Tempo Antico

di Blacket
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo nono ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Tempo antico cap 1
Note utili: non volevo iniziare con le note, mi spiace spaventarvi. Sarò più breve possibile, concisa e quel che occorre.
Essendo un AU dove compaiono gli Ancients, spesso dovrò creare la personalità ed informazioni che l'autore stesso non ha mai precisato, o trascurato. Compare immediatamente Diederik, ossia scandinavia, che ho scelto essere fratello di Magna Germania.
Cercherò di essere il più possibile precisa nei legami storici, anche se in un contesto simile è -se non difficile-, impossibile. Se avete correzioni o consigli di qualunque tipo, fatemi sapere!
Note poco utili: si tratta di una fic particolare- non essendo più attiva nel fandom, l'avevo accantonata con dispiacere, ed oggi l'ho ripresa (forse con coraggio, chi tratta ancora degli antichi?)- nonostante gli impegni vari ho già preparato la prima parte della storia, che irrimediabilmente subirà cambiamenti, tant'è.
Spero di poter vedere nuove persone appassionarsi a questi personaggi, che tanto mi stanno a cuore.
Personaggi: Lucio Cincinnato (Antica Roma), Ariovisto Beilschmidt (Germania Magna, il nome suona particolarmente male, è voluto), Diederick Beilschmidt (Scandinavia).


Tempo antico
-capitolo primo-












“All’inizio di una vita ben spesa, Io fui empio, intento a disfare strade percorse da altri e rifarne di mie, e volendole rendere praticabili ho rotto i miei piedi e spezzato le mie gambe, avendo come spettatore il cielo.
Grigio, un uragano, sorrideva verso me.”


La Torino del 1755 porta nell’aria il nuovo ed il ferro; si fa grande pian piano sotto la sicura dei Savoia, che voglion là le reali presenze, per poi goderne.
Ora che la città alza fiera i fumi del proprio lavoro, la mattina si ferma per poco a sospirare d’impazienza: era il diciotto ottobre, e l’aria pallida tremolava e fremeva attorno ai movimenti sicuri della Torino operaia.
Ariovisto ne annusò l’odore umido e bagnato, e gli ricordò casa.
Cercò, forse illudendosi speranzoso, il muschio scuro degli abeti e la chioma bruna dei pini, il cinguettio lontano dei passeri migranti- trovando solo il ciottolato composto e dei guardinghi pennacchi sulle case più alte.
Impiegò un respiro profondo, quel giovane tedesco, per dissimulare lo stupore e la rabbia ribelle che pungeva le gote, e gli occhi verdi e diffidenti. Questi ultimi, selvaggi, erano divenuti il metodo di comunicazione più efficace in suo uso; puntandoli poi sull’Accademia, si intese la vicendevole repulsione.
Ne osservò curioso la squadratura, la componente di più stabili, e la studiò da lontano come un nemico non voluto, seguendo ad ammirare e detestare la salda figura dell’edificio.
-Non averla così in odio, Ariovisto.-
Il giovane osservò muto il fratello, e la divisa blu che corredava il suo disgusto. Infine rifiutò di vederne lo sguardo buono, ed i capelli legati secondo etichetta.
Diederik era un candido punto bianco fra vie fuligginose e sguardi indiscreti, portava con eccessiva baldanza lo stereotipo base del grande uomo del nord, e sul volto marcato aveva incise le tracce delle sue origini. Le adornava con discreta nostalgia.
La visibile differenza fra i due, per l’appunto, sedeva nell’immagine data di sé e di quella che si rifletteva nei loro occhi chiari- le avrebbero chiamate opinioni, se non fossero stati entrambi così bramosi di scovare novità nel paesaggio, come fa in eugual modo la bestia ferita e tolta dal loco natio.
Se il più grande dei due si adattava ammorbidito dall’esigenza, Ariovisto in cuor suo ancora scalciava urlante, preso nel suo odio verso Torino, e grato di aver ricordi buoni e profumati su cui rimuginare.
-Se non vuoi che ti dia il suo calore, almeno lascia che ti regali un riparo e del cibo. -
Ora Ariovisto sente gli abiti stretti ed il cuore borbottante, è estraneo agli altri e a se stesso- non vi è nulla che lo accolga dopo un viaggio disturbante quanto terribilmente sofferto.
Ha occhi solo per i sapori lontani delle sue terre, e nella sua ignoranza ne trova alcuni nella voce del fratello.

L’accademia militare di Torino, nell’anno corrente, rappresenta l’avanguardia dell’insegnamento- modestamente cosmopolita, d’ampia veduta illuminista, economicamente sorridente, in quanto si dava diritto del vanto di poter ospitare giovani allievi aristocratici e borghesi di paesi differenti.
Orgoglio!, sentimento così ben suddiviso fra studenti e militari, volti inconsciamente o meno verso il progresso, troneggiante nella Guardia reale e l’esercito studente, capace di un caloroso benvenuto alle reclute volontarie.
“Il militare è ora felicemente in ginocchio verso la sua fazione, e nel caso di fortuna avversa se ne aggrapperà con forza, trovando in lei buone parole.”

L’Accademia urlava in faccia la propria rilevanza, e non fossero le mura stesse ad esser austere e fredde, Ariovisto le avrebbe sentite bisbigliare curiose ai suoi lati, fra le divise e i tomi di sapere, riecheggianti sulle alte volte. Vide poi i volti curiosi dei giovani pronti a far carriera, che veloci scivolano fuori dalla loro adolescenza; eppur trovano tempo di lanciare un occhio veloce all’entrata, poiché dei probabili figli d’Asburgo varcavano la soglia di un posto che semplicemente non era loro.
L’ambiente li rifiutò con fretta, cercando di marcare il contrasto delle loro spoglie bianche e selvagge.
Non aspettandosi altro che il delinearsi di una mancanza profonda, Ariovisto prese di nuovo aria, e sperò fosse fredda, poiché poteva saggiarne di uguale al nord- e giusto la presenza di lei, “dolce”, pensò, fu per lui una mera consolazione.
-Ti diranno come e dove lavorare, dove alloggiare…- preoccupazione istintiva del fratello maggiore, che lo portò a stringere con vigore la spalla del suo familiare, nascosta da un vestiario troppo sobrio e semplice, troppo sporco per l’élite. –Parla, Ariovisto.-
Sorrise poi perché in colpa, perché timoroso di dimenticare il volto di un passato più roseo a cui aveva voltato le spalle da tempo.
Il più giovane era sempre stato malinconico e curioso, e pure saltando a piè pari l’adolescenza si trascinava cocciuto la sua frustrazione.
-Non ho niente da dire.- fu semplice, quanto i suoi più fervidi desideri ed il suo essere. Nella sua gioventù, non conosceva altra complessità che quella del suo pensiero.
Vi fu una seconda pacca vigorosa sulle spalle ed un saluto poco formale- lì Ariovisto riconobbe suo fratello, nella camminata sicura e le falcate grandi, ed il curarsi di lui con un sorriso ed un drastico abbandono; osservò più arrabbiato il corridoio ampio, perso.
Si rivide nel quindicenne inesperto quale era, che ignorava sia francese che italiano piemontese, su di lui sguardi ed occhi compassionevoli, sconosciuti ed estranei capaci di vedere il mondo un gradino sopra rispetto a lui.
 Studiò la costruzione con cura, la serie di vetrate in rigida fila, il pavimento liscio e ben levigato, la dispersione dovuta a quell’esagerata e voluta grandezza; e d’improvviso la solitudine gli pesò meno, poiché altro aveva da pensare.
Il suo senso felino si acuì, ed il respiro si fece leggero, gli occhi grandi e l’udito teso ad un equilibro più precario. Si sentiva osservato, e gli occhi che indecentemente lo tastavano nascondevano un’anima feroce.
Voltandosi vide la sua preoccupazione, che crebbe e si assestò poi sul suo orgoglio, impietrita.

Rompendo la monotonia del chiacchiericcio provinciale, un ragazzo bruno si fece avanti- nella sua acuta provocazione, i suoi gesti ed il suo fare chiedevano luce ed attenzioni. Era sicurezza e genuina gloria quella di cui si vestiva, e nel suo passo fluido si ricalcava il superiore condottiero.
Fu vicino ad Ariovisto, ed il suo fiato sapeva d’oro.
-Visto da lontano, somigliavi ad una donna.- scherno, mostrò i denti felini con un sorriso accomodante, lo scrutò da sotto i ricci scuri- mostrandosi poi incredibilmente padrone delle proprie parole, sfiorò incauto i suoi capelli biondi.
Parlò ed Ariovisto non capì, l’accento particolare lo confuse, le parole ignote lo intimorirono; il suo sguardo rimase vigile su quel particolare ragazzo, sugli occhi voraci e la barba appena accennata.
-Barbaro.- un sospiro da parte dello sconosciuto, un’altra parola vuota per Ariovisto. Gli occhi scuri scivolarono intraprendenti sulla sua figura, ed il tedesco si sentì abbracciato da un’attenzione spinosa e scomoda, punto poi dalla ridente superiorità dell’altro.
Cercò di scostarsi, diffidente, quando di nuovo sentì il tono pretenzioso del riccioluto conquistatore.
Il tedesco era così giovane e poco istruito al pensiero astratto, che ancora non era in grado di analizzare l’effetto bruciante che quello sconosciuto dedicava agli altri, ed il suo rimuginare si traduceva solo in confusione.
-Se parlo tedesco, mi capisci? È questa la tua lingua?- sorrise ora, quasi intenerito; e per Ariovisto fu solo una vergogna montante, devastata nel colorito del viso, non pudico ma rabbioso.
-Adoro gli animali esotici.-
La risa ironica non scomparve, ed il ribollire nei suoi occhi divenne lacerante, insostenibile per un’indole tanto impulsiva e orgogliosa come quella di Ariovisto- che avrebbe voluto scorgere la bruma mattutina, le fronde cariche d’acqua e la natura prepotente, il cielo plumbeo e turbolento, il calore del focolare di casa.
I suoi occhi reclamavano il verde vivo delle colline, chiedevano delle case profumate e dei fiori e delle poche parole pronunciate, dato che a lui non ne sono mai servite molte.
Fu per questo, che caricò il pugno destro e lo colpì.














Note volanti:
Grazie! Grazie lettore, che con pazienza e forse curiosità sei arrivato al fondo.
Chiunque abbia idee, correzioni, probabili aggiunte (perchè no?) e consigli, non esiti a farmelo sapere lasciando un commento o una breve opinione.
Buone cose, un abbraccio!

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


tempo antico due questo Note: in questo capitolo introdurrò un personaggio particolare, parecchio difficile da trattare.
Rappresenta il popolo celta, ed è stato magnificamente creato da Kochei, che grazie alla sua arte e al suo talento, quanto la sua precisione, mi ha concesso di usarlo per questa storia. Potete trovarlo su ask-the-celts, soprannominato come papa Celt (è, tra l'altro, un ask blog divertente e dinamico, lo consiglio!).








Vi era un sentore dolce di zuccheri, un amaro mascherato dalla chimica più nuova- fastidioso ed acuto, tappava le narici e indolenziva gli umori.
Esso, prepotente, copriva l’umidità nascosta sugli alti soffitti, che pacata rimirava uno dei suoi figli accucciato e guardingo ed intimorito, livido nella sua folle anima quanto sul volto pallido.
Ariovisto teneva le mani strette e convulse, il viso stropicciato nel suo ribelle essere e nella bruciante sconfitta- giovane come lui, fiammeggiava indomita.
-Sei un cretino.- la pronuncia impura e sibilante, nuova derisione unita ad una sana curiosità, fastidiosa quanto bastava per non darle adito.
Il rosso, quel leone, lo affiancava iroso per i fatti suoi, spesso in movimento, inacidito ma compiaciuto dell’avvilente stupidità del tedesco; alzare le mani su uno studente dell’accademia militare! Sfidare rabbiosi un più che benestante dalle larghe vedute, dal potere di interessante portata.
-Si chiama Lucio, ricordati il suo nom-..- e rise di nuovo, disturbante, scuotendo la chioma rossa e folta e ribelle, sbarazzina e acuta come il suo animo.
Il suono strideva minaccioso, ed Ariovisto potè solo volgere uno sguardo eloquente alla rubiconda figura rossa di quel ragazzo che in poche parole avrebbe dovuto spiegare le sue mansioni- ed erano così simili, sotto gli sguardi beccati e la pelle e le ossa.
Vi era in lui l’essenza concentrata di isolamento e rabbia, tanto forte e odorosa da farla percepire ad Ariovisto, altro malato del vizio chiamato orgoglio. S’insinuava serpentino fra le fessure della loro corazza, e sibilante annunciava il proprio cammino- così possessiva e sicura, l’indole selvatica di entrambi chiama la terra lontana, ne ulula il nome piangendo di quei capelli e tratti diversi che l’ambiente par rigettare.
Il biondo lo aveva percepito nel passo pesante ed il borbottio di fondo, l’etichetta che solo le umili genti portavano, forse pregne d’ignoranza- si era presentato con il ghigno di una volpe, e rosso e bruno era entrato nella stanza facendo vacillare la sua solitudine vaneggiando di come e perché  “hai tentato di dare un pugno a Lucio, a quel bastardo!”.
Ignorando il compagno, Ariovisto tastò grave la luminosità scarsa della stanza, così fioca e breve, così veloce e fallacea; la candela che aveva a disposizione era un moccio consumato, e la fiammella rimaneva accucciata innanzi alle finestre e scoppiettava sull’occhio nero del ragazzo- sciocco, credere che quel lupo, quel Lucio, non avrebbe risposto alla sua provocazione- e fu un bene preoccuparsi del male e della sua vergogna, della sua becera stanza e dell’umido forte, degli occhi fugaci di quell’italiano riccioluto, poiché al loro posto vi sarebbe stata l’immagine sorridente della sua casa in territorio Austriaco, il grembo materno ed il dover lavorare a schiena curva fra borghesi e militanti.
Tastò insicuro la pelle molle e dolorante dell’occhio destro, si morse le labbra subito dopo.
-Bionda, capisci il mio tedesco?- serio, Connell, come disse di chiamarsi, volse lo sguardo ad Ariovisto; e non vi erano lampi iracondi o meschini, quale semplice e devastante normalità.
-Mi irriti.- ed ora il giovane biondo, sebbene nel suo fastidio, mostrò coinvolgimento che in effetti piacque all’altro, che sottolineò becero il “bionda”, prima di lasciargli una risata sommessa. Accennando poi ad andarsene, si alzò malamente, trascinando un fisico fin troppo alto e dal portamento contadino.
Tutto in lui era riflesso d’una natura indomita: portò fugace una mano ai pantaloni, alleviando fastidiosi pruriti e abbattendo feroce il termine di grazia, cercando un varco per uscire dalla stanza scura.
Ed il buio, tanto suadente, sussurrava rimorsi all’udito teso di Ariovisto, di nuovo malandato e goffo nella sua inadeguatezza.
Respirò per la prima volta sul guardo alto delle stelle, e la loro piccola luce intermittente- ora il volto rilassato, gli occhi stanchi nella scura immensità del vuoto, coscienti di aver cambiato vita ma non cielo.

L’accademia si svegliò su giri di valzer, vorticosi e letali nel saluto dei cadetti, brulicante d’aspettativa fra le menti acute di futuri intellettuali; dirigente, l’austero edificio si sottoponeva al principio di massima economia, quale il controllo delle attività, compartimentazione e collocamento- rigido nei costumi, pretendeva la presenza di buonsenso e dovere, intenta com’è a farsi vanto di lei stessa.
Saluta il sole in anticipo, nella pallida bruma d’un autunno malato- danza il velo di nebbia basso a terra, le divise blu ed i gesti indaffarati di chi s’è alzato presto, tanto da poter salutare con riguardo la luna.
Ariovisto stesso le fece cenno, impastato dal sonno e dall’inevitabile dolore al volto, iniettato di stanchezza, ammaccato, seguì il suo spaesamento sul pavimento liscio dei corridoi, legato ora ai suoi doveri.

