzo di merda” e “sarai un
ottimo poliziotto”. Poi le voci diminuirono. Restavano solo le grida di Asuka.
Meimi pregò che fosse tutto uno scherzo, un bluff. Ma aveva l’orecchio fine. E
non poterono sfuggirgli quei colpi di pistola. Sordi, certamente, sparati con
il silenziatore. Ma inequivocabili.
La partita era
dannatamente seria. Seguiva la superstrada: in condizioni normali sarebbe
salita sopra il tetto di qualche camioncino e avrebbe così “chiesto un
passaggio”. Ora non ci pensava neppure. La perfezione atletica si unì alla
predisposizione genica dei suoi antenati ninja, e continuò a correre, correre
disperatamente. Doveva raggiungerlo immediatamente, prima che fosse troppo tardi.
Anche a costo che quel suo grande cuore le esplodesse in petto.
Non c’era muscolo del
corpo che non le dolesse. Due ore prima ci mancò poco che una bomba non la
facesse a pezzi. Il suo tutù, sebbene non fosse ancora da buttare, era rovinato
in più punti. Ma in quel momento, era la pancia a farle davvero male.
Terrorizzata è il termine giusto.
E se non fosse arrivata
in tempo? Il suo ultimo ricordo di Asuka junior sarebbe stato quel “Ti amo”
rubato dalla tecnologia di suor Seira? Correva e piangeva, piangeva e correva.
Fu davvero straordinario che qualche neurone del suo cervello, dopo una rissa
per accaparrarsi qualche molecola d’ossigeno con alcuni tirchissimi globuli
rossi, fece la proposta più intelligente della serata: “Non puoi farcela da
sola”. Non ci pensò neppure. Senza mai fermarsi, aiutata dall’auricolare,
armeggiò con il telefono.
Seira aveva pensato a
tutto: nessuno avrebbe potuto rintracciare la chiamata.
Ci vollero tre squilli.
«Chi parla?». Era Asuka
Tomoki. In sottofondo si poteva sentire un “chicazzéaquestachezzodiora?”.
«Detective Asuka, sono Saint Tail». Poco
ci mancò che la macchina andò a schiantarsi contro un convenience store aperto
anche di notte. Era il giapponese che guidava.
«Saint Tail?»,
bofonchiò lo sbirro baffuto. «Seriamente… Non ho tempo da perdere, stiamo…»
«SONO ALL’ACQUARIO!!!
HANNO GIA’ UCCISO QUALCUNO, SUO FIGLIO…» l’interruppe urlando la ragazza,
incurante di tutto.
«COME STA DAIKI?» urlò
a sua volta Asuka senior, che con una mano teneva il telefono e con l’altra,
manovrando il volante, costringeva l’auto a una brusca inversione a U.
«È vivo», lo rassicurò
Saint Tail, «vi prego, salvatelo! Temo gli faranno del male…»
«Metti il vivevoce!!! È
Santa Eustachia?», domandò Auricchio, in auto con Asuka senior e con il
commissario Rizzo. Alla risposta affermativa del detective giapponese, gli
strappò il telefono di mano. «SANTA EUTELIA, COME CHEZZO TI CHIEMI? DE SIMONE
DOV’è?»
«Non lo so», ansimava
la ragazza, continuando a correre, «chi è?».
«È IL MIO ASSISTENTE,
PORCA DI QUELLA PUTTENA…. SE LA BELVA GLI HA MESSO LE MENI ADDOSSO GLI SPEZZO
LA CHEROTIDE GLI SPEZZO».
Meimi comprese. «Lui è
vivo. Temo lo stiano torturando. Agli altri hanno sparato, ne sono sicura».
Un profondo senso di
gelo cadde nell’auto. «Yamaguchi…». «Esposito». «PEZZO DI MEEERDAAA!!!», gridò
Rizzo, solitamente calmo e pacato. Ora era Hulk.
«DETECTIVE», continuò
la ragazza, «AIUTATEMI!!!». Stava piangendo. «IO CORRO LI’… AIUTATEMI A
SALVARLO». Parlava al singolare.
«Grazie». Concluse la
conversazione Asuka Tomoki senior. Ed era un grazie sincero, di quelli che
valgono più di cento documenti firmati. «A TUTTE LE AUTO», udì Meimi la voce di
Asuka senior, «DIRIGERSI VERSO IL LUNGO MARE, L’ACQUARIO DELLA SAITOU. LA BELVA
SI TROVA LI’». Fu in quel momento che la ragazza si accorse che la polizia –
anzi, Asuka senior – le stava dando credito, affidandosi completamente a lei. A
lei, che era, non dimentichiamolo, una fuorilegge. Sebbene sulla carta la
giovanissima giustiziera giocasse per la squadra dei cattivi, la realtà dei
fatti era ben diversa. Si giocava la battaglia del bene contro il male.
La telefonata si
concluse: pochi minuti e sarebbe arrivata.
«…messaggio a tuo
padre, Asuka Tomoki senior». Era la voce della Belva che tornava
dall’auricolare.
“Che stupida!”, si
accusò la ragazza. Chiamando con lo stesso smartphone con cui tracciava le
microspie, aveva “mutato” ogni restante audio. Ora tornava in diretta dalla
giacca di Asuka Daiki.
Gridò anche lei. Un
tonfo e un rumore secco. Sputi e respiro affannoso. Gli stava facendo del male.
Il criminale aveva iniziato a ridurre in poltiglia il ragazzo che amava e dal
quale – se n’era accorta ancor di più quella sera stessa – era amata.
«Sai ragazzino», si
sarebbe ricordata per tutta la vita dell’atrocità di quelle poche parole, «come
si distingue un uomo forte da uno che non lo è? L’uomo forte non ha punti
deboli. Puoi cercare quanto vuoi ma non potrai mandarlo mai al tappeto. Tuo
padre, invece, un punto debole ce l’ha. Ce l’ho io qui di fronte».
Superò un altro camion.
In lontananza vedeva il mare. Quanto mancava? Tre minuti?
«Che fa?». Asuka
implorava. «Lascio il mio messaggio». «Avevi detto che non mi avresti ucciso!»,
il ragazzo urlava. Stava soffrendo, con tutta evidenza. «Non ho mai specificato
in che modo ti avrei lasciato in vita. Il mio messaggio per tuo padre sarai tu
stesso, ragazzino».
Meimi se la prese con
sé stessa. Qualche allenamento in più e un po’ di cioccolata di meno e forse
sarebbe potuta essere ancor più veloce. Eppure, erano quei pochi zuccheri
assimilati prima che le fornivano l’energia di quello sprint finale. Piangeva
come una disperata e avrebbe fatto di tutto per essere lei, al posto del
ragazzo, in quel momento.
«Da cosa cominciamo? Ah
sì». Meimi fece un patto con sé stessa. “Non ci devo pensare, non ci devo
pensare”. Nella sua testa doveva esserci un unico pensiero. Arrivare lì il
prima possibile. Scavalcò l’ennesima recinzione e se lo ripeté. “Se penso a
quello che gli stanno facendo crollerò subito”. Si fece forza, ma la
accompagnavano rumori non punto belli. «Fermo». Era la Belva. Sentì come se il
ragazzo si stesse soffocando. «ASUKA!!!», pianse ancor di più la ragazza. Che
diavolo stava combinando quel criminale senz’anima? Ma il giovane detective
proruppe ancor di più in grida di dolore, intervallate a sputi, colpi di tosse
e respiri fragorosi.
«Passiamo ad altro»,
riprese la Belva. «NOOOO!!! BASTA, TI PREGO, BASTAAA!!!». I lamenti di Asuka
avevano in Meimi l’effetto di una lama arroventata sulla carne. Nonostante
sapesse di dover essere forte per lui, non riusciva proprio a sopportare quelle
grida. Avrebbe dato la vita per non sentirle più. Per saperlo al sicuro. “Un
minuto e sono lì. Resisti Asuka-kun, resisti!”.
Cosa avrebbe fatto? Con
buona pace del Vescovo, aveva già in mente di lanciare nell’edificio uno dei
suoi trucchi preferiti: un bel fumo avvolgente e se ne sarebbe scappata immediatamente
con Asuka a bordo di uno dei suoi palloncini. Alla Contessa ci avrebbe pensato
la polizia.
Asuka prima di tutto.
Non ricordava benissimo come fosse fatto l’edificio. Non era abituata però ad
improvvisare: di solito, con suor Seira, pianificava nel dettaglio ogni colpo.
Questa sarebbe stata la prova della maturità. Meimi entrò nell’ultimo stradone
che congiungeva la superstrada cittadina all’acquario: i pochissimi ubriachi
dei chioschetti nemmeno la videro, tanto correva veloce.
«AAAAAHH». Un altro
lamento di Asuka. Non urlò fortissimo, ma Meimi comprese che si trattava di un
grido d’intensità minore non perché il colpo subito fosse meno violento dei
precedenti. Era la forza del ragazzo che scemava sempre più.
«L’ultimo tocco»,
aggiunse la Belva, con le parole e con il tono di voce di uno dei Chef della
Clerici.
Eccolo lì, l’acquario,
circondato da un trilione di impalcature. Ma nessuna luce proveniva dal suo
interno. “Il retro”. Si ricordò delle parole udite dagli ormai defunti
poliziotti, superò la recinzione senza passare dal cancello e attraversò il
parcheggio.
«Dicevo prima che non
avevi la stoffa per fare il poliziotto. Nemmeno tuo padre ce l’ha, ragazzo. E
non lo farà più, te l’assicuro. Soprattutto con un figlio disabile a cui
badare». Figlio disabile? Che voleva fare?
«Un colpo preciso, alla
giusta vertebra. Ormai ho perso il conto di tutte le volte che l’ho fatto.
Preferisco essere chiaro con chi riceve questo trattamento: è una benedizione.
Non sentirai più alcun male. In effetti, non sentirai nulla: in effetti, se il
colpo va a segno, dovresti diventare perfettamente tetraplegico».
Non poteva essere. Non
poteva esistere sulla faccia della terra un essere così perfido. E in quel
preciso istante, a pochi metri di distanza, stava per colpire scientemente
l’amore della sua vita per trasformarlo in un vegetale. Una punizione peggiore
della morte. Le mani iniziarono a tremargli nuovamente. Ma questa volta, non
era paura. Riafferrò lo smartphone. Il cursore lampeggiava con chiarezza. Alzò
gli occhi. Agli angoli, ben nascosti, alcuni teppistelli dominavano sulla
scena. In basso, però, le finestre dei seminterrati. “No… no… quella no…” Una
luce accesa. Corrispondeva al GPS. Erano lì.
«C’è chi ancora riesce
a regolare gli sfinteri». Parlava di escrementi. Di dignità perduta. Digrignò i
denti. Sbuffava. Con un balzo iniziò a correre, prima che qualcuno, in
quell’oscurità potesse notarla, nera come la notte.
Un salto. La vetrata
che andava in mille pezzi. Era dentro. Una marea di cianfrusaglie e, al centro,
tra alcuni tavoli gonfi di oggetti inutili, un uomo in piedi, con una mano
alzata sopra il capo di un ragazzino ridotto a una maschera di sangue,
vistosamente legato a una sedia di legno. Nemmeno se ne accorse. Puntò la gamba
sinistra al suolo, fece forza e partì, in volo, con il piede destro rigido
contro lo sterno dell’uomo vestito di bianco. Il criminale si ritrovò sbalzato,
mentre la giustiziera, con una graziosa piroetta, saltò indietro, ricadendo
subito in posizione di battaglia.
Non osò nemmeno
guardare verso il ragazzo seduto. L’angolo dell’occhio però gli rivelò che
c’era troppo rosso in quello scenario. Le mani le tremarono possibilmente con
più forza.
Asuka era vivo, non
c’erano dubbi a riguardo. E allora perché non voleva girare il volto verso di
lui?
Ormai era troppo tardi.
Era arrivata troppo tardi. Per colpa sua, infatti, il ragazzo che amava aveva
dovuto fare i conti con il mistero dell’iniquità più nera. Non lo aveva difeso.
Avevano posato le loro luride mani su di lui. Meimi se ne sbatté di avere di
fronte uno degli uomini più pericolosi del mondo, capace di squartare una
legione di carabinieri senza nemmeno essere armato. Tremava tutta. E non era
più angoscia, non era più paura. Non era nemmeno senso di colpa. Era istinto
omicida, l’odio più puro che può scaturire solo dall’amore più puro. Una
lacrima le rigò il viso. Batteva i denti.
«Meimi…». Asuka la
chiamava. L’aveva scoperta. Era lei. Era Meimi a provare la rabbia del giusto.
Perché Saint Tail era la personificazione dell’ideale di giustizia, ma Meimi
era la ragazza che viveva secondo giustizia. Una ragazza. Splendida come tutte
le ragazze, vera come tutte le ragazze. Il velo era crollato o era solo frutto
della confusione del momento? Non ci badò e non ci pensò nemmeno. Continuava a
tremare, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni. «Io… io…», ripeteva,
respirando con affanno.
«Che vuoi?». La Belva
interruppe il filo dei tentativi che la ragazza faceva per recuperare se
stessa.
«VOGLIO UCCIDERTI!»,
ruggì. «VOGLIO UCCIDERTI!!!», gridò ancora. Nonostante tra le mani della Belva
luccicasse minacciosa una pistola, Meimi sapeva di non mentire. Voleva
ucciderlo davvero. Suo padre e la zia Rikka le avevano raccontato le tristi
vicende di uomini dello spettacolo mancati in modi davvero atroci: illusionisti
annegati della vasca trasparente di Houdini, maghi uccisi per i postumi di un
pugno (come Houdini), assistenti di lanciatori di coltelli infilzati come
Saltimbocca alla Romana, domatori del circo sbranati da tigri del Bengala.
Meimi conosceva ormai
tutte le regole di sicurezza che un mago che si rispetti dovrebbe poter
recitare a memoria. Sapeva quali trucchi erano innocui e quali, se utilizzati
da un profano o da un mago ubriaco, sarebbero potuti risultare mortali. Una
sola magia, voleva fare, quella sera. Far sparire per sempre la Belva Umana.
Dicono che i proverbi siano la
saggezza dei popoli. Realtà della vita, sperimentate da secoli, che grazie a
due parole messe in croce si fossilizzano per sempre in un breve aforisma.
Nessuno può cambiarli, nessuno scalfirà uno iota di questa ricchezza
tradizionale. Così, anche tra milioni di anni, quando sugli habitat orbitanti
ci nutriremo di sostanze chimiche estratte dagli asteroidi, sarà sempre meglio
un uovo oggi della gallina del giorno dopo. L’erba del vicino sarà sempre la
più verde anche quando la nostra Terra sarà ridotta a un deserto inospitale, e
l’ospite continuerà a puzzare come il pesce anche se osserverà tutti i dettami
dell’igiene personale. I proverbi ci dicono che anche i ricchi piangono, che si
stava meglio quando si stava peggio e soprattutto che quando i vecchi “non
avevano niente allora avevano tutto”.
E c’hanno ragione. Perché la
felicità non è una questione esogena, non viene da fuori. Non è che se stai
bene allora sarai felice. E non è detto che se tu stia male allora sarai
necessariamente infelice. Avere un conto in banca ripieno di zeri, una morosa
uscita da America’s Next Top Model, un lavoro in una start up di Pasadena sono
cose che aiutano, certamente. Ma non sono queste le origini, le cause della
felicità. Così, non c’è da stupirsi se certi ricchi attori di Hollywood si
rovinano con le peggio droghe o si impiccano nella rimessa del loro yacht e se
certi bimbi africani sieropositivi alla vista di una palla di stracci sorridono
come un napoletano di fronte a un presepe.
Asuka Daiki Junior era legato a una
sedia di legno con corde e nastro adesivo. Quella sera aveva visto per la prima
volta della sua vita un cadavere, quello del vecchio Vescovo, mentre aveva
assistito in diretta, dall’altra parte della porta, all’uccisione di due onesti
tutori della legge. Aveva commesso degli errori da poppante che gli sarebbero
costati, in ogni accademia militare e in ogni scuola di polizia, l’espulsione
con disonore. Peggio che peggio, era stato picchiato, gli avevano rotto il naso,
gli avevano strappato un dente che diversamente si sarebbe portato con
tranquillità nella tomba, gli avevano rotto una rotula e, soprattutto, gli
avevano fatto perdere ogni dignità residua: se l’era in parte fatta addosso.
Nulla in quel momento gli garantiva che ne sarebbe uscito vivo, e nulla – ancor
peggio – gli garantiva che ne sarebbe uscito in modo dignitoso, sulle sue
gambe, con la sua autonomia. Eppure era felice.
Era felice perché lì c’era la sua
Meimi. C’era la sua Saint Tail. Entrata come un angelo animato da giusta ira in
quel consesso di malvagità, era lì. Era lì per lui.
Meimi o Saint Tail? La testa gli
pulsava. Il terrore e il dolore lo avevano fatto precipitare in uno stato di
confusione completa. Aveva la febbre? Non avrebbe potuto dire se la temperatura
del suo corpo fosse 32 gradi – ai limiti del congelamento – o 44. Sicuramente,
tanto per chiarirci, non toccava la quota salutare di 37.
Confuso, girò il volto verso la
ragazza che aveva appena gridato, con un ruggito da leonessa: «VOGLIO UCCIDERTI!!!».
Ma udì soltanto una stilettata
fendere l’aria. Proveniva da dietro. La Belva? Aveva sparato con un
silenziatore?
Volse nuovamente la testa, ma era
come entrare in una galleria del vento. Non riusciva neppure a respirare. Non
vedeva nulla.
«Fumogeni». La voce dalla Belva.
Possibilmente ancor più gelida del solito.
Asuka provò a respirare, ma sentì
altri proiettili passargli accanto. Chiuse gli occhi e pregò che tutto andasse
bene, ma non fece in tempo ad iniziare la prima Ave Maria che sentì qualcosa
tirargli i piedi. Un’ondata di vaniglia.
«Io». Bofonchiò. La ragazza era
china su di lui. Ma chi era con precisione quella ragazza? La conosceva già. In
quel magazzino pieno di paccottiglia e oggetti dimenticati, quell’esile corpo
femminile era l’unico elemento di cui gli importasse davvero qualcosa. Il cuore
gli batteva all’impazzata: quando si accorse che lo stava toccando, liberando
in pochi istanti caviglie e polsi, con una carta da gioco affilata, da corde e
scotch da pacchi gli sembrò di impazzire d’imbarazzo. Già. Ma chi era quella
ragazza? A malapena si ricordava di chi fosse lui in quel mare di dolore e di
confusione. La capitale del Canada? Sette per otto? Le virtù cardinali? Il
vuoto. Ma quella ragazza la conosceva. E si lasciò, in quella nube di fumo,
prendere di peso come un sacco di farina dalla buona mugnaia.
«Stai qui, Asuka-kun. Qui non ti
vedrà». La voce femminile sussurrava. Non c’era più fumo, ma faceva lo stesso
fatica a respirare. Aprì gli occhi. Erano sempre nel magazzino, ma era per
terra, dentro un armadio in parte scassato, avvolti da un’infinità di stoffe
che sembravano piovere dall’alto. Cos’erano? Tute di lavoro? Tovaglie? Non
capiva. La bocca gli pulsava come se gli avessero detonato al centro del palato
una bomba a mano. Dal ginocchio non sentiva nemmeno più il dolore, tanto era
gonfio. La testa gli girava come non mai, ma aver cambiato posizione e avere le
gambe stese sul pavimento lo avevano sollevato, e non di poco. Sentiva un
respiro su di lui. Respiro e vaniglia.
«Meimi», ansimò, fissandola. Era
Meimi.
In Asuka cervello e cuore avevano
sempre fatto a cazzotti. Fin da quando era bambino, il cervello aveva preso il
volante dopo aver legato il cuore e dopo averlo chiuso nel bagagliaio. Ogni
tanto, il secondo mugolava da dentro, offrendo i suoi pareri e spingendo il
ragazzo verso quella o quell’altra risoluzione. Ma, ripeto, il volante della
baracca ce l’aveva il cervello. Quella sera, però, il cervello era stato messo
fuori gioco da un criminale italiano dal capello selvaggio vestito di bianco. E
così, con calma e serenità, il cuore, liberatosi dalle corde delle consuetudini
e dal bavaglio delle pare mentali, era libero di mettersi al volante del
ragazzo fischiettando un motivetto che sapeva di montagna, acqua fresca ed
erbette stagionali. «Meimi…». Era Meimi. Il cervello era steso a terra, suonato
come una zampogna. E non poteva essere lì a fargli venire mille interrogativi.
Non poteva ricordargli – a ragione – che Meimi era una pasticciona imbranata
mentre Saint Tail era un genio. Non poteva suggerirgli in alcun modo che Saint
Tail aveva un fascino di un tipo mentre Meimi era tutta un’altra persona. Non
poteva girargli le carte in tavola. Così Asuka dovette accontentarsi, senza
sovrastrutture, della banalità dei fatti. L’amore che provava per Saint Tail
era identico a quello per Meimi, perché il suo cuore era lo stesso. Era stato
ingannato? Era stato preso in giro? Avrebbe dovuto catturarla o imprigionarla?
Ripeto: il suo cervello era stato pestato, legato e chiuso a chiave dentro il
cesso di un Autogrill mentre il suo cuore, libero da freni, sfrecciava a 130
all’ora sull’autostrada della felicità. «Meimi… io».
La ragazza non si scompose neppure.
Si limitò, con un dito di fronte alla bocca, ad invitare Asuka a starsene
zitto. Ma la mano continuava a tremargli. E non era vergogna né paura. Solo la
semplice voglia di fare a pezzi quello che l’aveva ridotto così.
Improvvisamente, Asuka spalancò gli occhi come colpito da una scarica
elettrica. «Tu…». Non potendo muovere le braccia, ancora troppo stanche per
azzardare la benché minima flessione, fissò la spalla sinistra della giovane
maga. La Belva non aveva sparato tutte le sue pallottole a vuoto. Un rivolo di
sangue le cadeva giù per il braccio, la spallina del tutù era squarciata,
mostrando la pelle e una vistosa ferita. Era stata colpita di striscio, ma era
pur sempre stata colpita. Pareva non se ne fosse nemmeno accorta.
Quando la Belva lo aveva colpito,
gli aveva cavato un dente e spezzato un ginocchio, aveva provato un’ondata di
angoscia e di dolore. Ma nemmeno un briciolo di rabbia. Ora, vedendo la ragazza
ferita, seppur lievemente, si accorse di avere una specie di gatto nello
stomaco che si stava facendo le unghie sulle mucose delle pareti interne. Se
avesse avuto il controllo del suo corpo, ora ridotto a una specie di inutile
manichino, si sarebbe alzato e avrebbe svitato il cranio a quel criminale. Ma
non poteva.
«Non è nulla», sussurrò la ragazza.
Fece per alzarsi, poi, però, ad occhi chiusi, si chinò su di lui. Se l’era già
fatta addosso: in caso contrario se la sarebbe fatta addosso in quel momento.
Fu un istante. Un timido bacio sulla fronte sporca e sudata. Il classico
bacetto che danno le mamme mettendo a letto i loro figli o le nonne quando
salutano i nipotini con le loro labbra sbavanti. «Io», sussurrò il ragazzo, che
si accorse con stupore che nessuna parte del corpo gli faceva più male. Altri
due bacetti così e sarebbe andato in paradiso.
«Non muoverti», ripeté la ragazza.
Continuava a tremare, ma era un tremore un po’ diverso. Era sempre rossa in
viso, ma ora non erano solo lacrime. Gli diede un’ultima occhiata, si ricordò
perché stava combattendo e tornò. Gli avrebbe fatto pagare tutto con gli
interessi.
Perché aveva voluto baciarlo? Ok,
era un bacio innocente, ma perché proprio sulla fronte? Se lo domandò in quel
frangente di secondo, mentre nascondeva alla vista della stanza un
febbricitante Asuka spostando alcuni appendini dalle quali pendevano alcune
tute da lavoro sporche. Era come baciare un bimbo malato. Il suo bimbo malato.
Lo avrebbe protetto da tutti, d’ora
in avanti. Asuka però non era un bimbo a cui doveva asciugare il moccio. In
genere se la cavava benissimo da solo. Ripensandoci, parecchio tempo dopo,
rimase sorpresa del fatto che nemmeno si accorse di quel “Meimi” al posto di
“Saint Tail”. Lo diede per scontato. In effetti, era proprio Meimi, che in quel
momento interveniva.
Saltò sulla cima di un armadio, e
guardò in basso, verso la macchia bianca in mezzo a quella parziale oscurità.
«Sei colpi, devi ricaricare».
L’odio che provava l’aveva fatta divenire pure sarcastica. Se ne stupì.
«La famigerata Saint Tail», sorrise
la Belva, incurante, mentre si infilava una mano in tasca per recuperare le
pallottole e ricaricare il revolverino. «Che ci fai qui?».
«Di solito annuncio i miei colpi»,
continuò, più seria che mai, «e me ne scuso. Sono qui per rubare la Contessa e
Asuka-kun».
«Rubare…», la Belva rise selvaggiamente.
«Rubare. Tu non sai nemmeno che significa rubare».
«Io…», ma la Belva la interruppe.
«Hai delle doti ragazzina. Sul serio», continuò, «ma sei completamente fuori
strada». Proseguì, con l’atteggiamento di un vecchio so-tutto-io che vorrebbe
spiegare a un giovane come va la vita. «La giustizia…», e sorrise amaramente,
come se avesse pronunciato una bestemmia, «la giustizia…», ripeté, «per cui tu
lotti, per cui tu rischi… è un’illusione. Non esiste».
«ESISTE!!!», urlò la ragazza.
«NO, NON ESISTE!», ringhiò la
Belva, «NON ESISTE RAGAZZINA. COME NON ESISTE L’AMORE, NON ESISTE LA PACE, NON
ESISTE L’AMICIZIA O IL RISPETTO. Sono illusioni. Illusioni che l’uomo si è dato
nel corso della storia per controllare meglio il suo vicino. Homo Homini Lupus.
È questo il mio credo».
Saint Tail aveva di fronte a sé
l’emblema della malvagità. Ma si accorse che non era malvagio. Perché malvagio
è colui che conoscendo il male lo fa scientemente. La Belva non era malvagia.
Era al di sopra di ogni legge, al di sopra di un’umanità che disprezzava.
«Ragazzina. Ti do una notizia. Tu e
io non siamo poi così diversi». Meimi provò un moto di disgusto. Ma non fu un
disgusto così pieno come avrebbe potuto preventivare inizialmente.
«Anche tu vivi in questo mondo. E a
un certo punto della tua vita le leggi che ti circondavano, che ti contenevano,
che prima davi per scontate ti sono state strette. Così hai iniziato a rubare.
Perché così volevi. Perché così potevi. Non è vero?».
«IO HO RUBATO SOLO PER LA
GIUSTIZIA!!!» si giustificò Saint Tail. Ma stava gridando.
«No. Hai rubato per il tuo senso di
giustizia, il che è diverso. Hai rubato perché una parte del tuo cervello ti
diceva di farlo, e poi hai dato a quella parte di cervello il nome di
giustizia. Sei come me ragazzina, perché di fronte alla voglia di fare qualcosa
che l’ammasso di merdacce che ci circonda vorrebbe impedirci di fare, l’hai
fatto lo stesso». Aveva ragione? Meimi arrivò al punto di domandarselo sul
serio. «Una volta che ti ergi sulla massa, non sei più come prima. Questione di
tempo e sarai come me. Anch’io sono partito come giustiziere, ai miei tempi».
Era sincero, ma Saint Tail non poteva accettare di venire catturata in una
spira logica così stringente.
«Io non sarò mai come te».
«Nella vita non esiste il giusto,
non esiste lo sbagliato». Continuò, placido, infilando le pallottole nel
caricatore della pistola.
«CHE MOTIVO AVEVI DI RIDURRE COSI’
QUEL RAGAZZO???», urlò Saint Tail, gonfia di rabbia e di disprezzo. Era
l’appiglio più che logico per respingere i ragionamenti della Belva.
«Perché potevo. Ecco perché. E
posso ancora». Un movimento improvviso. La Belva premette il grilletto.
Saint Tail, questa volta, non aveva
nessuno da difendere, così potè far sfoggio di tutte le sue doti. Schivò e con
un balzo era giù dall’armadio, mentre la pallottola andava ad incastonarsi nel
soffitto di lastre prefabbricate. La Belva vide la sagoma della giovane ladra
muoversi tra una fila di scrivanie, mobili da ufficio e lastre di vetro. Sparò
alcuni colpi tra i mobili che la sfiorarono. A colpirla, però, ci pensarono
alcune schegge di legno e alcuni pezzettini di vetro che si staccarono dagli
oggetti colpiti. Una capriola ed era dietro una scrivania. Frugò nella borsa.
“Queste”. Estrasse qualcosa e mise la testa fuori dalla scrivania. La Belva era
guardinga, e si era posta, spalle al coperto, dietro l’armadio dove il calcio
di Saint Tail, tre minuti prima, l’aveva fatta volare.
Si alzò di nuovo, e iniziò a
correre tra le file disordinate di attrezzi. “È la mia unica possibilità”,
ammise a sé stessa, sperando con tutto il cuore che con quell’oscurità la Belva
non riuscisse a centrarla. Ma dopo pochi metri, si accorse con stupore che la
Belva non stava cercando di spararle. Più dubbiosa di prima, continuò a correre
lo stesso, raggiungendo i vari angoli della stanza e provando, il più
possibile, a stare al di fuori del raggio d’azione della Belva. Ogni tanto,
però, lasciava cadere a terra qualcosa.
“Ologrammi. Dovrebbero funzionare”.
Altri prototipi del paparino debitamente lasciati in giro per la casa che si
sarebbero potuti rivelare fondamentali. Meimi si cacciò sotto una delle
scrivanie. Estrasse il solito magico smartphone, che di magico, in senso
stretto, non aveva ovviamente niente, tranne l’aver fatto passare un’incazzatura
fotonica al fu Steve Jobs per via dei costi più contenuti e delle maggiori
funzionalità. Saint Tail avviò i prototipi.
Da questi aggeggini, poco più
piccoli di una palla da tennis, uscì fuori una sorta di pompetta, che sparò
nell’aria circostante una soluzione nebulizzata di vapor acqueo e altri pochi
agenti chimici, che ricoprivano la stanza. Sempre dalla pompetta, all’unisono,
uscirono dei raggi di luce. Lo smartphone, grazie a dei sensori di prossimità,
calcolò le distanze dei sette proiettori che iniziarono a lavorare all’unisono.
I raggi di luce si intensificarono, rifrangendosi contro gli schermi di vapore.
La Belva si accorse con sgomento che non una, ma quattro Saint Tail correvano
per la stanza. Una saltava, l’altra camminava, una correva in cerchio, un’altra
balzava dalla cima di un armadio alla sommità di un cumulo di cianfrusaglie
sopra una scrivania.
“Ora ti becco!” Saint Tail era più
fiduciosa del solito. Le quattro Saint Tail iniziarono a muoversi su un
perimetro molto più vicino alla posizione della Belva. Ma la Belva continuava a
non sparare.
«It’s showtime!» sussurrò la vera
Saint Tail. Non era lo slogan della maga tranquilla, ma le parole di chi stava
per fare del male. Di chi voleva fare del male. Mentre le quattro Saint Tail
fasulle si rincorrevano in una sorta di giostra rinascimentale, lei strisciò a
terra, come un soldato della prima guerra mondiale in trincea sotto il filo
spinato, e si ritrovò alle spalle della Belva. Fu un secondo: la mano sinistra
si mosse velocemente, e, come una campionessa di softball, lanciò una sorta di
sfera contro la nuca del criminale. Non fu sorpresa nel vedere che, mentre le
micro bombole di gas a reazione rapida facevano dilatare i classici palloni,
suoi cavalli di battaglia, che in teoria avrebbero dovuto avvolgere e
immobilizzare il criminale, la Belva si girò improvvisamente, nella mano
sinistra un coltellaccio appuntito, pronto a squarciare quel prodigio della
tecnica.
