E' solo un altro stupido reality show

di Claire Penny
(/viewuser.php?uid=796328)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Tra pioggia, disoccupazione e risentimento karmico ***
Capitolo 3: *** Chubby Bunny ***
Capitolo 4: *** Come (e in quali condizioni) sono arrivata qui ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


C'era una volta...una mail.
Lo so, è strano come inizio di una storia, però è cominciata proprio così, con poche righe di presentazione ed un file in allegato. Un file contenente un video lungo nove minuti e trentasette secondi.
Poi un indirizzo di posta elettronica, un clic e...puf! Un secondo dopo la suddetta mail si trovava nella posta in arrivo di un anonimo computer dall'altra parte del mondo.
Bene, fin qui potrebbe sembrare una storia parecchio stupida, no? Voglio dire, a questo punto perchè non scrivere un'introduzione su come si accende la lavatrice o su come si apre il frigorifero? Nel secondo poi, ho parecchia esperienza.
Semplice: perchè quella mail, identica a milioni e miliardi di altre mail, ha finito per stavolgermi totalmente la vita.
E dire che non l'ho nemmeno scritta io...
No, a scriverla, a mia completa insaputa, era stata la mia migliore amica, Elena. Probabilmente però neanche lei al momento dell'invio non era minimamente preparata alle conseguenze che quella breve lettera in formato elettronico avrebbe avuto sulle nostre vite.
Invece eccomi qui, a raccontare del giorno in cui venni a sapere dell'esistenza di quella mail...

* * *
C'era un'altra volta...una sveglia.
Una maledetta sveglia dall'età indefinita. Per quanto ne sapessi, potevano anche avermela regalata in culla, dal momento che l'avevo sempre vista lì, sopra al comodino, accanto al mio letto. Un oggettino piccolo, color verde schifo, apparentemente innocuo, che in realtà altro non era che un perfido strumento di tortura cammuffato.
Sin dal primo giorno della prima superiore - anche conosciuto come il momento in cui mi madre aveva decretato che ero ufficialmente grande abbastanza per svegliarmi e prepararmi da sola alla mattina - quell'aggeggio infernale aveva scandito l'inizio della maggior parte delle mie giornate con quel suo irritante bip-bip stonato e a volume decisamente troppo alto per permettermi di alzarmi senza provare qualche forma di istinto omicida.
Inoltre, dal momento che gli anni delle superiori restano tutt'oggi nella top five delle ragioni estremamente valide per le quali dovrei sottopormi ad almeno un paio di sedute di elettroshock, potrete facilmente intuire quanto il mio rapporto con quel fastidioso suono sia peggiorato nel tempo.
Già...ancora oggi,  quando quell'odioso segnale acustico irrompe nel mio sacrosanto sonno, mi assale la stessa angoscia che mi attanagliava tutte le mattine al solo pensiero di dover affontare un'altra giornata in quel girone infernale chiamato "scuola", tra professori in piena crisi di mezza età e perfidi coetanei in piena crisi adolescenziale/tempesta ormonale/qualunque sia la causa che rende buona parte degli appartenenti alla fascia d'età tra i quattordici ed i diciotto anni degli emeriti stronzi patentati.
Ad ogni modo, anche se ancora oggi a volte mi sembra impossibile da credere - e così è anche per chiunque mi conosca bene - sono riuscita  a diplomarmi. I miei genitori, per festeggiare l'evento (la cui portata era più o meno equiparabile al miracolo di Gesù che resuscita Lazzaro) si erano improvvisati Geni della Lampada e mi avevano concesso di esprimere un desiderio che loro avrebbero cercato di esaudire nei limiti delle loro possibilità.
Avrei potuto avere qualunque cosa desiderasse una normale ragazza in quel momento della sua vita: uno smartphone ultimo modello - ero l'unica della mia classe a non possederne ancora uno - , un computer nuovo, o addirittura il tradizionale viaggio della maturità!
Io però ero affezionata al mio vecchio laptop; il mio cellulare Nokia, nonostante risalisse al paleolitico, funzionava ancora alla grande - era uno di quei modelli che se anche cadeva dal quinto piano rimaneva perfettamente intatto e lasciava un cratere sull'asfalto - e purtroppo mi vidi costretta a reclinare anche l'offerta del viaggio perchè, per quanto, tra le proposte fosse la più allettante, non avevo modo di attuarla.
Il motivo era semplice: non avevo nessuno con cui partire.
Come forse avrete intuito dalla mia precedente breve descrizione dei miei anni alle superiori infatti, non ero mai stata esattamente miss popolarità.
Ok, questo è un eufemismo grande come Giove. La verità è che, nella gerarchia sociale scolastica, anche Gino, il bidello zoppo con lo sguardo da serial killer, era più benvoluto di me.
Avevo però trovato lo stesso un modo di riscuotere la ricompensa che mi spettava per il mio sudato "60" alla maturità - voto che è più o meno l'equivalente scolastico di un calcio nelle chiappe per farmi togliere dalla circolazione una volta per tutte - : per un anno, un meraviglioso, tranquillissimo e pacifico anno, mi era stato accordato il permesso di sospendere ogni attività e quindi, con la benedizione dei miei, mi ero concessa un periodo sabbatico, termine forbito che si usa per indicare un non meglio precisato lasso di tempo (di solito dodici mesi, ma può essere prolungato, se si riesce a trovare la scusa giusta) durante il quale si vive dormendo dalle dieci alle tredici ore al giorno, mentre quelle restanti si passano tra divano, facebook, telefilm in streaming e programmi tv in grado di abbassarti il quoziente intellettivo di dieci punti in cinque minuti.
I miei trecentosessantacinque giorni compresi tra i diciannove e i vent'anni erano trascorsi così. Ad essere sincera, non so precisamente quanto sarei stata in grado di continuare con quella pigra routine se qualcuno non si fosse premurato di interromperla al mio posto. Di sicuro almeno un altro anno. Forse anche due. Forse anche dieci.
I miei genitori però non intendevano transigere sulla durata del nostro accordo e così una mattina, all'incirca un mese dopo l'inizio del mio secondo decennio come abitante del pianeta Terra, mia madre decise che era ora di buttarmi giù dal divano sul quale, di giorno in giorno, mi stavo lentamente ma inesorabilente trasformando in un vegetale bavoso - sempre ammesso che i vegetali sbavassero - e sempre meno reattiva a qualunque genere di stimolo (fame esclusa).
E quando dico "buttarmi giù dal divano", intendo letteralmente.
Non mi ero accorta delle intenzioni della mia genitrice - nè tantomeno della sua presenza - fino al momento in cui non mi ero trovata a baciare il pavimento. Mia madre aveva infatti avuto la brillante idea di usare il copridivano come leva per costringermi a lasciare il mio comodissimo nido fatto di cuscini, coperte di plaid, telecomandi di varia utilità e briciole di cibo non meglio identificato.
In quel momento, mentre cercavo di recuperare l'uso dei miei arti atrofizzati e ormai prossimi alla cancrena per riuscire a rialzarmi, avevo capito di trovarmi davanti ad uno di quegli emblematici bivi all'apparenza stupidi, ma dal quale dipendeva qualcosa di importante. Nella fattispecie, la valutazione di mia madre a proposito della mia maturità - e non parlo ovviamente di quella scolastica.
In quel momento infatti, mi trovavo di fronte a due possibili modi di reagire:
1 - Incazzarmi e mettermi a inveire contro le sconsiderate gesta della stessa donna che mi aveva messa al mondo, scatenando di conseguenza qualcosa di molto simile alla Terza Guerra Mondiale, che si sarebbe sicuramente conclusa con la cara mammina che sfonderava la sua famigerata ciabatta-boomerang, arma segreta che nelle sue mani assumeva lo stesso effetto del disco con le lame nelle mani di Xena;
2 - Prenderla con filosofia e provare a vedere quell'atto all'apparenza dovuto all'esaurimento dell'ultima goccia di pazienza di mia madre (ma solo all'apparenza, eh!) come una metafora che mi invitava ad uscire dalla comfort-zone e cercare la mia strada per prepararmi al momento in cui avrei dovuto lasciare definitivamente il nido, sia in senso figurato, che letterale. Credo che mia madre intendesse soprattutto quello letterale.
Così alla fine, anche se riluttante, decisi di optare per la seconda opzione.
Ovviamente senza la minima idea di dove mi avrebbe portata.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Tra pioggia, disoccupazione e risentimento karmico ***