S’intese presto- menagramo a chi disse il contrario- che Lucio non mosse dito o parola per aggravare la condizione del tedesco; lasciò cadere il fattaccio e non si prodigò per raccoglierlo, peggio ancora per l’orgoglio smisurato di Ariovisto, ora a testa china e traboccante di repulsione.
L’italiano giocava con carte diverse dalle sue, e parevano assai più complete e complesse, preparate ad essere utilizzate per gonfiarsi di vittorie fisiche e mentali. Lucio era un lupo, ed era più furbo di lui.
Null’altro che la solitudine, per il biondo, fu rasserenante quanto un medicinale. Ringraziò d’aver avuto un compito facile, e la mente guizzava dispettosa sia alla voce secca di Connell  “Archivia le armi bianche, biondina!” ed il fratello.
Per quanto infantile, Ariovisto sperò nella totale ignoranza di Diederik sull’accaduto, e forse di vederne la figura; non per consolarsi, quanto averla vicina.
Il giovane aveva sempre avuto una mente sensibile e felina, incontrollabile a differenza del fisico già stranamente maturo per un quindicenne, confusionaria e audace. Il pensiero si articola in più rami, e questi diventano folti e scuri, per quanto spinosi e carichi di rovi s’intrecciano, e fan fiorire preoccupazione.
Ariovisto li analizza e scruta, e non fa che paragonarli alla pianta complessa dei primi piani dell’Accademia, sì bella e pulita, quanto persa e grande.
Il salone da scherma occupava uno spazio ovale e caloroso, chiuso quanto ampio; lasciava trapassare la luce livida da piccole arcate e sapeva di polvere. Questa defluiva in spirali veloci, fendendosi attorno ai gesti rapidi degli allievi, ora spadaccini.
Portavano l’abito bianco del mestiere muovendosi secondo tecnica- eppure, curiosi, si affollavano nei dintorni di una figura particolare, che pareva dar prova della sua particolare bravura.
Il lupo non arricciava il pelo furente, piuttosto serbava controllo e forza, per poi agire guidato da istinto e acume; la marcia perfetta di una bestia letale, indomita e padrona.
Ariovisto osservò i suoi muscoli guizzare all’improvviso, ed essere precisi e delineati. Guardò con un tuffo al cuore –furioso!- il fisico prestante allungarsi e schivare e muovere passi contati, sino alla vittoria.
Lucio accoglieva sornione sia applausi che invidia, divertito dalla sua bravura.
Ed Ariovisto ora era al lato della sala in compagnia di una morsa furiosa allo stomaco, un digrignare seccato dei denti, un pulsare frenetico del suo occhio malandato.
Il fastidio di aver un tale personaggio lì innanzi ad acclamare gli applausi, quando lui doveva pulire ed accatastare spade e fioretti- un divario abissale fra alta borghesia ed umile persona, ingiusto quanto sofferente.
Il biondo fece scivolare un panno sull’elsa dell’arma più vicina, temerariamente concentrandosi su di lei e la sua linea.
-Tu, Barbaro!- la voce sonora e forte di Lucio implose, s’adornò di malizia e superiorità –Ti ho fatto troppo male ieri?- iniziò ad avvicinarsi a grandi falcate, di nuovo gli occhi scuri divennero un pozzo fondo e pieno della sua personalità. Luccicarono curiosi sulla figura del tedesco, accoppiati ad un’espressione ora torva e lunatica.
Ariovisto divenne rigido ed il cuore impazzì di conseguenza, allarmato dal pericolo ed animato dall’onta subita precedentemente. Incontrò il suo sguardo con coraggio, sapendo di non possedere null’altro di più eloquente che le iridi chiare, innaturalmente mutevoli.
-Sei stato stupido a volermi colpire, ieri.-
L’italiano sorrise ora, buono, accompagnando nel suo gesto anche i ricci scuri- e tutto in lui era un movimento armonioso ma ridondante. Lucio era padrone e soldato di una terra sconosciuta e lontana, calda e vivace e la teneva stretta a sé e cucita sottopelle come uno dei ricordi più cari.
-Io ho il dovere di farti capire quanto pericoloso tu possa essere.- mosse nuovamente il corpo verso di lui, intrappolato nella divisa, ed Ariovisto l’osservò con titubante pazienza. Ogni cosa dell’italiano era diversa e affascinante, perciò la detestava.
Il lupo concluse la sua recita indicando serio la spada che Ariovisto teneva stretta in pugno, chiamandolo guerriero, sfidandolo, facendo scivolare sulla sua lingua il tedesco con una terribile morbidezza.
-Ti sfido! Afferra la spada, sei hai coraggio!-

Il più giovane lo vide posizionarsi deciso, forte e calcolatore, e fece lo stesso di rimando. Gli aveva appena offerto una trappola, puntando dritto sul suo sentimento ferito, perché se Lucio era addestrato e talentuoso, Ariovisto ricordava l’istinto grezzo: l’uno adornato da divisa, l’altro da stracci; l’uno sorrideva sbieco, l’altro mostrava prorompente uno sguardo selvatico.
Senza un vero e proprio maestro a sorvegliare la sfida ma con occhi curiosi di pettegoli astanti, il tedesco afferrò stretto l’elsa ruvida, ad una maniera tale che Lucio rise per la sua stranezza.
Respirarono l’aria legnosa e ferrigna, prima di liberare la mente e muovere entrambi il primo passo.
Il primo di quei borghesotti intenti a parlare sommessi, non si stupì nel constatare che il bruno parava con disinvoltura gli attacchi ricevuti, mentre il secondo, non più sveglio del primo, seguiva interessato la figura del biondo sconosciuto, che ancora non era stato sconfitto.
Si agitavano in una sfida che pian piano diveniva sentita ed ansante, cambiando piedi e posizione, negli umori fragorosi che agitavano i due ragazzi.
Lucio si confermava un canide dal pelo irsuto e dal pensiero profondo- poiché Ariovisto ancora non aveva decifrato la sua decisione, non ne aveva tempo, e non aveva scorto il genunino interesse che lo aveva portato a voler dichiarare controllo su di lui, per quanto ambiguo.
L’italiano, quel gran filosofo, nel suo straparlare teneva in considerazione l’ambiente di cui era circondato, e non era intenzionato a convivere con pericoli quali un biondo giovane e rabbioso e violento, dagli occhi smeraldini e lo sguardo triste.
Continuarono quella danza sudata ed aggressiva per poco tempo, si presero tempo per conoscersi in un modo anticonvenzionale e fraintendibile; ciò prima del veloce scarto destro di Lucio, della mancina immobile e la sua lama puntata alla gola di un barbaro caduto a terra, ansante e nuovamente sconfitto.
Ariovisto tremò di nuovo, iracondo, osservando lo sguardo schifosamente benevolo dell’avversario, e percepì gli applausi di poi come sberle.
La sua netta inferiorità lo incupiva, la sua incapacità intaccava un umore che riusciva a controllare pian piano- e sperò fortemente di affinare col tempo quella sua tecnica.
Eppure aveva innanzi un ragazzo dai particolari pensieri, ed ora dalla fronte sudata, che si affrettò a smorzare la reazione della piccola folla, cacciandola con un gesto di cortesia.
- Sei stato bravo.-
Tese poi la mano, con l’intenzione di offrire aiuto- regalo che Ariovisto rifiutò, ignorandola ed alzandosi, paonazzo per la fatica e l’indignazione, eppure serissimo. Odiava mostrare una simile debolezza, e tentò, scostando lo sguardo, di camuffarla.
- Mi piaci, sei interessante.- Lucio figurò mollemente un sorriso, pungendo l’occhio già livido dell’altro con il suo sguardo felino. Ed Ariovisto, a quel tragico e terribile punto, non riuscì a reggere più la sua presenza, ed irritato, frustrato, calpestato come lui pensava d’essere cercò l’uscita, non riuscendo però ad evitare l’insistenza incredibilmente benigna del romano.
-E qual è il tuo nome?- si fece silenzio, in un trepidante attendere; una scena tanto banale quanto stupida, che pure tale, diverrà un germoglio sano ed incredibilmente potente dei loro ricordi.
-Ariovisto.-
Il biondo non si voltò, eppur ricevette, suo malgrado, un’ultima stoccata, una risata piena ora confusa dalla polvere e dalla luce, -Che nome ridicolo!-

Solo poi, nel tornare a pulire, si notò un inaspettato e forte odore di legno, ed esso sgusciava lento da travi scaffali, incredibilmente dolce, incredibilmente piacevole.








Ringraziamenti dovuti:
Grazie a H2o, Adeline_Mad, McBlebber, Aranciata_, GrandeMadreRussia, Il_Signore_di e Cosmopolita che hanno recensito. Grazie per i vostri pareri e per la vostra attenzione, risponderò in privato a qualsiasi altra domanda vogliate farmi!
Grazie infinite a Kochei e al suo meraviglioso talento, che mi ha permesso di inserire un bellissimo personaggio nella mia storia;
e grazie a te, lettore, che hai avuto buon cuore di leggere il tutto.

Baci, Blacket.

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Tempo antico 3

"Così giovane, così sciocco."





-Avanti, mangia!-
Connell diede sfogo a quella sua voce rauca e sporca di un terribile accento tedesco. La fece scandire secca ed asciutta, e ribollente fra le pareti strette della taverna, illuminata prepotentemente dal chiacchiericcio insistente dei clienti, ridondante nella sua effettiva modestia.
Vi era uno sciabordio continuo di pinte piene, e le risate gonfie di stanchezza e sudore- sedevano operai unti dal ferro e la fatica, dalle mani callose e grandi e stanche.
Ariovisto non apprezzava il rumore insistente, ma il silente senso di comunanza che derivava dalle vesti, dai modi, lo tranquillizzava e chetava come un animale selvatico oramai domato.
-Signorina, non ho intenzione di aspettare che quella faccia fessa rinsavisca, mangia.- tirò da parte di capelli folti e rossi, ponendo poi una mano sulla barba che già iniziava a crescere, tempestando il volto d’una peluria purpurea, -Come mai sei finito a Torino, poi?-
Sul bollore continuo delle voci altrui, il giovane biondo prese a mangiare, osservando con diffidenza il suo compagno.
Eppure non si lamentò come dovuto, non fece intendere la sua rabbia e la sua stizza, in quanto la polenta e la carne lasciata nel piatto davanti a sé catturavano con ferocia la sua attenzione- affamato ed in un certo senso riconoscente, dimenticò gli spifferi freddi che sgusciavano maligni da sotto i vetri, ed il legno dei tavoli dall’odore alcolico, il volto spigoloso di Connell che lo osservava soddisfatto.
Fra le luci dorate e opache del posto, Ariovisto approfittò di quella magra consolazione alla sua becera condizione, che nemmeno tentava di accettare- oh!, ragazzo impudente e selvaggio, sopravvive solo il cauto che scaccia l’infido orgoglio e si adatta volgendo la mala sorte ai suoi affari, non certo la tua rabbia.
Connell fiutava silente l’anima ribelle del biondo, e si compiaceva, sornione, di aver trovato un altro individuo tanto impudente e cocciuto. Sebbene più giovane di lui, Ariovisto gli somigliava nello schietto modo di mangiare e riempirsi la bocca con fretta, quasi a voler impedire al cibo di fuggire, poiché vi era un solo tipo di fame che portava a quell’esasperazione.
Insoddisfazione.
-Hai proprio capelli da donna. Come il culo, del resto.-
Il tedesco tossì più volte, spaventato dall’affermazione così grezza e dura, tremenda perché fatta scivolare in modo naturale dalle labbra del rosso, tranquillo e curioso nell’osservare il rossore prorompente delle guance di Ariovisto: è ancora troppo inesperto ed altalenante per poter nascondere l’imbarazzo sotto uno sguardo carico d’odio.
Dopo la tosse dalla sua gola uscì un ringhio infastidito, uno sguardo tagliente quanto la brina serale, ora umida ed aggrappata alle inferiate legnose, grattava sulla pelle, la penetrava con indiscrezione.
Per quanto fosse animato da insano fastidio, Ariovisto apprezzava il latitante silenzio dell’altro, impegnato a fischiettare una vecchia giga dai toni opachi ed imprecisi- non vi era necessario ausilio di parole, tanto di gesti o di inutile sproloquiare, ambi apprezzavano il silenzio oltre il rumore soporifero del luogo, gli odori acri e pungenti, i chiari scuri stilettati sulle pareti dalle poche luci.
Il giovane vide, fra i ricordi mutevoli e foschi, le osterie appollaiate nei pressi della Schwartzwald, che più lontana ululava il suo mistero e la sua potenza.
Era scura e violenta, sfidava la volta scura con le sagome appuntite dei cipressi e i pini, dirimpetti , precisi soldati di guardia. Volle ricordare ancora l’odore di muschio e bagnato, il tempo lontano nel quale lui e Diederik si allenavano con un paio di spade di legno, complici di desideri e speranze molto simili- immersi in una semplicità genuina e felice.
E d’improvviso, le memorie si fecero più violente e fastidiose, atte ad incorniciare il muso appagato di Lucio, che giorni prima lo aveva sconfitto dopo poche stoccate. Aveva mostrato le fauci in un sorriso, sorprendendolo impacciato persino dove credeva d’eccellere, facendo poi leva su una bontà che Ariovisto disgustava.
Non la comprendeva, e per questo non la assaporava con la stessa attenzione con cui lo faceva Lucio.
Ricordò poi i ricci scuri, i gesti semplici e calorosi.
S’innervosì.
-Ah, domani hai da fare la biblioteca. – Connell lo riscosse battendo una mano sul tavolo, annuncio palese della sua stanchezza e malavoglia, minaccioso a vedersi se incorniciato dalla ribelle chioma rossa, sorretto dalla sua vertiginosa altezza nonostante l’età tutto sommato giovane.
Ed era ancor più estraneo ed escluso, il suo aspetto strinava dolorosamente se confrontato con quello di chiunque altro.
-Biondina, muoviti.-

Le notti scorrono su basi disarmoniche e fredde, l’Accademia ne respira comunque le esalazioni stanche.
L’aria è livida e bruna, si affaccia scura sul novembre a venire, più rigido ed umido del previsto- la luna culla docile l’edificio, ne accarezza le membra molli, sorride fra la nebbia spessa e traditrice, presente in eugual misura nei sogni turbolenti e negli spasmi di un ragazzino malinconico; la falce sussurra, convinta, che domani si vedrà di nuovo il sole.


Per un intorno frenetico vi è un punto statico, e viceversa.
Così si combatteva, fra rovi pungenti e radici spinose; così si danzava nella lotta, più con la pancia che con la logica.
Ariovisto aveva fatto suo il precetto, e viveva con la stessa volontà con cui scendeva sul campo bellico; istinto fugace e diffidenza, lui punto fermo e silente, attorno grida e polvere devastanti- e sebbene il binomio fosse incredibilmente semplice, gli occhi verdi del ragazzo indugiano sorpresi su una quantità memorabile di tomi, carta, giunture in ferro e pelle spessa, e poi rotoli più ampi e scaffali ripieni quanto un tacchino nelle più gaie festività; incredibile odore di polvere e silenzio.
Il biondo osservava con cura lo sconosciuto ed il nuovo, avanzò  come un esploratore nelle foreste cariche di fronde e piene di frutti esotici. Lo sguardo si posò insicuro sugli scaffali ampi, i tavoli cosparsi di pergamene particolari, serbate per studi altrettanto inusuali.
Fu un momento di totale spaesamento ed apprensione- poiché posto la solitudine e la totale ignoranza culturale, il libro non poneva giudizio sulle mani di chi lo afferrava, che fossero rozze o gentili o distratte e si lasciava aprire senza remore, conscio della portata del suo sapere.
Conoscenza proibita ad Ariovisto, osservata con languore da lontano e nulla più. Era un neonato nel vasto mondo del sapere, e tale probabilmente sarebbe rimasto.
Il giovane sfilò i libri per poi impilarli al suo fianco, e ne tastò curioso le fattezze e la consistenza, riservò per loro carezze rozze ma aride: non poteva apprezzarne il contenuto, le parole, il messaggio. Eppure vi era pace, circondato dal silenzio e la luce tremolante di una giornata ibrida, appena iniziata.
-Non è il tuo posto, questo.-
Ariovisto s’irrigidì in modo secco, respirò piano captando la voce milleflua di Lucio, seduto poco più in là, in mano un enorme tomo scuro. Era rimasto mobile e guardingo, felino, osservando ridacchiando l’intimità fra il biondo, il suo sfidante, e la biblioteca.
La figura del tedesco era livida e immobile, concentrata sugli occhi della fiera inannzi a lui. Oltre la rabbia ed il rancore, aveva desiderato scontrarsi con lo sguardo ambrato dell’altro per poterci trovare un’occasione buona e prospera, ed il suo orgoglio fremeva per ottenerla.
Lo sguardo si fece tagliente, tanto che un osservatore acuto come Lucio avrebbe potuto accoglierlo direttamente come una sfida, mentre pensava ed analizzava, la mano destra ad accarezzare la barba curata.
Lucio era abile imperatore della sua persona ed i suoi gesti, colpiva con lo sguardo potente la sua preda, la incatenava a sé col suo sorriso.
-Ariovisto, giusto?- si alzò con calma, ostentando il suo portamento deciso e padrone, avvicinandosi all’altro con cautela, impegnato ad imitare il cacciatore che spera di non far fuggire la preda, entrando con discrezione nel suo spazio personale.
-Che vuoi?- il biondo bisbigliò, indeciso, senza però essere ascoltato; Lucio teneva ora in mano il suo libro, lo rigirava e curava curioso, ridendo ancora.
-Erbologia alchemica. Ti interessano le piante? Peccato sia in francese.- rigirò distratto l’oggetto fra le mani, prima di posarlo e concentrare l’attenzione sul biondo, ancora rosso e frastornato, umiliato nel suo io più profondo. Non conosceva altre lingue, Ariovisto, ed era quella una limitazione terribile oltre che sfavorevole- ed il romano giocava sulle sue sventure, insisteva nel vedere in difficoltà il più giovane, ne assaporava l’imbarazzo e la rabbia, uniche espressioni che senza remore mostrava.
Lucio sorrise di nuovo, distogliendo il suo fastidioso sguardo dal ragazzo e posandolo lieve sull’ambiente.
-Amico mio! Ti insegnerò a parlare francese e italiano, se questo può rassicurarti.- Ariovisto lo guardò stranito, incapace di ribattere a tanta incredibile spavalderia, quale l’utilizzo improprio della parola “amico”, quella forzata apertura e calore che lo spaventavano terribilmente- ore gli occhi chiari squadrano il capo riccioluto dell’altro, colgono lo sbuffo ilare in seguito alla sua reazione.
-Tu, in cambio, la pianterai di essere così ostile. Anche le bestie più selvagge possono essere domate, sai?-
Rosso, il viso del biondo, una rabbia ed orgoglio crescenti che ruggivano e latravano d’essere liberati, contenuti a stento dai lineamenti già duri di un ragazzino.
L’idea suadente di conoscere e portarlo ad un livellamento istantaneo con gli altri lo rinfrancava, eppure il mezzo della sua riuscita lo faceva desistere e digrignare i denti. Un mezzo spiacevole, incredibilmente facile da incontrare: così diverso, colorati di ori e fuoco, pareva lo cercasse e stanasse, pregiudicando la sua pace. Agì d’istinto, cocciuto, com’era abituato a fare.
-Nein.-
Non vi era rapporto alcuno che facesse intuire un loro legame o amicizia, ma il romano pareva costretto a fargli credere il contrario.
Fece per voltarsi, ma la presa autorevole di quel fastidioso lupo si serrò sul polso, fermandolo. Nonostante il gesto semplice, l’unica arma che Lucio stava utilizzando per catturare la sua attenzione era lo sguardo severo ed acuto- antico, sibilante, temibile.
I ricci solleticavano il volto espressivo, tradendo della pacifica preoccupazione. Eppure il polso di Ariovisto scottava, bruciava sotto quel contatto indesiderato, formicolava impietoso e distruttivo, un disagio sia mentale che fisico.
-Non sopravviveresti  senza saperti esprimere.-
Lucio si avvicinò sinuoso, lasciandolo intuendo il fastidio crescente per poi posizionarsi a poco da lui, attendendo una qualche reazione. Utilizzava la sua statura per darsi autorità, per dominare e non farsi dominare, ed Ariovisto inconsciamente lo comprese.
Osservò gli occhi bruni, il sorriso e gli intenti benevoli, e volle scrollarseli di dosso velocemente, timoroso di quella vicinanza soffocante.
Infine il lupo rise, un suono ricco e spontaneo, mentre scostò i capelli ribelli.
- Puzzi di muschio.-