Il gas continuò a uscire, ma il
pallone fucsia non crebbe di un centimetro. Esalava dei buffi sospiri sollevato
a mezz’aria come una sorta di enorme globulo rosso accoltellato al cuore.
«Non mi fotti ragazzina». La Belva
buttò a terra quell’accozzaglia di gomma e si avventò sulla maga. Era
grassoccio. Fisicamente aveva pure qualche chilo di troppo come il suo sosia
inerme e impotente di fronte al mondo, ma la Belva aveva imparato nel corso
degli anni a trasformare ogni centimetro cubo del suo corpo in un’arma mortale.
Ossa, muscoli, persino il grasso, in caso di bisogno, potevano decretare la
morte orribile dei suoi nemici. Così, invece di perdere tempo a ricaricare
nuovamente la pistola, gettò a terra l’arma e con un semplice balzo fu sopra la
giustiziera vestita di raso nero.
Saint Tail vide l’uomo che
incombeva su di lei. Avrebbe voluto fare altrettanto, correre verso di lui per
fargli del male, mordergli il collo, cavargli gli occhi con le unghie e
strappargli i capelli fino a farlo sanguinare. Ma il briciolo di razionalità
che le rimaneva la costrinsero a fare i conti con la realtà. Non sarebbe mai
stata in grado, lei, esilissima ragazzina giapponese a tener testa fisicamente
a quell’omazzo di stirpe mediterranea.Era allenata, era forte, era pronta. Ma negli scontri ravvicinati, a un
certo punto, a contare sono solo i chili. La lama del coltello della Belva era
a pochi centimetri da lei quando si convinse a fare l’unica cosa in suo potere,
in quel momento. Un cliché, certo, per una che si considerava, comunque, anche
in quelle circostanze, un’artista dello spettacolo. Ma come le punizioni per
Pirlo, il crescendo per Rossini e la battute dei politici che magnano per Pippo
Franco, i tormentoni hanno sempre il loro fascino. E fu così che Saint Tail,
con un veloce movimento della mano sinistra, attivò l’ennesimo fumogeno ad
azione rapidissima.
Fece un balzo indietro per evitare
di dare punti di riferimento alla Belva: avrebbe dovuto faticare per trovarla
nuovamente. Intanto, frugando nella borsa e nel cervello, avrebbe trovato
certamente altri trucchi per immobilizzare la Belva. Quello era il suo
obbiettivo. Eppure non avrebbe scommesso un centesimo che, una volta
immobilizzata la Belva, la faccenda si sarebbe conclusa lì. Anzi, si stava già
immaginando certi possibili utilizzi di quelle ultime carte dai bordi taglienti
che si era fatta procurare quando una colossale gomitata allo stomaco la
riportò al pianeta terra. Credette di svenire. Sembrava che le interiora
volessero uscirsene tutte dalla gola, tanto il colpo era stato violento.
Pensava di essersi messa al sicuro, con la storia dei fumogeni. Eppure, in quel
preciso istante, la maga imparò una lezione fondamentale che le sarebbe servita
per il resto della sua vita: non puoi fregare qualcuno usando per due volte lo
stesso trucco. Specie se lo usi due volte nel giro di poco meno di quattro
minuti. La cosa però non finì lì.
Alla gomitata seguì un pugno al
basso ventre. Certo, sapeva di aver di fronte pur sempre la Belva Umana. Certo,
si era accorta che non si trattava di un omino gracile. Ma mai nella vita
avrebbe pensato che fosse così forte. Se la gomitata sullo stomaco le era
sembrata orribile, con quel pugno le parve di impazzire. Nemmeno una flebo di
Ibuprofene l’avrebbe riportata alla normalità. Incolpevole, si ritrovò seduta a
terra, le mani sulla pancia. Dov’era finita la sua rabbia?
«Muori, puttana!». Era la Belva,
questa volta, la persona arrabbiata in quel consesso. “Non può farlo”. Ma lo
fece. E con un atto di forza erculea, appoggiò le mani a uno dei tanti armadi
pieni di inutilità di ogni tipo, rovesciandoglielo addosso. Pezzi di vetro,
oggetti di metallo, libri e portapenne pieni di matite scalfite le piovvero
addosso, seguite subito dall’armadio stesso. I pesanti scaffali di legno erano
come dei tir che la investivano ripetutamente. Non era il dolore degli urti a
farla star male: era il senso di soffocamento che la atterriva. Era ricoperta
quasi del tutto: a fare capolino da quel disastro solo la testa e il braccio
sinistro.
Sentì qualcosa sull’occhio.
Bagnato? Acqua? Era uno sputo. Sentì la Belva sopra di sé.
«Confesso che mi hai fatto davvero
incazzare, ragazzina. Non ti avevo presa in esame. Ma va bene così. Anche la
rabbia mi fa bene, ogni tanto. Mi aiuta a riscoprire le mie radici. Ora però
basta». Aveva il coltello in mano. «Chiudo prima la partita con te e poi con il
tuo amichetto».
“Eh no”, pensò la ragazza, delusa
con sé stessa come non mai. “Non può andare così”. Era una guerra di
performance: si dimenticò persino che la sua vita in quel preciso istante era a
concretissimo rischio. Non si accorse neppure che se la Belva l’avesse sgozzata,
tempo tre minuti avrebbe sgozzato pure il suo amato Asuka-kun. Aveva solo un
obiettivo: uscirsene fuori da lì e far soffrire la Belva. Non sconfiggerla, non
fermarla, non punirla: fargli del male.
Aveva ancora un braccio libero. La
Belva era inginocchiata su di lei. Provò con una mano a toccarsi l’interno
della manica, quasi a cercare qualcosa, ma la Belva le sollevò la testa
tirandola per il fiocco nero che aveva tra i capelli. Esibiva, minaccioso, il
solito coltellaccio. L’avrebbe sgozzata lì, in quell’istante. La lama si stava
avvicinando al collo sudato e sporco della fanciulla quando finalmente le punte
delle dita trovarono l’aggeggio che cercavano disperatamente. L’ennesimo
meccanismo di sicurezza che in condizioni normali chiunque avrebbe giudicato al
limite della paranoia ma che in realtà era il minimo sindacale per chi
rischiava la vita, di notte, avendo a che fare con criminali e furti
dall’impossibile attuazione.
Dalla manica del tutù della ragazza
uscì una corda robusta con in testa una specie di arpione. A rendere il tutto
più pittoresco il fatto che questa corda non fosse in effetti altro che una
sfilza di fazzoletti colorati legati stretti l’un l’altro. L’arpione ruppe
alcuni vasi, squarciò alcune lamine di vetro, superò alcuni pannelli di legno e
si andò ad assicurare a un solido armadio di legno. La Belva si girò
improvvisamente verso il braccio, coltello alla mano, per tagliare i fazzoletti
ma Saint Tail, questa volta, fu più svelta. Premette un altro bottoncino e
l’argano riavvolse in fretta la fune colorata: la potenza del marchingegno fece
scivolare la ragazza dal cumolo di detriti e la fece letteralmente volare
dall’altra parte della stanza. Lontana dalle grinfie della Belva.
Non fu un viaggio di piacere: urtò
sedie e altro mobilio d’ufficio, si tagliò ripetutamente con pezzi di vetro
appuntito e si ritrovò a sbattere a 50 all’ora contro il solido armadio di
legno. Provò a rialzarsi immediatamente, con una delle ennesime prove d’agilità
che l’avrebbero resa una promessa in diverse discipline sportive se solo le
avesse rese pubbliche. Ma semplicemente non riuscì. Il suo corpo le ricordò,
con la voce del dolore, che persino il fisico più resistente e l’animo più
tenace avevano dei limiti.
Sentiva un peso fortissimo al
petto, dovuto allo schiacciamento di pochi istanti prima. Ma faremmo molto
prima ad elencare le parti del corpo che non le dolevano.
“Devo alzarmi, devo alzarmi, devo
alzarmi”. Si girò verso sinistra. Era l’armadio ricoperto da tute di lavoro
dove giaceva Asuka. Si guardò in avanti. La Belva procedeva, coltello in mano,
verso di lei.
Poggiò una mano a terra, caricò il
peso sul braccio. Pareva di pongo. Sollevò un ginocchio, inarcò la schiena.
Stava per alzarsi. Ma era la forza della disperazione. La Belva non fiatava, e
continuava a camminare. Secondi interminabili. La borsa ce l’aveva ancora.
Erano le idee che le mancavano. Mise una mano dentro, nella speranza che
toccando qualcosa di famigliare le sinapsi iniziassero a cantare. “Teleport”.
Pensò Saint Tail, mentre cadeva a terra di nuovo. Il trucco più difficile del
suo repertorio. Aveva salvato, due ore prima, centinaia di persone da una
bomba. Avrebbe potuto salvare lei e Asuka? Sì, se fosse riuscita a creare un
buon diversivo. Le bastava venti metri di distanza. Fuori da lì. O anche a un
piano superiore. Il tempo per nascondersi, per chiamare di nuovo aiuto. Con le
dita stava toccando qualcosa che le sarebbe servito, ma in quel momento rialzò
per un istante la testa. E la Belva non c’era più.
“Oddio, no”. Questa volta si trattò
di un regolare ceffone, uno di quelli che i padri violenti danno ai ragazzini
indisciplinati. Ma molto, molto più forte. Meimi sentì come se i muscoli del
collo gli si fossero strappati, mentre la testa gli girava verso sinistra.
Bastò a farla cadere nuovamente a terra. E questa volta, difficilmente sarebbe
riuscita a rialzarsi. Di nuovo a terra. Questa volta, a differenza di prima,
non soffriva per la performance scadente. Ora aveva sì una paura fottuta di
morire. E che Asuka soffrisse ancora. Gli occhi erano rivolti a quell’armadio,
ma immediatamente, da dietro, sentì un colpo improvviso alle vertebre. La Belva
le aveva appena sferrato un violento calcio alla schiena. Più che il dolore,
questa volta, a farla soffrire il vuoto che sentì ai polmoni. Un altro calcio
fortissimo, questa volta alle cosce. I muscoli irrigiditi dagli sforzi e dalle
corse di quella sera vennero praticamente spezzati dalle scarpe di camoscio
italiane del senzadio.
«Questa città mi ringrazierà»,
epigrammò implacabile la Belva, «sto mettendo la parola fine a un’impostura
durata troppo a lungo».
Era la fine? La Belva era sopra di
lei. E le sferrò l’ennesimo calcio. Questa volta, in bocca. Un labbro le si
spezzò e sentì il sapore del sangue scorrerle tra la lingua. Tra le tute di
lavoro, spalancati come quelli di un cerbiatto impaurito, gli occhi di
Asuka-kun. Quanto aveva sofferto quella sera. E lei era lì, impotente, incapace
di alzare un dito per impedire che dovesse soffrire ancora. Aveva già pianto
quella sera: pensava di aver consumato tutte le lacrime secernibili in tutta
una vita da un essere umano, eppure, tornarono a rigarle il viso, cadendo per
terra dov’era riversa e accumulandosi tra la guancia e il pavimento sporco.
La Belva sollevò di nuovo il
coltello. Diede due calcetti alla ragazza perché da una posizione a taglio
passasse a quella supina. Voleva che lo guardasse in faccia mentre ne decretava
la fine.
«FIGLIO DI PUTTANA!». Due mani
afferrarono il coltello e lo gettarono via, verso il centro della stanza
ridotta ormai come Napoli nel 2007[1].
Se ne era dimenticato? Lo aveva sottovalutato? Meimi voltò gli occhi. Asuka era
in piedi di fronte alla Belva. Piccolo e stanco di fronte al criminale, si
teneva in piedi solo grazie alla gamba destra, mentre teneva la gamba sinistra
rigida ancorata al suolo. Il volto era chiarissimo: stava soffrendo le pene
dell’inferno. Ma si era alzato comunque.
Meimi ne fu sconvolta. Il ragazzo
l’amava così tanto non solo da rischiare la vita per lei, ma anche da ignorare
le più basilari norme che regolano la fisiologia umana. «Asuka», lo chiamò. Ma
il ragazzo continuava a guardare in alto, verso il feroce italiano, che seppur
non fosse una montagna di statura, al confronto faceva passare il giovane
detective nipponico per un ex-ministro italiano.
La Belva si girò verso il
ragazzino, che in quel momento non aveva nemmeno la forza per fargli il
solletico. Aveva la faccia di un impiegato statale raggiunto da una commissione
a un minuto dal termine delle sue otto ore sindacali, che per uno come la Belva
voleva dire avere il volto completamente sfigurato dalla rabbia.
«Ti avevo fatto una promessa», si
limitò a dire, «e io le promesse le mantengo». La sua voce era grave, come
quella di un capo barbaro seduto sul suo trono incastonato coi teschi degli
avversari uccisi, da utilizzare al bisogno come coppa per speciali libagioni.
«Questa volta dovrò fare un’eccezione».
La pistola l’aveva fatta cadere per
scagliarsi su Saint Tail. Il coltello gliel’aveva buttato via Asuka Daiki
Junior. Ma aveva ancora delle armi potentissime dalla sua. Le mani.
Afferrò il giovane detective per il
collo e lo fece praticamente inginocchiare sul posto. Le dita si mossero verso
la giugulare. Non voleva soffocarlo. Voleva – da gran maestro assassino qual
era – squarciargli la gola, spezzargli la giugulare e forse addirittura
torcergli le vertebre cervicali. Meimi vide i prodromi della scena e capì
immediatamente l’antifona. La Belva sarebbe stato capace di decapitarlo senza
l’utilizzo di alcun tipo di strumentazione. Lo stava già facendo.
«NOOOOO!!!», gridò con tutti i
polmoni Meimi. Era a terra. Impotente. “Se ce l’ha fatta lui posso farcela
anch’io”, si convinse. Qualcosa doveva pur fare. Anche solo per guadagnare
alcuni istanti. Corde non ne aveva più. Fumogeni sarebbero stati perfettamente
inutili: ormai il collo del ragazzo era tra le sue mani. Lo avrebbe ucciso sia
vedendolo che non vedendolo. Con uno sforzo titanico mise la mano nella borsa.
Toccò qualcosa di morbido. L’ultimo trucco che le sarebbe servito in quel
momento.
“Il cappello dei ricordi”[2].
Era un cilindro soffice, schiacciato per rimanere nella borsa. Il trucco più cretino
di suo padre, che evidentemente lo aveva concepito dopo aver fatto visita al
suo amico di colore pieno di treccine e amante della musica reggae. Genichiro
faceva indossare il cappello a uno degli spettatori. Il cappello produceva
alcune piccole onde a microonde che stimolavano il cervello della “cavia” a
recuperare i ricordi più belli del passato, a volte convincendolo addirittura
che li stesse vivendo in quel momento. Ma gli spettatori di Las Vegas,
giustamente, nel vedere un’anziana sul palco che rideva per i cartoni di Tom e
Jerry visti negli anni ’50 o un professore del MIT raccontare nuovamente alla
mamma di aver preso il massimo dei voti nella pagella di prima elementare, un
po’ si scassavano le palle. Dunque il trucco venne dismesso, e recuperato da
Saint Tail, che trattava i fallimenti del padre come si fa di norma con il
maiale: non si butta mai niente.
Meimi era molto scettica nei
confronti di quel trucco: la volta che l’aveva provato su di sé rimase tre ore
in camera sua credendo di essere una poppante di un anno e pochi mesi, decisa a
seguire l’aereoplanino con cui la nonna le faceva mangiare la pappa. Quando il
cappello le cadde di testa se ne vergognò così tanto che non raccontò
dell’incidente nemmeno alla fidata Seira. Gli effetti collaterali furono
evidenti: per qualche giorno accusò dei fortissimi mal di testa ed ebbe anche
dei gravi problemi ad alimentarsi correttamente senza macchiarsi i vestiti.
Ora però non era tempo di
scherzare. Qualche altro istante e le dita della Belva si sarebbero fatte
breccia nella pelle debole di Asuka-kun, squarciandola.
“O questo o niente”, pensò Meimi.
L’idea era quella di attivare il cappello, lanciarlo addosso al criminale,
nella speranza che rivivesse qualche bel ricordo dell’infanzia e si
rincretinisse per alcuni secondi. Giusto il tempo per staccare Asuka da quella
presa mortale e scappare da quell’inferno.
Premette il pulsantino sul retro
del cappello, pregò tutte le formazioni angeliche e mise il cuore nel braccio.
Aveva solo un tiro a disposizione.
Il cappello volò in aria, e planò,
delicato come una piuma, sulla testa della Belva. Il criminale fece per
toccarsi la testa e capire quello che stava succedendo ma si bloccò,
improvvisamente.
Che diamine stava succedendo? Il
senzadio era ancora lì. Quello era sicuramente il magazzino dell’acquario della
Saitou Corporation. Nelle stanze vicine c’erano gli uomini di Kenzo e Sakura il
Cesso. In un’altra stanza la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare attendeva
solo che egli tornasse per digitare le password che gli avrebbero trasferito,
in pochi istanti, ben 200 milioni di euro nei suoi conti offshore. Le scrivanie
e gli armadi rigonfi di scatole di vernice erano tutti lì, al loro posto. Ma il
ragazzino che stava strangolando non c’era più, e al suo fianco, a terra, non
c’era più nemmeno la ragazzina che gli aveva quasi distrutto l’operazione in
terra giapponese. Camminò per capire che diavolo stesse avvenendo. L’aria era
cambiata, la luce era cambiata. Si avventurò nel corridoio interno, tra due
file di armadi che parevano ancor più alti del solito. Il corridoio era davvero
lungo. Ma stava succedendo sul serio? Era tutto più buio. Continuò a camminare.
Improvvisamente svoltò a sinistra. E lei era lì.
Distesa su un letto matrimoniale,
ricoperta da una semplice vestaglia bianca, lei era lì. Rosalia. Pallida come
la neve. I capelli ricci le nascondevano il volto.
Lei era lì. Era così che l’aveva
vista l’ultima volta. E quella volta lui era davvero felice per aver ucciso
l’uomo di merda che l’aveva stuprata. Ma lei era lì. Che lo giudicava. L’unica
persona che aveva amato lo stava giudicando. Gli stava dicendo, senza parlare,
che non era quello l’amore che voleva. Che si era messo fuori dalla sua vita
quando da timido liceale si era trasformato in un mostro. In una bestia. In una
belva. Il criminale, forse per la prima volta dopo più di trent’anni, iniziò a
tremare. Perché Rosalia ora non lo giudicava più solo per l’omicidio del
capitano della squadra di calcio locale. Ora lo stava giudicando anche per la
rapina di Düsseldorf, lo
stava giudicando per la strage nella gioielleria di Monaco di Baviera, lo stava
giudicando per Anne e Babette Brown, sedotte, abbandonate, tagliate a pezzi e
sepolte, mescolate, in due valige diverse, lo giudicava persino per aver ucciso
quel vecchio Vescovo, poche ore prima.
E ora – solo ora – si accorgeva che
lo giudicava così ferocemente solo perché lo aveva amato tantissimo. Ma ora non
poteva più amarlo. Ed era da quel volto che era fuggito per tutta la vita. Da
quei capelli ricci, da quella pelle pallida, da quel silenzio imbarazzante. Ma
più fuggiva, più l’ombra cresceva. Più scappava, più, muto e mai espresso,
cresceva in quell’animo omicida il desiderio che in un altro universo Paolo
stesse vivendo una banale vita da impiegato qualunque con una moglie dai
capelli neri ed occhi azzurri qualunque. Trasparenti come il Mar di Sicilia.
Ma ora Rosalia era lì, a
giudicarlo. Ed era lui che giudicava sé stesso. Che condannava sé stesso.
Non si pentì. Non poté pentirsi di
fronte a quel tribunale cerebrale. Un’orgogliosa bestemmia dal profondo del
cuore a suggello di una vita fallita trionfalmente. Ma era sé stesso che
malediva.
-
Cadde sul posto. Con gli occhi che
gli rotearono nelle orbite. Le mani cessarono la loro presa feroce sul collo di
Asuka junior, che tossì vistosamente mentre si portava le mani in faccia. Poi
cadde anche lui: la gamba destra, che aveva supplito stoicamente alle funzioni
della sua gemella, cedette.
Meimi alzò gli occhi, incredula. La
Belva era lì, come un sacco di patate, disteso goffamente sul pavimento.
Inerme. Così impotente da assomigliare a Fracchia. Per un istante fu
attanagliata da un feroce sospetto. “L’ho ucciso?”. Si accorse che respirava.
Ampi movimento del petto le rivelarono che la Belva – fisicamente – era ancora
lì con loro. In perfetta salute. Ma era come se fosse da tutt’altra parte.
Con stanchezza, con dolore, trovò
nel giro di due minuti buoni l’energia per alzarsi. E la Belva era ancora lì.
Era davvero tutto finito?
Dall’alto della finestra
squarciata, che dava dal seminterrato al pian terreno, iniziò a sentire dei
suoni di sirena. Poi di auto. Infine una voce gracchiante: «bbbzzz… ELVA…
CONDETO… FUORI… TO… NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA
MAI NIENTE A ME? E ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVI PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL…
SEI CIR… bbzz. Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»
Non badò più a quel trambusto e si
girò verso Asuka. Era ancora seduto a terra, una mano sul ginocchio e una sul
dente. A tu per tu con il dolore. Ma era vivo. E allora fu lì che la paratia si
aprì. E iniziò, di nuovo, con forza, a piangere come una fontana. Cadde sulle
ginocchia. E piangeva, piangeva forte, singhiozzando, urlando, tirando su con
il naso. Piangeva di dolore, piangeva di paura, piangeva di stanchezza,
piangeva di imbarazzo, piangeva di gioia.
Tutto era pianto: e fu sorpresa dal
sentire un’altra voce nella stanza. E non era la Belva. Era Asuka. Anche lui,
con più calma, più sommessamente piangeva. E anche lui – era assodato – stava
piangendo dal male, stava piangendo per lo stress, piangeva di rabbia e
piangeva di beatitudine. Con una mano si asciugava le lacrime e ogni tanto
singhiozzava.
Strisciando per terra, si trascinò verso
di lui. Lo fece di getto, senza frenare, senza fermarsi a guardarlo. E posò il
mento sulla sua spalla. Lo strinse con le braccia e continuò a piangere. E
piansero insieme. Felici di tante lacrime.
Capitolo 51 *** Cinque personaggi in cerca di epilogo - Rizzo ***
51 Cinque personaggi in
cerca d’epilogo – Rizzo
«Bbbzzz… ELVA… CONDETO… FUORI… TO…
NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA MAI NIENTE A ME? E
ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVE PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL… SEI CIR… bbzz.
Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»
Il poliziotto pelato scagliò, rosso
in viso, il microfonino a filo dell’altoparlante della macchina contro il
parabrezza, scheggiandolo. Sembrava Efesto in persona, dopo una giornata in
officina a forgiare le armi per tutti gli dei dell’Olimpo.
Asuka Tomoki e Rizzo, che erano
arrivati in auto con lui, non lo guardarono nemmeno. Gli occhi fissi verso il
buio del cantiere che inghiottiva l’acquario. A differenza dei loro colleghi,
che una ventina di minuti prima avevano fatto la fine del topo, non avevano
alcun dubbio sul fatto la Belva si nascondesse proprio lì. L’auto di Yamaguchi,
infatti, era parcheggiata a pochi metri di distanza. Le quattro frecce ancor
accese in attesa di un padrone che non sarebbe mai tornato a spegnerle.
«Io vado». Disse Tomoki.
«Fermo». Gli fece eco, calmo come
un monaco buddista, il commissario Rizzo. Guardava in avanti, verso l’acquario.
«C’è mio figlio, lì!». Sbraitò
sbracciandosi il detective Asuka. In lui lottavano l’istinto paterno,
desideroso di buttarsi a capofitto nella misteriosa tana della Belva, e
l’esperienza del poliziotto, che ben sapeva quanto fosse stupido entrare in tre
in un edificio dove altri tre, poco prima, avevano fatto una brutta fine.
Tomoki non fece nemmeno in tempo a
formulare un’altra frase quando due auto arrivarono alle loro spalle, allo
stesso momento, occupando una la corsia destra e una la sinistra. I primi
rinforzi.
«Aspetta qualche istante», disse
Rizzo. Non si era mai girato. Continuava a fissare l’oscurità delle finestre
dell’acquario. Ma Tomoki camminava in avanti e indietro, angosciato come non
mai. In bocca l’ennesima sigaretta spiegazzata. Si girò: altre sirene, altre
auto. Erano una decina: giungevano a velocità spedita verso di loro, e, quando
arrivarono all’altezza dello spiazzo, qualcuna sgommò e virò violentemente
derapando per parcheggiare.
«Ora ci siamo tutti». Rizzo
guardava sempre avanti. Ma questa volta mosse il collo su sé stesso provocando
un rumore secco, come se alcune ossa si fossero scheggiate, e iniziò a camminare
verso il cancello. Lento come l’ineluttabile. Lento come la morte.
«Ma deficiente!», lo rincorse
Auricchio, «dove chezzo vei?».
Rizzo continuò a camminare. Era di
fronte all’inferriata che delineava l’area del parcheggio interno. Con calma
serafica, impugnò con le manone che parevano badili due sbarre, e, come se si
trattasse di due bastoncini di liquirizia, li divelse, creandovi un varco.
«Di qua», sospirò, né per fatica,
né per stanchezza. Poi, stringendosi in dentro la pancia fu il primo a entrare.
Dopo di lui, decine e decine di
poliziotti penetrarono oltre la recinzione. Le sirene spiegate, i lampeggianti,
e un poliziotto giapponese che faceva funzionare a meraviglia il suo
altoparlante lanciando minacce generiche ai criminali parevano i prodromi per
l’operazione di polizia del secolo. Mancava solo, in sottofondo, la cavalcata
delle valchirie di Wagner e un pizzico di napalm nell’aria.
Pareva un Panzer. Disarmato, a
testa alta, camminava senza temere pistolettate, accoltellate o esplosioni. I poliziotti
che lo seguivano, invece, si agitavano, facevano segni strani con le mani,
incitavano chi avevano dietro a seguirlo, ad andare più piano o a fermarsi,
come gli omini di uno scadente numero della serie di Call of Duty. Ma davanti a
loro non c’era nessuno.
Si stavano preparando ad attaccare
dopo l’allarme? Il timore cresceva. Rizzo però era sereno, e camminava a testa
alta, petto in fuori, come il contadino che passeggiava tra i suoi campi in una
bella giornata di primavera, pregustandosi la marcia trionfale che vi avrebbe
fatto, da lì a pochi mesi, in estate, in occasione del raccolto.
Iniziò improvvisamente. Una porta
laterale, di quelle con il maniglione antipanico, si spalancò proprio di fronte
al corteo di forze dell’ordine. Ne uscirono, di corsa, con la faccia impaurita,
cinque ragazzini giapponesi dalle creste variopinte, dagli anelli al naso,
vestiti come i drogati di Trainspotting.Per qualche eterno secondo nemmeno si accorsero della marmaglia governativa
che avevano alle spalle: guardarono subito, nell’oscurità, in direzione del
mare. Era nero come il cemento fresco. Ma i poliziotti erano troppi, e troppi
vicini perché non si accorgessero subito della loro presenza.
«Oh cazzo!!!». Gridò uno. E
iniziarono a correre come manco Pantani sul Mortirolo. Furono immediatamente
presi e acciuffati. Rizzo si girò verso il portone con il maniglione
antipanico, che nel frattempo si era riadagiato bloccandosi. Bastò una manata
perché le porte si riaprissero di scatto.
«Di qua», continuò, serafico. Era
il primo ad entrare. Alzò gli occhi. Non era solo. Erano una ventina. Non era
razzista, ma gli parevano tutti uguali: stessi capelli biondi, stessi piercing,
stessa aria strafottente con la bocca prominente e una smorfia all’altezza del
naso. Lo circondarono, lanciandogli insulti incomprensibili. Si trovavano nella
caffetteria nord dell’acquario. Alcuni tavoli, un lungo bancone di servizio, un
grande specchio e tanta, tanta polvere.
Satoshi Fujii, 19 anni, bulletto di
periferia da poco assoldato nella banda di Kenzo, piantonato in ospedale, poche
settimane dopo racconterà a un incredulo pubblico ministero che il commissario
dell’antidroga italiano Rizzo, soprannominato dai media “Piedone”, aveva
sorriso, prima di iniziare. Era un dettaglio trascurabile, ma trovò comunque
spazio nella relazione iniziale del maxi-processo che ne seguì. Sorrideva. Un
uomo che, per la scienza moderna, sarebbe dovuto morire due ore prima, ora
sorrideva di fronte a venti teppisti giapponesi armati di coltelli, catene e
katane.
Un ghigno feroce. Poi l’oscurità.
«Rizzo, porca puttena, questa porta
s’era incastreta. Dove sei?». Trenta secondi dopo Auricchio e i suoi riuscirono
a spalancare la porta di sicurezza che si era chiusa inavvertitamente alle
spalle del grosso commissario barbuto. Era lì, al centro della stanza, viso in
basso. Per tutta la caffetteria, sparsi come fiori a un matrimonio, giacevano
ragazzini giapponesi nelle posizioni più strane. Parevano degli steli
attorcigliati attaccati a dei petali gialli rappresentati dai loro capelli
biondi spettinati. Alcuni dormivano tra i rimasugli di alcuni tavoli di legno,
per terra, un altro era incastrato nel vetro anti-starnuto del bancone, un
altro ancora penzolava dal lampadario come un buffo addobbo.
Rizzo fissava per terra, come un
bambino che aveva fatto una marachella. Ma le decine di poliziotti italiani e
giapponesi lo fissavano come dei pulcini di una squadra dell’oratorio
fisserebbero Leo Messi.
Auricchio lo squadrò, intimorito. Poi si
fece coraggio: «Chezzo ci fei qui fermo? Andiemo, c’è una chezzo di Belva da
catturere». Rizzo, goffamente, iniziò a camminare verso il corridoio. Auricchio
lo guardò di nuovo per alcuni secondi, con lo stesso fremito d’orgoglio con cui
John Hammond guardò le sue creature in quell’estate del 1993. Con un bestione
del genere – ne era sicuro – di Belve ne avrebbe catturato anche dieci.
Capitolo 52 *** Cinque personaggi in cerca di epilogo - Kenzo ***
52
Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Kenzo
«Bbbzzz… ELVA… CONDETO… FUORI… TO…
NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA MAI NIENTE A ME? E
ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVE PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL… SEI CIR… bbzz.
Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»
«PORCA PUTTANA NO!». Kenzo gettò a
terra la siringa di stimolanti, si tolse i guanti di lattice e lasciò De Simone
ammanettato appeso a un gancio, come se non esistesse neppure.
Era da più o meno cinque minuti che
aveva iniziato a “lavorare” su di lui, come la Belva gli aveva ordinato.
Avrebbe dovuto estorcergli quante più informazioni possibili su Auricchio e il
suo team: prove raccolte, indizi, identità di eventuali “gole profonde”. Nulla
di tutto questo. De Simone era rimasto muto come un pesce. Era solo l’inizio,
però: se Kenzo avesse potuto esercitare il suo mestiere in santa pace nel giro
di quaranta minuti avrebbe raccolto tutto. E invece no. Erano stati scoperti.