Dov'eravamo rimasti?
Ah, già, la sveglia.
Quella mattina è l'ultima in cui riesco a ricordare me stessa nei panni di una persona "normale" (presupponendo che io lo sia mai stata).
3 maggio, ore 6:30.
Spensi il maledetto aggeggio con una manata che, più che a fermare il consueto bip-bip, mirava a porre definitivamente fine alla sua esistenza, ma senza successo.
Il primo pensiero di quel giorno, combaciava con l'ultimo della sera precedente.
Il mio ragazzo?
AHAHAHAHAHAHAH
No.
Ecco, l'argomento "vita sentimentale" era l'unico che fino a quel momento era riuscito a superare di una posizione il ricordo dei miei anni alle superiori nella mia precedentemente citata classifica delle ragioni per cui avrei dovuto prendere seriamente in considerazione l'idea dell'elettroshock.
Il perché lo spiegherò più avanti, altrimenti ricomincio a divagare e perdo di nuovo il filo del discorso.
Dicevamo, il mio primo pensiero, all'alba di uno di quelli che più sarebbe dovuto essere uno dei giorni più belli della settimana (venerdì), non era affatto qualcosa di allegro, anzi, era una delle mie più grandi preoccupazioni da circa un paio di settimane: la scadenza del mio contratto.
Ricordate quando la mia amabile madre mi aveva spinto - in tutti i sensi -  a cercare la mia strada? Ovviamente ciò che intendeva era che mi cercassi un lavoro. Mi aveva incoraggiata ad accettare qualunque mansione, anche la più umile, perché, a suo dire, "tutto fa curriculum". Anche se si trattava di un lavoro in nero, o che non prevedeva nessuna possibilità di un'assunzione fissa o quantomeno legale, o datori di lavoro incontentabili o perennemente isterici, od orari lavorativi impossibili, o mansioni che rasentavano la riduzione in schiavitù.
Avete letto bene quest'elenco? Perfetto, ora sostituite tutte le "o" con "e" e otterrete un'accurata descrizione di tutti i lavoretti che avevo svolto prima di approdare all'unica azienda che mi aveva offerto il mio primo contratto VERO&PROPRIO.
Come stagista.
Beh, detta così non sembra poi così male, no? Del resto si parte sempre dal basso. Certo, peccato che di stagisti, oltre alla sottoscritta, ce ne fossero altri tre, tutti assunti all'incirca nello stesso periodo e che tra noi, nelle ultime settimane, si stessero disputando gli Hunger Games in versione aziendale. In premio c'era il contratto di apprendistato, l'anticamera dell'assunzione definitiva e forse anche di quella leggenda metropolitana altresì nota come "contratto a tempo indeterminato".
Lo ammetto, non sono esattamente la persona più sveglia del mondo. Sono più le volte in cui cado dalle nuvole che quelle in cui arrivo per prima alla conclusione. Tuttavia, nel momento stesso in cui avevo messo per la prima volta piede nell'ufficio che mi avrebbe ospitata durante tutta la durata dello stage, avevo avuto come la sensazione che le cose sarebbero state più difficili del previsto.
Non ho ancora capito se tale sensazione dipendesse dal mio sesto senso, o dal intuito femminile (sono la stessa cosa? Boh…), o dal fatto che la prima cosa su cui si erano posati i miei ingenui e spaesati occhi era stato lo sguardo inceneritore del mio collega nonché rivale lavorativo, Cristiano Mennoni. Per gli amici, Cris.
Per tutti gli altri, Quel Coglione.
Vogliate perdonare il mio linguaggio scurrile ma, come per tutti gli abitanti di questo mondo, anche per me esistono persone in grado di stimolare il mio lato da scaricatrice di porto.
E se dovessi stilare una classifica in proposito, Cristiano Mennoni otterrebbe sicuramente un ottimo piazzamento.
Erano infatti bastate un paio di settimane per far sì che la quotidiana routine di Cristiano divenisse la seguente:
- Ore 8.00: arrivo al lavoro (con mezz'ora di anticipo rispetto all'orario degli altri impiegati)
- Ore 8.01 - 9.00: cazzeggio nella sala relax a bere caffè e parlare con i suoi apostoli - tra cui spuntava il suo alleato e complice Nicola Bellini, stagista numero tre - di argomenti intellettualmente stimolanti quali "quel locale figo in cui sono stato sabato sera", "quella volta in cui mi sono ubriacato ammerda per poi vomitare l'anima", "quella gran figa che mi sono trombato l'altra sera"."a quanti chilometri orari ho fatto correre in autostrada la Range Rover regalatami da papino - personaggio meglio noto in azienda con il titolo di dottor Mennoni, direttore commerciale -".
- Ore 9.01: ritorno in ufficio e inizio dello svolgimento delle proprie mansioni (con mezz'ora di ritardo rispetto all'orario degli altri impiegati). Mansioni che prevedevano aprire un file di excel a caso e fingere di lavorarci mentre su un'altra pagina apriva facebook per chattare con le prossime candidate a diventare le protagoniste della rubrica a luci rosse precedentemente citata "quella gran figa che mi sono trombato l'altra sera".
- Ore 10.30: meritata pausa caffè dopo una faticosa ora e ventinove minuti di finto lavoro.
- Ore 10.50 - 12.30: ancora file excel di copertura/chat con ragazze dai tanti “like” e pochi vestiti sulle foto di facebook, attività questa volta alternata con un po' di sano terrorismo psicologico verso l'altra stagista (io), che da quella mattina non ha ancora avuto il tempo di esalare un respiro e sta correndo da una parte all'altra dell'ufficio come una pallina del flipper.
- Ore 12.30 - 14.00: Pranzo. Ovviamente, il fatto che per i dipendenti comuni mortali la pausa si concluda alle 13.30 è irrilevante.
-Ore 14.01 - 16.59: replica delle attività svolte in mattinata, con un particolare occhio di riguardo al mobbing verso l'altra stagista presente in ufficio (sempre io).
-Ore 17.00: fine della giornata lavorativa. Con mezz'ora di anticipo rispetto agli altri impiegati, perché lui arriva mezz'ora prima e quindi può.
Ovviamente, il suo status di progenie del braccio destro del grande boss gli garantiva la totale immunità dal licenziamento o eventuali richiami, nonché un bel vantaggio nella corsa al contratto di apprendistato, rispetto a noialtri babbani figli di nessuno.
Chiariamo: non è che questa cosa della gara al posto fisso fosse ufficiale, anche perché ho il vago sospetto che una cosa del genere non sarebbe considerata esattamente legale. Tuttavia, sin dal giorno in cui ero arrivata all'ufficio spedizioni, l'area a cui ero stata assegnata, avevo più o meno capito in che simpatica situazione fossi andata a cacciarmi. Intuizione rafforzata dopo aver origliato per puro caso due impiegati, uno dell'ufficio spedizioni, l'altra dell'ufficio acquisti, che durante la pausa caffè scommettevano su chi dei novellini sarebbe sopravvissuto al periodo di stage. Curiosamente, Mennoni Junior era quotato 1:2, tutti gli altri, 1:1.000.000.
Potrete quindi comprendere la mia angoscia nel varcare la soglia di quello che per sei mesi era stato il mio ufficio, quella mattina. Potevo uscirne come dipendente quasi ufficiale o come disoccupata.
Mi bastò però arrivare alla fine della mattinata quando, dopo l'ennesima frase di circostanza del tipo: "Se non ci vediamo più, ti auguro buona fortuna" (traduzione: "Adesso sono cazzi tuoi. Adìos e tante care cose"), capii mio malgrado che quando quella sera avrei spento il computer, raccolto le mie cose e sputato nella bottiglietta di Gatorade blu che Cristiano teneva sempre accanto al suo computer, l'avrei fatto per l'ultima volta.
E così fu.
La mia ricompensa, dopo aver lavorato anche nove ore al giorno per trecento euro al mese, senza che nessuno mi pagasse gli straordinari e spesso con qualcun altro che si prendeva il merito del mio lavoro, fu una stretta di mano, un augurio di buona fortuna ed una fugace occhiata alle mie tette da parte dell’amministratore delegato, da me segretamente soprannominato “Mastro Lindo Quattrocchi”. Spiegare il perché penso sia superfluo.
Quindi aveva vinto il nepotismo, questa volta nei griffati panni di Cristiano…e forse avrebbe ottenuto un premio di consolazione anche colui che aveva tenuto per tutta la durata dello stage la sua viscida lingua appiccicata al fondoschiena di quest’ultimo, ossia Nicola.
Welcome to Italy.
Fui in parte consolata dal pensiero che semmai quel bulletto da quattro soldi - ovviamente in senso metaforico - fosse mai arrivato ad ereditare titolo e ufficio del padre, l’azienda sarebbe fallita nel giro di una settimana.

