Funny how the heart can be deceiving

di Rota
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** *Primo anno - I* ***
Capitolo 2: *** *Primo anno - II* ***
Capitolo 3: *** *Primo anno - III* ***
Capitolo 4: *** *Intermezzo - I* ***
Capitolo 5: *** *Secondo anno - I* ***
Capitolo 6: *** *Secondo anno - II* ***
Capitolo 7: *** *Secondo anno - III* ***
Capitolo 8: *** *Intermezzo - II* ***
Capitolo 9: *** *Terzo anno - I* ***
Capitolo 10: *** *Terzo anno - II* ***
Capitolo 11: *** *Terzo anno - III* ***
Capitolo 12: *** *Epilogo* ***



Capitolo 1
*** *Primo anno - I* ***


*Autore: Rota/margherota
*Titolo: Funny how the heart can be deceiving
*Fandom: Kuroko no Basket
*Personaggi: Kasamatsu Yukio, Imayoshi Shoichi, Susa Yoshinori, Un po' tutti
*Pair: ImaSusa, secondaria/ImaKasa, principale
*Genere: Introspettivo, Generale, Sentimentale
*Avvertimenti: What if...?, Shonen ai
*Rating: Arancione
*Dedica: Per Kam che compie/ha compiuto gli anni e ha passato anche Natale aspettandomi ma io sono pirla (L)
*Credits: Titolo e lyrics da "Try" di P!nk
*Settimana/Prompt COW-T: Quarta settimana/Qualcosa di vecchio
*Numero parole: 26002
*Note: What if in cui Kasamatsu frequenta la Too Academy. Era nata come intento di fare pwp ImaKasa e ne è uscito questo *lecoff
La maggior parte della roba è farina del mio sacco, ovviamente. Ma andando avanti, specialmente per quanto riguarda il secondo/terzo anno del liceo, introdurrò eventi "canonici", direttamente dal manga.
Tra un anno e l'altro, c'è un “intermezzo” decisamente più corto. Siccome ho seguito un certo schema piuttosto rigido, come mio solito, per la suddivisione degli anni scolastici dei due, questi intermezzi mi sono serviti per aggiungere qualcosina in più che non potevo mettere nel contesto degli altri capitoli.
(non è betata, ancora, pardon ù//////ù)
Spero sia una buona lettura (L)

 

 

 

 

 

 

Funny

how the heart can be deceiving

 

 

 

 

*Primo anno - I*

 

 

 

Yukio sistemò meglio la spallina della cartella scivolata lungo il braccio, in modo che la cartella piena di libri recuperasse un poco di equilibrio contro la sua schiena. Doveva ancora ambientarsi, ma questo particolare non attribuiva alla sua figura più goffaggine di ogni altra giovane matricola della sua età: un nuovo anno scolastico era appena iniziato, alla Touou Academy, e ritrovarsi in mezzo a quella folla di studenti febbricitanti ed eccitati ridimensionava di molto la poca ansia che provava nel petto.
Volse lo sguardo, per quanto veloce, abbastanza attento in una direzione e poi in un'altra, cercando un banchetto preciso in mezzo a cartelli come "Club della cultura" o anche "Amici degli insetti"; scansò con un gesto educato un suo senpai che aveva cercato di fermarlo sul posto sventolandogli di fronte al naso un volantino dai colori vivaci e una gran scritta: "Club di nuoto". Aveva ringraziato, ma anche precisato che non era quello il tipo di sport a cui era interessato. Fu fermato solo un'altra volta da una ragazza carina con un gran sorriso - non riuscì a dire neanche una parola e si ritrovò tra le mani un bicchierino di plastica colmo di cioccolata calda e un dolce spesso spesso e con un sacco di zucchero sopra. "Club di cucina". Per quanto potesse gradire il tutto, dovette rifiutare con profusa educazione.
Si sedette, ad un certo punto, su una panchina ai bordi del grande cortile della scuola. Sospirò, con la schiena spalmata contro lo schienale di ferro di quella, e lo sguardo rivolto al cielo, mentre sentiva la cartella scivolare in basso, fino al pavimento di mattonelle rossastre. Diede uno sguardo al grande edificio che si trovava a pochi metri di distanza alla sua destra - l'ala est che conteneva principalmente le aule per le materie umanistiche - quasi con indifferenza.
La notizia di un trasferimento improvviso per motivi di lavoro, annunciata da sua madre dopo una cena sfarzosa, non lo aveva destabilizzato più di tanto. Aveva certo amici, nel vecchio distretto, e una rete di conoscenze più fitta e sicura, ma andare a vivere a Shibuya non voleva dire rintanarsi dall'altra parte del mondo, isolato da qualsiasi sprazzo di civiltà, né tanto meno dover abbandonare in modo definitivo le vecchie amicizie. L'unica cosa che Yukio aveva chiesto a sua madre, in cambio della solita pacifica convivenza familiare, era una scuola con un club di basket, dove poter continuare a giocare ciò che più preferiva. La Touou Academy era stata una delle opzioni possibili, avvicinata con interesse per la sua fama e il suo prestigio rispetto alle altre, e da quello che il ragazzo aveva visto, in quei dieci giorni dall'inizio delle lezioni, non sembrava smentire le dicerie.
Peccato che fosse un'ora che stava girovagando nel cortile pieno di banchetti per le iscrizioni ai vari club e non fosse ancora riuscito a trovare quello che stava cercando.
Sospirò, sconsolato, appallottolando nella mano la carta del dolce appena mangiato; vide un cestino, appena finita la panchina, e messosi in posizione lanciò la carta e fece canestro, preciso e pulito come sempre; sorrise per un istante.
Fu scosso dai propri pensieri non tanto da una voce quanto dalla sua strana, insolita quasi, inclinazione - fortissima, impossibile non notarla. Voltò lo sguardo in maniera naturale e istintiva, non tanto per abitudine a ficcanasare nelle faccende altrui, e vide una coppia di ragazzi piuttosto vicini a lui che procedevano nella sua direzione. Quello che stava parlando era il più basso, capelli lunghi e dritti e due paia di occhiali sul naso di colore scuro.
-E così questo è il primo anno che giocheresti a basket? Hai fatto qualcos'altro, prima?
Quel poco che era riuscito a sentire lo fece scattare in piedi, e prima che potesse fermarsi e pensare alla forma giusta per porre quella domanda, aveva già fermato con la sorpresa del proprio gesto i due.
Era l'occasione giusta per rendere non vano tutto il suo sforzo, che lui aveva intenzione di cogliere decisamente al volo.
-Scusate, voi fate parte del club di basket?
Quello che parlava prima, con le mani ancora in tasca, allargò le proprie labbra in un leggero sorriso nell'attimo dopo l'aver palesato un discreto stupore.
-Ci siamo appena iscritti.
Ogni parola era carica di quella cadenza così particolare, tanto che Yukio dovette farsi forza per non fare una smorfia proprio davanti a lui. Sembrava quasi straniero, eppure con una nota fortemente giapponese.
-Dove si trova il banchetto?
Il ragazzo indicò una direzione in aria, con il dito indice puntato.
-Devi procedere oltre la fila dei club dello sport. Arriva in fondo, è giusto dopo quello di tennis.
-Oh, grazie!
-Di nulla.
Yukio fece un leggero inchino e corse via, lasciando i due alla loro chiacchierata e dimenticandoseli piuttosto in fretta, per quel giorno.

 

Imayoshi restò a guardare le spalle dell'altro ragazzo che si allontanavano sempre più, fino a scomparire tra la folla del cortile. Gli aveva incollato il sorriso sulle labbra, nella prospettiva di un inizio per cui valesse davvero la pena correre oppure scattare in piedi da una panchina all'improvviso, con tutto quell'entusiasmo genuino ed esplicito. D'altronde, era tutto nuovo anche per lui, e nonostante nascondesse la propria inesperienza sotto un'espressione più o meno sempre uguale, era indubbio che lo provasse almeno un poco nel proprio intimo. D'altronde, si parlava sempre di divertimento.
Si sistemò gli occhiali sul naso, mentre alcuni dei petali di fiori rosa dei grandi alberi che circondavano tutta la scuola cadevano ai suoi piedi, trascinati da un leggero vento. Dentro di lui, c'era lo stesso fresco gioioso.
Tornò quindi a rivolgere l'attenzione al proprio interlocutore come se nulla li avesse interrotti.
-Sembra che anche quel ragazzo sarà un nostro compagno di squadra.
Aveva ancora il sorriso di prima sulle labbra, quando gli rispose, e fece schioccare la lingua in un modo strano, che fece trasalire Susa dai propri pensieri lontani.
-Yep, sembra proprio.
Nessun interesse l'uno per l'altro fino a quel pomeriggio, entrambi erano stati sinceri e diretti da quel primo punto: pur ritrovandosi nella stessa classe, nel marasma di gente indefinita e tutta nuova i volti dei compagni si assomigliavano l'un l'altro e loro due non facevano alcuna eccezione particolare. Era stato Susa a riconoscerlo, probabilmente ritrovandoselo accanto dopo aver speso due ore di fila di matematica accanto al suo stesso banco e cercando di capire con la coda dell'occhio se valesse la pena copiare le sue risposte oppure no. Si era presentato, distraendolo per un istante dal proprio foglio per l'iscrizione al club, e Shoichi lo aveva riconosciuto per quella strana e insolita forma del naso. Così, inizialmente forse più per educazione che per vero e proprio interesse, avevano cominciato a parlare e a camminare assieme, distraendosi vicendevolmente da tutto il caos che stava loro attorno e dandosi vicendevolmente una scusa per non prestarci più attenzione. Erano riusciti nel proprio intento e avevano trovato una buona compagnia.
In quel momento, Yoshinori fece una smorfia e non si preoccupò di nasconderla all'altro.
-Dimmi di nuovo di dove sei.
Quello rise, comprendendo la ragione di tanto cruccio. In effetti, anche l'accento di Tokyo suonava stranissimo, alle sue orecchie - e con un certo orgoglio, forse anche per il gusto al dispetto palese, tendeva a calcare il proprio per contrasto.
-Vengo da Osaka, non si sente?
-Fin troppo, in effetti.
Ripresero a camminare, andando verso l'edificio della scuola. Parlando, avevano anche scoperto di avere altri corsi uguali, oltre che quello di matematica, e dalle materie scolastiche erano entrati nel campo degli hobby poco generici, fino ad arrivare persino a dettagli più personali quali il lavoro dei propri genitori e il numero di fratelli o sorelle. Insomma, avevano già liquidato la grossa parte delle formalità senza troppo indugio. Figlio minore di due, sorella maggiore universitaria e padre dirigente scolastico; figlio unico l'altro, entrambi i genitori medici.
Susa, dopo qualche istante di silenzio più o meno assorto, riprese a parlare.
-Io abito in un altro distretto, ma per i miei genitori sembra che questa scuola valga l'ora di viaggio che mi faccio al mattino.
Le labbra di Imayoshi fecero scappare un fischio, e sui suoi lineamenti si modellò un'espressione decisamente esplicita, ammiccante quasi.
-Piuttosto seccante, direi.
Susa lo trovò forse non troppo educato, ma decisamente più a suo agio di quanto non si sarebbe aspettato - alla fine gli sorrise in risposta, condividendo anche quel tipo di sentimento con l'altro ragazzo. Non sapeva bene se era il personale modo di fare di lui o solo il tipico atteggiamento di quelli che provenivano dalla sua zona, ma trovava quella sua schiettezza assai confortante, e più vicina alla sincerità di quanto non facessero altri tipi di indole. A pelle, era già convinto di aver trovato nell'altro una buona compagnia.
-Dici bene. Dici davvero bene.
E Imayoshi lo stesso, da quando aveva notato che l'altro non scappava alle sue lunghe occhiate scrutatrici. Non lo stava studiando, perché non gli appiccicava addosso alcun tipo di giudizio: prendeva atto di particolari diversi, facendosi un bagaglio tutto personale.
-Tu giochi a basket da molto tempo?
Erano entrati nell'edificio, nel frattempo, diretti verso l'aula dove Yoshinori aveva lasciato la propria cartella prima di dirigersi in cortile. Non sapendo quando tutto quello sarebbe durato, aveva preferito lasciare quel peso in un posto sicuro che non fosse le proprie spalle, così libere.
-Ho iniziato a giocare alle medie, già dal primo anno. Mi è sempre piaciuto, come sport.
-Quindi sei uno esperto?
-Direi che ho più pratica, ma sono soltanto un giocatore nella media.
Finirono di salire le scale, e Susa guardò Imayoshi in viso - aveva un sorriso diverso da prima, appena più sinistro.
-Per ora.
Non aggiunse nulla, continuando a camminare dritto.
Percorsero un lungo corridoio tutto vuoto, cosparso di finestre aperte che arieggiavano - passando davanti una di quelle, Imayoshi per caso volse lo sguardo al cortile della scuola, vedendo tra la folla ancora definita il ragazzo di prima, quello che aveva interrotto la chiacchierata tra lui e Susa: capigliatura quasi militare, rapato alla base della nuca e di un castano tanto scuro da apparire quasi nero, divisa perfettamente bianca e una postura rigida, strana per un ragazzo di quell'età. Decisamente riconoscibile, anche tra molti, a un occhio attento come il suo.
Gli tornò il sorriso, d'istinto, per un'associazione di idee che lo portava a pensare all'indomani e quindi al loro primo allenamenti di basket.

 

***

 

Tutte ordinatamente in fila, le matricole del club di basket passarono un buon quarto d'ora a presentarsi in dettagli tecnici più o meno precisi: nome, cognome, data di nascita e altre cose del genere, tra cui anche la plausibile ragione del loro interesse a quello sport. Undici ragazzi in tutto.
Una ragazza del terzo anno, probabilmente la manager, teneva tra le mani un blocco degli appunti e ogni volta che un ragazzo finiva la propria presentazione segnava qualcosa su uno dei suoi fogli con una penna blu dalla punta sottile. Disse loro che per qualche giorno avrebbero fatto più esercizi di riscaldamento che altro, per poi iniziare a giocare vere e proprie partite solo in un secondo momento, una volta che i muscoli fossero stati abituati a un determinato sforzo fisico; la sua voce era chiara, quasi rassicurante. L'allenatore era accanto a lei ma non disse una parola, dispensando invece sorrisi affabili a ognuno dei ragazzi; da come qualcuno dei senpai aveva detto, era un vecchio professore di storia prossimo alla pensione, con i capelli bianchi e tante rughe attorno alla bocca e sotto gli occhi - doveva essere una persona che aveva sorriso molto, durante la sua vita, e questo dava una dimensione forse troppo confortevole a tutta la questione.
Li divise in due gruppi, unendoli ai ragazzi più grandi, e l'allenamento vero e proprio iniziò a quel punto. Corsero per due ore ininterrottamente, come era prevedibile che succedesse, tra esercizi di skip e veri e propri percorsi a ostacoli. Non sfiorarono neanche l'idea di toccare la palla, e questo generò qualche malumore di alcuni dei ragazzi nuovi allo sport, specialmente nei spogliatoi lontano da orecchie indiscrete, con le gambe abbastanza pesanti da non riuscire a muovere altro del proprio corpo che labbra e lingua.
Yukio si rifugiò sotto il getto di una doccia bollente, lasciando che lo scrosciare forte dell'acqua contro le piastrelle occupasse completamente il suo udito per lasciarlo libero da malumori altrui assolutamente ingiustificati. Era stanco e spossato, non più abituato a tutto quel lavoro in una volta sola, specialmente dopo un mese di inattività - tuttavia, certo non era messo così male come molte delle altre matricole, e si vedeva bene dal lamentarsi per una corsetta e qualche saltello. Di certo, non era abituato a portare o covare pazienza.
Uscì dalla doccia con la pelle quasi arrossata e le membra più molli, tranquille e rilassate. Raggiunse di corsa l'armadietto che gli avevano assegnato, uno degli ultimi della fila, con l'apertura un po' cigolante e un brutto odore di muffa quando si apriva. Recuperò la sua borsa e il ricambio che aveva dentro, intimo e canottiera.
-Faticoso questa prima volta, neh?
Si girò veloce, notando in quel momento il ragazzo seduto sopra la panca che divideva quasi in due quel corridoio dello spogliatoio maschile. Aveva addosso i pantaloni della divisa scolastica, ma la sua camicia era aperta e la cravatta scura ciondolava da una spalla - i capelli spettinati erano appena bagnati, e non aveva gli occhiali. Tuttavia, lo riconobbe subito come il ragazzo che gli aveva dato indicazioni qualche giorno prima, quello con l'accento strano calcato in quelle poche sillabe dette.
Prese tra le mani la canottiera e la scosse, per eliminare le pieghe sopra.
-Non abbiamo lavorato così tanto.
L'altro sogghignò, ma il suo silenzio permise a Yukio di indossare il capo senza dover interrompere in qualche modo il loro dialogo. Solo una volta che la sua testa sbucò dal tessuto candido Shoichi gli parlò ancora - Susa era ancora rintanato sotto la doccia, per cui lui si stava annoiando abbastanza da voler diventare socievole con altri aspiranti membri del club di basket. Dopotutto, loro due erano quasi i soli tra le matricole a non avere un aspetto esageratamente abbattuto o spossato, il che li rendeva abbastanza simili per definizione: Imayoshi aveva sentito un'attrazione istintiva, verso di lui, per quanto ancora molto superficiale.
-Giocavi già a basket?
Kasamatsu non rifiutò la sua cortesia e gli rispose senza alcuna malizia o malintenzione; era persino riuscito a distrarsi dai borbottii altrui, grazie alle sue parole, e questo gli era davvero piacevole.
-Ero capitano della mia squadra, alle medie.
-Oh, uno di quelli che lavoravano sodo!
Lo vide sorridere, ne fu quasi stranito: aveva un modo di farlo che non sembrava molto cortese, per quanto il suo tono suggerisse invece una gentilezza piuttosto radicale. Ecco cosa non andava, in quella persona. Il fatto che strisciasse parole e intenzioni e non li rendesse molto palesi.
Ma non si fece impressionare da quel suo modo di fare.
-Neanche tu sembri tanto stanco.
Shoichi si diede una pacca sulle gambe, in un gesto piuttosto eloquente per indicare sé stesso.
-Sono una persona abituata a fare molto moto!
Qualcuno chiamò forte, annunciando a tutti i ritardatari di sbrigarsi che la palestra avrebbe chiuso entro dieci minuti scarsi. Imayoshi fu subito in piedi, addosso la giacca scura della divisa e la cravatta nel borsone - Yukio vide avvicinarsi a lui un ragazzo più alto con un naso pronunciato, che fattosi scappare qualche insulto a mezza voce si vestì in fretta con ancora i capelli bagnati e la pelle umida. Sembravano conoscersi, dalla vicinanza fisica che non dava fastidio a nessuno dei due.
E una volta che furono tutti usciti, con le cartelle issate sopra le spalle e la velocità tra i piedi, prima di sparire verso la fermata della metro in direzione sconosciuta, Imayoshi chiamò un'ultima volta Yukio, con una mano in alto mossa a saluto.
-Al prossimo allenamento, Kasamatsu- kun.
La cosa lo sorprese, e non poco, anche se l'altro non gli diede tempo di rispondere o chiedere alcunché. Pensò un secondo momento all'occasione in cui l'altro aveva sentito e quindi registrato il suo nome, ma di certo non si sarebbe aspettato che qualcuno potesse registrare un simile dettaglio di un compagno di club appena conosciuto. Davvero insolito.
Salutò il nulla freddo, prima di incamminarsi verso casa.
-Al prossimo allenamento...