La polizia era lì fuori.
«In acqua non ci vado. In acqua non
ci vado». Ripeté, mentre spalancava la porta e si dirigeva verso il corridoio
dell’acquario. I suoi sgherri correvano all’impazzata, come in preda a una
crisi di panico. Arpionò il primo, e con la mano sinistra lo appiccicò al muro,
con la mano destra afferrò la pistola e gliela infilò in bocca.
«Stai calmo Shinji». Lo rassicurò a
modo suo. «Siamo preparati a tutto. Lo sai. Ora mi dite perché cazzo siete
tutti impauriti come delle checche isteriche di merda».
«La Belva», bofonchiò, «è morta!».
Kenzo fece scattare il cane della
pistola. Il ragazzo tremò ancor di più: «Cazzo dici?».
«Ti giuro, l’ho vista anch’io, nel
magazzino. Ho sentito del casino, ho spalancato la porta, lui è lì, disteso per
terra. Non risponde. L’hanno ucciso capo». L’infamone allontanò la pistola,
bestemmiando.
«Oh cazzo, cazzo, cazzo, merda».
Ora anche lui era nel panico più nero. Certo, le cose potevano andare storte.
Ed era per questo che la Belva lo aveva preparato, aveva preparato tutti loro
ad ogni evenienza. Gli pareva ancora di essere al “corso” accelerato a cui li
aveva sottoposti. La Belva era uno per cui la sicurezza veniva prima di ogni
cosa. Per ogni piano studiava ogni possibile esito, raccoglieva informazioni,
prevedeva ostacoli, anticipava soluzioni. Aveva previsto persino come i suoi
sottoposti si sarebbero dovuti comportare in caso di incendio all’acquario.
Incendio all’acquario? Uno stabile costruito solo di cemento per quale motivo sarebbe
dovuto andare a fuoco? Ma la Belva aveva previsto anche quello. Riunioni su
riunioni. Kenzo sapeva benissimo pure quello che avrebbe dovuto fare nel caso
la Belva fosse stata ferita, catturata o resa inabile.
«Ricordati», gli rimbombavano
quelle parole inutili, «se mi dovesse succedere qualcosa, qualunque cosa, per
cui venissi ridotto male, mi dovrai portare a…» E pronunciava il nome di
un’isoletta caraibica sperduta, dove molti bancarottieri italiani facevano
defluire i loro conti segreti. «Lì mi rimetteranno in sesto, lì penseranno a
me. Lì ho tutto quello che mi serve». «E se non lo facessi?», aveva osato dire
Kenzo, «se ti lasciassi morire come un cane?». «Allora moriresti anche tu»,
pronunciò, sicuro, come se fosse la cosa più naturale del mondo, «ho degli
uomini che vivono senza fare assolutamente nulla. Abitano in distinte villette
nelle periferie delle più belle città europee con le loro famiglie. Hanno la
mogliettina, il cane, uno sport noioso e un banale lavoro d’ufficio per cui
timbrano la mattina un cartellino e prendono stipendi a quattro zeri per
passare le giornate a spippettarsi su Youporn. Vivono solo ed esclusivamente
per un motivo: impedire a stronzi come te di fare i furbi. Nel nostro ambiente
si viene sempre a sapere tutto», continuò, imperioso, «se qualcuno dovesse
farmi uno sgarbo, quel qualcuno si ritroverebbe alle calcagna tutti i signori
di cui ti parlavo prima. Chi avrà l’onore di esibire il suo scalpo, potrà
beccarsi tutto quello che ho da parte in quell’isoletta di cui ti parlavo
prima». Bastò questo a far capire a Kenzo che la Belva era un alleato con cui
non si poteva scherzare. Alleato? Era un suo sottoposto temporaneo, non sarebbe
mai stato un alleato, anche se, a livello di accordi, era proprio quello. La
carta non canta sempre.
«In acqua non ci vado, in acqua non
ci vado». La via di fuga di cui aveva parlato la Belva. Dietro all’acquario,
infatti, li attendeva al porticciolo, come estrema via di fuga, un numero
imprecisato di motoscafi, scooter d’acqua e altri mezzi con cui tentare la
sortita verso l’oceano. Ma Kenzo un problemino ce l’aveva. Un problemino non
proprio di poco conto, che gli si rifletteva di gran lunga anche nei rapporti
con le persone, pregiudicandogli ogni benché minima forma di igiene personale.
Il termine forse non è il più fortunato, ma è sicuramente il più completo.
Kenzo l’infame era idrofobo. Odiava l’acqua, odiava ogni forma d’acqua
possibile: odiava l’acqua da bere, odiava l’acqua come elemento di cottura,
odiava la pioggia, odiava lavarsi, odiava il mare. Per un giapponese, destinato
a nascere, crescere e morire circondato da mari, fiumi, cascate e terme
pubbliche era una cosa grossissima da digerire.
Le fila erano spezzate. Ogni uomo
per sé. Salì la tromba delle scale, armato solo di pistola, mentre attorno a
lui piccoli Yakuza uscivano in pasto al nemico. Procedeva per la strada più
lunga, per sbucare a sud sperando in una via d’uscita. La Belva aveva previsto
tutto. Una semplice cosa non aveva previsto: la sua morte. Chi diavolo era
riuscito ad ucciderlo? E così in fretta? Appena aveva sentito la voce di
Auricchio al megafono, già la Belva era stecchita. Impossibile. Non poteva
essere vero. E adesso, come si sarebbero dovuti comportare? La Contessa non
avrebbe più sganciato le password, e anche se l’avesse fatto, i soldi sarebbero
finiti in conti off shore a cui solo la Belva aveva accesso. Inutile dunque
badare alla vecchia italiana. Unica cosa mettersi in salvo. Ma non dalla parte
dell’acqua. Quello mai.
Si trovò nel parcheggio interno
dell’acquario. Rumori di sirena e altoparlanti, mentre, non distante, sentiva
urla e passi. Si acquattò e iniziò a correre verso la recinzione. Era una
pazzia, ma non aveva alternative. Aveva patito troppe crisi di panico nel corso
della sua vita, anche in occasione di piccole piogge, per sfidare l’oceano.
Scavalcò la recinzione, in punto
distante dal cancello e per nulla illuminato dai lampioni: era in strada. Non
ci credeva neppure lui. Aveva di fronte una trentina d’auto “in borghese” con
il lampeggiante acceso e le sirene spiegate. Ma di poliziotti ne vide
pochissimi. E nessuno di essi vedeva lui. Erano solo tre, tutti impegnati in
conversazioni al telefono, girati verso l’acquario. Si acquattò tra i cespugli
di vegetazione marittima. Voleva lasciarsi alle spalle le forze dell’ordine e
continuare a piedi. Poi, chissà… Avrebbe rubato una macchina? Si sarebbe
nascosto da qualche amico? Non lo sapeva.
Ma la voce di uno dei tre
poliziotti chiacchieroni lo bloccò.
«Sì, maledetti. Hanno ucciso
Yamaguchi», parlava al telefono, «Mi hanno detto che hanno appena trovato il
suo corpo e anche quello di un italiano…. Eh sì. Ma noi l’abbiamo preso. È qui.
Ha finito di fare il demonio».
Fu più forte di lui. Kenzo alzò gli
occhi. Il poliziotto che parlava era il più isolato dei tre. In piedi, in
divisa, telefonino tenuto verso l’alto, era un omino piccolo e magro,
completamente calvo. Pareva una sorta di folletto per via di un paio di occhi
tremendamente grandi. L’infame rimase come folgorato. E non per la strana
conformazione fisica del poliziotto. Seduto nella sua auto, nei sedili
posteriori, c’era un uomo vestito di bianco. Capelli d’argento, viso
inconfondibile. Pareva dormisse.
“Capo!”. Lo avevano già preso.
Erano stati una scheggia. Mentre lui gironzolava tra i meandri dell’acquario
nel tentativo di trovare la via di fuga più isolata, gli uomini d’Auricchio
avevano catturato la loro preda, che ora già giaceva sicura in un’auto. “Ma
allora non è morto”. Ma Kenzo desiderò che lo fosse. Perché ora Kenzo sentiva
sul collo il fiato di qualche sicario amante del golf e dei vini pregiati, che
forse stava già partendo dall’Europa per venirlo a prendere. Doveva fare
qualcosa.
“Andiamo”. Si fece coraggio. Sbucò
fuori dal verde. Sgattaiolò tra qualche auto e fu alle spalle del folletto-poliziotto.
Estrasse la pistola, ma non gli servì caricarla. Con un movimento preciso,
sbatté l’arma sulla nuca dell’agente giapponese, tramortendolo. In due secondi
era già in auto. Girò la chiave e partì, sgommando come Colin McRae.
«Capo, tutto è andato a puttane, ma
ora ti porto in salvo». Kenzo ansimava e respirava a fatica. Aveva evitato
l’acqua. Aveva salvato la Belva.
«Eh? Chi è? Che ora è?». Il
passeggero si svegliò di soprassalto, sballonzolato dalla folle velocità del
veicolo contro il finestrino laterale.
«Qualche idiota mi ha detto che eri
morto». Ghignò l’Infame, prendendo una curva strettissima alla fine del
lungomare dei chioschetti.
Il passeggero si ritrovò subito a
sbattere la testa contro l’altro finestrino, emettendo dei suoni gutturali
simili al lamento di un tricheco azzannato da un’orca assassina.
«Capo, come stai?».
Il passeggero abbracciava il sedile
anteriore. «Beh… Insomma, io, cortesemente, se posso esprimermi… Io, professor…
ehm… dottore non è che sono nella posizione di dire qualcosa ma… vorrei solo
segnalare che mi sono cagato addosso».
«Ma che diavolo ti hanno fatto?».
La voce di Kenzo era gonfia di preoccupazione.
«Io, beh… dottore…» ma l’ennesima accelerata
inchiodò il passeggero al sedile, muto, se escludiamo strani gorgoglii.
«Ti hanno proprio conciato male.
Come volevi tu, so dove portarti».
«Abbiate pietà». Sibilò l’omino in
auto con lui, che di pietà, in effetti, aveva sempre avuto un gran bisogno.
Capitolo 53 *** Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Silvana ***
53
Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Silvana
La chiamano l’età dell’insoddisfazione. Dura dagli
zero ai settant’anni. Ottanta, per i più robusti, come ci ricorda il Salmo.
Quando hai 17 anni e vai al liceo non vedi l’ora di
averne 30 e di essere già dentro il mondo del lavoro. Ma, quando di anni ne hai
30 e giocoforza con il lavoro devi avere a che fare, pagheresti fino all’ultimo
spicciolo per averne di nuovo 17 e tornare tra i banchi del liceo.
Quando sei single e solo come un cane il tuo unico
pensiero è quello di trovare al più presto un’altra persona che riempia i tuoi
vuoti e ti dia un motivo per iniziare la giornata. E quando questa persona la
trovi, in alcuni momenti della giornata, ti ritrovi a fantasticare sulle
comodità della vita da bachelor, dai vantaggi di una scarsa igiene personale
alle sinfonie del rutto libero.
La Contessa Silvana Serbelloni Mazzanti Viendalmare in
quel momento era proprio a tu per tu con una delle più grandi contraddizioni
della vita. Cinque minuti prima sognava che il famigerato criminale che l’aveva
rapita si allontanasse al più presto da quella stanza, dove l’aveva fatta
legare e dove si accingeva a spillarle alcune centinaia di milioni di euro
grazie a pochi clic su un computer. Ora che alcuni strani scavezzacollo
nipponici lo avevano chiamato altrove e l’aveva lasciata da sola, nella stanza,
in compagnia di una strana donna magra e atletica dal volto impassibile,
avrebbe ceduto in un istante, e ben volentieri, le quote di sua proprietà dei
Country Club più importanti del vecchio continente perché l’uomo più ricercato d’Europa
tornasse dentro la stanza e riprendesse da dove aveva cominciato,
risparmiandola almeno per un istante da quel limbo di inquietudine.
«Ma te non sai proprio niente?», gracchiò nei
confronti di Sakura il Cesso.
Ma la ragazza rimaneva appoggiata con la schiena
contro il muro, una gamba sollevata e le braccia distese. Aveva l’aria
stravolta dalla noia. E soprattutto, non rispondeva.
La Contessa, legata stretta alla sedia, guardava sul
tavolo il portatile della Belva acceso. Molte le finestre
aperte. Era a pochi clic di distanza dal ritrovarsi di gran lunga più povera.
Ma comunque, ancora ricca da fare schifo.
«Aho, ma te la lingua t’ha magnata er gatto?».
Sakura il Cesso era lì, ferma. I minuti passavano,
scorrevoli come il traffico sulla Salerno-Reggio Calabria. La condensa
dell’umidità della notte si raggrumava sulle finestre dalle persiane chiuse. Un
forte SBAM dalla porta fece sobbalzare sulla sedia la Contessa che proruppe
pure in un urletto, sbarrando gli occhi.
«L’HANNO AMMAZZATO!!!». Non era la Belva, ma un
ragazzino. Capelli biondi da componente di una boy band britannica, c’aveva
pure, al posto dei baffi, quei peletti inutili che c’hanno i ragazzini di
tredici anni.
Sakura fece un passo in avanti, calma: «Shinji, che è
successo?».
«HANNO AMMAZZATO IL CAPO!».
«Il capo chi?», replicò, a strettissimo giro.
«Il capo italiano. L’abbiamo trovato nel magazzino,
c’è un casino totale, la polizia è qui fuori, il capo è disteso a terra, non si
muove, non c’è il più il ragazzino, non c’è nessuno, abbiamo ammazzato gli
altri uno era vivo di lì con Kenzo ma ora anche Kenzo è fuggito e…». Non
respirava neppure. «E lei? Di lei che facciamo?». Un barlume di terrore negli
occhi del ragazzino. Estrasse la pistola. «Dobbiamo ammazzare anche lei. Ci ha
visto, la polizia è qui fuori. Dobbiamo scappare!». E si avvicinò verso la
sedia, tremando coma una foglia. La pistola in mano, piegata, come quella di
uno scugnizzo di un rione malfamato, sconvolto durante la sua prima rapina. La
Contessa chiuse gli occhi. “Dio, Dio, Dio”. La sua prima preghiera in decenni.
Sakura, invece, era calmissima.
«Tu non ammazzi proprio nessuno». Disse, a voce bassa,
frapponendosi tra lui e la donna. «La Belva l’hanno uccisa, davvero?». Il
ragazzino annuì.
«Scappa allora! Veloce!». Lo disse con le parole, ma
lo ribadì con lo sguardo.
«E lei?», il ragazzo quasi singhiozzò, calando la
pistola.
«A lei ci penso io. Corri!». Il bimbetto scomparve
alla sua vista, volatilizzandosi di fatto.
Sakura si girò di scatto. Pareva aver perso improvvisamente
la sua flemma: si precipitò come un falco in picchiata sulla Contessa. Con un
rapidissimo movimento di mano, estrasse un coltello e lo puntò alla gola della
donna.
Alla riccastra mancò il respiro.
«Questo è quello che facciamo. Io ora ti sgozzo e fra
cinque minuti gli sbirri troveranno il tuo corpo senza vita. Dovranno
inzupparsi le scarpe di sangue per portarti fuori».
«DIO NOOO!». Urlò la Serbelloni, ma non ebbe tempo di
continuare. «Oppure…», proseguì Sakura, che non si era mai interrotta, «Io ti
libero da queste corde, esco da qui e dico agli altri che ti ho ammazzata e
dunque non lascerò testimoni, anzi…» e si girò di colpo, dando le spalle alla
nobildonna. Si diresse verso il laptop della Belva, con le finestre dell’home
banking ancora aperte, lo chiuse e lo pugnalò in più punti con il coltello,
passandolo da parte a parte. La contessa la guardava strabiliata. «Questo non
serve più», enunciò con calma. Si girò di nuovo.
«Ti salveranno tra meno di venti minuti, tornerai al
tuo paese. Nessuno ti importunerà…»
«Ma?». La anticipò la Contessa, che era divenuta ricca
sì per fortuna ma che aveva mantenuto, anzi, aveva ingrossato il suo patrimonio
con una perspicacia non comune.
«Ma», proseguì il Cesso, «fra tre settimane riceverai
un curriculum da una timida e impacciata ragazza giapponese, desiderosa di
venire a vivere in Italia. La assumerai come assistente, la pagherai 150 mila
euro al mese, con tre giorni di permesso alla settimana, e questa assistente
garantirà della tua incolumità».
«E l’assistente saresti…»
«Io. Ovviamente, se ti rimangiassi la parola, saresti
cibo per vermi ancor prima di potertene pentire». Alla Contessa non parve
nemmeno vero per quanto era bello. Prima rischiava di cedere milioni su
milioni. Ora, a un prezzo modico, si portava a casa una specie di ninja capace
di fermare da sola tutte le altre Belve lì fuori. Non si turbò per il repentino
cambio di casacca. Era nella natura delle cose, nelle aziende, in politica,
nelle relazioni, cambiare tutto di punto in bianco per la soluzione migliore. E
Sakura il Cesso, rimasta disoccupata, cercava solo un partito presso il quale
accasarsi.
La vita, eterna età dell’insoddisfazione, ne fa di
scherzi strani. Ma forse, i più grandi scherzi siamo noi a farli a noi stessi.
Come un clown che si prende da solo a torte in faccia.
Così la Contessa, che individuò nel discorso della
ragazza dalla tuta attillata e dalle borse sotto gli occhi uno spiraglio non di
poco conto, non solo vi ci si infilò, ma lo spalancò con violenza, quasi a
squarciarlo. Si trattava di un affare, un affare da cui aveva solo da
guadagnare. Eppure, la Silvani, in vita sua, financo tra le bancarelle del
mercatino delle pulci tra cui camminava i sabati pomeriggio, non aveva mai
finito un affare senza mercanteggiare, senza farsi ridurre un pochettino il
prezzo o strappare un accordo leggermente più favorevole. Solo per l’illusione
– che gli italiani ricercano un po’ troppo spesso – di sentirsi più “furbi”
degli altri.
«Ok!», quasi urlò la Contessa, «ma a una sola
condizione!». Il Cesso inarcò un sopracciglio. «Per essere assunta», continuò
serena, «dovrai vestire come ti dico io. Anzi, i vestiti te li compro io. Anche
la pettinatura, il trucco, i gioielli e le scarpe li deciderò io». La ragazza
giapponese era impassibile. «Mi scuserà il commento», aggiunse sorridendo, come
se fosse al mercato del pesce e non in Giappone, legata a una sedia, con un
coltello puntato alla gola, «ma, modestamente, sono al centro delle cronache
rosa, e non posso farmi vedere – senza offesa – con un’assistente vestita da
benzinaia». Pareva radiosa, forse mai comprese il rischio che stava
attraversando. O forse era proprio perché lo comprendeva, ma l’anima della
giocatrice d’azzardo compulsiva era ancora lì: «Voglio dire, lei è una ragazza
adorabile», continuò, quasi ignorando di avere di fronte un’assassina, «con un
po’ di fard lì e trucco qui, farà perdere la testa a moltissimi, creda a me».
Il Cesso era una statua. Se qualcuno avesse potuto
assistere alla scena, sicuramente, avrebbe chiuso gli occhi, per impedire di vedere
la coltellata che sicuramente stava per arrivare. Ma il Cesso si strinse le
spalle, mosse un secondo la testa, ed emise un filino di voce: «Mmmh. Ok».
«Ottimo», proruppe con un urletto mellifluo stile Ripa
di Meana la responsabile occulta del crollo del Montepaschi. Non si aspettava
nessun’altra risposta. In tre secondi la giovane giapponese, con movimenti
degni del miglior Chef Tony, liberò la cariatide dai lacci che la rendevano
prigioniera. Poi, si girò di scatto e scomparve dietro una porta.
Silvana Silvani, vedova del compianto Conte Serbelloni
Mazzanti Viendalmare, si alzò in piedi, con aria annoiata. Era di nuovo lei,
con i suoi soldi, la sua spocchia, il suo fare che mescolava proditoriamente il
nobile al burino, come i cinesi mischiano il fritto al dolce. Le mancava solo
il fido Filini che le leggesse l’andamento dei titoli petroliferi e i risultati
delle corse dei cavalli.
Non aveva ancora deciso che cosa fare, mentre il
sangue le fluiva attraverso le vene varicose, quando la porta, sbattuta due
minuti prima da Sakura il Cesso, si aprì con forza. Era un uomo tarchiato con i
baffi. Una divisa dei carabinieri e un che di familiare. Le si gettò
praticamente addosso con fare preoccupato.
«È QUI!!!», urlò, mentre alle sue spalle si
accalcavano agenti di varie forze dell’ordine italiane e giapponesi.
«Finalmente siete arrivati…». Sbuffò la contessa,
annoiata.
Il Maresciallo Giuseppe Bottazzi, nato e cresciuto a
Brescello, era un uomo tutto d’un pezzo. Da piccolo lo avevano tirato su, a
pane, culatello e ceffoni, il nonno meccanico, già partigiano e senatore della
Repubblica e il vecchio parroco del paese, un burbero pretone sempre vestito di
nero che a 80 anni suonati pestava, da sobrio, come un hooligan inglese di
quelli strafatti. L’addestramento militare, al confronto, era stato per lui il
collegio delle educande. La mente scientifica che lo aveva posto ai vertici del
RIS di Parma gli negava la gioia delle più piccole sorprese. Lì, però, in
quella notte giapponese, rimase come inebetito di fronte a quel colosso di
donna. Granitica. Imperterrita. Baciata dalla fortuna con un’intimità con cui
la fortuna non aveva mai avvicinato nessuno.
Si asciugò il sudore con un fazzoletto. Si tolse il
cappello quasi per rispetto di fronte all’Inaffondabile stronza.
Capitolo 54 *** Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Auricchio ***
54
Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Auricchio
«Porca puttena maledetta!!!».
Auricchio era rosso in volto come un peperoncino
piccante calabrese. E continuava a cambiare in “e” le “a” delle penultime
sillabe. Gesticolava come al suo solito. Urlava sputacchiando. Ma nessuno,
nemmeno lo spettatore di cinepanettoni più ignorante di tutto lo Stivale, uno
di quelli che ride alle battute di Colorado su Italia 1 e tiene l’autografo di
Massimo Boldi in salotto come una reliquia lo avrebbe trovato in quel momento
divertente.
Rizzo, alle sue spalle, non riuscì proprio a
trattenersi. Rimase in silenzio, ma con un sinistro sfondò una parete. E non
era cartongesso. Tutti quelli che entravano ed uscivano dallo stanzino erano
agenti delle forze dell’ordine, militari, uomini duri. Persino qualche donna,
che quanto a testosterone se la sarebbe giocata con Xena. Ma tra questi alcuni
piangevano, altri battevano i denti. Qualcuno abbozzò dei conati di vomito. Lo
spettacolo di fronte a loro era infatti davvero agghiacciante.
Yamaguchi ed Esposito sembravano sorridere. Ed
effettivamente la cosa era parecchio spettrale, dato che erano in pieno rigor
mortis. Appesi per le braccia a un lungo tubo di metallo, il peso del loro
corpo li schiacciava verso terra, come due pesanti zainetti appesi ad un
attaccapanni. I volti tumefatti, dalla bocca fuoriuscivano ancora, come da una
spugna bagnata appoggiata a un gancetto sopra un lavandino, pesanti gocce di
sangue, che tintinnavano con un suono sinistro sulle pozze dello stesso liquido
che incontravano nel pavimento. Nelle suddette pozze, qui e lì, pezzettini di
materia rosa chiaro, che nessuno, almeno per quei primi minuti, tentò – o volle
provare – a identificare. Non erano tutti gli agenti della spedizione. Tanti
altri, infatti, guidati da Tomoki Asuka, stavano stanando uno per uno i
criminali dagli altri piani dell’edificio.
Il primo agente che aveva aperto la porta aveva urlato
come un pazzo. Se lo aspettavano tutti. La ragazzina che saltava sui tetti e
faceva sparire le cose era stata chiara. Ma vederlo era tutta un’altra cosa.
Auricchio era fermo di fronte ai due uomini, che,
sebbene da legati, avevano incontrato la morte stando in piedi. Era quello che
si era avvicinato di più di tutti. Nessuno, mai, nella vita, gli avrebbe fatto
cambiare idea: era colpa sua. Lui era il capo dell’operazione. Se erano stati
uccisi era tutta colpa sua.
«Non è morto in Iraq. È morto qua, miseria carogna
puttena!». Gemette. «Io lo ammezzo. Ammezzo la Belva». Non l’avrebbe mai
confessato a nessuno, nemmeno sul letto di morte, molti anni dopo. Quello che
odiava più di tutto è che la Belva era riuscita, anche in quel caso, a
trasformare in un lutto quella che per Auricchio sarebbe dovuta essere la festa
per la sua cattura. Il culmine di gloria di un’intera vita passata a caccia di
un’ombra sfuggente. Un’altra cosa che non confessò mai è che ringraziò il cielo
che senza vita, goffamente a penzoloni, di fronte a lui non vi fosse anche il
suo braccio destro, De Simone. “Chissà dove chezzo è finito”, pensò, con un
pizzico di ingratitudine. Come se fosse uscito in pausa caffè.
Proprio in quel momento il diavolo spuntò.
«FATEMELI VEDEREEE!!!», piangeva una voce
inconfondibile. Auricchio si girò di scatto. Aggrappato a due poliziotti
giapponesi che lo reggevano, uno a destra, l’altro a sinistra, vistosamente
imbarazzati, aveva fatto capolino nella stanza della caldaia anche De Simone.
Era possibilmente messo peggio di Esposito e di Yamaguchi, tralasciando quel
piccolo particolare che loro erano morti. Lui no.
Sicuramente gli mancava qualche dente. Pareva non
avere più l’occhio destro. Forse glielo avevano strappato, o forse, molto più
probabilmente, l’ematoma bluastro che si espandeva sotto la fronte gliel’aveva
chiuso ermeticamente. Zoppicava. Il viso era una maschera di sangue.«Li hanno uccisi davvero…», mugolava, tirando
su con il naso. «Li hanno uccisi davvero». Piangeva come una bambina di sei
anni. In realtà, piangeva come un uomo, è che gli uomini si dimenticano come si
piange.
Auricchio si sentì come se gli avessero strappato le
viscere. Si avvicinò verso di lui. Paterno, comprensivo, come non lo era mai
stato prima e come non lo sarebbe mai stato più: «Chi è stato, De Simone? Chi è
stato?».
«Si sono interrotti», deglutì, «non gli ho detto
niente. Lui è andato via. Mi avrebbe ucciso. La Belva». Ansimava.
«Chelmo De Simone. Chelmo. Hai fetto un buon lavoro.
Portatelo via da qui, per piacere, portatelo subito all’Ospedale!!!», ordinò
Auricchio.
I poliziotti, incuranti di De Simone, si voltarono per
trainarlo verso l’esterno, ma il braccio destro del commissario barese urlò:
«La Belva… è morta».
Auricchio fece il giro e si mise di fronte a lui, con
la bocca spalancata: «Che dici?».
«Sì», inspirò profondamente, «quello che mi torturava…
è venuto un ragazzino. Lui è uscito dalla stanza, ma ho sentito tutto. L’hanno
ammazzato nel magazzino, diceva. Sono scappati tutti».
«Ecco perché scappavano», commentò con voce profonda
Rizzo.
«Il meghezzino… Il meghezzino». Auricchio
letteralmente volò fuori dalla stanza. Si toccò la fondina e ne estrasse la
pistola d’ordinanza. Poi, si fermò. «Dov’è il meghezzino?». Lo seguirono una
decina di agenti, confusi e disorientati. Un giovane poliziotto giapponese
illuminò con una torcia una piantina dello stabile con il percorso per l’evacuazione
anti-incendio. «Di qua!». Indicò. Persino i due giovanotti che trainavano De
Simone, con De Simone con le braccia attorno al loro collo, seguirono quel
gruppetto. Ormai l’acquario era espugnato: i malviventi erano tutti fuggiti o
catturati, per cui il livello di guardia era davvero al di sotto di ogni soglia
di sicurezza.
«Di qui», continuò a guidare quella specie di gregge
il ragazzino giapponese, che avrà avuto, sì o no, cinque anni solo in più di
Asuka junior, l’unico ancora “disperso”. Ogni passo, per Auricchio, pareva
lungo un secolo.
«Quella porta lì». Il ragazzino fece per spalancarla,
ma Auricchio, con una manata, lo spinse altrove. Alzò, tenendola con due mani,
la pistola all’altezza del petto. Tutti gli altri fecero la stessa cosa. Qualcuno,
sopra la pistola, con la mano destra preparò la torcia. Tutti, tranne Rizzo, le
cui armi erano le mani stesse, ora tenute in una minacciosa posizione
pugilistica.
«Via!», sussurrò Auricchio, che spinse il portone
antipanico con una spallata. Le torce illuminarono lo stanzone. L’emblema del
casino. Mobili, oggetti, lampade, cavi elettrici, vetri rotti dappertutto.
Pareva il covo di un accumulatore seriale.
«Dov’è?». Le torce continuarono il loro giro
vorticoso, ma, quasi per magia, al medesimo istante, tutte convogliarono in un
unico punto. Una massa bianca indistinta. Un uomo dai capelli d’argento,
vestito di bianco. Immobile.
«Porca puttena è vero». Auricchio, sempre pistola in
mano, piombò su di lui con il guizzo di un uccello rapace.
La Belva. La Belva?
Si avvicinarono a frotte. «È vivo!». Urlò il ragazzino
di prima, l’unico a notare i ritmici movimenti del petto. I cani delle pistole
ringhiarono all’unisono con il loro inconfondibile tintinnio metallico. Ma non
c’era nessuna resistenza da parte dell’uomo. Gli occhi spalancati a fissare il
vuoto.
«Sarà Fracchia», azzardò con malcelata delusione un
poliziotto italiano del seguito. «Lo avrà preso dall’auto che è fuori e lo avrà
buttato qui perché ci cascassimo di nuovo».
«Non è Frecchia», sentenziò sicuro Auricchio, fisso su
quegli occhi che fissavano il vuoto. Erano occhi spenti, distanti dalla
vitalità e dal terrore che avevano a lungo tempo emanato. Erano però ancora
gelidi, ma desolati da un diverso tipo di freddo. Ciò che non mancava in quello
sguardo capace di penetrare i muri era un indistinto anelito di suprema
dignità. «Non è Frecchia. Lo abbiemo cattureto davvero».
«È vero!», gioì il poliziotto italiano di prima, «non
è Fracchia!». Lo disse con sicurezza perché, a differenza di Fracchia, che avevano
preso poche ore prima, i pantaloni di quell’uomo a terra, pur impolverati, pur
in parte strappati, erano ancora completamente candidi. Senza alcun tipo di
macchie dalle colorazioni imbarazzanti.
«Ma che gli è successo?», domandò qualcuno.
«Non è ferito…», gli fece eco qualcun altro.
«Sarà stata la ragazzina», continuò un altro ancora.
Ma Auricchio non ci badava. Sospirò più volte, come lo
studente che si prepara ad esporre, dopo anni di lavoro, sacrifici e notti
insonni, la sua tesi di laurea. Rimise la pistola nella fondina, e dalla tasca
destra estrasse un paio di manette. Le stesse. Lì da quanto? Non se lo
ricordava più. Ma erano pronte per quel giorno.
Si chinò, e, tremando come una foglia, strinse i ganci
di metallo ai polsi della sua nemesi. E non era paura.
«Paolo Bonsignore, la dichiaro in arresto».