Vide Diederik dopo tempo, il cuore si mosse dolcemente verso lui- lui che era casa, una pacca confortante sulla schiena, un silenzio cercato quanto benevolo.
Ne vide gli occhi, illuminati e grigi, il sorriso vibrante, sincero, desiderato da Ariovisto. Le fatiche lo lasciarono per poco, scambiate veloci con un senso di sicurezza estrema, di un odore pungente di casa.
-Ariovisto, che ne dici se ti propongo per l’allenamento?-
Il sorriso continuò ad alimentarsi, speranzoso, sicuro di essere accompagnato da un piano più grande e sinceramente migliore. Incontrò noncurante il volto rilassato del più giovane, che ancora scalciava nella sua scomoda posizione, e chiedeva più spazio.
Nella piccola stanza fu solo silenzio e muffa, prima d’un lieve sorriso fiducioso.
-Va bene, ‘Erik.-











Ringraziamenti dovuti:

Grazie! Grazie al lettore giunto alla fine del capitolo. Grazie per aver dato attenzione alla fic, per aver proseguito- e forse, per esserti fatto un'idea di quello che è.
Proseguo, a volte, indecisa, e nel caso vi fossero consigli di qualsiasi tipo non esitare a farmeli sapere, a dire la tua in qualche modo.
Ricordo ancora che il personaggio ci Connell (nome che io ho scelto) è di Kochei e della sua splendida arte.
Grazie ancora a Adeline_Mad, Aranciata_, Il_Signore_di, GrandeMadreRussia, McBlebber, H2o, Cosmopolita per aver recensito!
A poi, auguro una buona settimana a tutti!
Blacket

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Tempo antico 4 Note: mi scuso in anticipo per la brevità- ho dovuto accorciare la concentrazione di eventi a causa del tempo e probabilmente da un quesito sollevato da una gentile ragazza che ha recensito.
La storia è suddivisa in più parti. Si vedrà sicuramente Ariovisto crescere e divenire un uomo più che adulto, ed allo stesso tempo si assisterà alla sua tarda adolescenza. I capitoli che posto ora, che vanno da ottobre 1755 a gennaio 1756 sono effettivamente introduttivi di una situazione solo all'inizio stabile, dell'impressione che deve dare al lettore.
In ogni caso, i prossimi capitoli saranno sicuramente più lunghi.
Personaggi: Olympia Karpousi (Magna Grecia)




"Chi vive di luce fulgente, avrà sotto i propri passi il deserto"- detto arabo.









Il Lupo aveva dovuto aspettare il nove novembre e la pioggia battente.
Fu obbligato- per quanto poco consono e fastidioso, tanto indispettito ma gonfio d’orgoglio- ad attendere il cheto profumo di bagnato e l’aria umida, il battito debole del tempo sui vetri opachi-e attese! Lo fece con noncuranza e assoluta convinzione di vincere, perché di tale disputa si trattava.
Sospeso quindi, bruno, Lucio sorrise cauto al carattere indomito che sperava di dominare e rendere finalmente docile quell’anima tanto triste e tormentata che era Ariovisto.
Il biondino fuggiva cauto e guardingo, cercava ansante di volgere a proprio favore l’ambiente, tanto che il romano gongolava sincero su come “è selvatico, è cresciuto così!”.

Fu costretto, Lucio, a volere più forte l’odore intenso dell’acqua, lo sciabordio freddo che rimbombava per i corridoi alti- ne facevano eco le volte più profonde, e parve a tutti che nel fondo più alto del soffitto vi fosse battaglia: il tedesco immaginò fosse un borbottio ingiurioso e festante, e l’altro se ne compiacque.
Perché l’italiano osservò lo sguardo teso e verde puntare dritto verso l’alto, ed il ragazzino più giovane cercar di indovinare come la gaia pioggia potesse divenire tanto furibonda da creare echi così grotteschi.
Ariovisto trascinava poco composto un cipiglio arrabbiato e vergognoso, gli imporporava le guance pallide e pizzicava l’occhio destro, lievemente più scuro e dolente, memore del primo incontro con la bestia sorniona e riccia che lo scrutava contenta. Se solo quell’occhio malandato avesse avuto cuore di dedicare la propria attenzione alla ridente soddisfazione di Lucio al posto che al bianco livido delle mura, sarebbe avvampato nuovamente di rabbia.
Accettare o quantomeno accennare assenso verso l’aiuto del romano, seppur in ritardo, disegnava la più disonorevole condizione per Ariovisto; l’essere seguito, deriso come un bimbo in fasce, calpestato nuovamente là dove si evidenziavano le sue mancanze.
-Finalmente.-
Parlò in italiano, e al tedesco non piacque.
Nemmeno apprezzò il sorriso sincero del vincitore, dove si mostravano le fauci bianche e animali, ornate ad uno sguardo intenso ed indagatore.
Il biondo avvertì le gote farsi calde, ed i denti digrignare  scontenti innanzi alla più brutale delle realtà. Avrebbe dovuto imparare ed assimilare il suono dolce della lingua italiana attraverso il fastidioso insegnamento di chi già prima si era prodigato per umiliarlo più volte- e non vi era ragione alcuna per la quale lo stesso Ariovisto avrebbe cambiato idea sulla situazione. Ai suoi occhi era un’onta aggiunta alle altre, un disgusto crescente verso le attenzioni baldanzose del più anziano.
-Avanti, non rivolgermi sguardi tanto cattivi. Sono un ottimo insegnante! Ho già diciotto anni, sono un uomo oramai fatto, Ariovisto.- fece in modo di farsi capire, tornando al tedesco, sproloquiando delle sue solide conoscenze e straordinarie doti- non era certo modesto nel figurare se stesso.
Eppure il giovane osservava rapito i gesti, e le mani grandi ed incredibilmente espressive, l’agitarle per aria quasi avesse un disegno preciso in mente, la pronuncia aperta del suo nome.
Se non era Lucio a chiedere attenzione, questa spontaneamente andava da lui: non vi era singolo sospiro e lieve guizzo dei suoi muscoli che non fosse anche un’opera teatrale, una commedia- Lucio era una fiamma rovente e carica, elettrica, ed avvicinarsi senza protezione era un rischio.
D’improvviso Ariovisto sentì il bisogno di distrarsi con il silente riverbero che vi era in biblioteca, e gli scaffali ampi e pieni di ciò che era così lontano da lui.
L’imperiosità del romano gli feriva la vista.
- Ti piacciono i libri? Forse poi arriverai a leggerli, sebbene tu sia un po’..- prese tempo, il Lupo, la mano destra accompagnò amica l’uscita delle parole, -rustico.-
Uscì un ringhio contrariato dalla gola del tedesco che andò a confondersi col brusio creato dalla pioggia, un’occhiata eloquente e tremendamente tagliente, simile al suo carattere- seguì la risata trattenuta e arida, piena di polvere del romano, quasi erosa e gracchiante.
-Iniziamo. Cose semplici, come “io sono Ariovisto”. Prova!-
Altrove imperava silenzio, e la voce calda di Lucio suonò musicale ed armoniosa. Per qualche strana congettura, ove la mente s’inganna e s’insegue precipitosa, erano ora gli occhi ambrati lava bollente, sì densa che nessuno, affacciandosi, ne avrebbe visto il fondo. La pioggia non avrebbe scalfito il loro calore, e nemmeno il freddo ne avrebbe diminuito la misura.
Ariovisto serrò le labbra, concentrato, così stupidamente messo alla prova e pressato dalla soggezione.
-Je zon..- zsono, jo zsono Arch..- fece perno sulla memoria, scandendo lentamente le sillabe, l’espressione grezza ed accartocciata contro quella dell’italiano, che si fece via via più dolce, prima di aiutarlo nella composizione del nome.
-Ariovisto.-
Mimò i gesti, li fece passare soavi sulle labbra, sul sorriso, appena sopra la barba scura, nel suo essere incredibile e grande, verso la determinazione spaventosa del biondo; imbronciato ed insoddisfatto nel suo continuo malumore.

Il tempo uggioso accarezzò mansueto l’aria statica, l’umido prorompente fece festa attorno alla precaria complicità dei due ragazzi, flebile ed equilibrata dal nulla- e persino il Sole, che venne giorni dopo, salutò l’Accademia con un inchino beffardo prima di dare attenzione ad un patto tanto pericoloso quanto screziato, devastato dalle incomprensioni ed unito da fili sottili.
Fu come vedere due antitesi cercarsi controvoglia, osservarle apprezzarsi e conoscersi e detestarsi, poiché la diversità è dono solo per chi ha l’animo puro e maturo, e né Ariovisto né Lucio potevano darsene vanto. L’uno conosceva solo le fatiche del lavoro e dell’alienamento, l’altro costruiva giorno dopo giorno la sua bravura e la sua potenza; eppure la bruma vide curiosa, la sera, gli insegnamenti del Lupo attecchire negli occhi del giovane Ribelle e viceversa.
Complici di nulla ed amici di niente, tornavano spesso al primo passo dove ancora era difficile accettarsi.
La forte Torino, a quel punto, passava a piè pari la metà di Novembre.
Il teutonico marciava ora più sicuro fra i corridoi dell’Accademia –ora vivendo silente ed indifferente rispetto agli altri- ed i suoi passi eran fatti d’ombre.

-Forza, aiutami! Barbaro, parlo con te!-
La voce di Lucio biascicava naturale la provocazione, e ne avrebbe fatto arte solo avendone tempo; ora bofonchiava parole e sussurri sulla portata dei tomi, la quantità e l’insensibile percentuale di essi che veniva applicata da Ariovisto, avido di conoscenza ma non certo di fastidiose presenze.
Conciliare i desideri da ambe le parti era difficile se non ansioso, ed il volere di uno quasi mai coincideva con quelli dell’altro.
-Mi chiamo Ariovisto.-
il biondo esalò il proprio disappunto, limitandosi a pungere con le iridi chiare i libri che mano a mano passavano sotto le sue mani, osservandoli con apprensione e particolare attenzione- la stessa che serbava ai piccoli germogli diafani in primavera, e le punte brune delle foreste.
I titoli erano francesi, non li comprese.
-Il tuo accento tedesco è ancora ridicolo.- rise di nuovo, Lucio, riempiendosi contento delle proprie risa, non vergognandosi di lasciarle straripare ovunque, voraci. Camminava tranquillo, seguendo però le proprie grandi falcate, delegando il biondo ad equivoca servitù- quest’ultimo, adirato e irrispettoso, reggeva malamente i pacchi cartacei e facendo piroettare il proprio scontento verso corridoi più ampi, più puliti, incontro agli alloggi di Lucio.
Pareva buffamente che il rango portasse luce, poiché le vetrate di quell’ala prestigiosa irradiavano un bagliore violento per chi non è abituato; in questo frangente il giovane tedesco socchiuse gli occhi chiari. Oltre a non avere consuetudine con la luce diffusa, diceva estranei gli abiti più che puliti ed il pavimento marmoreo, lo sguardo fiero e alto di chi ci abitava.
-Non mi hai ancora detto da dove vieni.- fece il riccioluto proseguendo nel proprio discorso-terribile, giacchè ascoltato da nessuno, nemmeno da lui stesso-, fermandosi a poco d’una porta, e con la stessa calma flemma, aprendola.
Al che Ariovisto cercò di arraffare meglio il bagaglio, goffo e rozzo, estremamente sbagliato nell’ambiente in cui si trovava- quasi strinante! Ed avvicinandosi, d’improvviso, notò l’esitazione di Lucio, tanto sicuro di per sé, il suo sguardo sornione e felice volto all’interno della stanza.
-Olympia!-
Un sussurro veloce quanto deciso, Lucio fu nuovamente una fiera presa da un dolce istinto che lo portò a danzare al centro dell’abitacolo, lasciando per il tedesco un’evoluzione schietta della mano, un invito di sospensione- attese lui, questa volta, bloccato sull’uscio e sulla curiosità dirompente fissata nelle iridi verdi.
Curiosità saziata solo alla vista di una ragazza, ah, no!, una donna, il volto radioso e la bellezza semplice che cascava dai capelli raccolti.
Ariovisto ne osservò la bassa statura, il fisico morbido coperto ora dall’abbraccio di Lucio e quei suoi gesti che usava tanto per parlare che ora si muovevano incauti sulla vita di lei- non guardò più il viso, il giovane, poiché il romano se ne stava impossessando ridendo, le labbra si schiudevano molli contro quelle di lei, schioccavano voluttuose e d’un tratto voraci; fu gioco di sospiri, risolini trattenuti.
L’imbarazzo, placcando il biondo, gli impose di distogliere la vista ed irrigidire i tratti già marcati, gli occhi brillanti saettarono dai libri alla luce e al cielo libero. Sensazione vergognosa, quanto incredibilmente silente e tenera.

Vi era profumo di miele nell’aria.


Il sudore bruciò e fu piacevole, salino, solcò indomito la fronte di Ariovisto, incorniciò la ridente voglia e soddisfazione di mettersi alla prova. Sul suo viso tirato concorsero polvere e nervi saettanti, avvolgendo le braccia pronte, le gambe lunghe e forti.
Sospirò, avvertendo sulla lingua il sapore amaro della terra, sollevata e fluttuante dopo la sua ultima azione- scoccata veloce, movimento istintivo che si era frantumato sul campo battuto.
Il soldato imbracciava un’asta di legno, impugnandola con fermezza e cura, dirimpetta ora allo sguardo volto solo al fratello, anch’esso ansante.
-Ti prenderanno, a breve.-
Voce forte e tonante, la guardia che si abbassa e lascia al sole pomeridiano tempo di infrangersi sul viso stanco.
-Ti prenderanno davvero negli allenamenti, perché sei bravo, Ariovisto.-
Il Ribelle inspirò ancora, e più che polvere entrò in lui orgoglio bruciante. Non patì più freddo, men che meno la calura dello sforzo e fece gli occhi limpidi dei fratello il pozzo in cui, assetato, avrebbe trovato ristoro.
Mugugnò soddisfatto, preparando di nuovo il fisico e la postura; su di lui una terribile ed affamata aspettativa, prima di colpire ancora.














Ringraziamenti:
Grazie a chiunque abbia tempo per leggere i capitoli, chi si prodiga per arrivare sino in fondo e mi regala un briciolo del suo tempo! Grazie!
Grazie anche a chi avrà cuore di lasciarmi un commento, un consiglio, un dubbio sulla storia- e a chi già l'ha fatto: grazie a Adeline_Mad, Cosmopolita, McBlebber, H2o, GrandeMadreRussia, Il_Signore_di, Aranciata_!
Baci, Blacket.

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


tempo antico 5 Note: Ho impiegato moltissimo a cercare la giusta formazione di ogni tipo di divisa! Nonostante io non mi dilunghi troppo causa disperazione, mi scuso nel caso vi sia qualche errore, cambiavano moda e vestiario ogni tanto, premunendosi di fare impazzire me.
Personaggi: Iago (Gallia) -riflettendo se inserire due Gallie data la divisione storica, fatemi sapere in caso vi fossero suggerimenti! Inoltre, sebbene i nomi precedenti fossero calibrati ad Hoc per significato e quanto altro, per Gallia mi sono basata sulla sonorità, mi piace molto per lui. Buona lettura!







“Nell’Europa del 1755 vi fu il disastroso terremoto di Lisbona, centrato nella parte sud della cittadina. Il rombo fu talmente forte, le case talmente fragili, che mi parve di vedere la filosofia ben congeniata di Voltaire e Rousseau sibilare fra le macerie.
Se il terremoto aveva mosso incurante la terra, il loro pensiero faceva tremare menti di ben altra portata.”
-Lucio, ad un amico.



Si sfiorava con le dita il 1756, e Torino festosa attendeva la nascita della futura Margherita di Savoia- un altro dolce fiore femmineo, forse non atteso con l’ardore che ci si aspettava.
Si credeva che il padre di lei avrebbe voluto il riconoscimento e la parata, la fila lunga dei cavalieri dell’accademia abbigliati coi pennacchi rossi e la stella sul petto gonfio, gli stalloni fumanti e intrepidi, sui dorsi le frange dorate degli ornamenti.
L’Accademia militare diveniva Reale, e gaia, sorpresa, s’inchinava brusca innanzi ad un dicembre che pian piano agguantava i mattoni di cotto con un freddo tagliente, minacciando di spaccarli. Eppure l’aere fingeva solo di rabbrividire per la bassa temperatura; fremeva difatti per l’olezzo di cambiamento che permeava i discorsi dei filosofi, la monarchia prussiana- sino al più piccolo e labile mutamento.


