Not the sunshine

di Shiren
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Salem ***
Capitolo 2: *** Loro esistono ***
Capitolo 3: *** Misteri ***
Capitolo 4: *** Falla nel piano ***
Capitolo 5: *** Thinking Of ***
Capitolo 6: *** La stanza bianca ***
Capitolo 7: *** Dolore e Paura ***



Capitolo 1
*** Salem ***


PRIMO CAPITOLO

SALEM



Io sono una ragazza normale. Ok, bugia, sono decisamente strana. I miei compagni di scuola mi guardano strano, gli insegnanti non mi capiscono e i miei genitori, nonostante farebbero per me qualunque cosa, hanno difficoltà nell’inquadrarmi, per loro infatti, qualunque mia risposta a questioni di media o grande importanza li lascia spiazzati, come è capitato ad esempio proprio ieri.
Ero nella mia stanza, seduta sul letto in una posizione non esattamente comoda, a leggere un libro (motivo per il quale non davo segni di scomodità), quando sentii mia madre chiamare il mio nome a gran voce.
-Eh- le urlai di rimando.
-Scendi, dobbiamo dirti una cosa-
Sbuffai e chiusi il libro dopo aver inserito un segnalibro a pagina 58. Andai dai miei genitori che si trovavano in salotto seduti sui divani in pelle nera.
-Siediti Ginny-
-No sto in piedi-. Non mi piacciono queste cose, parla e basta, perché tante scene, tu parli io ascolto e chiuso il discorso.
Si guardarono perplessi, poi mio padre prese la parola.
-Sai che con il mio lavoro…insomma, vi avevo avvisato che sarebbe potuto succedere prima o poi. Dobbiamo trasferirci altrove…andare via da Montrose.-
Annuii. Non potevo essere più felice. Odiavo Montrose per tanti motivi, i ragazzi stupidi, le casette tutte uguali, ma soprattutto la monotonia.
-Bene e dove andiamo?- chiesi come se mi avessero appena chiesto se preferivo il gusto cioccolato o vaniglia.
E ancora una volta mi guardarono perplessi.
-Non ti importa se ce ne andiamo? Non ti importa dei tuoi amici?-
-Io non ho amici mamma- risposi ora con una nota irritata e quasi arrabbiata nella voce. –Facciamola breve. Dove andiamo, quando partiamo, spero il più presto possibile, e a che ora…così mi preparo-
Mio padre mi guardò con intensità, abbasso per un momento lo sguardo poi tornò a fissarmi e mi rispose:
-Andiamo a Salem, nell’Oregon. Partiamo fra due giorni, mattina presto-
-La città papà? Ripeti la città perfavore-
-Salem-
Avevo capito giusto. Salem.
In quei due giorni fui particolarmente felice, il che fece bene anche ai miei genitori che, nel vedermi un po’ più attiva e contenta del solito, sembravano più allegri perfino loro. Preparai tutto, misi nelle valige i miei vestiti, i miei libri, parlai con la preside per il trasferimento…guardavo con disprezzo quella città che mi stava così stretta, che mi faceva essere così infelice. Volevo cambiare aria e finalmente ne ebbi l’occasione.


Sull’aereo principalmente dormii, ma pensai anche alla mia nuova vita, alla nuova città, alle persone. Chissà se avrebbe cambiato la mia vita o se ancora una volta sarei rimasta delusa dopo essermi fatta illusioni inutili.
Arrivammo a Salem, davanti alla nostra nuova casa, con un taxi e aiutai mio padre a portare i bagagli nell’ingresso, mentre mia madre pagava l’autista.
L’abitazione era nella normalità. Aveva un soggiorno abbastanza spazioso, una cucina luminosa e le camere erano abbastanza accoglienti.
L’indomani sarei andata nella nuova scuola quindi mangiammo e andammo a dormire presto per non svegliarci poco riposati. Tuttavia la sveglia del giorno dopo mi infastidì ugualmente e mi preparai con gli occhi chiusi come se stessi ancora dormendo. Salii in macchina e arrivammo davanti a scuola mentre gli studenti abituali attraversavano il cortile della scuola per entrare; io salutai rapidamente papà e mi avviai anch’io attraverso il cortile alberato per poi entrare nell’edificio dipinto di grigio; mentre camminavo alzai lo sguardo e vidi le grigie nuvole cariche di pioggia incombere minacciose, come un mostro che si avvicina alla sua preda.
Scossi la testa per pensare ad altro e, dopo essere passata dalla preside per i nuovi orari scolastici, entrai nell’aula di storia. I banchi erano in file da due e l’insegnante, il professor McGregor, un uomo non molto alto con capelli e barba di un grigio chiaro e occhiali tondi con la montatura dorata, che sembrava provenire da un'altra epoca, mi piazzò in prima fila, da sola. Quando la campanella suonò più tardi per segnalarci l’ora di pranzo, mi avviai con tutti gli altri studenti verso la mensa e fu lì, in fila con il vassoio in mano, che abbi una strana sensazione. Il mio sguardo si posò su quattro ragazzi che s stavano sedendo in quel momento e mi sembrò che il tempo si stesse fermando, camminavano come al rallentatore, sinuosi, eleganti, irreali. Li fissavo senza accorgermene, tuttavia loro non si erano accorti di nulla, mentre, purtroppo, il ragazzo che mi ante cedeva mi diede una spinta.
-Hey! Ti muovi? Non so tu ma io ho fame!- mi riscossi e posando il vassoio senza aver preso nulla, mi spostai dalla fila senza tuttavia togliere lo sguardo da quel gruppo. Fermai una ragazza che ad occhio e croce sembrò più piccola di me e a bassissima voce le chiesi:
-Chi sono quei quattro ragazzi vicino alla finestra? Quelli là in fondo?-
Lei mi guardò perplessa, poi seguì le mie indicazioni e infine assunse un’espressione strana.
-Sono i fratelli Chadwick- rispose con voce flebile.
Annuii senza sapere il perché.
-Stanne alla larga- mi disse alla fine prima di scomparire nella massa degli altri studenti.