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Capitolo 2
*** *Primo anno - II* ***


*Primo anno - II*

 

 

 

Era veloce - era veloce e preciso, con evidente esperienza alle spalle. Era veloce e sapeva come muoversi all'interno di un gruppo di persone, pur non avendo confidenza eccessiva con i propri compagni di squadra. Faceva passaggi nei momenti giusti, delle discrete finte e dei palleggi ben equilibrati; riusciva anche a scartare i compagni più grandi senza troppa difficoltà, probabilmente anche per merito del loro livello abbastanza mediocre. Sbagliava poco, quando tirava a canestro, e aveva una personalità che non si faceva sottomettere facilmente né era riluttante allo scontro fisico, per quanto fin troppo attaccato alle regole base.
Per questo Shoichi era stimolato dal confronto con lui, e aveva fatto in modo, dalla seconda partita di allenamento in poi, di essere sempre nella sua squadra avversaria. Yukio lo aveva notato, dopo un po', ma non aveva commentato la cosa se non con mezzo cenno seccato e una delle sue grosse sopracciglia alzata alla sua fronte, in una chiara espressione di incredulità durata qualche semplice attimo.
Perché Imayoshi, d'altra parte, era l'unico oltre a qualche altro senpai del terzo anno non così competitivo che riusciva a tenergli testa, e discretamente testardo da far perdurare questo stato di cose per diverso tempo. Aveva dimostrato, in quelle poche partite senza troppo scopo, di saper bloccare i suoi passaggi e di fronteggiarlo adeguatamente sia in marcatura sia negli scontri diretti. E ne era cosciente nella maniera più assoluta, facendone visivamente mostra. Giocavano entrambi spinti da un comune senso di rivalità, per quanto il contrasto non si era mai realmente spinto oltre una competizione di tipo puramente fisico e istintivo. Era stimolante per entrambi, oltre ogni dubbio, anche se l'unica interazione che i due avevano rimaneva quella disputata in un campo da basket, sotto il canestro e lungo il parquet lucido di scarpe strisciate: oltre a quello, c'erano solo poche battute di convenienza, lo stesso spazio condiviso negli spogliatoi e l'aria calda dei polmoni provati dopo ore di allenamento.
Eppure, quel giorno in particolare, Imayoshi era stanco - probabilmente aveva fatto sforzo altrove, durante l'orario scolastico, e per questo motivo non riusciva a tenere il suo passo: lo aveva già smarcato tre volte, superandolo senza difficoltà e andando a segnare punti senza più altro ostacolo. Di certo non poteva palesare delusione, dal momento che il suo avversario chiaramente non stava risparmiando se stesso, e di sicuro rispettava quella sua momentanea debolezza così come aveva tutta l'intenzione, proprio per questo motivo, di sfruttarla a pieno per il proprio vantaggio. Fu quando si riavvicinò a lui, per superarlo e tornare nella propria metà campo in una posizione di difesa, che sentì la sua voce rincorrerlo meglio di quanto facesse lui di persona.
-Beh, oggi proprio scoppi di energia.
Il suo accento, ancora, era quel qualcosa che fece alzare lo sguardo di Yukio al suo viso, istintivamente - e questo lo obbligò a vedere la sua espressione oscurata da un'ombra ancora poco appariscente, nell'angolo dei suoi occhi sottili sottili.
-Sei sempre fantastico, Kasamatsu- kun.
Con ogni probabilità, a colpirlo fu più il suo tono che le sue parole: insinuante, senza un apparente motivo preciso. E più si continuava, più Imayoshi gli rivolgeva piccole frasi di elogio ipocrita, magari sottolineando quelle volte in cui il suo "eccezionale talento" veniva sminuito da un passaggio andato a male. Yukio si ritrovò a perdere una buona palla per colpa della sua voce, inchiodata nelle proprie orecchie in una presenza sinuosa eppure scomoda, troppo fastidiosa.
Proruppe con un urlo più rabbioso di quanto volesse, a un certo punto, incapace di contenere quella cosa che non riusciva ancora a chiamare sdegno.
-Giochi in questo modo?
La partita si era fermata, quasi d'improvviso, per qualche secondo imbarazzato e teso. Yukio aveva provato vergogna di se stesso per gli sguardi che si sentiva addosso, tra compagni più grandi, manager e allenatore. Davanti a lui, impassibile se non per il sorriso, Imayoshi stava palleggiando con una sola mano, quasi non toccato dai suoi sentimenti profondi. Riprese il gioco quando lui lo superò, per lasciarlo da solo con la propria frustrazione e la propria incomprensione.
Ma così come aveva sbagliato a cedere alla provocazione, così Yukio pensò di rimediare subito al danno, con la stessa passionalità con cui si era sentito in dovere di denunciarlo ad alta voce: lo inseguì fino a piazzarcisi davanti, ostacolando la sua corsa verso il canestro. Aveva una tale rabbia negli occhi che Shoichi certo non si risparmiò dal prenderlo in giro.
-Non essere così cattivo con me, Kasamatsu- kun! Così mi potrei spaventare!
Yukio si rabbuiò, allargando le braccia verso di lui. Shoichi tentò di oltrepassarlo con uno scatto a sinistra, ma fu intercettato prima di riuscire ad avanzare - allora saltò e la palla, dalla sua mano, andò direttamente nel cesto del canestro, lasciando Kasamatsu sbigottito e a terra: fino a quel punto, Shoichi non aveva mai fatto vedere di essere capace di fare tiri da tre.
-Sembra che sia entrata...
Lo guardò male, con tutto l'astio che poteva provare per una persona, e promettendo a se stesso di trovare, assolutamente, un modo per zittire quella dannata boccaccia. Magari anche piuttosto presto.

 

-Sei un osso duro, Kasamatsu- kun!
Si sedette assieme a lui, sulla panchina a bordo campo. L'intera figura di Kasamatsu grondava sudore: dall'attaccatura dei capelli fini e scuri fino all'interno del ginocchio, lì dove gli scaldamuscoli lunghi avvolgevano stretti la carne calda - Yukio, con un dito, abbassò quello che gli fasciava la gamba destra, e fece respirare finalmente la pelle surriscaldata dall'ingente movimento. Cercò di non dare troppa evidenza del proprio fastidio all'arrivo dell'altro, considerando il fatto che gli altri loro compagni li circondavano ed erano abbastanza rumorosi da offrigli una scusa per un'eventuale sordità momentanea.
Ma quello, accanto a lui, si sporse nella sua direzione e quasi lo toccò, tanto che Yukio per riflesso si ritrasse e quindi diede segno di averlo ben scorto, innegabilmente. Shoichi sorrise, nel continuare a parlargli, vittorioso quasi in eccesso, eppure privo di tutta quell'aria malefica e offensiva che aveva avuto durante la partita, in campo.
-Hai giocato meglio del solito, oggi.
Yukio fece una smorfia e nonostante fosse davvero tornato a considerare con tutta la propria persona le proprie scarpe da ginnastica bianche, morbide ai lati, che con un movimento del tallone lasciarono libero anche il piede, gli rispose pure a parole, con un poco della provocazione raccolta pochi minuti prima.
-Oggi eri tu quello fiacco, Imayoshi.
L'altro rise, incassando l'implicita critica. Non sembrava per nulla toccato od offeso, ma si comportò come se in qualche modo gli importasse.
-Ah, sì! Probabilmente è così!
Susa si sedette accanto al ragazzo, che per qualche minuto si occupò unicamente di lui. Yoshinori era decisamente più stanco dei due, anche se si stava lentamente abituando a tutto quell'allenamento. Sembrava abituato a correre, e questo era qualcosa di buono anche se i suoi passaggi non erano precisi e i suoi palleggi neppure. Imayoshi gli aveva offerto più volte delle partite singole tra loro due soltanto, e lui non aveva mai rifiutato: era evidente come la compagnia di Shoichi gli fosse particolarmente gradita, tra tutti loro, e che non trovasse superfluo il dovere di allenarsi con qualcuno di abbastanza capace da dargli i giusti consigli.
In compenso, quando vide Kasamatsu accanto a lui, dall'altra parte della panchina, gli lanciò un'occhiata di tralice senza aggiungere una parola a riguardo. Non aveva avuto modo di esplicitare, in qualche modo, il proprio disappunto, ma aveva capito che con l'altro non era obbligato a parlare: non era un'empatia particolare nei suoi confronti, quanto una particolare dote che legava Imayoshi al resto del mondo e rendeva questo un ottimo oggetto di analisi. Lo poteva percepire da come si rapportava con tutti, specialmente con uno come Kasamatsu, che non gli lasciava proprio adito alla minima slealtà o ipocrisia, neanche quella finta.
Quindi, non gli diede soddisfazione e ignorò il proprio amico, così che Shoichi dovette per forza di cose tornare a parlare con Yukio, nella speranza di avere almeno un interlocutore parlante.
-Dimmi: giochi con questa carica anche durante le partite?
Kasamatsu, intanto, era riuscito a togliersi entrambe le scarpe e la maglietta umida. Lo guardò sorpreso, convintosi prima di non dover più parlare con lui - si riprese in fretta dalla propria incredulità, e mentre rispondeva si passava un asciugamano bianco sopra il viso freddo di sudore quasi appiccicaticcio.
-Specialmente quelle. Se non lo facessi in quelle occasioni, tutto il mio lavoro non avrebbe senso.
Shoichi si piegò in avanti, andando a appoggiare i propri gomiti sul finire delle cosce, in modo da essere esposto per la maggior parte del busto. Un così esplicito interesse nei suoi confronti mise un poco a disagio l'altro, ancora una volta, e non fu abbastanza scaltro da non farlo vedere.
E questo a Shoichi piacque molto, perché gli dava una sola parentesi di potere su di lui.
-Uh, sei una persona molto decisa. Sono ammirato dalla tua motivazione.
-Tu non ne hai una?
-Di motivazione, dici?
Kasamatsu non rispose, dando modo a Shoichi di capire che, nonostante tutto, la sua indole competitiva non si spegneva una volta usciti dal campo di basket - e che non era sua intenzione lasciargliela vinta giammai, neppure se avesse dovuto ingaggiare con lui una sfida verbale eterna. La parentesi, d'altronde, finiva scontrandosi con il suo orgoglio e la sua testardaggine maggiore.
Questo piacque tantissimo a Imayoshi.
-Mi sembrava di aver dimostrato abbastanza di aver voglia di vincere.
Kasamatsu impiegò qualche secondo per decidere cosa sentire e quindi cosa dimostrare, non volendo scadere nella facile trappola dell'ipocrisia. Entrambe le sue sopracciglia si alzarono per poi abbassarsi, contornando un'espressione sconfortata e a tratti delusa.
-Ti limiti a questo?
-Beh, finché mi permette di raggiungere il mio scopo, non vedo perché dovrei cambiare modo di agire.
Gli diede un colpo di spalla, all'improvviso, e l'altro sgranò così tanto gli occhi che sembravano sul punto di uscirgli dalle orbite. Era buffissimo, per questo Shoichi sorrise.
-E poi non mi sembra di essere così scarso da permetterti di lamentarti.
-Non mi lamentavo. Sono solo un po' deluso.
-Da me?
Quella fu la volta di Shoichi a rimanere sorpreso, come se non si aspettasse una battuta del genere da parte dell'altro. O forse era semplicemente un'altra finta, era davvero molto difficile dirlo così, a freddo.
Kasamatsu sospirò, alzandosi senza rispondergli e dirigendosi agli spogliatoi con le proprie scarpe in mano.

 

***

 

Tutti in fila, come ogni volta che iniziava un nuovo allenamento.
La manager ripeteva i loro nomi ad alta voce per fare l'appello, segnando i presenti e gli assenti - una croce venne disegnata per l'ennesima volta sotto un nome prossimo all'espulsione dal club, e questo le fece comparire un'espressione di estremo fastidio sui lineamenti morbidi e di norma rilassati. Una volta finito questo, diede segno di poter cominciare, e uno dei senpai più grandi divise il gruppo in due parti separati.
Si sentiva, sotto pelle, una tensione sfuggente. I primi mesi di allenamento erano passati piuttosto velocemente, tra una cosa e l'altra, e la bella stagione aveva iniziato a farsi più calda ancora sul finire di Maggio mentre le giornate si allungavano e gli alberi perdevano tutti i loro fiori per un colorito più verde, pieno di splendore.
Anche chi non frequentava molto l'ambiente era ben consapevole dell'avvicinarsi della stagione dei campionati estivi - e questo significava, in termini brutali e senza troppi abbellimenti, che era necessario riunire la squadra dei titolari. Non molti del primo anno ambivano a quel genere di posto, nessuno a parte due, perché ragionevolmente era una speranza assai vana e a tratti anche boriosa; qualcuno del secondo anno temeva di veder svalutato il proprio posto tanto da doverlo cedere alle nuove reclute, e questo creava molta insicurezza e tensione facile; i pochi ragazzi del terzo anno mescolavano l'ansia che nasceva dalla mole di studio con l'agitazione dell'ultima possibilità a loro concessa, detentori di un'ansia ancora maggiore che a tutti gli altri.
Fu un allenamento molto sofferto, dalla maggior parte di loro. Non c'era molta attenzione sul campo, ed era così palese il motivo da risultare piuttosto fastidioso a chi lo gestiva da bordo campo.
Kasamatsu finì, per errore, nella stessa squadra di Imayoshi - la cosa più strana di tutte fu il passarsi una pettorina di colore uguale e solo dopo guardarsi in faccia, come se fosse una sorpresa per entrambi loro.
Shoichi aveva sorriso, ripresosi più velocemente dell'altro.
-Questa volta dovremo cooperare, a quanto pare.
Yukio prese in fretta il telo di plastica che l'altro gli aveva rivolto, fingendo di non sentire le parole che l'altro ancora disse verso di lui.
-Cerca di passarmi la palla ogni tanto, Kasamatsu- kun.
Fu difficile, molto difficile: il primo istinto di Yukio fu sempre quello di fronteggiare Shoichi e non quello di assecondarlo, perché per quasi due mesi consecutivi non aveva fatto altro che quello. Tuttavia, i compagni che si era trovato per quella squadra improvvisata erano più fiacchi del solito, a parte un senpai del terzo anno particolarmente arzillo e quindi inevitabilmente marcato da tre persone. Si vide quasi costretto a passare la palla a Shoichi, in più di un'occasione, così come da questi ricevette la palla ogni volta che Susa ostacolava la sua corsa al canestro per puro spirito di competizione, ora che aveva la possibilità di stargli davanti e non a fianco. Si ritrovarono a considerarlo possibile prima di quanto entrambi si aspettassero; Shoichi riuscì anche a sorridere in modo incoraggiante a Yukio, e questi non lo trovò poi così inquietante o fastidioso.
Quando uno del terzo anno si parò davanti a Imayoshi, con le braccia in alto e la presenza ben corposa, Shoichi saltò comunque e il suo avversario lo stesso; tentò di fare una cosa strana, allungando il braccio di lato e ruotando appena il bacino - non dovette riuscirci, perché la palla finì oltre il canestro e il suo sedere contro il parquet, in un tonfo piuttosto doloroso e molto sonoro. Portò la mano a massaggiarsi il gluteo destro, rifiutando cortesemente la mano dell'avversario e rimanendo in quella posizione per qualche secondo ancora. Yukio gli si avvicinò di corsa, cercando nella sua espressione segni di un dolore più preoccupante.
-Tutto a posto?
Imayoshi alzò gli occhi a lui e dopo qualche attimo sorrise mesto.
-Sono caduto un po' male.
-Niente di rotto, vero?
-No no, solo un gran dolore.
Accettò la sua mano, quando l'altro ragazzo gliela porse, e a seguito di qualche passo incerto entrambi tornarono in posizione di difesa.
Vennero richiamati tutti nei successivi minuti, e Shoichi fu fatto sedere sopra una delle panche a bordo campo, in modo da poter far riposare il muscolo leso. Prese parola direttamente l'allenatore, a quel punto, e come prima cosa fece loro un gran sorriso.
Parlò della nuova stagione che stava arrivando, una serie di inutili parole che però non ebbe intenzione di risparmiarsi, più qualche frase particolarmente nostalgica su vecchi campionati da lui seguiti con le squadre degli anni passati e i compagni e i giocatori che lui aveva assistito con tanta cura e tanta devozione, nella pazienza degna di un vero uomo giapponese. Niente di esaltante, dal momento che la squadra della Touou rientrava poco più che in una mediocre normalità.
Arrivò, infine, quello che doveva essere il capitano della squadra titolare – il ragazzo arzillo che aveva giocato assieme a Shoichi e Yukio – con in mano una decine di divise nere e un gran sorriso sul volto. Affiancò l'allenatore mentre questi finalmente introduceva il discorso sulla stagione attuale, sulla formazione della nuova squadra e cose altrettanto simili. Si sarebbero disputate partite amichevoli, prima dell'inizio vero e proprio del campionato, e queste sarebbero servite a loro per vedere quali elementi si potessero ritenere validi per un'eventuale squadra di titolari.
L'uomo prese il blocco della manager dalle mani di questa e cominciò a far scorrere lo sguardo attento sui vari nomi.
Li pronunciò tutti, dal primo all'ultimo, creando un'angoscia tale in ognuno di loro non indifferente. Prima nome e cognome, poi se era considerato nella squadra per la prima partita o no.
Imayoshi fu il primo a ricevere la propria maglia: scelse per sé il numero sette, senza pensarci troppo. Kasamatsu lo seguì poco dopo, con il numero tre.
Susa non ricevette nessuna maglia per quella volta. Fece il suo inchino, come tutti, e ringraziò di cuore l'allenatore.
Una volta terminato quell'appello, l'allenatore consegnò il blocco con l'elenco di nuovo alla manager, per finire il proprio discorso con altre inutili parole.
L'appuntamento era due giorni dopo, davanti all'ingresso della scuola, di primo pomeriggio. Li salutò, infine, con un sorriso grande grande.

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Capitolo 3
*** *Primo anno - III* ***


*Primo anno – III*

 

 

 

La scuola, dotata di lauti fondi più che sicuri, aveva fornito al club di basket tutto un piccolo pullman per la trasferta di quel pomeriggio. La strada da percorrere non era tanta, e anche abbastanza fornita di mezzi per arrivare in sicurezza e velocità, ma il responsabile nonché allenatore dei ragazzi aveva preferito tenerli in un solo spazio ristretto, in modo da poterli meglio controllare e non disperdere come foglie al vento.
Titolari o meno, tutti gli iscritti al club si presentarono all'orario stabilito, e tutti salirono sul pulmino perfettamente in ordine.
Kasamatsu andò a occupare uno dei posti verso l'inizio, poco distante dal conducente. Non che ci fosse così tanto spazio da poter lasciare un grande vuoto, tra i compagni più rumorosi e sé – e di certo il parlottare eccitato che si alzò già nei primi dieci minuti di viaggio non gli diede particolarmente fastidio – ma era sufficiente perché un volume medio dentro gli auricolari lo isolasse da ogni possibile tipo di rumore molesto. Chiuse gli occhi, con la fronte appoggiata al vetro lucido e la schiena tutta sporta di lato, verso sinistra. La riproduzione casuale del suo lettore lo portò a una iniziale musica lenta, un'introduzione tranquilla che si risolse in un climax che lo obbligò ad aprire gli occhi per cercare la levetta giusta e abbassare di qualche numero il volume del brano, infastidito come all'improvviso.
Quando tentò di assumere una seconda volta la stessa posizione di prima, gli fu inevitabile alzare gli occhi verso l'unico particolare che stonava in quel quadro quasi perfetto.
-Sei preoccupato, per caso?
Imayoshi lo stava guardando dall'altro, con il mento appoggiato alla spalla del proprio sedile e il viso schiacciato tra la parte terminale del proprio e di quello accanto, in modo oltremodo buffo e invadente allo stesso tempo. Aveva il solito sorriso sulle labbra – era diventato così frequente, vederlo, che quasi Yukio non lo notava più se non in un generale sentire appiccicoso addosso, meno invadente ma discretamente strisciante.
In quel momento, non aveva molta voglia di fare conversazione con l'altro ragazzo, quindi non sprecò più parole di quanto non fosse per lui necessario.
-No.
Guardò fuori, di nuovo, senza che Imayoshi potesse impedirglielo.
Shibuya rimaneva sempre un quartiere molto attivo, a qualsiasi ora del giorno. Le insegne dei negozi lampeggiavano di neon e colori vivaci, continuando nel loro zelante impegno lavorativo così carichi di aspettative e di promesse gioiose, trasbordanti. Altre persone, sui marciapiedi della strada, camminavano di quel passo svelto che avevano tipicamente i cittadini impegnati nella loro velocità quotidiana, a calpestare pezzi omogenei di cemento quasi come se fossero in una marcia serrata tra un negozio e un ufficio, una commissione e l'ennesimo impegno sulla propria agenda.
E poi tante, tante macchine. Colori prevalentemente spenti, gomme nere e vetri scuri che non lasciavano trasparire alcuna umanità intrinseca.
Tanti ciclisti che sciamavano in ogni dove – e fili dell'elettricità che si arrampicavano e si aggrappavano ovunque, quei lunghi e maestosi palazzi di vetro che si innalzavano come cilindri perfetti dalle radici delle città fino a toccarne la volta con un'alta punta protesa. Cartelle, completi e cravatte ovunque; cancelli alti e piazze dalle mattonelle bianche. Tacchi a spillo e scarpe di pelle nera. Profumo di smog.
Una lunga strada grigia che il pullman mangiava metro dopo metro.
La musica terminò, e lui tornò in un secondo a respirare.
-Te ne stai così zitto zitto, di solito?
Imayoshi riuscì ad approfittare del cambio di canzone per parlare e disturbarlo ancora una volta; aveva occhi curiosi e poca malizia sulle labbra, come un bambino che ha solo l'interesse nella burla ma non in possibili sue conseguenze. Yukio, assolutamente certo che l'altro non avrebbe mollato la presa se non dopo un secco ed esplicito rifiuto, premette il testo stop del suo lettore e lo guardò male, con le sopracciglia abbassate e uno sguardo assai scuro, sperando di essere abbastanza esplicito.
-Me ne sto per i fatti miei senza dar fastidio alle persone.
Shoichi capì quello che c'era da capire e tornò al proprio posto, più o meno accondiscendente; Kasamatsu sbuffò prima di tornare a sentire la musica, ignorando sia i propri compagni rumorosi sia la manager che stava quasi strillando nel tentativo di riprenderli e quindi zittirli, neanche fossero dei bambini delle scuole elementari.
Mosse le spalle all'indietro, così come le fece appena roteare e stese i muscoli della parte alta della schiena. Inevitabilmente, i suoi occhi finirono col percorrere il braccio, arrivando quindi alla mano chiusa a pugno.
Aveva dormito poco, quella notte – era eccitato, non poteva negarlo a sé stesso. Eccitato e agitato, nella maniera più assoluta.
Sospirò ancora, e con il gesto di un solo dito alzò il volume dell'ultima canzone concessagli.