* * *

La fermata dell'autobus era stranamente vuota, quella sera. C'eravamo solo io e la mia ennesima delusione. Non avevo minimamente voglia di tornare a casa e dire ai miei speranzosi genitori che no, la loro unica e sfigata erede non ce l'aveva fatta neanche stavolta. Immaginai che probabilmente dovevano aver passato la giornata ad invocare santi e sacrificare agnelli agli dèi di varie religioni (tanto per andare sul sicuro) pur di vedermi tornare a casa sorridente e sentirsi comunicare che, sì, ce l'avevo fatta, avevo un lavoro da perfetta appartenente alla casta medio-borghese, dietro ad una scrivania e davanti ad un computer. Proprio quello che avevano sempre sognato per me.
Invece ero di nuovo senza lavoro, senza prospettive e senza neanche un fazzolettino di carta per soffiarmi il naso. Avevo solo voglia di stare sola.
Siccome però il destino nutriva qualche forma di risentimento karmico verso la sottoscritta - in una vita precedente dovevo essere stata Jack lo Squartatore o qualcosa di molto simile, perché mi rifiutavo di credere che quella sequenza infinita di sfighe fosse semplicemente frutto della casualità - , in quello stesso momento il mio cellulare iniziò a suonare.
Ora, vi prego di immaginare una scena deprimente come quella di una ventiduenne appena licenziata che frigna mentre aspetta da sola l'autobus, interrotta improvvisamente dalla canzone del Pulcino Pio. Mi maledissi per aver incautamente lasciato mio cugino undicenne solo col mio telefono per un intero minuto, il giorno prima.
Dopo essermi appuntata mentalmente di cambiare la suoneria il prima possibile e con qualcosa di più vicino al mio stato d’animo – magari qualcosa di Adele - , guardai il display: Elena. Alias, la mia migliore amica. Alias, colei che alla nascita fu benedetta dal preziosissimo dono della pazienza infinita nei miei confronti. Alias, futura santa.
Sospirai e mi preparai a deludere anche le sue aspettative.
-Ele, scusa ma…-
-ZOEEEEEEEEEE!!!- m’interruppe lei, gridando abbastanza forte da privarmi temporaneamente dell’uso di un timpano.
Ora, urge una breve spiegazione. Gli unici casi in cui la mia esuberante amica grida il mio nome in questo modo, è quando ha qualcosa di veramente, veramente importante da dirmi. L’ultima volta in cui aveva ritenuto opportuno usarlo era stato quando mi aveva chiamata per comunicarmi che Matteo, il suo attuale ragazzo, le aveva chiesto di mettersi con lui. È una storia parecchio esilarante, che include un appuntamento al luna park, un letale mix “pranzo abbondante + montagne russe”, l’infermeria del parco e Matteo che si dichiara tra un conato di vomito e l'altro. Magari un giorno ve la racconterò.
Chiedo venia, sto divagando di nuovo.
-Porca vacca, Ele! Non urlare così!- la rimproverai.
-Ma…è successo che…io…tu..noi…- ansimò
-Grazie, Elena, i pronomi personali li conosco anch’io. Ora calmati e…-
-Tu NON capisci!- mi aggredì, interrompendomi di nuovo.
-E come faccio a capirti se parli come se stessi avendo un attacco epilettico?!- mi giustificai, chiedendomi nel frattempo quale potesse  essere la causa di tutta quell’agitazione.
-Scusami…è solo che…-. Seguì una lunga pausa fatta di suoni temporeggianti dalle più varie tonalità. -No, non posso dirtelo. Non così…non per telefono. Vieni da me. ORA!- mi ordinò, urlando l’ultima parola e mettendo K.O. anche il mio timpano superstite, dopodiché riagganciò.
Mi lasciò così, confusa, con gli occhi ancora acquosi, il naso sul punto di colare e con un centinaio di piccoli punti interrogativi che mi fluttuavano sopra la testa.