Questa è per darvi un'idea dei personaggi come li ho immaginati: ^^ Image Hosted by ImageShack.us

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Capitolo 2
*** Loro esistono ***


SECONDO CAPITOLO

LORO ESISTONO


Il giorno dopo tornai a scuola, preparandomi per la lezione che meno amavo: matematica. Entrai in classe con le guance arrossate per il freddo, nonostante fossi coperta il più possibile e la temperatura non fosse delle peggiori. Tuttavia ero estremamente freddolosa e preferivo coprirmi quanto possibile piuttosto che provare un brividino di freddo.
L’insegnante era un uomo di media statura, un po’ in carne e con occhiali piuttosto spessi che si posavano sul naso a patata. I capelli brizzolati gli coprivano la testa in parte, dato che aveva solo qualche ciuffo sopra le orecchie e sulla nuca.
Mi fece accomodare in uno dei banchi vuoti a metà dell’aula e io mi sedetti vicino ad un ragazzo dall’aria stranamente familiare…strano perché ero nuova di quel posto e – a meno che qualcuno della mia vecchia scuola si fosse trasferito guarda caso nella mia stessa città – non avrei dovuto trovare nessuna faccia “familiare”.
Decisi sul momento di non pensarci, poteva essere semplicemente un’impressione sbagliata, tuttavia mi ritrovai a gettargli occhiate furtive per il resto della lezione che come al solito trovavo noiosa, oltre che snervante.
Fu un sollievo quando suonò la campana e mi alzai raccogliendo la mia roba per andare alla lezione di storia, ma quando uscii dall’aula vidi il mio “compagno di banco” raggiungere altri tre ragazzi e allora capii. Erano i Chadwick. Quelli che la ragazzina del giorno prima mi aveva detto di evitare. Ma perché poi?
Ero confusa. Parecchio confusa. In fondo a guardarli – e lo feci circospetta – sembravano ragazzi normali, tutti piuttosto alti, in forma, uno sembrava più giovane…insomma, fratelli uniti, il che era una buona cosa…se non fosse stato per il fatto che tutti sembravano evitarli. Ma non semplicemente non parlandogli o guardandoli con occhi di rimprovero. No, non li guardavano proprio, era come se non esistessero.
Decisamente senza parole raggiunsi l’aula di storia e per le ore successive presi appunti distrattamente, perdendomi fra una data e l’altra, fra un discorso e quello successivo, perché continuavo a pensare a quegli strani ragazzi. O meglio, gli strani a me non parevano loro, anzi, erano tutti gli altri ragazzi che mi sembravano poco normali. Sbuffai e raggiunsi la mensa una volta che anche l’ultima lezione prima di pranzo fu terminata.
Stavolta presi qualcosa da mangiare e con il vassoio in mano giravo per i tavoli – sentendomi un imbecille – alla ricerca di un posto libero e mi capitò di passare proprio a qualche metro da loro. Senza volerlo gli rivolsi uno sguardo, come dire, forse un po’ troppo intenso, o comunque curioso e uno di loro, con i capelli corti e scuri, mi strizzò l’occhio. L’altro il più giovane gli diede una gomitata e sul viso gli comparve un’espressione indecifrabile.
Distolsi immediatamente lo sguardo e per fortuna trovai un tavolo quasi vuoto, abbastanza lontano perché non vedessero la mia espressione imbarazzata. Mi sedetti cercando di non disturbare i ragazzi che sedevano un paio di posti più in là e cominciai a mangiare.
Passarono i minuti e mentre mangiavo pensavo li guardavo. Mi vergognavo di me stessa. Stavo spiando degli sconosciuti. Non so perché fossi così attirata da loro, forse perché erano emarginati, forse perché davano quest’idea di unione che mi colpiva. Non lo so, non seppi spiegarmelo. Mentre riflettevo su queste idiozie, una voce mi chiamò e questa voce veniva da qualche posto più in là del mio.
-Ginevra?- ripetè.
Mi voltai e vidi una ragazza dal viso gentile, strano che qualcuno mi stesse simpatico di primo impatto…ero un tipo difficile.
Sorrisi.
-Vuoi venire qui con noi?- osservai gli altri. Erano due ragazze, una con i capelli biondi e la puzza sotto il naso e l’altra con il viso a cuore, le lentiggini e i capelli legati stretti in uno chignon. C’erano anche altri due ragazzi, ma al momento non me ne occupai. Annuii e ringraziai di cuore. Ero sincera, nessuno mi aveva invitato a mangiare insieme. Beh un po’ li capivo…
Scoprii chiacchierando che la ragazza che mi aveva per prima rivolto la parola si chiamava Meredith, quella bionda Hanna e la ragazza con le lentiggini Monica. I due ragazzi si presentarono velocemente, intenti com’erano a parlare di una partita di basket che si sarebbe svolta quel finesettimana. John e David. Durante il pranzo azzardai una domanda a Meredith, mentre Monica e Hanna erano impegnate a ripassare per un compito di inglese.
-Ehm…Meredith…se posso chiederti una cosa…-
-Dimmi pure- mi rispose a quella che non era una domanda ma voleva esserlo.
Io le sorrisi e tentai.
-I…- abbassai la voce -…fratelli Chadwick…cos’hanno di strano? Voglio dire perché tutti li evitano accuratamente?-
Lei fece una smorfia poi mi rispose.
-Non so dirti il motivo esatto per cui la gente li evita. A dire la verità non sembra che loro “soffrano” di questo, anzi, sono loro i primi a non avere contatto con gli altri- si interruppe un attimo per fare un sospiro –Comunque sono un po’ strani. Sempre insieme, appiccicati…insomma fratelli va bene, ma…sembrano una di quelle bande di bulletti, la differenza è che loro non infastidiscono nessuno. Non fanno i bulli. Ma alla gente sembrano un po’ inquietanti, ecco-.
-Mmm- mormorai, non avendo nulla da dire. –Non frequentano tutti lo stesso anno però…almeno così mi è parso di notare-
Mi guardò sospettosa, poi sembrò decidere che la mia era soltanto curiosità per il fatto che fossi nuova.
-Quello con i capelli corti scuri- disse e io pensai “quello che mi fatto l’occhiolino” –si chiama Henry e frequenta il quarto anno insieme ad Adam, quello con il giubbotto beige e i capelli castano chiaro. Mentre il più piccolo è William, si vede frequenta il secondo anno, che è quello di fianco a Henry con i capelli biondi. Infine c’è Arthur – lo riconobbi –che è il ragazzo che ti era seduto accanto stamattina a matematica. Da quel che so io poi…William Chadwick è l’unico vero figlio della signora Chadwick, gli altri dovrebbero essere tutti adottati, bah…- il suo tono era strano, ma non ci feci caso e la ringraziai distrattamente.
Fiera di tutte quelle informazioni e carica di un’adrenalina che non avevo mai provato prima, gettai i rifiuti nella spazzatura e seguii Meredith e gli altri alla lezione successiva.