Nei suoi occhi il luccichio del falegname, che, a
tarda sera, dopo giorni di lavoro, contempla con orgoglio quei pezzi di legno
da lui prima tagliati, poi con pazienza e carta vetrata levigati, successivamente
incollati e infine lucidati centimetro per centimetro. Non più solo pezzi di
legno, ma tavoli, sedie e panchine di tutto rispetto.
Capitolo 55 *** Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Tomoki ***
55
Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Tomoki
Non è tanto una brutta notizia in sé a tagliarti le
gambe. Perché una brutta notizia, per quanto brutta possa essere, la affronti.
All’inizio ti devasta, ma poi ti comunica essa stessa dei mezzi, delle
modalità, degli stratagemmi per superarla. In un modo o nell’altro. Oppure,
molto banalmente, per convivere con il dolore immenso che provocano.
A fiaccarti lo spirito, impedendoti ogni tipo di
lucidità tale da permetterti una qualsivoglia reazione razionale è il dubbio.
L’impossibilità di sapere se quella notizia che attendi sia bella, banale o
brutta. Anche molto brutta.
Tomoki Asuka era davvero nel marasma più totale.
Spalancava porte, camminava per lunghi corridoi, cercava negli ampi saloni
scuri, tra vetri rotti e odore di varecchina. Suo figlio pareva essere
scomparso nel nulla.
Dalle ricetrasmittenti e dai volti dei colleghi che
aveva incrociato sapeva che la Contessa era stata liberata, che la Belva era
stata con tutta probabilità catturata. Aveva persino saputo che qualcuno aveva
tramortito quell’imbecille dell’agente Matsuda e se ne era scappato via con Giandomenico
Fracchia. Ma ad innestargli il tarlo del dubbio più atroce la notizia – a dir
poco agghiacciante – del fatto che Esposito e Yamaguchi erano davvero morti. E
che De Simone, nonostante fosse una pellaccia, era stato tanto così dal fare la
stessa fine. “Che speranze”, ripeteva la sua mente razionale, “poteva avere
dunque suo figlio?”.
Nonostante tutto continuava a cercare, a correre, a
urlare il nome di Daiki. Non era più il capo della polizia, anzi, forse, quella
sera, non lo era mai stato davvero. «DOVE SEI???», urlò di nuovo. Ma
nell’oscurità più totale, vide uno spiraglio di luce. Letteralmente. Tra le
tante porte del lungo corridoio del secondo e ultimo piano, verso la fine, ne
scorse una socchiusa. Da essa, entrava una luce tenue. Probabilmente una specie
di lampione. Doveva essere, evidentemente, la porta verso il terrazzo
panoramico. D’estate ci piazzavano il bar esterno: la gente andava per sedersi
sui distinti tavolini, sorseggiare costosi cocktail dai nomi esotici e dal
gusto orribile e godersi la visuale dall’alto della spiaggia e dell’oceano.
Come spinto da una forza incontenibile, si lanciò
verso la porta, la spalancò con forza e gridò di nuovo il nome di suo figlio.
Era lì. Riverso su una specie di lungo sdraio, uno di
quelli in dotazione del bar estivo dell’acquario. Le gambe distese, la mano
sinistra lungo il corpo e la destra sopra il petto, quasi a proteggersi dal
freddo. Pareva guardasse in alto.
«DAIKI!!!», urlò. Il ragazzo girò la testa, e, con
voce flebile, salutò: «Papà. Ce l’abbiamo fatta».
Tomoki piombò verso il figlio. Si accorse che non era
ridotto proprio una meraviglia. «Ma… Cristo… Ti hanno rotto il naso… E che
diavolo hai in bocca?». Era disperato, davvero. Sua moglie, se avesse potuto
farlo dal cielo, lo avrebbe ucciso. Aveva esposto il loro unico figlio a un
rischio mortale. Non solo: l’avevano ridotto così soprattutto perché lui aveva
acconsentito a trattarlo non per quello che era – un ragazzino – ma per una
specie di poliziotto cresciuto e formato. E sì che era lei quella di manica
larga. «La gamba… È gonfia… Ma…».
«Saint Tail mi ha salvato», lo interruppe tranquillo.
Nonostante la gravissima preoccupazione, il dolore e il pentimento, Asuka
senior si accorse che il figlio pareva sotto l’effetto di una qualche droga
inebriante.
«Saint Tail?», domandò Tomoki. Era solo un nome, ma
dentro v’erano tutti gli interrogativi del mondo, per i quali, però, il
poliziotto poté intuire con un sorriso più d’una risposta.
«Ha sconfitto la Belva», riprese Asuka junior.
Aveva parlato solo di lei. Di fronte a suo padre non
aveva minimamente accennato alle sue vistose ferite. Non aveva spiegato il
perché si trovasse lì, a tre piani di distanza dal luogo dove Tomoki, poco
prima, aveva sentito si era verificato lo scontro con la Belva. Non aveva
raccontato come – così conciato – fosse riuscito a salire le scale. Ma
soprattutto, non aveva dato alcun indizio sul perché uno che aveva incrociato
così da vicino la morte e che aveva abbracciato in modo così stretto il dolore
si trovasse in quello stato di profonda beatitudine.
Nonostante l’inquinamento luminoso che funesta il
Giappone più delle altre nazioni occidentali, quella notte era letteralmente
bagnata di stelle. L’oceano, placido e sereno, ricordava la sua presenza con il
costante e lento fragore delle onde contro gli scogli. Gli stessi scogli che
per centinaia – migliaia di anni avevano fatto da cassa di risonanza di
quell’eterna musica. Una brezza profumata di salsedine scorreva per i vestiti e
pareva lenisse le ferite dal sangue e dagli agenti infettivi.
Tomoki sospirò, aprì il taschino e si accese una
sigaretta. Un goffo, goffissimo tentativo di mascherare in una nuvola di
nicotina le lacrime che gli rigavano il viso, di confondere con i colpi di
tosse per il fumo i singhiozzi del pianto. Ma Asuka junior guardava verso il
cielo, verso gli astri. In lontananza, tra i corpi celesti, c’era una stella
particolare. Luccicava di rosso, bagnata dai riflessi argentei della luna
piena, ormai calante e dunque, possibilmente, ancor più grossa e luminosa. Trainata
dall’ultimo dei suoi palloni ad elio. Chissà con che energie quella luce era
riuscita a librarsi ancora alta nel cielo. Libera da tutto e da tutti. La
stellina rossa ormai era ridotta al lumicino: spariva verso l’entroterra, verso
la città, mascherata da altre luci, coperta dalla foschia e dalla nebbia. Ma
lui la vedeva ancora. E l’avrebbe vista per sempre. Nessuna nube l’avrebbe
nascosta dal suo sguardo. Per lui era luminosa come la cometa di Halley.
Sorrise ancora prima di perdere i sensi. Distrutto,
sconfitto, torturato e quasi ammazzato aveva pregustato il paradiso.
I raggi del sole in lontananza davano il via a un nuovo
giorno. Asuka sorrise, prima di svenire di nuovo. Era davvero un nuovo giorno,
in tutti i sensi.
Al momento della pubblicazione di questo
capitolo la storia è conclusa. Nelle prossime settimane saranno pubblicati
tutti gli altri capitoli (arriveremo al 61), in cui raccogliere i frutti e
tirare le fila di quest’avventura.
Un grazie a chi mi legge, mi recensisce,
mi beta-reada (grazie Cinzia) e mi sopporta.
a
cura dell’Ufficio Stampa del Ministero
dell’Interno – www.interno.gov.it
La presente rassegna stampa è stata redatta per uso
interno. Vietata la riproduzione, anche parziale.
I lanci di agenzia e gli articoli telematici in essa
presenti sono riferiti all’Operazione Orione, eseguita dalla Polizia di Stato e
dai Carabinieri in terra giapponese in accordo e con la collaborazione della
autorità locali e dell’ambasciata giapponese in Italia.
Martedì
5
IL PANICCIA INEDITO IN GIAPPONE – DOMANI LA
PRESENTAZIONE
(REPUBBLICA.IT) - Ore 12.57 Sarà presentato domani, al Minato Art Museum di Seika, in Giappone, il
famoso “Paniccia inedito”, opera perduta dell’anziano pittore di Terracina
(LT). Dopo essere stato esposto agli Uffizi di Firenze, il quadro era stato
rubato nel giugno scorso a Londra, al BritishMuseum […] accompagnato dalla proprietaria, la magnate Serbelloni Mazzanti Viendalmare,
che ha annunciato al mondo di possedere il quadro da un anno e mezzo appena
dopo il suo ritrovamento per mano della Guardia di Finanza in una stalla del
Varesotto […] Un’occasione ghiotta anche per il jet set: l’alta società di Seika già attende venerdì sera per un ricevimento esclusivo,
al quale prenderanno parte anche industriali e rappresentanti delle istituzioni
italiane. […] «L’ennesima e bella dimostrazione dell’amicizia tra Giappone e
Italia, che può proseguire anche in virtù di nuovi accordi economici tra le
aziende dei due paesi che verranno ratificati già nelle prossime settimane»,
così l’ambasciatore italiano a Tokyo Domenico Giorgi. […] Una nota di colore: a
svelare il Paniccia inedito, domani mattina, al Minato Art Museum
sarà il noto critico d’arte italiano Vittorio Sgarbi.
BELVA UMANA: SI PROSEGUE CON LA PISTA VENEZUELANA
(Ilfattoquotidiano.it) – Ore 11.34 Non ha voluto rilasciare alcuna
dichiarazione il sostituto procuratore del tribunale di Roma Giovanna De Salis, ma le nuove indiscrezioni sugli spostamenti della
famigerata “Belva Umana”, al secolo Paolo Bonsignore,
che dopo la cattura di Bernando Provenzano è
considerato a tutti gli effetti il latitante più pericoloso d’Europa,
dovrebbero contenere qualcosa di più concreto che delle semplici dicerie. La
Belva – sostengono fonti autorevoli – risiederebbe da alcuni mesi in Venezuela:
ignoti i suoi prossimi obiettivi. Di poche settimane fa l’interrogazione
parlamentare di Alessandro Di Battista (M5S) che ha chiesto al Ministro
dell’Interno Angelino Alfano e al Ministro degli Esteri Federica Mogherini di rafforzare i vincoli con i governi
sudamericani al fine di attuare al più presto operazioni di polizia comuni per
assicurare alla giustizia la Belva e altri pericolosi latitanti italiani.
Mercoledì
6
SEIKA, GIAPPONE: VITTORIO SGARBI INSULTA LA STAMPA
LOCALE
(ANSA) – Ore 13.11 Incredibile colpo di scena durante la presentazione, al
Minato Art Museum di Seika,
in Giappone, del “Paniccia inedito”, recentemente acquistato dalla Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare
che verrà esposto nei prossimi giorni nel paese del Sol Levante. Il noto
critico d’arte Vittorio Sgarbi, chiamato a presentare alla stampa giapponese i
dettagli tecnici dell’opera pittorica più importante della storia recente del
nostro paese, si è lanciato in una serie di invettive contro la cultura
nipponica che ha lasciato allibito l’uditorio […]
FRANCESCHINI: “INQUALIFICABILE IL COMPORTAMENTO DI SGARBI”
(AGI) – Ore 14.23 «Doveva essere una festa dell’arte, ne è risultato
l’ennesimo teatrino indegno. Il comportamento tenuto a Seika
da parte di qualcuno è a dir poco inqualificabile». Così il ministro dei Beni e
delle Attività Culturali Dario Franceschini (PD). Le
critiche del ministro nei confronti del critico d’arte seguono di poco quelle
del suo sottosegretario, Ilaria Borletti Buitoni
(Scelta Civica), che ha definito lo spettacolo di Sgarbi “a dir poco
vergognoso”.
+++ GOVERNO GIAPPONESE: VITTORIO SGARBI PERSONA NON
GRADITA +++
(Repubblica.it) – Ore 15.43 “Vittorio Sgarbi è persona non gradita nel nostro
paese”. Lapidaria la nota di Tokyo nei confronti del critico d’arte.
SGARBI: “ME NE VADO, MERDE!”
(Corriere.it) – Ore 16.29 Sarebbe già in un volo diretto in Italia
Vittorio Sgarbi, che stanotte (ora italiana), durante la presentazione al
Minato Art Museum di Seika,
in Giappone, ha insultato pesantemente alcuni membri della stampa locale. “Me
ne vado, merde!”, il commento rilasciato in aeroporto dopo aver ricevuto lo
status di “persona non gradita” da parte delle autorità giapponesi.
CONTESSA SERBELLONI: “NO COMMENT”
(tgcom24.mediaset.it) – Ore 16.45 […] raggiunta telefonica la magnate
italiana, in questi giorni già in Giappone, non ha voluto rilasciare
dichiarazioni sul comportamento del noto critico d’arte Vittorio Sgarbi.
Giovedì
7
OSPITI D’ONORE AL GALA’ DI SEIKA PER IL PANICCIA
INEDITO
(ASCA) – Ore 9.00 Sta trapelando in queste ore la lista degli ospiti
dell’esclusivo galà all’insegna dell’amicizia italo-giapponese che si terrà
domani alle 19 (10, ora italiana) al Minato Art Museum
di Seika, in Giappone, per la presentazione del
“Paniccia inedito”, recente acquisizione della Contessa Serbelloni
Mazzanti Viendalmare, magnate da sempre innamorata
del Sol Levante. Sport, arte, politica, spettacolo: tutti i mondi
rappresentati. Tra i tavoli del salone trasformato per una sera in un esclusivo
ristorante, ci sarà anche il campione di baseball dei Konan Dolphins, il
lanciatore Oikawa, fresco di firma multimilionaria
con i Boston RedSox. Non
mancherà una vecchia conoscenza di teatri italiani, il soprano Mayuko Kawasaki, eccezionale Desdemona, la scorsa
primavera, alla Fenice di Venezia. Prevista la presenza anche di Kenzo Otonashi, attore già comparso in numerose pellicole
hollywoodiane e il prestigiatore GenichioHaneoka, considerato uno dei migliori al mondo […] numerosi
i volti noti italiani, tra cui il sottosegretario allo sviluppo economico Plino della Vernaccia (Fi), il magnate Abelardo Maria de Cavarzerotti e l’a.d. di Banca (omissis)
Filippo de Franciscis. Mancherà invece l’ambasciatore
italiano in Giappone, Domenico Giorgi, per pregressi impegni istituzionali
nella capitale.
SEIKA: MISTERO SUL MENU
(TgCom) – Ore 14.58 La lista degli ospiti è stata
svelata, le fashon blogger hanno già rivelato come si
vestiranno la Contessa e i suoi invitati. Resta un mistero: cosa mangeranno gli
ospiti del Minato Art Museum di Seika,
domani sera, per il galà in onore del “Paniccia ritrovato”? Si sa che sarà un
menù completamente italiano: pare che in Giappone siano già volati un noto Chef
con il suo staff. In mattinata sono arrivate le smentite di Carlo Cracco e Massimo Bottura […]
SCOMPARSO (ANCORA UNA VOLTA) GIANDOMENICO FRACCHIA,
SOSIA DELLA BELVA UMANA
(Repubblica.it) – Ore 18.45 Ci risiamo. Come i nuvoloni annunciano il
temporale, così le ripetute scomparse di Giandomenico Fracchia non fanno mai presagire
nulla di buono. 45enne impiegato della ditta Orimbelli
di Genova, Fracchia ha la sfortuna di essere sosia perfetto di Paolo Bonsignore, noto alle cronache con il famigerato soprannome
de “La Belva Umana”. Il terribile assassino, primo nella lista dei ricercati a
livello europeo e secondo nella top ten dell’FBI, si
è spesso avvalso dell’ignara collaborazione dell’impiegato genovese per
sfuggire alle Forze dell’Ordine. La sparizione di Fracchia risalirebbe alla
settimana scorsa, ma solo nelle scorse ore la notizia è trapelata dai colleghi
della ditta Orimbelli, che non lo vedono da giorni.
Conferma l’assenza del suo dipendente il dottor Orimbelli,
proprietario dell’omonima impresa cioccolatiera. No comment,
invece, dalla Polizia di Stato. Irraggiungibile il commissario Auricchio, a capo della squadra interforze che da anni
tenta – invano – di assicurare il criminale alla giustizia.
Venerdì
8
SEIKA: CUOCHI CAFONI IN GIAPPONE – TRAPELA
L’INDISCREZIONE
(TgCom) – Ore 10.49 È stato Alfonso Signorini, re del
gossip italiano, a far trapelare l’identità dei cuochi che allestiranno il
ricco ricevimento per il “Paniccia perduto” a Seika,
in Giappone, storico momento di incontro tra Italia e Sol Levante. «Non ci
posso credere», ha esordito sul suo profilo Facebook Signorini, «a
rappresentare il lusso e il bon ton italiano in Giappone saranno Sergio e Bruno
di Trastevere! La Contessa è pazza!». Un commento a bruciapelo da una fonte
attendibile. In centinaia i commenti in pochi minuti, per lo più indignati: Sergio
e Bruno, infatti, noti ristoratori della Roma popolare, sono noti
principalmente per i loro modi contrari ad ogni etichetta, l’uso di parolacce e
di insulti ai clienti. Eppure, tra i commenti, c’è anche quello di un certo “Franco
Pistoletta”: «Esticazzi! Ebbravi i Giapponesi, che Sergio e Bruno fanno la pajatamejoder
mondo».
+ + + RUBATO IN
GIAPPONE IL PANICCIA INEDITO + + +
(Ansa) – Ore 13.38
+ + + RUBATO IN
GIAPPONE IL PANICCIA INEDITO – COINVOLTA LA BELVA UMANA + + +
(Ansa) – Ore 13.43 Il famoso “Paniccia inedito” è stato rubato nel corso della
cena di gala al Minato Art Museum di Seika. A perpetrare il furto, avvenuto alla presenza della
proprietaria stessa, la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, sarebbe stata la Belva Umana. Paolo Bonsignore è infatti ricercato […]
+ + + FURTO DEL
PANICCIA INEDITO – C’È UN OSTAGGIO + + +
(Ansa) – Ore 13.50 […] non ci sono ancora conferme, ma pare che la Belva Umana
abbia rapito una persona per farsi da scudo nella sua fuga con il preziosissimo
quadro definito “Il Paniccia inedito”. Si tratterebbe di una donna,
l’ultracentenaria nobile Kaori Masamune […]
+ + + ESPLOSIONE
SU UN PONTE A SEIKA – IN GIAPPONE + + +
(Reuters) – Ore 14.09 Esplosione visibile a decine di chilometri di distanza
all’altezza del ponte di Seika, in Giappone, la
stessa città in cui è appena avvenuto il furto de “Il Paniccia inedito”. Non si
segnalano fortunatamente feriti. A breve aggiornamenti.
+ + + SEIKA –
COINVOLTA LA MISTERIOSA LADRA SAINT TAIL? + + +
(Ansa) – Ore 14.15 Secondo indiscrezioni nei strani disordini che stanno
avvenendo in Giappone in queste ore ci sarebbe lo zampino della misteriosa
ladra definita dalla stampa nipponica Saint Tail,
capace, con un notevole background da illusionista professionista, di mettere a
colpo furti con rara perizia. Non vi sono ancora conferme ufficiali. […] Saint Tail è nota per i furti filantropici, ma non c’è dalle
forze dell’ordine giapponesi alcuna tolleranza per questi atti, anzi, il
desiderio di catturare la ladra sembra vivo più che mai, considerando le forze
dispiegate in occasione dei suoi colpi.
+ + + + + ALFANO: IN ATTO IN GIAPPONE UN’OPERAZIONE
INTERFORZE + + + + +
(Repubblica.it) – Ore 14.20. Tweet del ministro
dell’Interno Angelino Alfano: “In atto in Giappone una straordinaria operazione
interforze, che coinvolge agenti e militari italiani e forze giapponesi”.
+ + + RENZI
TWITTA: “CE LA FAREMO” + + +
(Ansa) – Ore 14.25. Tweet del premier Matteo Renzi: “Questa volta lo prendiamo. #celafaremo”.
+ + + È CACCIA
ALLA BELVA UMANA + + +
(Messaggero) – Ore 14.28 Fonti interne alla Polizia di Stato confermano come
l’operazione in atto in Giappone abbia come scopo la cattura della Belva Umana.
I fatti di queste ore sarebbero dunque tutti collegati: c’è ottimismo, dopo
tanti buchi nell’acqua, sulla possibilità di assicurare una volta per tutte il
pericoloso criminale ai lacci della giustizia.
+ + + + + ORRORE AL MUSEO DI SEIKA: UCCISO VESCOVO
IBAKARI, RAPITA LA CONTESSA SERBELLONI + + + + +
(La Stampa.it) – Ore 14.42. Un’angosciante notizia giunge dal Minato Art
Musem di Seika, in
Giappone, dove poche ore fa si è verificato uno dei furti d’arte più arditi
della storia: il criminale italiano Paolo Bonsignore,
noto come “La Belva Umana”, è tornato sul luogo del furto. Secondo fonti
accreditate Bonsignore e alcuni complici avrebbero
rapito la contessa Silvana Serbelloni Mazzanti e
ucciso a colpi di pistola mons. YusakuIbakari, vescovo di Seika.
+ + + PADRE LOMBARDI: IL PAPA SEGUE LE VICENDE DI
SEIKA +++
(Vaticaninsider.it) – Ore 15.02. “Il Papa sta seguendo le vicende di Seika, annullando le udienze previste nel pomeriggio. Sua
Santità è stato prontamente informato della tragica fine di mons. YusakuIbakari”. Questa la nota
prodotta dall’Ufficio Stampa della Santa Sede.
+ + + ESPLOSIONI A SEIKA + + +
(Ansa) – Ore 16.14. Una forte esplosione è stata avvertita nella periferia di Seika, in Giappone, un’ora fa, nei pressi di un ponte
sospeso. Ancora da capire – anche se appare probabile – il legame con l’operazione
interforze di polizia lì in atto.
BELVA UMANA, LEGAMI CON LA YAKUZA?
(Repubblica.it) – Ore 16.39. Secondo fonti investigative, Paolo Bonsignore, noto come “La Belva Umana”, sarebbe in stretto
contatto con la potente mafia locale, per l’appunto la Yakuza.
Testimoni dal Minato Art Museum, infatti, lo
avrebbero visto fare il suo ingresso in compagnia di un complice che […]
MONS. IBAKARI, ATTO DI EROISMO?
(Corriere.it) – Ore 17.05. Si fanno sempre più chiari i contorni della
tragedia del Minato Art Museum, che è costato la vita
a mons. YusakuIbakari,
vescovo di Seika, e per la quale risultano al momento
disperse la nobile giapponese Kaori Masamune e l’erediteria italiana Serbelloni
Mazzanti. Testimoni riferiscono che il Vescovo avrebbe opposto resistenza al
rapimento della ricchissima italiana, e per questo sarebbe stato freddato da
Paolo Bonsignore, noto e ricercato gangster.
SAINT TAIL: COMPLICE DELLA BELVA?
(Repubblica.it) – Ore 18.22. Indubbio l’avvistamento di Saint Tail, ladra misteriosa del Sol Levante. Dubbi invece sul
movente della sua “entrata in scena”. Fonti delle forze dell’ordine
sembrerebbero smentire le prime ipotesi per cui la misteriosa giustiziera possa
essere legata a Paolo Bonsignore, mentre potrebbe
essere vero l’esatto contrario. Saint Tail potrebbe
essere il terzo incomodo in questo complicato caso internazionale.
+ + + + + ALFANO: SIAMO VICINI ALLA CATTURA DELLA
BELVA + + + + +
(Ansa) – Ore 18.58. Trapela ottimismo dal Viminale. La cattura di Paolo Bonsignore, noto come “La Belva Umana”, parrebbe vicina. […]
M5S: CHIAREZZA SUI FATTI DI SEIKA
(Repubblica.it) – Ore 19.23. Alessandro di Battista, deputato Cinque Stelle che
proprio pochi giorni fa aveva firmato un’interrogazione sul caso “Belva Umana”,
dichiara: «Al più presto vogliamo le risposte in parlamento sull’operazione in
corso in Giappone. Vogliamo capire le responsabilità sui rapimenti e sui rischi
a cui stanno andando incontro le nostre forze dell’ordine».
+ + + + + CATTURATA LA BELVA UMANA + + + + +
(Ansa) – Ore 20.45. La Belva umana è stata catturata. Lo riferiscono fonti del
Viminale.
+ + + + + ALFANO: ABBIAMO CATTURATO BONSIGNORE + + + +
+
(Ansa) – Ore 20.51 «La Belva Umana è stata catturata nella periferia di Seika, in Giappone, da Polizia e Carabinieri. Con questo
successo termina una storia criminale durata troppo a lungo». La nota del
Viminale.
+ + + NAPOLITANO TELEFONA AL CAPO DELLA POLIZIA + + +
(Asca) – Ore 21.15 Il presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, ha telefonato al Capo della Polizia per congratularsi della
cattura di Paolo Bonsignore, detto “La Belva Umana”.
Lo riferisce l’Ufficio Stampa del Quirinale.
+ + + + + SEIKA: DUE MORTI, DECINE DI ARRESTI + + + +
+
(Corriere.it) – Ore 21.34. Notizie non liete giungono dal Giappone. La cattura
della Belva non sarebbe avvenuta in modo indolore. Fonti riportano la morte,
nella periferia di Seika, di due esponenti delle
forze dell’ordine, un italiano e un giapponese. Ancora incerta l’identità dell’italiano,
ma pare appartenga all’Arma dei Carabinieri. Durante l’operazione sarebbe stata
interamente sgominata una banda di Yakuza locali.
+ + + + + LIBERATA LA CONTESSA MAZZANTI VIENDALMARE +
+ + + +
(Repubblica.it) – Ore 21.57. È stata liberata la Contessa Serbelloni
Mazzanti Viendalmare, rapita poche ora fa dalla Belva
Umana. La contessa è incolume. Ancora nessuna notizia dell’anziana Kaori Masamune, anch’essa rapita dalla Belva nella movimentata
giornata di oggi.
SEIKA: DOMANI CONFERENZA STAMPA
(Repubblica.it) – Ore 22.50. È stata convocata per domani mattina, alle 11, una
conferenza stampa a Palazzo Chigi sui fatti di Seika,
che hanno portato alla cattura del criminale noto come “La Belva Umana”.
SAINT TAIL: COINVOLTA ANCHE NELLE FASI DELLA CATTURA
DELLA BELVA
(Lastampa.it) – Ore 23.11. Tutte le fonti confermano: Saint Tail
avrebbe avuto un ruolo definito “rilevante” o addirittura “decisivo” nelle
concitate fasi che hanno portato alla cattura di Paolo Bonsignore
[…]
SEIKA: A CATTURARE LA BELVA E’ STATO UN MINORENNE
(Repubblica.it) – Ore 23.48. Una sensazionale rivelazione è trapelata negli
scorsi minuti da fonti investigative. Sembra ormai assodato che a svelare il
nascondiglio dove si nascondeva Paolo Bonsignore e gli
uomini appartenenti a un clan della Yakuza locale sia
stato un giovane del posto, da mesi collaboratore della polizia per la cattura
della misteriosa ladra Saint Tail. Il giovane, figlio
di un poliziotto, del quale non è stata ancora rivelata l’identità, sarebbe
rimasto ferito in modo grave. La notizia, incredibile, che ha lasciato gli ambienti
investigativi italiani stupefatti, potrebbe avere serie conseguenze: da capire
come mai un minore abbia avuto un ruolo così rilevante – e certamente non
previsto – in un’operazione di polizia che sembra fosse studiata da mesi.
Sabato
9
+ + + + LA VITTIMA ITALIANA È GIOVANNI ESPOSITO,
BRIGADIERE, EROE DI NASSIRIYA + + + +
(Ansa) – Ore 00.17. Confermata l’identità del carabiniere italiano morto a Seika. Si tratta del brigadiere Giovanni Esposito, 45 anni,
tra i sopravvissuti della strage di Nassiriya. Con lui è morto anche ShiroYamaguchi, 34 anni,
poliziotto giapponese e casco blu delle Nazioni Uniti. Ancora ignoti i dettagli
[…]
SEIKA: L’EROE SI CHIAMA ASUKA DAIKI JUNIOR, 16 ANNI,
FIGLIO DEL COMMISSARIO DI POLIZIA LOCALE
(Lastampa.it) – Ore 1.43. Non era propriamente uno sconosciuto il minorenne che
ha assistito gli inquirenti nell’individuazione della Belva. Si tratta di AsukaDaiki Junior, figlio del
commissario di polizia locale, già impegnato da anni nella ricerca di […]
NELLE PROSSIME ORE IL RITORNO IN ITALIA DELLA CONTESSA
SERBELLONI MAZZANTI VIENDALMARE
(Repubblica.it) – Ore 7.47. Previsto per le 22 di stasera, ora italiana, l’arrivo
della Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalamare e del suo staff in Italia. Il jet privato farà
il suo atterraggio a Ciampino.
+ + + INIZIATA LA CONFERENZA STAMPA A PALAZZO CHIGI +
+ +
(Ansa) – Ore 11.12. È iniziata da pochi minuti, a Palazzo Chigi, la conferenza
stampa congiunta sull’”Operazione Orione”. Nella sala
stampa il ministro degli Interni Angelino Alfano, il ministro degli esteri
Federica Mogherini e della Difesa Roberta Pinotti.
+ + + ALFANO: LA CATTURA DELLA BELVA ERA NOSTRA
PRIORITA’ + + +
(Ansa) – Ore 11.16. «Paolo Bonsignore, tristemente
noto alle cronache di mezzo mondo come “La Belva Umana”, è stato catturato
grazie alla volontà precisa del governo di mettere fine alle sue azioni, prima
di tutto nocive dell’immagine all’estero del nostro paese». Così il ministro
degli Interni Angelino Alfano, aprendo la conferenza stampa a Palazzo Chigi.
+ + + MOGHERINI: FONDAMENTALE IL RUOLO DELLA
DIPLOMAZIA + + +
(Ansa) – Ore 11.24. Il ministro Mogherini conferma il
lungo lavoro diplomatico per la preparazione dell’Operazione Orione: «La
cattura di Bonsignore non era solo una priorità per
noi italiani, ma per le procure e i governi di tutto il mondo. I contatti
intessuti negli scorsi anni hanno consentito una prontezza e una velocità di
esecuzione dei piani insolite e in questo caso decisive».
+ + + PINOTTI: NON CI ASPETTAVAMO PERDITE UMANE + + +
(Ansa) – Ore 11.31. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti: «Sapevamo di
essere di fronte a un’operazione rischiosa, ma non era stata calcolata in alcun
modo la perdita di vite umane. Un dolore grandissimo che ci accompagnerà per
sempre, ma il sacrificio supremo di questi uomini, compreso quello del vescovo Ibakari, hanno consentito di chiudere per sempre un capitolo
nero della nostra storia». A guidare la pattuglia italiana il commissario Auricchio, a capo della squadra anti-Belva.
+ + + + + PINOTTI: DISPERSO GIANDOMENICO FRACCHIA.
ANCHE LUI ERA IN GIAPPONE + + + + +
(Ansa) – Ore 11.37. Giandomenico Fracchia, sfortunatissimo sosia della Belva
Umana, si trovava in Giappone ed è attualmente disperso. «Non abbiamo alcuna
ragione per pensare al peggio», precisa però il ministro Pinotti, che aggiunge:
«Il quadro del Paniccia è stato sacrificato come esca per catturare la Belva. Cercheremo
di recuperarlo, ma le nostre priorità erano ben altre».