Lo sguardo, si sa, per quanto avvezzo all’abitudine e stanco, guizza rapido innanzi alla novità, che sia positiva o meno. Ed appunto gli occhi, che parevan si puntuti, toccavano malamente l’oggetto della loro curiosità, guardandolo di sbieco e senza fingersi lontani o distratti.
Ariovisto era tanto giovane e insolito da sembrare uno scherzo se affiancato ad un qualsiasi soldato della cavalleria; i capelli biondi venivano scostati malamente, la pelle bianca tirata tanto quanto lo sguardo severo- prestando quindi più attenzione ad una figura tanto bizzarra, un normale militare avrebbe però notato la muscolatura accennata, i sensi acuti e animaleschi.
Il tutto così sbagliato, poco consono se affiancato al viso che solo da pochi anni aveva salutato l’adolescenza- Ariovisto era d’una specie tutta sua, ma per curiosità e pacata noncuranza ancora nessuno si sentiva in diritto di tenerlo lontano.
Vi era un fruscio costante di vestiti, borbottio rigoglioso e crescente, la luce mal messa che faticava a fendere la nebbia mattutina; e riflettendo su di essa dava toni bianchi e accesi a tutto l’intero spogliatoio, una fabbrica instancabile di giovani in divisa, che or ora raccoglievano le braghe scure dell’addestramento, la giacca stretta ed il cinturone pesante; come un collare di ferro si agganciava alla vita.
Eppure il biondo, così illuminato dalla luce malata da essere anch’egli un punto luminoso, avvertiva con piacere i pantaloni nuovi e morbidi aderire alla sua pelle, tralasciando i suoi, decisamente più poveri. Nonostante non amasse doversi separare dalla sua quotidianità, doversi preparare per l’allenamento lo inorgogliva, aiutandolo a rialzarsi con compostezza dopo tante cadute fragorose.
L’occasione che aveva lo rendeva più dinamico ma anche più docile, portandolo solo a ricambiare con uno sguardo indifferente le occhiate curiose volte su di lui.
-Sei troppo giovane, biondina. Ecco perché ti guardano così.-
Connell sbuffò per niente sorpreso, vestito per metà, accortosi solo dopo della divisa tremendamente semplice del compagno- giornata di prova, date le umili origini, e null’altro gli spettava.
Borbottò poi proprie considerazioni in un dialetto stretto ed inglese, accompagnato dalla chioma furente e rossa, tastata poi da gesti veloci ma sgraziati. Si stava abbottonando la divisa con rancore, e pareva volesse ella stessa scappare via dalla pelle pigmentata del rosso, sentendo in lui un’insofferenza crescente.
-Spero tu non sia così cretino da pensare di smettere il tuo lavoro. Dovrai semplicemente portare il tuo culo anche qui.-
Connell parlò in modo rauco e rozzo, vomitando come a suo solito parole ed improperi grezzi che però ben s’adattavano all’animo burbero di Ariovisto, ben lontano dalle convenzioni civili e comuni.
La voce dell’uno strideva contro la pazienza dell’altro, un binomio che intercorreva placido ed equilibrato fra ambe le parti.
Il giovane soldato venne poi afferrato malamente per i fianchi da Connell, che bruscamente lo aiutò ad agganciare correttamente lo spadino sul lato destro, in parte deridendolo col suo sorriso forzato.
-Non avevo pensato di mollare.- e lasciare la quotidianità che lo vedeva come fantasma nell’accademia, aggirarsi silente per i corridoi lasciando che gli studenti e i militari perdessero interesse in lui, sopravvivendo di sporadici incontri con lo stesso Connell e suo fratello.
E Lucio.
Si rabbuiò al suo pensiero, al sorriso sincero e la pazienza sporadica che dedicava alla sua “orribile” pronuncia dell’italiano- masticava ora le basi di quella lingua ancora imperfetta, faticando però a riconoscerne le sonorità e pronunciare alcune sillabe.
Si corrucciò, osservando il legno consumato delle panche, la fila storta delle armi bianche addossate ad una parete; concentrandosi sulla lama pulita, fredda, quasi tentando di cercarvi il suo riflesso.
Le mani vagavano sole sulla giacca ed il vestiario, quasi tentando di acclimarlo al proprio corpo, la mente girovaga fra pensieri poco graditi e gli occhi verdi persi nel vuoto, catturati poi dal gesto veloce di una mano.
La polvere vorticò scomposta attorno al viso di un terzo ragazzo, non troppo più vecchio di lui, che curiosava indiscreto nella sua direzione. Persino Connell, che scapestrato e brutalmente diretto era più impegnato a notare come ad Ariovisto donassero i pantaloni stretti, notò il fuggente contatto visivo fra i due che lasciò il giovane tedesco perplesso.
Portava la divisa dal cappotto verdastro, ed era anche lui una semplice forza militare. Il volto rasato, le pieghe ai lati della bocca, come i capelli disordinati d’un confuso biondo cenere e gli occhi vivi, ma di un colore opaco e indefinito. Tastarono con noncuranza la figura di Ariovisto, quasi a volerlo saggiare, parevano spavaldi ma non cattivi.
-Viene dalla Francia.- Connell si alzò, già sfatto, addosso di lui delle movenze strascicate e masticate male, intente a sistemarsi la folta chioma rossastra, che sanguigna cadeva sul viso. –Credo sia indebitato con Lucio, quel bastardo.-
Vi fu un lieve sobbalzare a quel nome tanto sgradito, che pareva esser coperto d’oro e amore e odio nella bocca di ognuno; il capo riccio del ragazzo dalla tanta buona nomea non accennava ad abbassarsi innanzi a nessuno, conquistava con sottile maestria l’attenzione ed i pensieri di chiunque capitasse sotto suo tiro e non solo- forse anche per questo si presentò con esagerata spavalderia al suo ingresso in Accademia.
E nel mentre che Ariovisto voltava il capo verso il cortile interno, trasalì ancora: Connell diede una pacca sentita sul sedere del giovane, farfugliando di come “sei lenta, fanciulla, muoviti!”, e superandolo poi a larghe falcate- ciò che gli permetteva la divisa ora pulita, giusto in tempo di sentire un ringhio selvatico gorgogliare alle sue spalle.

L’accademia poneva testa alta, verso il cielo poiché forte; lo sguardo basso verso le genti, poiché umile.
Non vi era affare che il ducato non le consegnava con cortesia, fingendo fosse estremamente civile ed utile farsene carico- quanto la repressione di atti ignobili, che siano essi esempi di ladrocinio, di una madre che ancora non benestante rubava pane per i figli, e di forza veniva trascinata nella polvere rovente, trattenuta con forza per i capelli, strattonata e livida, giudicata giustamente come amorale.
Nessuno ribatteva contro il volto contrito e dispiaciuto di lei, marchiato da una rosa violacea sul volto, le labbra tremanti ed il fiato corto.
La trionfante Accademia le dedicò pochi secondi, spostando poi lo sguardo curioso su un paio d’occhi nuovi a quella vicenda. Ad Ariovisto ciò che vedeva non piaceva, eppure, con estremo stupore anche da parte di lui stesso, ne era totalmente indifferente.


Lucio s’annoiava, stretto nella giacca blu ed i suoi bottoni, nella fascia che copriva il petto e la divisa tutta. Osservava spossato dal troppo pensare, cercando l’incentivo che lo avrebbe tenuto attivo e sveglio; attorno i soliti volti adulanti, le stesse movenze che persino dopo allenamenti rimanevano immutate- e la luce sempre più forte d’un sole che nasceva gli feriva il volto, ancora assonnato.
Stirò le gambe, i muscoli, sotto il portico ed innanzi ai saluti freschi dei suoi compagni, ai complimenti non sempre graditi- distratto, rispose pensando invero (con tremenda soddisfazione) alle notti precedenti e al sorriso provocante di Olympia, il seno morbido fra le sue mani- sbadigliò.
Teneva lo spadino arroccato al fianco, bianco, la guaina sporca di graffi di cui solo andava fiero, ed il fioretto dalla parte opposta, leggero e snello.
Carezzava per abitudine l’elsa delle armi, impugnandola a volte, cercando disperatamente qualcosa che risvegliasse in lui l’adrenalina, lo invitasse a sfoderare le proprie capacità e furbizia.
Non potè quindi evitar di notare l’insolita facciata straniera che passava poco più in là, e rifletteva tanta luce nei suoi occhi da poter far nascere un riso spontaneo. Il suo sguardo indagatore si posò poco più giù della volta rotonda del portico, all’altezza delle aste di legno gnoccate e scheggiate- Ariovisto osservava il campo con estrema cupidigia, e gli occhi iridescenti saettavano dal campo della corsa ai militari sparsi ed intenti ad affrontare l’umidità mattutina di dicembre.
Lucio lo squadrò con perizia, analizzandone la postura imprecisa, la divisa decisamente più umile della sua. Si perse poi nel constatare quanto il volto giovane stridesse con l’altezza, le gambe lunghe, le pieghe tese del viso- avrebbe sorriso ancora, se non avesse notato la confidenza fra lui e l’omone rosso, una complicità che forse ancora non si poteva definire amicizia.
Fastidio, nel constatare di non essere l’unico appiglio sociale di quella bestia bionda; credeva invano di poterlo addomesticare con pazienza e devozione, come una pianta rampicante- sebbene secca e arida, dopo anni, rimane vicina alla sua presa, senza apparente fatica.
Il romano era un lupo calcolatore e preciso, s’interessava già da tempo alla fitta interpretazione delle relazioni altrui, ed affinava il suo pensiero su ambiti diversi, tanti quanti i suoi ricci ribelli. Palesò il suo interesse con un sospiro, decidendo di non avvicinarsi ed osservare lo straniero da lontano, curioso di vedere muovere passi incerti sul terreno sconosciuto.
Trovò infine positivo che Ariovisto socializzasse, pareva fosse più civile e meno legato alla sua natura solitaria- “un animo indomito necessita d’adattarsi se vuole sopravvivere”.
-Ragazzino!-
Tuonò gioviale, la sua voce, indicando il vestiario insolito del biondo: la casacca verdognola, semplice, forse nemmeno troppo pulita, le fibbie slacciate ed i capelli indecorosamente sciolti e morbidi sul petto.
-Sei di prova? Dimostra di meritare il tuo posto!- Lucio scherzava nel trattarlo come sconosciuto, ed accolse gioioso l’occhiata di puro odio che gli volse, una stilettata glaciale per chiunque non ne fosse abituato- dopo che giorni prima aveva accennato a spiegare il congiuntivo al suo selvaggio allievo, si poteva dire pronto a tutto.
Volle provocarlo, mangiando l’espressione viva di Ariovisto con lo sguardo, seguendo gesti semplici, concentrando il pensiero di tutti sopra sé –ed era un mago, nel farlo!-, lasciando scivolare il brusio curioso della massa, gestendolo con estrema familiarità sebbene rappresentasse in verità un disagio.
-Devo battermi?-
La voce secca del tedesco fu per lui come acqua fredda, acqua fresca, ed il lupo di risposta si acconciò il pelo ispido, eloquente.
-Oh, moi! Mi offro io, sarà per me il riscaldamento!- alzò il braccio il furbo soldato francese, accompagnando la pronuncia imprecisa e forzatamente attaccata al suo dialetto con un cenno del capo, ed i capelli, scomposti sulla sua testa come fieno, lo accompagnarono nel gesto.
“Ah, Iago”, borbottò poi Lucio, ancor più compiaciuto della notevole novità, ed i suoi occhi si posarono sul più bello stimolo che potesse trovare in giornata: i due biondi si scrutavano incerti, l’uno rabbioso e confuso quanto l’altro divertito e curioso, senza una vera e propria ostilità- vibrava del sano interesse, voglia rude e barbara di mettersi in gioco battendo i piedi nella polvere.
Vennero dati due bastoni lunghi e scuri, giacchè un paio di lame si sarebbero solo rovinate in una prova d’orgoglio come quella, o avrebbero rischiato di imbrattarsi inutilmente.
Non si riusciva ad afferrare completamente la comunanza fra i due, che forse s’accentuò non appena Ariovisto si mosse, sicuro, allungandosi verso il centro del campo e sollevando l’aria umida, posizionandosi davanti all’avversario su guardia alta; il cuore febbricitante, il senso acuto dell’udito in tensione ed un paio di occhi famelici si sgranarono sull’avversario.

Ariovisto si muoveva seguendo istinto, a tratti brusco, in altri selvatico ballerino; e la sua agilità piaceva a Iago, che sorrideva battagliero contento di sentir scorrere l’adrenalina nel suo corpo, e che si fosse destata davanti ad un ragazzino tanto particolare.
Lucio in quel momento sorrideva, li rimirava come due gladiatori e due bambini che si rincorrevano per i giochi- eppure vi era una serietà tribale, così vecchia da farli sembrare compagni da tempo.
Sotto uno sbuffo soddisfatto del romano, il più giovane mostrava il fisico già pronto, i muscoli scattanti, quanto i lineamenti che s’intuivano diafani: i capelli biondi vorticavano leggeri, luminosi, lo sguardo sicuro lo rendeva più uomo di quanto non fosse- Ariovisto era bello, orgoglioso, nonostante la sua tenera età.
Lucio socchiuse gli occhi, allontanando dalla mente i rumori concitati di quel giocoso scontro, immaginando il ribelle nella cavalleria da due, tre anni a quella parte, e gli piacque.


Anche gli occhi incauti di una giovane visitatrice si puntarono sugli scatti precisi dei due combattenti, ed il rumore secco delle due armi in collisione- lei che camminava silente ed imporporava le guance con un nonnulla, ed aveva tanta forza in sé da riuscire a nasconderla sotto l’ondulata chioma bruna, gli occhi chiari ed il fisico asciutto. Un profumo forte di erba e fiori dal collo fine, negli occhi chiari il piacere di assistere ad un allenamento, quasi incantati.
Rinsavirono imbarazzati, constatando di averne incontrati altri più profondi e scuri, appartenenti ad un bel ragazzo riccioluto e bruno, che lei mai aveva visto prima.
Questo le sorrise, bonaccione, prima di mandarle da lontano un lascivo bacio.








Ringraziamenti e avvisi:
Grazie mille a chiunque abbia avuto la pazienza di giungere sino in fondo e al quinto capitolo: chiunque abbia inserito nelle preferite, seguite e ricordate merita un mio abbraccio e un ringraziamento sentito, non immaginate quanto mi faccia piacere!
Inoltre, la settimana prossima sarò via, quindi impossibilitata a scrivere; il capitolo prossimo arriverà in ritardo rispetto al solito (Meta: Spagna. Sia mai che venga ispirata per scrivere di Iberia?)
Inoltre, grazie infinite a chi ha lasciato un commentino:
Il_Signore_di: Grazie mille! Sono gentilissime le tue parole. Rispondendo alla domanda: cercherò di inserire molti degli ancients presenti nell'opera, spero di riuscire a fare un buon lavoro!
Adeline_Mad, McBlebber, GrandeMadreRussia, H2o, Aranciata_.
Alla prossima!, Blacket.

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


tempo antico 6
Note: Grazie mille per tutto il supporto ed i complimenti! Li apprezzo moltissimo.
Tenevo a precisare che questi capitoli rappresentano la primissima parte della fanfic in sè ed è normale che i tempi paiano accelerati, che ogni capitolo copra un lasso di tempo lontano da un altro (sebbene si parli di giorni). Voglio usare questi primi testi per dare idee chiare di come sono i personaggi all'inizio della vicenda, che poi si troveranno più grandi andando avanti.
Se ci sono consigli, richieste, appunti da farmi, sono ben lieta di leggerli ed ascoltarli: ho l'ossessione che possa non andare bene la trattazione essendo tempo e personaggi parecchio particolari. Accolgo volentieri qualsiasi commento, anche via mesaggio privato, poichè l'obiettivo è sempre migliorare. Grazie, buona lettura!
Personaggi: Liina (Aeesti, in questo capitolo solo comparsa).








“Suvvia, la sessualità è fatto popolare, non crucciartene troppo, non tenerla fra le tue grinfie, che ti soddisferà poco.

Hai qualità che farebbero più credere al vizio- e non guardarmi così, per l’amor del cielo!
Sei forse stanco dei miei rimproveri?” –Lucio, ad un amico.