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Capitolo 3
*** Misteri ***


TERZO CAPITOLO

MISTERI


Passai una settimana intera nella nuova città e nella nuova scuola sopravvivendo a quell’apparente monotonia. Non perché la città fosse tediosa, anzi, rispetto a Montrose era piuttosto attiva. Ma non era successo niente.
Niente di niente.
Sono sempre stata fatta così. Mi aspetto che accada qualcosa che rompa il silenzio che cambi le cose…Non guerre o cose simili, ma un evento strano, misterioso, in cui avrei potuto immedesimarmi.
Purtroppo però, questa ‘ricerca del mistero’ più mi impegnava, più rimanevo delusa.
I fratelli Chadwick erano gli unici che destavano il mio interesse, rispetto agli altri studenti che si comportavano normalmente, come tutti d’altra parte. Tuttavia avevo cominciato ad abituarmi anche a quegli strani ragazzi cominciando a pensare che fossero solo degli emarginati, come ero stata io, e nulla più.
Quella sera decisi di fare due passi per la città, giusto per dare un’occhiata ai negozi o per trovare qualche ristorante in cui valesse la pena andare a mangiare una volta ogni tanto, ma, mentre passeggiavo persa nei miei pensieri, mi ritrovai di fronte ad una cancellata piuttosto maestosa che era stata lasciata aperta abbastanza perché ci passassero due persone piuttosto grosse. Pensai fosse il parco cittadino, dunque, senza indugio mi sdraiai a pancia in su, con le braccia dietro la nuca e le ginocchia piegate ad osservare le stelle. La fortuna era dalla mia parte, infatti il cielo era stranamente sereno e riuscii a riconoscere qualche semplice costellazione e qualche stella importante o molto luminosa.
Mi era sempre piaciuto farlo. Forse perché non erano in molti quelli che di sera, invece di uscire con gli amici, andavano al parco a guardare le stelle…Forse gli innamorati. Ma era talmente raro avere una giornata che non fosse coperta da nubi cariche di pioggia, che era diventata quasi una mia prerogativa. Inoltre era il mio unico raro svago a Montrose, la lugubre e odiosa Montrose.
Passai in quella posizione parecchio tempo, tant’è che quando mi alzai ero indolenzita e in alcuni punti lievemente dolorante e fu in quel momento, mentre pensavo ai miei piccoli dolorini e a stirare i punti più indolenziti, che sentii un rumore.
Lieve, appena accennato. Mi girai verso la direzione da cui proveniva e rimasi quasi completamente immobile, eccetto il movimento del petto e le palpebre che si chiudevano sugli occhi, in attesa di udire qualcos’altro.
Pochi attimi più tardi risentii lo stesso rumore e a quel punto capii che era una specie di scricchiolio.
Scattai in una posizione strana, a metà fra il tentativo di fuga e la volontà di sapere. Ero tra due fuochi, ma non mi fu difficile scegliere.
Era quella.
La mia occasione.
L’occasione per trovarmi in una situazione diversa, il culmine della mia ricerca.
E nello stesso momento in cui capii che strada scegliere, compresi il grande errore che avevo commesso fino a quel momento.
Avevo atteso.
Atteso instancabilmente, aspettandomi sempre chissà cosa senza mai un momento di cedimento, mai un momento in cui non avessi pensato alla mia ossessione.
Fino a quella sera.
Mi ero rilassata, avevo ‘abbassato la guardia’, avevo semplicemente pensato ad altro. Poteva sembrare un pensiero stupido, ma era esattamente ciò che mi diceva la mia mente.
Camminai verso il buio del parco, verso la fonte di quel rumore, con le orecchie tese, in ascolto.
Arrivai di fronte a un porticato in pietra, l’arco era decorato, ma non capii le figure a causa della poca luce. Osservai meglio e vidi che vi erano dei gradini che portavano ad una specie di corridoio e io camminai, sempre lentamente, finché sull’ultimo gradino notai la fioca luce di una candela.
Continuai a camminare imperterrita e scoprii che in fondo a quel corridoio stretto e poco illuminato, c’era una porta e i rumore stridulo che avevo sentito prima proveniva probabilmente da quella porta.
Mi avvicinai cautamente portando una mano in avanti finché non riuscii a toccare la superficie della porta arrugginita. Non seppi analizzare di che materiale fosse e di certo non me ne preoccupai in quel momento, era l’ultima cosa che volevo sapere. Più che altro ero indecisa su cosa fare. Quello era probabilmente il luogo più inquietante del parco e se c’era qualcuno – io ne ero convinta – non sarebbe stato esattamente amichevole nei miei confronti, tuttavia desideravo ardentemente varcare quella soglia.
Non so poi cosa successe con precisione, forse indugiai troppo. Sta di fatto che udii una voce dietro di me, una voce cristallina e femminile che fece rabbrividire e, tremante, mi voltai. Vidi due donne, alte e vestite entrambe con vestiti di pelle nera molto aderenti dai quali non era difficile indovinare le forme. Quella che si trovava più vicina aveva i capelli neri che le arrivavano appena alle spalle e aveva gli occhi di un inquietante viola che tendeva più al rosso. La seconda aveva gli stessi occhi, ma capelli rossi fluenti e liberi. Mi fecero paura ancora prima che aprissero bocca.
La donna dai capelli mori mi si avvicinò ancor di più fino a sfiorarmi le spalle con quelle mani candide e affusolate.
-Come ti chiami bambina?- mi sussurrò all’orecchio con una voce un po’ divertita e un po’ curiosa.
Io per tutta risposta aprii un paio di volte la bocca per poi richiuderla senza emettere alcun suono.
Con la coda dell’occhio la vidi incrociare lo sguardo con la sua amica e sogghignare, per poi tornare a guardarmi un secondo dopo.
Allungò la mano e mi sfiorò una guancia e sentii la sua pelle fredda contro le mie guance, mentre avvicinava il viso e mi annusò i capelli.
Guardò di nuovo la donna fulva e stavolta sorrise in modo diverso, riuscii a percepirlo anche senza vederla in volto.
-Tiah…vieni qui, tesoro, la piccola è deliziosa…- disse con una voce all’apparenza melodiosa, ma che a me fece venire la pelle d’oca più di quanto non l’avessi già.
L’altra donna si avvicinò e mi prese per un braccio, senza farmi male, ma con una presa salda che faceva intendere perfettamente la mia incapacità di darmela a gambe.
In quel momento fummo sbalzate via di un metro perché qualcuno aprì la porta cigolante dietro di noi ed io con il corpo pietrificato dalla paura riuscii ad alzare lo sguardo per osservare il mio salvatore.
Ci misi un po’ a mettere a fuoco il suo viso. Era Adam Chadwick e quando mi vide affiancata da quelle due donne spalancò gli occhi e urlò una sola parola: -Lasciatela!-
Loro obbedirono immediatamente, ma con evidente disappunto.
-Cosa pensavate di fare?!- urlò di nuovo Adam.
-Non sei tentato? Non hai voglia di…- la bruna tacque ad un gesto del ragazzo.
-Taci. Non deve sentire una parola di più-
In quel momento uscì una donna bellissima, dai capelli ramati e gli occhi di un acceso blu, della stessa tonalità di Adam.
-Elizabeth io…- sussurrò lui come si volesse scusare.
-Portala a casa. E…Adam?-
-Si, madre?-
-Fai ciò che sai-
Egli annuì e prendendomi per un braccio mi condusse fuori di lì, attraversammo il parco finchè non arrivammo davanti ad un auto nera e lucida. Salii e dopo che fummo partiti cominciai con le domande.
-Chi erano?-
Non rispose.
-Perché hanno detto che ero deliziosa? Che significa?-
Trasalì leggermente a quella domanda, ma tacque di nuovo.
-Perché non mi rispondi? Adam?-
Chiuse gli occhi, poi, sempre tenendoli sulla strada aprì bocca.
-Non pronunciare il mio nome-
Lo disse in un modo talmente sconcertante che non riuscii più a dire nient’altro. Rimasi in silenzio, mentre trattenevo le lacrime e mi stropicciavo la giacca con le mani, infine riconobbi il vialetto della mia nuova casa.
Adam si fermò e io feci per allungare la mano verso la maniglia, prima di uscire però mi voltai a guardarlo e incrociai il suo sguardo intenso per un po’. Infine mi girai ed uscii dall’auto.