* * *

È inutile dire che il viaggio di ritorno – il mio ultimo viaggio di ritorno, sigh! – fu dedicato esclusivamente a tentare di formulare ipotesi che giustificassero lo strano comportamento di Elena e su cosa mi aspettasse una volta arrivata a casa sua.
In condizioni normali, la mia immaginazione si sarebbe scatenata e mi avrebbe messo davanti a scenari improbabili -  avete presente JD, il protagonista del serial Scrubs? Ecco, le mie fantasie sono molto simili alle sue - ma purtroppo il mio lato fantasioso, così come tutti gli altri lati che componevano la figura della mia personalità (escluso quello depresso e pessimista) erano rimasti nell’ufficio di Mastro Lindo Quattrocchi, congelati nell’istante in cui mi aveva stretto la mano e ringraziata per l’efficiente lavoro svolto, un attimo prima di licenziarmi.
Non mi rimaneva quindi che aspettare.
Ho sempre odiato le attese. Più delle interrogazioni di matematica. Più di Cristiano. Più del dentista quella volta in cui mi fece un’otturazione senza anestesia perché “tanto era una cosa veloce”.
Scesi due fermate prima del solito. Da lì, la casa di Elena distava duecento metri che mi sarei dovuta fare a piedi. Neanche a dirlo, il cielo che per tutta la giornata era stato solamente coperto, scelse proprio il momento in cui scesi per dare il via al diluvio universale parte seconda.
Entrare a casa di Elena fu la parte più bella della giornata. La stufa all'ingresso aveva riscaldato l'ambiente alla temperatura ottimale per appendere il mio cappotto ad asciugare (dopo averlo opportunamente strizzato).
-Ehi! sono io!- mi annunciai, per nulla sorpresa del fatto di non trovare nessuno ad accogliermi. Ormai erano anni che Elena ed io frequentavamo le reciproche case come se fossero il nostro secondo domicilio. I nostri genitori se n'erano fatti una ragione.
Mi diressi in cucina per prendermi un bicchiere d'acqua, ma non appena entrai, vidi qualcosa che decisamente non avrei dovuto vedere: qualcuno aveva lasciato una confezione di cioccolato al latte sola soletta nel bel mezzo del tavolo.
E lì, parte il dibattito interiore:
Meglio ignorarla.
Sono reduce da una giornata orribile. Dai, solo un pezzettino, tanto per sentire che gusto ha.
Sì, certo, probabilmente Hannibal Lecter ha avuto lo stesso pensiero all'inizio della sua carriera. E poi sai benissimo che gusto ha, non inventiamo scuse. Vuoi tornare ad essere Zoe-la-cicciona? Zoe-il-dirigibile? Zoe-ciambella? Ti ricordi quando ti chiamavano così?
Sì, me lo ricordo.
Allora lascia perdere quella cosa, ha un sapore dolce ma porta a ricordi decisamente amari. Non ne vale la pena.
Però conosco il modo per evitare i sensi di colpa...

-Zoe...-
La voce di Elena alle mie spalle, interruppe la mia crisi di coscienza e mi fece sobbalzare come se mi avesse sorpresa ad ingozzarmi con quella maledetta cioccolata tentatrice che se ne stava ancora sopra la tavola a gridare "maaaangiamiiii!" con la voce da fantasma.
-Ciao Ele, scusa, volevo solo prendere...qualcosa da bere- improvvisai.
Per un istante mi parve di vedere l'antenna rileva-balle attivarsi sopra la testa della mia amica, che però decise di fingere di non essersi accorta di niente.
-Beh, serviti pure. Abbiamo acqua naturale e succo all'ACE. Altrimenti posso preparare del tè...-.
Mentre parlava, mi superò e si diresse verso il lavabo. Mentre passava accanto al tavolo, recuperò la tavoletta di cioccolata e la infilò nel frigorifero come niente fosse.
Nonostante ci conoscessimo ormai da un bel pezzo e tra noi non ci fossero mai stati segreti, non riuscii a non provare un senso di vergogna al pensiero che mi avesse colta proprio nel momento in cui stavo per cadere nuovamente in tentazione.
-Il succo va benissimo, grazie, ma prima vorrei che mi spiegassi che cos'avevi da urlare poco fa al telefono-.
Elena posò i bicchieri che aveva appena tirato fuori e si voltò verso di me con lo sguardo che brillava scintillava splendeva abbagliava.
-Ti spiegherò. Ma prima dimmi, com'è andata al lavoro? Ti hanno rinnovato il contratto?- chiese, con uno strano mezzo sorriso stampato in volto, molto simile ad un ghigno.
La cosa cominciava a farsi inquietante. Cercare di preservare quell'alone di mistero così a lungo non era da lei.
"Lei" era la stessa ragazza che qualche tempo addietro mi aveva telefonato alle tre e mezzo di notte di un giorno feriale solo per raccontarmi il finale della prima stagione di Arrow (che aveva guardato in streaming nel giro di un paio di giorni e che io non avevo ancora concluso).
"Lei" è la ragione per cui ora spengo sempre il cellulare prima di andare a dormire.
-Non so perchè ma immagino che tu lo sappia già- sospirai.
-Beh, era logico. Se ti avessero assunta mi avresti telefonato subito, o almeno mandato un messaggio per famelo sapere- disse, mentre versava succo. poi però il suo tono cambiò radicalmente e passò dalla modalità "comprensiva" a quella "euforica" senza nessuna ragione apparente. -Non avrei potuto sperare in una situazione migliore! Questo rende il tutto assolutamente perfetto!-
Sì, in un universo parallelo, forse.
-Spero che i miei vedano il mio ritrovato status di disoccupata con altrettanto ottimismo-commentai, prendendo il bicchiere che Elena mi stava porgendo.
-E...se ti dicessi che ti ho già trovato un altro lavoro?- chiese, con un sorriso furbo.
La squadrai con diffidenza. -In tal caso mi chiederei se mi sono persa qualche passaggio, dal momento che l'ultima volta che ho controllato eri ancora una studentessa di quinta superiore e non un'impiegata dell'ufficio di collocamento-
-Invece io ho un lavoro per te e non è affatto uno scherzo- asserì lei.
-Ti prego, piantala di fare la misteriosa. Cominci a innervosirmi. Parla chiaro- dissi, con la pazienza al limite.
-Okay. Però si tratta solo di uno stage...- mi avvertì
-Come se fosse una novità...-
-...di due mesi...-
-Alcuni miei lavori sono durati meno. Molto meno-.
-...Per il tour dei Thirty Seconds to Mars-.