L’alba era silente, e si distillava in gocce salate sull’erba secca, vibrava nella nebbiolina stanca ed apriva gli occhi serena con uno sbadiglio profondo- ed il muschio, più forte ancora, saliva sereno su per i tronchi forti, segnando il nord come la natura voleva.
E come muschio, Ariovisto aveva lo sguardo fisso sulle montagne, ed il suo pensiero scalava le nicchie delle cortecce e si ergeva in alto sperando di vedere casa. Grattava il suo appiglio, e diveniva numeroso sino a voler essere come le stelle in cielo: il biondo ricordava la sua casa mille volte, ed altrettante mille spume verdi tappezzavano chete i boschi, arrampicandosi così da non farsi calpestare.
La fitta boscaglia verde era un tempio, e si ergeva su arbusti forti sebbene giovani, piantava le radici nella propria terra sino a sentirla propria nel profondo- tale era Ariovisto, una quercia giovane che staglia la chioma e le foglie sagomate sul chiaro lume del giorno, alza i rami secchi al cielo ed osserva l’aridità dei meli e pioppi che un tempo gli fecero compagnia, ed ora stanchi cedono al freddo.
Il tedesco li osservò come compagni, ne accarezzò le figure e le forme con lo sguardo stanco, e verde tanto quanto il passato brulicare d’erba fresca, che ora diviene ricordo nelle iridi di lui.
Due specchi che assorbono l’odore del fieno, traspirano i suoni mal graziati delle cornacchie e dei passi incerti delle altre reclute.
Soldatini piccoli, ma privi dell’energia furente scoppiettante nel giovane ribelle; avanzava pestando il suolo con noncuranza, evitando di avere al fianco il fiato rovente d’un obbligo quale l’abbigliamento di un cavallo.
Aveva gambe veloci, Ariovisto, era agile e marciava con la polvere, camminava nella nebbia e fra le sue volute- particolare che gorgogliò divertito nella risata di Connell.
Dal volto ammaccato del rosso si costruì un sorriso storto, asimmetrico e sfatto, nell’osservare il compagno più giovane ed impegnato ad incantarsi sui solchi ruvidi dei tronchi grigi e freddi, chiaro avvertimento dell’inverno. Vide l’animalesca somiglianza che legava entrambi alla natura, così stretti da avere rampicanti pungenti nelle viscere e nel petto, se ne compiacque e sospirò lasciando l’aria traumefatta e condensata ballargli innanzi al muso vermiglio.
Entrambi, condividevano nell’incertezza il silenzio di chi lo accoglie come dono, e questo rese felici i tratti perennemente tesi dei due, ispidi come ghiacciai, le sopracciglia incrinate che trovavano sollievo.
Ariovisto si fermò, resosi poi conto della presenza dei compagni, di Iago preso ad esplorare la propria saccoccia di cuoio e Connell concentrato sulle macchie infestanti di felci, e brune e scure e fitte come la barba che correva infuocata sul viso.
-Moi, je ne cr-.. non credo ancora che ti abbiano messo con noi, sei un ragazzino!- Iago aveva un accento terribilmente marcato, non ne voleva sapere di dissimulare le discrepanze della sua lingua e mal guardava l’italiano, poiché il francese era lingua ufficiale dei savoiardi e non solo; si concesse dunque di sbagliare, appiattire le vocali e premere sulle nasali, fischiettando con la sua voce da cantante.
-Ragazzina.-
Connell precisò noncurante, evitando volutamente di incontrare l’umore contrariato di Ariovisto, che si ergeva snello, efebo, guardandolo con rabbia. Era una trappola, un marchingegno pronto a saltare, come quei fuochi portati dalla Cina, che d’improvviso esplodevano radiosi e prima ancora ringhiavano.
Un quindicenne ancora non aveva sufficiente controllo su ogni qualsiasi emozione, un guizzo di nervi continuo.
Eppure Iago rise, i capelli che parevano ad ogni singulto sempre più crespi e sbarazzini, picchiò l’aria pesante coi suoi gesti secchi, sfiorando la spalla del rosso- vi passò una complicità fulminea, che il biondo aveva ignorato forse volutamente, magari per scarso interesse nei loro battibecchi; li vide uniti da una fiducia malata, vecchia e selvaggia, e capì che prima o poi vi sarebbe cascato anche lui- forse imbrogliandosi, picchiando a terra i pugni e sguainando lame per poter tagliare i legami che andavano creandosi.
-Però sei capasce.- chiocciò il francese, la voce tintinna chiara sulla brina, -da dove vieni, dunque?- si portò avanti, con grandi falcate, quasi a voler catturare il movimento di una creatura tanto sfuggente- e magari la sua voce, che aveva udito così poche volte, ben chiusa e ferma, non ancora matura.
-Germania. Vivevo vicino alla Schwartzwald.- chiuse le labbra in un broncio tirato, lo sguardo fisso ed attento alle balconate dell’accademia, poco più in là. Erano grosse, virili, davano cornice ai dormitori ed erano aperte ed ariose, ma semplici.
Ariovisto le stava puntando, il giovane falchetto acuiva la vista su ombre snelle, in movimento, ed indicavano il sole nascente; piccoli baluardi della mattina, le voci lontane accompagnavano i gesti di una figura in particolare.
Pensò a Lucio.
-Ah, donne! Ecco perché non mi ascolti.- al sorriso di Iago si aggiunse il commento più rauco e conciso di Connell, slabbrato, sognante, molto più osceno dei semplici riferimenti alle scollature dei vestiti.
Ariovisto sentì salire i suoi latrati sulle schiena, pungerlo, attorcigliarsi come rovi sul petto e sul collo presagendone vergogna e inadeguatezza innanzi ad un mondo che mai aveva osato sfiorare, se non l’occhiata veloce che volgeva alle gonne ampie e ai fianchi stretti.
S’imbronciò, torto ancora da quelle spine, l’attenzione volta di nuovo ad un orizzonte poco lontano, ornato da timidi arbusti invernali, dal freddo e dalla condensa, dallo sguardo trasandato dei tre soldati immersi fra i ricci scuri del boschetto.
-Ti piacciono le donne, Ariovisto?-
Il cavallo nitrì infastidito quando Connell scese, finendo per ritmare quel vocabolario e sfrontatezza tanto interessati, forse voluti per incitare il più giovane ad aprirsi- “si parla di ciò a cui tutti piace, suppongo”. Quindi si sporse, il biondo si sentì affiancare dal passo pesante dell’altro, e non vide altro modo di rispondergli se non uno sguardo più simile ad una tagliola, una difesa che voleva il suo istinto attento e rapido, fosse il caso di ritirata o turbolento attacco.
L’occhio volse verso il basso, schiantato dalla vergogna non più irosa ma pudica e silente, Ariovisto tornava adolescente sotto la divisa che poco prima lo rendeva simile ad un uomo- perse il lineamento duro della mascella, la linea retta delle labbra ed il pensiero malinconico che lo seguiva adombrandogli il volto chiaro.
Il fastidio incoraggiò il suo desiderio d’avere addosso una maschera convincente e felina, disegnata sui tratti di chi già era abituato a maneggiarla con passione maniacale, e di volta in volta la ritoccava in bellezza, sottolineava il dettaglio e la sua indistruttibilità. L’avrebbe voluta, Ariovisto, poiché il suo volto veniva spesso lavato d’acqua pura, e se non era il volto ad avere nuove espressioni queste le aveva il cuore- non dimostrava nulla solo perché era sua abitudine non provare alcunché sentimento.
Eppure, venuto a galla ed arpionato da parole indecenti, il sentimento trovava spazio solo sulle gote rosse.
-Io non disdegno ambe le parti.- gracchiò Connell, infilandosi le mani in tasca.
Una risata, due, secca come cenere, strascicata e grinzosa, i gesti molli che si frantumarono sulla divisa andandola a sgualcire; e lo stesso fece il naso di Ariovisto, che fiutò la novità ed il catastrofico imbarazzo di esserne totalmente estraneo.
Il giovane vagò confuso con il capo, poi respirando e divenendo scuro, un sottobosco fitto di pensieri che avrebbero voluto dirsi innocenti. Volle istintivamente allontanarsi avendo paura che il viso rosso potesse addirittura scottare ed essere un lume vivido ancor più del sole, alimentato da una preoccupazione inesperta e fresca.
“Magari una delle belle vuole un soldatino come me!” ed i cinguettii di Iago giungono da lontano, nel mentre che si sposta e segue le dolci visioni femminili, li saluta distratto, e poco importa perché nemmeno viene udito. Scavalca le radici nodose e i grumi secchi di foglie e lo segue docile il vento- Ariovisto bramava esserlo, e di andar lontano leggero piuttosto che ragionare di cose così torve e complesse, così umane; lo stanavano cacciatrici nella sua tana.
-Ho scandalizzato il tuo animo gentile, fanciulla?- anche un osservatore poco sveglio avrebbe visto nel frigido Ariovisto un tumulto confuso, e Connell già da tempo lo fiutava con pazienza; lo aveva sorpreso con parole semplici, violentando la pelle sempre chiarissima con pochi schiocchi dati alla lingua.
-La tua ignoranza in merito mi fa cadere le palle, ma dopotutto sei ancora un ragazzino.-
Furono più lance e spilli ad aizzarsi contro il biondo, terrificato dall’autocontrollo sgusciato via con la bruma, tanto forte da far nascere nel suo freddo la rabbia selvaggia che spesso sventolava negli occhi chiedi ed innaturali; si sciolse il suo essere impacciato, divenne ghiaccio e acqua e vapore caldo sul viso quando si voltò verso Connell, iracondo, sfatto e più simile ai capelli vermigli del compagno che alla neve bianca dei suoi inverni.
Risaltavano le iridi diafane, la smorfia storta della bocca sul volto mal fatto dell’irlandese e sul sorriso spezzato- si osservarono come nemici e cani ringhiosi, prima che il rosso, ora sghembo e ridente, afferrò con forza la nuca del più giovane.
Ariovisto scoppiò e fu un vulcano, esalò le sue spire, arrabbiato, ostentando ostruzione: vedeva il rosso delle divise sugli occhi, sul volto il fiato bollente e caldo e chiuso sulla sua bocca; il respiro imprigionato dalle labbra di Connell  nei loro movimenti bruschi e serpentini, sinuose contro le sue. Sentì i denti morderlo e la propria confusione chiedere aria, bloccato dalle mani dell’altro e dall’agitazione; spingeva contro il suo viso, lo pungeva con la barba tentando di smorzare la resistenza ed ansia dell’altro.
Ariovisto scattava istintivo lontano dal rosso, e poco dopo lo sentì mugolare, appagato da quel dettaglio.
Uno schiocco più delicato, sulle labbra, ricambiato con una spinta forte e a tratti euforica e maldestra- il tedesco respirò di nuovo, e mai l’aria gli parve più fresca e la polvere più densa; mai subì un tale affronto ed uno scontro che non era in grado di affrontare.
- Trottel*!-
Ruggì in tedesco, dando una misura secca e terribile alla parola- Ariovisto quasi volò sull’erba e sul campo, ad incalzarlo la risata profonda del compagno, voltandosi e chiedendo ai suoi passi di essere uguali alle proprie speranze. Sperò di falciare l’aria nel silenzio e non trovare sasso ed increspatura sul cammino; pregò di non essere tanto disperato e sovragitato, volle la sua famiglia e la sua casa e la sua sicurezza addirittura sbranarlo e togliere un sapore sconosciuto sulle labbra, il calore al ventre ed il dubbio terribile di essersi lasciato andare ad un fremito.
Scosso, credeva di avere lividi sul busto ed il petto bollente, nei pantaloni un poco più stretti della divisa chiara- l’avrebbe strappata durante il rapido tragitto, mentre falciava il freddo e perdeva l’andatura militare insegnatagli giorni prima, ridotta in briciole per trovare frescura, perché “Dio, un uomo mi ha baciato”.



Don giovanni, donnaiolo, amante del gentil sesso e non solo; ammiratore della beltà e dei piaceri terreni, del soave canto d’una fanciulla in fiore e dal sorriso candido- Lucio ne aveva fatto culto, un intreccio perfetto fra lui ed il bello.
Con i suoi gesti piacioni e naturali catturava l’occhio di giovani visitatrici, che fosse un occhiolino discreto o un baciamano più posato, sprigionava incredibile fascino latino, e cosciente se ne compiaceva.
Stava discorrendo –giust’appunto- con altre tre gonne azzurrine, coi loro fiori nei capelli ed il viso pieno, Lucio cinguettava amabile del più e del meno, il sorriso placido e la divisa buona: un ricciolino dallo sguardo caldo, dal complimento facile, che indocile si aggrappava al balcone ed osservava le sue grazie.
Ne catturò di nuove, sebbene punto dal freddo mattutino, ed ammirò il sole, cheto e tranquillo e rosa nell’aere fiacco.

Notò, sornione, il collo lungo e pallido di una ragazzina a cui già aveva dedicato un bacio volante, ed i capelli bruni e mossi, il vago profumo delle viole ed una pudica timidezza che lo interessavano, e catturarono gli occhi del Lupo sulla piccola figura, tralasciando le altre, che cauta s’avvicinava alle scale.
Scossa da una visita, le spalle fragili sobbalzarono, e l’italiano sorrise.
La giovane fata stringeva timida i fiori, ed era tanto inadatta a quell’austera accademia  che Lucio l’avrebbe portata fuori volentieri, sottobraccio, guardandone gli occhi da cerbiatta e ciò che vi era sotto e sopra.
La vide sporgersi, il mazzolino in mano, ed immediatamente scostarsi: l’occhio catturò il violento contrasto dei colori che portava Ariovisto, furibondo e terribile, correva quasi sul marmo liscio.
Era biondo e bianco e rosso e pure incredibilmente inavvicinabile e selvaggio; scomposto, sfatto, al che Lucio rise bonario alla caduta delle sue difese.
-Buongiorno! E dire che è solo una settimana che ti alleni!- scandì bene le parole, la voce piena e curiosa.
La risposta non arrivò- e forse, il giovane, aumentò ancora il passo, lasciando la giovane attonita e delusa; un piccolo fiore curvo e triste che si volse poi al gaio romano puntellato sulla ringhiera.
-Ignoralo, bella mia, è un barbaro!-




*
Idiota





Ringraziamenti:
Grazie al lettore che giunge in fondo e continua a seguire la fic! E' un piacere sapere che qualcuno può trovare la fic un passatempo, un grande grazie anche a chi piace poco, ma butta un'occhiata. Grazie a chi inserisce fra preferiti e seguite e ricordate, un abbraccio grande a chi recensisce: Cosmopolita (Iberia è ancora da calcolare, penserò bene a come farla! Promesso!), Adeline_Mad, H2o, McBlebber, Aranciata_, GrandeMadreRussia, Il_Signore_di.
Un bacio, alla prossima!

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


Tempo antico 7 Note: Ebben si, ci son voluti sei capitoli per poter introdurre la prima parte. In verità, la motivazione è molto semplice: trattandosi di personaggi molto poco trattati inserti addirittura in un Alternative Universe ho avuto bisogno di presentare al meglio alcune loro caratteristiche e la loro personalità in modo da renderli figure ben definite e a sé stanti.
Ho dovuto fare ricerche particolari per il capitolo- fra la nascita della bambina al luogo in sé che una volta ho anche avuto la fortuna di visitare. Chiunque avesse domande, suggerimenti di qualsiasi tipo, non esiti a commentare o farmelo sapere! Buona lettura :)
Personaggi: Morad Jahandar Farrokhi (Persia)


Inizio parte prima


“Erano giorni in cui avevo il sole negli occhi, amico mio, e non mi dava fastidio.
Camminavo sia nei campi che nella terra e nel fango, sicuro di essere in prima fila; ero troppo sciocco per vederne la retroguardia.
C’eri tu, vero? Negli ultimi posti, a guardare le schiene della truppa intera!” –Lucio, ad un amico.



30 gennaio 1756, Palazzo Reale di Torino, ora settima.

I fiati d’ottone con i tamburi e le mazze appresso, gli sguardi fissi ed i destrieri tutti- s’intonò la marcia savoiarda quel trenta gennaio del 1756 nel cortile del Palazzo Reale di Torino, e gli echi sonori scivolavano forti sulle giovani guarnigioni nella Piazzetta Reale e ancora in Piazza Castello, e sulle tonanti cornici barocche e le scalinate marmoree.
Risuonarono attente le membra dei soldati all’ora delle lodi, in fila e di marcia, sotto i colonnati enormi e potenti e le scale ampie tanto che una gavetta* avrebbe potuto posizionarvi il suo giaciglio. Si intendeva il brusio degli abitanti, dei Savoia destati dal sonno- e d’un vagito acuitosi un’ora prima, la potenza che diveniva uomo ed abbracciava con tenerezza la neonata Principessa Margherita.
Il palazzo fu calcato dagli sguardi attenti dei medici di Francoforte e Parigi, la flotta composta dei più mirabili soldatini dell’Accademia, ordinati e della miglior misura; sciame composto di trafile blu e rosse, pose rigide e petti in fuori fermati dalla fascia onoraria- stella a destra, cavalleria palpitante di fregi e briglie, ornamenti sul pelo strinato dei destrieri e sulle selle dei fantini.
Si alzava il vento dei nuovi giorni, dell’anno incombente e dell’Europa tonante sopra ai festeggiamenti della piccola reale.