Adam



Perchè continua a farmi domande? E’ assillante accidenti.
Cos’ha nella testa questa ragazza si può sapere? Nessuno si avvicina al nostro giardino, alla nostra casa, a noi…E lei…
E’ venuta proprio nel momento meno indicato per un umano.
-Perché non mi rispondi? Adam?-
Chiudo gli occhi. Non deve pronunciare il mio nome. Non dovrebbe neanche conoscerlo.
-Non pronunciare il mio nome-
Ho un tono che farebbe paura e metterebbe a tacere anche uno come me e quasi me ne pento di averle risposto in quel mondo. In fondo potrebbe essere solo curiosa, solo una stupida liceale curiosa.
Arriviamo davanti a casa sua, io premo sul freno delicatamente e fermo la macchina. La ragazza sta per uscire, poi si volta e mi guarda.
Non so cosa mi faccia tenere lo sguardo fisso nei suoi occhi in questo modo, ma non riesco a staccarmi…Non mi importa niente di lei, per quanto mi riguarda a livello personale, potevo anche lasciarla a Tiah e Vivièn.
Poi quel momento cessa così com’è venuto e io torno a guardare dinanzi a me. Ascolto ogni rumore, dalle chiavi nella serratura, all’interruttore della luce che scatta, ai passi sulle scala, leggeri e probabilmente silenziosi per gli umani, infine la chiusura di una porta.
Mi allontano e parcheggio l’auto in modo che non possa vederla se si affacciasse alla finestra.
Aspetto un po’ camminando furtivo vicino alla casa, finché non odo un terzo pesante respiro e capisco che anche la ragazza si era addormentata. Salgo fino alla sua camera, e delicatamente le tocco un braccio, quel tanto che bastava per non rischiare di svegliarla. Chiudo gli occhi e mi concentro.
L’indomani non avrebbe ricordato nulla né di quella sera, né di me.

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Capitolo 4
*** Falla nel piano ***


QUARTO CAPITOLO

FALLA NEL PIANO


La mattina il mio sonno fu disturbato come al solito dalla sveglia che imperterrita continuava a suonare, mentre io, altamente infastidita e parecchio assonnata, mi coprivo la testa e le orecchie con il cuscino azzurro nel tentativo di rifugiarmi da quel rumore orrendo.
L’esperimento però, non ebbe successo e fui costretta ad alzarmi malvolentieri dal letto caldo per andare in bagno a farmi una bella doccia. Ne uscii che ero un po’ più sveglia, per fortuna, e riuscii ad aprire gli occhi, come minimo per scegliermi i vestiti da indossare; mentre aprivo l’armadio per cercare un paio di comodi jeans – cercavo i miei preferiti, morbidi e con il risvolto in fondo – ripensai al sogno che avevo fatto quella notte. Non erano immagini nitide, ma solo colori: un intenso blu, quasi elettrico e un rosso violaceo non ben definito, tuttavia non riuscii ad associarle a nulla, quindi proseguii la mia ricerca non pensandoci più.
Una volta vestita e preparata velocemente la borsa raggiunsi la cucina dove mio padre e mia madre stavano facendo colazione seduti al tavolo.
-Papà andiamo?- chiesi un po’ spazientita per il fatto che fosse ancora seduto a mangiare.
Lui alzò lo sguardo, tenendo la brioche nella mano a metà strada tra il piattino e la sua bocca.
-Ma tesoro, non mangi niente?-
-No, papà, lo sai che la mattina così presto non riesco a mangiare nulla…- risposi, ora un po’ più irritata.
-Va bene, andiamo-
Tirai un sospiro di sollievo e dopo aver dato un bacio a mia mamma, uscii di casa e mi fiondai direttamente in macchina, dove poco dopo mi raggiunse papà.
Nel tragitto tra casa e scuola – non esattamente un lungo viaggio – riflettei un momento e quella giornata mi parve come il primo giorno di scuola a Salem; forse era un deja vu, ma era proprio l’impressione che avevo.
Una volta arrivata guardai l’ora sul mio piccolo orologio da polso e vidi che ero arrivata giusto in tempo, ancora qualche minuto e sarei potuta arrivare in ritardo.
-Ginevra!-
Mi voltai. Era Meredith.
-Ciao come va?- mi chiese una volta che mi ebbe raggiunta. Le sorrisi.
-Bene, grazie. Mi sai dire che lezione abbiamo adesso? Non ho avuto il tempo di controllare a casa…-
-Oh, certo. Abbiamo Arte-
Annuii e ci incamminammo chiacchierando del più e del meno verso quell’aula. Il professore aveva un’aria un po’ scorbutica, ma il suo aspetto era parecchio contrastante: capelli lunghi e biondi, quasi ingrigiti portati sciolti sulle spalle, camice bianco sporco di macchie di colore e l’abbigliamento sotto di esso risultava piuttosto stravagante.
L’ora passò tra una pennellata e l’altra; c’era chi si schizzava di colore e i ragazzi ridevano, mentre alcune ragazze strillavano indignate per le acconciature rovinate.
Sbuffai e al suono della campanella mi attardai per ritirare il materiale che avevo utilizzato, insieme a Monica, che mi sembrò precisa quanto me.
La conoscevo da poco, ma quella ragazza mi era simpatica. Non solo perché alcuni aspetti del suo carattere mi somigliavano, ma anche perché sapeva farsi i fatti suoi e non aveva la puzza sotto il naso come alcune ragazze, tipo Hanna.
Le ore successive le passai seduta accanto a lei, con la quale conversavo di nascosto e voce bassissima quando l’insegnante si girava o si rivolgeva a qualcuno in particolare della classe.
Quando suonò l’ennesima campanella che ci annunciava l’orario del pranzo, Monica si sporse verso di me e mi disse: -Devo andare un attimo da una mia amica, ci vediamo in mensa, sono al solito tavolo con gli altri!-
Poi scappò.
Sorridendo mi incamminai per i corridoi raggiungendo la mensa e mettendomi in fila come sempre. Quel giorno presi una brioche, uno yogurt e una mela. Non mi sentivo molto affamata.
Mi guardai in giro e trovai il tavolo dove mi sedevo ormai abitualmente e vidi Meredith che si sbracciava per farsi vedere. Così la raggiunsi e mi sedetti accanto a lei dando un’occhiata verso l’entrata in attesa di Monica.
-Ciao Ginevra- mi salutò una voce stridula e irritante. Abbassai lo sguardo, incrociandolo in quello di Hanna.
-Ciao Hanna- le risposi cercando di imitare il suo tono, se ne accorse e fece una smorfia.
‘Ma che vuoi?’ pensai. ‘Tu e la tua faccia idiota…è già tanto che mi siedo a questo tavolo con te…’ continuai poi lasciai perdere quando arrivò la mia nuova conoscenza, quella preferita.