*NdA: Hola! Grazie per aver speso un po' di tempo per leggere il primo capitolo della mia ff, Spero abbiate gradito! Questa è la mia prima storia e non sono il tipo che si mette a fare propaganda, per cui se vi va, lasciate un commento, altrimenti ci si vede al prossimo capitolo (spero)!*
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Chubby Bunny ***


A questo punto direi che necessitiamo di un piccolo flashback.

Gli avvenimenti che sto per descrivere risalgono ad un’epoca nota ai più come anno 2010 Dopo Cristo.

E' una bella giornata di fine giugno, il cielo è terso, il sole splende e il tasso di umidità si aggira attorno al trecento percento. Una Elena appena quindicenne siede all'ombra di un albero per cercare un po' di sollievo da quel clima torrido, mentre tra sé pensa che se il tempo continuerà su quella linea, per respirare avrà bisogno delle branchie.

In quel momento, Elena sente qualcun'altro prendere posto poco distante da lei. Alza appena lo sguardo e la riconosce subito: Zoe, la nuova educatrice. Ha qualche anno in più rispetto alla media del resto dello staff dei centri estivi ed è piuttosto introversa, timida, per non parlare del fatto che anche un tombino è più loquace di lei. Elena l'ha vista per la prima volta alla riunione per gli educatori di qualche mese prima ma da allora le loro uniche conversazioni si sono limitate ad un reciproco scambio di saluti distratti. Per quanto ne sa, la stessa cosa vale anche per gli altri loro colleghi. In compenso però, ha notato che quando è in mezzo ai bambini cambia completamente personalità. Ride, scherza e gioca con loro. E' questo che in breve tempo l'ha resa una delle educatrici più popolari tra i piccoli.

Elena si sta chiedendo quale potrebbe essere il motivo per cui quella ragazza un po' in sovrappeso si comporti in modo così chiuso verso di lei e gli altri dello staff quando, per caso, i suoi occhi non cadono sulla borsa Eastpack di colore bordeaux che Zoe tiene accanto a sé. Anzi, più precisamente su alcuni disegni che la decorano.

Elena conosce bene quei disegni. Sono glyphics.

E quel piccolo portachiavi di metallo che penzola dalla tracolla della borsa rappresenta una triad. Elena osserva meglio la borsa e nota anche una scritta nella parte inferiore, leggermente occultata dall'erba, che però riesce ugualmente a leggere: PROVEHITO IN ALTUM.

Tutto ciò può voler dire solo una cosa.

-Sei un'echelon?- chiede sorpresa.

Zoe si volta perplessa. Di solito nessuno le rivolge la parola, se non per chiederle qualche genere di aiuto con i bambini o con le attività.

-Come scusa?-

-Sei un'echelon? Ti piacciono i Thirty Seconds to Mars?- ripete Elena, entusiasta. E' la prima volta che incontra qualcun'altro con i suoi stessi gusti in fatto di musica. Il più delle volte, quando nomina i Mars, la reazione delle persone consiste in un'espressione interrogativa.

C'è una leggera nota di diffidenza nello sguardo di Zoe, ma alla fine annuisce e accenna addirittura un sorriso, anche se un po' incerto.

-Piacciono anche a me, sai? No, okay, non è che mi piacciono, li adoro- spiega Elena, avvicinandosi alla strana ragazza cicciottella che ora le sembra un po' meno strana.

-Siamo in due allora- dice lei. -Cominciavo a pensare di essere l'unica a conoscerli, da queste parti. Le ragazze che cononsco sono fissate con la musica commerciale o al massimo con i Tokio Hotel-.

Nell’epoca di cui vi sto narrando, la musica di Justin Bieber e One Direction era ancora qualcosa di sconosciuto ai più. Bei tempi, quelli. Bei tempi.

Elena sorride comprensiva e Zoe ricambia allo stesso modo. La diffidenza iniziale sembra già svanita.

Il resto, come si suol dire, è storia. Una strana storia a base di aneddoti per lo più comici che ci riporta all'anno in corso.

Stavo fissando la Elena diciottenne ormai da un paio di silenziosi minuti, quando mi accorsi che tenevo ancora in mano il bicchiere di succo che mi aveva versato poco prima. Ne presi qualche sorso e poi posai il bicchiere sul tavolo.

La mia amica teneva ancora lo sguardo fisso su di me mentre sfoggiava un sorrisone a ottantasei denti, in attesa della mia reazione o per lo meno di un mio commento.

-Ehm...ok, sì, va bene- risposi infine. -Però in questa tua fantasia potrei avere gli straordinari pagati e...diciamo, cinque chili in meno?-

Non ero decisamente in vena di prese in giro in quel momento e, per quanto Elena a volte (leggi: molto spesso) riuscisse ad essere inopportuna, non credevo che sarebbe potuta arrivare al punto di scherzare su un argomento per me spinoso come lo era il lavoro.

Elena però non solo non sembrava minimamente sorpresa dalle mie parole - le mie battute sarcastiche ormai non avevano più effetto su di lei da anni - ma, dopo il mio commento allargò ulteriormente il suo sorriso, che passò da ottantasei a centotrentadue denti, facendola assomigliare allo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie. Quindi, senza dire nulla, si alzò e uscì dalla cucina, per farvi ritorno qualche istante dopo, con il suo portatile in mano.

Lo accese e iniziò a digitare qualcosa sulla tastiera.