Ci si ritrovò sul piazzale pulito dal freddo, rubando pochi minuti al tempo per ridefinire le apparenze ed entrare come giovane perla nel Palazzo- Lucio era tale, che al suo nome chiunque accompagnava un sorriso. Aveva le tasche piene di danari, un appellativo forte e audace, la feroce ambizione scambiata da altri per elegante determinazione; lo dicevano dei suoi calzari, dell’abito da parata, del giovane uomo che nascondeva un ghigno divertito sulla barba bruna e raccoglieva i capelli con le dita e il vento.
La sua presenza era voluta e la cercavano spesso nei convenevoli, e più le preghiere si facevano insistenti e più gli occhi brillavano compiaciuti, in una litania quotidiana e cadente, che sebbene desiderata da molti a lungo andare toglieva il fremito dell’azione.
Per questo Lucio non scostò lo sguardo dal visibile broncio del suo scudiero, e non ignorò la luce flebile risaltare sui capelli biondi, l’aria livida affogare su un viso pallido ma pieno e tenace- suscitava in lui un interesse smodato, tanto da ignorare l’oro laccato delle trombe, che s’infrangeva pretenzioso sull’alba nascente.
-Ariovisto, tu rimani qui.-
Vi fu un veloce scambio di sguardi, uno scontro silente che vide l’occhio animale del tedesco colpire in pieno viso il Lupo, che carezzava molesto la sua brulicante rabbia. Ebbene, quindi!- vi era un motivo per cui Lucio non si soffermò sulla preparazione della parata, il brusio latente dei militari compatibile e fuso alla brina fredda, pungente.
Era preso ad osservare i gesti rigidi e secchi dell’altro, l’interesse ingenuo per una città che aveva mai visto e rifiutava- Ariovisto era uno spreco, poiché sotto a quel suo mitologico incidere e il dolce moto che prendeva Lucio al guardarlo, teneva stretto un groviglio di radici e spine, rovi, felci, bacche scarlatte e muschio, e ancora risentimento e rabbia ed un rozzo pensare.
Inconciliabile, terribile, un funesto fauno curioso di sapere il perché della propria ignoranza, ma stretto ed avvinghiato alle fronde scure della propria casa.
-Sei arrabbiato? E dire che credevo di aver fatto un favore a sceglierti, così avresti vist-… no, no, la stella sulla destra. Dei, come sei barbaro!- il bruno scostò le mani di Ariovisto dal petto, volendosi poi vestire solo della stizza furente dell’amico.
“Si stuzzica la bestia per vederne i limiti!”- e non vi era interazione più stimolante e acuta del rivoltare un animo tanto complesso come quello del biondo; fatto solo d’inceppi e incompletezza, impulsività e onore.
-Preparati da solo, allora.- strinò la voce del più giovane, lasciando cadere la propria pazienza e i fregi che ancora mancavano al cavaliere, ritirandosi scuro nella propria naturale ribellione ad una qualsiasi forma di costrizione, serrò le labbra ed i lineamenti chiari divennero più marcati.
Eppure Lucio apriva le fauci in un sorriso ampio, dedito a concentrarsi sui piccoli cambiamenti che il biondo si concedeva di far trasparire: pareva una pianta su un terreno incredibilmente fertile, quale la pubertà, che cambia e snoda viso e corpo, gioca sulle abitudini ed espressioni e sui vergognosi desideri dell’inconscio e sorride sul fisico che muta e s’allunga da un giorno con l’altro.
-È così difficile farsi obbedire da te.- la voce si piegò in un tono non più ironico e fece capolino alle orecchie di Ariovisto con uno sbuffo contrariato, subito confuso dal fruscio di fasce e cotone; Lucio si appuntò il proprio grado sulle spalle, collaudando la divisa con tocchi esperti e leggeri, osservandosi e rimirandosi e piacendosi. Così fasciato avvertì i muscoli tirare sulla stoffa e raddrizzò le spalle ampie sino a ergersi in tutta la sua modesta imperiosità, specchiandosi volutamente nel marmo liscio del piazzale ed abbracciando spavaldo l’umidità.
Lucio porta corone fatte di gigli, e crescono e s’inerpicano voluttuose a partir dai suoi piedi: nella piazza v’era una grande bolgia di soldati e divise moventi ed oscillanti, tanto confuse che si sarebbe faticato solo a riconoscere uno dei loro visi- eppure il romano rifletteva naturalmente la luce quasi fosse la natura stessa a volerlo. Ciò feriva gli occhi di chiunque, disgustando però quelli più irosi di Ariovisto, che avrebbero preferito più verde e semplicità.
Il lupo osservò l’altro spostar il capo, piccato, malconcio, più umile, incartato in abiti modesti- poiché ciò e non altro si meritava.
-Oh!- ed il bruno rovinò finalmente il suo umore placido, schioccando le dita e la lingua sul palato, curvando le sopracciglia e sembrando solo più ferino e pericoloso, perché credendosi grande già si dimenticava d’esser giovane, -Vento d’oriente!-
S’accorse poi di sibilare, inconsciamente serpentino e così intrappolato nella sua lunaticità, accompagnando l’attenzione del più giovane verso dei colori più accesi, ed il turchese e il porpora, quel rosso pompeiano che in verità non gli apparteneva- un cavaliere dalle fronde ampie e scure, che nei capelli neri aveva in sé riflesse tutte le ombre del selciato, alcuni rimasugli di queste sulla pelle e negl’occhi; “forse, dico io, forse fin nell’anima”, il rosso rovente sul petto e sul capo e teneva il mento ancor più alto di come faceva Lucio d’abitudine.
Persino il sole pallido parve rabbrividire quando capì che il suo ruolo era già stato preso e trafugato dagli ori e rossi strabordanti e ruggenti, quasi a voler lasciar segni caldi e vistosi nell’aere- come la rabbia divertita di Lucio, fuoco e focolare tenuto abilmente a bada. Sperò, il baldanzoso condottiero, d’ignorare al meglio l’infausta presenza che gli era capitata sotto gli occhi; più che capelli corvini dell’orientale, Lucio vedeva un fitto nido di corvi gracchianti e strinanti e fastidiosi.
Li sentì urlare nei timpani, e quasi si tappò un orecchio nel vedere la genuina curiosità di Ariovisto per movenze a sguardi tanto diversi quanto sconosciuti, un’enorme stizza!, malcoperta da un bieco sdrammatizzare.
“Il ricordo sovviene da un soggetto”, mugugnò Lucio, “ed il soggetto è pessimo”- poiché la memoria, come un velo, lieve andò a posarsi sul ricordo d’una vocetta stridula ed un fare irriverente, un insolito modo di impugnare l’elsa e l’imbottirsi di oro e risate sguaiate.  Ricordò i capricci dell’orientale e gli schiaffi sonori dati alla sua servitù, quel segnare sgraziatamente con una piccola daga croci incredibilmente storte sulla pelle di chi lui stesso considerava tale.
-Lo conosci?-
Ascoltare Ariovisto era udire una melodia piatta e rara ed incredibilmente rozza talvolta, eppure Lucio fu quasi grato di averne percepito il tono duro e le fattezze spaccate e nordiche. Avrebbe voluto portar alle labbra quell’interesse tanto contadino ed ignorante, impossibile da non notare da chi ne è superiore- eppure apprezzato perché semplice e umano, un fiore fresco nel biondo che non avesse petali di ghiaccio.
La situazione lo divertiva, la stizza di Lucio gli piaceva, e fu un piacere acuto e soddisfatto accorgersene in tempo, cogliere il bagliore fugace negli occhi chiari che non era riflesso del sole ma l’ombra di una statica smorfia.
E mentre s’intonarono i rulli e le piccole percussioni- che grezze fecero cadere i suoni a terra e sul pavimentato liscio, Lucio si portò una mano al grosso naso, imitando subito dopo una vocetta falsa e macabramente bianca, la caricatura d’un povero eunuco.
-Sono Morad dei Farrokhi!- cinguettò stridulo, librando la mano destra verso il lontano persiano, -E Jahandar è il mio secondo nome! Si direbbe “possessore del mondo”, nella tua sciocca lingua!-
Il lupo aveva mosso un passo verso lo sguardo vivo di Ariovisto, colto dall’immortale enfasi della satira e muovendosi a tal punto da far sussultare i ricci scuri, scompigliati e belli ora sul viso.
Intrigante, scoprire che il piccolo ribelle era di compagnia solo nel silenzio, ed esotico come i pavoni orientali e le serpi di Cartagine si faceva rimirare solo se non si sentiva minacciato; al che l’occhio fugace di Lucio colse quattro ciclamini perlati sulla fibbia della divisa del compagno. Riposavano candidi, nascosti dal petto e dalla puerile vergogna del biondo giovane.
-Amico mio! Qualcuno ti ha regalato dei fiori!-
Dal momento che si ruppe quel breve incanto complice, il sorriso di Lucio si fece immenso e vivido quanto la rabbia e il silenzio di Ariovisto, che preferì osservar l’inizio della parata ed i cavalli di marcia e la luce ora ridondante sui volti freddi dei soldati; si chiuse nell’imbarazzo e lo trasformò in fastidio, lo decorò sfiorando inerme il bocciolo tenero di un ciclamino.


30 gennaio 1756, osteria “Il baccante”sul decumano Nord, ora sesta della sera

-Per gli dei, c’era una folla fuori dal Palazzo Reale, e le donne che si alzavano sulle punte per vedere, comari e galline che ho dovuto fermare la marcia del mio cavallo, pensa…-
Lucio parlava e la sua voce fluiva giocosa sui ritmi di un fiume, raccontava di visioni e aneddoti che lui solo conosceva e modulava i toni e scatenava un riso biascicato-lui stesso comunicava con le mani, le braccia tese nell’imitazione di quel tal generale e si rifrangevano e mischiavano col ribollire di voci umide e impastate della viva osteria.
Vi era odore di malto, odore di birra, sulle bocche il sorriso sguaiato dell’operaio nero di fuliggine e del carpentiere che sapeva dello stesso legno consumato di inferiate e tavoli- egli odorava di alcool bagnato e cibo e chiacchiere  e canzonacce oscene, era scheggiato ma ridente come chi vi batteva sopra i pugni e i gomiti doloranti.
-Merda per Signori.- esalò poi Connell, rosso anche sulle gote, un vulcano gorgogliante e scoppiettante solo d’obiezioni e birra scura, dal sorriso storto e slabbrato come una malmessa cicatrice. Le mani vagavano inquiete dalla divisa di Ariovisto al braccio di Lucio agli occhi divertiti e sorridenti di Iago, che smise di intonare la sua limpida voce su ambigue inflessioni francesi, ridendo e volendo di nuovo birra dorata ad infangargli il viso e malmenargli la gola, in uno sciabordio di odori acuti e non sempre piacevoli.
-Allora, Ariovisto!- il bruno aveva sulle gote il languore del vino, e ad esso si lasciava andare come fosse il migliore fra gli amanti, d’una relazione passionale e incredibilmente duratura. –Mi dici di chi erano quei benedetti fiori?- si sporse ora, volendo osservare il viso giovane che cambiava e mutava e veniva piacevolmente toccato dalla schiuma della birra. Era livido, rabbioso, lievemente rosato e bello.
-Appunto, fanciullina. Preferisci me o le attenzioni di Liina?- Connell ridacchiò provocatore, ed ascoltarlo era come sentir due lamiere stridere fra loro fragorosamente, scoordinate. Guidato da una rozzeria comune es estremamente spontanea, battè una mano sulla coscia del giovane tedesco- e questo sussultò irato, violato nel suo intimo personale, scuotendo i capelli biondi e raccolti e sentendoli scottare sul viso a causa dello sguardo di Lucio. Ed era intenso e forte ed eloquente, e pareva saper più di ciò che dava ad intendere, ed era interessato e famelico e compassionevole- lo detestò, poiché gli ricordava di nuovo d’esser troppo giovane, d’aver ancora l’edera delle sue terre avvinghiata ai piedi consumati da impulsività e rabbia.
Ciò non gli impedì di esplicitare il proprio sentimento col medio della mano sinistra, tenendo l’altra ancorata alla birra e alle risa belle e giocose del francese.
Erano giovani tutti, ed affamati mangiavano i giorni che li avrebbero portati alla ribalta- avevano la mente lontana, dei cuori vibranti e spauriti, un coraggio neonato che li vedeva ruggire senza paura innanzi al divenire. Lo prendevano, agguantavano con ambe le mani, ed erano un fuoco vivo, una risata sguaiata ed un silenzio trattenuto, si ergevano sull’orizzonte con mani tremanti di voglia e sfida cercando di superarne il confine a grandi falcate.
Erano giovani tutti, ed accoglievano ballando la vita.

-A me, che tornerò in Franscia dai miei fratelli!- Iago alzò il boccale ondeggiando, i capelli sparati agli umori di birre e suoni. Brillavano gli occhi alle fiaccole luminose, ed erano come magneti.
-Uscirò da questo schifo.- si aggiunse la mano del rosso irlandese, sciupato ma fiducioso, tendeva il braccio ancor più in alto.
-A me! Che avrò il mondo fra le mie mani!- la voce di Lucio era una melodia forte, e fece tremare sguardi e boccali; ed erano tre, sulla testa dei soldati.
Ariovisto non parlò, ma sorrise. Allungò anche il suo di boccale, lo schiantò contro quello degli altri, e sentì poi bagnato sul braccio e sul volto e l’odore intimo del branco, il turbine forte di un coro, la freschezza del domani.



*inteso come militare in tirocinio, soggetto alla condivisione di letti in caserma.









Avviso
: la pubblicazione non potrà essere frequente per un paio di mesi, dato che sarò impegnata con gli esami di maturità. Ciò non vuol dire che bloccherò completamente la stesura di capitoli! Quando i primi di luglio sarà tutto finito potrò finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Altro avviso: cercherò di inserire personaggi già accennati o stilati. Nonostante io MUOIA dalla voglia di creare di sana pianta un Iberia, ad esempio, cercherò di non forare troppo anche per non disorientare troppo il lettore. Ovviamente, ciò significa che entreranno in scena altri personaggi, nel corso della storia. In questo caso, sono sempre ben accetti consigli, dato che cerco di far inquadrare caratteri, abitudini, aspirazioni anche alle vicende storiche e tipiche di un certo popolo.

Ringraziamenti:
Grazie infinite a chiunque abbia letto, visitato, abbia dato supporto e pareri, perché ho apprezzato infinitamente ciascun intervento! Grazie mille, davvero, siete ossigeno per le mie parole.
Un grazie speciale a chi ha lasciato la sua gentilissima opinione:
Cosmopolita, Il_Signore_di, Aranciata_, McBlebber, Adeline_Mad, H2o, GrandeMadreRussia.

Alla prossima, Blacket.

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Capitolo 8
*** Capitolo ottavo ***


Tempo antico otto Note: Finalmente son tornata! Spero di poter aggiornare presto questa fanfic, a cui in verità sono molto legata- ringrazio immensamente voi lettori che mi date sostegno e idee sempre gradite, siete la mia benzina!
Un paio di precisazioni riguardo al capitolo:
-Ho inventato di sana pianta la via e il luogo in cui risiede uno dei luoghi citati, mea culpa! Nel caso qualche torinese leggesse, non me ne voglia male.
-La bicicletta nel 1758 non è ancora stata inventata. Ciò di cui parla Lucio, è però un prototipo abbastanza strano- ne giravano alcuni abbastanza bizzarri in europa, al tempo.
-La storia è situata due anni dopo il capitolo precedente. In fondo al capitolo inserirò un elenco di nomi e età, giusto per non far perdere il lettore.
Vi ringrazio ancora per la pazienza, spero il capitolo possa piacere! Buona lettura :)





"Ho in mente quella grande e vecchia quercia, e ne ho rammarico, in verità. Sarebbe bello rivederne i colori, sebbene i miei occhi siano troppo stanchi e vecchi per poterla apprezzare come facevi tu- o sbaglio?" -Lucio, ad un amico.