 

Shoichi non seppe dire, da principio, cosa lo stesse facendo fremere a quel modo, scivolando sotto la pelle eccitata come un torrente più impetuoso del sangue da un cuore pieno di umano sentire.
Si lasciò completare dall'immagine della scuola rivale, per qualche secondo, in quella che era a conti fatti la rimembranza fisica di un particolare tipo di nostalgia di tempi non troppo recenti.
A Osaka poche erano le scuole che partecipavano a campionati di basket più o meno seri con quell'entusiasmo che si poteva definire degno, e a livello di scuola media inferiore certo i numeri scarseggiavano più del necessario. Sembrava tutto impregnato del gusto del locale e del provinciale, senza i lustri di un'economia piena e grossa che tanto si poteva vantare a livello nazionale, sotto un punto di vista più vanaglorioso che realmente d'essenza. Non tanto l'amaro in bocca quanto una certa vena di sbadiglio aveva lasciato nei primi ricordi sportivi la pigrizia mentale di Imayoshi, che a stento e poco a poco era riuscito a riprendersi da uno stato solo di apparente torpore totale.
Solo in seguito all'arrivo di Hanamiya Makoto lui aveva cominciato a provare un discreto coinvolgimento nel gruppo che allora capitanava, senza più lasciare il tutto a una mera questione di meccanica fisica e di spesa di sforzo e tempo. Allora aveva capito tutte le cose che si era perso in quei due anni di indifferenza, e aveva cominciato a investire qualcosa in più – di personale e davvero intimo come la passione e il divertimento.
Però, in quel momento, molto di lui era diverso. A cominciare dalla modalità con cui respirava a pieni polmoni, a come camminava lungo i ciottoli del vialetto che portava dall'ingresso alla palestra della scuola e tutto quello che stava nel mezzo fra il primo limite e l'ultimo degli ultimi.
Il peso di quel nuovo inizio gravava, nella sua leggerezza per niente materiale, sulle sue giovani spalle. Aveva una spruzzata della giusta aspettativa, come quella di ogni ragazzo che si appresta a fare per l'ennesima prima volta qualcosa. Shoichi era cinico, e si commiserava da sé quella felicità non necessaria e inutile, quel tipo di entusiasmo assai infantile. Eppure, per quanto crudele e spietato – forse anche un po' troppo drastico – fosse il giudizio, non aveva la minima intenzione di rinunciare a un grammo dei sentimenti che provava in quel preciso momento particolare.
I passi dei compagni di classe che lo circondavano sembravano andare al passo con il battito del suo cuore, e nel quasi religioso silenzio in cui la tensione li aveva tutti rilegati riusciva a sentire i loro respiri a tempi, i loro sentimenti svuotati da polmoni troppo pieni di cose innominabili – lui li registrava, come una pellicola l'impressione precisa e fin troppo definita del reale, li faceva propri implicitamente e ne lasciava andare il resto superfluo.
Si ritrovò quindi in ambienti a cui non era abituato, a spazi che non gli erano propri e con cui non doveva entrare in nessun tipo di intimità necessaria; luoghi pregni delle impronte altrui, di sentimenti che lui non aveva mai vissuto ma che poteva sentire librare nell'aria, come fantasmi poco corporei che non avevano mai lasciato davvero la pace dei sensi a chi li aveva evocati.
Sempre Shoichi si era ritrovato con una sensibilità empatica addosso da non riuscire a rimanere indifferente all'ambiente umano esterno a lui, per quanti muri erigesse attorno a sé. Come gestiva le informazioni che riusciva a ricevere era davvero qualcosa da non poterne parlare facilmente – sulle ferite lasciate non solo dal tempo che gli bruciavano ogni volta che venivano esposte con più o meno brutalità al sole esplicito – ma che fosse attento spettatore di tutto era una delle poche verità della sua vita.
A cominciare da uno spazio reso vacante troppo presto dalla crudeltà del reale, all'intenzione catturata dalla coda dell'occhio al momento opportuno. Nulla poteva sfuggire a Imayoshi, neppure l'ansia non troppo celata di un Yukio Kasamatsu tremante nella propria immensa divisa da titolare, esattamente contro l'armadietto che ha preso come suo.
Susa, accanto a lui, lo guardò con tanta ammirazione nello sguardo e solo un velo discreto di invidia, vestito della propria divisa chiara della riserva, e quella felpa lunga che copriva e riscalda a dovere i suoi muscoli.
Gli sorrise, il meno scaramantico di sempre.
-Se vinciamo, mi devi un pranzo.
Si sistemò meglio gli occhiali sul naso mentre l'altro rideva tanto, senza più tremare per l'emozione. Ed ecco che Shoichi capì quello che sta provando, in mezzo a tutti loro – ed era un po' stupido, davvero, e non credeva di non doverne ragione a nessuno in particolare se non a se medesimo.
Felicità, pura e semplice.

 

***

 

La sensazione del momento era qualcosa di abbastanza familiare, in quasi tutte le sue componenti distinte.
Il pubblico non era particolarmente coinvolto, per quanto abbastanza presente a ogni loro passaggio, composto com'era dai genitori degli studenti della scuola ospitante decisamente troppo zelanti e qualche amico che probabilmente di sport poco o niente se ne intendeva davvero e sprecava solo un poco di entusiasmo per quella partita poco importante e quasi del tutto incomprensibile ai suoi occhi. Sembravano tutti quanti macchie sparute di colore tra gli spalti omogenei di un rossastro poco appetibile, che riusciva a confondere la vista qualora si alzasse lo sguardo dal campo da gioco, terribile sbaglio.
Il tetto alto della palestra, poi, spandeva in troppe eco le parole e soprattutto le grida, confondendole con la sensazione di umido e di calura spessa penetrata dall'esterno con indomabile vigore.
Ancora un canestro – qualche secondo di movimento frenetico e di ansimo trattenuto a stento – e la partita si sarebbe conclusa.
Sotto i polpastrelli, Kasamatsu sentiva ruvido. Per la palla e il contatto prolungato dell'uso, qualcosa che lo sfregava fisicamente ma lo faceva sentire leggero per altri versi.
Un triplo passo e un palleggio sotto le gambe tese; una finta e lo sguardo diretto agli occhi del proprio avversario, abbagliante come un lampo simultaneo. La scarpa raschiò contro il pavimento, producendo solo l'ennesimo suono acuto tra i tanti. Più indietro, senpai e compagni gridavano ancora qualcosa, esattamente come l'allenatore e la manager a bordo campo, dimentichi della consueta calma e postura.
Imayoshi, però, era proprio sotto canestro, inspiegabilmente smarcato. La palla passò in modo fin troppo naturale dalle mani di Yukio a quelle di Shoichi, come se fosse animata da volontà propria. Il ragazzo con gli occhiali si dimenticò di sorridergli in ringraziamento, troppo concentrato su quello che doveva fare: si alzò in volo con un ragazzo avversario sbucato all'improvviso e ruotò il busto in aria, nascondendo la propria mano nel gesto.
Non si seppe come, ma segnò due punti.
Il fischio dell'arbitro determinò la fine della prima partita del campionato estivo, e quasi tutto si fermò in quel determinato punto – tranne Imayoshi, che finalmente toccò terra con le suole dei propri piedi, tenendo le braccia alzate per qualche secondo mentre fissava la rete del canestro ondeggiare in alto. Sospirò e seguì con interesse i rimbalzi modesti della palla sul parquet, svuotato di ogni altra forza, anche quando fu lo stesso Kasamatsu a raccoglierla e a porgerla all'arbitro. Si sentì qualcuno esultare di gioia, e anche parecchi applausi inaspettati.
I due ragazzi si fecero vicini con passi un po' pesanti e un po' no.
Imayoshi aveva ancora il sorriso a tirargli gli angoli delle labbra quando l'altro si allungò verso di lui con parole positive, cariche, piene.
-Bella partita!
Aveva gli occhi che brillavano, sottilmente. Tutta l'emozione e l'impegno erano valsi a qualcosa, dopotutto, ed era inutile negarlo.
L'arbitro fischiò l'ultima delle volte e alzò in alto un braccio, per richiamarli tutti. Lesti, i dieci giocatori ancora in campo formarono due file parallele, l'una di fronte all'altra, e all'opportuno comando si salutarono a vicenda.
Imayoshi non si soffermò troppo a guardare le loro espressioni afflitte o a tergiversare su significati nascosti e impliciti su quanto potessero provare in quel preciso momento. Bastava percepire i loro respiri e ricordare le proprie vecchie sconfitte, tra sudore grondante e quel senso di acuta impotenza che faceva tremare più della fatica sprecata nel nulla. Non poteva avere gentilezza per loro, né la minima ipocrisia.
E così sentiva anche Kasamatsu, per quanto la sua giustificazione vertesse molto di più sull'orgoglio e la dignità compiute.
Fu mentre si avvicinavano agli spogliatoi con il resto della squadra che decise di parlargli ancora, prendendolo un poco in disparte.
-Cos'era, quello?
Shoichi non capì subito, e lo guardò con espressione dapprima smarrita.
-Cosa?
Kasamatsu corrucciò la propria espressione, entrando dopo di lui nella sala dello spogliatoio maschile. I senpai e le riserve che non avevano giocato erano i più ilari, probabilmente perché con abbastanza energia in corpo da poterselo permettere.
Molte furono le pacche sulle loro spalle e sulle loro nuche, molte le parole di scherno e di pura felicità che furono vomitate addosso a loro – Kasamatsu, per la stazza più minuta e meno massiccia, rischiò quasi anche di venire sollevato di peso per essere portato sotto la doccia ancora vestito, in pieno rispetto di quella cosa malsana chiamato nonnismo scherzoso.
Yukio riuscì a svicolarsi da questo dovere pericoloso e ad avvicinarsi di nuovo a Imayoshi, mentre questi si spogliava lentamente per non forzare ancora i muscoli del proprio corpo.
-Cos'era quello che hai fatto sotto il canestro?
Lo vide tornare a sorridere in maniera furba, come se dovesse confidargli un segreto neanche troppo a lungo conservato.
Susa, in quel momento, era nel gruppo lontano e riservato dei giocatori che non si erano mossi per la partita, e li guardava con un misto di curiosità e fastidio.
-Una mossa che ho perfezionato da solo.
Tolta la maglia gronda di sudore nauseabondo, ora toccava anche ai calzoni e alle calze; Kasamatsu si allontanò un poco, con le dita chiuse attorno alle narici del naso, quando Shoichi si liberò delle proprie scarpe, rubandogli una sincera e divertita risata.
-Ho pensato fosse l'occasione ideale per adoperarla.
Solo quando Imayoshi fu completamente nudo davanti a lui, con l'asciugamano allacciato in vita e il bagnoschiuma nella propria mano, Yukio ricordò di doversi fare a propria volta la doccia. Si spogliò fin troppo velocemente, mentre l'altro lo aspettava tranquillo, e andarono assieme alle piccole docce lì presenti, dove già gli altri avevano occupato i posti migliori e il vapore dell'acqua calda ondeggiava nell'aria con insolita allegria.
-E perché?
-Beh, perché non è ancora perfetta. Volevo vedere l'effetto che poteva fare.
L'acqua venne aperta da un gesto quasi scandalizzato, decisamente molto sorpreso di fronte a una dichiarazione del genere, fin troppo egoista da parte dell'altro – come se mancasse un senso intimo di responsabilità di gruppo.
-E se non ti fosse riuscita?
-Probabilmente avrei passato il prossimo quarto d'ora picchiato da tutti voi negli spogliatoi.
Lo disse ridendo, e questo confermò le ipotesi di Kasamatsu.
No, decisamente ancora no: non poteva cambiare troppo opinione riguardo quel tipo, così come non poteva ancora fidarsi di lui a livello prettamente umano. Troppo volpe – troppo ferino, per tutti i versi che interessavano a lui.
-Non hai scrupoli.
-Mi piace il senso della tensione.
-Sì, l'ho notato.
Tra di loro, cominciò a esserci il profumo del bagnoschiuma, e questo rese il tutto almeno un poco piacevole. A Yukio scappò quasi un sorriso quando si passò la mano impregnata di schiuma sulla spalla dolorante, dimentico quasi della situazione e della compagnia attorno, tranne che quella di Imayoshi.
-Ora sei decisamente più loquace di prima.
-Quando sono teso, non mi piace che mi si parli.
Non era un chiedere scusa, perché l'uno non poteva permetterselo e l'altro ne avrebbe approfittato di sicuro. Però, da un altro punto di vista, quello faceva parte dei dettagli personali che andavano a definire la personalità di Kasamatsu, e Shoichi lo raccolse con cura tutta sua.
-La prossima volta me lo ricorderò. Sicuramente.

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Capitolo 4
*** *Intermezzo - I* ***


*Intermezzo – I*

 

 

 

Passavano anche i mesi, ma l'espressione fintamente felice di Imayoshi non riesce a schiodarsi dal suo viso. Per quanti avvenimenti possano trascorrere, per quante cose vengano dette, per quanti giorni siano spesi lontani o vicini, per quanta neve possa cadere sulle strade larghe e colorate di Shibuya in piena festa.
Sempiterna, la sua bocca si piega al ghigno e ogni tipo di comprensione non superficiale scivola assieme alla voglia di un contatto appena più intimo, come se lo scherma adoperato da quella volpe fosse così efficace da risultare sgradevole a chicchessia. Una rada capacità di schivare pietà e interesse altri andava davvero riconosciuta a quel tale, che per indole o per voglia non mostrava interesse nell'umano se non nella sua intima passione, e quindi sentimento.
Ovvero, la capacità di ognuno di cadere ai suoi inganni.
Però c'erano radi momenti in cui tutto questo si affievoliva, almeno parzialmente, e lasciava spazio anche a un disinteresse generale che sfociava nel buonismo grossolano, come se un qualsiasi ragazzo di provincia abbastanza bonario prendesse vita nella stessa pelle e nello stesso corpo massiccio di quell'astuto calcolatore fine.
Così, giusto per non passarlo solo con fratelli e genitori, Yukio si era ritrovato a passare il capodanno con la propria nuova squadra di basket, tra compagni più grandi decisamente contenti di poter festeggiare in qualsivoglia modo tutti assieme e compagni della propria stessa età presi di mira da scherzi più o meno cattivi e di dubbio gusto – lui si era sempre salvato il più delle volte per l'incapacità di reagire prontamente o nel modo ricercato dai loro carnefici, che lo scartavano quasi a prescindere come poco appetibile, nonché una capacità di scatto alla fuga davvero notevole.
Alcool non si poteva vedere, causa età e un gestore davvero rispettoso del sistema, ma bastava il volume troppo alto della musica di quella sala da karaoké che avevano noleggiato per tutto quel pomeriggio per stordirli di euforia e smarrimento nel medesimo modo efficace.
Ovviamente, nel caso ci fosse stato qualche kohai difettato da una scarsa capacità canora, avrebbe pagato conseguenze fisiche e morali – per questo e per diversi altri motivi Yukio si era fino a quel momento rifiutato di partecipare al gioco generale, preferendo di gran lunga parlare con un compagno del secondo anno che si lamentava di questo e di quello, in particolar modo del proprio insegnante di storia moderna.
Con la coda dell'occhio, Imayoshi ogni tanto sbirciava la sua figura. Susa era intento a guardare preoccupato i senpai scimmiottare qualcosa di poco definito, privi anche del più minimo autocontrollo, e siccome qualcuno lo aveva già minacciato con canzoni smielate e particolarmente alte, temeva per la propria incolumità più di ogni altra cosa, senza badare troppo al proprio amico; infatti, quando qualcuno si avvicinò a lui con la mano protesa, per agguantarlo e tirarlo fuori da quel marasma di persone appollaiate su quattro divanetti stretti di pelle profumata, lui fece in modo molto istintivo uno scatto all'indietro, cercando di fondersi con lo schienale morbido. Shoichi si unì alla risata generale in risposta, e prese al suo posto la mano dell'altro ragazzo, ritrovandosi quasi simultaneamente al centro dell'attenzione generale. Ondeggiò un poco sulla propria postazione, come un presentatore molto svogliato e anche molto lamentoso. Quando guardò il titolo del brano che qualcun altro aveva scelto per lui, non poté che rispondere con un sorriso muto all'ennesima risata contro di sé, facendo parte di quell'immenso gioco. Guardò il suo pubblico mentre le prime note cominciavano a suonare, donando a questo una lunga occhiata complice – qualcuno rise ancora, ma poi ci fu abbastanza silenzio da permettergli di fare quello che doveva.
Stonò, diverse volte, specialmente quando la melodia cominciava a alzarsi più o meno all'improvviso. Ci fu una strofa che saltò quasi completamente, dimentico delle sue parole specifiche, e piuttosto che rimanere zitto borbottò cose nel proprio dialetto, guadagnandosi altre risate davvero sincere. Il suo punteggio finale fu mediocre, ma non così basso come poteva sembrar essere; lui, ovviamente, ne fu più che orgoglioso, e si prodigò in un inchino piuttosto profondo al proprio pubblico fintamente ammaliato.
-Sono certo che Kasamatsu-kun non sa fare di meglio.
Lo gridò, quasi, e tutta la squadra squadrò per diversi secondi un povero Yukio avvampato all'improvviso – una dichiarazione del genere lo aveva colto decisamente di sorpresa, impreparato come poche altre volte. Com'era ovvio, tutti presero a chiamare il suo nome, e molte mani lo spinsero verso la postazione dove avrebbe provato di valere meno o più quello sfrontato ragazzino occhialuto. Si ritrovò a odiarlo come poche altre cose al mondo, tutto all'improvviso.
Quasi strappò il microfono dalle sue mani, e lo guardò ancora più male mentre tornava al proprio posto con quel suo solito sorrisetto detestabile, prendendo posto accanto all'amico di nuovo salvato. Yoshinori rideva parecchio ai suoi danni, e non sembrava per niente partecipe al suo dramma. Odiò parecchio anche lui.
Per Yukio, il capitano della squadra decise invece qualcosa di più passionale e basso, cantato in origine da un uomo maturo con una voce quasi baritonale. A lui, quel ragazzo stava parecchio simpatico, e non sopportava certi modi di fare di Shoichi: questo era quasi a tutti assai evidente, e in particolar modo a Imayoshi.
Kasamatsu non riuscì a fare un punteggio particolarmente buono, ma almeno riuscì a fare qualcosa di più decente di Shoichi. Questo gli procurò una serie di complimenti davvero immeritati e il sorriso più che consenziente della manager lì presente. Imayoshi, riconoscendo la propria sconfitta in sospetta maniera sportiva, si alzò dal proprio posto e andò da lui per alzargli il braccio in alto, come in un combattimento corpo a corpo in cui lui riconosceva un'implicita sottomissione. Questo gesto attenuò la sua mortificazione e lo rese oggetto di un più discreto attacco verbale canzonatorio da parte di tutti gli altri – com'era logico, in quanto tutti loro implicitamente gradivano molto cose simili.
Quella era la prima volta che Kasamatsu veniva toccato direttamente dalle sue mani. Sentì calore e uno strato di pelle liscia a contatto con il proprio polso, dita sottili e lunghe che però non davano l'impressione di doversi spezzare da un momento all'altro, ma anzi avevano una presa solida e ben calibrata. Per un attimo solo, Yukio ebbe l'impressione che una mano del genere sarebbe stata capace di sorreggere qualsiasi peso, persino il suo.
Imayoshi gli sorrise direttamente, ancora coinvolto nell'ilarità generale. Quella volta, Kasamatsu gli rispose di cuore.