+ + + ALFANO: NON PREVISTO IL COINVOLGIMENTO DEL
GIOVANE ASUKA JUNIOR + + +
(Ansa) – Ore 11.48. Il 16enne AsukaDaiki Junior si sarebbe trovato casualmente al centro dell’operazione
Orione. Il suo contributo, volontario ed episodico, si è rivelato importante ma
non determinante ai fini degli esiti della cattura della Belva. Così il
ministro Alfano ridimensiona il caso “minorenne” scoppiato nelle ultime ore:
«Il ragazzo è già impegnato con successo nelle forze di polizia locali. La sua
è una felice eccezione nei regolamenti giapponesi sui quali non siamo chiamati
a prendere posizione».
+ + + + + ALFANO: NON SI PUO’ NEGARE UN INTERVENTO DI
SAINT TAIL + + + + +
(Ansa) – Ore 12.03. Il ministro Alfano conferma le indiscrezioni: «Sarebbe
irrispettoso nei confronti di tutti negare un coinvolgimento diretto nei fatti
delle scorse ore della giustiziera mascherata nota alle cronache con il nome di
“Saint Tail”. Rispetto alle prime ipotesi si nega
categoricamente che la ladra misteriosa fosse complice o alleata di Paolo Bonsignore. Non possiamo però certificare quanto questo
intervento sia stato utile, sempre che lo sia stato, ai fini del completamento
dell’Operazione Orione.
TERMINATA LA CONFERENZA STAMPA A PALAZZO CHIGI
(Ansa) – Ore 12.11. È appena terminata a Palazzo Chigi la conferenza stampa dei
ministri Alfano, Mogherini e Pinotti sull’Operazione
Orione. Al termine dei loro interventi, i ministri non hanno voluto rispondere
alle domande dei giornalisti presenti in sala.
MONS. IBAKARI: UNA VITA PER L’EVANGELIZZAZIONE
(Vaticaninsider) – Ore 15.52. Umile. Per molti
bastava una parola per descrive YusakuIbakari, 75 anni, vescovo di Seika
(Giappone). Ma una parola non è sufficiente per tracciare il profilo di questo
instancabile annunciatore del Vangelo, che dopo una vita tra i Palazzi Romani
ha chiesto e ottenuto da Giovanni Paolo II di poter tornare in Patria per
continuare la sua missione tra i connazionali. Ibakari,
nato il 15 agosto del 1938 a Seika, rimane presto
orfano, dopo che suo padre viene fucilato come disertore per aver rifiutato
l’arruolamento nell’esercito di Tojo. Cresce tra i
frati cappuccini, e presto matura in lui il seme della chiamata alla vita
sacerdotale: non nell’ordine francescano, ma tra il clero secolare.Nel 1951 entra nel seminario interdiocesano di Tokyo, nel 1962 è ordinato sacerdote.
Subito accompagna, assieme ad altri giovani sacerdoti, il cardinale Peter TatsuoDoi a Roma per i lavori
del Concilio Vaticano II. Sempre a Roma, nel 1967, ottiene la Licenza in Missiologia alla Pontificia Università Gregoriana. Dopo alcuni
anni della curia di Tokyo, nel 1977, viene richiamato a Roma da Paolo VI, che
lo chiama alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (Propaganda
Fide). Nel 1990 ne diviene segretario. Nel 1996, quando ormai le indiscrezioni
dei vaticanisti lo vorrebbero prefetto di Propaganda Fide o addirittura già con
la berretta cardinalizia in testa, viene nominato a sorpresa vescovo di Seika, in Giappone. A molti sembra un’improvvisa e dura
punizione, anche se nessun retroscenista riesce a
capirne le cause. Secondo indiscrezioni – confermate a microfoni spenti da
illustri cardinali – sarebbe stato lo stesso Ibakari
a supplicare Giovanni Paolo II di farlo tornare in Giappone, affinché potesse
mettere di persona a frutto l’impegno per l’evangelizzazione da lui profuso in
trent’anni proprio per la sua terra natale. In patria viene eletto dopo appena
un anno presidente della Conferenza Episcopale del Sol Levante, carica che
ricoprirà fino al 2006. Per anni continua, alla vigilia di ogni concistoro, ad
essere annotato tra le liste delle potenziali “berrette rosse”. Eppure, il suo
nome, alla fine, non venne mai inserito nella lista dei Principi della Chiesa. […]
Domenica
10
ANGELUS DEL PAPA: IBAKARI TESTIMONE DELL’AMORE
(Vaticaninsider) – Ore 13.18. Immancabile la menzione
da parte di papa Francesco della morte di venerdì di mons. YusakuIbakari, ucciso a Seika per
difendere la Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare: «Martirio è una parola che viene dal greco, e
significa testimonianza. Mons. Ibakari è un martire,
perché in questo gesto e in tutta la sua vita è stato un testimone, e un
testimone dell’Amore. Per questo lo ringraziamo».
Lunedì
11
+++ SGARBI ALLA ZANZARA: SAINT TAIL È UNA PUTTANA +++
(LASTAMPA.IT) – Ore 20.44 Un Vittorio Sgarbi senza freni nel corso della
puntata odierna de “La Zanzara”, irriverente striscia radiofonica condotta da
Giuseppe Cruciani con la collaborazione di David
Parenzo su Radio24. Incalzato dalle domande dei due conduttori dopo il suo allontanamento
del Giappone sui fatti di questi giorni, il critico d’arte si è opposto alle
lodi che da più parti giungono nelle ultime ore nei confronti di Saint Tail, misteriosa ladra giapponese che ha – secondo indiscrezioni
sempre più confermate – avuto un ruolo nella cattura della famigerata Belva
Umana. «È solo una puttana – ha ripetuto più volte – vuole solo farsi
pubblicità con dei trucchi da prima elementare». Alle proteste del giornalista
padovano David Parenzo, Sgarbi ha rincarato la dose: «È scandaloso che la
polizia italiana si affidi a una ragazzina giapponese per catturare i criminali
italiani». Sebbene il ministro dell’Interno Angelino Alfano, sabato, durante la
conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri Mogherini
e della Difesa Pinotti abbia confermato il ruolo di Saint Tail
nell’operazione che passerà alla storia come “Operazione Orione”, il segretario
di NCD ha precisato che si è trattato di un ruolo “casuale” e “non previsto in
alcun modo”.
Martedì
12
IL PANICCIA INEDITO ERA DAVVERO DELLA CONTESSA SERBELLONI?
(Il Corriere della Sera) – Ore 12.23. Un dubbio scorre atroce tra i
cronisti di mezza Italia: ci siamo fatti davvero sfuggire una notizia così
sensazionale? I fatti – quelli veri – erano davvero sotto gli occhi di tutti. Ma
forse non li abbiamo voluti, non li abbiamo saputi vedere. Un quadro,
considerato il più importante del pittore contemporaneo Osvaldo Paniccia,
scompare nel giugno da un museo di Londra, nella quale rimasero uccise anche
alcune guardie, per ricomparire, solo pochi mesi dopo, in mano alla Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare.
Certo: ancor prima che la stampa potesse azzardare anche il minimo sospetto, lo
staff della nobildonna non ha esitato ad estrarre documenti, carte bollate che hanno
attestato la liceità del possesso. Secondo le carte, infatti, l’opera sarebbe
stata di proprietà del pittore di Terracina fino a un anno e mezzo fa, poi,
mentre era esposto agli Uffizi, sarebbe stato acquistato per una cifra
ingentissima (si parla di 25 milioni di euro) dalla Contessa, che però mantenne
fino alla fine il riserbo sull’acquisto. Un vezzo comune a molti collezionisti,
se non che questo riserbo è venuto meno nelle scorse settimane, quando, dopo la
sparizione del quadro dal BritishMuseum,
il quadro è stato misteriosamente ritrovato in una stalla del Varesotto dalla
Guardia di Finanza. Un ritrovamento che molti, anche fonti interne alla stessa
Guardia di Finanza, non esitarono a definire “sospetto”, anche perché poche ore
dopo, a reclamare l’opera, accompagnato da un pool di legali, si presentò nella
caserma provinciale di Varese il braccio destro della famosa contessa, il noto
ragionier Renzo Filini. A nessuno venne in mente di contattare il primo
proprietario dell’opera, l’autore stesso. Ora, però, il quotidiano “Latina
Oggi” conferma che Osvaldo Paniccia manca da casa alcuni giorni, e secondo
alcune fonti sarebbe volato di persona in Giappone. Per fare cosa? Il sospetto
si infittisce ulteriormente: il furto da parte della Belva Umana prima e –
probabilmente – della ladra giapponese Saint Tail
poi. Nel covo della Belva il dipinto, infatti, non è stato rinvenuto. Il
quadro, infatti, lo ha dichiarato senza mezzi termini il ministro della Difesa Pinotti
nel corso della conferenza stampa di sabato mattina è stato utilizzato come
“esca sacrificabile” nel corso dell’Operazione Orione che ha portato alla
cattura della Belva Umana. Ma ora sale un sospetto terribile: e se il quadro
rubato fosse già un quadro rubato?
Venerdì
15 RITROVATA
KAORI MASAMUNE – Era stata rapita dalla Belva
(Repubblica.it) – Ore 15.18. Lieto fine per l’ostaggio rapito una settimana fa
dalla Belva Umana in Giappone, dal Minato Art Museum
di Seika. Kaori Masamune,
144enne nobile cugina dell’imperatore del Sol Levante, è stata ritrovata in
stato semi-confusionale in una spiaggia di Okinawa, con indosso solo un
perizoma, mentre avanzava inopportune avance a un bagnino. La scoperta
dell’identità della donna si deve a un agente di polizia particolarmente
attento. Resta il mistero su come l’anziana ultracentenaria abbia raggiunto
l’estremo opposto del Giappone. Sulla donna pende comunque, viste le stringenti
norme del codice penale giapponese, un’accusa di molestia sessuale, che il
giovane bagnino dimostra non aver alcuna intenzione di ritirare. «Non riuscirò
mai più a innamorarmi di nessuna donna sapendo che potrà diventare così, un
giorno, invecchiando», ha dichiarato piangendo ai cronisti locali ShinjiTorikawa, il 24enne
bagnino.
Mercoledì
27 +
+ + GLI EROI DI SEIKA CAVALIERI DELLA REPUBBLICA: C’E’ ANCHE ASUKA DAIKI JUNIOR
+ + +
(Ansa) – Ore 12.37. Con la sorpresa di tutti questa mattina l’Ufficio Stampa
del Quirinale ha riferito l’intenzione del Presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, di nominare cavalieri della Repubblica O.M.R.I. i principali
protagonisti della cattura di Paolo Bonsignore, noto
come “La Belva Umana”, nella recente Operazione Orione. C’è anche AsukaDaiki Junior, il 16enne giapponese
rimasto ferito in modo grave da Bonsignore, il cui
contributo si è rivelato fondamentale. La cerimonia si terrà nel palazzo del
Quirinale nelle prossime settimane: il tempo per permettere le dimissioni del
giovane AsukaDaiki dall’ospedale
di Seika dove si trova ancora ricoverato.
Domenica
31
EFFETTO SAINT TAIL: SI MOLTIPLICANO I REAL LIFE SUPERHEROES
(LASTAMPA.IT) - Ore 15.57 Saint Tail fa discepoli.
Dopo la cattura della Belva Umana, a Seika, in
Giappone, per la quale è stato provvidenziale l’intervento della misteriosa
maga senza volto, si moltiplicano, anche in Italia, i cosiddetti “Real Life Superheroes”, giustizieri mascherati che, sulla falsariga
degli eroi dei fumetti e dei cartoni animati, girano per le città per
combattere il crimine o, più semplicemente, per denunciare le ingiustizie della
nostra società. «Saint Tail è una di noi – dichiara
oggi al Mattino di Napoli Entomo, Real Life Superhero partenopeo – anche lei ha voluto mettere in gioco
le sue abilità per un valore più grande di lei: la giustizia». Entomo, noto alla stampa per la sua affinità con gli
insetti e la sua abilità telepatica che lui stesso ha definito come
“parallelogramma”, ha voluto pubblicamente ringraziare la sua “collega”
giapponese per la rilevanza mediatica che il fenomeno dei supereroi della vita
reale sta avendo anche da noi in Italia. Molto diverso il giudizio di XXXX XXXX (nome censurato nella rassegna), assessore brianzolo
recentemente indagato per truffa e corruzione, che ha ricevuto ieri la visita
del nuovo Real Life Superhero autoproclamatosi “Shpalman”, in onore della nota canzone di Elio e le Storie
Tese. Shpalman, con le modalità proprie del
personaggio del singolo del 2002 della band milanese, ha atteso l’assessore
sotto casa, poi, armato di cazzuola e con un secchio pieno di feci umane, ha
letteralmente ricoperto il politico di escrementi. Chissà se Saint Tail, in Giappone, verrà mai a saperlo.
Lunedì
21
MERCOLEDI’ PREMIATI AL QUIRINALE GLI EROI DI SEIKA
(Repubblica.it) – Ore 17.32. Mercoledì mattina, al palazzo del Quirinale, si
terrà la cerimonia di conferimento dei cavalierati O.M.R.I. per gli eroi dell’Operazione
Orione, che ha portato alla cattura della famigerata Belva Umana. Il 16enne,
recentemente dimesso dall’ospedale di Seika, si trova
già in Italia […]
[1]
Ovviamente, tutto è frutto di fantasia. Nomi di giornalisti, personaggi famosi,
politici, ecclesiastici e imprenditori sono solo presi a prestito in funzione
letteraria. I tratti caratteriali, le dichiarazioni e i comportamenti dei
personaggi non vogliono in alcun modo essere una rappresentazione fedele della
realtà, ma solo un artificio. Mi scuso in anticipo con chi possa sentirsi in
alcun modo offeso. Non è mia intenzione.
La porticina era di
legno. Probabilmente noce. Si capiva da qualche piccolo particolare che un
tempo il colore di quell’uscio doveva essere stato sul marroncino. Se qualcuno
l’avesse lucidato a dovere le venature del legno sarebbero risaltate, chiare e
trasparenti, come il marmo di una villa romana. Eppure, ora, a forza di fumi di
sigaretta e di smog urbano, una leggera coltre nera copriva tutto. Anche i
vetri erano sporchi, anneriti. La donna delle pulizie non aveva mai degnato di
uno strofinaccio l’esterno della porta d’ingresso. Forse lo aveva fatto
apposta, proprio per aumentare la distanza tra quello che avveniva dentro e
quello che succedeva fuori. Del resto, era un luogo molto discreto: chi vi si
avventurava lo faceva per dimenticarsi, per poche ore, delle regole del mondo civile.
Quello che fuori chiamavano “proibito”, là dentro era la normalità.
Asuka
e Meimi vi arrivarono di fronte con malcelata
nonchalance. In effetti, sebbene in quel posto nessuno li conoscesse, si vergognavano
come ladri. E forse anche peggio. Il ragazzo, in particolare, vide nel volto
della ragazza dai capelli castano-chiari delle punte di rosso degne di una
discepola dell’Auricchio dei giorni di gloria. Del
resto, era impossibile non notarli: Asuka, infatti,
si trascinava con un un bastone da passeggio
piuttosto inusuale per un ragazzino della sua età. Anzi, con quel principio di
barbetta incolta pareva un banale cosplayer del
dottor House.
Si fermarono, spalle alla porta. Asuka
estrasse il cellulare, mentre Meimi fissava
dall’altra parte della strada. Come se attendessero l’autobus. Peccato che di
autobus, in quel vialetto, non ne erano mai passati.
«Lo… lo… lo vuoi fare veramente?». Sbuffò Asuka, leggermente seccato ma facendo trasparire chili di comprensione.
«Non è la prima volta, lo sai», arrossì ancora di più Meimi, stringendosi le spalle.
«Già, ma la prima volta non è stata un granché»,
abbassò gli occhi il ragazzo, ricordandosi di certe figuracce da filmaccio anni
‘70.
«Eh già. Però, dopo tutto quello che abbiamo passato, Asuka, voglio farlo davvero!». Meimi
alzò il visino. Si truccava molto da quel giorno. Le amiche pensavano che si
fosse – finalmente – accorta della sua femminilità. La ragazza, invece, si
immergeva nel fondotinta per occultare qualche piccola bruciatura e un paio di
ematomi davvero antiestetici che ancora non erano andati via del tutto. Asuka la fissò. Si accorse di quanto fosse sicura. Sbuffò
di nuovo, con quell’aria da perenne annoiato che respirava dal giorno del battesimo.
Spalancò la bocca e sorrise, esibendo tra i denti, senza accorgersene,
quell’ampio buco nero regalo della Belva. Era felice. E con galanteria si fece
avanti, e, pur claudicando, spalancò la porta alla ragazza. «Dopo di te».
“Daje de tacco, daje de punta, quant’è bbona la
sora Assunta…»[1].
Lo stesso panzone del
Minato Art Museum, questa volta direttamente in
canottiera con dei peli delle ascelle lunghi come le treccine degli olandesi
del Milan di Sacchi, strimpellava all’entrata uno dei suoi classici stornelli.
Un cameriere vecchio e magrolino che non avevano mai visto camminava tra i
tavoli grattandosi pigramente la pancia, mentre si schiariva la gola con suoni
modello lavandino otturato. Erano le 11.40 di un martedì mattina feriale. Il
locale, che conteneva al massimo un’ottantina di coperti, era però già tre
quarti pieno.
Ormai i turisti, dopo i
fatti di Seika, non potevano lasciare Roma se non
sentivano prima declamare nome per nome i “mortacci loro” da Sergio e Bruno in
persona. Ovviamente, i più felici di essere insultati erano i giapponesi. Se
persino Oikawa dei Dolphins e Kenzo Otonashi si erano fatti offendere le mamme, ne doveva per
forza valere la pena.
Asuka
e Meimi si erano preparati, psicologicamente e
spiritualmente, per quella rimpatriata tanto reclamata con lettere, telefonate
e ambasciate. Ma quando il vecchio cameriere vestito di bianco e completamente
sudato, che non avrebbe sfigurato in un qualsivoglia reparto di geriatria,
dalla pancia passò a grattarsi di fronte a loro qualcos’altro, Meimi chiuse gli occhi in un sincero moto d’orrore. Asuka non si mosse. E in cuor suo lo stimò. Profondamente.
Gli si piazzò di fronte un ragazzone tatuato, testa
rasata e dalle grosse. Uno di quei tipi che prenderebbe un Daspo
solo a farsi una fototessera.
«Ah cinesini», li squadrò dall’alto in basso, «mo’ che
venite tutti a rompe’ er cazzo qua?». Era lo stile di
Sergio e Bruno, ma apperentemente, c’era anche
qualcos’altro. Non fece in tempo ad inventarsi un altro insulto – e data
l’inventiva dei romani il che significa pochi millesimi di secondo – che si
ritrovò la faccia visitata a duecento chilometri all’ora da un vassoio di
acciaio.
«ASUCOOO!!!», urlò Bruno, gettando a terra il vassoio
e abbracciando con violenza il giovane detective, «SEEI VENUTO DAVERO!». Daiki quasi soffocò.
«SERGIO!!! C’AVEMO L’EROE, VIE’ QUA!!!». Gridò
fortissimo. Tutti, ovviamente, si girarono verso di loro. «E C’E’ ANCHE LA REGAZZINA!!!».
Sergio si fiondò fuori dalla cucina, facendo cadere un
attaccapanni sopra il tavolo di una coppia di turisti tedeschi biondi come il
cugino scemo di Kevin McCallister. Anche lui stritolò
Asuka, ignorando che era ancora ferito in più punti:
«ALLA FINE L’HAI ‘RESTATO QUER FIO DE NA MIGNOTTA!».
«Ma che daverodavero…», abbozzò il testa rasata, ancora riverso a terra,
«ah zio, ma che, quello là, è quello che ha catturato er
Belva?».
«È LUI!!!», sputazzò Bruno, mentre Sergio continuava
quella massiva e affettuosa azione chiroterapica.
«DAJE ER TAVOLO MEJO, OFFRE LA CASA!!!», ordinò Bruno,
con lo stesso orgoglio e trasporto di un legionario romano.
Il ragazzo tarchiato balzò sull’attenti, si diresse
verso il tavolino tondo al centro, cacciò con un calcio un triste tronista di Maria De Filippi ormai in disgrazia ancora
intento a forchettare il suo dessert e fece sedere,
con garbo e galanteria, prima Meimi, con rara
cortesia, poi Asuka, con una virile pacca sulla
spalla che quasi lo fece gridare. Il suo atteggiamento era cambiato come dal
giorno alla notte.
«Ma veramente…», spuntò fuori da un tavolo un po’
distante un noto consigliere regionale, «… te sei AsukaDaiki Junior? L’eroe di Seika?».
«Io…», ora era Asuka ad
arrossire.
«Macché!», rise sguaiatamente una soubrette siliconata
seduta allo stesso tavolo. Ovviamente si trattava della sua amante che il
consigliere nascondeva con cura sotto la scrivania durante le occasioni
ufficiali. «Ma se è stata Saint Tail a salvare tutti…».
Meimi
ammiccò verso il ragazzo mentre gli dava un calcetto sotto la tavola, toccando,
misericordiosamente, la gamba sana. Saint Tail non
agiva con orgoglio, ma era impossibile – anche per una santa – non tirarsela un
po’ di fronte al commento sguaiato della bionda sgallettata.
«Ma se è stato lui… lo ha detto la polizia!!!», la
contraddisse il consigliere. Nel frattempo, però, un applauso aveva avvolto
tutto il ristorante. Anche l’immancabile venditore di rose del Bangladesh
omaggiò con un fiore la ragazza seduta al tavolo dell’eroe senza chiedere i
classici due euro, che però Asuka versò lo stesso.
Asuka
fissò Meimi, mentre Bruno metteva sotto i loro nasi
tre piatti di antipasti che sarebbero bastati per una cresima in Calabria.
Erano davvero lì. In Italia. Quanti giorni erano passati da quel venerdì sera
al Minato Art Museum? Poco più di settanta. Due mesi,
di solito, passano in un lampo. Un giorno cadono le prime foglie dagli alberi e
il giorno dopo sono già passate le vacanze di Natale. Ad Asuka
però pareva fosse passata una vita intera.
Il ragazzino che dava la caccia a un’ombra misteriosa
di cui si era invaghito era morto. Ma non era stata la Belva ad ucciderlo. No.
La Belva gli aveva strappato un dente, lo aveva reso zoppo, lo aveva costretto
a farsela addosso e a perdere ogni residuo di dignità. Condannandolo, per
almeno vent’anni, a certe sedute bisettimanali in compagnia di una signorina di
nome Keiko, 34 anni, capelli raccolti e una specializzazione in psicoterapia
post-eventi traumatici. Ad uccidere il vecchio Asuka
junior era stata la persona che si trovava davanti. Con un innocuo bacio di
quelli che danno le nonne. Un bacio in fronte lo aveva ammazzato e lo aveva
fatto rinascere. Ed era una persona completamente diversa da prima.
All’apparenza nemmeno una virgola era cambiata. Era il solito Asuka. Polemico, incazzoso e rude. Le labbra umide di Meimi lo avevano però rigenerato come uno zampillo di acqua
del Giordano.
Si grattò un braccio. Gli prudeva dannatamente. Non
gli lasciava tregua una brutta flebite[2]
dovuta all’aghetto dal quale, per qualche settimana, il suo corpo assorbì
soluzione fisiologica.
Meimi
fece finta di non accorgersene, e tirò fuori lo smartphone.
Probabilmente si stava scrivendo con Seira, complice
e confidente. Asuka era certo che la novizia delle
suore scolopie dal Giappone – con le sue consorelle –
potesse godere di una cronaca dettagliata, minuto per minuto, di quel viaggio
romano.
«Quando ci passa a prendere Sakura?». Alzò gli occhi Meimi.
«Credo sulle tredici». Si grattò la testa Asuka. Ma sarebbe potuta benissimo arrivare alle due, o
alle sei. Del resto, tutto quello che era legato alla Contessa, dai divani in
pelle di animali estinti della sua villa, a quello strano figone nipponico da
sbarco che li doveva accompagnare, all’ultimo dei filippini impiegati a caricare
manualmente gli orologi rococò rubati a Versailles, era strano. Assolutamente
strano. Il giorno prima si erano trovati di fronte persino a un ciccione
anziano, uguale a Fracchia, vestito da maid
giapponese. Ma a caval donato non si guarda in bocca. La Contessa Silvana
Silvani Serbelloni Mazzanti Viendalmare
aveva gridato alla stampa, appena dopo il suo fortunoso salvataggio, di voler
ospitare in Italia il giovane eroe la cui perspicacia le aveva salvato la vita.
Ovviamente, non appena i medici avessero compiuto l’impresa di rimetterlo in
piedi. Era conciato davvero male, quando suo padre lo trovò sul tetto
dell’acquario di Seika.
La Contessa non aveva fatto storie quando, prima di
tornare in Italia, andò di persona – attorniata ovviamente da uno stuolo di
fotografi amici – all’ospedale di Seika, per invitare
il ragazzo in Italia. Asuka junior, ancora rincoglionito
per gli antidolorifici, prima di accettare le domandò se poteva portare
qualcuno con lui. Quel qualcuno, poi, la stampa venne a sapere si trattava di
una qualcuna. Ma dato che la Carta di Treviso[3]
era già stata abbondantemente stuprata in lungo e in largo, nessuno indagò
ulteriormente.
Asuka
rimase in ospedale la bellezza di quaranta giorni. Per sicurezza, più che
altro. Ufficialmente per iniziare quelle cure al ginocchio, con tanto di
piccole operazioni e sedute di fisioterapia. In realtà, il primario si rifiutò
a lungo di firmare la lettera di dimissioni per permettere alla signorina
Keiko, la 34enne di prima coi cappelli raccolti e una discrezione cosmica, di
iniziare con calma il suo lavoro.
Del primo periodo Asuka
ricordava poco o nulla. Di giorno – almeno credeva – era circondato da medici,
parenti, compagni di scuola. Solo di notte, attraverso l’ampia vetrata della
finestra, scorgeva ogni tanto una sagoma nera. Forse sognava. O forse era
l’unico modo con cui una certa persona poteva farsi presente, in quei primi
giorni. Meimi, infatti – lo venne a sapere più tardi
– tornata a casa attorno all’alba del sabato quasi per miracolo, non aveva
riportato da quella lunga notte nulla di rotto. Ma tra il rotto e il sano c’è
un spettro gigante di possibilità. E per Meimi queste
possibilità non erano state delle più favorevoli. Si diede per malata e passò
cinque giorni a letto come un sasso. Era davvero un sogno, quello di Asuka. E dato che Meimi non venne
a mai a conoscenza di queste “visioni mistiche” del giovane detective, non ebbe
mai modo di sfatare quella magica credenza.
Il ragazzo era ricoverato in una stanzina da due. Nel
letto accanto al suo, quello vicino alla porta, stava Fumihiro
Yamashita, paffuto commercialista 55enne ricoverato per una gamba spappolata
dopo un incidente con gli sci. «Era la prima volta che sciavo», ci scherzava
sopra, «forse è anche l’ultima!». Rideva. Apparentemente era simpatico. Ma un
aerofago che parla nel sonno non può assolutamente risultare simpatico
all’essere umano con cui si trova a condividere una stanza. Asuka
riuscì a salvarsi solo consumando il suo tablet, imparando a memoria da
Wikipedia le formazioni delle squadre di Premier League e di Serie A.
Meimi
si presentò nel nosocomio per la prima volta in mezzo a una comitiva di
compagne di classe. Fu quella che parlò di meno di tutti. Con lo sguardo
sembrava stesse lì a contare le piastrelle, mentre il signor Yamashita rideva
divertito di fronte a cotanta gioventù. Il commercialista notò però che il
monitor che misurava i battiti cardiaci del ragazzino mostrava valori schizzati
alle stelle. Non capì, però, il perché. Né che – giustamente – gliene fregasse
una beneamata ciolla.
Meimi
tornò l’indomani, da sola. Possibilmente ancora più rossa. Ma beccò Asuka mentre dormiva, con il tablet appoggiato sul il viso,
quasi a proteggerlo dalla debordante presenza del commercialista. La ragazza rimase
tutto il tempo in piedi, accanto alla porta. Ignara del povero ragionier
Yamashita che dovenne trattenersi, per un’interminabile
quarantina di minuti, dal liberarsi dal peso eccessivo di metano e ossido di
carbonio che protestavano – come violenti ergastolani – per uscire dalla loro
cella intestinale.
Tornò di nuovo. E di nuovo ancora. Prima poche
chiacchiere. Poi tante chiacchiere. Yamashita non capiva perché la ragazzina
non domandasse mai al ragazzo – come facevano invece tutti gli altri – i
dettagli di quell’avventura. Parlavano invece di materie scolastiche, di film,
di sport. Persino di politica. Sulle prime a Yamashita piaceva quella ragazzina
così composta, così educata, sempre rossa in viso che avrà alzato gli occhi sì
o no cinque volte in tre settimane. Ma poi, con il passare dei giorni, avrebbe
desiderato che le infermiere gli avessero attaccato anche a lui il tasto per la
morfina, per stordirsi e non sentire tonnellate e tonnellate di chiacchiere
inutili.
Nel frattempo, però, Asuka
non era poi così tagliato fuori dal mondo. Riceveva constantemente
notizie sugli sviluppi della famosa notte. De Simone, gli fece sapere suo
padre, si era ripreso completamente, ed era già tornato a lavoro. Auricchio era stato insignito di non si sa quale
decorazione. Yamaguchi aveva ricevuto funerali di
stato. Stessa sorte per Esposito, in Italia. I funerali del Vescovo, intanto,
erano stati celebrati dal segretario di stato vaticano in persona, mentre, per
nomina di Papa Francesco, veniva scelto come nuovo vescovo l’ex vicario
generale Hikamura, consacrato dalle mani stesse del cardinale
Parolin.
Meimi
venne a sapere che Asuka aveva ricevuto da una
colletta della polizia due migliaia di yen per un’operazione specialistica per
la sistemazione del ginocchio, da effettuare dopo alcuni mesi in via preferienziale in una clinica di lusso, per velocizzare il
recupero completo della gamba.
Scoppiò a ridere quando gli venne recapitata una
lettera con la quale veniva ordinato Cavaliere O.M.R.I. dal Presidente della
Repubblica Italiana Giorgio Napolitano. Si immaginò di doversi vestire con
un’armatura di cotta, scegliersi uno scudiero e combattere con una spada. Gli
spiegarono che si trattava solo di un’onorificenza italiana: durante una
semplice cerimonia gli avrebbero appuntato una medaglia al petto e poco più. La
cerimonia si sarebbe svolta da lì a un mese. Per quel momento, sarebbe stato
fuori dall’ospedale. Pensò che fosse quello il momento giusto per accettare
l’invito della Contessa a venire in Italia per alcuni giorni. Una vacanza più
che meritata per un giovane eroe traumatizzato. Sapeva di poterci giocare un
po’ su. E di non doverci andare da solo.
Meimi
si limitò ad arrossire come una ladra quando Asuka
glielo propose, ormai seduto a cavalcioni sul letto con il fido bastone da
passeggio tra le mani. «Vieni in Italia con me? Da solo mi romperei le
scatole». Lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo. E forse lo
era. Il fatto è che non avevano minimamente parlato di quel bacio sulla fronte,
di quella lotta quasi mortale, e soprattutto del piccolissimo particolare che
ormai Asuka sapeva benissimo chi fosse Saint Tail e che Meimi sapeva benissimo
che Asuka sapeva. Avevano dato tutto per scontato. E
proprio perché avevano dato tutto per scontato Meimi
scosse la testa per accettare. Anche Yamashita ormai dava tutto per scontato, e
sprigionò gli ergastolani gassosi fregandosene di tutto e di tutti. E raggiunse
in quell’istante il suo personalissimo Nirvana.