-Ricordi quel concorso di cui ti avevo parlato qualche tempo fa? Quello che i Mars avevano pubblicizzato sul loro sito e praticamente su tutti i social network esistenti? Il Mars Camp Project?-

-Vagamente...- risposi.

La verità era che il mio passato da echelon era stato accuratamente riposto in un recondito angolino della mia memoria qualche tempo dopo aver trovato il mio primo lavoro (in una bettola che qualcuno aveva il coraggio di chiamare "pizzeria", dove i clienti più assidui erano un'allegra famigliola di pantegane). Nello stesso modo, tutto ciò che rappresentava materialmente quel periodo della mia vita, era stato occultato in qualche cassetto della mia stanza, o in qualche scatola finita poi in soffitta.

-Beh, allora ti rinfresco la memoria: circa sei mesi fa i Mars hanno iniziato a pubblicizzare questo nuovo progetto aperto agli echelon. Gli interessati dovevano compilare un questionario, mandare un video di presentazione che non superasse i dieci minuti di durata e…-

-Video di presentazione?- la interruppi. –L’uomo riuscirà a coltivare patate su Marte, prima che io decida di mettermi davanti ad una telecamera a lodare me stessa e le mie qualità, sempre ammesso che riesca a trovarne qualcuna che non contempli l’essere campionessa cittadina di Chubby Bunny*-.

*Per chi non lo conoscesse, il suddetto gioco si basa sulla raffinata arte di ficcarsi più mashmellow possibili in bocca riuscendo comunque a pronunciare chiaramente le parole “Chubby Bunny” (ossia: coniglietto ciccione). La scoperta di questo divertente giochino per me era stata una vera rivoluzione, in quanto la mia capacità di parlare a bocca piena si era finalmente rivelata utile, alla faccia di mia madre e della sua fissazione per le buone maniere.

Elena stese un altro sorriso inquietante, sempre rimanendo in linea con quell’aura di mistero che cercava di preservare ad ogni costo, per la gioia della mia pazienza già gravemente compromessa.

-Cara Zoe. Dolce, piccola, tenera Zoe- disse, con voce talmente zuccherosa da farmi rischiare il coma diabetico. –Non devi preoccuparti di niente. Ho già pensato a tutto io-.

La dolce, piccola, tenera Zoe, dall’alto del suo metro e settantatre centimetri, lanciò uno sguardo omicida alla ragazza che, in punta di piedi, arrivava sì e no all’altezza del suo naso.

-Ti avverto, questa è l’ultima volta che te lo chiedo gentilmente. Parla chiaro- le intimai.

Lei, per nulla intimidita, finalmente mi accontentò.

-Non mi sembra ci sia molto da capire. Ho già pensato a tutto io- ribadì, scandendo bene ogni parola, come se stesse parlando ad una minorata mentale. -Ho seguito le istruzioni alla lettera-.

Il mio cervello ci mise i consueti due secondi di troppo a fare due più due, ma alla fine mi mise di fronte alla sola, unica, sconcertante, terribile verità che si celava dietro quelle parole.

-MI HAI FILMATA DI NASCOSTO?!?- esclamai.

Elena roteò gli occhi e sbuffò. Mi conosceva troppo bene per non aspettarsi una reazione del genere.

-Sappiamo entrambe che, in presenza di telecamere, sei a tuo agio quanto un pezzo di sushi in una vasca di squali a digiuno. Serviva spontaneità, dovevo carpire la tua vera essenza- spiegò, portandosi una mano al petto in un gesto che mirava ad essere melodrammatico.

Da parte mia, mentre da un lato mi chiedevo da quando la ragazza che avevo davanti usasse termini forbiti come “carpire”, l’altro lato, quello paranoico – la cui estensione equivale più o meno a quella del Texas – cominciò a trasmettere in prima visione film mentali in cui Elena mi riprendeva mentre cantavo (leggi: stonavo) sotto la doccia, o mentre inauguravo la stagione primaverile con la prima ceretta post-inverno, o mentre mi scatenavo nella Bottom Dance, un ballo scemo da noi inventato e così ribattezzato perché…

…okay, penso abbiate capito.

-Sei morta. Questo lo sai, vero?- dissi con calma, mentre cercavo di tenere a bada la vocina nella mia testa che mi suggeriva di afferrare le due estremità della kefiah coi teschi disegnati che portava al collo e tirare fin quando il colorito della sua faccia non fosse passato da rosa a blu cobalto.

-Tieni a bada gli istinti omicidi, non serviranno. Ho inviato tutto oltre due mesi fa- disse con nonchalance.

Sbarrai gli occhi.

No.

Non era possibile.

Non poteva essere.

Beh, se non altro il pericolo che esistessero prove video del momento “ceretta primaverile” era scongiurato.

Ma comunque…

-TU HAI FATTO COSA?!?- urlai. -Ma si può sapere come ti è saltato in testa di prendere questa iniziativa così, senza dirmi niente? Ma cos’hai nel cervello? Neuroni che scioperano per mancanza di lavoro???-.

Ad interrompere il mio assolo di urla e insulti, ci pensò Francesca, la madre di Elena, probabilmente dopo aver intuito l’omicidio volontario che stava per consumarsi nella sua cucina.

-Ragaaaaazzeee, abbassate la voce! Riccardo sta studiando!- trillò dal corridoio.

A voler essere cattivi, avrei potuto ribattere che sarebbe stato più facile veder volare i maiali, gli asini e tutti gli animali della fattoria, che vedere Riccardo – fratello minore di Elena – studiare. Francesca però mi era simpatica, con me era sempre stata gentile e ospitale a prescindere dall’ora in cui mi vedeva comparire magicamente in casa sua e, soprattutto, ero in debito con lei di circa centoquaranta pranzi, duecentosettanta cene e tremilaottocento merende pomeridiane.

Elena decise di approfittare di quel breve attimo di silenzio da parte mia per pronunciare finalmente le parole magiche. Quelle che sbrogliarono definitivamente la matassa di mistero nella quale mi aveva incastrata.

-Non direi, visto che ti hanno presa-.


 

* * *


 

Okay, vediamo di mettere le cose in ordine. Ce la posso fare.

È il quindicesimo tentativo, ma sento che questa è la volta buona.

-Zoeeeeee! Il minestrone si raffreddaaaaa!- gridò mia madre dal fondo delle scale.

Era la quarta volta che mi chiamava per la cena e, per la quarta volta, ricevette la stessa risposta.

-Arrivo! Un momento!-

Seduta a gambe incrociate sopra il mio letto, fissavo il muro.

Era piuttosto bianco.

Fino ad un paio di anni prima, proprio in quel punto, il poster dei Mars più grande che avevo faceva bella mostra di sé.