Adam



Eccola. Chi sta cercando?
Bene, i suoi amici. Sospiro di sollievo e i miei fratelli se ne accorgono.
-Che hai Adam?- domanda Adam.
-Nulla-
-Sei preoccupato?- stavolta è William a parlare.
-Perché dovrei esserlo? Ha sempre funzionato più che bene, non c’è mai stato alcun problema-
Sorride sarcastico.
-Allora non dovresti essere preoccupato-
Lo guardo di nuovo, stavolta con uno sguardo furente, lo odio quando fa così, solo perché è più anziano di noi e mi ha salvato dalla morte, crede di poterci prendere in giro in questo modo. Sempre che ‘salvare’ sia la parola giusta.
-Piantatela. Siete odiosi- interviene Arthur –Parlando seriamente: Adam non ha mai fallito. Il suo potere funziona perfettamente sugli umani, hanno una mente troppo fragile e troppo malleabile. Dimenticano le cose già senza che li aiutiamo noi…Non c’è davvero da preoccuparsi di nulla-
Non rispondo, sono pienamente d’accordo. Secondariamente, non sono preoccupato…semplicemente sento qualcosa nell’aria che non mi piace…
Io non posso fallire.
Non è mai successo e a meno che lei non sia umana, è impossibile che ricordi qualcosa dell’accaduto. Non succederà mai più un episodio del genere. Quel maledetto cancello verrà chiuso d’ora in poi senza eccezioni.
Guardò verso il suo tavolo e li vedo alzarsi tutti. Poi lei guardandosi intorno osserva nella nostra direzione ed io, trattengo il respiro.
Ci fissa con curiosità, poi, passando vicino ad un ragazzo del suo tavolo, gli tocca un braccio.
Mi concentro per sentire cosa dice, alzando una mano per far tacere i miei fratelli.
-David…chi sono quei quattro ragazzi seduti là in fondo?-
-Come, Meredith non te ne ha parlato? Sono i fratelli Chadwick-
E in quel momento la vedo fissarmi con gli occhi spalancati lasciando cadere il braccio lungo il fianco.
Il ragazzo prosegue e lei rimane lì, immobile, con lo sguardo fisso su di me.
No!
È impossibile. Non può aver ricordato. Eppure la sua espressione è inconfondibile. Ha ricordato tutto.
-Adam?- mi chiama William, ora allarmato.
Mugugno qualcosa, senza distogliere lo sguardo, per fargli capire che l’ho sentito.
-Cosa è successo?-
-Lei ricorda tutto, Wil. E non ho la minima idea di come sia possibile-.

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Capitolo 5
*** Thinking Of ***


QUINTO CAPITOLO

THINKING OF


Era appena arrivata Monica e si era seduta al tavolo con noi, rigorosamente di fianco a me. Eravamo come due specie di calamite, nonostante Meredith fosse quella che mi raccontava tutti i pettegolezzi (non che a me interessassero). Fu un pranzo tranquillo, mangiai un po’ di pizza e una mela e chiacchierai un po’ con Monica e infine ci alzammo tutti dal tavolo, quasi in sincronia. Mentre mi alzavo con il vassoio tra le mani gettai un’occhiata in giro e lo sguardo mi si fermò su quattro ragazzi seduti in un angolo della mensa, uno dei quali mi dava le spalle, ma aveva la testa voltata nella mia direzione e sembrava proprio che mi stesse guardando. Continuo a camminare e poi fermo David, toccandolo su un braccio.
-David…chi sono quei quattro ragazzi seduti là in fondo?-
-Come, Meredith non te ne ha parlato? Sono i fratelli Chadwick- mi rispose lui con la faccia incredula.
E in quel momento non so cosa successe. Come se avessi preso la scossa tolsi la mia mano dal braccio di David e davanti a me scomparve la mensa e rimasi ad osservare una serie di scene, come in un film, a tratti rapide, a tratti più lente, e capii che era ciò che mi era successo la sera prima.
Mi stavano fissando tutti e quattro come se avessi commesso un crimine orrendo e io non riuscivo a muovermi. Tuttavia nonostante avessi capito cosa fossero quelle immagini non capivo come mai, fino a quel momento, non avessi ricordato nulla.
L’istinto umano prevalse su di me e distogliendo lo sguardo corsi via, veloce, come non avevo mai fatto e mi rifugiai nel cortile della scuola, in un angolo che avevo scoperto, isolato da un’alta siepe angolare.
Mi nascosi lì non sapendo esattamente da cosa o da chi e mi sedetti sull’erba umida piegando le gambe e abbracciandomi le ginocchia con le braccia.
Ero terrorizzata, letteralmente.
Avevo ricordato gli istanti di paura con le due donne, una di nome Tiah con i capelli rosso fuoco simili agli occhi e l’altra di cui non avevo colto il nome, sempre che l’avessero detto.
E poi Adam e quella donna bellissima…Elizabeth era il suo nome o almeno era quello che mi veniva in mente in quel momento.
Mi sentivo vuota.

Adam

Se ne sta andando, sta scappando a gambe levate e la capisco, scapperei anche io.
“Dobbiamo portarla via” mormora William a denti stretti con i pugni serrati.
“Cosa?” gli rispondo indignato.
“Dobbiamo portarla alla villa, subito. È troppo pericoloso lasciare che vada in giro rischiando di raccontare tutto” afferma sporgendosi sul tavolo e, prima che io possa dire qualsiasi altra cosa si alza.
“Arthur, vieni con me. Resterai nascosto in modo che non possa vederti, io penserò a convincerla a seguirci” “Vengo anch’io” gli dico alzandomi a mia volta.
“E’ escluso. Tu vai alla macchina, ci aspetterai lì e quando l’avremo caricata sull’auto premerai quel dannato acceleratore e andremo a casa. Non una parola di più, se non te ne sei accorto è questione di vita…o di fine della nostra immortalità”.
Infuriato attendo pochi istanti e, quando mi accorgo che tutti gli studenti sono spariti dalla mensa, non mi preoccupo più di mantenere la velocità da umano e raggiungo la mia auto nera salendo alla posizione di guida.
Chiudo gli occhi concentrandomi sulle conversazioni nelle vicinanze.
“Rientriamo o arriveremo in ritardo Ariet”
Ecco Ariet brava, torna dentro. Penso. Non è un luogo sicuro questo momento, non con uno dei miei fratelli, o due, mentre stanno usando i loro poteri.
Infine eccolo. Sento William.