Ora erano lì, in quel ristorantino romano, nel loro
terzo giorno di vacanze romane. Un ristorantino volgare, sopra le righe,
totalmente assurdo. Meimi dovette sopportare alcuni
rutti, alcune parolacce e una rissa tra camerieri, non concordi sulle scelte
tattiche di Garcia. Eppure, si accorse che uno dei suoi sogni, quello della cenetta
romana romantica con un principe azzurro si era lì lì
realizzata. E quando se ne accorse, arrossì violentemente, tanto che la sua
pelle aveva lo stesso colorito della maglia der
Pupone appeso al muro, felice, accanto una foto autografata della Ferilli durante
quel celebre spogliarello al Circo Massimo dell’anno 2001, evento che fece
esultare anche i non romanisti.
Rossa come il miglior Auricchio
di sempre. Ma un rossore che impallidiva al confronto del sanguinamento
generale delle guance che le si era verificato, in un altro ristorante,
quindici giorni prima. I coniugi Haneoka, infatti,
volevano proprio sapere chi fosse il tizio – e la sua relativa famiglia – che aveva
osato invitare la loro figliuola a prendere parte a una vacanza di quindici giorni
in Italia lontano dalla scuola, ospiti di una tizia che un efferato criminale
aveva rapito sotto i loro occhi una cinquantina di giorni prima. Asuka e Meimi scelsero un campo
neutro. Un ristorante neutro di Seika. Uno con il
classico cuoco francese di gesso sulla strada che invece di attrarre clienti
spaventa i bambini e ascolta le chiacchiere degli ipovedenti che si confidano
con lui. Uno di quelli che alle pareti esibiva le piastrelle color blu morto
rubate direttamente dal set del “Pranzo è Servito” verso la fine degli anni ’80
sotto gli occhi di un impotente Corrado Mantoni.
Prima arrivarono DaikiAsuka e suo padre Tomoki. Si
sedettero al tavolo con gli schienali di pelle blu imbottiti, che facevano
tanto barbiere o puntata in replica di Happy Days.
Dopo quindici minuti, ovviamente in ritardo, arrivò la famigliola Haneoka. Ad aprire la strada Meimi,
dal volto già incandescente, che camminava tenendo gli occhi perpendicolari al
pavimento modalità colpo della strega. Dietro Genichiro
ed Eimi si guardavano in giro disorientati, cercando
di indovinare chi fosse questo fantomatico “Daiki-kun”.
Eimi aveva già intuito in che direzione si stessero
mettendo le cose. Genichiro, essendo un consumatore
abituale di cannabinoidi, ma soprattutto essendo uomo
e padre, assolutamente no. Se avesse sospettato in primo luogo che qualcuno
stava pensando alla sua principessina in termini amorosi lo avrebbe fatto
sparire, letteralmente, e lo avrebbe fatto riapparire in qualche atollo dell’oceano
indiano già sede di sperimentazioni nucleari.
«Sono qui!», comunicò Daiki
al padre. Tomoki alzò la testa da un articolo di
calciomercato su un giornalaccio sportivo e rimase impietrito, come se avesse
visto un fantasma. Una reazione analoga a quella di Eimi,
che però, d’un tratto incupita come se qualcuno le avesse rivolto un insulto
sessista, si diresse con forza verso il tavolo, arpionò con le unghie appena manicurate il braccio del commissario di polizia e lo tirò
verso di sé. «Scusate un instante», bofonchiò, con lo stesso tono con cui una
persona nominerebbe i morti altrui. E lo trascinò fuori.
Per un istante tra i tre rimasti piombò un velo di
imbarazzo ancora più profondo. Meimi era paralizzata,
Asuka anche se avesse voluto, tra bastone di
passeggio e pesanti tutori alla gamba, non avrebbe mosso un passo per
recuperare suo padre. Genichiro, invece, era nella
sua piccola Isola di Wight[4]
mentale.
Si fidava di Eimi. Se Eimi aveva trascinato fuori, ancor prima di salutare, un perfetto
sconosciuto, doveva aver avuto le sue ragioni. Passarono agevolmente i
successivi venti minuti, vegliati da un’arcigna cameriera che attendeva
un’ordinazione che mai arrivava, grazie alla maestria e alla sboronaggineinstrinseca di Asuka junior, che si trovò nuovamente a descrivere la sua
notte da eroe per filo e per segno, mentendo su un’infinità di piccolissimi
particolari. A Genichiro piaceva quel ragazzino,
descritto da tutta la stampa come un eroe in erba. Pochissimi non avrebbero
provato simpatia per un giovane, poco più che bambino, che aveva fatto
catturare un criminale così pericoloso e che soprattutto ci aveva rimesso così
tanto in prima persona. Eppure, se Genichiro avesse
intuito che probabilmente tra lui e la sua figlia stava nascendo qualcosa,
qualcosa che alla lunga avrebbe comportato furtive slinguazzate
e pure qualcosa in più, gli avrebbe ridotto a frantumi pure l’altra rotula.
Semplicemente, Genichiro si bevve completamente la
favola del “siamo solo amici”, “tornare a Roma era il suo sogno”, “tanto poi
lei va a Venezia per cinque giorni” grazie all’intervento telefonico della
Madre Superiora delle scolopie che garantì per loro.
Anzi, il suorone da centoventi chili disse che l’idea
di far accompagnare Asuka da Meimi
era tutta sua, proprio in virtù di un non meglio precisato progetto di
comunicazione tra Scuole Pie di tutto il mondo. «Se non ci va con Asuka, la mandavamo noi comunque tra un mese», infranse
senza pudore l’ottavo comandamento suor Eriko,
religiosa 68enne che si vantava di aver instradato con successo in sani
matrimoni cristiani una settantina di coppie di ex studenti, con il grugno
soddisfatto di chi gode per il potere, anche quello effimero di organizzatrice
di matrimoni. Eimi e Tomoki
tornarono venti minuti dopo al loro posto, come se nulla fosse.
«Pensavo fosse un mio vecchio compagno di classe, ma
non lo è», mentì spudoratamente la donna.
«E allora perché sei stata fuori così tanto?», domandò
Genichiro senza un briciolo di malizia.
«Ehm.. Perché ho capito che
conosceva i miei compagni… E così mi ha raccontato, e poi si è acceso una
sigaretta», rispose nervosa, «giusto?». E ammiccò verso il poliziotto, che non
osò fiatare e scrollò solamente su e giù la testa. Daiki
li guardava con aria leggermente imbarazzata. Meimi
manteneva ancora una perfetta inclinazione a novanta gradi della testa.
Il pranzetto continuò serenamente, anche se AsukaDaiki si accorse più volte
di certe strane occhiate che suo padre e la madre di Meimi
si rivolgevano. Quelle di suo padre ricordavano Fracchia, mentre quelle della
signora EimiHaneoka la
Belva.
E ora, quindici giorni dopo quel pranzetto, erano
davvero a Roma. Non c’era stato assolutamente nulla di strano fino a quel
momento, e forse non ci sarebbe stato. Eppure Meimi
avrebbe voluto che questa vacanza non finisse mai. Pure il dolce che le portò
Sergio in persona era squisito.
Venne a prenderli Sakura una mezzoretta dopo. Ma per
la giovane giapponese, vestita con un abito di un qualche stilista alla moda
dal prezzo di un’auto di media cilindrata, fu difficile strappare i ragazzini
dall’affetto di Sergio e Bruno. I due ristoratori però ottennero il privilegio
di scattarsi con il giovane detective e la piccola accompagnatrice una foto
ricordo, foto, che, una volta sviluppata – avevano ancora i rullini – e
ingrandita, sarebbe stata appesa nel muro delle foto. Per chi non lo sapesse,
ogni ristorante romano ha un muro delle foto, dove vengono appese, come
decorazioni militari alla giacca di un soldato, le instantanee
che documentano il passaggio di Vips più o meno
importanti in quel locale. La foto di Meimi e Asuka, incorniciata di tutto punto, si trovò a destra di uno
scatto di Falcao, sotto un’istantanea con Cirino Pomicino, mentre a sinistra
una giunonica Maurisa Laurito si tuffava, verso la
fine degli anni ’80, in un piatto fumante di bucatini.
«Dove vi porto?», domandò Sakura, mentre li caricava
nella Mercedes. «Mhhh…», borbottò Asuka,
«dove vuoi…». «NEGOZI!», urlò, con un pizzico di possessione diabolica, Meimi. Sakura sorrise e pigiò l’accelleratore.
Andavano ai 70 chilometri orari. Il limite era 30. Ma del resto, erano a Roma,
e dunque si confusero in quell’oceano di normalità.
Sakura sorrideva. La vide nel dettaglio dello specchio
retrovisore Asuka, e non potè
far altro che arrossire. La frangetta di capelli ossigenati le faceva risaltare
ancor di più quelle perle nere che aveva al posto degli occhi. Era bella come
una idol, termine spregevole nipponico per riferirsi
a qualsiasi donna di spettacolo. Era ovvio per tutti, anche per la persona più
perspicace e deduttiva del mondo, che quell’idol si
trattava di un acquisto fatto dalla Contessa in Giappone durante quella sua
burrascosa permanenza. Ma nessuno, nemmeno il londinese Holmes avrebbe potuto
collegare quella sorta di top model a una delle complici della Belva Umana.
Ovviamente, Asuka non lo venne mai a sapere, e anche
se l’avesse saputo, non avrebbe mai messo in dubbio per questo le sue capacità
di detective. Quella bellissima ragazza snella e soave pareva un’altra persona
rispetto all’immagine nera e rigida ripresa da qualche telecamera di
sorveglianza in alcune scene del crimine.
Meimi
notò quel rossore, e, ovviamente si incupì. Non andò meglio per il resto del
pomeriggio. La giovane Haneoka passò un’ora ad
osservare come in preda all’estasi le vetrine in via Condotti. Pezzi di stoffa
con attaccati sopra cartellini a quattro – e cinque – cifre. Asuka, già claudicante, che non comprendeva le ragioni di
tali attentati all’economia delle famiglie, espresse pacatamente il suo parere.
Ma si dimenticò di essere AsukaDaiki
Junior, e si dimenticò del fatto che ogni tanto gli scivolavano parole non
punto belle. Meimi, dunque, sentendo certe
considerazioni dalla bocca di Daiki con tali
sviolinate di stile, si sentì in dovere di porre la sua replica. In quel
momento, ricordò che per tutto il viaggio non l’aveva degnata di uno sguardo,
che era rimasto perennemente attaccato alla gonnella di Sakura e che se
dovevano “andare così le cose” era meglio se non l’avesse invitata. E cose
così. Vi furono lunghe repliche e controrepliche. Il dibattito continuò per
qualche istante, suscitando pure la curiosità dei passanti. Alcuni addirittura
si fermarono.
Improvvisamente, Meimi si
ricordò di non essere solo una macchina da polemica automatica, ma anche, e
soprattutto, una ragazzina di sedici anni in completa tempesta ormonale. Il
lato supereroistico alla Saint Tail,
probabilmente, lo aveva lasciato in Giappone, sotto il suo letto, assieme al
tutù e ai trucchi di magia rubati al padre. E così, si ritrovò a piangere in
una delle vie in cui l’Imu colpisce alle gambe i
commercianti più di Chiellini in un’amichevole per
beneficienza contro la nazionale invalidi sul lavoro. Non erano le lacrime a
fontana delle ragazzine che frignano, ma le lacrime composte e degne di chi si
ritrova ferito nell’orgoglio, accusa il colpo, e, pur piangendo, non arretra di
un millimetro nella sua aurea dignità.
Era colpa sua, forse. Era un disastro. Qualche decina
di ore prima volava per la stanza preparandosi la valigia, prefigurandosi una
sorta di luna di miele con il ragazzo che una parte di sé considerava ormai
come il suo fidanzato. Avevano rotto gli indugi. Lui sapeva che lei era Saint Tail, l’ombra a cui aveva dato la caccia per anni, ed era
la cosa più naturale del mondo. Gli aveva fatto visita in ospedale, in quella
piccola e maleodorante stanzina al settimo piano. Ed era la cosa più naturale
del mondo. Ma né in aereo, né nella reggia romana della Contessa, né nei
giretti turistici con Sakura lui le aveva rivolto una parola dolce, non l’aveva
guardata come una donna, in poche parole, non aveva chiesto a nessun passante
con la Gazzetta dello Sport sotto il braccio di far loro una foto, abbracciati,
dietro a qualche monumento, chiesa o riva del Tevere. E la colpa, ovviamente,
era tutta sua. Perché era lei che si era immaginata tutto. Era tutto dentro la
sua testa. Era tutta un’illusione, alimentata dagli ormoni e dall’adrenalina
scaturiti a fiotti in quella notte di sangue e mistero, più di due mesi prima.
«Scusami», disse singhiozzando, signorilmente,
portandosi un fazzoletto agli occhi. Poi scomparve, di corsa, verso le vie
popolari. Correva come un’ossessa, in realtà, correva come Saint Tail. E grazie a Dio non saltò su qualche balcone e non si
arrampicò su qualche grondaia, come Ezio Auditore mezzo millennio proprio in
quelle vie, attirandosi le curiosità dei vigili urbani, razza quanto mai
attenta verso le stranezze di ogni genere. Si infilò in via del Corso, entrò in
un bar e si diresse, senza prendere un caffè, in bagno, per ricomporsi allo
specchio.
Asuka,
in piedi con la stampella, non provò nemmeno a rincorrerla, o a dirle qualcosa.
Abbassò la testa. Si girò dall’altra parte e si fece una lunga – e dolorosa dal
punto di vista fisico – camminata lungo tutta via Condotti. Ma che diamine gli
era preso? Perché l’aveva trattata così? Perché dirle esattamente quelle
parole? Ma chi diavolo aveva parlato? Era lui? Lui che se la sognava sempre
mentre schiacciato dal dolore veniva imbottito di analgesici da cavallo? Lui
che la scorgeva nelle vetrate, la notte, dell’Ospedale? Lui che non aveva
aspettato due volte prima di proporle di venire a Roma con lui? Sì. Ammise a sé
stesso. Era proprio lui, la stessa identica persona. Arrivò a Trinità dei Monti.
Si sedette sulla scalinata, assieme a centinaia di turisti, studenti romani
dalla parlata caratteristica e signore di una certa età venute a degustare il
gelato. E rimase lì, per un’interminabile mezzora.
Li recuperò Sakura poco più tardi, dopo aver chiamato
entrambi, e li caricò di nuovo sulla sua auto. Chi l’avesse conosciuta nel suo
passato criminale ci avrebbe scorto la stessa discrezione. Non notò, non fece
domande. Si limitò a parlare del più e del meno. Asuka
e Meimi erano seduti nel sedile posteriore, mentre
Sakura li portava chissà dove. L’imbarazzo tra i due era palpabile, come una
coltre di nebbia in Val Padana in una mattinata d’ottobre. Asuka
si accorse che nonostante trucchi e acqua fresca abbondante, il volto di Meimi era rosso. Ed era un rosso assai diverso rispetto al
modello Auricchio.
Voleva dire qualcosa, ma non ce la faceva. Tossì più
volte. Delle frasi gli ruminarono in testa ma proprio non riuscì a tirarle
fuori, come un dente che dondola ma che proprio non vuole staccarsi dalla mandibola.
E così il viaggio fino alla Reggia della Contessa si svolse nel più irreale
silenzio.
La Reggia della Contessa
– mai un nome fu più appropriato – era un palazzotto che qualche nobile romano
del seicento si era fatto costruire per incutere timore ai suoi colleghi
nobili. Gonfio di marmi, statue, dalle mura imponenti e dall’aspetto
minaccioso, rispondeva perfettamente ai crismi di una dominatrice della finanza
come era la Contessa Silvana Silvani Serbelloni
Mazzanti Viendalmare.
«Vestitevi da festa», disse
una volta all’arrivo Sakura, «ci sono ospiti».
I due ragazzi obbedirono
senza fare storie e si recarono nelle loro camere. La testa era altrove. Eseguirono
meccanicamente l’ordine ricordandosi del sangue nipponico che scorreva
all’interno delle loro vene. Si ritrovarono giù, lungo la scalinata. Entrambi
facevano la loro porca figura. Sapevano che sarebbero andati incontro all’alta
(?) società romana, e dunque si erano preparati al meglio prima di partire. Meimi indossava un abito lungo da sera color panna, mentre Asuka sfoggiava la giacca e cravatta d’ordinanza che
avrebbe indossato pure per la cerimomonia al
Quirinale, in programma la mattina seguente. Ora disponeva di un discreto
gruzzoletto per l’operazione al ginocchio: l’abito però era un dono di suo
padre.
Scesero le scale, si
videro, ed entrambi abbassarono gli occhi. Amareggiati, più che altro. Poi, si
incamminarono lungo il corridoio verso il salone delle adunanze – così lo
chiamavano valletti e camerieri – da dove proveniva un vociare ininterrotto.
Entrati nello stanzone Asuka non potè che sorridere.
Pareva essere entrati in uno di quei musei impolverati pieni di animali
impagliati.
«Uuuhhhh!!!
Il nostro eroe!!!», urlò la Contessa, seduta all’estremità dello stanzone, in
un tavolone di quelli da ricevimento di matrimonio. Vestiva un abito attillato
che si chiudeva in una minigonna in pelle. La solita pettinatura nera
luccicante di lacca e due labbroni vistosamente rifatti che parevano frutti di
bosco in putrefazione.
Attorno a lei, come in un
ritrovo tra streghe medievali, sedeva il fior fiore della nobiltà romana.
Applaudivano ridendo con quell’aria sbarazzina che rende più sexy una ventenne
e materia da rifiuto ospedialiero una con il
quadruplo degli anni. Cariatidi che avrebbero ben figurato come professoresse
ad Hogwarts. Età media 84 anni. La Contessa si
avvicinò ai due ragazzi, li arpionò sotto le braccia e li torturò
psicologicamente presentandoli a ciascuna delle sue amiche.
Meimi
aveva una concezione particolare delle principesse, ottenuta consumando i dvd
dei classici Disney da piccola. Quella simpatica immagine delle principesse
come splendide fanciulle dai capelli meravigliosi che cantano con gli
uccellini, parlano con i topini e trovano il principe azzurro fu letteralmente
squartato, calpestato e dato in pasto ai cani dalla Contessa. Le principesse (e
le principessine) che aveva di fronte erano entrate in menopausa ancor prima
che sua mamma nascesse.
Accanto ad alcune delle
principesse c’era qualche toyboy, uomini e ragazzi di
età variabile, dalle pettinature alla moda, vistosamente lampadati
e dagli occhi umidi come di cani bastonati. “Prima o poi schiatta, prima o poi
schiatta”, parevano incoraggiarsi tra di loro. In realtà era sovente il
contrario, dato che come da tradizione occultistica romana queste megere si
nutrivano dell’energia vitale dei loro compagni per rinviare a data da
destinarsi il loro incontro con il Creatore.
La Contessa li fece
sedere uno alla sua destra e l’altra alla sua sinistra, aiutata dal fido
Filini. Tra i tavoli si aggirava con aria di suprema dignità il ciccione
vestito da maid. Uguale a Fracchia e alla Belva,
trasudava tutta un’altra aurea di bestia bastonata dalla vita. Asuka provò un po’ di pietà per quell’essere. E lui, a
differenza di Fracchia, se la meritava davvero. Era il povero ragionier Ugo
Fantozzi, ex collega della Silvani che ora si trovava così promosso. Aveva
scelto uno stipendio più alto a fronte di un’umiliazione superna, che scontava
in virtù dell’ossessione giapponese della sua nuova principale. Ma nei suoi
occhi traspariva la fierezza di Icaro.
Tra le chiacchiere
acidule delle vecchiette, le comparsate di qualche comico del fu Bagaglino e di
giornalisti e fotografi del jetset romano, era
impossibile non prorompere ogni tanto in qualche risatina. Ogni tanto Asuka e Meimi si sfiorarono con
lo sguardo, ma entrambi non vollero ruppere il
silenzio reciproco. Certamente, però, al termine della serata il clima si era
disteso.
«Allora… Io vado a
letto», disse Asuka, quando l’ultima delle vecchiette
fu prelevata e riportata alla clinica Villa Giuseppina dall’apposito personale
sanitario.
«Anch’io», continuò Meimi. Fredda, ma non come poche ore prima.
Salirono le scale. Entrambi,
quasi in contemporanea, a pochi metri di distanza, si svestirono e indossarono
i loro pigiami. Andarono sotto le coperte in quei letti in cui era morta secoli
prima gente che aveva dato il nome a paesi. Ma entrambi non riuscirono a
dormire, perché ad entrambi frullava in testa lo stesso pensiero.
«Perché deve andare
così?». Entrambi rimasero lì a farsi l’esame di coscienza. Perché erano stati
così rudi? Se Meimi si odiava per averlo rimproverato
per quei rossori – era un uomo, e in effetti, l’avvenenza di Sakura faceva
arrossire pure lei – Asuka era desolato di essere un
porcospino umano, incapace di comunicare con qualcuno senza prima ferirlo.
Provarono entrambi, nei loro letti soffici, a perdersi con gli smartphone. Asuka lesse i
risultati dell’ultimo show della principale federazione di wrestling al mondo,
arrabbiandosi per la gestione scriteriata dei migliori lottatori che sperava,
invano, prima o poi, di vedere con la cintura di campione attorno alla vita.
Eppure, mentre riempiva la sua bacheca preferita di “Cena sucks”
e “Orton muori”, in testa aveva solo Meimi. Come l’aveva trattata. E allora i suoi commenti
assunsero toni ancora più rabbiosi, e si ritrovò bannato
per aver dubitato con parole non punto belle dell’effettiva paternità di Triple
H delle figlie partorite da Stephanie MacMahon. “Ma
perché le ho detto proprio così? In effetti, in confronto alle altre ragazze è
davvero frivola la metà”, pensò, mentre digitava col cellulare “Ziggler è scandaloso sia fuori pure dal giro dei titoli
minori” in un’altra bacheca. “Eppure è proprio qui. A pochi metri. Dall’altra
parte del mondo, sola con me. Basterebbe così poco per fare pace. Per un
sorriso”. O qualcosa di più. Pensava, con il cuore che gli batteva a mille,
mentre donava al panorama del wrestling mondiale l’ennesima opinione sui danni
che l’ennesimo ripassaggio tra i buoni di Big Show
aveva causato alla WWE. A letto proprio non riusciva a starci. E così si alzò,
estrasse il tablet dalla valigia e continuò ad insultare Vincent Kennedy MacMahon seduto sulla scrivania di mogano per un’abbondante
ventina di minuti.
Il Wi-Fi della Villa
della Contessa, dall’indecifrabile password “1234” che tutti indovinavano al
primo tentativo, serviva in quel momento anche a Meimi
per stalkerare i profili delle amiche. Cosa stavano
facendo (o meglio, cosa avevano fatto la sera prima, dato che il fuso orario è
una brutta bestia), che dicevano, quali vignette idiote piene di luoghi comuni
stavano condividendo. Ma nella finestra del mostro creato da un ragazzotto
ebreo una decina di anni prima scorse che Asuka, il
primo dei contatti della sua lista, era intento a commentare ancora “le
bacheche di quello stupido sport in cui fanno finta di picchiarsi”, ben conscia
che se avesse pronunciato quella frase ad alta voce Asuka
l’avrebbe mandata – giustamente – a quel paese. E non resistette.
“Allora?”. Scrisse in
chat.
Il ragazzo, a pochi metri
di distanza, deglutì. Si ritrovò in panico, ma era un panico diverso rispetto a
quello che aveva provato di fronte alla Belva due mesi prima.
“Allora che?” digitò,
pentendosi subito. Ma ormai era troppo tardi, così, scrisse, con onestà non
ponderata: “Mi dispiace per oggi!”. E si ripentì ancora. Ma era un pentimento
diverso, di cui non era pentito pienamente. E forse non lo era affatto.
“Ne parliamo?”. Questa
volta era Meimi a scrivere. E Asuka
non potè vedere che nell’altra stanza la ragazza,
dopo aver toccato l’invio, si rintanò sotto le coperte e si schermò il viso con
un cuscino, scuotendo più volte la faccia.
Asuka
si rintanò nella sua mente. Varie voci affioravano, come in una sorta di
parlamento. Alcune, molto forti, lo invitavano a dire qualche parola dura. A
mostrare la parte di sé più rigida, uno schermo, uno scudo per difendere la
desolazione che sentiva avere dentro. Guardava quel suo dentro. E vedeva un
campo in inverno, pieno di solchi, umido, bagnato, freddo. Al centro vedeva una
grossa buca, una specie di voragine. È lì che lo avevano estirpato, quella
volta, quell’albero. Era piccolo, quando la vita lo tagliò. Non poteva più
giocare tra i suoi rami, non poteva più ripararsi sotto la sua chioma. Quando
l’albero si ammalò e venne abbattuto da una malattia mortale il cui nome lo
terrorizzava ancora, quando suo padre gli diede quella notizia in quella corsia
d’ospedale, il piccolo Asuka non potè
far altro che recintare quel suo giardino, in modo che nessuno potesse entrarci
nuovamente per distruggerlo. Eppure, non si accorse che più tempo passava a
piantare paletti e murette, i fiori e le piante pian piano morivano, bruciate
dal sole o condannate dal gelo. Un’altra voce, che pareva avere un tono
familiare, e che con le sue parole richiamava il fruscio che il vento faceva
tra i rami di quel grande albero, lo mise di fronte alla realtà con violenza.
Non era protetto. Era
prigioniero. Quei paletti e quei recinti non lo difendevano da nessun pericolo.
Il suo campo era sempre più deserto, brullo e triste. E lì mai e poi mai
sarebbe più ricresciuto qualcosa. La terra era buona, sì. Ma aveva bisogno di
acqua, compost, semi, piantine. E doveva uscire allora da lì. Quella voce calma
e materna lo prese per mano, e lo condusse ai confini del suo orticello. E gli
mostrò che proprio lì accanto c’era il giardino più bello che avesse mai visto.
Un giardino che per anni aveva ammirato, come da lontano. Un giardino che gli
aveva dato la forza in una delle prove più dure della sua vita. Un giardino nel
quale si era già riposato e ristorato. E che ora era lì, a sette metri da lui,
a tremare come una foglia sotto le pesanti coperte di un letto a baldacchino.
“Arrivo”. Scrisse,
picconando la muretta di gesso.
Tremava, ma indossò lo
stesso le pantofole, prese lo stesso il bastone, aprì lo stesso la porta e fece
lo stesso quei cinque passi che lo separavano dalla camera di Meimi. La ragazza, nel frattempo, si era già alzata,
cercando di mantenere il più possibile la calma. Poi, il tuono: era in pigiama.
“L’ho invitato che sono in pigiama!!!”. Controllò l’ora. L’una e ventisette
minuti di mercoledì. Ormai era troppo tardi. Stava già bussando.
Meimi
si precipitò ad aprire la porta. Era lì. Si reggeva al bastone, era
visibilmente stanco. Ma no, non arrossiva. E teneva la testa dritta. A Meimi invece i capillari si distrussero in un tripudio di
pressione alta che manco dopo una cena in un agriturismo dei Colli Euganei.
Asuka
entrò, sereno. La guardò. Con il pigiama, i capelli sciolti e un po’ arruffati,
era ancora più bella. Le rotondità del pigiama la rendevano ancora più paffuta
di quello che era, e ad Asuka piaceva ancor di più,
soffice. E finalmente arrossì anche lui, in un modo diverso rispetto a come
aveva mai arrossito. Gli sarebbe piaciuto avvicinarsi ancora di più, ma
qualcosa lo trattenne. Ed era l’eco di quel fruscio tra i rami di dell’albero
caduto.
«Hai provato ad aprire la
finestra?», disse, calmo.
«La finestra?». Meimi trasalì. In effetti, non aveva notato niente.
«Anche da camera mia si
vede un panorama mozzafiato». Del resto, erano al terzo piano. Meimi, senza commentare, aprì le tende e le persiane. E
Roma, di fronte a loro, illuminata dalle luci artificiali, risplendette della
sua eterna bellezza. Vedevano sullo sfondo il cupolone, palazzi, campanili.
Chissà quante persone, prima di loro, avevano ammirato quel paesaggio. A
milioni. Quante vite si erano intrecciate, quante vite si erano spente, quante
vite avevano assunto un senso piuttosto che un altro. Quanti amori erano nati.
Asuka
si avvicinò, guardando dritto verso la finestra. Meimi
si mise accanto a lui.
«Scusami», dissero
all’unisono. Ed era di nuovo la cosa più naturale del mondo, come fu naturale
il fatto che non seguirono altre parole. Semplicemente si avvicinarono, e
continuando a guardare la culla della civiltà immersa nel sonno, Meimi avvolse con il braccio destro la schiena di Asuka e posò la testa sulla sua spalla. Il ragazzo,
prendendo a calci gli ultimi paletti di legno con cui aveva recintato il suo
orto, non si ritrasse da quella specie di timido abbraccio, ma lo alimentò,
cullando la testa su quella di Meimi, respirando a
pieni polmoni quel suo profumo di vaniglia. Respirando lei.
Il cuore batteva forte. E
più batteva, più quell’abbraccio si stringeva. Sapeva che Meimi
era tutto quello che per cui aveva combattuto. Era lì, la sua misteriosa ladra
Saint Tail, che aveva inseguito per anni e che ora
aveva tra le sue braccia. E fu con violenza che si accorse che forse non era
mai stato così felice in tutta la sua vita. E che forse un pezzo importante di
tutta la sua vita era quella ragazza rotondetta che ora scaricava gran parte
del suo peso su di lui. Ed era un peso dolcissimo.
Quanto sarebbe durato
quel momento di estasi? E si perse con gli occhi nel panorama che aveva di
fronte, mentre con il cuore, con il tatto e con il respiro godeva della
presenza celestiale di quella specie di angelo recapitatogli con posta
prioritaria direttamente dal Cielo. Aveva di fronte la Città Eterna. Ma quella
città, per quanto bella, per quanto imponente, per quanto misteriosa e
avvolgente, non era nemmeno lontanamente paragonabile alla bellezza, alla
mistero e al fascino della ragazza che aveva vicino. Era amore? Era amore
davvero?
Piegò la testa verso la
ragazza. Chiuse gli occhi. Poteva sentirla respirare. Le loro labbra si avvicinarono.
Si unirono. Un anno prima, assieme a un amico, aveva vinto cinquecento mila yen
imbeccando un sistemone per una scommessa sportiva. Gli era parso di impazzire
di felicità. O quando aveva passato gli esami con il massimo dei voti. O quando
aveva ricevuto quel distintivo. Sì, non lo negava. Quelle volte era stato al
settimo cielo. Ma ora si trovava al settantesimo! In quel momento lei era la
cosa più importante del mondo per lui e sapeva benissimo che lui lo era
altrettanto per lei. Baciava Meimi. Baciava Saint Tail. Le donne della sua vita che erano due e che erano una
soltanto. Si domandò chi avesse tra le braccia, in quel momento. Era dolce come
Meimi. Era soffice come Meimi.
Ma era forte come Saint Tail, affascinante come Saint
Tail.
«Che faremo adesso?».
Ruppe la magia Asuka, mordendosi la lingua. “Proprio
ora…” Ma continuò: «Io, te, Saint Tail…» e si incupì.
Si aspettava la stessa reazione da parte di Meimi.
Temeva si intristisse. O addirittura si arrabbiasse. E fu proprio in quel
momento che la vita gli dimostrò di non essere poi questa grande bastarda che i
cantanti emo cantavano a metà degli anni ‘2000 prima
di morire di vecchiaia.