Amavo la gigantografia di quella foto. Gli occhi di ghiaccio di Jared risaltavano meravigliosamente lì, in primo piano.

Dio solo sa quanti film mentali mi abbia ispirato quell’immagine.

E che livelli di perversione siano riusciti a raggiungere.

Fidatevi, meglio che lo sappia solo Lui.

No, basta distrarsi, ricapitoliamo:

1 -Elena mi ha filmata senza dirmi niente, ha montato un video incentrato tutto su di me e l’ha mandato ad un casting per un reality show indetto dai 30 Seconds to Mars.

2 -Ha ricevuto una risposta un paio di settimane fa da parte di uno dei produttori, il quale le ha comunicato che la mia candidatura aveva superato varie fasi di selezione ed era tra le finaliste (è ancora ignota l’identità del santo artefice di tale miracolo).

3- Elena e il suddetto produttore si sono fatti una chiacchierata su di me via Skype, il cui contenuto era stato bollato come “segreto di stato” nonostante le mie insistenze e nonostante le volute di fumo che mi uscivano dalle orecchie a causa del nervoso crescente.

4- Oggi Elena ha ricevuto una mail che dichiarava che sono una dei sei ragazzi selezionati.

5- Mi ha mostrato tutta la corrispondenza (escluso il video che ha dato il via a tutta quest’assurda storia) per dimostrare che non mi stava prendendo in giro e mi ha inoltre stampato una mail indirizzata direttamente a me, che mi chiede di dare la conferma della mia partecipazione quanto prima.

6- Non ho più proferito parola.

7- Ho preso il foglio e me ne sono andata dimenticandomi anche di salutare.

8- Sono tornata a casa.

9- Mia madre mi ha tartassata di domande non appena sono entrata nel suo campo visivo, ma ha smesso quando si è accorta delle spirali vorticanti che avevo al posto degli occhi (in stile anime giapponese, per intenderci).

10- Mi sono seduta sul letto e ho cominciato a fissare il muro.

11- Ho fatto una lista delle cose che ho fatto nelle ultime due ore.

12- Mia madre è entrata ha fatto irruzione in stile “retata dell’FBI” nella mia camera e mi ha guardato sparando saette dagli occhi, interrompendo la mia lista mentale.


 

-Guarda che ho capito, sai?- esordì.

Ne dubitavo fortemente, ma decisi di astenermi da risposte che potevano peggiorare la situazione (nonché l’umore della mia genitrice).

-Il fatto che non ti abbiano assunta non è una buona scusa per saltare la cena. Ti ricordo che mercoledì hai la visita dal dietologo-.

Oh, già, dimenticavo. L’unica preoccupazione nei miei confronti che per mia madre superava anche quella del lavoro, era il mio regime alimentare.

-Se vengo a sapere che hai perso anche solo un grammo, sappi che la prima cosa che farò sarà chiamare il dottor Gironi-.

No, grazie. Passo.

-Non preoccuparti ma’, sono solo stanca e avevo voglia di stare un po’ da sola. Adesso scendo-

Condii il tutto con il mio tono più convinto ed il mio sguardo più sicuro. Dopo qualche secondo di sguardo diffidente e non del tutto convinto, l'unità genitoriale femminile uscì, lasciandomi di nuovo sola con le mie paranoie. Ripassai in fretta la lista appena stilata nella mia testa.

Fare liste mi ha sempre rilassato, mi da un senso di ordine e di tranquillità.

Il fatto che stessi cercando ordine tranquillità in una camera da letto in cui sembrava appena aver avuto luogo un concerto heavy metal è, ovviamente, un dettaglio irrilevante.

Tutto ciò sembrava semplicemente incredibile. Impensabile. Inconcepibile. Assurdo.

Nella mia borsa però, accuratamente piegata in quattro parti, c’era la prova cartacea che non era niente di tutto ciò.

“…le chiediamo pertanto di darci la conferma della sua partecipazione entro una settimana a partire da oggi”.

Le parole conclusive della lettera.

Una settimana. Avevo sette giorni per decidere se…

In radio c’è un pulcino. In radio c’è un pulcino. È il pulcino pio, il pulcino pio…”

Non avrei mai creduto che avrei dovuto essere grata a quella canzoncina scema, invece in quel momento fui costretta a rendergli grazie se non altro perché mi diede la possibilità di distrarmi.

Guardai il numero, sperando non fosse di nuovo Elena. Solo nel tragitto che separava casa sua da casa mia (neanche tre chilometri) mi erano arrivati circa venti suoi messaggi via Whatsapp, tutti contenenti il medesimo testo scritto in salse diverse, in cui mi chiedeva il motivo per cui me ne ero andata in quel modo e, soprattutto, la ragione per cui non stavo cogliendo al volo l’opportunità da sogno che mi si presentava.

Io, ancora un po’ arrabbiata per la storia del filmato segreto che si era rifiutata di mostrarmi (alimentando così i miei sospetti che in quel video ci fosse qualcosa di seriamente compromettente), mi stavo vendicando attraverso una delle più crudeli torture ideate nel ventunesimo secolo: il visualizzato senza risposta.

Il display del mio cellulare però contraddisse le mie aspettative. Il numero della chiamata in entrata non era il suo.

-Pronto?-

-Zoe! Scusa se ti chiamo solo adesso ma ho appena avuto la notizia. Dio, mi dispiace, non sai quanto. Giuro, non avevo idea che ti avrebbero scaricata così, su due piedi, altrimenti ti avrei avvertito! Perdonamisequandosonopartitanontihosalutatocomesidevemaeroconvintachecisaremorivistealmioritornoeinveceadessomiritrovoconisensidicolpaper…-

-Cecy, la pausa per respirare- la interruppi, sorridendo tra me al ricordo di come le sue guance diventassero rapidamente color pomodoro maturo, quando parlava così in fretta.

La ragazza all’altro capo del telefono si concesse un respiro profondo, quindi riprese a parlare normalmente.

-Lo so, hai ragione, ma in casi come questi non puoi pretendere che io sia lucida al cento percento!- si giustificò lei.

Se non altro, qualcuno avrebbe sentito la mia mancanza, al lavoro.

Cecilia Chiaretti, meglio nota con il diminutivo di Cecy, era la centralinista dell’azienda di cui ero stata dipendente fino a tre ore prima. Lei e Marco Rosati, quarto ed ultimo stagista (nonché il primo tra noi ad uscire sconfitto dalla nostra gara al posto fisso, circa due settimane prima) erano state le uniche persone che avevano reso gli ultimi sei mesi vagamente sopportabili. Ad unirci erano stati la passione per il telefilm “Supernatural” e quella per gli insulti verso Cristiano “io-posso-perché-ho-i-soldini-del-papi” Mennoni.