 

 

 

Ever wonder about what he's doing

How it all turned to lies

Sometimes I think that it's better to never ask why

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Capitolo 5
*** *Secondo anno - I* ***


*Secondo anno – I*

 

 

 

Il caldo dell'estate non del tutto passata aveva ancora il potere di stordirlo quasi completamente. Benché fosse proveniente da un posto situato ancora più a meridione che il quartiere dove ora aveva dimora, il suo fisico rimaneva sempre provato dalle alte temperature, e la sua mente ne usciva quasi del tutto sconfitta da uno scontro diretto con il sole che picchiava sulla sua testa senza la minima pietà. Era solito, infatti, passare le vacanze estive disteso agonizzante sul pavimento di camera sua, mentre una ventola piuttosto isterica gli soffiava contro direttamente senza mai cessare; le attività intellettuali quali fare i compiti o anche solo rispondere al richiamo di sua sorella maggiore, che pretendeva almeno un poco di partecipazione alle attività casalinghe come preparare i pasti o apparecchiare la tavola, erano relegate a quelle poche ore di buio che lui passava sveglio, prima di andare a dormire.
Questo, ovviamente, quando l'attività sportiva non lo obbligava altrimenti.
Durante il secondo anno, il loro nuovo allenatore aveva deciso di regalargli l'emozionante brivido di un campo estivo di allenamenti intensivi, in una località marittima distante solo un paio di ore da Shibuya.
Malvagità distillata difficilmente prevedibile in un affascinante insegnante di chimica.
-Così sarete belli carichi per il torneo d'inverno.
In realtà, Imayoshi aveva fin da subito sospettato di condividere con l'uomo quella vena cinica e sadica nei confronti dell'umanità intera che lo rendeva così particolarmente molesto per tutti. Eppure, a differenza dell'anno precedente, erano riusciti a risalire il campionato di basket di inizio estate, e fare diverse partite prima di venire eliminati dai gironi finali – uno sforzo che li aveva uniti come sempre, e resi protagonisti anche di sentimenti forti e totalizzanti. Quell'anno, Susa era entrato nei titolari e aveva avuto l'opportunità di giocare assieme a lui anche nelle partite ufficiali. Aveva dimostrato un'affinità con lui davvero senza pari, assieme a una capacità di adattamento alle sue brutte abitudini che compensava gran parte dello sconcerto generale del resto della squadra. L'allenatore lo aveva capito subito, avendo un occhio ben preparato in questo, e aveva fatto in modo di farli giocare quasi sempre assieme. Tuttavia Susa, a differenza di altri, mai si era imposto su Imayoshi, e questo rendeva la loro accoppiata sia unita sia particolarmente instabile: ci mettevano poco a rinunciare alla fiducia che avevano l'un per l'altro, speculando su un gioco decisamente più individuale e altrettanto efficace.
Tutto questo era alla base della riuscita concreta della loro amicizia.
-Penso che tu dovresti alzarti da lì.
Lo poteva per questo guardare dall'alto al basso, vestito già per uscire da casa Imayoshi, mentre si rifiutava di muoversi dal pavimento come un lombrico mezzo spiaccicato da una scarpa disattenta. Si sentì alzare dal suo viso nascosto soltanto un lamento sordo, niente di davvero sensato – gli occhiali di Shoichi erano posti sopra il borsone chiuso e pieno di vestiti di ricambio, già preparato in precedenza. Mancava solo il loro padrone e una discreta voglia di vivere.
Susa sospirò piuttosto forte, per farsi sentire dall'altro.
-Siamo in ritardo.
Finalmente ebbe una reazione più sonora. Shoichi mosse persino il proprio braccio, andando a tastare la zona di pavimento attorno a sé alla ricerca dei suoi piedi, giusto per dargli fastidio; non riuscì nel suo intento, e questo lo indispettì parecchio.
-Chi muore non è mai in ritardo, Yoshinori- kun.
-Non cercare giustificazioni alla tua indolenza.
Volse persino il viso nella sua direzione, cercando un contatto visivo. Non si era dimenticato della propria cecità, era solo probabile che cercasse di insinuare una piccola vena di pura pietà dentro l'irremovibile sicurezza del proprio migliore amico.
Grondava sudore freddo, dopotutto.
-Ho molto caldo.
Tuttavia, per quanto Susa non era esattamente avvezzo a quel genere di moine, non era di quel carattere semplice che si lascia abbagliare da qualche lamentela di poco conto, in particolar modo quando ha un appuntamento da rispettare.
-Non sei il solo, ma a differenza tua io sono già pronto.
-Sei privo di compassione.
-Già.
Shoichi bofonchiò e tornò a guardare il pavimento, senza più dargli corda. Yoshinori, con uno sbuffo decisamente contrariato, abbandonò il bagaglio che fino a poco prima teneva stretto contro il fianco e procede dal ciglio dell'ingresso fino al centro della stanza, dove l'altro era posizionato ancora. Dapprima lo calciò all'altezza della spalla, piano, ma quando vide che anche quello era inutile si abbassò e gli prese il braccio per il polso, cercando di alzarlo forzatamente.
Probabilmente fu per la strenua resistenza di Imayoshi unita alla strenua tenacia di Yoshinori, fatto sta che alla fine caddero entrambi di nuovo a terra, uno sopra l'altro, dopo aver rotolato un paio di volte. Susa sopra, Shoichi sotto.
Non risero – non respirarono neppure – e mancò davvero poco che la mano di Yoshinori finita chissà come sul collo di Imayoshi non percorresse quei pochi centimetri che la separavano dalla guancia di lui.
Poi il ragazzo con gli occhiali sorrise, rubandogli ben più di un battito di cuore.
-Ora mi vesto, non ti agitare.

 

Kasamatsu provava con tutto se stesso a rimanere concentrato sul gioco in atto, ma gli era davvero difficile quando per l'ennesima volta il proprio piede affondava nella sabbia rovente e molle sotto la sua pianta ancora sensibile. Finì per essere sbilanciato di lato, quasi cadere a terra e immancabilmente perdere in maniera inevitabile il possesso della palla contesa con la squadra avversaria. Qualcuno fu troppo lesto e troppo attento per non approfittare subitamente della situazione di disagio, tanto che la sfera dura gli venne rubata in maniera molto facile e portata lontano – non troppo, a dire il vero, perché il ladro cadde quasi di schianto dopo pochi metri, con la faccia immersa nel suolo.
Quel loro allenatore dalla faccia furba aveva avuto la sadica idea di farli giocare una partita di allenamento sulla sabbia, con tutte le difficoltà del caso. La povera manager, a bordo campo, non faceva altro che fischiare e imprecare contro ognuno di loro fin troppo spesso, divenuta isterica già da qualche abbondante minuto: erano tutti frustrati e accaldati per il sole cocente, il ché rendeva l'insieme ancora più sconfortante.
Era una novità, qualcosa del genere. Il primo anno erano stati abituati a allenamenti molli, decisamente non a corse imperiture con metà delle gambe in acqua, le partite estenuanti su pavimenti duri fatti di cemento, o ancora nuotate con il solo scopo di rafforzare muscoli poco usati. Kasamatsu, tuttavia, per quanto fosse sempre molto zelante nel soddisfare le pretese assurde di quell'uomo maledetto, si trovava in difficoltà a gestire i propri sentimenti e il proprio corpo fisicamente provato. Con il secondo anno raggiunto e ben iniziato, le sue aspettative per il futuro non si erano addolcite per nulla, anzi: il senso di responsabilità comune era andato addirittura acuendosi, gravando su spalle già schiacciate.
Dopotutto, lui era uno di quelli la cui esperienza aveva raffinato una capacità intrinseca e innegabile, tanto che già alcuni giornalisti locali – qualcosa di poco conto che non andava neanche di poco a stuzzicare la sua vanità inesistente – lo avevano già tempo adocchiato, pur essendo lui uno del secondo anno.

Promessa nascente”, aveva detto qualcuno. Kasamatsu lo aveva sentito sulle bocche di kohai ammirati e senpai invidiosi e non ne aveva tratto alcun beneficio; lo aveva sentito anche cadere dalle labbra di quelle che sembravano le sue poche fan personali, e allora era arrossito molto e aveva tentato di darsi un contegno modesto, per quanto la situazione e l'imbarazzo potessero permetterglielo.
La sua testa, dopotutto, era piena soltanto di un pensiero fisso, e salvo qualche rara eccezione si permetteva di divagare tanto da perdere il filo della propria vita. Si era posto un obiettivo piuttosto alto, per quanto magari non esattamente conforme alla norma dei ragazzi della sua età, e per carattere e per formazione non era disposto a rinunciarvi senza aver combattuto strenuamente.
Un giorno si sarebbe guardato allo specchio, negli anni più avanzati della sua vita, e avrebbe decretato di non aver speso neanche un solo minuto o un solo secondo della propria esistenza in maniera da potersene in qualche modo pentire.
In quel periodo preciso, la sola cosa capace di farlo sentire davvero vivo era soltanto il basket; per questo motivo ci si dedicava anima e corpo, e vi applicava i suoi più sinceri concetti di moralità. Anche quando tratteneva a stento imprecazioni decisamente più colorate del suo solito e sempre a stento evitava di dare mostra della propria intima frustrazione.
La manager fischiò ancora una volta, quando un ragazzo grosso il doppio di lui, primo anno, finì per sbaglio a scivolargli proprio davanti, finendogli addosso senza volerlo. Dovette aiutarlo ad alzarsi, perché la mortificazione gli impediva di fare alcunché. Wakamatsu Kousuke non lo guardò dapprima negli occhi, e solo dopo un più deciso invito accettò di prendergli la mano e quindi di alzarsi accanto a lui – si scusò diverse volte, sincerandosi di non avergli fatto male.
Kasamatsu prese la palla dal passaggio di uno dei propri compagni e si posizionò di fronte al canestro immobile. Respirò piano, cercando di richiamare tutta la calma e la compostezza dispersa tra i meandri di isteria suoi propri o condivisi con gli altri.
Un gabbiano, lontano, lanciò un grido al proprio stormo, e fece passare una serie di ombre sul viso concentrato del ragazzo.
Due punti, e il fischio della fine.

 

***

 

Kousuke stava ancora correndo, per la terza volta, sbucando dall'angolo cieco che dava al corridoio isolato dove si trovavano i distributori automatici di bevande gassate. Essendo il più veloce e il più energico di quelli del primo anno, e conservando non si sapeva bene come ancora energia in corpo dopo tre giornate di lavoro estenuante, veniva spesso utilizzato per soddisfare ogni minimo capriccio dei compagni più grandi, anche e in particolar modo quello di bere qualcosa di fresco a tarda sera, quando tecnicamente sarebbe stato davvero poco consigliabile uscire dall'edificio al fresco della notte.
Shoichi si mise a lato del piccolo vialetto per farlo passare senza intralci, riservandogli una buona dose di pietà e commiserazione. Wakamatsu, con un'espressione trafelata, gli rivolse un leggero cenno della testa, e implicitamente chiedendogli di favorire indicò con un dito dritto il malloppo che teneva tra le braccia; senza pensarci troppo, il più grande recuperò una limonata freschissima dalle sue mani, e quindi lo lasciò andare.
Sentì forte il sapore dello zucchero sulla lingua, e questo gli alleggerì subito la testa privandolo di tutto il torpore che aveva accumulato per fatica e caldo.
Si immerse nel giardinetto della residenza dove la sua squadra aveva preso alloggio, calpestando la morbida erbetta di un prato verdastro e seguendo le aiuole basse. Si ritrovò quindi nelle prossimità di un piccolo stagno, dove galleggiavano foglie larghe e verdi smeraldo.
Seduto su una panchina a fissare il vuoto, c'era Kasamatsu Yukio – alzò lo sguardo su di lui quando lo vide arrivare, senza però scomporsi in altro modo. Prese con calma posto accanto a lui, sul lato opposto delle assi rispetto al ragazzo.
-Tutto solo, Kasamatsu- kun?
-E tu, tutto solo, Imayoshi?
Indossava la camicia della divisa, maniche corte e qualche bottone slacciato: si poteva vedere la canotta bianca sotto, leggera leggera. Shoichi sorrise con le labbra premute contro il bordo della lattina di fronte al suo atteggiamento irremovibile.
-Susa è caduto di schianto appena ha toccato il cuscino, non sono neanche riuscito a parlargli che già mi russava in faccia.
-Immagino sia stanco, ha corso ininterrottamente tutto il giorno.
Si ritrovò a sorridere troppo presto, forse nella speranza di non doversi difendere da altri attacchi per quella giornata. Non aveva molta voglia di pensare, men che mai di badare ai giochi sadici di quello.
-Sì, anche lui è zelante e bravo come te.
Se davvero fosse riuscito a trovarlo insopportabile, allora ne avrebbe preso marcatamente le distanze. Eppure, per quanto il suo modo di fare non gli andasse a genio, la forza della sua personalità lo attirava comunque, e questa era la sua vera condanna.
Sospirò, un po' stanco, e si portò le mani alle tempie per concedersi un piccolo massaggio.
-Quando fai complimenti a qualcuno, dovresti cercare di essere più sincero.
-Dici? Ma io sono sincero!
Non si sprecò neanche a rispondergli, a quell'evidente menzogna. Tornò ad assistere al ballo delle lucciole sul prato, con mollezza sulle palpebre e una discreta tranquillità nel petto.
Shoichi, dall'altra parte, aveva appena finito la propria bibita.
-I nostri senpai sono molto carichi.
-Hanno ancora un campionato da giocare. Mi fa piacere vederli così partecipi.
-Forse perché è la loro ultima occasione di riscatto.
-Riscatto?
Lo guardò in viso, cercando nella sua espressione qualcosa di non così insinuante. La trovò, quasi schiaffata in faccia.
-La nostra squadra non vanta molti successi passati, a quanto sembra. Trovo quasi stupido che ognuno di loro speri davvero di cambiare questo nostro destino.
-Praticamente, stai dicendo che siamo persone mediocri.
-No, non è esatto.
Kasamatsu gli si era rivolto con evidente irritazione, ma questo non lo aveva frenato dal sorridere al suo solito modo e a sporgersi nella sua direzione, con tutto quanto il busto. Si ritrovava in bilico tra il serio e la falsità, e questo a Yukio non era mai piaciuto, tanto da farlo sentire obbligato a rintanarsi in una difesa strenua e tutta personale, che non lasciava minimamente spazio agli attacchi di Imayoshi.
-Siamo una squadra mediocre composta da molte persone mediocri e alcune persone di talenti.
-Immagino che tu abbia preso arrogantemente posto in questa seconda categoria.
-Se si puntasse a sviluppare il gioco di quelli di noi veramente capaci, probabilmente avremmo molti risultati in pi dalla nostra.
Shoichi tornò ad assumere la giusta posizione, ritirandosi di poco così da permettere a Kasamatsu di respirare più tranquillamente. Non si staccavano gli occhi di dosso, e questo era abbastanza normale tra di loro – tolto ovviamente quella patina di rivalità accesa che li univa in diverse occasioni.
-Prendi quel ragazzo del primo anno, Wakamatsu. Sono dell'opinione che potrebbe valere molto di più di quello che un semplice primino possa suggerire.
-Tu dimentichi una parte fondamentale del basket, che è il gioco di squadra.
-Anche tu dimentichi qualcosa di molto importante del basket, che è la vittoria. Non essere ipocrita, Kasamatsu- kun: ognuno di noi la brama con tutto se stesso.
Respirò forte, comprendendo il punto focale della situazione e il vero motivo per cui loro difficilmente sarebbero mai andati d'accordo, come giocatori di basket.
Il punto di partenza non era diverso e neppure il punto di arrivo, ma Imayoshi optava per un tipo di percorso diametralmente opposto a quello di lui, rendendolo quasi del tutto estraneo al modo di pensare a cui era avvezzo. Per quanto ne potessero parlare, con molta difficoltà avrebbero trovato un punto di incontro, Yukio ne era sicuro, come era sicuro che questo non fosse necessariamente un male.
Per quanto l'indifferenza potesse essere una valida scusa in situazioni come quella, doveva comunque fare i conti con l'affinità che sentiva legarlo a lui, e questa non era una cosa di poco conto, nella maniera più assoluta.
-Dipende a quale prezzo sei disposto a raggiungerla.
-Qualsiasi, a dire la verità.
Sospirò ancora, dopo qualche secondo di silenzio teso – Imayoshi gli sorrise apertamente, dimentico di ogni tipo di malizia.
-Ogni tanto penso che il talento che hai sia uno spreco, su una persona come te.
-Smettila con i complimenti, potrei arrossire e credere che tu sia davvero interessato a me.
Arrossì lui, senza riuscire a trattenersi in tempo.
-Sei la cosa peggiore, Imayoshi.

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Capitolo 6
*** *Secondo anno - II* ***


*Secondo anno – II*

 

 

Imayoshi avrebbe dovuto prevederlo nel momento esatto in cui Yoshinori era entrato in casa sua con quella strana faccia addosso.
Suo padre si trovava a lavoro, distante mezzo distretto dalla propria dimora familiare, mentre la sorella maggiore era ancora impegnata in vicende di vita universitaria, tra libri da cercare in biblioteche disperse e reali servizi scolastici che differivano da quelli proposti o promessi. Lo aveva fatto accomodare lui stesso dalla porta, salvandolo da un acquazzone dei primi giorni di autunno e un vento davvero gelido.
Susa sapeva di pioggia e di cemento, tra i capelli smossi, e aveva dimenticato l'ombrello da qualche parte. Non disse nulla quando Shoichi gli tolse il cappotto dalle spalle, né rispose quando gli propose di bere qualcosa di caldo per evitare che l'umidità entrasse anche nelle sue ossa. Lo seguì in cucina, con passo piuttosto malfermo.
C'erano stati altri giorni come quello, in passato, in cui Imayoshi aveva cercato di ignorare la tensione della sua pelle e intrinseca nel suo sguardo. Non sapeva assolutamente come rispondervi, e questo lo frenava dal compiere qualsiasi tipo di azione - non aveva mai avuto grandi esperienze di amicizia, né l'intimità necessaria per chiedere qualcosa di troppo riservato a quel riguardo che potesse permettergli di fare un piccolo progresso verso il suo spirito e il suo animo. L'empatia, anche questa volta, giocava a suo sfavore, e lui non sapeva come gestirla.
Shoichi gli diede le spalle e cominciò a trafficare con il pentolino dell'acqua, aprendo il rubinetto per recuperare abbastanza liquido per tutti e due. Dandogli le spalle, cercava di evitare di doverlo guardare in faccia.
Ma quando Susa chiuse l'abbraccio attorno al suo petto, stava ancora tremando. Era chiaro che neppure lui riuscisse a spiegarsi una cosa del genere, che benché non si facesse troppo riguardo ad assumersene tutte le conseguenze non comprendeva appieno la portata dei gesti che stava compiendo; di primo acchito, Shoichi sentì molta irritazione nei suoi confronti, tanto da fargli dimenticare qualsiasi forma di cortesia spicciola.
-Yoshinori, lasciami andare.
L'altro non gli diede retta, stringendo invece ancora di più il proprio corpo al suo. Il cuore batteva fortissimo, sembrava impazzito: Imayoshi lo sentì, e capì di essere arrossito molto.
-No.
Si piegò in avanti, con le gambe che gli cedevano. Non vide più niente oltre le lenti trasparenti degli occhiali, e per un attimo il suo respiro venne a mancare.
Poi si calmò, con tutto il proprio autocontrollo, e raccolse quanta più gentilezza possibile per il suo migliore amico.
-Yoshinori- kun, per favore. Lasciami andare.
Purtroppo, anche questa volta ebbe solo un rifiuto indietro.
-Non voglio.
La fronte di lui andò ad appoggiarsi sulla sua nuca scoperta, coprendo anche i ciuffi sottili e scuri dei capelli. Le sue mani, invece, si aprirono e strinsero le dita attorno al tessuto della maglia che Shoichi stava indossando, quasi tirandola un poco.
Sentiva ancora il suo respiro, contro la pelle. Poteva essere una sensazione anche piacevole, se magari Yoshinori avesse evitato di singhiozzare quelle tre volte di troppo.
Imayoshi si ritrovò crudele a proprio svantaggio, e impossibilitato di corrispondere determinati sentimenti – tradito, a modo suo, da qualcuno che non avrebbe mai dovuto toccarlo a quel modo.
Alzò la propria mano sulla sua, coprendola con il palmo aperto. Susa pensò che fosse pronto a scacciarlo di casa e, per sempre, dalla sua vita, per cui lo premette contro il lavello di forza, senza farlo ulteriormente muovere.
-Yoshinori- kun, voglio guardarti in viso.
Susa scosse la testa contro di lui, prendendo a trattenere il fiato. Imayoshi si impose di non sospirare in modo da farsi sentire, perché una cosa del genere era proprio l'ultima che egli desiderava. Glielo chiese di nuovo gentilmente, sporgendo all'indietro il proprio capo e trovando quello di lui, immobile.
-Yoshinori- kun, per favore. Fatti guardare in viso.
Dopo un po', Susa si risolse a lasciarlo andare – ma non troppo, quel tanto che servì per farlo girare nel proprio abbraccio.
Fu lì, con lo sguardo diretto al suo, che Imayoshi gli prese il volto e gli concesse il primo dei proprio baci. Era rude e sesso, fatto di troppi suoni strani e una lingua che prendeva movimenti tutti suoi, senza nessun ordine; occupava la sua bocca con una prepotenza eccessiva, e gli strappava brandelli di coscienza e volontà.
Yoshinori pianse così tanto che quasi pareva doversi sciogliere all'improvviso.