William

“Eccoti” esclamò con un falso sorriso sulle labbra dopo aver trovato l’umana accovacciata a terra nascosta da una siepe.
Mi guarda con occhi terrorizzati e per un attimo la mia sicurezza vacilla. Quegli occhi azzurri grandi quanto profondi trasmettono solo paura.
Le porgo una mano e percepisco le onde irradiare dal mio corpo per raggiungerla e l’effetto è quello che voglio. Mi prende la mano e delicatamente, senza fare movimenti bruschi l’aiuto ad alzarsi in piedi e sempre tenendole la mano la conduco verso il parcheggio.
“Ora ti porterò a casa mia e dei miei fratelli, sarei ben accolta” mento. Lei continua a guardare dritto davanti a sé.
Mi volto e faccio cenno ad Arthur di avvicinarsi cautamente. A voce troppo bassa perché lei mi possa sentire sibilo: “Adam, non ti voltare quando saliamo”.

Adam

Stanno salendo in macchina e sento il suo calore emanare dal sedile posteriore. William si siede affianco a me e, dopo avermi fatto un cenno, premo sull’acceleratore superando le rare macchine che incontro sulla strada semideserta.
Ad un tratto sento William girarsi.
“Fallo Arthur” sussurra.
Sgrano gli occhi e odo il familiare e leggero schiocco di quando Arthur blocca le persone. “Calmati Adam. Fra poco saremo a casa e parleremo con Elizabeth e Henry. In un modo o nell’altro capiremo cosa è successo”.
In un modo o nell’altro. Che significa? Ha forse intenzione di torturarla? Non è ciò che dico tuttavia. Per la verità la mia bocca non proferisce alcunché.




[Yellow_B: ti ringrazio davvero di cuore! Mi piace molto questa storia e stavo ormai rinunciando ad andare avanti...Avevo il quinto capitolo da terminare (questo) e non sapevo che fare...Davvero GRAZIE! Sono contenta che ti sia piaciuta fino ad ora e sarei felicissima se continuassi a leggerla.]

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Capitolo 6
*** La stanza bianca ***


SESTO CAPITOLO

LA STANZA BIANCA


Adam

In meno di cinque minuti raggiungiamo la villa e scendendo vedo William avvicinarsi alla ragazza per portarla dentro, ma la cosa che più mi spaventa è il suo sguardo, quel tipico sguardo di quando è affamato. In un attimo sono di fianco a lui e, molto più delicatamente di come l’avrebbe presa lui, la accolgo tra le mie braccia e i miei occhi cadono nel suo sguardo immobile e so, che se avessi un cuore che batte, avrebbe perso un colpo. Sembra morta, se non fosse per il suo corpo caldo e per il battito regolare di quel muscolo che a me non batte più.
Poi, alla nostra “normale” velocità entriamo in casa ed Elizabeth ci corre incontro con un espressione a metà fra il perplesso e il terrorizzato.
“Cosa ci fa un’umana in casa nostra?”
Io rimango in silenzio e con un piede tocco la gamba di Arthur, intimandolo silenziosamente a tacere. Voglio che sia William a parlare.
È colpa sua se Ginevra è qui.
“Mamma, è una minaccia” parla infine mio fratello.
“Come una minaccia? No, aspetta un momento…me la ricordo…E’ quella giovane che Adam ha portato a casa la notte scorsa…cosa diavolo è successo?!”
Ci guardiamo tutti, ma capisco che è arrivato il mio momento di parlare.
“Ho fatto tutto quello che andava fatto ieri sera. Non ho risposto alle sue domande, ho aspettato che si addormentasse, l’ho toccata senza che lo potesse percepire, ma stamattina, in mensa, a scuola…è bastato che un suo compagno le ricordasse i nostri nomi per farle tornare tutto alla mente. E William ha deciso di portarla qui”.
“William ha fatto bene” esclamò Elizabeth in risposta la tono accusatorio della mia ultima frase. “Per il momento portala nella stanza vuota e vai con Arthur così potrete sbloccarla…”
Ed eseguo. La porto al piano di sopra, nell’unica stanza completamente vuota della nostra casa e la faccio sedere appoggiandole la schiena e la testa contro la parete. Mi allontano raggiungendo la porta e Arthur mi segue subito dopo aver schioccato le dita. Non ho il coraggio di rimanere a guardare il terrore nei suoi occhi, né ho la forza di volontà di non rispondere ancora alle sue domande.


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Fu come svegliarsi dopo un lungo sonno. Spalancai gli occhi e feci un lungo respiro prima di sentire una porta chiudersi.
In quel momento mi guardai intorno e mi accorsi di non essere nel cortile della scuola, bensì sola, in una stanza deserta, spoglia di qualsiasi mobile e completamente dipinta di un bianco quasi accecante. Mi alzai e mi mise a camminare lungo la parete. Vidi una finestra e corsi verso di essa, ma presto mi resi conto che era di vetro opaco e senza maniglia, come fosse incastrata nel muro. Corsi di nuovo, stavolta verso la porta che avevo sentito chiudersi poco prima. Trovai la maniglia, ma, come c’era da aspettarsi, era chiusa a chiave.
A quel punto mi accasciai a terra con le palme e la fronte contro il legno freddo e sentii la paura e l’angoscia cominciare a scorrere nel mio corpo. Non so come spiegarlo, ma non ero esattamente spaventata, non ancora per lo meno. Semplicemente cercavo risposte e la mia testa era piena di domande che continuavano a rimbombarmi in testa come piccole api che ti pungono senza sosta.
“Dove mi trovo…?” bisbigliai ad un certo punto.
“Dove diavolo mi trovo?!” ripetei in un urlo che squarciò quel silenzio.
Sbattei i pugni sulla porta, sempre più violentemente, anche dopo che vidi le mani diventare rosse, e urlavo, urlavo più che potevo, anche se in cuor mio sapevo che nessuno sarebbe corso in mio aiuto. Non c’era nessuno, a parte me, e gli abitanti di quella che forse era una casa, i miei rapitori.
Urlai con tutta la voce che avevo, finché la stanchezza non prese possesso del mio corpo e della mia mente, e sprofondai in un sonno pieno di incubi.