Giugno 1758, appartamenti di Lucio, ora quinta

Sapeva di miele e pane, delle lussureggianti colline morbide di muschi mediterranei- in lei v’era il tiepido vapore del mare, i flutti giocosi ad adombrare le spalle brune, l’odore di donna dalla voce d’un guerriero tonante.
Olympia raccoglieva l’oro dal cielo, dalla luce e dalla bruma estiva, lo posava sugli abiti tanto leggeri che davano dispiacere e singulto e solo sapevano invitare l’immaginazione a fare del suo corpo una morbida statua d’abbracciare; e ciò nonostante il cipiglio irsuto d’un rammarico, un problema che vagava fra le gote sorridenti e le palpebre stanche di ragionare di alte cose con asini cocciuti e imprevedibili, famelici come le belve delle foreste.
- Morad aspetta di vederti cadere, Lucio.-
Ed il sole entrò con un sussurro, nell’indiscrezione rosea dell’alba che già andava ad importunare il cielo placido e vivo- e così fece una risata vorace e piena, giovane ed antica come il mondo, dura perché sgattaiolata fuori dalle labbra di un uomo che già da tempo aveva abbandonato le spoglie di un ragazzino.
Lucio aveva vent’anni, era bello ed era forte, era pragmatico e sorridente ed era duro e dolce come i datteri di cui si sporcava le mani grezze. Olympia lo sentì vicino, ad ingarbugliarsi le gambe con le coperte, a cercare la fenditura che avrebbe permesso alla sua mano bollente di raggiungere i seni di lei, coperti solo da caldo e aria secca.
-Quando verrà sarò pronto.- dita calde sui fianchi, bollenti, andarono a viziare la pelle profumata con un’insistenza che nascondeva solo voglie, - Non ho paura, lo sai.-
Le mani si mossero in placide carezze, e a seguire tutta la mole di Lucio andò incontro alle forme sinuose della sua Dea, sfiorate dai raggi nascenti e dall’odore prorompente del grano maturo che sulle sue labbra diveniva il miele delle regine- morbido e sfuggente, da saggiare con prepotenza.
Questa volta fu lei a ridere, e Lucio avvertì gli spasimi sprezzanti dal suo ventre, dove i polpastrelli iniziavano a bruciar le resistenze della bella greca, girovagando cheti e predatori sull’ombelico. Il lupo sorrideva sornione, le labbra distese e gli occhi pieni d’aspettativa feroce, ma ora buoni e docili se accarezzati dai ricci bruni- non vi era altro che sicurezza e sensuale compiacimento nei suoi gesti, che potevano solo esser fuoco e passione ridente se fra le sue mani aveva i fianchi morbidi di una donna.
- Dei, quel tipo non vuole solo umiliarti!, e non sei tanto sciocco da non averlo notato.- sospirò poi, frustrata di non essere ascoltata: il verbo era potente ed era primo e ultimo, ed il romano ne ignorava l’importanza con gesti frivoli delle mani ed un sorriso- e quella mattina lo fece con le sua labbra, posandole sul petto di lei ed accompagnando il suo muoversi con una carezza.
Lucio era bollente e pareva esser fatto di fuoco e lava, energia pura a librarsi sotto la pelle bronzea, attorno al sorriso trionfante- sapeva d’oro e delle colline romane, sapeva di vino e polvere, e nulla sarebbe stato più splendente poiché si ergeva sull’assoluta convinzione di stringere fra le fauci la vittoria.
Un trionfo che marcia su sussurri voluttuosi che conoscono solo parole di vergogna e lussuria, e che son rauchi e caldi sulla pelle di Olympia, ora che il Lupo la intrappola nella sua rete di braccia e mani, si strofina nudo su di lei e volutamente la provoca con malizia; “le donne parlano e creano dispiaceri”, il romano mugugna, poiché vorrebbe sentire solo il proprio nome decorato di ansiti coraggiosamente mal trattenuti, magari un risolino frivolo e leggero ad increspare l’aria.
-Chi ti guarderà le spalle, Lucio? Ariovisto non è più sotto il tuo comando, da…mesi, oramai-..-
Venne interrotto un sospiro, provocato dai ricci scuri di lui sul collo, sui seni morbidi, sul ventre. La donna rivide il volto del giovane tedesco farsi più duro con gli anni, rimanere diafano e imprendibile quanto selvaggio e accartocciato in un grugno d’insofferenza.
- Ariovisto è un bell’uomo.-
“Stupido, sciocco!- sciocco d’un romano”, abituato a vedere il proprio ego dominare la negatività degli occhi altrui, che ignorava parole tanto vere quanto sgradite e che addirittura non si vogliono sentire. Lucio viaggiava col vento e brama di vedere lontano, la disgrazia lo toccava ma non arriva a ferirlo, la sfortuna cercava di pestare i suoi piedi inutilmente: forse era proprio quella sua esagerata confidenza nella propria determinazione a renderlo tanto forte.
Eppure Olympia ricordò con un sorriso i fiori che Lucio le regalava –non mancava di rose rosse, di tenere margherite, dell’odore pieno e dolce del glicine che le intrecciava fra i capelli-, ricordò i suoi gesti semplici e curiosi, il modo in cui accarezzava il grano quando insisteva per portarla nelle bionde campagne a farsi baciare dal sole.
Osservò le mani del cadetto strette sui fianchi, gli occhi felini puntati su di lei, la lingua impudica a giocare col suo ombelico.
Fremette e gli sorrise, perché nulla del genere poteva essere nascosto ad un condottiero simile, che stava ancora cercando il proprio stendardo e la propria vittoria, sicuro già d’averla. Non v’era più resistenza, remore, parole indesiderate o dubbio. Il romano la guidava sapendo di averne il permesso, felice di oscurare il volto contratto del persiano dal suo immaginario.
- Ma è così giovane.- Olympia si distese sorniona come i suoi gatti dalle zampe chiare, stringendo le cosce attorno all’intruso che la pizzicava prima ancora che il sole si svegliasse con prontezza, -Ariovisto è così giovane, con quei suoi diciassette anni…-
Non sentì Lucio sorridere, ma le labbra si distesero sulla sua pelle.
-Ed è un uomo.-
Non avrebbe avuto tempo nemmeno per ribattere, perché il Lupo si faceva insistente e il pensiero di doverlo fermare le stringeva il cuore. Rimangiò la propria preoccupazione in un ansito, perché era donna e forte e audace, e un avviso era tutto ciò che della sua mente poteva ancora donare.
Le sarebbe piaciuto potersi dire infastidita, far si che il suo sguardo fosse duro e saggio, ma le mani di Lucio parevano ancora più risentite di lei; cercavano le sue forme, straziavano le curve, s’insinuavano fra le sue ombre in modo sfacciato ed eccitante. La smussavano come l’artista fa sulla scultura, le dita premevano sui nervi rilassati e venivano seguiti dai mugugni profondi che Lucio lasciava scivolare, come a dirle di non parlare più, che non v’era bisogno o necessità di farlo.
Il romano si espresse con estrema chiarezza bruciando le sue labbra con le proprie, che erano felici e sapevano dove muoversi, saggiavano sapori dolci e intrappolavano ansiti- così naturalmente, che pareva essere solito ad assuefarsi di quei baci da tutta una vita.
Eppure nel fronteggiarsi con la verità più pericolosa, Olympia realizzò diverse volte, dopo e prima dei loro amplessi, che se il soldato ben conosceva la sensibilità della sua pelle altrettanto bene si era fatto spazio con forza ed un sorriso fra i suoi pensieri.
Lucio conosceva la sua mente e la osservava come avrebbe fatto ammirando le statue della sua patria, e ciò la faceva sentire irata e spoglia della sua privata interiorità.
“Anche se”, e la greca lo pensò schiudendo le labbra in un gemito, “forse, non mi è mai servita”.

Si calcavano i contorni di un 1758 che traboccava caldo e sudore; sfiorava le campagne il sole, sfiorava le guglie della gotica città Torinese, carezzava con troppa forza i san pietrini del luogo.
L’Accademia torceva il naso ed annaspava il suo sorriso- stupidamente, attribuì gli umori appiccicosi dell’afa all’anomalo bruciore che il persiano Morad Jahandar dei Farrokhi aveva portato infra le scale marmoree e le grandi navate. Che fossero state le sue vesti, di così vistosi colori? L’occhio acuto, brillante e nero; forse fu il suo sorriso, la sua ambizione e il suo astio verso un ben conosciuto Lupo a portare i placidi venti di Scirocco?

Giugno 1758, in parallelo alla via Alighieri, ora sedicesima

Raggiunse il campetto di corsa, calpestando le spighe e l’erbacce e i soffioni, tenendo stretta a sé la bicicletta nera, stanca più di lui ma ben funzionante.
Lucio era veloce, poiché conosceva la stradina di terra battuta che portava ad un piccolo campetto- là, dietro l’accademia reale, dove si alzava la polvere e una quercia tanto bella da esser scambiata per una compagna. Aveva grandi fronde robuste, foglie dorate e fresche, portava ai suoi piedi gobbe di radici tanto grandi da non riuscir a sprofondare con dovizia, che divenivano panchine e ritrovi per i soldatini in pausa.
Nel campo dietro a via Alighieri vi era il suono delle campanule fiorite, il riverbero lontano di una piccola fontanella e l’aspra terra battuta ornata di verde e placidi germogli maturi- un melo sostava selvaggio e solitario, offrendo frutti teneri e farinosi, ma gratuiti e ben graditi.
Il romano afferrò una piccola mela giallognola, strappandola alla madre e mordendola con gusto.  Si bagnò le labbra col succo dolce, pensando che le felci stavano soffrendo il calore e l’erba si sforzava per essere fresca- la natura gli ricordò Ariovisto e il suo continuo spogliarsi della divisa a causa di un sole malandrino e troppo acuto. Sperò di trovare l’amico appuntato su un ramo, il suo aspetto silvano a decorare la grande quercia, il fare pensoso volto al nulla.
La sua compagnia gli era cara poiché quell’essere suscitava interesse, e ai suoi occhi era ancora un animale posto in cattività, che ancora ringhiava e si ribellava al padrone , mostrava i denti non per abitudine ma per il prepotente orgoglio che gli impediva di adattarsi come sarebbe dovuto essere.
Eppure Lucio continuava a far leva sul suo potere di smussarlo- insistenza che portò a pochi risultati, sebbene consistenti: ora Ariovisto lo insultava e provocava in più lingue, col tempo si era fatto non meno selvaggio ma più composto.
Il moro sorrise, vedendo il tedesco seduto ai fianchi delle radici, cercando la solitudine a lui tanto cara. Non era raro che sparisse d’un tratto, lasciando a volte preoccupazione in quel forte ragazzone, Diederik, che spesso lo osservava risentito del malumore che si portano a dietro i fratelli.
-Ariovisto!-
La risposta fu un alzare gli occhi al cielo, un velo d’impazienza a velare gli occhi verdi che si facevano sempre più vicino, “ed è vero, è vero”, Lucio aumenta il passo, tiene stretto il manubrio della bici con la mano destra, “non è ancora in grado di controllarsi”.
-Questo è un marchingegno un po’ complicato, non guardarlo a questa maniera, mica ti mangia!- l’italiano sorrise, accovacciandosi vicino al compagno, attento a non sfiorare il moschetto da tiratore. Il giovane biondo aveva da tempo dimostrato di avere in sé la temibile mira della dea Diana, e l’accademia ne aveva approfittato, offrendogli con un sorriso la possibilità di divenire ancora più acuto e terribile- lo chiamavano Falco sorridendo e ghignando, ma senza osar mettersi sulla sua traiettoria.
- Non mi piace essere disturbato.-
Ariovisto gli regalò uno sguardo torvo, prima di afferrare la mela dalle mani di Lucio per morderla con forza, accigliandosi progressivamente. Era fiorito d’un botto, divenendo alto e slanciato, acuendo i propri lineamenti, facendo divenire la propria espressione ancora più brusca ma sempre bella perché legata ad un aspetto piacente e irraggiungibile.
Il biondo guerriero veniva dalle foreste, e Lucio non poteva immaginare per lui una madre che fosse umana; forse una ninfa, magari una Valchiria, addirittura la Schwartzwald stessa!, con le sue fronde brune e fitte.
- Non disturbo, sono venuto a prenderti. Suvvia, non atteggiarti a me con quell’aria da brigante.-
Lucio gli scostò i capelli, si prese la libertà di sfiorare e tastare il labbro viola e traumefatto, forse desiderando di scatenare in lui una qualsiasi umana reazione. –Ti alleni ancora così tanto? Ti stanchi solo di ascoltarmi mentre cerco di insegnarti qualcosa, a quanto vedo.-
Alla provocazione seguì una risata, a sua volta interrotta da una pesante gomitata nelle costole del romano, che mugugnò e inspirò l’aria calda, borbottando qualcosa a proposito della barbarie incivile che pareva animare Ariovisto.
-Dei, come sei barbaro! Cerca di non far così al nostro prossimo turno!- tossì e si alzò,  incontrando i pochi raggi luminosi che fendevano le foglie e saggiandoli come fossero vino- il romano tratteneva un’energia spaventosa e distruttiva, che inutilmente cercava di distillare infastidendo chi gli gironzolava attorno; energia che sublimava con la buona tavola, con il combattimento e il sesso.
-Vicino ad un bordello.- precisò, sfiorandosi la barba curata coi polpastrelli, mostrando lo sguardo audace di un predatore e un compiacimento che avrebbe causato vergogna in chiunque. Lucio combatteva anche a letto, non era difficile immaginarlo. Dominava, mordeva e grugniva ansiti atti solo a far sciogliere il proprio avversario fra le mani- sentire i muri della pudicizia cedere, il proprio nome invocato come quello di un dio.
- Non so come tu faccia ad essere così insensibile verso le donne, Ariovisto.- ed istintivamente gli occhi si soffermarono sulle labbra, sì belle ma contorte in una smorfia e rosse e viola d’un livido ben evidente. Il biondo non le schiuse, chiudendo il proprio pensiero fra i rami boschivi della sua mente, forse segregandolo col muschio umido del nord.
-Ti piacciono gli uomini?- Lucio borbottò tranquillo, non vedendo mali nella sua curiosità, che era ora limpida e acqua zampillante che tossiva poco più in là- non v’era malizia sul volto, poiché concentrato a stirare le pieghe della divisa blu e non sullo spintone che gli rivolse l’amico, che aveva cara la propria intimità quanto lui i vini rossi della Puglia.
-Sei sfacciato.- la voce di Ariovisto era un contrasto duro e dolce, un addio definitivo alla sua fanciullezza.
-E tu un incivile! Staresti meglio a vivere nelle foreste con i lupi, bifolco!-
Seguirono pochi passi, colpi e mugugni, una risata e ringhi sommessi che fecero da eco ai loro passi, al ticchettare di quell’arnese che Lucio portava sottobraccio.
Si chiudevano le parole in quel campetto ora vuoto, che ora ospitava solo briciole di una compagnia: l’eco del parlottare di Lucio, le risposte secche di Ariovisto, e nulla più che un torsolo di mela lanciato distrattamente nei pressi della quercia.

Giugno 1758, vicolo di guardia, ora ventunesima

Fu complicato schiarire la vista sugli edifici storti, sui mattoni sporchi quanto il vociare confuso degli avventori di ogni tipo; chi cercava il sorriso rincuorante del vino, chi il calore che poteva offrire una prostituta dai tratti esotici.
L’aria era densa e malfatta, era storta e alcolica, eppur Iago non voleva farci caso: fischiettava una melodia malata, alla quale ogni tanto lasciava aggiungere qualche parola tanto grezza che pareva stonare con la perfetta musicalità della sua voce.
Il tragitto era stato intervallato da un gorgogliare sommesso, di come Connell salutò Ariovisto nominandolo fanciullina e proponendosi da fargli d’accompagnatore, e di come Ariovisto contrattaccasse con ruggiti pari a quelli delle più violente fiere. Il discorso degenerò quando Lucio vide le belle forme di una donna, e contemporaneamente il vulcano irlandese chiese all’amico biondo quanto volesse per un servizietto- senza alcuna remora, per carità.
Infine, dopo un gancio destro andato a segno, il romano si fece guidare nei suoi giudizi dalla vocalità di Iago, soffermandosi sulla diaspora forzata della scorta, sui tendaggi indaco e porpora che vide fluttuare all’entrata della casa di piacere.
Pensò a Morad, pensò che non sarebbe stato piacevole trovarlo in certi atteggiamenti- eppure il cuore di Lucio esplose adrenalinico, non vide più donne ma un’eccitante occasione d’un inconsueta lotta; strinse lo spadino, i pugni, brillò della sua solita alterigia sperando quasi di poter afferrare con forza e superiorità i capelli corvini del persiano, invitandolo allo scontro.
Era tanto preso nella gloriosa elucubrazione, che non badò più alla sgangherata melodia che uno dei suoi compagni gli offriva, tantomeno alle lamentele di Connell circa il dolore al naso- ignorò stupidamente e inconsapevolmente il frastornante battito del cuore di Ariovisto.
Egli guardava rapito un voluttuoso vortice di capelli rossi e lentiggini chiare; osservava una donna preso dolcemente dal desiderio di sfiorarla e di carpirne il nome- divenne rosso quando incontrò gli occhi verdi, il fisico asciutto, le movenze che per lui erano tali a quelle di una fata.
Ariovisto ricordò Liina, dalle guance rosee e dalla fiera timidezza, e non vide nulla di lei nel portamento fiero della fiammeggiante sconosciuta che risvegliava pericolosamente i fuochi della sua pubertà- e lo faceva con la folta chioma vulcanica, le pupille dilatate e curiose  e tanto luminose da ricordare la volta e le stelle.
Fu solo quando la gola divenne secca e i pantaloni troppo stretti, che preferì annegare gli occhi spaventati nel cielo estivo.








Piccolo glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano
Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia
Iago (21 anni): Gallia
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato da Kochei che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia fic.
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia


Ringrazio di cuore chiunque continui a seguire la vicenda, invitando a lasciare un commentino. Nel caso aveste richieste, dubbi, idee per altri personaggi, sono prontissima ad ascoltare con piacere!
Un grazie speciale a: Cosmopolita, McBlebber, Aranciata_, Adeline Mad, GrandeMadreRussia, H2o, Il_Signore_di che mi lasciano sempre un parere.
Alla prossima (spero il più presto possibile), Blacket.

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Capitolo 9
*** Capitolo nono ***


Tempo antico 9 Note: Finalmente riesco ad aggiornare! In questi mesi ho stravolto la trama, fatto la maturità, iniziato un qualcosa di nuovo e diversi altri progetti che potete trovare sul profilo. Spero mi perdonerete per il ritardo, difficilmente abbandonerei una Fiction a cui sono tanto legata. In cambio, lasciatemi un commentino- è essenziale per me sapere cosa sto combinando, capire se ciò che scrivo può dare qualcosa a qualcuno e se vale la pena continuare.
Passando al capitolo: abbiamo due comparse già preannunciate nelle note precedenti, Arinne (Antica Britannia) e Isabél (Iberia). Le vedremo più spesso in seguito, e mi piacerebbe sapere che pensate di personaggi come loro, oltre al ruolo che ricopriranno poi. Vi ringrazio di cuore, buona lettura!



“Le carezze non son mai state tanto dure e soffocanti, amico mio.
Là –per Dio!- ho lasciato il mio cuore giovane, bestemmie, lacrime! Avresti dovuto prender la tua parte, erano anche per te.” –Lucio, ad un amico.



Giugno 1758, osteria delle quattro stagioni, ora ventunesima

L’osteria delle quattro stagioni ospitava l’anima del farabutto, del brutto e della polvere, della birra e del vento di qualsiasi contrada e altra cittadina; s’incastrava a Torino per puro caso, e non v’era uno solo degli avventori che si sentisse fra la morsa dei Savoia se sedeva sui tavoli beccati e unti- di birra e di alcool, delle curve delle belle donne giunte dai quattro angoli della terra, a ricordare che di bello v’era tutto o ovunque si cercasse.
Il locale portava un paio d’occhi ciechi, le finestre dai vetri colorati di oro e porpora e verde che lasciavano solo le ombre a passare pretenziose da fuori; giusto s’intravedevano i corsetti stretti di chi serviva piaceri, lo slancio dello stanco avventuriero che posava mano sul proprio boccale. Era l’udito ad ingannare il luogo, l’olfatto a renderlo quasi appetibile a chiunque avesse abbastanza fame da ignorare i latrati e le canzonacce che solevano cantarsi solo in compagnia. Chi avrebbe teso l’orecchio sarebbe andato incontro al sussurro d’un paio di amici, al gemito degli amanti e le porte delle camere che andavano chiudendosi frettolose, timbri di voce mai normali e atoni, un gorgogliare che non conosceva accento udibile altrove.
Lucio s’incamminò all’entrata tenendosi la casacca da caserma, scintillante e armata e bellissima; gli pareva sentire il profumo delle vesti Persiane che Morad si portava appresso e il suo cantare di imprese mirabolanti- il romano ghignò perché furioso, felice e adrenalinico di trasformare le proprie mani in un paio di pugni che non erano tanto concordi con la giustizia. Connell seguì il viso di Isabél, che diceva di essere catalana e aveva la pelle bruna, ed era semplice tanto quanto bastava per dimenticare che Ariovisto con lui non ci voleva stare- il giovane fauno era stato rapito per la prima volta in vita sua, e il cuore adolescente tamburellava sconvolto da simili voglie. Avrebbe conosciuto il suo desiderio come Arinne, e non avrebbe più staccato gli occhi dalle lunghe trecce rosse che si sarebbe prodigata a sciogliere solo per vedere il volto pallido fiorire in una maschera di spavento e meraviglia. Il giovane guerriero biondo ignorava sé e i ciottoli irregolari- l’osservava tenendo il fiato in una saccoccia, estraneo allo sguardo curioso di Lucio, che era un lupo ed era furbo, e aveva capito più di quello che avrebbe dovuto.
Iago non smise di cantare. Fu un bene, poiché ai tre stupidi omini che si lasciavano prendere dalle emozioni e dalla vita tutto parve di norma e regola- e fino a che l’accento francese dell’amico avrebbe scandito il pulsare di mani, cuore e pantaloni, tutto andava bene. Attorcigliava le erre e univa gli accenti di parole diverse, andando a creare una sinfonia che non era invero di nessuna lingua, ed era comunque perfetta: Iago andava là per dar voce al meraviglioso dono del canto che Dio aveva voluto che usasse in più modi, per aver sue donne, soldi o il semplice ed elementare cardine filosofico di quattro disgraziati senza alcuna percezione del mondo reale.