 

Quella mattina più di molte altre gli era stato difficile alzarsi dal proprio letto e assumere l'idea precisa di dover affrontare un'altra giornata della propria esistenza.
Forse perché aveva passato la notte in bianco preso da chissà quale pensiero strano, forse perché l'inverno di stava avvicinando e con quello anche la Winter Cup e l'ennesimo appuntamento della sua trafficata vita – una serie di diversi avvenimenti, in realtà, che lo rendevano un poco più isterico del normale.
Il giorno prima, durante l'allenamento, uno dei suoi senpai era scoppiato, nel bel mezzo della partita tra di loro. Era uno di quelli che avevano fatto molta fatica a diventare titolari e a guadagnarsi la pesante casacca color nero e rosso, e nonostante tutto giocava in proporzione meno degli altri e veniva messo in campo dall'allenatore solo in occasioni di evidente favore. La prospettiva della sua ultima occasione lo aveva caricato di eccessiva ansia, così da renderlo emotivamente instabile e sempre pronto allo scatto; la manager era stata obbligata a richiamarlo e l'allenatore a toglierlo dalla partita per gli ultimi dieci minuti di allenamento, per non forzare troppo il resto della squadra. La sua rabbia, però, li aveva tutti profondamente toccati, e non se n'era ancora andata dal cuore di Kasamatsu.
Yukio aveva preso la metropolitana alla fermata vicino alla propria casa con piedi pieni di abitudine e pochissima volontà, avendo prima aspettato giusto dietro quel poco di coda che a quell'ora sempre occupava la banchina del mezzo e non faceva passare proprio nessuno, neppure il più piccolo infante. La sua mano, mossa dallo stesso tipo di vitalità, si era chiusa attorno a un'asta di metallo freddo di mattino, che gli aveva regalato ben più di un brivido, e lì sarebbe rimasta per i successivi venti minuti, se qualcuno non l'avesse smossa.
-Kasamatsu- senpai!
Yukio alzò lo sguardo dal nulla, ritrovandosi a pochi posti di distanza, seduto sopra un seggiolino di plastica colorata, Wakamatsu Kousuke. Gli si avvicinò d'istinto, senza pensare al significato del proprio gesto; l'altro, vedendosi rivolgere così tanta attenzione, chiuse la rivista che stava sfogliando e rispose al suo sguardo con una punta di imbarazzo e due occhi davvero attenti.
In quel contesto, era così diverso dal solito ragazzo burbero pieno di irritazione che di solito si muoveva in campo, forte di una stazza e di un fisico che impauriva tutti quelli del suo anno. Con i ragazzi più grandi, e in particolar modo per alcuni di loro tra cui proprio lui, Kousuke era sempre molto rispettoso – riservava loro tutta la propria ammirazione e la propria sincera stima, come un ragazzo che ha capito perfettamente il grado di capacità e di talento altrui.
Siccome vide che l'altro non si decideva a rispondergli in qualche modo, si vide costretto a iniziare la conversazione con una semplice considerazione dei fatti.
-Non sapevo abitassi in queste zone.
-Prendo la metropolitana tre fermate prima della tua!
Aprì gli occhi alla sorpresa, per quanto sottile e implicita.
Attorno a loro, correvano palazzi e lunghi edifici, grattacielo e un mare di vetri e impalcature di acciaio e cemento. In lontananza, anche una nuvola di nero smog che aleggiava poco sotto le nuvole scure.
-Io mi sono trasferito qui da poco, non conosco bene tutte le tratte dei mezzi.
-Davvero? Prima dove abitavi?
-Prima abitavo a Kanagawa, dopo mia madre si è dovuta trasferire per lavoro.
Kousuke aggrottò le sopracciglia, ma non sembrò neanche per un secondo cercare di fare una sorta di confronto: elogiava il posto dove era cresciuto con una naturalezza del tutto priva di qualsivoglia malizia.
-Shibuya è un bel posto dove vivere.
Yukio non poté che dargli ragione, con un sorriso accennato.
-La trovo piuttosto esuberante.
Quel ragazzo gli piaceva, davvero. Per quanto energico, il suo modo di fare era sempre diretto e sincero, e per quanto potesse incassare duri colpi per colpa del cattivo carattere dei compagni più grandi o semplicemente della sfortuna della squadra stessa, non aveva ancora vacillato abbastanza da sembrar dover cadere. E questo tipo di pensiero era decisamente rassicurante, per una persona come Kasamatsu, in particolar modo in un momento come quello.
La voce meccanica dell'altoparlante annunciò, alla fine, il nome della loro fermata.

 

***

 

La mensa della Touou Academy non era una sala troppo grande, costruita nei tempi in cui il gettito degli studenti non era ingente quanto gli ultimi anni e non era prevista una presenza di unità superiore ai duecento capi.
Diversi tavoli disposti parallelamente in quattro distinte file, i bagno in fondo a sinistra e tutto il corridoio sgombro di sedie o di altri intoppi – finestre troppo grandi, però, che nelle stagioni fredde non riparavano quasi niente dal gelo dell'esterno.
Il personale messo a disposizione degli studenti era appropriato al loro numero, e il menù discretamente ampio, o quantomeno con una parvenza di possibilità di scelta. Diverse verdure e piatti occidentali più elaborati, tagli di carne e diversa pasta con più o meno ingredienti; appesi, anche, i prototipi dei vari noodles a disposizione.
Imayoshi presentò alla cassa il buono pasto che aveva comprato la mattina, ricevendo in cambio una ciotola di ramen precotto grande quanto metà del vassoio che faceva ancora scorrere lungo la portantina. Ringraziò con un capo la signorina dall'altra parte del bancone e si diresse pian piano, seguendo il ritmo della fila, verso i bollitori alti di acqua calda; se ne versò una dose abbondante dopo aver sparso il condimento sulla pasta, cercando di spargerlo in diversi punti quanto possibile. Riuscì a recuperare anche le bacchette per metterle accanto alla ciotola e quindi partire alla ricerca di un posto dove potersi sedere per i successivi quindici minuti.
Quando lo vide inserito in mezzo alla folla come un pesce fuor d'acqua, fu quasi tentato di lasciarlo da solo al proprio tavolo, senza darsi troppo la pena di risolvere in qualche modo la sua solitudine. Vide anche i proprio compagni di squadra tutti riuniti in un angolo, in prevalenza i compagni del terzo anno che facevano gruppo assieme più qualche sprovveduto ragazzo del secondo. Diversi club di sport, e persino compagni di classe disseminati qui e là – rimase fermo in mezzo al caos per qualche secondo di troppo, tanto che qualcuno gli arrivò quasi addosso e ci mancò poco che gli facesse rovesciare tutto il proprio pranzo per terra.
Kasamatsu lo vide, inevitabilmente, e lui si accorse di essere visto. Con un sorriso buono sul volto, si avvicinò quindi a lui e prese posto esattamente davanti alla sua persona. Yukio impiegò qualche secondo di troppo per registrare il tutto, e quindi non reagì prontamente; si chiuse sul proprio cibo, sperando di essere così ignorato dall'altro e dalla sua insistenza.
In effetti, lo stupì che Shoichi non iniziasse un dialogo con qualsiasi tipo di scusa a sua disposizione – una volta lo aveva riempito di domande sul tempo atmosferico, con il chiaro e solo intento di dargli fastidio per più di cinque minuti – ma in un primo momento si vide bene dal considerare la cosa come un fatto negativo.
Poi, però, mise casualmente gli occhi sul cibo con cui lui si stava nutrendo, e aggrottò quindi le proprie sopracciglia in un'espressione davvero contrariata. Non riuscì a frenarsi.
-Mangi sempre quella roba?
Imayoshi mangiò piano il boccone tra le sue labbra, evitando di schizzare liquido caldo tutt'attorno usando le proprie bacchette. Continuava a sorridergli, imperterrito.
-Costa poco e mi riempie lo stomaco.
-Dovresti cercare di mangiare più sano.
Il vassoio di Kasamatsu presentava un menù a base di pietanze tipicamente giapponesi, tra riso, zuppetta, uova sode e pollo, più l'insalatina condita con la salsa di soia. Quanto di più completo quel posto potesse offrire, in effetti.
La voce di lui prese una discreta nota saccente, senza volerlo.
-Anche una dieta equilibrata fa parte dell'allenamento quotidiano di ognuno di noi.
Imayoshi finse di essere ammaliato, per canzonarlo.
-Non ne dubito, ma a me piace molto questo.
-Puoi sempre mangiarla come spuntino piuttosto che come pasto.
Dovette fare una pausa e cambiare postura delle braccia. Con le bacchette appoggiate accanto alla ciotola dei noodles, sul proprio vassoio, Imayoshi mise il gomito sul tavolo e aprì la propria mano, per posarvici dentro il mento. Aveva un'espressione serena, tranquilla e rilassata.
-Ti interessa così tanto la mia salute?
-Da un certo punto di vista, sì.
Lo disse schietto, senza pensarci più di due attimi. Imayoshi non si sorprese troppo di questo – era più o meno abituato a questo genere di manifestazioni, e quindi non gli facevano troppo impressione. Gli piaceva da un certo punto di vista, e non faceva fatica ad ammetterlo.
-Certo volte invidio la tua incapacità di dissimulare.
Lo guardò storto, mandando in gola qualche chicco di riso in più.
-Le altre volte, invece?
-Mi piacerebbe vedere dove la tua testardaggine riuscirebbe a portarti.
I suoi occhi ebbero un scintillio, uno solo, piuttosto sinistro, o forse solamente d'intesa complice. Yukio sapeva riconoscere una sfida implicita, anche perché Shoichi per certi versi non gli mentiva davvero: era diretto quando parlava, anche nel mentre covava sentimenti non convenienti. L'ipocrisia era l'ultimo dei suoi difetti.
-Hai una predisposizione naturale per la tragedia.
-Mi piace, è solo un'altra forma di passione.
Si tirò indietro, sistemandosi più comodamente sulla propria sedia e guardando per qualche secondo la folla che avevano attorno – il ragazzo che aveva a due posti di distanza si alzò, portandosi dietro il proprio zaino e il proprio vassoio ormai vuoto.
-Come la competizione sportiva.
Yukio posò sul tavolo la ciotola del riso vuota, dedicandosi agli ultimi pezzi di pesce che gli erano rimasti.
-Mi sorprendi con un'affermazione del genere. Spesso sembra che tu non sia così coinvolto nello sport come invece dici di essere.
-Non posso certo andare in giro a uccidere gente.
Lui rise quasi, Kasamatsu no davvero: non lo toccava quel sadismo macabro, neanche quando era tempo di battibeccare verbalmente.
-E quindi per questo giochi a basket?
-È una lotta senza spargimento di interiora.
Dovette però concedergli un sorriso ironico e uno sbuffo veloce, un'alzata di spalle e gli occhi scivolati via, verso qualcosa che non fosse il suo viso da volpe fiera e astuta.
-Io sono uno dei tuoi avversari, giusto?
Quando tornò a guardarlo, seppe di certo di star vedendo il vero e prezioso Imayoshi; le sue parole, dopotutto, implicavano la presenza di una delle più roventi passioni possibili, tutta dedicata alla sua persona.
-Decisamente sì.
Si trovò con le ginocchia tremanti, senza un logico perché.

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Capitolo 7
*** *Secondo anno - III* ***


*Secondo anno – III*

 

 

 

Sospirò, portando indietro il busto e appoggiandosi quindi di peso allo schienale della propria sedia. Trovò, per quei dieci secondi di pace, il soffitto decisamente più interessante del proprio libro di letteratura – e decisamente più rilassante che ripetere e rileggere per la sesta volta il paragrafo dedicato alle opere del primo dopoguerra dell'Asia occidentale, piccolo e davvero brutto, con tutte le sottolineature colorate e le didascalie che quando era stata l'occorrenza lui ha riempito a lato, negli appositi spazi bianchi una volta lindi.
Anche senza volerlo, la sua testa ripeteva pezzi di frase presi molto a caso, incastrandoli gli uni negli altri formando lunghe proposizioni discordanti che andavano a finire nel nulla, il più delle volte, oppure scattava l'automatica emulazione di costruzioni artificiali e artificiose che lo rendeva estraneo persino a se medesimo, in modo del tutto innaturale.
Era davvero sfinito: con un secondo sospiro liberatorio, volle sentire l'aria invadere tutta la capacità dei propri polmoni e farla uscire pian piano, con un soffio freddo sottile a labbra strette; ripeté il gesto alcune volte, in modo da rilassare tutta la propria persona almeno di un poco.
Sentiva i propri muscoli tirati, difficili da ammansire, e la mente incapace di pensare in maniera autonoma per più di qualche secondo. Dover sostenere un ritmo di studi intenso come quello era qualcosa a cui era di sicuro abituato, avendo lui comunque una media piuttosto alta rispetto alla classe e ai suoi compagni di scuola generici, eppure una volta accumulato tutto quello stress e tutta quella tensione, che neanche i soliti allenamenti sfiancanti riuscivano a scaricare, lo rendeva più nervoso e stanco di quanto avrebbe mai voluto davvero.
Il suo cellulare squillò, a un certo punto, e lui sulle prime ignorò il suono trillante che veniva dalla propria scrivania; la cosa si ripeté, e dovette sbattere le palpebre per ricordarsi di essere ancora vivo e presente nella propria camera da letto, alle prese con la vita vera e non una propria bruttissima fantasia sadica. Tornò a sedersi in posizione normale, allungando un braccio per recuperare l'apparecchio elettronico: Susa gli aveva mandato messaggi pieni di disperazione, e una quantità d'odio per un dato autore che proprio non aveva mai capito così intenso e totalizzante che a Imayoshi scappò un sincero sorriso.
Voleva vederlo, l'indomani. Oltre la scuola, oltre il compito, oltre l'allenamento di basket. Magari da soli loro due, senza altri partecipanti. Imayoshi chiuse il proprio telefono prima di finire di leggere il testo del messaggio, senza neanche troppo fastidio addosso.
Era davvero stanco, persino per provare qualche sorta di sentimento consapevole, e non riusciva a raccogliere la voglia che gli era rimasta da qualche parte e a usarla per uno scopo qualsiasi, fosse anche rispondere educatamente o meno alle richieste di un amico insistente. Voleva farla finita con tutto, davvero.
Appoggiò la fronte sulla superficie orizzontale della scrivania davanti a lui, chiudendo gli occhi nel gesto. Non sperava di poter apprendere per osmosi, anche se una volta la stanchezza gli aveva palesato più che allettante l'ipotesi, ma il freddo delle pagine del libro lo aiutò a mantenere i contatti con la realtà, o almeno a provarci sul serio. Dormire per sempre sarebbe stata la soluzione ideale a tutti i suoi problemi.
E il basket, anche, ma quello era un altro discorso.
Volse lo sguardo verso sinistra, dove riposta a terra stava la sacca sportiva che usava per trasportare anche sotto la neve e nel freddo il proprio ricambio per gli allenamenti. Lì, oltre la cerniera aperta che dava verso il soffitto, si poteva intravedere la divisa scura da titolare.
Sorrise, implicitamente, e riuscì a sentirsi persino meglio per qualche secondo, con tutta la gioia che quella tranquillità momentanea poteva donare al suo animo. Così come la prospettiva dell'ultimo anno ancorato a quel luogo stretto e ristretto del liceo.
Maturò, all'improvviso, l'impossibilità ultima di diventare capitano con un ben preciso perché: non sarebbe mai riuscito ad assumersi una responsabilità del genere, a conti fatti, e questo non gli causò nessuno sconvolgimento emotivo. Avrebbe espresso la decisa intenzione di far diventare capitano della squadra qualcun altro, se mai se ne fosse presentata l'occasione.
Sua sorella, il secondo dopo, lo chiamò perché la cena era pronta ed era ora di mangiare.

 

Fine febbraio, gli occhi venivano assottigliati da un'espressione aggrottata e piuttosto attenta. Attorno c'era una piccola folla di studenti agitati, animati dalla stessa ansia propria che gli scorreva dentro e gli irrigidiva i lineamenti del viso in un solo istante. Tra tutti i fogli appesi sulla bacheca, era quasi difficile riuscire a trovare i nomi desiderati, ma qualcuno riusciva persino a trovare l'occasione per prendere quelle informazioni in più per spettegolare su classifiche o meno, su graduatorie e cose simili.
Fu per caso che Kasamatsu trovò il nome di alcuni suoi conoscenti su fogli che non gli interessavano – un senpai posizionatosi verso la cima di una classifica, con una media in grado di farlo entrare nella più prestigiosa delle università, o anche quel compagno di club che non sembrava eppure se la cavava molto bene in matematica e aveva dei voti abbastanza invidiabili – e si soffermò per qualche istante sui caratteri che formavano il nome di Imayoshi Shoichi: primo della sua classe, ottavo all'interno della classifica generale della Touou Academy. Il proprio nome, notò appena dopo, si trovava davvero più in basso, oltre la terza decina, anche se aveva guadagnato una posizione davvero rispettabile. Forse troppo poco, per quanto aveva ambito lui anzitempo, ma non poteva avere quel genere di rimpianti.
Riuscì a uscire dal gruppo chiuso a ressa degli studenti, solo con una certa difficoltà. Si lasciò superare da nuovi arrivati, e per qualche minuto si lasciò scivolare anche addosso i borbottii più o meno discreti dei presenti e alcune esclamazioni che uscirono dalle bocche di alcuni dei presenti più alte del dovuto; qualcuno addirittura esultò, scappando poi via di corsa.
Lui, con passo più o meno lento e posato, si avviò verso la palestra della scuola, padrone di un nuovo tipo di leggerezza.
Al di là delle vetrate spesse che costeggiavano tutta la lunghezza del corridoio, il tempo atmosferico era nuvoloso, prossimo a esprimersi in qualcosa di ancora peggiore. Volavano pochi animali in cielo, e sembrava che il paesaggio fosse spento e spazzato da un vento isterico imperante, capace di mangiare qualsiasi rumore o suono – catturò anche, con i propri fischi, anche la coscienza di Kasamatsu.
I suoi piedi, assolutamente avvezzi all'abitudine sorda e muta, lo portarono di proprio conto verso la palestra, attraverso scale e corridoi, e persino il vialetto all'aperto, riparato solo da un piccolo tettuccio traballante.
Yukio sapeva che quel pomeriggio si sarebbe tenuto l'ultimo allenamento dell'anno, a cui solo quelli del terzo anno non avrebbero partecipato.
Insensibile al freddo della bassa temperatura, Kasamatsu incrociò le braccia al petto e appoggiò la spalla al lato del portone aperto, che dava la perfetta visione dell'interno dell'edificio. Ricordò con precisione graduale ma sempre maggiore ogni dettaglio di quei due anni passati, e ricostruì con la memoria immagini di scene e vita vissuta, come se si stessero volgendo proprio in quel momento davanti a lui. Senpai e kohai, compagni di squadra e anche una piccola parte di pubblico, la manager che aveva pianto le ultime due volte perché se ne sarebbe andata con quelli del terzo anno e l'imperturbabile nuovo allenatore con cui stava sempre più prendendo confidenza.
Era qualcosa già di suo, che però non era mai riuscito a guardare con occhio critico, lasciando quasi che fosse implicito per se stesso. Ne poteva capire il valore in quel momento, e questo lo arricchì come non aveva mai potuto pensare.
Vide anche qualcuno sugli spalti, proprio in quel momento, e poté scommettere di averlo riconosciuto anche da lontano. Con piena coscienza, questa volta, si tolse le scarpe da esterno e cominciò ad attraversare il parquet del campo per arrivare in quel preciso punto.

 

***

 