Meimi
lo accarezzò sul viso, con uno sguardo materno e preoccupato insieme. Gli si
appoggiò sul petto. Alzò con civetteria la gamba sinistra, come solgono le ragazzine innamorate, quasi a distribuire tutto
il loro peso sul fidanzato. Ma pareva sul punto di avere un mancamento.
«Ci siamo sempre state,
per te, Asuka. Tutte e due». E lo sguardo, da
lontanamente malizioso, si incendiò in quello di un agorafobico che parla
all’assemblea generale dell’Onu, ma che, lottando con tutto sé stesso, vuole
continuare a parlare, avesse dovuto per questo morire lì, in quel punto, di
crepacuore. «Ci saremo sempre. Ci sarò sempre. Sono sempre io, Asuka». E scoppiò in un mare di lacrime, violento e
impetuoso. «Scusami!!! Io… Io… ». E si ritrasse.
Asuka
trasalì. Lo aveva intuito, ora ne aveva la conferma. L’esistenza stessa di
Saint Tail era in sua funzione. Ma pure l’esistenza
stessa di Meimi era come fosse in sua funzione. Tremò
pensando a quale responsabilità enorme aveva di fronte al mondo, al caso, a Dio.
La cosa più bella del pianeta ora piangeva di fronte a lui, viveva per lui. Il
sangue gli si raggelò per un istante, ma poi, di nuovo, gli sguardi si
incrociarono. Dio com’era bella, così. Spettinata, stanca, con le guance
arrossate e gli occhi umidi.
Che avrebbe dovuto fare
per la questione Saint Tail? Catturarla? Denunciarla?
Fare finta di niente? Restituire il distintivo? Coprirla. Erano discorsi
infinitesimali, microscopici rispetto a quello che stava succedendo, in quella
fresca notte romana. Nulla era risolto. Tutto era risolto. Ci avrebbero pensato
dopo, forse, in un’altra vita.
La strinse a sé. Il
bastone cadde per terra, contro il parquet fatto con legno di alberi abbattuti
prima della Rivoluzione Francese. «Quanto sei sciocca». Le disse. Ma sorrideva.
E Meimi vedeva che era la felicità in persona. Ed era
un sorriso capace di sciogliere ogni dubbio, ogni asprezza, ogni rimurginazione. Ed era quel sorriso che desiderava.
Vederlo. Esserne la causa. Le labbra si incontrarono di nuovo.
E non erano più lì.
Avevano lasciato Roma. Perché stavano viaggiando in paesi, oceani, pianeti e
universi da esplorare insieme, in quel bignami di paradiso. Pareva che tutta la
storia, dalle trilobiti agli uomini del futuro, dal big bang al giudizio universale,
fosse racchiusa in quel contatto di labbra e saliva. Ed era la cosa più
naturale del mondo. La Città Eterna pareva si inchinasse di fronte a quella
lezione di eternità. Nei loro giardini crescevano rigogliosi i fiori
dell’estate.
Nel vialetto, sotto la
finestra, un cicciobombo romano, che pesava più della
vespetta modificata sulla quale sgommava imperterrito
alle due di notte, li scorse e li salutò gentilmente: «Ah mmerde!!!».
Li svegliò la mattina
dopo, poco prima delle sette, il capo-cameriera ragionier Ugo Fantozzi.
Entrato con noncuranza,
come al suo solito, per spolverare l’ampia camera da letto, si era trovato di
fronte a uno scenario quanto meno inusuale in quella villona in cui di notte
camminavano ancora le anime perdute di antichi inquisitori spagnoli con tanto
di annessi rumori di catene spettrali alla Jacob Marley.
I due ragazzi erano sul
letto, distesi di lato con le gambe verso la finestra. I piedi erano sollevati
a mezz’aria, come se il sonno li avesse travolti d’un tratto mentre si trovavano
seduti a guardare fuori, oltre le tende aperte, verso il panorama della Roma
addormentata. Le persiane, infatti, erano alzate. La testa di Meimi poggiava
sul petto di Asuka. La ragazza era raggomitolata in posizione fetale, mentre i
capelli castani perfettamente spettinati indicavano come tanti aghi di una
bussola impazzita i vari punti cardinali. Asuka, invece, era disteso. La
stampella, sopra il letto, a ridosso dell’orlo, minacciava di cadere.
Fantozzi, ovviamente,
fece uno più uno, e, dato che la matematica non è un’opinione, si immaginò cosa
potesse essere successo. La vita grama, che l’aveva condannato alla pena
dell’ergastolo presso il talamo mortifero della signorina Pina dai capelli
grigio topo e dall’alito fognante, ora gli esibiva quella specie di piccolo
miracolo d’amore. Da una parte si incazzò come un animale, dall’altra, la vista
di certe forme generose che trasparivano dal pigiama della giovane dai capelli
rossi e dal profumo di vaniglia, che aveva sì solo sedici anni ma la cui
crescita nel comparto femminile non era regolato da carte d’identità, gli
provocò la fuoriuscita della classica linguetta, e qualche leggero suono
gutturale che se udito da un uomo vestito da cameriera fanno immediatamente
pensare a un simpaticissimo, spigliatissimo e carinissimo maniaco sessuale.
Non fu una sveglia
particolarmente fortunata. Il primo a spalancare gli occhi fu Asuka junior, che
aveva il sonno più leggero. Alla vista di quel volto così tragicamente
familiare trasalì, immobilizzato. Poi si accorse della ragazza che aveva sopra
di sé e trasalì nuovamente. Ormai, per lui, trasalire era divenuto una specie
di hobby, anche perché l’autore è sempre stato uno a corto di sinonimi. Perché anche
Asuka sapeva che la matematica non è un’opinione, ma quella, più che di
matematica, era una questione di geometria, così, scandalizzato: “Non è
successo nulla”, si ripeteva – ed era la verità – andò ad incriccarsi, nel
tentativo di alzarsi, con la gamba contro la stampella, che fece da leva,
mentre il peso di Meimi lo bloccava al letto. Urlò come se non ci fosse stato
un domani, quando il ginocchio gli fece di nuovo crac.
Furono minuti di
imbarazzo e di angoscia, tra Meimi che piangeva chiusa in un armadio
vergognandosi come Giuda Iscariota il giorno del giudizio, Asuka che elencava i
santi del martirologio romano in ordine alfabetico, Fantozzi che chiedeva pietà
inginocchiato al suo cappezzale la Contessa, in pigiama, sulla porta, che
spipacchiava una sigaretta lunga e guardava la scena con soddisfazione: “Che
gajardi sti reghezzini. Già ci danno dentro!”, non capendoci, ovviamente, una
beneamata pure lei.
Si
rividero a colazione. Abituati al salato di prima mattina, trovarono l’ambrosia
marrone della Ferrero, da spalmare sul pane toscano, degno delle prime
colazioni d’Eliogabalo. La Contessa, che sorseggiava goccia dopo goccia un
caffè ristrettissimo, continuava a guardarli, sorridendo maliziosa, immaginandosi
chissà quali risvolti erotici da romanzaccio rosa.
Sakura
dettò gli orari. Alle nove dovevano partire per la volta del Quirinale. Il
presidente della Repubblica in persona, l’ottantanovenne Giorgio Napolitano,
avrebbe appuntato al petto dei protagonisti della notte di Seika onorificenze
di cui nessuno ricordava il nome, ma che un sacco di gente in Italia brama più
di ogni cosa. Il più giovane degli onorati dal Cavalierato della Repubblica era
il ragazzino, ormai azzoppato, dagli occhi a mandorla. Una vera chicca per i
media.
Asuka,
dato che l’abito da attempato cantante di balera era ridotto a brandelli, si
era portato dal Giappone un classico completo nero, utilizzabile in ogni
circostanza, dai funerali, ai matrimoni alle convention dei partiti politici,
dono di suo padre. Tutti i suoi risparmi – e le cospicue donazioni della
polizia – erano rivolte a quell’operazione in quella clinica di lusso per
velocizzare il tempo di recupero del ginocchio, a cui si sarebbe sottoposto di
lì a pochi mesi. Meimi, invece, puntò su un’abitino blu scuro con gonna sotto
il ginocchio e giacca lucida, che la rendevano del tutto simile a una manager
in carriera.
La
mente della ragazza, mentre l’auto procedeva verso il centro di Roma, era ormai
libera dalla vergogna provata di primo mattino. Tutta la sua testa ora macinava
per il timore che qualcuno, magari, si potesse fare qualche domanda sulla sua
presenza accanto ad Asuka alla cerimonia. La paura – ormai irrazionale, ma
sempre presente – era che qualche giornalista, esperto od osservatore, dotato
di più di cinque neuroni, potesse riconoscere in lei il volto di Saint Tail. I
giapponesi non erano riusciti a fare uno più uno in tre anni, eppure, qui si
trattava di un altro paese, di altre teste, ma soprattutto, tutta l’attenzione
sarebbe stata solo su di loro. Su Asuka, ma, soprattutto – era modesta, ma non
cieca – sulla sua affascinante accompagnatrice. Erano sotto gli occhi e i
riflettori di tutti.
Arrivarono
sulle 9.20, con discreto anticipo. Lasciarono l’auto ai piedi del Colle, poi
entrarono, passando sotto lo sguardo di una fila di corrazzieri piumati. Dei
distinti e veloci commessi li fecero accomodare al piano superiore, portandoli
in una delle salette interne, dove rividero gente come Auricchio, De Simone e
Rizzo. Finalmente, sorridenti e rilassati. De Simone pareva reduce da un match
di box, ma stava in piedi, a differenza di Daiki Asuka senza bisogno di
stampelle. Auricchio, invece, pareva un’altra persona. Dopo giorni di euforia
per la cattura della Belva, l’obiettivo di una vita, non sembrava più lui,
inesplicabilmente troppo sereno. Come se un vuoto lo avvolgesse e navigasse a
vista verso nuove direzioni ancora da esplorare. L’atmosfera si incupì, quando,
accompagnata da un valletto con i guanti bianchi e le scarpe lucide, entrò,
nella saletta ricoperta di specchi dorati e di tavolini con sopra bottiglie di
vetro d’acqua minerale Fiuggi e pasticcini la signora Mariagrazia, una
quarantenne dai lughi capelli neri e con delle rughe marcate che le coprivano
il volto. Rughe che pochi mesi prima non c’erano. Con lei una bimbetta – che
avrà avuto più o meno cinque anni – vestita con una gonna e calze bianche
immacolate che rimaneva sempre attaccata alla madre, come una scimmietta. Ormai
sapeva che il papà, il carabiniere Esposito, non sarebbe più tornato a casa, ma
che tutta quella festa lì, con i pasticcini e l’acqua in bottiglia di vetro, il
Presidente la faceva per lui, perché era stato bravo. Asuka non riuscì a
mantenere lo sguardo fisso su quell’esplosione di umanità. Eppure la donna gli
si avvicinò, lo abbracciò, e pianse. «Grazie!», l’unica parola che gli disse.
Ma Asuka non provò alcun moto di gioia, del resto, non aveva fatto nulla,
mentre la Belva lo faceva uccidere. Da perfetto autolesionista mentale, non
pensò che era prevalentemente merito suo se ora la Belva giaceva in regime di
41-bis in una stanzina del Carcere di Opera, sotto gli occhi delle telecamere
24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Meimi
si chinò sulla bimbetta, che, vinta la diffidenza iniziale, alzò il visino per
osservare quella bella ragazza dai lineamenti stranieri che le sorrideva. Con
una manina, però, la piccoletta rimaneva arpionata al ginocchio della mamma.
Anche la signora Mariagrazia sorrise, osservando un barlume di serenità, anche se
non di gioia, negli occhi della sua piccina.
Quando
la signora Mariagrazia e la relativa bimbetta si rigirarono per stringere la
mano a qualche sottosegretario occhialuto, Meimi si riavvicinò ad Asuka. Quello
sguardo triste, quel volto incavato e arrossato da fiumi di lacrime, quell’atteggiamento
remissivo ormai privo di speranza avrebbero potuto essere tutti suoi se alcuni
leggerissimi ingranaggi del destino fossero girati in modo diverso quella sera.
Ma così era andata: la vedova Esposito sarebbe rimasta da sola, Meimi, invece,
aveva davanti a sé dodici giorni di “luna di miele” con il suo Asuka, prodromi
di chissà quanti giorni, mesi e anni il Signore avrebbe loro donato. Soppresse
all’istante il lieve senso di colpa che le montò sul petto, e quasi a soffocarlo
ulteriormente, da sfacciata si diresse verso Asuka junior, gli si mise a fianco
e gli strinse la mano.
Il
cuore le balzò in gola. Poche ore prima si erano baciati e abbracciati, ma in
quella saletta del Quirinale impreziosita da quintali di arazzi raffiguranti esotiche
scene di caccia[1]
le bastò sentire il calore della mano del ragazzo – ancora viva, ancora
pulsante, ancora calda – per esplodere.
«Che
fai… piangi?». Non si era nemmeno accorta delle lacrime che le scendevano lungo
il viso. Asuka estrasse un fazzoletto e glielo porse. Sorrideva comprensivo.
«Grazie», anche lei sorrise.
«Che
fate ancora qui?». Un valletto dai guanti bianchi entrò di fretta nella stanza
e si mise a gridare ad alta voce. «La cerimonia inizierà tra pochi minuti. Il
presidente e i ministri arriveranno tra pochissimo. I signori venghino».
«Arriviemo,
sì!», lo fece paradossalmente calmare Auricchio. Ma tutti lo sentirono
pronunciare a bassa voce un «ecchecchezzo» di familiare memoria. Meimi, che pur
non sopportava le volgarità, si fece sfuggire un sorriso. Era cambiata anche
lei.
Entrarono
in un altro salone confinante, pieno di specchi e di drappi rossi. In alto,
quasi dal soffitto, sporgeva un balconcino, nel quale, almeno in teoria,
avrebbero dovuto trovare posto complessini di musicisti per allietare i balli
dei Savoia, in particolare di Vittorio Emanuele II, padre della patria, anche
geneticamente in virtù di tutte le damigelle che aveva personalmente
“investito” di qualche centilitro di autorità nobiliare. Ora però c’era solo
una videocamera e due macchine fotografiche che pendevano dall’alto come
avvoltoi manovrate da altrettanti stanchi operatori Rai, Ansa e AdnKronos.
Ai
ragazzi dissero che si trattava del “Salone delle Feste”. Per Meimi però, che
aveva ancora addosso la disperazione della signora Mariagrazia e l’innocenza
della bimbetta smarrita, quella non pareva proprio una festa, nonostante i
drappi rossi da reggia sabauda riadattata alle esigenze repubblicane.
Si
contavano decine e decine poliziotti, militari, giornalisti, prelati e amanti, amici
e parenti di tutte quelle predette categorie. Fecero accomodare i medagliati ai
primi posti, di fronte a delle comode poltroncine di velluto. Sul palchetto,
una sedia vuota e un microfono.
Meimi
venne fatta accomodare in terza fila, nel settore amici-conoscenti. Le
dispiacque doversi separare da Asuka jr, ma in fondo era meglio così. Nessuno
l’avrebbe riconosciuta: starsene in disparte era la scelta migliore in ogni
caso. Si sedette, mentre alle sue spalle uno sparuto gruppetto di giornalisti
si lamentavano a vicenda dei propri capiredattore, unendo sotto l’insegna del
proletariato intellettuale testate concorrenti e rivali. Succede sempre così,
alle conferenze stampa e agli eventi.
Meimi
si girò. Non si aspettava così tanti giornalisti. In effetti, la notizia in
Italia era stata cavalcata con forza: un poliziotto bambino, un latitante
catturato, morti italiani all’estero. Gli ingredienti c’erano tutti.
Applausi.
Due
signore fecero ingresso per prime nella stanza dall’entrata opposta. Erano
entrambe bionde, una più giovane, con i capelli lunghi, una specie di top model.
L’altra più anziana, ma non di molto, con i capelli corti. Erano i ministri
Mogherini[2]
e Pinotti, rispettivamente titolari degli Esteri e della Difesa. Parlottavano
tra loro a bassa voce. Poi il loro sguardo andò a fiondarsi sul ragazzino con
la stampella seduto in prima fila, e gli si fiondarono addosso, con
l’amorevolezza di zie o cugine più grandi.
Un
piccolo moto di gelosia – per l’appunto piccolo piccolo – le si mosse nel
cuore, ma lo fece tacere immediatamente. Le ministre si misero ai loro posti,
restando però piedi. Meimi si sedette, ma non appena toccò con le mani i
braccioli della poltroncina dovette riscattare sull’attenti in virtù del
fragore che sentì nella stanza. Pareva che tutti fossero saltati in piedi. Il
presidente era entrato. A passi lenti, stanchi, ma decisi si faceva strada
lungo il salone, accompagnato da due carrozzieri dalle lunghe criniere e da un
ragazzo giovane, dalla fronte spaziosa e dal labbro prominente che avanzava
baldanzoso e sicuro al suo fianco. Un ragazzo che poi Meimi scoprì essere il
presidente del Consiglio.
Giorgio
Napolitano, dopo aver squadrato la folla con diffidenza, si sedette al suo
posto, senza salutare nessuno. Un valletto gli consegnò, dentro un contenitore
in pelle, alcuni fogli A4.
«Siamo
qui per premiare il coraggio», iniziò a parlare al microfono il presidente del
consiglio dei ministri, nonché segretario del più grande partito italiano. «Due
mesi fa, in Giappone, le nostre forze dell’ordine hanno dimostrato che l’Italia
c’è. Il nostro Paese ci può mettere mesi, anche anni ad assicurare un criminale
alla giustizia. Ma prima o poi la giustizia, quella giustizia che è un faro
assoluto nella nostra Costituzione, arriva. Noi non ci arrendiamo a…». Fu un
discorso lungo ed entuasiasta, nel quale non mancò di intessere le lodi di
tutte le forze di polizia giapponesi, in particolar modo di Asuka Tomoki, e di
ricordare chi aveva perso la vita, rivolgendo parole affettuose nei confrontdella
vedova Esposito. Meimi non poté non percepire una certa freddezza e pomposità.
Quelle parole così altisonanti le parevano false. Non comprendeva l’origine
della diffidenza che provava in quel momento verso il più giovane primo
ministro della storia d’Italia. Si analizzò. Il premier non aveva sbagliato
nulla, anzi, era sempre stato molto gentile. Seppe che informò via Twitter
passo dopo passo gli italiani durante la notte di Seika, che telefonò
addirittura ad Asuka mentre era in ospedale, che era stato lui a lottare per
dare quell’onorificenza al giovane dective giapponese. E allora perché era così
scettica?
“Perché
lui non era lì”. Si rispose. Non era lì a veder morire le persone. Non era lì a
prendersi martellate sul ginocchio e a farsi cavare i denti. Gli eroi erano
altri. I veri eroi erano Auricchio, che aveva dedicato la sua vita alla cattura
della Belva, De Simone, che era quasi morto, Rizzo, che aveva portato la
giustizia a suon di cazzotti, ma soprattutto Esposito e Yamaguchi, martiri
della giustizia. Ma l’eroe più grande era Asuka, il suo Asuka.
E
fu in quel momento che il premier quasi le rispose, riprendendo il filo del
discorso: «… è per questo che ho fiducia nel mio Paese. Perché so che posso
sempre contare su persone come voi, ligie non tanto al senso dovere, ma
innamorate del bene di tutti. Così innamorate da dare tutto, anche quello che
non hanno. Abbiamo bisogno di voi. Io ho bisogno di voi. Avanti così, anche in
memoria di chi non c’è più ma ci illumina la strada». Strinse poi le mani di Asuka,
di De Simone, di Rizzo. Meimi capì che non si era limitato a ringraziare, aveva
chiesto, tra le righe, che gli sforzi di De Simone, di Rizzo, di Auricchio e –
anche – di Asuka non cessassero in virtù di quella prima vittoria, ma
continuassero, si spaziassero verso altri fronti. Meimi comprese finalmente perché
quel giovane politico rampante fosse così popolare.
Dopo
gli immancabili scrosci di applausi, fu la volta del presidente Napolitano ad
alzarsi in piedi. Estrasse gli occhiali, posizionò i fogli in ordine sul
leggio. Restò un istante in silenzio. Sospirò, e si tolse gli occhiali,
stupendo non pochi degli astanti. Aveva deciso di parlare a braccio.
«Ringrazio
voi per essere qui presenti. Come non posso non ringraziare, in modo
particolare, il giovane Asuka Daiki per essere qui. Con lui mi scuso per
l’infame condotta del nostro connazionale noto alle cronache con il famigerato
nome di “Belva Umana”».
Mormorii
tra la folla. Aveva rotto ogni schema. Le bionde ministre fashion si girarono e
si fissarono tra di loro. Il premier era invece più attento che mai. Meimi
assisteva alla scena dall’esteno, come se non la riguardasse. Era sì in parte
emozionata, ma non comprendeva quanto fosse irrituale per un presidente della
Repubblica infrangere così il cerimoniale, nominando senza remore i soprannomi
degli ergastolani.
«…
molte sono state le ricostruzioni in queste settimane degli organi di stampa…»
«Ecco
la bomba!». Sussurrò eccitato un cronista seduto dietro a Meimi, evidentemente
poco avvezzo alla ritualità e alla calma dei cosiddetti quirinalisti. «Parlerà
della supereroina?», gli domandò sottovoce l’inviata di un noto Tg nazionale.
«...sebbene
siano ancora in corsa le inchieste ufficiali – continuò il presidente – sarebbe
un’offesa all’intelligenza dei presenti non comunicare ciò che ormai è sotto la
bocca di tutti».
Se
anche in quel momento una mosca fosse stata presente all’interno della stanza,
per decenza avrebbe smesso di ronzare, interrompendo all’istante il suo volo.
Le matite, le telecamere e la memoria dei presenti erano pronte ad immortalare,
in quel clima di assoluta novità, ogni singola rivelazione.
«Ho
profondo rispetto per la giustizia giapponese. Lo dimostra la storica amicizia
con il paese e con le sue autorità. Lo dimostra l’affetto che nutro per questo
ragazzo il cui contributo è stato fondamentale per vincere la battaglia contro
uno dei più pericolosi criminali degli ultimi tempi. Ma ciò non mi può impedire
di ringraziare pubblicamente, dovunque essa sia, una straordinaria ragazza la
cui missione è stata a dir poco provvidenziale».
Era
un salone del Quirinale. Uno dei luoghi più laicamente sacri dell’intero paese.
Ma in quel momento pareva l’Oktoberfest: tutti iniziarono a parlottare, i
giornalisti a sparare domande, persino i flash e clic degli scatti dei
fotografi parevano più rumorosi. Napolitano però continuava a parlare, come se
la sua voce appartenesse a un altro mondo, a un altro secolo, più dignitoso,
più importante, più rispettabile.
«…Saint
Tail». Pronunciò il suo nome. «Grazie».
Meimi
era impietrita. Anche perché, per un lungo, eterno, interminabile istante
l’ottantanovenne presidente, superando le file di teste ministeriali,
sottosegretariali e giornalistiche fissò proprio lei negli occhi. «Chi
gliel’avrà detto?». Ma quegli occhi non erano gli occhi del sovrano democratico
di un paese da sessanta milioni di abitanti. Erano gli occhi gonfi di lacrime
di un nonno che ne aveva viste anche troppe, e che era stato costretto, nei
suoi ultimi mesi di vita, a restare al timone di una nave che attraversava le
onde impazzite di una tempesta perfetta, ben conscio che, non appena le acque
si sarebbero calmate, qualcun altro avrebbe presto il timone e i relativi
meriti, mentre a lui sarebbero rimasti solo gli urli e gli improperi. Una
damnatio memoriae.
In
quei tre secondi, mentre la fissava da lontano, era come se si fossero parlati.
Lui
la ringraziava, per aver reso meno ingovernabili quelle onde. Per aver salvato
dei naufraghi. Lei si scherniva, per non aver fatto nulla di eccezionale, per
essere una semplice ragazza, per non meritare assolutamente nulla. Lui allora
iniziava a sorridere, prima di rivolgere gli occhi altrove, salvandola da ogni
possibile imbarazzo.
«Ed
è per questo che, accanto ai titoli che ho già comunicato, intendo conferire il
titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana anche all’ignota giustiziera
Saint Tail».
Il
premier fu il primo ad alzarsi in piedi e ad applaudire fragorosamente,
seguito, un istante dopo, dalle sue ministre. Come un virus, l'applauso si
diffuse in tutta la stanza. Anche Auricchio applaudiva, commosso come non mai.
Solo Asuka non batté le mani, ma si limitò a girarsi – anche lui solo per un
istante – verso Meimi. Anche lei piangeva.
E
non erano lacrime di gioia, come la notte di Seika. Asuka se ne accorse.
Erano
lacrime di paura.
Saint
Tail non era più lei. Ormai era un simbolo. Un simbolo che non le apparteneva
più, troppo grande per una ragazza di sedici anni, da sola. Sola.
[2]
Al momento della rilettura è stata sostituita da Gentiloni. Evvabbé. Pensate
che questa fiction, in dodici anni dalla prima ideazione, ha visto passare
cinque presidenti del consiglio, tre presidenti della Repubblica e sette
governi.
Erano
in un angolino dei giardini del Quirinale, nel bel mezzo di una passeggiata
amena. Non era orario di visita, ma un valletto vestito da pinguino aveva
insistito, al termine della cerimonia di conferimento del Cavalierato, perché
il ragazzo e la sua accompagnatrice se andassero un po’ a zonzo da soli nel
giardino all’italiana dove avevano scorazzato i papi allo stato brado fino ai
tempi di Pio IX. Non si trattò di cortesia: in realtà il valletto regalò quel
momento di visita esclusiva ai due ragazzi per sottrarre Asuka dai microfoni
dei giornalisti, il cui tatto sarebbe sicuramente scemato all’esterno del
palazzo del Quirinale. Dopo la bomba sganciata dal Presidente in persona, ora
spettava al suo staff e al suo fidatissimo Ufficio Stampa “sgonfiare” quella
deflagrazione mediatica, prima che soubrette partenopee prive di tesserini di
ordini professionali se la divorassero lautamente.
«Stai
piangendo, Meimi».
Era
un ragazzo, aveva sedici anni. Sebbene detective era un ragazzo, dunque
completamente ignorante di logiche mentali femminili. Ma quella situazione era
fin troppo evidente, persino per un sociopatico borderline come lui. Meimi era
indubbiamente in lacrime. Al termine della celebrazione si era spinta verso di
lui, l’aveva abbracciato poco nipponicamente e si era congratulata moltissimo.
«Ma,
in realtà, anche Saint Tail», aveva detto sottovoce. Meimi pareva non avesse
sentito nulla. Ora era in lacrime.
Asuka
comprendeva la psicologia femminile allo stesso modo con cui padroneggiava la
filologia ebraica. Provò a decifrare le origini di quelle lacrime.
Ormoni.
Cose femminili periodiche che un po’ gli faceva schifo pensarci. Ormoni di
nuovo. O forse era perché lui si era preso tutta la gloria personalmente mentre
lei se ne restava nascosta tra le ultime file? Ma non era da Meimi. Umanamente
non poteva proprio capire che diamine fosse successo.
Il
valletto di prima li raggiunse, quasi di corsa. In mano aveva un cuscino, con
una lettera sopra. Meimi si girò dandogli le spalle, per non far vedere quegli
occhi arrossati.
«È
per lei, signor Daiki Asuka, da parte del Presidente». Non appena il ragazzo
toccò la busta il valletto si allontanò velocemente. L’anziano inserviente era
abituato a scappare subito, appena dopo aver recapitato i messaggi, una dote
che aveva affinato negli anni ’80 durante la presidenza Cossiga, quando recava
all’inquilino del Colle i dispacci di Craxi, per non rischiare in prima persona
di conoscere alla lettera la fama del picconatore sardo.
Asuka
aprì la busta. Un foglio di carta, scritto a penna. “Gentilissimo Daiki, porta
questa medaglia alla nostra comune amica”. Firmato, Giorgio Napolitano. Dentro
la busta, una medaglietta a forma di croce, con un cerchio al centro e lo
stemma della repubblica, collegato a un nastrino verde con due lunghe linee
rosse. Del tutto uguale alla medaglia che da una quindicina minuti dondolava
dalla parte sinistra della sua giacca.
«È
per te, Meimi…». Sorrideva. La ragazza lo guardò smarrita, poi, proruppe in
lacrime e lo abbracciò di scatto, quasi con violenza. La stampella cadde per
terra.
«Che
c’è, cara?». Ribattè stupito. Ed era stupito più che altro per quel “cara” che
gli era uscito di bocca. Così distante dai “cara” delle barzellette della
famigliola borghese nella quale in realtà si odiano, con una dolcezza che non
si sognava nemmeno lontanamente l’aggettivo “cara” potesse colorarsi.
La
ragazza singhiozzò sulla sua spalla, e con la mano si artigliò alla sua giacca.
«Non
ce la posso fare… Asuka…». Piangeva.
«Tu
che non ce la fai? Non dire sciocchezze». Sorrise. L’abbraccio si staccò. Asuka
riuscì, con una manovra da Circo Togni, a recuperare la stampella senza
slogarsi il gomito e senza spaccarsi il ginocchio restante.
«Saint
Tail. Quello lì», disse, riferendosi al presidente della Repubblica, «quello
lì… crede che Saint Tail sia una specie di superdonna onnipotente, senza punti
deboli». Gesticolava. «Non ha vissuto la notte che abbiamo vissuto noi a
Seika». Si fece seria. «Asuka», gli afferrò la mano libera dalla stampella,
«pensavo che saremmo morti». Ancora lacrime. «Ero debole. Ce l’abbiamo fatta
per caso. Rischiavo di ucciderti». Pianse ancora, schiacciata dai sensi di
colpa, come se fosse stata lei a rapire la contessa, a uccidere il Vescovo, a
ferire Asuka.
«Ma
ce l’abbiamo fatta». Ora era lui a rincuorarla. «Ce l’hai fatta, Saint Tail!».
Meimi considerò normale che la stesse chiamando così.
«NO
CHE NON CE L’HO FATTA!». Ringhiò. «LORO SONO MORTI», urlava. «CREDI CHE SIA
SCEMA? CREDI NON LO SAPPIA? SO BENISSIMO CHE RESTERAI ZOPPO A VITA!». Asuka
abbassò gli occhi. «SÌ, ZOPPO! LI HO SENTITI I DOTTORI. HO SENTITO CHE
PARLAVANO».
«Mi
opereranno tra poche settimane al ginocchio. Sai, la clinica è famosa: lì si
operano gli sportivi…». Provò a calmarla, sorridendo.
Ma
lei non volle sentire ragioni: «L’OPERAZIONE TI AIUTERA’ UN PO’, MA NON SARAI
PIU’ COME PRIMA, MAI PIU’…. E LA COLPA E’ MIA, SOLO MIA…». Non piangeva così dal
quel venerdì notte di Seika. Si chinò e cadde a terra.
Asuka
avrebbe potuto dire tante cose. Avrebbe potuto contraddirla, spiegarle che –
pur tenendoci comprensibilmente alla stabilità delle sue rotule – avrebbe dato
entrambe le ginocchia e anche altre parti più triviali del suo corpo per averla
vicino. Soprattutto, avrebbe potuto dire soprattutto che era stata lei a
salvarlo. Preferì dirle altro, raccontare – a lei per prima – quello che gli
frullava in testa.
«Farò
il profiler».
Meimi
alzò la testa. Non aveva capito bene.
«Farò
il profiler», ripetè. Per la verità, tentennando un po’ di più rispetto a
prima.