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Adam

Ci troviamo nel salone, seduti comodamente sui nostri divani in pelle nera, nonostante per noi la comodità sia una cosa relativa.
“Vorrei sapere” comincia Elizabeth “le vostre intenzioni. Cosa volete fare della ragazza?”.
In quel momento entra Henry e dalla sua espressione deduco che nostra madre l’abbia già informato di tutto.
‘Cosa mi sono perso?’ le sue parole mi risuonano nella mente e io sorrido. Oltre alla sua forza formidabile, decisamente superiore alla media è in grado di parlare nella mente delle persone, ovviamente a sua scelta. “Nulla Henry, Elizabeth ci stava chiedendo cosa vogliamo farne” il mio tono è distaccato, gelido, ma sto solo facendo il gioco di Will.
Aspettiamo che anche lui si sieda, poi comincia la discussione e naturalmente il primo a parlare è quello che vorrei sentire per ultimo: William.
“Sono convinto che sappia qualcosa che a noi sfugge. Magari lavora per qualche setta minore che cerca di distruggerci. Torturiamola, prendiamo le informazioni e poi la uccideremo”.
Faccio una smorfia di disgusto e mi alzo rabbioso.
“Diamine Will! Come puoi essere così sanguinario?! Così maledettamente sadico?! È una ragazza di 17 anni che non ha nulla a che fare con i vampiri!”
“Ah si? E come spieghi il fatto che si fosse introdotta nel NOSTRO giardino e si sia ritrovata davanti alla porta del sotterraneo? C’è qualcosa che non quadra Adam!”
“Sai cos’è la curiosità oppure prima di morire non te l’hanno insegnato?!” sbotto, William si alza e in un batter d’occhio mi è davanti mostrandomi i denti.
“Non osare…”
“Io oso perché non voglio che tu faccia ciò per cui Elizabeth combatte da secoli”
“SILENZIO!” urla nostra madre.
Rimaniamo tutti zitti e lei ci indica il soffitto con un dito, mentre con l’altro ci intima di restare ad ascoltare.
Sentiamo qualcosa sbattere e un urlo agghiacciante.
“Sta picchiando i pugni sulla porta” sussurro.
“Idiota…cosa pensa di fare?” bisbiglia sarcastico William.
“Perché tu cosa faresti al posto suo?!”
“Vi ho detto di stare zitti!”
Passa mezz’ora e le urla non smettono. Poi un’ora e d’un tratto non udiamo più nulla…
“Credo che si sia addormentata” constatò Arthur.
Io guardai gli altri due fratelli con odio.
“E voi? Non avete nulla da dire? Non avete un pensiero, una teoria, qualcosa?” li accuso.
Elizabeth si alza e viene ad accarezzarmi i capelli.
“Adam, siamo tutti in uno stato di incertezza. Ma qualcosa che ci accomuna in questo momento è la preoccupazione nei tuoi confronti”
Mi libero istantaneamente del suo abbraccio.
“Nei miei confronti?”
Henry si alza e si avvicina.
“Sembra che tu voglia proteggerla e non capiamo perché”.
E in questo momento mi rendo conto di avere la prima reazione veramente umana, e dunque inutile come vampiro, dopo 149 anni: mi lascio sprofondare tra le pieghe nere del divano guardando il soffitto.
“Non capisco nemmeno io” riesco soltanto a dire.

*****

Yellow_B: Ti ringrazio per il tuo commento al quinto capitolo ^^. Io purtroppo sono un pò sintetica e tendo a dividere gli eventi della storia in più capitoli in modo da non mettere tutto insieme. Comunque ho cercato di allungare un pò e nel prossimo succederanno cose impreviste ^^. Mi scuso per il ritardo, ma sono piuttosto impegnata con la scuola. Spero continuerai a leggere e nel frattempo ti mando un abbraccio!

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Capitolo 7
*** Dolore e Paura ***


SETTIMO CAPITOLO

DOLORE E PAURA





Adam
Dopo un’ora di discussione siamo ancora qui, chi seduto e chi in piedi, immobile come una statua, senza aver concluso nulla.
William che insiste sul fatto che la ragazza sappia qualcosa di troppo, io che non faccio altro che adirarmi sempre di più e gli altri due che non hanno un’idea che sia una. Il risultato è che siamo in assoluta parità come se fosse un gioco. Un spaventoso gioco di vite umane…
Quando è ora di cena, non per noi, ma per i mortali, Elizabeth si dirige verso la cucina e le sento dire che per qualche strano motivo abbiamo qualcosa di commestibile in casa, che non sia sangue.
Dall’odore che sento qualche minuto più tardi sembrerebbe carne, maiale o qualcosa di simile.
Il mio sguardo la segue e la vedo salire le scale con un vassoio tra le mani e William che scatta seguendola. ‘Adam stai qui’ la voce di Henry mi rimbomba nella testa ‘Non credo che Elizabeth gli permetta di farle qualcosa, stai calmo’.
Tuttavia non sono affatto calmo.
Per quanto nostra madre sia una vampira equilibrata e pacata, chiude sempre un occhio per il suo vero figlio, il suo unico vero figlio. Più vecchio di noi, ma troppo fanatico.
Continuo a camminare avanti e indietro, senza riuscire a darmi pace. Non capisco questa assurda sensazione di ansia che mi soffoca, come un peso nel petto che non mi da tregua.
“Mi stai innervosendo” bisbiglia Arthur con il tono irritato.
“Sono contento, almeno scaturisco qualche reazione” rispondo quasi con rabbia.
Ora sono fermo, immobile tra i due divani sui quali, uno opposto all’altro, siedono i miei fratelli. Ci guardiamo e tengono testa al mio sguardo per un po’ finché non vedo Arthur abbassare lo sguardo e Henry voltarsi verso la finestra.
“Dovresti andare a caccia, Adam”
Scossi la testa “Non ho fame”.
“Ti farebbe bene, ti rilasseresti un po’…”
“No, farei solo una strage di animali…”