Lo aveva visto arrivare ben prima che fosse distinguibile in viso e aveva già capito chi fosse, presumendo che solo in pochissimo si sarebbero avvicinati a lui così tranquillamente e con quell'intimità tipica dell'animo sereno. Lo vide arrampicarsi piano sugli spalti, gradino dopo gradino, fino ad arrivare alla sua fila e quindi camminare di lato per sedersi quasi accanto a lui.
Non lo guardò neppure quando si ritrovò nella sua area di spazio personale, così vicino da poter sentire la sua presenza e il suo sguardo preciso. Volle cercare un contatto per primo, conscio che l'altro non avrebbe certo compiuto il primo passo.
-Come mai sei qui?
Lo dovette anche incalzare, un po' molesto; con il tono incrinato all'insinuazione, dondolò con le ginocchia e si sporse verso di lui.
-Nostalgia?
-Ho visto i risultati degli esami.
-Hai raggiunto una buona posizione?
-Per le mie capacità, direi di sì.
Kasamatsu si voltò di lui per un secondo, guardandolo sottecchi. Aveva mezzo sorriso sardonico agli angoli della bocca, di chi deve ammettere qualcosa ma trattiene per sé tutta l'amarezza di un orgoglio piegato.
Alla fine, la loro rivalità seguiva precise regole d'onore, e non era giusto tacere certe cose.
-Non credevo fossi così intelligente.
-I tuoi complimenti sono piuttosto preziosi, Kasamatsu- kun.
Fece una pantomima, e com'era abile a fare Imayoshi variò la tonalità delle proprie parole per renderlo appena più drammatico – aiutato anche dalla propria mano che andò a mettersi all'altezza del cuore e lì fermarvisi, giusto per indicare la mancanza di un fortissimo sentimento.
-Ogni volta che ne sprechi uno, il mio cuore si riempie di gioia.
-Sei oltremodo fastidioso, Imayoshi.
Rise da solo, perché l'altro si rifiutò di darsi corda.
La cosa speciale era la mancanza effettiva di un serio fastidio, o quantomeno un disturbo tale da marcare una distanza netta, tra di loro. Anche la resistenza iniziale di Yukio era stata lentamente scalfita, e la sua insofferenza per modi assai drastici di Imayoshi era stata a poco a poco smorzata da altri giudizi più buonisti.
Non gli risparmiava il peggio della propria considerazione per certe cose, ma era quasi riuscito ad accettarlo. E Imayoshi questo era in grado perfettamente di sentirlo.
Shoichi si avvicinò a lui, attirando la sua diretta attenzione.
-Sai, pensavo a una cosa.
-Cosa?
-Ci conosciamo da quasi due anni. Non credi che sarebbe ora che mi chiamassi per nome?
-Non pensavo fossimo così intimi.
-Non è una questione di intimità, è solo che vorrei riconosciuto il tempo che abbiamo passato assieme.
Si sporse, facendolo retrocedere con il busto – erano abbastanza vicini da poter distinguere i vari colori dell'iride l'uno dell'altro. Imayoshi non lo aveva mai detto: quel blu così tanto intenso e così tanto profondo lo attirava in un modo difficile da dire.
-Non sei della stessa opinione?
-Mi stai chiedendo se rimpiango di averti conosciuto, Imayoshi?
-Direi una cosa del genere.
Yukio dovette respirare forte per riuscire a rispondere a una cosa del genere, e le braccia che aveva stretto al petto si irrigidirono ancora di più, le narici del suo naso si allargarono di irritazione e di sfida.
-No, non lo rimpiango.
Lo vide sorridere, e per un momento ne fu davvero sollevato.
-Il mio nome è Shoichi.
-Lo so come ti chiami.
-Mentre il tuo è Yukio.
-So anche questo, grazie.
-Yukio- kun.
Disse il suo nome come se fosse un gioco, eppure ebbe l'effetto di una pallottola improvvisa; il viso di Kasamatsu registrò questo sentimento, e pure la coscienza di Shoichi, che trovò la cosa molto, fin troppo divertente.
-Sei molto indiscreto.
-Perché? Ti ho anche chiesto il permesso di farlo! Yukio- kun!
Decise di zittirlo, almeno per evitare che cominciasse una cantilena irritante.
-Shoichi.
Si dovette correggere, perché il suo senso dell'educazione glielo impose.
Ed era così tanto carino, e gentile, agli occhi dell'altro, che se fosse stato opportuno glielo avrebbe anche detto. Si sentì in parte commosso dal tutto, e questo gli permise di lasciar andare la propria malizia molesta.
-... Shoichi- kun.
-Non mi avevi mai chiamato con nessun onorifico.
-Non mi era mai capitata l'occasione di pensarci.
-Ora invece sì?
-Ora invece sì.
Neppure con Susa era mai riuscito a sentirsi così in sintonia che con lui, ed era quasi ironico: Yoshinori era il suo migliore amico, per quanta colpa potesse avere nei suoi confronti. Susa era assolutamente consapevole di questo, e riusciva a sfruttare i suoi sentimenti per lui in modo sottilmente malefico, come non si sarebbe aspettato. Shoichi, d'altro canto, non era riuscito a fare resistenza di fronte a nessuna manifestazione del suo egoismo, e quindi pensava di esserselo meritato appieno. La cosa stava cominciando a stancarlo davvero molto.
Kasamatsu percepì un cambio di leggerezza nel sospirò che l'altro si lasciò andare, ma non volle in alcun modo chiedersi o chiedergliene la ragione. Non erano affari suoi, in nessun caso, e per quanto potesse nascere in lui preoccupazione per quella stramba creatura e per quanto il suo nome potesse essere dolce sulla lingua, non aveva giustificazioni per una pressione che non intendeva imporgli.
Gli fu davvero grato, quindi, quando decise di cambiare argomento di discussione e di introdurre qualcosa su cui non dovevano spendere il minimo sentimento.
-Durante questo allenamento probabilmente uno di noi verrà scelto per diventare il prossimo capitano.
-Dici? Per me non è così probabile.
Kasamatsu pensò più che volentieri ai propri compagni di squadra, quelli più giovani. Del primo anno, avrebbero ereditato un vivace e vigoroso Wakamatsu, che per indole era ancora troppo esuberante e quindi istintivo. Altri non ne ricordava.
Lo stesso Susa, d'altronde, era molto capace in campo ma non aveva particolari altre doti, specialmente non era in grado di gestire un gruppo di mille opinioni diverse.
Imayoshi diede voce alle proprie opinioni.
-Siamo tra quelli con maggior esperienza, e saremo al terzo anno. Sceglieranno uno di noi.
-Ne sei sicuro?
-Vuoi scommettere?
-Io scommetto su di te, Yukio- kun.
Fu un altro colpo al cuore, improvviso – ancora, ginocchia che tremavano, e una mano caldissima a cui aggrapparsi con tutte le proprie forze.
-Vedremo.
-Questo sicuramente.
Un vago sentore di quella che avrebbe potuto anche chiamarsi felicità.

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Capitolo 8
*** *Intermezzo - II* ***


*Intermezzo – II*

 

 

 

Kasamatsu soffiò un'ultima volta il proprio alito caldo al gelo dell'esterno: il suo respiro si condensò in una nuvoletta di vapore opalescente davanti alle sue labbra gelate. Rabbrividì sotto i suoi tre strati di vestiti, oltre la sciarpa e la cuffietta di lana, con le mani sprofondate nelle tasche, toccato solo per uno spiffero molesto.
Entrò senza pensare un solo secondo di più all'interno del nuovo edificio. Di recente, a Shibuya avevano aperto un nuovo centro commerciale – per l'esattezza durante le vacanze di natale, più o meno un mese prima di quel momento – che era stato descritto e pubblicizzato in ogni dove, in tutti i negozietti che lui abitualmente frequentava durante le giornate di svago e persino all'uscita da scuola.
In quel periodo gli esami lo avevano allontanato dalla vita sociale e in generale da qualsiasi cosa non fossero i libri o l'ansia per date sempre più imminenti, e quindi aveva dovuto rimandare per forza di cose l'incontro con tutta la meraviglia che gli era stata promessa.
La prima cosa che aveva potuto notare, con un solo passo dentro l'edificio elegantemente nuovo, era l'odore quasi di plastica e di vetro, del fatto recentemente. Dopo di sicuro tutti i colori, le piante di abbellimento, quel poco di bianco rassicurante a fare da cornice a un quadro decisamente molto allegro e pieno di vita.
Ultimo, la folla immane di persone che sciamava dentro.
Yukio si mise le mani in tasca e cominciò a camminare senza alcuna meta, guardandosi attorno in modo incuriosito e libero da ogni vincolo. Sotto i suoi piedi, scorrevano alcuni percorsi consigliati di diversi colori: verde per lo shopping, giallo per il cibo, blu per il divertimento; li ignorò tutti e tre, prendendo a camminare quasi a zigzag tra un lato dei corridoi e l'altro.
Fu attratto a un certo punto dall'odore di cibo fritto che proveniva da quello che lui identificò come piano superiore a quello dove si trovava in quel preciso momento. Saltellò sulle scale mobili, dietro a una vecchia signora munita di bastone da passeggio e borsa gonfia di oggetti appena comprati. Fu sempre per caso che vide, mentre vagava con lo sguardo, un enorme cartellone pubblicitario con un'enorme faccina sorridente e una scritta dai caratteri tondeggianti, color pastello. Al settimo piano era appena stata aperta una sala giochi.
Prima di fare qualsiasi altra cosa, andrò a prendere una porzione di dolcetti fritti con molta glassa sopra, mangiandoli con inaspettato gusto e entusiasmo. Solo in un secondo momento decise di andare, lento, al settimo piano, passando anche prima davanti alla vetrina di diversi negozi di abbigliamento dove decise che avrebbe fatto compere appena avesse avuto l'esigenza di un paio di jeans nuovi.
La sala giochi era grande almeno quanto due campi da basket – la tristezza della propria limitatezza mentale non voleva in alcun modo toccarlo, neanche quando certe espressioni gli venivano naturali dal cuore. Era fornita, poi, di giochi per lo più rumorosi, tanti colori e tante persone che si agitavano urlando.
Yukio era sul punto di allontanarsene velocemente.
-Anche tu qui?
Emerge dal nero di un angolo buio un sorriso da volpe che lui conosceva bene e che proprio non si aspettava di vedere. Lasciò che Imayoshi lo raggiungesse senza muoversi di un passo, per poi commentare con singolare puntualità.
-Anche tu solo?
Il sorriso di lui si piegò anche a qualcosa di diverso, più simile a una triste constatazione. Di certo, non si sarebbe messo a raccontargli di come lui stesso sia scappato da Susa non più di dieci minuti prima, rifugiandosi dietro qualcosa di abbastanza grosso da poterlo coprire tutto.
-Sono stato abbandonato dalla mia compagnia.
Gli prese il polso tra le dita, cominciando a tirarlo all'interno del perimetro di appartenenza alla sala giochi, delimitato da un colore blu sgargiante.
-Vieni, ho trovato qualcosa di interessante.
Lo lasciò dopo pochi passi, ma Yukio lo seguì senza fare storie.
Superarono le postazioni da lancio sotto due canestri di plastica, troppo finti e bassi, che Kasamatsu aveva adocchiato con insana ingordigia, così pure come i box di videogiochi scoppiettanti pieni di bambini su di giri. E quindi arrivarono a due piattaforme colorate, con tanti di quattro frecce direzionali e un palco rialzato, più uno schermo pieno di istruzioni e musica pop.
Yukio lo guardò quanto più male gli riuscì.
-Non sei serio.
Non lo guardò neanche in faccia, perché probabilmente fuggiva all'idea di dargli una seria motivazione per prenderlo a calci in pubblico come poteva essere la sua espressione così mefistofelica e così sfacciata.
-Perché no? Si tratta di semplice coordinazione. Dovresti essere bravo in questo, anche se non sei il nuovo capitano.
Gli scappò una nota diversa, il ritorno a un accento che di solito poco usava – calcò apposta, come i primi tempi, e fu davvero poco gradevole. Kasamatsu ogni tanto si stupiva di lui, e aveva cominciato a pensare che proprio cercando questo genere di reazioni Imayoshi aveva certi atteggiamenti, quasi intuisse con precisa definizione ciò che agli altri meno piaceva per usarlo contro di loro. Fragile, debole, fin troppo umano.
Lui non faceva eccezione, questo era evidente.
Sbuffò, contrariato.
-Ho come l'impressione che tu voglia solo prenderti gioco di me.
-È piuttosto crudele quello che hai detto. Come se non ci conoscessimo da neanche due giorni.
-Lo dico proprio perché ti conosco, Shoichi.
Lo guardò male, molto male, scoccandogli l'ennesima occhiataccia risentita.
-Ancora più crudele!
Ma dopo quel melodramma inutile, sorrise davvero con sincerità e abbassò le braccia in precedenza alzate in aria, a chiedere pietà e perdono. La cuffia di lana spessa che aveva sulla testa gli arrivava poco sopra le sopracciglia, donando al suo sguardo ancora più sottigliezza del normale.
Aveva cambiato da poco gli occhiali, prendendone un paio dalla montatura scura – Yukio se ne accorse in quel momento, guardandolo in viso.
Si ritrovò ancora una volta senza la voglia di scappare altrove.
-Pago io la prima partita.
-Solo la prima?
Ennesimo sorriso, il giubbotto che venne aperto e un balzo per salire sulla pedana di gioco accompagnato da una musichetta piuttosto inquietante.
-Per cominciare.
Mano tesa, alla fine.

 

 

 

Funny how the heart can be deceiving

More than just a couple times

Why do we fall in love so easy

Even when it's not right

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Capitolo 9
*** *Terzo anno - I* ***


*Terzo anno – I*

 

 

 

Yukio Kasamatsu aveva sempre saputo di essere un uomo ben disposto verso la passione, energico nel suo elargire opinioni anche dal punto di vista fisico, privo di una certa delicatezza intrinseca nel dimostrare quanto potesse essere fondato il proprio punto di vista. E aveva sempre saputo, anche, di non essere per nulla dotato né del tatto necessario a svicolare dalla definizione di brutalità né in realtà proprio l'intenzione di applicarsi alla mera a-fisicità dei rapporti umani quando questi si inclinavano paurosamente verso un tracollo sociale irrecuperabile.
Vecchio e nuovo, come gli era stato insegnato, avevano un preciso rapporto, e questo non poteva essere svicolato da niente – neppure da una pretesa super capacità di accumulare punti durante partite vere per il proprio straordinario talento innato. L'ordine naturale delle cose prevedeva una certa disposizione delle tali in modo che niente potesse trasgredire e tutto si rifacesse all'ordine compiuto, senza sgarri, in modo che il mondo stesso potesse preservare il proprio implicito benessere e regalasse loro quanto gli era dovuto.
Per tutti questi motivi Yukio si era ritrovato a odiare Imayoshi Shoichi almeno quanto si era ritrovato a odiare Aomine Daiki. Non era una persona così sprovveduta da non sapere a cosa si alludesse con la definizione di “Generazione dei Miracoli” e a non conoscerne, almeno un poco di sfuggita, i vari componenti di quel piccolo branco di belve. Questo però non poteva negare che di fronte a una così sfacciata arroganza come quella dell'ex ace della squadra della scuola Teiko i suoi nervi friggevano di astio insoddisfatto e gli regalavano ondate di pura bile.
Lui non era né il capitano né l'allenatore e non poteva, dalla propria posizione, impartire qualche sorta di ordine o anche di ammonizione ai ragazzi più giovani; Imayoshi, da canto suo, si vedeva bene dal prodigare direttive comportamentali tali da poter essere rispettate.
Aveva uno spirito sovversivo e non si atteneva a nessuna regola precisa, cosa che evidentemente aveva conseguenze caotiche.
Se fosse stato anche solo l'assenza di Aomine, come la presenza di altri studenti del primo anno, per Kasamatsu non ci sarebbe stato alcun tipo di problema. L'espulsione dal club era una soluzione per lui fin troppo contemplabile, anche a costo di forzare la cosa, perché un atteggiamento sbagliato poteva sbilanciare, e di molto, l'equilibrio interno alla squadra.
Se mai la squadra della Touou ne avesse uno in particolare.
Odiava l'indolenza e la poca serietà, il carattere capriccioso di chi crede di poter bastare a se stesso. Il concetto stesso di gruppo veniva minato, a quel modo, e lui non era disposto a tollerarlo, non dopo tutto quel tempo costato di fatica e di sudore – della sua fatica e del suo sudore, per l'esattezza, che ha benissimo intenzione di ricordare sempre e per cui pretende il dovuto rispetto.
Aiuta sempre di persona la povera Momoi a cercare quello scapestrato del suo amico di infanzia, cercandolo come si farebbe con un bambino piccolo parecchio ritardato. E quelle poche volte che ha la malaugurata fortuna di riuscire a trovarlo, lo prende peggio che un animale e lo trascina di peso e di cattiveria fino alla palestra dove gli altri si stanno allenando. Quantomeno, pare che Aomine non provi a alzare le mani sui suoi compagni più grandi, o che gli nutra quel sottile rispetto che si deve a un vice capitano piuttosto incollerito. Kasamatsu non si vuole chiedere il perché i tutto questo, e preferisce di gran lunga prenderlo a calci più che può, in una eterna lotta di sguardi omicidi.
Sarebbe stato felice se si fosse evitato tutto quello, davvero. Il peso di una persona appartenente alla Generazione dei Miracoli riusciva a sentirlo fin troppo bene, gli faceva tremare persino le ossa. Non voleva cedere al ricatto dell'illusione di una vittoria facile, ma di certo lo allettava l'aspettativa di un maggior successo, di un resoconto concreto di quanto così faticosamente preparato in quegli anni di allenamento.La cosa che più temeva, in realtà, era proprio Imayoshi, e quella sua visione così strana e particolare di quello che lui intendeva per gioco e che Kasamatsu faticava a comprendere e a ammettere nel proprio animo.
Non poteva che andare avanti quasi da solo, in mezzo a tutte quelle persone, nutrito e forte solo delle proprie più intime convinzioni.

 

Shoichi non poteva negare che Momoi gli piacesse, sia come persona sia come ragazza in sé. La trovava di un tipo ideale capace di stuzzicargli qualsiasi tipo di interesse, sia intellettivo che no – trovava fin troppo gradevole la sua compagnia, e non negava la cosa con se stesso, perché con gli altri non ce n'era bisogno: nessuno osava chiedere nulla, né era troppo intimo per arrischiarsi a farlo.
E Susa, d'altronde, era abbastanza infastidito da non rivolgergli quasi più la parola, quando si trovavano in pubblico. Da un certo punto di vista, questo gli garantiva una libertà e una tranquillità che non sperava più sul serio, e lo lasciava respirare almeno da quel versante della propria vita.
Perché per il resto era diventato qualcosa di simile al suo inferno personale.
Lui, prima della fine del secondo anno, aveva abbastanza insistito con l'allenatore perché fosse Kasamatsu a diventare capitano, lasciandolo libero da ogni impegno sociale. Era anche corso dietro a Harasawa per alcuni giorni cercando di parlargli a quattrocchi, in modo da risultare un filo più deciso e sicuro di sé. Non riusciva proprio per nulla a vedere se stesso in quel ruolo, e se già la partenza era titubante non voleva immaginarsi il resto.
L'insegnante di chimica, però, era stato irremovibile. Qualsiasi fosse stata l'impronta che avrebbe voluto dare, per lui non importava molto: gli sarebbe andata bene, perché nella sua visione delle cose l'ideologia di Imayoshi Shoichi era quanto di più utile alla squadra della Touou Academy. E questo era in grado di fare la differenza.
Lo incitò a provare a dare unicamente se stesso, gli suggerì una collaborazione più intima per quanto riguardava la tipologia di gioco dei vari elementi del gruppo con ogni loro personale qualità e personalità. Shoichi non avrebbe mai potuto immaginare un così intricato lavoro intellettivo, per la posizione raggiunta, e si era reso conto della effettiva fatica da farsi perché tutto filasse, anche solo a livello teorico.
Aveva capito, inoltre, di poter fare davvero la differenza – e questa sensazione di potere gli fece provare almeno per qualche giorno una serie di brividi incontrollabili.
Aveva iniziato subito, fin dal principio, perché come nuovo capitano della squadra avrebbe dovuto prendersi tutto il peso che c'era da sopportare. La sua prima prova era stata Aomine Daiki, ancora prima dell'inizio effettivo del nuovo anno; non si era tirato indietro di fronte a quella sfida, e a quanto sembrava era anche riuscito a superarla.
Aomine Daiki era diventato una delle sue pedine. Un po' scoordinata e scostante, ma abbastanza importante da poter essere usata anche con una mossa disperata, all'ultimo secondo. Si ritrovò a nutrire una strana fede per quella figura, e allo stesso tempo nutrire un fortissimo orgoglio per la propria persona.
In modo naturale, quasi inaspettato anche quello, la sua condotta risultò da esempio per tutti gli altri, partendo persino da Susa e finendo a Wakamatsu, passando ovviamente per quelli del primo anno che vedevano in lui il giusto punto di riferimento al quale rifarsi.
Soltanto una persona era immune a tutto questo, e questo Imayoshi lo aveva abbastanza previsto, a dir la verità – sarebbe stato deluso se fosse accaduto il contrario, perché avrebbe significato che la fiducia riposta non avrebbe avuto senso e che quel che intimamente cercava non lo avrebbe trovato neanche in lui, neanche nella sua persona.
Kasamatsu Yukio lo guardava come sempre con i suoi occhi di ghiaccio, tutte le volte che pensava di avere il diritto di farlo. Non lo toccava quasi il suo essere capitano, non si esentava dal dispensargli quelle che riteneva essere le giuste critiche, specialmente riguardanti la condotta mantenuta con le matricole di quell'anno. Lui rimaneva integro non soltanto al suo sguardo, ma persino nell'essenza invisibile.
Questo stimolava Imayoshi a essere coerente con se stesso fino in fondo, qualsiasi fosse la soluzione finale a tutto quello: che la vittoria gli importasse davvero o solo a parole era una mera questione di retorica per cui avrebbe dato la vita, piuttosto che cedere a quel gioco di intenti.