«Cosa?».
Una lacrima le scendeva ancora dalla guancia.
«L’ho
deciso in queste settimane. Lo pensavo da parecchio, ma quest’esperienza me
l’ha fatto capire davvero». Ora era più sicuro. Sorrideva. «Tu me l’hai fatto
capire».
«Non
ho capito cosa intendi».
«Un
profiler è un poliziotto, un detective, un privato il cui scopo è trovare i
criminali capendone la mente. Non cerca gli indizi, non va in giro per le
strade a interrogare criminali dei bassifondi. Si immerge nella mente dei
peggiori e cerca di capirne le motivazioni che li spingono. Solo in questo modo
ha speranze di catturarli».
Meimi
era come incantata. Aveva capito subito, benissimo, come se la cosa più
naturale del mondo, il motivo di quella scelta. Così complicata, ma così
dannatamente naturale. Asuka voleva capire il perché di quella notte. Perché di
quel sangue. Forse le cose, se vengono spiegate, fanno meno male.
«Dovrai
studiare?». Lo guardava con occhi gonfi di lacrime, ma anche di ammirazione.
«Sì.
Psicologia criminale. C’è gente che lo fa come consulente privato. Io voglio
però restare in polizia. Certamente, se ci riesco», abbassò gli occhi, «sarà un
lavoro molto diverso da mio padre. Lui se ne sta a Seika, ma io potrei girare
tutto il Giappone». Stette in silenzio un po’. «Si può dire che il primo oggetto
sia stata proprio tu».
Meimi
arrossì. Ma poi capì di essere stata messa come prima di una lista che avrebbe
compreso assassini, pedofili, stupratori, rapitori seriali e sceneggiatori di
fiction Rai. Ma non fece in tempo ad arrabbiarsi.
«È
entrando nella tua testa che mi sono innamorato di te». Le lacrime scomparvero.
Qualche istante di pura estasi, senza un bacio, senza una carezza, senza un
gesto. Solo uno sguardo. Ma dal presente di estasi Meimi tornò al ricordo del
dolore passato. Vero dolore anche nel presente.
«Ma
perché vuoi passare la vita inseguendo dei mostri? Dopo quello che ti ha
fatto…» Meimi non era una profiler, ma Asuka lo leggeva come se fosse l’abc.
«Quella
notte sono sceso all’inferno. Ma poi sono risalito in paradiso. Se tu sarai con
me, per quanto potrò scendere in basso, avrò sempre qualcuno che mi tirerà su».
In effetti la frase se l’era preparata, da settimane, ma pianse lo stesso. Ma
erano poche lacrime miste a sorrisi. Non dissero altro. E Meimi si tuffò nel
cuore di quel suo ragazzo. E capiva che tutta la vita che gli restava di fronte
non sarebbe stata altro che un’ulteriore riedizione di quella lunga notte. Una
continua liturgia di dolore, di bassezza, di esemplari di umanità decaduta.
Sarebbe sceso come uno speleologo nelle cavità più oscure della mente e
dell’animo umano. Avrebbe cercato di dare un po’ di sollievo alle ferite per
curarle come poteva, e lo avrebbe fatto in virtù della sua ostinazione, e lo
avrebbe fatto con le sue cicatrici, e lo avrebbe fatto perché lei era con lui.
La frittata era fatta, per sempre. Ormai, nella sua testa di sedicenne, il
dolore più forte e la beatitudine più pura si erano mescolati insieme, come lo
Ying e Yang. Persino nell’arrestare il peggiore dei serial killer la sua mente
gli avrebbe ricordato che dall’altra parte del libro dei casi umani esisteva
pure il buono, il bello, il santo. E che una parte di quel buono, bello e santo
lo aspettava a casa, sempre con la sua treccia pettinata in quel certo modo lì,
quella insana passione per la tv spazzatura, la bravura nei trucchi magici e
quella cleptomania occasionale a fin di bene.
Meimi
lo abbracciò forte. Certo. Un 89enne rugoso e saggio come Yoda di Guerre
Stellari aveva fatto tornare a galla quel suo problema con Saint Tail. Che fare
di lei? Ma ora il mondo pareva un po’ più equilibrato. Ad interrompere
l’idillio non ci pensò né il valletto di prima né un rumoroso gruppo di ragazzi
italiani poco distante. Fu il cellulare della ragazza, che vibrò forte nella
sua borsetta.
«Scusami».
Lo aprì. Asuka notò che spalancò gli occhi vedendo il display. Poi, la ragazza
parve assumere una postura più dritta e compunta.
«Sì,
salve. Certo… Qui tutto bene», stava sull’attenti, «sì, la cerimonia è appena
finita. Sì, ha nominato anche lei, non ci potevo credere. Davvero. Ma».
Improvvisamente spalancò di nuovo gli occhi e fissò Asuka, quasi smarrita. Il
rossore delle lacrime lasciò spazio a un pallore inumano. «Come? Ma davvero?
Oggi. Ma… Sì. Certo, ma… Io non… Sì, sicuramete. Certamente. Subito? Va bene.
Certo. A dopo».
Meimi
fissò di nuovo Asuka, con una faccia che non le aveva mai visto fare.
Non
aveva bevuto un tè così cattivo in tutta la sua vita. E c’è da sottolineare che
aveva assaggiato quello della signora Otsune, la sua vicina di casa, dal
sinistro retrogusto metallico. Pareva lo diluisse con l’acquaragia, per via di
quella sua maledetta teiera di latta che l’idiota di suo marito aveva saldato
con qualche lega cancerogena vietata dalle associazioni industriali. Questo
però era davvero cattivo. Non c’erano retrogusti strani. Era proprio fatto
male. Le foglie – di bassissima qualità - erano state miscelate da qualcuno che
di tè non s’intendeva minimamente e infilate di cattiveria in bustine
terribili. Un’orribile sotto-marca dell’equosolidale che solo in un ambiente
come quello qualcuno poteva ostinarsi ad acquistare.
Erano
le tre del pomeriggio. Nello stanzone ad “elle”, ricavato chissà come e chissà
in che modo verso l’inizio degli anni ’90, aleggiava per aria un odore di brodo
stantio rimasto dall’ora di pranzo. Una signora con i capelli tinti e la
pettinatura impomatata, con un grembiule azzurro orrendamente macchiato,
passava una spugna su un tavolo in fondo alla sala. Alzò gli occhi verso la
giovane e verso chi era con lei, poi li riabbassò subito. In un angolo, da una
piccola teca refrigerata, facevano capolino delle bottigliette di acqua
minerale, qualche confezione di yogurt di quelli utili alla regolarità e alcuni
vassoi ricolmi di frutta.
L’uomo
seduto di fronte a lei la fissava sorridendo. A differenza della ragazza, lui
il tè non l’aveva ancora toccato. E forse non l’avrebbe mai fatto. Non era uno
sguardo particolarmente penetrante, il suo, uno di quei sguardi inquisitori
capaci di “far sputare il rospo” anche ai più renitenti. Eppure lei si sentiva
completamente nuda. Quegli occhi neri non avevano alcun bisogno di fare breccia
nell’animo della ragazza. E questo, molto semplicemente, perché non c’era più
alcuna difesa in lei.
«Non
ti piace il tè?».
«È
buono», mentì. Lui sorrise. L’esperienza gli faceva cogliere le bugie –
soprattutto quelle pietose – al volo.
«Allora
Meimi. Come sta il vescovo Hikamura?».
«Molto
bene». La ragazza ritrovò subito la parola, e un filo di discorso, al quale si
aggrappò come una naufraga a una cima: «Mi ha chiesto di salutarla e di
chiederle…».
«Ho
chiamato te – la interruppe sorridendo – perché mi interessa quello che fai.
Quello che hai fatto in questi anni e quello che è successo poco tempo fa».
Ogni
strategia di dialogo, pensata a tavolino con un frenetico Hikamura in una
costosissima telefonata intercontinentale, andò a farsi friggere.
«Mons.
Hikamura mi aveva chiesto…». Riprovò, ma si interruppe. L’altro sorrideva.
«Io…», riprovò.
«Il
vescovo Ibakari mi aveva parlato di te…», la incalzò. «… di come ti aveva
incoraggiato, all’inizio».
«All’inizio?».
Sobbalzò.
«Quattro
anni fa. Quando in un istituto cattolico della sua diocesi una ragazzina molto
capace si mise in testa di infrangere qualche regola di troppo – ammiccò – per
fare qualche piccola buona azione».
Alla
faccia della segretezza. Aveva già avuto qualche conferma qualche settimana
prima, ma la realtà è che tutta l’epopea di Saint Tail era “sotto controllo”.
Che qualcuno, dall’alto, vegliava e scrutava.
«Ibakari
– continuò lui – si confrontò con il mio predecessore – sobbalzò di nuovo Meimi
– e lui diede il suo avallo».
«Sapevate…»
osò.
«Sapeva.
Solo lui. Del resto con mons. Ibakari il rapporto era strettissimo. Aveva molto
da farsi perdonare».
«Come
scusi?», osò di nuovo.
«Rifiutare
la berretta da cardinale non è una colpa che qui ci si scorda molto
velocemente», disse con severità il signore vestito di bianco. Ma era una
severità bonacciona, che otteneva in chi lo guardava l’effetto contrario. Il
sorrisone che fece immediatamente dopo – uno dei suoi sorrisoni più tipici –
contribuì a sciogliere le ultime resistenze nella ragazza.
«Comunque,
tornando a noi… Il mio predecessore, e lo stesso Ibakari, mi hanno parlato di
te. Io mi sono rimesso alle decisioni già prese. Anch’io ho lasciato fare allo
Spirito».
«Lo
Spirito?». Domandò lei.
L’uomo
rimase in silenzio. La guardò gravemente e, dopo qualche interminabile istante,
le domandò: «Raccontami tutto». E quanto diceva tutto, probabilmente non intendeva
tutto. Ma qualcosa che vi si avvicinava parecchio.
Meimi
non osò frapporre scudi e – semplicemente, con serenità – lasciò che il ricordo
defluisse. Rivide quella ragazzina di 13 anni goffa e pasticciona,
completamente incapace di trattenere la rabbia data la sua impulsività. Rivide
il primo taglio di capelli della sua amica Seira, il viso rosso incandescente
quando le confidò di essersi innamorata di un tipo un po’ più vecchio di lei,
uno che c’era quando il tempo e lo spazio non erano ancora stati inventati, e
che con Lui voleva passare la vita insieme. Rivide la genesi di una sua
proiezione: una versione di sé stessa completamente priva di difetti, capace di
esibire tutte le sue doti nascoste senza timore di brutte figure o di
contravvenire l’immagine che gli altri ormai avevano di lei. Ma soprattutto, riprovò,
come se fosse la prima volta, quella rabbia tremenda che provava di fronte alle
piccole ingiustizie che avvenivano anche nella pacifica e ideale cittadina pulita
e ordinata di Seika. Ripensò alla prima volta che capì, lucidamente, con
estrema chiarezza, di avere il potere e la volontà di porvi rimedio. Rivide il
sorriso complice di Seira nel candore del suo abito di novizia, che dissolse in
lei ogni dubbio e la convinse a continuare quel suo progetto. Raccontò l’ansia
prima dell’impresa, l’adrenalina dei salti e della corsa, l’onda della
soddisfazione e il consecutivo senso di colpa.
L’uomo
vestito di bianco l’ascoltava rapito. Potevano essere passati cinque o
cinquanta minuti. Era lo stesso. «Stai sorridendo», le disse.
Meimi
si interruppe.
Era
vero.
Non
era stata una bellissima giornata. La cerimonia al Quirinale l’aveva
tramortita. Sentiva come se quelle mura, secoli e secoli di arte papalina,
savoiarda e democristiana pesassero sulla sua testa. Ma ora sorrideva.
«Saint
Tail ha fatto del bene», continuò, cercando di smorzare quel sorriso.
«Tu
hai fatto del bene».
Era
vero anche questo. Ma il problema era un altro.
«Ho
mentito a…».
«A?».
Sorrise il vecchio, che continuò: «Tutto si può risolvere». E sapeva benissimo
che quello scrupolo era già risolto o per lo meno era in avanzata fase di
risoluzione.
La
ragazza arrossì di nuovo.
«Rubare
è sbagliato», continuò ad accusarsi.
L’uomo
ammiccò: «Anche in questi casi?».
EMeimi
levò un forte sospiro. Il problema era davvero un altro. Legalità e giustizia
non erano necessariamente sinonimi. Anzi. Sebbene non l’avrebbe mai ammesso di
fronte ad anima viva, ogni volta che vedeva un prepotente corrotto e malfattore
soffrire per la perdita di un artefatto rubato a qualche poveretto privo di
mezzi, godeva come un riccio. Era di fronte al tipo di “questa economia uccide”.
Doveva inventarsi qualcosa di meglio. Capiva che ogni senso di colpa residuo era
legato a quel gioco di guardie e ladri con Asuka, che da solo poche settimane
si era più o meno risolto. Nonostante tutto, sapeva di avere ancora molto da
farsi perdonare.
«Saint
Tail è troppo grande per me. Io non sono così buona. Io non sono così capace»,
si sfogò, «cos’ho fatto fino ad oggi? Piccole cose. Poco rischio. Ci sono
colleghi di mio padre che sono morti provando trucchi più semplici in teatri
protetti». Non spiegò che suo padre era un mago, non spiegò di che trucchi
stesse parlando, diede tutto per scontato. E fece bene, perché l’uomo stava
ascoltando e dava l’aria di non essersi perso nessun passaggio logico. Anzi,
aveva sul suo comodino, ancora aperti e sparsi dovunque, i faldoni dei dossier
che la riguardavano.
«Sarei
potuta morire. Saremmo – si fermò un istante – potuti morire. Lo ripeto: Saint
Tail è troppo grande per me».
«Cara
Meimi», non ci fu neppure un attimo di silenzio, «pensaci davvero. Perché
esiste questa “Saint Tail”?». La giovane giapponese sospirò ma l’uomo continuò:
«Non stare troppo lì ferma… parla di getto…».
«Perché
così potevo fare quello che ho fatto». Rispose. L’uomo fece un gesto con la
mano quasi a dirle: “Riprova”.
«Per
farmi notare da lui…». Si incendiò in viso. «Anche», concesse il vecchio con
uno sguardo fugace, «ma non solo quello».
«Perché
volevo fare la maga come mio padre da sem…». «No», la interruppe sorridendo il
tipo vestito di bianco.
Un
momento di silenzio. E poi, non mascherò nulla. «Perché è giusto così».
Giusto.
Un termine diverso da giustizia. Radicalmente diverso. Giustizia è quell’ideale
altissimo, raffigurato nei tribunali come la tipa col naso greco bendata che
regge una bilancia. E che, oggettivamente, soppesa coi suoi due piatti ciò che è
giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male.
Giusto
è diverso. Giusto è ciò a cui tu devi obbedire, le regole a cui devi
sottostare, ciò che devi per forza fare perché la tua coscienza – se ce l’hai
ancora – non ti tenga sveglio la notte a roderti il fegato e a trivellare
ulcere nel tuo stomaco. Giusto è cento, mille volte peggio della giustizia.
Perché il “giusto” è di tua stretta e personale competenza. Di giustizia si può
parlare e ci si può vantare. Il “giusto”, avverbio, aggettivo o nome che sia,
può rovinarti i guanti nuovi e farti venire i calli alle mani. Talvolta,
persino, sporcarti di fango le scarpette nuove scamosciate e di sangue i tuoi
vestiti. Del tuo sangue.
«È
giusto». Ripetè il vecchio. «È giusto?». Ripetè di nuovo, con un’intonazione
leggermente interrogativa.
«È
giusto», continuò Meimi, «è giusto perché io devo farlo. Perché se c’è qualcosa
che so di poter fare, e quel qualcosa riguarda delle persone dal cui mio
intervento potrebbero ricevere un giovamento, grande e piccolo che sia, devo
farlo». Sorrise di nuovo. «Ho paura», le mani tremarono, «ho paura. Ancora di
più oggi, che l’asticella si è alzata. Voglio dire, prima rubavo quadri, ora ho
visto dei morti». Sulla parola “morti” la voce le mancò.
«Ma
ce l’hai fatta».
«No».
«Quella
medaglia direbbe il contrario». Tacque.
«Ho
paura di fare peggio. Io non so che debba fare Saint Tail». E quando disse quel
“non so” si accorse che tutto era così chiaro. Una luce enorme l’avrebbe
guidata. Ce l’aveva davanti. Lui l’avrebbe consigliata. Lui, di fronte a cui il
mondo si era fermato. Del resto, l’aveva chiamata lì per quello, no?
I
giornali, le televisioni, i preti, la gente su Facebook l’avevano dipinto come
l’uomo più santo del mondo. Ogni cosa che diceva era giusta, condivisibile,
quotata e trasformata in santini, in meme da condividere sui social media e in
frasi da mettere dentro i discorsi per ammantarli di un valore che magari non
avevano. Non doveva far altro che fare una domanda e come da un jukebox
perfetto sarebbe uscita la strada da seguire.
«Cosa
devo fare di Saint Tail?».
«A
me lo chiedi?». Disse lui, ridendo, e spalacando le braccia. Fu come se
qualcuno gli avesse rubato la sedia su cui si stava per poggiare, rovinando a
terra e spaccandosi la schiena.
«Scusi?».
Interiormente divampava, esteriormente intervenne per esprimere lo sconcerto
nella misura meno maleducata possibile.
«Io
non sono Saint Tail. Tu lo sei». Meimi continuava a non capire, e fece di tutto
perché il suo volto esprimesse lo smarrimento che attraversava.
«Pensaci
bene, ripeto. Pensaci bene. Una ragazzina… Brava... Ma una ragazzina, che si
inventa una cosa così bella».
«Bella?»
spalancò la bocca.
«Bellissima
– continuò – e che fa tutto questo… Cosa devo dire io a una persona così?».
Tacque due secondi. «Vedi, carissima Meimi, tu pensi che io sia qui a darti
delle risposte – fisse, leggendole nel pensiero – e invece sei tu che stai
dando delle risposte a me. Lo Spirito ha milioni di modi di agire, milioni di
modi di parlare, e nel mondo lo fa proprio animando capacità, inventive e
creatività come la tua». Spalancò le braccia, gesticolando, ma reclinò la
schiena sulla sedia quasi a distendersi. La voce scorreva più grave ma più
rilassata. «Africa, America, Asia… Ogni giorno sento di persone che aprono
scuole in posti in cui prima insegnare non si poteva, soprattutto alle ragazze.
Ragazze come te, Meimi. O di uomini coraggiosi che lottano contro le
ingiustizie, contro le fabbriche di povertà e di schiavitù che mettono in
discussione o travolgono persino i diritti più basiliari delle persone. C’è chi
combatte per togliere delle bambine dalle strade dove qualcuno le ha messe per
il mercato della prostituzione… Ho detto io a loro cosa dovevano fare?».
Meimi
spalancò gli occhi. Era ovvio che la risposta fosse no. «No».
«No.
E chi lo ha fatto?». Era una domanda. E non era una domanda retorica.
Meimi
non volle rispondere subito. Perché stava capendo, finalmente. Piano, con i
giusti tempi. Ma stava capendo. E alzò gli occhi di poco, quel tanto che
bastava per vedere da una finestra il riflesso di luce più alto del Cupolone.
«Già.
È Lui che anima le cose più belle di noi. Anche quando non ce ne accorgiamo.
Lui ci dà i mezzi per farlo».
«Dunque…
Io… Cosa…». Non voleva fare una domanda, ma riaggiustare i pensieri. Il vecchio
volle rispondere lo stesso. «Lo saprai tu. Ti sarà più chiaro».
Che
fare? Vestire di nuovo i panni di Saint Tail, ancora? Anche adesso, che la
posta in palio sarebbe stata ancora più grande? Chissà dove la sua coscienza
l’avrebbe condotta. I trucchi di cui disponeva erano mese dopo mese sempre più
potenti.
Un
giorno rubi gioielli per restituirli alla pensionata vicina di casa e il giorno
dopo chissà dove sei… A fermare rapinatori a Tokyo o liberare ostaggi di Boko
Haram in Nigeria.
Discrezione,
inventiva, silenziosità, adattabilità, intelligenza, astuzia, dotazioni
tecniche. Quanto aveva! Quanto avrebbe potuto imparare ancora! Le luci del
tramonto che filtravano dalle finestre sembravano avvolgerla di un alone caldo,
rosso come il fuoco. Si vide allo specchio. Nuda. No, non era smarrita. Non era
mai stata neppure sola, ma ora lo capiva con chiarezza. Era piena di risorse. Qualcuno
gliele aveva date. E sapeva che le avrebbe messe a disposizione di chi la sua
coscienza, di volta in volta, avrebbe deciso.
Non
aveva ottenuto uno straccio di risposta. Non aveva ancora uno straccio di
piano. Era tutto pericolosamente campato in aria, tutto provvisorio, tutto
precario. Non vide nemmeno che strada avrebbe dovuto percorrere. Sapeva però
con certezza che questa strada c’era. Lei doveva solo camminare. Stava già
camminando. L’uomo vestito di bianco si era solo limitato a riempirle la
borraccia in una delle tante pause ristoratrici lungo il percorso.
«Meimi».
Si alzò. La raggiunse. L’abbracciò e le prese le mani. «Grazie!».
Ora
era troppo. Troppo davvero. Ma comprese – con un brivido – che il vecchio non
la stava ringraziando per quello che aveva fatto (a parte il venerdì sera di
Seika, era davvero poca roba, finora), ma per quello che avrebbe fatto in
futuro. Ora accettò sorridendo anche la durissima investitura ricevuta quella
mattina.
«Restiamo
in contatto. Il tuo numero ce l’ho», sorrise.
Meimi
non disse nulla, ma sorrise. Sorrise sfoderando il suo sorriso più bello, e già
che c’era lasciò uscire dai suoi occhi qualche lacrima. Ed erano dolcissime
lacrime di gioia. Avrebbe scalato ogni montagna.
«So
che resterai qui in Italia…»
«Ancora
quindici giorni», disse lei.
«Prima
di ripartire torna a salutarmi… con lui». E sorrise. «Così lo saluto», rise.
Arrossì,
ma non fu un bell’arrossire, di quello che gli esperti delle rotture
controllate dei capillari metterebbero in vetrina all’esposizione universale. Ora
era forte. Un ultimo abbraccio e si diresse, dopo preghiere, saluti e sorrisi
all’esterno.
Diligenti
guardie svizzere si posero sull’attenti. Imboccò l’uscita, verso San Pietro,
passando in mezzo a qualche vescovo indaffarato e a qualche signore distinto
che portava borse gonfie di carte e documenti. Erano meravigliosi, tutti.
Superò l’ultimo sbarramento e fu di nuovo in piazza San Pietro. Pareva l’intera
scenografia messa in piedi dal Bernini le stesse sorridendo. Che fosse stata costruita
perché quel giorno lei l’attraversasse. A sinistra gli scalini per entrare in
Basilica. A destra le poste Vaticane, le toilette, l’entrata per una mostra.
Le
pareva di essere più leggera di milioni di tonnellate. O più giovane di diverse
decine di anni. Quella luce rosso fuoco l’avrebbe guidata. Ora non doveva far
altro che godersi questa “Luna di miele”. Poi, “qualche santo sarebbe stato”. E
lì i Santi abbondavano. A partire da Saint Tail. O Saint Meimi. Ormai non era
più una doppia identità. Era lei. Ma troncò ogni ragionamento, per quanto
risolutivo e felice sul nascere, perché adesso voleva solo vedere lui.
Si
erano dati appuntamento alla fine del colonnato a destra, quasi all’inizio di
Via della Conciliazione. Era lì, in piedi, poggiato sulla stampella, che la
stava aspettando. Sakura non c’era. Spalancò gli occhi e sorrise.
«Ciao!
Eccoti qui! Hai fatto presto, alla fine».
«Già»,
lo guardò lei, con il suo viso arrossato dopo tanti saliscendi di quella
giornata. «Sai, lui ti vuole vedere, tra quindici giorni».
«Ah
sì», disse, lui. Ma pareva non interessarsene. Ed era stranissimo, perché pure
Obama o l’imperatore si sarebbero sciolti di fronte a una notizia così come una
ragazzina scema di fronte all’idolo di turno. Asuka aveva infilato una mano
nella tasca della giacca e iniziò ad armeggiarci con nervosismo.
«Che
c’è?». Domandò lei, incuriosita.
«Penso
di avere fatto una cavolata». Guardava verso l’alto, come se tutto d’un tratto
la scena non lo riguardasse più. «Ma sai, ti ho vista così preoccupata e triste
oggi e io…», balbetto, «prometti di non arrabbiarti, io ti prometto che non
farò più pazzie come questa, nella vita. Mai più. Non preoccuparti».
Dire
“non preoccuparti” a una ragazza è come indossare del filetto di maiale,
entrare nella gabbia di un leone a digiuno da tre giorni e dirgli “non
mangiarmi”. Meimi inarcò appena appena le sopracciglia. Dopo la chiacchierata
con il tipo vestito di bianco i suoi standard di tolleranza si erano alzati di
chilometri. Almeno per quel giorno. Solo per quel giorno.
Asuka
continuò a ravanare dentro la tasca della giacca e finalmente se uscì con una
scatoletta nera piccola piccola. «È… è… è per te!», balbettò.
Meimi
si avvicinò di qualche centimetro, prese la scatoletta e l’apri.
Credette
di svenire. All’interno c’era un anello d’oro lucente dal quale faceva
capolino, bello ma composto, il risultato di un lungo e potente fenomeno
naturale che trasforma del carbonio, grazie alla compressione, in ciò che i
comuni mortali chiamano diamante, materia che le persone decenti usano nel
campo dell’industria per tagliare marmi nelle cave o smergliare alla perfezione
anche i composti più duri e che gli smielati di ogni dove incastonano nei
ninnoli per impressionare qualche esemplare di Homo Sapiens di sesso femminile.
Meimi
sobbalzò. Asuka non si era inginocchiato, non aveva detto frasi pompose, non
aveva fatto nulla, se non guardare verso il cielo provando disperatamente ad
occultare le tonnellate di imbarazzo che provava.
Ma
il messaggio era chiarissimo. In gergo si chiama “proposta di fidanzamento
ufficiale”, che equivale nell’essere umano allo scrollìo violento della canna
da pesca quando il pesce è spacciato.
Meimi
sobbalzò di nuovo, per un’altra ragione. Chissà quanto era costato… Era solo
uno studente, non aveva uno stipendio… “Sicuramente questo stupido avrà dato
fondo ai soldi che gli avevano dato per sistemarsi il ginocchio in una
struttura privata”.
Asuka
però riabbassò lo sguardo, e sorrise.
«Spero
che comunque ti piaccia».
«È
davvero magnifico». Sorrise anche lei. «Però forse…».
«Ci
tenevo che tu lo avessi».
La
luce rossa del tramonto ora li avvolgeva ancora di più. Era un alone, una
carezza, una Presenza. Fosse caduto in quel momento su di loro, e su quella
città avvolta da mafie, pellegrini, squadre di calcio, politici, bambini, code
alla vaccinara e Claudio Lotito, un asteroide gigantesco, distruggendo tutto e tutti e non lasciando
atomo su atomo, quella luce sarebbe rimasta. Quei sorrisi sarebbero rimasti. E
pure quella promessa di eternità… quell’eternità stessa rappresentata da quel
diamante costato un ginocchio sarebbe rimasta. Per sempre.
Segnali.
La chiacchierata prima, quel gesto poi. Segnali evidenti di un disegno sulle
cui sfumature Meimi si volle cullare.
«Sarà
qui», osò dire Meimi. «Voglio che sia qui, quando accadrà». E guardò verso
l’obelisco, il colonnato, San Pietro, quella chiesa dove da qualche millennio
la cristianità e l’eternità stessa avevano sede legale sulla Terra, in via Sistema
Solare numero 3, comune della Via Lattea.
Asuka,
con volto estatico, convenne sulla location, e provò pure ad azzardare una
data. Nelle precarie condizioni in cui si trovava fu pure piuttosto preciso:
«Prima o poi lo sarà».
Capitolo 61 *** Il lieto fine per una merdaccia ***
61 Il lieto fine per una merdaccia
Nell’atollo
corallino sperduto in mezzo ai Caraibi un uomo con i capelli bianchi giaceva
inerme su un enorme sdraio, circondato da quattro baldraccone mulatte da fiera
agricola. Non si muoveva, guardava dritto davanti a sé. Respirava a malapena
dal fondo di una sguaiata camica hawaiana.
«Capo?».
Gli si avvicinò con in mano un mojito un uomo con i lineamenti orientali, una
sgargiante pettinatura bionda, occhiali da sole da 10 mila dollari e un odore
corporeo da fossa comune. «Vuoi un mojito?».
«C-c-c-cos’è
un mojito?». Domandò arrendevole il signore brizzolato, mentre la mulattona col
davanzale più grosso gli massaggiava le spalle. Pareva non gradire. Tremava
come se gli stessero facendo del male.
«Ah
Ah», rise il punkettone nipponico. «Ma almeno lo puoi cacciare il francese
dalla spiaggia?».
«Fra-fra-francese?».
«Sì,
capo, te l’ho già detto. Quel francese vestito da becchino, quello che se non
ti tratto bene finché ti riprendi mi dovrebbe in teoria sparare?». Disse
annoiato lo yakuza.
«Eh?».
«Niente.
Stai ancora rincoglionito». Sorrise. «Stai lì capo. Goditi il sole». Si
avvicinò verso di lui, e verso le mulattone dai seni giganteschi. «Juanita!».
La Venere nera che stava massaggiando l’uomo sullo sdraio si volse verso il
giapponese: «Sì?». «Andiamo a farci un giretto… Se capisci che intendo». La
bocca di rosa locale rise sguaiatamente, mentre il mafiosetto nipponico le
arpionava le natiche con le sue manacce. Le altre tre lo seguirono.
Giandomenico
Fracchia rimase così da solo, a contemplare il sole che scendeva. Pareva si
tuffasse nel mare come il suo amico Kenzo si stava tuffando a pochi metri di
distanza, fisicamente, dentro Juanita e le altre.
Il
gangster francese vigilava su di lui da distante, pensando, come tutti, che
quell’ameba spiaggiata e imbelle, incapace di proferire parola, fosse la Belva
in letargo, pronta a svegliarsi da un momento all’altro per riconquistare con i
suoi artigli quel mondo che era suo. Il conterraneo di Zidane scorgeva nei lineamenti
del possessore della camicia hawaiana una fierezza sopita ma presente, per la
quale, lui, che aveva ammazzato solo quindici uomini in tutta la sua vita,
provava un pizzico di invidia.
Il
sole scendeva, ed era bellissimo. Fracchia rimase lì. Non parlò, non fiatò, non
si mosse. Lasciò che il sole facesse il suo lavoro e lo scaldasse a dovere.
Perché anche per le merdacce, a volte, i salmi finiscono in gloria.
-
Ora è la fine.
Ringrazio chi mi ha accompagnato in
quest’avventura di due anni e mezzo (iniziata ormai dodici anni fa), che ora
volge al termine, in particolare Cinzia, la vera “madrina” di Meimi e Asuka.
Quest’avventura mi ha cambiato, in
tutto, ed è stata una modalità meravigliosa per mettere in chiaro alcune
ideuzze che ho sull’amore, sulla missione, sul rapporto coi “piani alti” del
pianerottolo della Trascendenza.
Un grazie a voi che avete letto fino
a qui. E non smettiamo di sognare. Mai. Perché allora vorrà dire che la fine,
quella vera, sarà già arrivata.