Si abbassava l’occhio del sole sulle guglie della Torino magica e oscura, gotica e puntuta e ancor più potente se buia- piena degli anfratti ove chinavano il capo i fantasmi e le streghe. Giocava a ridere illuminata dal sole rabbioso, baciando con imbarazzo il cielo ancora roseo, pallido e viola dopo un sospiro che fece da corona all’orizzonte caldo dell’estate. V’erano le lucciole a cantare del sole, fluttuavano fuori dagli schemi di qualsiasi casa o strada. Ronzavano pigre sperando –un poco, quel che basta- di somigliare alle sorelle stelle.
Vi fu un sussulto conciso di un’atmosfera già ubriaca, e parve più il salto della dama in una giga- la musica non si smorzò, e persino l’ometto tremulo che cerca Gin scadente e nulla più ha visto le rose dell'Accademia appuntate alle divise dei soldatini, lo spadino di guardia e la rocchetta al fianco; uno di loro ha la baionetta, ed è rosso ed enorme, chiama pericolo e le terre della bassa Irlanda, dove si dormiva più in una birreria che con la moglie.
V’erano foglie d’alloro secche appese alle travi –zuppe di freddo e nebbia e di alcool-, e Iago le scelse per cantare ed intonare una vecchia canzone dal parlato tanto verde da sembrare un epilogo e un commiato adatto alle piantine secche che l’osservavano tanto curiose. S’iniziò strimpellando una pianola sfatta e fumata quanto gli avventori, placida e abbastanza fortunata da incontrare ogni tanto qualcuno che coraggiosamente inforcava i tasti -ancora bianchi!-, e iniziava a dare l’accompagnamento ai ventri contorsi in risa, al parlare sguaiato e sputato fra i denti che dava sostegno al luogo- forse più dell’oro e dell’argento. “Oh yew tell me Sean O’Farrell, tell me why you hurry so!”, un ibrido di suoni e cantilene aggrappate con forza sovrumana alla langue d’Oil delle sue terre; ma nessuno fece caso, poiché la voce del giovane francese dai capelli di paglia avrebbe fatto piangere Angeli e Santi.
Un paio d’operai andarono incontro al suo fare, e con loro un ragazzo tinto dei più focosi colori dell’Asia. Portava la porpora violenta ed il ciano ancor più denso a decorare il petto, l’oro sibillino ad incrociare i polsi fini e le spalle, la fronte colorata dal catrame soffocante dei capelli e la mano tesa a mezz’aria, quasi si aspettasse d’essere ancora baciata. Non chinava la testa, Morad, né per guardarsi il petto o i piedi, e così lasciava che altri facessero per lui- quale Lucio, che osservava munito da un ghignare spaventoso la scimitarra, che odorava di vecchio e dell’antico, e forse aveva qualcosa da insegnare pure alla vecchia via del Decumano Sud.
- Speravo d’incontrare il tuo harem, Morad!- il lupo si muoveva sugli stessi assi dell’asiatico, che erano sconnessi e fitti di genti che amavano guardar in alto, ed era elegante e spartano in più modi, portava in gola il dono dell’orazione pungente ed era afflitto da una determinazione votata al successo e al dio Saturno, tanto era pesante. Raccolse i ricci fra le dita tozze, lasciando lo sguardo a sibilare sul volto sbarbato di quel ragazzetto che voleva farsi vedere e conoscere come i vecchi sultani d’oriente. Era nero e curvo, e Lucio subiva il puzzo del narghilè.
-Voglio vederti cadere, Lucio.-
“Serpente, vipera!”, e andò disegnandosi una calma esagitata sul volto bruno, il riso forte sotto la barba scura, schiuso a mezzaluna, -Voglio la tua testa sul banco del tribunale dell’Accademia.-
Il corvo alzò il mento e le labbra morbide, stirando le proprie ali nere e lo sguardo vivo d’un demone- e questa era l’opinione di Lucio, che mai aveva avuto modo di vedere con obiettività il proprio mondo, tanto da disegnarsi i propri problemi da sé. Suonarono parole aspre e di malaugurio, e vennero percepite come accartocciate e nauseabonde dall’orecchio di chiunque e dell’altrui, che curioso si posava sui vestiti di giovanotti tanto inconsueti e spavaldi. Un vecchio manovale, un avvoltoio piegato sul proprio ventre, pensò fossero pure tanto stupidi oltre che belli, e senza saperlo concordò con una dozzina d’operai che avevano mani così sporche da non poterle più lavare.
- Voglio il nome della tua casa fuori da Torino.- sistemandosi la giubba insolita e coperta di veli, iniziò a somigliare in maniera raccapricciante ai volti presi nei Giardini Pensili, al caldo afoso d’una terra ricca che portava ancora sul palato, insaporita dal miele più di altre. S’accese tardi l’occhio scurissimo e furbo, perché il furore e lo scoppiettare che vide in Lucio provocò in lui un singulto; tanto era vivo come multiforme, dalla potenza vigorosa dei titani di cui si narrava a partire dalle fredde terre di Sif. Furono sguainate le fauci bianche del lupo, torte in un’espressività poco ingannevole: s’avvicinò sino a potergli mangiare il volto, i capelli, accartocciare con una zampata le ali nere e unte di qualsivoglia vizio.
- Sei un cane, Morad.- “Un cane!, un vile che volta la schiena alla mia spada!”, lo pensò con la spontaneità di chi si crede nel giusto, gonfiandosi del tremore furibondo del fuoco e dell’anima ululante della tempesta.

-Fanciullina, piantala di strisciare il culo a questa maniera.- Connell parlava col suono che faceva la macina schiacciando il grano, irrobustiva la voce con termini tanto schietti da far bruciare le orecchie; non era suo compito dar vanto d’eleganza, e spesso s’impegnava nel cantare come avrebbe fatto una lamiera scossa e percossa dagli spadoni, borbottando un’invidiabile varietà di parlato grezzo e occasionale. Muggiva e barriva al posto di parlare come si conveniva, e andava giustificandosi delle attenzioni mancate di Ariovisto “per chi, poi? Una prostituta da capelli rossi?”. Teneva il muso animale accartocciato sotto le sopracciglia spesse, la barba smozzicata veniva turbata dalle mani scure e gentili di Isabél- buona e cara e bella, dal viso dolce e i palmi grezzi, abbracciata dai gesti bruschi di un soldatino irlandese. Veniva dall’anziana Toledo, e non v’era nessuno che aveva occhi tanto misericordiosi e lucidi come i suoi, ed i sospiri tanto profondi e sporchi di farina. Ascoltava con un orecchio Connell, che conosceva da tempo in tutti i modi più intimi possibili, e con l’altro il cantare allegro di Iago che era giunto sulle note basse latrando la parola moon più volte, prendendosi gli applausi gravosamente secchi di pochi intenditori già alticci.
- Arinne è molto bella.- ballava e teneva con rigore il fisico minuto, era una fiamma piroettante.
- Io ho lo stesso colore dei suoi capelli…- la mano della volpe andò a salutare le curve morbide di lei, tastò Isabél con irriverenza ed una sana frustrazione –come andava pensando-, facendo balbettare le dita sui nastri del corsetto, che non voleva saperne di allentarsi quel poco che avrebbe voluto lui. –… Eppure non mi guarda così!- batté poi un palmo sulle cosce, pizzicandosi come il visino selvatico di Arinne pizzicava le gote tirate di Ariovisto, che era impettito e seduto davanti al compagno ma che sentiva e vedeva solo quello che il cuore d’un ragazzetto comanda. Aveva il fiato e polmoni gravidi d’un interesse genuinamente appena fiorito, pieno delle labbra di una piccola folletta rossa che non si schiudevano mai, del saltellare rapido attorno ai tavoli- era sfuggente, fatta di vento!
Anche il guerriero boccheggia se preso alla sprovvista, ed è costretto ad abbandonare l’arma ed il cuore alla cintola, subendo ciò che c’è di bello e brutto al mondo; la giovane gli passò attorno, osservò il volto contratto schiantato sul tavolo dell’omino biondo, che seppur bello era più simile a quello di martire messo in croce. Non le piacque, quell’uomo non la guardava.
- Cara, fermati, fermati un attimo!-
Isabél lasciava i desideri di Connell realzzarsi sulla vita, sul petto, sull’imminente scelta di una camera, e teneva per sé un piccolo riguardo capriccioso ma docile- prese lo sguardo di Arinne e indicò Ariovisto, il broncio scolpito agli angoli delle labbra fini, fra le sopracciglia corrotte dalla preoccupazione e prese in giro dal riso faticoso dell’amico, divertito dall’improbabilità del caso e da un nastrino d’un busto che oramai aveva ceduto. "Fermati a dar compagnia!”, e Ariovisto non la sentì bene, perché Iago aveva rinforzato la gola e la fata rossa aveva gli occhi d’una cerva e le lentiggini sul musetto fine, era una triste ribelle che meritava il capo altrui rispettosamente chino. Così fece il tedesco, prima del secondo giro di valzer.
Furono le undici, e l’osteria prese fiato di nuovo, in una sera presa dal balbettare allegro d’un vulcano: dopo un tonfo arrivò il ringhiare di Lucio, che parlava di madri, figli, Dei e porci tutti assieme, in un’ouverture di rabbia che fece scappare un mezzo applauso a Connell, forzato a staccar le mani dall’ispanica.
Si spaventò Iago, riattaccando a suonare come meglio poteva; lo fece Arinne dopo aver visto per bene il biondo fattosi freccia e balzare in piedi scostandosi dal tavolo, arraffando con decisione i rantoli che facevano a loro modo la musica del luogo- ed erano un poco italiani, latini e volgari, animali quanto bastava.
Arrivò alle scale, senza accorgersi che le lunghe trecce d’una donna lo seguivano curiose e feline. Queste lasciarono i baci caldi di Isabél, le risa che facevano da risacca, il modulare molle di un francese che ancora si chiedeva che poteva farci una tastierina simile alle quattro stagioni- ella aveva visto e viaggiato molto più di lui, conoscendo il mare tempestoso e saggiando le spezie d’oriente!, ma questo Iago non poteva certo saperlo.

Il piano superiore era modesto, perché non doveva certo soddisfare i piaceri d’un esteta. Curava con sguardo silenzioso sei letti e qualche finestra di meno, i piedini frettolosi delle prostitute e i compagni che le sceglievano. Contava poca fedele mobilia, metà della quale era riversa nel corridoio, morente e beccata e spaccata in più punti, trafitta dal fare volgare di due sciocche bestie.
- Lucio?!- la voce di Ariovisto non tradiva la sua gioventù in alcun modo, era ancora limpida e aveva tempo per corrompersi di ogni cosa, e tintinnò grave sugli ansiti di un palese scontrarsi. Moderò la camminata, si fece la lince che con stupore veniva seguita al campo, poco prima che venisse nominata cecchino d’insaziabile bravura.
-Perché non mi guardi?- un cinguettare deciso e sporco  gli gonfiò le orecchie rosse, andando ad infrangersi sulle membra ora rigide e colte dallo spavento; Arinne più che guardarlo annusava il suo profumo, ed era scattante e nervosamente selvaggia nel suo fare veloce, distante dall’odore di campo di Liina e lo sguardo placido che gli volgeva.
- Non ho tempo.-
- Perché non mi guardi?- tirò la divisa, il naso orgogliosamente portato all’insù le carezzava il broncio, di certo non nato per una rissa, quanto dall’incomprensione testarda e offesa che si trascinava a dietro: Arinne era rossa, rossa la sua anima furiosa piegata dalla disgrazia. Aveva tenuto la testa china fra le gambe di più d’un uomo accogliendo spinte accompagnate solo da un paio di povere lacrime, eppure restava fiera e feroce e indomita.
- Sei bella.- lo sguardo smaliziato di Ariovisto le fece piacere, poiché da tempo aveva smesso di definirsi donna, tanto che le trecce vaporose e lunghe avevano iniziato ad irritarla, -ma non ti voglio così. Non sei il mio premio.-
Se la bella fata d’Albione si tendeva commossa, Ariovisto accennò al suo cuore di morire un paio di volte, rinfrancato da una limpidezza che avrebbe potuto gestire solo a quella maniera- che de facto, aveva logica tutta sua. Non trovò male in un agire tanto franco, nemmeno quando la ragazza lo prese vicino scacciando il pensiero del compagno, suggerendogli che no, “nemmeno tu sei mio cliente”, baciandolo e spingendolo verso una camera, le manine forti a premere sul petto gonfio di sorpresa. Lo ebbe fra le braccia preso da un panico languido- le fece tenerezza, e l’avrebbe lasciato respirare per conto suo se non fosse stato bello come quegli dei di cui aveva sentito da piccina, e ancora dubitava fossero veri o meno.
Si sentì stringere i capelli, e il biondo cedette alla pressione sulle sue labbra, che erano gentili e timide non solo per l’intuibile inesperienza. Il disegno dei due andò complicandosi, e le mani non ebbero più pudore di andare dove preferivano, lo sguardo offuscato dall’intrecciarsi stentato di un abbraccio infinitamente semplice, posato sui fianchi e stretto ai seni di lei- che non ignorava nulla di Venere e dell’amore, e colse il sospiro del giovane quando gli slacciò i pantaloni bianchi della divisa, “non esiste altrimenti!”. Li abbassò con uno strattone che pareva esser stato chiesto, e si prese tutti i gemiti dovuti- accolse i morsi, le domande soffocate e spezzate, un tremolio dolce e sincero.
Ariovisto non si accorse che Arinne rimase vestita, e null’altro poteva far a riguardo: teneva la testa forzata verso l’alto, le labbra morbide bisbigliavano sul suo ventre e solo gli occhi della giovane fata incontravano di tanto in tanto le stelle curiose, impegnata com’era a lasciare che Ariovisto facesse uscire dalle proprie labbra quello che a lei rimaneva bloccato in gola.
Il secondo piano ospitava le carezze date con una sciabola e botte che si schiudevano in un bacio- poté giurare, suo malgrado, che i sospiri e ansiti, i bisbigli che udì impicciandosi, avevan tutti la stessa tremenda natura.

Accadde poi un fatto curioso, di cui si san vicende e fini solo a metà, come è lecito in questi casi- lo dicevano le sei stanze della seconda pianta, che avevano assistito ad un movimento interessante, una musica piacevole ed un epilogo che sapeva di fumo e carbone.
Videro Lucio, che aveva il volto pesto e riusciva ad essere comunque bello perché vincente e arrabbiato, lasciava le botte a macinare e il sangue bagnare le labbra livide; chiamava Ariovisto, canticchiava e borbottava per sé, quando una piccola dama rossa uscì picchiettando prima una porta, poi saltellando com’era suo solito fare. La seguì l’occhio, sorridendo come un gattone placido.
-Ariovisto!-
Stava sullo stipite, e pareva fosse reduce dalla medesima lotta- lo dicevano i capelli scompigliati, il volto che pareva voler scoppiare e prendere aria, la divisa maltrattata e le braghe ancora da tirar a posto come dovuto. Divenne una statua scossa e percossa, e a Lucio piacque.
- Mi abbandoni per una donna?- ridente gli fu vicino, e lo trovò bello. Non aspettò risposta, poiché era inutile farlo: l’amico pareva aver visto la morte, la vita e tutti i suoi miracoli assieme, stravolto dal cuore e dalla passione per la prima volta in vita sua. Il romano ebbe paura quando si sporse a baciarlo, e non tentò di eludersi poi, credendo di non aver desiderato un gesto tanto pacato e sfuggevole- un reagire tanto inconsueto avrebbe voluto tenerlo per qualche sua fantasticheria, eppure le labbra ancora dolenti forzavano quelle dell’altro in un bacio, le mani trattennero i capelli biondi per poco.
Non guardò più i suoi occhi verdi e malinconici. Anche la sua abile voce da oratore si fece secca.
- Mettiti a posto e vieni giù.-
Il conquistatore prende ciò che piace, e non si rammarica del proprio sdegno- non è avvezzo alla limpidezza, e chiama umiliazione la propria paura. Avrebbero concordato a favore degli spettatori critici e precisi, non sapendo poi a chi dare l’onore di un forte applauso alla stupidità, magari lasciando spazio per un giubilo sincero al sentimento che portavano nel petto i giovani, alla rabbia e all’amore- allo spavento, al dubbio e al sospiro che una mente fresca poteva dare- e alla musica di Iago!, che, per Dio, è tutto fuorché male.


Glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano

Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia 
Iago (21 anni): Gallia 
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato da Kochei che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia fic. 
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia 
Arinne (17 anni): Antica Britannia
Isabél (22 anni): Iberia

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