 

***

 

Aveva ancora odore di sudore addosso. Non gli piaceva per nulla, perché gli stimolava in continuazione l'olfatto con un olezzo acido e sgradevole, senza soluzione di continuità.
Se si fosse ritrovato un pochino più calma in corpo, almeno quella giusta quantità in grado di farlo ragionare e non solo ribollire di rabbia, avrebbe capito che il suo disagio fisico derivava da quello mentale e psicologico, così provato da una situazione che non lo metteva per niente a suo agio.
Avere così tante partite da disputare una dietro l'altra, con un affanno per la persona tutta che era davvero molto grande, non lo aiutava neanche a alleviare lo stress o a impedirgli di pensare con frenesia tipica del moto concitato, come se anche il suo cervello avesse due gambe veloci quanto il corpo e andasse avanti e indietro da due punti senza trovare mai riposo alcuno.
Era sfiancante, e molto. Kasamatsu non pensava di essere così poso resistente, a livello emotivo, ma almeno era certo dell'indistruttibile validità delle proprie opinioni: un tratto del proprio carattere che neppure le difficoltà potevano dissipare, e una speranza per l'integrità del suo animo.
Aveva dovuto aspettare quella pausa, tra due partite di campionato, per riuscire ad avvicinarsi a Imayoshi e pretendere un poco della sua attenzione. Anche il capitano della Touou sembrava più isterico del solito, per quanto nella figura risultasse pacato e tranquillo – si occupava con attività di ogni tipo, non dava pace ai propri muscoli neanche per qualche ora, e era costantemente circondato dai compagni di squadra, grandi e piccoli che fossero.
Sakurai Ryo, quella riserva dalle indubbie capacità, quando lo vide arrivare con quell'aria truce da assassino seriale, si prodigò nell'ennesimo inchino profuso di scuse e si allontanò da Imayoshi proprio mentre questi saltava per lanciare a canestro.
-Non mi piace.
Shoichi guardò la palla cadere e un kohai del secondo anno riprenderla al volo per mettersi quindi in fila, aspettando il suo turno di tirare. Si prese una piccola pausa e decise che era giunto il momento di recuperare la borraccia dell'acqua dalla propria borsa. Il sudore che grondava dal suo filo andò a infilarsi nelle pieghe del suo sorriso.
-Trovo meraviglioso che tu ti assuma le responsabilità della posizione da vice capitano e cerchi di instaurare un dialogo costruttivo con me, Yukio- kun. La tua dialettica mi stimola sempre.
Yukio lo seguì, pur con un'espressione ancora più truce in volto. Non cedette alla sua malizia, continuò nel proprio intento.
-Non mi piace affatto.
-Cosa non ti piace, Yukio- kun?
-Come ti stai comportando.
Imayoshi si sedette sopra la panca di legno, lasciando andare un lungo sospiro di sollievo. Dovette togliersi gli occhiali dal viso per passarsi un asciugamano sulla pelle, cercando quantomeno di raccogliere più possibile. Vide Kasamatsu fermo davanti a sé, in evidente attesa.
No, non poteva sfuggirgli in alcun modo. Sospirò di nuovo e recuperò il proprio sorriso furbo.
-Perché? Non sto forse giocando bene?
-Non è questo il punto e tu lo sai.
-Mi pare che la nostra squadra stia andando alla grande, neh. Non abbiamo ancora perso una partita dall'inizio del campionato.
Prese di nuovo la propria borraccia dell'acqua, facendola girare tra le proprie dita in modo fintamente distratto: non poteva accettare che il suo senso di soddisfazione venisse smussato dall'insoddisfazione di qualcuno, neanche se questo qualcuno fosse stato Kasamatsu.
-Ci stiamo dirigendo verso la finale di gran carriera. Non sei contento, Yukio- kun?
-No, non sono per niente contento.
Diretto e preciso; sarebbe stato quasi meglio se l'avesse colpito con un pugno in faccia, a quel punto, o con uno dei tanti calci che ripetutamente dava a quella povera bestia di Aomine Daiki. Imayoshi si era chiesto diverse volte come mai solo con certe persone Yukio risultasse così tanto manesco, e che per quanto da sempre conosceva la sua indole mai avrebbe sospettato che potesse avere conseguenze simili. Sembrava quasi che lui rientrasse tra i privilegiati intoccabili, e questo lo irretiva con una strana euforia.
Tuttavia, il malumore non era di facile soluzione, come era piuttosto evidente.
Accolse l'ennesima forma della sua rabbia con il capo basso, i capelli lisci che pendevano dai lati della sua testa e miravano al pavimento.
-E mi irrita il fatto che tu lo sia in modo così sfacciato.
-Sei come al solito un uomo impetuoso, mi sei sempre piaciuto per questo.
Si sistemò gli occhiali sul naso, e per qualche oscura ragione questo gesto portò il suo sguardo a nascondersi dietro il riflesso opaco delle lenti, oscurandolo alla vista dell'altro che quindi si ritrovò inizialmente spiazzato, lontano da lui.
Era la prima volta che davvero si ritrovava in quella condizione, di non avere il minimo contatto con lui, né emotivo né fisico.
-Perché non dovrei essere felice della vittoria?
-Per il modo con cui l'hai conseguita!
-E come l'ho conseguita? Barando? Non sono andato contro nessuna regola del gioco, non ho fatto alcun tipo di fallo, non ho fatto niente di diverso rispetto ai miei avversari.
Ricordò in un istante le proprie vittorie più recenti, fatte nell'ultimo campionato in corso anche in quel momento. Considerò di non avere il minimo rimpianto personale.
-Ho guidato la mia squadra come ci si aspettava che io facessi. Cosa puoi pretendere ancora?
Anche Yukio ricordò, con precisa esattezza.
La vittoria contro la squadra del Seirin era stata sofferta, emotivamente provante. Non aveva mai provato una sorta di pietà per gli avversari vinti, era troppo rispettoso dell'impegno altrui per permettersi simili bassezze. Eppure, aveva percepito il peso della speranza spezzarsi, e tutto il dolore di una certa matricola.
Ma la cosa che più lo aveva colpito era stata la vittoria, invece, con la squadra del Kaijo. Non tanto perché era facile e scontata – quel gruppo di persone mancava di un evidente punto di appoggio e di guida, che non era stato sopperito dalla presenza di uno dei giocatori della Generazione dei Miracoli – quanto perché aveva portato a galla cose che lui non voleva sapere. Ancora una volta, aveva percepito fin troppo bene Aomine Daiki soffrire, e era rimasto costernato dal fatto che nessuno avesse fatto nulla per lui.
Tutto questo gli dava un più reale quadro delle cose, e lo rendeva decisamente triste.
-Con che coraggio ci definisci squadra?
Imayoshi dovette fare uno sforzo per capire cosa intendesse, perché nel proprio vaneggiamento si era scostato ancora di più da lui.
-Oh, è questo il punto?
Gli sorrise pieno di commiserazione; alzò le spalle in un gesto disinteressato, prima di alzarsi di nuovo dalla panca.
-Non credo mi serva l'amicizia di Aomine- kun o di Wakamatsu- kun per segnare punti, e per loro lo è altrettanto. Siamo un gruppo di individui sufficientemente coordinati, questo basta e avanza.
Fece cenno con la mano a uno dei kohai perché gli passasse la palla, così da potersi rimettere in campo subito e riprendere il riscaldamento.
-Mi dispiace non riuscire a appagare la tua idea romantica dello sport, pare proprio che su questo fronte resterai un povero frustrato insoddisfatto.
Yukio gli rubò la palla di mano e lo costrinse ad affrontarlo di petto, ancora una volta.
-Perché tanto cinismo?
Palleggiò indietro, mettendo qualche passo di distanza. Imayoshi non lo aveva mai visto così triste, in volto, e ne fu abbastanza sorpreso.
Ma si rifiutò di farsi toccare da quel suo stato d'animo.
-Me lo sono sempre chiesto, ma non l'ho mai chiesto a te.
-Non mi devo sforzare troppo per ottenere un profitto piuttosto alto, e questo mi porta a successi notevoli.
-Perché allora ti alleni come un disperato tutti i giorni? A quale scopo?
-Perché la mia persona ne possa trarre vantaggio.
-E non pensi che possa essere possibile anche instaurando rapporti con gli altri della squadra?
Kasamatsu si distrasse e Shoichi gli prese forse troppo facilmente la palla.
-Yukio- kun, se fossi stato tu capitano, di certo questa cosa sarebbe stata possibile. Tuttavia, io non ho molto interesse a farmi carico dei desideri e dei sogni altrui. Ognuno si coltiva da sé, com'è giusto che sia.
Fece uno dei suoi palleggi strani, ruotando all'indietro prima una parte del corpo e poi un'altra; raggiunse veloce la linea dei tre punti, poco distante da loro, balzò in aria e lanciò. Segnò in una invisibile partita con se stesso anche quella volta.
-Che tu lo ritenga giusto o sbagliato, non fa molta differenza, per come stanno le cose.
E prima che si allontanasse definitivamente, Yukio gli strappò di dosso l'ennesima emozione inutile.
Perché un poco, davvero un poco, riuscì persino a toccarlo dentro.
-Sei un vigliacco.
-E questo ti dispiace?
-Non immagini neanche quanto.

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Capitolo 10
*** *Terzo anno - II* ***


*Terzo anno – II*

 

 

 

-Non potrò mai essere ciò che tu vuoi io sia per te.
Era riuscito a dirlo a Yoshinori qualche giorno prima, con tutta la sincerità e la schiettezza di cui era stato capace – e anche se era una cosa normale che riuscisse a essere sgradevole al prossimo, almeno con Susa conservava la delicata fragranza della premura e della paura.
Era difficile ammettere di temere le reazioni di qualcuno, specialmente quelle emotive, ma fintanto che non le avrebbe dovute subire su di sé, per un certo vero si poteva sentire felice.
Yoshinori non gli aveva detto di averlo capito da diverso tempo, ormai. La sua espressione aveva qualcosa di rassegnato, mentre aveva sospirato dopo quella battuta, e il sorriso triste che gli si era formato in viso aveva qualcosa di molto simile a un addio troppo a lungo rimandato.
Lo aveva ancora abbracciato, anche senza cercare le sue labbra con le proprie.
Dormire insieme in quelle circostanze era quanto di più liberatorio Imayoshi avesse pensato di poter ottenere, per se medesimo. In quasi tre anni di amicizia, avevano nutrito una sempre più radicata intimità, tanto che condividere lo stesso spazio vitale risultava tanto frequente quanto poco fastidioso.
Shoichi, poi, aveva il privilegio di possedere un letto a una piazza e mezzo, che di poco non andava a sostituire un letto matrimoniale usato dalle vere coppie formate. E per quanto sia lui che Yoshinori fossero massicci, schiacciati assieme com'erano solito riposare, nei momenti in cui lo facevano, non c'era il pericolo che scivolassero oltre il materasso.
Shoichi veniva attirato dal calore, Yoshinori russava e di tanto in tanto parlava anche nel sonno: si sopportavano bene anche in questo, senza recriminazioni di alcuna sorta. Così si erano ritrovati spesso aggrovigliati l'uno all'altro, nel senso più letterale della parola, con un braccio di Imayoshi sopra il viso di Susa e le coperte finite chissà dove nel corso della lotta notturna, combattuta in pieno sonno.
Però, risvegliarsi al mattino in quelle condizioni, pur senza vedere nulla a causa della mancanza di occhiali e litigando con i capelli sparsi ovunque che finiscono nel naso e nella bocca con intenzioni maligne e pure il freddo accumulato alla base del ventre che minaccia le peggiori corse al bagno nel momento stesso della presa di coscienza, Shoichi avverte una punta di serenità nel risvegliarsi con Susa vicino.
Gli era mancato, a modo suo. Non si era mai fermato ad aspettarlo con la pretesa di un suo ritorno, perché nel momento stesso in cui aveva deciso di rifiutarlo aveva anche implicitamente accolto l'idea di non rivederlo più, per quanto doloroso potesse essere l'immagine in sé. Eppure, quando Yoshinori era rimasto, trattenendo tutta la colpa sulla propria persona e non tralasciando niente, proprio niente per lui, Shoichi aveva ritrovato un sollievo antico, che lo aveva inebriato fin nel profondo.
Susa non era suo né lui apparteneva a Susa; ora che avevano capito questo, giocare, parlare, scherzare risultava decisamente più facile e leggero, sia per lui che per l'altro.
Gli piaceva, parecchio.
Sedersi sul materasso del letto, con sotto al sedere la sensazione piacevole del morbido e delle coperte pesanti, le lenzuola a stento rimaste che scivolano via dal petto e vanno a accumularsi accanto ai glutei, in una piccola montagnola soffice. Ritirare le gambe al petto, lasciare il suo calore dove non lo poteva più raccogliere – la vita sottile di Yoshinori era scoperta da una maglia rialzata e da pantaloncini assenti, abbassati nel movimento da sogno.
Imayoshi sorrise e lo guardò pur senza vederlo, rimanendo a ascoltare il ritmo soffuso del suo respiro calmo. Passò una mano sul profilo del suo viso, gentilmente, per ricostruire nella memoria viva i dettagli della sua espressione rilassata, senza che lui si svegliasse nel gesto.
Dopo qualche secondo di silenzio assorto, però, sbadigliò con la bocca completamente aperta, e picchiettandolo sopra il petto lo svegliò in modo piuttosto brutale.
La scuola sarebbe iniziata quella mattina, dopo la pausa estiva, e lui non voleva fare tardi.
-Svegliati, dormiglione. Dobbiamo prepararci.

 

Kasamatsu era consapevole di avere una vita privata piuttosto soddisfacente, al cui centro c'era una famiglia unita e solida, senza sfaldature di qualche tipo.
Era un orgoglioso fratello maggiore che, di anno in anno, assisteva alla crescita dei piccoli Kasamatsu con moti sempre crescenti di orgoglio innato, che accompagnavano in modo naturale e conseguenziale ogni loro successo, anche il più piccolo. Non era un padre, per loro, quindi poteva permettersi qualsiasi tipo di complimento gli fosse venuto in mente, dalla semplice esclamazione a qualcosa di più esplicito. Anche nei momenti di biasimo, nelle rare occasioni in cui uno dei minori tergiversava eccessivamente circa decisioni difficili da prendere, lui non elargiva consigli di vita da rispettare nella maniera più assoluta, ma solo visioni personali del mondo e di come questo funzionasse – che i due piccoli poi seguissero istintivamente quanto da lui esercitato era un altro discorso, che però non creare scompensi o squilibri di alcuna sorta.
Yukio conduceva una vita rigorosa, e con orgoglio assumeva il compito di esempio per loro.
Si era sempre beato di questo piccolo paradiso personale, intaccato da considerazioni riguardanti il mondo esterno che né lui né gli altri componenti della sua famiglia avevano intenzione di portarvi entro.
La definizione di serenità non comprendeva solo il nucleo familiare: veniva integrato anche con lo spazio fisico della sua casa, quelle quattro mura e mezzo che gli facevano da riparo intimo e che lo schermavano di fronte a tutti i mali dell'esterno, come una tana calda e sicura dove poter prendere sonno ogni sera senza avere la paura di incontrare qualche uomo nero malvagio. I suoi genitori avevano costruito con un certo sforzo questo ambiente familiare, e lui ne aveva goduto ampiamente durante tutti i quasi vent'anni di vita, in modo molto sereno.
Per questi motivi il cambiamento lo turbava, e quando l'ansia subentrava nel ciclo del sonno per lui era sintomo di una crisi sotterranea e intima.
Faceva sogni strani, ultimamente. Sogni che lo rendevano inquieto, che lo svegliavano durante la notte con delle strane sensazioni addosso – sogni che la maggior parte delle volte non ricordava neanche nei dettagli, ma che rimanevano in lui come tarli velenosi, pieni di sdegno e malizia. Non se ne liberava mai facilmente, lo rincorrevano per buona parte del tempo della colazione e poi lo inseguivano fino ai primi passi all'interno dell'edificio scolastico, dove in realtà subentravano ben altri tipi di problemi.
E la sua frustrazione cresceva parecchio, rendendolo sempre più isterico.
Per un certo periodo li aveva definiti incubi, perché non credeva di avere un vocabolario adeguato a trovare una spiegazione che assomigliasse quanto meglio alla realtà dei fatti. Non avrebbe saputo neanche descriverli a parole, né descrivere le emozioni che gli lasciavano dentro. Non era propriamente angoscia, o almeno così lui credeva, anche se soppesava nel suo animo come qualcosa che mai aveva conosciuto prima.
E oltre quello, avvenne anche che iniziassero a capitare altri spiacevoli episodi. Si era consolato, dopo un primo momento di sconcerto e quasi panico, con l'idea che la maturazione fisica sembrava essere toccata anche a lui, e che finalmente il suo corpo non rimaneva indifferente alle stimolazioni del mondo – trovare questo più positivo che negativo gli era costato un notevole sforzo, ma se inizialmente aveva cercato di resistere a se stesso alla fine aveva dovuto per forza di cose cedere ai suoi naturali istinti. Tuttavia, non aveva osato documentarsi a riguardo, preferendo di gran lunga continuare nella propria scoperta in quel modo tutto suo.
Aveva faticato abbastanza a capire come funzionasse, e alla fine doveva ammettere che la mera meccanica potesse essere più che soddisfacente.
Ma quella volta che uno dei suoi fantomatici incubi lo colse nella dormiveglia del mattino, all'alba degli ultimi giorni delle vacanze estive di quel terzo anno di liceo, la sua coscienza recuperò un frammento fondamentale del suo desiderio recondito e glielo consegnò con sfacciataggine pericolosa e decisamente mortificante. Poche ore dopo, la sua mente ancora invasa dall'immagine precisa di un corpo definito, lungo e muscoloso accompagnava i suoi gesti pieni di vergogna e imbarazzo verso un orgasmo veloce e appagante.
Prima di impazzire in maniera irrecuperabile, dovette considerare davvero la realtà di essere un uomo che desiderava altri uomini e quindi trovare, in qualche modo, la propria pace dei sensi.

 

***

 

Una foglia rossa volteggiò tra i suoi piedi, sospinta da un vento bizzarro che correva, più di qualsiasi ragazzo del primo anno, verso l'uscita dell'edificio scolastico; Yukio saltellò quasi sul posto per evitare di calpestarla, lasciandola proseguire per il proprio cammino. Quella andò a incastrarsi, per qualche secondo di troppo, tra i rovi bassi di un cespuglio privo di fogliame morbido, intrappolata per il picciolo sporgente ancora abbastanza resistente e duro.
Sembrò facesse quasi apposta, perché nel momento in cui il ragazzo le passò vicino, camminando lento lungo il proprio percorso, tornò a volteggiargli accanto, sempre più allegra e felice.
L'autunno era una stagione piuttosto bizzarra, lo doveva ammettere.
Era stato così preso da quella foglia che non si era accorto, svoltando a sinistra dell'ingresso come faceva ogni giorno, che qualcuno di conosciuto gli si era messo di fianco, in assoluto silenzio.
Ritrovò il sorriso di Imayoshi ancora prima di essersi reso conto della situazione – e le dita che stringevano lo zaino appoggiato alle sue spalle si strinsero in maniera istintiva, senza una valida ragione.
-Fai anche tu questa strada per tornare a casa?
-Oggi sì.
Lui era tranquillo, con la solita cravatta allacciata male e la divisa aperta in avanti, a prendersi tutto il fresco del vento. Come le foglie degli alberi, anche i suoi capelli danzavano, e nessun laccio li teneva legati e in ordine.
-Devo fare qualche commissione per mia sorella.
Si spiegò con un'alzata di spalle, e gli fu più vicino.
-Di solito si occupa lei di questo genere di cose, ma oggi è indaffarata fino a tardi con l'università.
-Tua madre?
Imayoshi sapeva bene come quella domanda fosse naturale, perché non credeva che Kasamatsu potesse riservargli una malizia tale da cercare volutamente una fonte di disagio. D'altronde, lui non lo conosceva abbastanza da poter individuare i suoi punti deboli, proprio perché lui per più di due anni gli aveva impedito di farlo. Si scoprì addolorato per questo – e quindi decise che era il momento di lasciarlo entrare. Aveva aspettato davvero troppo.
Queste considerazioni, però, gli rubarono il tempo necessario per rispondere alla sua domanda, tanto che Kasamatsu intese una implicita mancanza non solo di quella ma anche dell'oggetto del proprio quesito, e quindi si mortificò sentitamente.
-Scusa, non volevo essere indiscreto.
Abbassò gli occhi, interrompendo il contatto visivo, e fece quel passo di lato di troppo.
Accompagnando l'un l'altro, stavano scendendo la strada per andare verso le stazioni del tram e della metro, in un vicolo laterale non così trafficato dalla solita gente di passaggio, indaffarata nella propria fretta e nella propria indifferenza. Passarono di fronte a un negozio di elettronica, che li illuminò di una colorata luce arancione.
Shoichi fece quel passo per riavvicinarsi all'altro, e questo sorprese Yukio.
-Mia madre ha lasciato la mia famiglia quando ero alle medie.
Lui era calmo, sia dentro che fuori, perché era una questione abbastanza vecchia da non risultare ancora dolorosa. D'altronde, poteva vantare diversi ricordi molto gioiosi, e questo gli bastava: inutile prendersela con la vita, perché per definizione è sgombra di pietà o di cattiveria.
Si ritrovò a sorridere.
-Ci siamo trasferiti per questo motivo.
-Mi dispiace.
Gli diede un colpetto di spalla, perché essere di nuovo guardato all'improvviso dai suoi occhi gli faceva un certo effetto e non lo lasciava, per nulla, indifferente.
-Non devi farlo, sono cose che capitano. Noi stiamo bene, riusciamo a funzionare piuttosto bene.
-Questa è una cosa bella.
Shoichi annuì con il capo, provando una sensazione tra il grato e il sinceramente felice, e Yukio capì davvero di non aver fatto alcun tipo di errore.
Arrivarono, con tranquillità, alla prima delle fermate del tram, ma né Imayoshi né Kasamatsu avevano così tanta fretta di lasciarsi andare, e impegnavano le loro menti a cercare frasi con cui continuare quello scambio tranquillo.
Fu il capitano a trovare qualcosa per primo.
-Tu invece hai almeno un fratellino, giusto?
L'altro si stupì, e fu sufficiente per rispondergli.
-Ho visto la tua famiglia alla cerimonia di diploma, l'anno scorso.
-Ho due fratelli minori.
-Sei il più grande, quindi. Si vede.
-Davvero?
-Sì, davvero. Hai proprio il carattere da fratello maggiore.
-È un complimento?
-Certo che lo è!
Rise, di cuore, specialmente quando lo sguardo di lui si assottiglia e lo imputa di non reali colpe che lui sa di non avere e che l'altro non gli attribuisce per davvero. Era uno strano gioco, in quel momento, di maschere e di battute già pronte: quello che però coronava il tutto era la consapevolezza del tale.
-Io quando ho espresso il desiderio di avere un fratellino ho ricevuto un criceto grigio.
-Mi pare sia proprio la stessa cosa.
-Si chiamava Ma-chan ed era diventato talmente grasso da non riuscire a muoversi. Rotolava invece che camminare.
Rise ancora, nel ricordarsi quella piccola palla di pelo e di lardo.
-Era divertentissimo giocare con lui.
Yukio non aveva mai avuto animali domestici – esclusi i suoi fratelli quando erano ancora piccolini – ma capì bene quanto quanto dolce potesse essere l'affetto provato per una creaturina del genere. Glielo leggeva nello sguardo.
Era così tranquillo e rilassato che non riusciva a pensare davvero, e si muoveva come se avesse il cuore in mano, totalmente esposto. Nessuna barriera, perché neanche l'altro lo aveva.
E ritrovare dopo tanto tempo di astio quella sintonia gli faceva venire voglia di averne sempre di più – sempre più di lui, sempre più pezzi della sua anima, da custodire gelosamente unicamente per se stesso.
-Questa è la prima volta che parliamo così.
-Ti disturba?
-No. Mi fa inaspettatamente piacere.
-Come inaspettatamente?
Gli sfuggì un'altra considerazione ad alta voce, prima che riuscisse a trattenerla per sé.
-Di recente sei più sgradevole del solito, Shoichi.
-Anche tu.
Si fermò, all'improvviso, e fece fermare anche lui.
Non che fosse stupito della cosa, ma era la prima volta dopo tanto tempo che considerava le conseguenze dei propri gesti. Non era per lui un vanto risultare sgradevole, anche se questo voleva dire essere stato fedele ai propri ideali.
Non la considerava fragilità, solo una punta di rimorso per qualcosa che non aveva inteso fare.
-Scusami.
Lo vide cambiare espressione, e se in un primo momento non gli piacque poi si sentì abbastanza in imbarazzo da reagire come al solito, ritrovandosi pieno della propria personalità grazie a lui.
-È la seconda volta che ti scusi con me, oggi. Devo iniziare a preoccuparmi?
-Non prendermi in giro!
Iniziarono a correre senza un reale perché, forse per la gioia di ritrovarsi assieme. Scansarono diverse persone sbigottite, come se fossero avversari statici in un campo di basket immaginario.
Con il fiato corto, fu Imayoshi il primo a fermarsi, di fronte all'entrata di una stazione rialzata.
-Io devo prendere il tram qui.
-Io proseguo.
Corse ancora, lontano da lui – in alto, una mano a salutarlo, e sul viso un'espressione sghemba assomigliante a un sorriso stanco.
-Ci vediamo domani all'allenamento, ok?
-Sì, ci vediamo!