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Mi risvegliai dolorante perché mi ero addormentata sul pavimento e in una posizione scomodissima. Pochi secondi dopo udii la maniglia abbassarsi e mi allontanai strisciando all’indietro.
Alzando gli occhi rividi il bellissimo volto della donna dagli occhi blu che avevo visto la notte prima. Dietro di lei William Chadwick e in un secondo le mie teorie divennero fatti: mi trovavo nella casa dei Chadwick, prigioniera per motivi che ancora non avevo compreso.
Lei teneva un vassoio tra le mani e piano piano si avvicinò per poi accucciarsi di fronte a me tenendomi il vassoio. Guardai e vidi un piatto con una bistecca fumante e delle posate che sembravano fatte di puro argento.
Mi guardò intensamente negli occhi inclinando appena la testa prima di rialzarsi.
“William andiamo”.
“Rimango ad aspettare che finisca” rispose lui a bassa voce, ma abbastanza perché lo sentissi.
Poi li vidi avvicinarsi e parlottare velocemente ma non riuscii a capire le loro parole.
Infine vidi lei uscire e il ragazzo biondo appoggiarsi al muro dopo aver chiuso la porta. Continuava a guardarmi e io, in soggezione, cominciai a mangiare, masticando lentamente e lanciandogli qualche occhiata di tanto in tanto, sperando che avrebbe spostato lo sguardo altrove, ma così no fu. Mi fissò per tutto il tempo che ci misi per mangiare fin quando non ebbi finito di deglutire anche l’ultimo boccone, poi parlò.
“Chi sei?”
Rimasi interdetta dalla domanda e aprii e chiusi la bocca un paio di volte prima di rispondere.
“Ginevra Cain” risposi con un filo di voce, non molto convinta che volesse sapere quello.
Alzò un sopracciglio poi mi si avvicinò e con una forza che non sembrava possedere mi tirò su di peso facendomi male alle braccia.
Le sue mani non smisero di tenermi, ma si spostarono sulle spalle con una presa incredibilmente stretta. Mi si avvicinò al viso e mi sussurrò: “Cosa ci facevi nel nostro giardino la notte scorsa?”
“Io…nel vostro giardino? Io pensavo fosse il parco della città, non sapevo che…” poi mi tappò la bocca.
Non so bene cosa accadde, ma feci un salto indietro spaventata. Nel suo sguardo c’era qualcosa che mi aveva terrorizzata, non so bene come definirlo, inoltre i suoi occhi avevano preso una sfumatura violacea che mi ricordarono fin troppo gli occhi delle due donne dalle quali mi aveva portato via Adam.
“Vuoi dirmi che tu non sai niente di niente di noi? Me e la mia famiglia?”
“So solo che site quattro fratelli, tu, Adam, Henry e Arthur e che tu sei l’unico figlio di vostra madre, gli altri ragazzi sono adottati…”
“E chi ti ha detto queste cose?”
“A scuola…una mia compagna di classe”
Mi prese un polso e mi trascinò dall’altra parte della stanza sbattendomi contro al muro, poi mi mise una mano al collo tenendomi inchiodata contro la parete. Ero rimasta senza fiato, respiravo faticosamente e mi faceva male la schiena per l’urto violento.
“Ti ripeto la domanda e spero per te che tu risponda la verità: chi sei e chi ti manda?”.
Capivo sempre meno e cominciavo a sospettare che la famiglia Chadwick fosse in qualche giro strano, e che avevano paura che qualcuno li spiasse.
“Ascolta…” cercai di dire, ma la sua mano mi impediva di parlare correttamente. Fortunatamente lo capì e mi liberò il collo da quella presa di ferro, afferrandomi di nuovo le spalle.
“Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando…davvero…sono venuta con i miei genitori in questa città da poco…” non so come riuscii a parlare lucidamente nonostante la paura e il dolore che ormai mi scorreva in quasi tutto il corpo, ma terminai il discorso: “Non mi importa chi siete, cosa fate…sono una persona curiosa e non sapevo assolutamente che fosse il vostro giardino…mi dispiace…”
E quando finii di dire anche l’ultima parola udii una voce senza tempo, bellissima e familiare, che già una volta mi aveva portato via.
“William, adesso basta”.
Il giovane biondo si spostò e riuscii a vedere in volto il mio perenne salvatore. Adam. Tuttavia il suo sguardo era ancora peggio della notte precedente.
Mi guardava con rabbia, come se avessi commesso qualcosa di grave, rimanendo fermo sul posto, con il corpo rivolto verso il fratello e gli occhi puntati nei miei.
Qualche secondo dopo arrivarono gli altri componenti della famiglia e Adam tornò a posare lo sguardo sul fratello minore così come tutti gli altri.
“Deve sapere tutto ora” disse minaccioso.
“Cosa?! Sei impazzito per caso?” esclamò William avvicinandosi di un passo.
“No. Grazie alle tue manie, al tuo fanatismo hai accidentalmente detto troppo. Deve sapere”
“Adam aspetta…” si avvicinò Arthur.
“Ora basta! Sono stanco di aspettare e di voi due che non vi schierate da nessuna parte…io voglio dirle la verità” insisté Adam.
A quel punto Elizabeth gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, con amore, guardandolo con occhi pieni di affetto.
“Sai che non è possibile dire ad una…come lei, la verità. Saremmo obbligati a farla diventare…una di noi…oppure…”
“Ucciderla” terminò William.
Io spalancai gli occhi e rabbrividii quando udii un ringhio spaventoso provenire da Adam, che cercò di lanciarsi contro William, ma fu prontamente fermato da Henry.
“Calmati….Elizabeth, aiutalo”
La donna si avvicinò e gli prese il viso fra le mani. “Guardami, tesoro…” gli sussurrò. E in pochi attimi il suo corpo si rilassò e quando lei staccò le mani dal suo viso Adam la prese fra le braccia.
Io ero immobile nella mia posizione talmente spaventata da non riuscire nemmeno a piangere e fui contenta quando uscirono tutti da quella stanza lasciandomi sola…lontana da quella gente inquietante.
Tuttavia qualche minuto dopo la porta si aprì di nuovo ed entrò Adam, solo, ed io mi ritrassi ancora di più, ora spaventata anche da lui.
Tra le mani teneva una valigetta e quando mi si avvicinò e si sedette al mio fianco capii che era lì per medicarmi.
“Sei spaventata?” mi chiese. Era la prima volta che lo sentivo parlare rivolgendosi direttamente a me.
Dal mio canto, riuscii soltanto ad annuire. Lui sorrise, prima di guardarmi negli occhi con uno sguardo carico di tristezza.
Mi prese la mano e sentii le sue dita fredde, poi mi tamponò il taglio con qualcosa che bruciava un po’, ma non troppo.
“Immagino che tu sia confusa…anche” riprese, sempre guardandomi negli occhi.
“Abbastanza” riuscii a bisbigliare. La sua presenza era come un calmante. Nonostante la sua pelle così fredda per qualche strana ragione, mi infondeva un senso di calore unico e, anche se poco prima mi aveva terrorizzata, non riuscivo ad averne paura.
“Ora voltati, devo guardare la tua schiena”
Rimanemmo insieme per un tempo che mi parve infinito e io mi beavo delle sue carezze gelide sulla mia pelle graffiata e coperta di lividi.
Infine mi tese la mano e io l’afferrai alzandomi, ma, nel momento in cui sembravo stabile su entrambi i piedi, le ginocchia mi cedettero e Adam mi prese al volo prima che cadessi a terra, prendendomi in braccio.

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