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Capitolo 11
*** *Terzo anno - III* ***


*Terzo anno – III*

 

 

 

Ritrovarsi a piangere contro un gabinetto, nella prospettiva di vomitare da un momento all'altro, non era esattamente quello che aveva pensato di finire a fare, appena iniziato il torneo della Winter Cup. Così come non aveva immaginato di sentire il sapore delle proprie lacrime su labbra e lingua, dove che quelle gocce di acqua salata e calda erano rotolane sugli zigomi o seguendo la forma sottile del naso, fino a morire quasi tra i suoi denti.
L'impotenza che lo aveva preso e che gli impediva di reagire in qualche modo al continuo tremare delle proprie spalle era una continua mortificazione. Sembrava quasi ironico, il tutto: non solo la sconfitta alla prima partita di campionato, che bruciava di umiliazione peggio che mille fuochi sulla pelle, ma anche quella tristezza incapace di reazione o di qualsivoglia evoluzione di slancio.
Per il tempo che si fece bastare a premere la fronte contro la tavoletta fredda di plastica fu invaso dalla sensazione di sconfitta totale e nullificatrice. Questo gli rese complessa l'azione stessa del respiro, rubandogli più aria del dovuto – il pavimento su cui le sue ginocchia si reggevano divenne come molle, capace di inghiottirlo per non lasciarlo più andare.
Tutto quello che aveva pensato di poter essere era stato vanificato dalla volontà di qualcuno. Il peso del suo fallimento gli attanagliava la gola e gli grattava direttamente nei polmoni, come veleno asfissiante da cui lui non riusciva in alcun modo a liberarsi.
Tentò anche di dare voce al proprio dolore ma tutto quello che gli uscì dalle labbra furono rantoli sconnessi, senza suono. Non vedeva più niente, non sentiva più niente. C'era solo, com'era sempre stato in quasi vent'anni di vita, il suo sentire sensibilissimo e la sua anima esposta.
Però sentì un suono provenire da dietro di sé, o almeno riuscì a percepirlo prima che due arti si chiudessero attorno al suo capo e un abbraccio stretto lo stringesse a un petto fremente, caldo di singhiozzi e di spirito. Era sudato e morbido, come qualcosa che non aveva mai sentito.
Quando il senso della vista gli tornò funzionante, Imayoshi poté distinguere Kasamatsu Yukio appresso a lui, in quel piccolo bagno degli spogliatoi, con il viso altrettanto rigato di lacrime e nessuna parola pronta tra le labbra. Lui non era capitano, non lo era mai stato, e quindi non si poteva arrogare il diritto di pretendere la conoscenza del suo stato d'animo; eppure, anche dalla sua posizione di semplice giocatore, semplice vice capitano, condivideva con lui il dolore, e la sua presenza in quello spazio ristretto voleva
dire soltanto questo.
Le sue dita si mischiarono ai capelli scuri di Shoichi, le pieghe della divisa che ancora indossava oscurarono parzialmente la vista dell'altro.
Aveva giocato con tutto se stesso, senza risparmiarsi proprio nulla – tutti loro, persino Aomine Daiki, e anche Susa e anche Wakamatsu non potevano dire di aver alcun tipo di rimorso o di rimpianto.
Come nella peggiore della realtà, quello sforzo non era bastato. La loro volontà di vincere non era stata sufficiente perché ciò accadesse; questione di fortuna, questione di merito: constatarlo sarebbe solo servito a farli stare peggio in un secondo momento, perché era ovvio che da qualche parte, da qualsiasi parte, loro avevano peccato.
Kasamatsu si prese tutti i suoi singhiozzi, dal primo all'ultimo. Rimbombarono nella sua cassa toracica, come uno strumento atto a intonare una melodia straziante. Non si rifiutò neanche un solo secondo, e quando Shoichi rispose alla sua stretta con un abbraccio altrettanto fermo, altrettanto forte, alzò gli occhi al soffitto e lasciò che le lacrime uscissero di nuovo dalle sue palpebre, senza opporre resistenza.
Tutto era finito, dunque, proprio lì.
E tutto, proprio lì, poteva di nuovo cominciare.

 

Pensare al futuro era qualcosa che non gli aveva mai occupato la mente, prima di quel momento. Poteva risultare quasi paradossale un'affermazione simile, a dire il vero, considerando che aveva costruito il proprio futuro pezzo dopo pezzo, comportandosi in un dato modo specifico con la presunzione di averne poi, in seguito, un guadagno netto.
Certi suoi comportamenti risultavano, ai suoi stessi occhi, quasi stupidi, privi di significato, perché il fine ultimo non era mai stato analizzato con vero occhio critico.
Quello che era, in quel momento, non lo sarebbe stato mai più. Quei tre anni passati alla Touou Academy avrebbero avuto solo un senso limitato, circondato da definizioni e pilastri di demarcazione settoriale: una fase, un periodo, un passaggio. La vita adulta, quella vera, era oltre il confine dell'adolescenza, e lui avrebbe imparato a esistere solo da quel momento in avanti, come se la propria esperienza non potesse essere altro che una semplice base per un domani più luminoso e fruttuoso.
Gli veniva da vomitare soltanto al pensiero. Il suo stomaco si contorceva su se stesso per capitolare in più modi, in diversi punti, dandogli degli spasmi dolorosi che annullavano ogni altro tipo di sensazione tattile.
Guardava fuori dalla finestra mentre il resto della classe finiva una delle tante lezione del terzo anno: letteratura giapponese classica, materia d'esame, piuttosto difficile per una persona come Kasamatsu che non era per niente portata per le lettere umanistiche.
Il cielo era più grigio che azzurro, e in lontananza si poteva vedere quel pallore tipico delle ventate di neve che soffiavano da settentrione. Quel pomeriggio, sul tardi, anche Shibuya sarebbe stata ammantata di bianco latte.
Percepì poco l'insegnante che gli arrivava vicino e si fermava accanto al suo banco, con più stupore che rabbia in corpo. Yukio era capoclasse e studente modello, almeno per quanto riguardava il comportamento standard, e in tutta la scuola era risaputa la figura poco ammirevole all'ultimo campionato di basket della sua squadra: la voce che l'uomo usò per lui, mentre gli si rivolgeva pacato, aveva molto del pietoso e del commiserato, come se lui non fosse che una povera vittima degli eventi.
-Quando sarai all'università, non ci penserai più.
Il suo destino era già stato scritto da qualche parte, questo era la più grande paura di Kasamatsu, così come il non aver alcuna voce in capitolo per le scelte da fare, per la strada da percorrere, per l'uomo che aveva intenzione di essere.
Si chiese, mentre si voltava in silenzio a guardare l'uomo, che cos'altro il tempo si sarebbe mangiato.
Probabilmente, tutti i sentimenti irosi nei confronti di Aomine Daiki, perché per spirito di autoconservazione e per evitare, quindi, il propagarsi di quel principio antico di gastiti nervose, la sua memoria tendeva a scartare certi brutti ricordi, e con lui quella di molte discussioni fatte con i compagni di squadra, le brutte parole scambiate nei momenti d'ira, le maledizioni propinate nelle situazioni peggiori.
Sperò che fosse soltanto quello, lo sperò davvero. Perché al resto – a tutte le cose belle – lui non voleva davvero rinunciare.
Si chiese quale uomo potesse definirsi migliore senza una valutazione completa della propria storia personale, e si rispose da se che non valeva neanche la pena crescere se avesse dovuto rinunciare a un solo dettaglio della propria esistenza.
Anche per le cose brutte; sì, anche per le cose brutte.
La lezione continuò, attorno a lui, quando non avendo risposta dalla sua bocca il professore si era allontanato dal suo banco e aveva ripreso a parlare al resto degli studenti piuttosto intontiti.
Capitò, quindi, che Yukio posasse gli occhi sulla nuca di una persona, un ragazzo della sua classe che sempre aveva avuto davanti a sé, per due anni di fila, grazie al rimescolamento degli studenti di corso in corso.
Imayoshi Shoichi si voltò verso di lui e gli sorrise, dietro la montatura scura degli occhiali. I capelli raccolti all'indietro, una matita tra le dita.
Yukio si rese conto di non poter dimenticare proprio lui, tra tutti i dettagli tanto importanti. E di non volerlo assolutamente permettere.

 

***

 

-Penso di essere emotivamente coinvolto da te.
Lo ha invitato in quella pasticceria il giorno prima, all'improvviso, senza neanche dargli il minimo preavviso, spiazzandolo e intontendolo come poche altre cose, tanto che non era stato il suo spirito a accettare la cosa ma il suo corpo, in maniera del tutto meccanica e automatica.
In quel momento, di fronte a una cioccolata calda e allo sguardo basso di Imayoshi Shoichi, Kasamatsu continuava a essere piuttosto perplesso.
-Non ho capito.
Il sorriso di lui non fu per niente bello: era nervoso, contratto, più simile a una smorfia antipatica che a un gesto di piacevolezza. Ne fu quasi infastidito.
-Mi piaci, Yukio- kun.
Sospirò fintamente affranto, cercando di scacciare dal corpo un po' del proprio nervosismo.
-Pensavo avresti capito comunque.
-Per chi mi hai preso?
-Ah, scusa.
Anche Kasamatsu sentì la necessità di proteggersi, in qualche modo, perché Imayoshi lo aveva attaccato all'improvviso senza dargli tempo né spazio per reagire di conseguenza con tutta la propria razionalità pronta. Incrociò le braccia al petto, cercando di recuperare qualche pensiero coerente, ma si ritrovò presto a dover ammettere di non esserne capace.
-Non so cosa dire.
-In realtà non è necessario che tu dica nulla.
-Sul serio?
-Sul serio.
Lo guardò molto male, e la sua postura si irrigidì parecchio – come il suo sguardo, sotto le sopracciglia aggrottate in mezzo alla fronte sgombra di frangia.
-Pensi davvero di valere così poco?
-Non è questo...
-Lo è.
Si sporse sul tavolo, col busto, e quasi ne fece tremare la superficie orizzontale quando vi picchiettò sopra il dito indice, per rimarcare il concetto che stava pronunciando.
-Io non ti considero così poco da non valere neanche una risposta.
Imayoshi capì, ma continuò a rifiutarsi di guardarlo in viso per più di qualche istante.
Kasamatsu sbuffò, tornando indietro contro la propria sieda.
Non riusciva a godere, minimamente, dell'atmosfera tranquilla e rilassata del locale dove si trovava; c'erano pochi clienti e i camerieri, che sapevano fare bene il proprio lavoro, si muovevano tra i pochi tavoli con discrezione e silenzio, senza fare quasi rumore.
I suoi occhi si concentrarono su un dettaglio casuale, così da lasciare la bocca priva di impedimenti emotivi di qualche tipo.
-Posso chiederti da quanto tempo hai maturato questa consapevolezza?
-Ti serve molto saperlo?
-Sì, abbastanza.
-Razionalmente, solo da un paio di mesi.
-Non razionalmente?
-Credo da sempre.
Si sentì all'improvviso in imbarazzo, con le guance color porpora. Imayoshi in quel momento lo stava guardando, forte del fatto di non essere ricambiato. Come al solito, era lui quello più fragile tra i due, alla perenne ricerca del punto debole dell'altro per poterlo sfruttare a proprio esclusivo vantaggio.
-Ti disgusta.
-No, non lo fa.
Sorrise e cominciò a girare, a vuoto, il cucchiaino nella propria cioccolata calda, mescolando il liquido scuro e denso con la panna bianca.
-Yukio- kun, tu non mi devi niente. Ho voluto dirti questa cosa per togliermi un peso dal cuore. Prendilo come un atto puramente egoista.
-E quindi, come finisce? Che mi lasci qui con questo carico senza neanche prenderti la briga di sapere se me lo trascinerò dietro o lo abbandonerò?
-Non ci vedremo forse mai più.
Yukio alzò di scatto lo sguardo a lui, abbastanza irritato.
Si sentiva offeso nell'orgoglio e nella persona, usato e poi gettato via senza il minimo ritegno: eccola lì, la parte peggiore di Imayoshi che proprio non riusciva a sopportare né mai si sarebbe permesso di farlo.
-E questo chi lo deciderà?
-Beh, tu. E anche io. Le cose cambiano, Yukio- kun. Questo è naturale. Ognuno di noi raggiunge la propria maturazione. Io ho capito cosa voglio e cosa non voglio, ma non tutto dipende da me. È una lezione che ho imparato di recente.
Mentre Shoichi, liberandosi di tutto quello – emozioni, pensieri, dubbi, segreti, confessioni – riusciva a credere se stesso come una persona in grado di reggere la verità altrui, Yukio pian piano sentiva sempre più mortificazione addosso, oggetto e non soggetto reale di un sentimento che, almeno nel suo immaginario, era condiviso e compartecipe. Non riusciva a capire cosa l'altro volesse davvero dire e cosa avrebbe dovuto fare, men che mai quello che stava provando dentro, per se stesso e per lui.
Era confuso, e questo lo irritava moltissimo.
Abbassò lo sguardo, mortificato.
-Le tue parole sono prive di malizia e per questo feriscono più del solito.
-Mi spiace. Non mi sono mai scusato per tutto quello che ti ho detto.
-Perché lo fai adesso, allora?
-Te l'ho detto, per puro egoismo.
Lasciò che passassero diversi minuti in silenzio. Imayoshi consumò quasi del tutto la propria cioccolata, mentre aspettava tranquillo che l'altro si arrendesse all'evidenza dei fatti.
Lo aveva schiaffeggiato moralmente, in modo da rimanere illeso nella propria persona. E a quel punto non importava neppure più che l'altro gli rispondesse o meno, ma solo che si allontanasse.
Aveva paura, questa era la verità. E Yukio lo aveva capito benissimo.
-Sei così sleale, Shoichi. Vieni qui a parlarmi d'amore, eppure non sei minimamente interessato ai miei sentimenti.
Si alzò dalla propria sedia, senza neanche finire quanto ordinato prima. Prese il proprio cappotto e lo guardò per un'ultima volta.
-Addio, Shoichi.

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Capitolo 12
*** *Epilogo* ***


*Epilogo – Parte finale*

 

 

 

Passati due mesi di vuoto, gli occhi di Imayoshi Shoichi hanno perso quel poco di espressione che hanno sempre avuto. L'università è cominciata e lui segue più o meno svogliatamente le lezioni del mattino, fatica a integrarsi nell'ambiente dei laboratori pieni di alambicchi e odore di disinfettante basico – forse, aver scelto una facoltà scientifica non è stata esattamente una scelta saggia, ma ormai non può più tornare indietro e si arrangia come può.
La nuova vita non ha nulla che possa entusiasmarlo, né la novità di poter convivere con un amico in un appartamento tutto proprio, in modo da essere il solo a governare la propria intera esistenza, né una routine completamente stravolta da impegni improbabili, orari per fare la spesa e una dieta ferrea per non essere appesantito, mal nutrito, sovrappeso.
Tokyo rimane una grande città capace di annoiarlo e di renderlo grigio esattamente come i palazzi grandi di cui è composto, conformandolo a un modo d'essere che non è neanche suo.

 

Oggi non prende il tram come tutti i pomeriggi, per tornare a casa. Cammina di più, portato forse dal vento secco, forse dalla propria volontà stanca; non lo sa, ma lo fa lo stesso.
Si aggira come uno straniero nei vicoli che non conosce, cercando dettagli con cui arricchire un itinerario che conosce poco e che fa da sfondo ai giorni che passano lenti. Allora riconosce un negozio di elettrodomestici, allora ricorda come raggiungere una gelateria molto buona, allora deve fare attenzione perché quello è l'orario in cui le scolaresche vengono liberate e a a un solo isolato di distanza si trova una scuola elementare molto grande.
A lui non sono mai piaciuti i bambini, ma sorride lo stesso.
Ed è con il sorriso sul viso che lo vece tra la folla, che gli corre incontro.

 

-Non pensavo che ti avrei mai più rivisto.
-Stupido!
C'è stato l'istinto di scappare, all'inizio, e quindi le sue gambe erano già pronte allo scatto.
Si sono messi di nuovo a correre assieme, come quella volta in autunno, alcuni mesi prima. Però, oggi si tengono per mano, e sembra che Yukio non abbia più intenzione di lasciarlo andare.
Le sue parole gli sono sembrate ancora più forti di quanto non lo fossero prima – o forse è l'impressione nostalgica di non averle sentite per troppo tempo che le rende tali.
-Sai, Shoichi? Ho pensato.
-Ha cosa, hai pensato?
-A quanto sei sempre stato idiota.
Hanno superato diverse fermate del tram, a quella maniera, senza curarsi delle cartelle dell'università che sbattevano da tutte le parti e urtavano, diverse volte, i passanti loro vicini; qualcuno li ha insultati, più o meno velatamente, e come tutti gli altri suoni è stato inghiottito dalla folla e dalla strada.
-Ma più di te, sono stato idiota io.
-Ah, sì?
-Sì, perché ho impiegato tutto questo tempo per trovare una risposta.
Imayoshi si blocca solo nel momento in cui capisce il luogo in cui si trovano. Non lo aveva mai visto prima e questo gli crea una certa vertigine, anche se la causa è da attribuire decisamente di più alla lunghissima corsa fatta.
È tutto sudato e l'unica cosa di cui necessita è una sedia su cui morire.
Eppure Kasamatsu è così serio, di fronte all'ingresso della sua casa, che gli pare una cosa brutta non guardarlo in viso.
-Non avevo mai capito l'esigenza di averti nella mia vita. Completamente. Perché da principio, ci sei sempre stato, in ogni momento importante e in ogni occasione speciale. Tutto inizia con te, e con te non voglio che finisca. Per quanto mi sforzi, non riesco a trovare un ricordo che non sia così, e non voglio farlo. Voglio trovarti sempre, in ogni mio pensiero. Lo voglio perché ne necessito.
Gli lascia la mano e indica la porta di legno accanto a sé, proprio con quelle stesse dita.
-Questa è una cosa di me che voglio preservare, e concedimi quest'unico atto egoistico perché tu ne ha avuti tanti, nei miei confronti: voglio farti mio, così come sento di appartenerti.
Trema, mentre parla, ed è così dolce.
Ma lo ferma con una mano sul petto e un sussurro sulle labbra, proprio sul nascere di ogni azione e di ogni intento, prima che possa fare un qualsiasi passo falso.
-Se ora entri, accetti tutto. Ogni responsabilità, ogni cosa. Accetti me, per tutto quello che sono. Io sono pronto, Imayoshi. Anche io ho capito cosa voglio, e non ho intenzione di permetterti di avere di nuovo paura. Ti voglio, con tutti i difetti che hai.
Abbassa la mano, guardandolo ancora più da vicino.
-E tu? Sei disposto a perdonarti come io ti perdono?

 

Divertente come il cuore possa giocare a ingannarsi, con crudeltà e precisione.
Ma non quella volta, non ancora.

 

C'è solo un rumore metallico dietro di loro, quando la porta si chiude alle loro spalle.
E nel silenzio di un appartamento vuoto, quel nuovo inizio bonario che è soltanto la continuazione dell'ovvio e del naturale è sancito con un primo bacio.

 

 

 

Where there is desire

There is gonna be a flame

Where there is a flame

Someone's bound to get burned

But just because it burns

Doesn't mean you're gonna die

You've gotta get up and try

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