-So che sarà difficile andare avanti senza di me, ma sono certa che ce la farai. Ricorda: io credo in te- la incoraggiai, con un tono ironicamente drammatico.

-Mi avete lasciata sola con quell’ameba di Nicola e quel deficiente di Cristiano! Hai idea degli sforzi che faccio per non vomitare quando la mattina viene a rompermi le palle con i suoi assurdi tentativi di rimorchio?- chiese, esasperata.

Non riuscii a reprimere una risata, pensando ad alcuni degli aneddoti che era solita raccontare a me e a Marco quando pranzavamo insieme.

Una cosa importante da sapere su Cecilia è che Madre Natura con lei è stata parecchio generosa, in fatto di bellezza: ha lunghi capelli castani che sembrano usciti da uno spot della Pantene, grandi occhi verdi, pelle di porcellana, curve al posto giusto, sorriso da Julia Roberts. Il genere di bellezza che, dopo un solo sguardo, fa calare l'autostima delle donne del 700% e fa aumentare negli uomini la stessa percentuale il torcicollo. E anche di qualcos'altro che non vi dico ma che immagino abbiate capito da soli.

Dato che la sua postazione di lavoro si trova all'ingresso, è piuttosto difficile non notarla. Per Cristiano però non lo sarebbe stato comunque: potrebbe tranquillamente inciampare in un masso di tre metri di larghezza per cinque di altezza, con tanto di insegna a led per segnalare la sua presenza, ma è in grado di fiutare la presenza di una ragazza "scopabile" (per dirla a modo suo) in un raggio di oltre dieci chilometri.

Dal giorno in cui aveva messo piede in azienda ed aveva incrociato lo sguardo da cerbiatta di Cecy, il suo obbiettivo primario non era più stato quello di conquistare il posto di apprendista - sempre che lo fosse mai stato - ma quello di portarsi a letto la ragazza del centralino, una missione che avevano intrapreso già molti dipendenti prima di lui ma che nessuno era riuscito a portare a termine. Questo perchè Cecilia era felicemente fidanzata con Davide, studente alla facoltà di Ingegneria nonchè sosia di Ian Somerhalder, da quando entrambi avevano appena quindici anni.

-Cecy, tu possiedi un dono prezioso: il potere di umiliare quello stronzo. Mi raccomando, usalo con saggezza. Io e Marco contiamo su di te- dissi, in tono solenne.

Dall'altro capo del telefono, sentii Cecilia ridere di gusto.

-Hai ragione. Prometto che non vi deluderò- affermò, cercando di rimanere seria mentre lo diceva, ma fallendo miseramente. Dopo qualche istante di silenzio, riprese la parola con una domanda che mai come in quel momento poteva essere inopportuna. -Allora, cos'hai intenzione di fare adesso? Dopo esserti concessa un periodo di ferie, ovviamente. Quel posto assomiglia sempre di più a un manicomio. Avrei sicuramente ucciso qualcuno entro breve, se Davide non avesse organizzato questo viaggio a sorpresa-.

Solo in quel momento ricordai che, data l’ora, Cecy probabilmente si trovava all’aeroporto in attesa del volo che, assieme alla sua dolce metà, l’avrebbe portata a Malaga. Un regalo di Davide per il loro decimo anniversario.

-Spagna, eh? Mi raccomando, assaggia la paella e poi dimmi se noti qualche differenza con quella che mangiavamo a mensa - suggerii, ricordando quel riso giallo e appiccicoso misto a pesce la cui specie di appartenenza era rimasta un mistero – e, a giudicare dal sapore, era anche abbastanza vecchio da essere classificato come “mummificato” - che avevamo commesso l’errore di scegliere una volta dal menu.

-Zoe, non cercare di cambiare discorso. Ti ho fatto una domanda- mi riprese lei.

Lo sapevo: Cecy era troppo sveglia per lasciarsi fregare da un tentativo di depistaggio così palese. Temporeggiai, alla spasmodica ricerca dell’ispirazione giusta per una risposta diplomatica che mi permettesse di aggirare l’argomento, ma anche che desse a Cecilia l’illusione di una risposta abbastanza esauriente.

Lei però non mi concesse abbastanza tempo.

-Okay, no, non ce la faccio. Non posso continuare a fare la finta tonta. So che dovevo tenere il segreto, ma tanto so che non sputeresti il rospo nemmeno sotto tortura, quindi tanto vale mettere le carte in tavola-.

Il centinaio di piccoli punti interrogativi ripresero a fluttuare sopra la mia testa, esattamente come dopo la chiamata che avevo ricevuto da Elena alla fermata dell’autobus.

Prima però che avessi il tempo di chiederle spiegazioni, lei vuotò il sacco.

-Elena mi ha chiamato e mi ha detto che non vuoi partecipare-.

A seguito di quella frase, da ogni punto interrogativo sospeso sopra la mia zazzera color carminio, nacque una domanda diversa.

Come fai a conoscere Elena?

Come fai a sapere quello che è successo?

Ci sei dentro anche tu?

Tutta quest’assurda faccenda è forse un complotto per liberarvi di me?

No, ditelo.

-Come fai a…-

-Non importa come lo so, tu devi andare, Zoe!- mi interruppe lei.

-Cecy, non ho idea di come tu sappia di questa storia ma ti posso assicurare che non è così semplice- dissi, con il mio tono più serio.

-Sì che lo è- ribatté. -Sei tu che rendi tutto più complicato. Ti si sta presentando un’occasione per cui decine di migliaia di persone avrebbero dato qualunque cosa e tutto quello che sai fare è trovare scuse banali come “non è semplice come sembra”? Ma per favore. E, ti prego, risparmiami la parte in cui protesti dicendo che non è mai stata tua intenzione essere una di loro. Sappiamo entrambe che sarebbe una balla grande quanto l'Everest-.

-Wow, quanta saggezza! Te l’ha mai detto nessuno che potresti fare la guida motivazionale?- replicai acida.

-Meno sarcasmo e più risposte chiare, Zo’-.

Seguì qualche istante di silenzio in cui non avevo la minima idea di cosa dire.

La mia mente era ancora in fase di elaborazione di quella shockante notizia... perché non lo capiva nessuno? Perché tutti pretendevano risposte chiare e immediate? Ma avevano presente con chi stavano parlando? Io avevo bisogno dei miei tempi (biblici) solo per riflettere su cose come il gusto della pizza da ordinare, figuriamoci per prendere una decisione come quella!

Potevo sentire chiaramente il mio cervello emettere lo stesso rumore che produceva il computer ai tempi in cui internet si connetteva attraverso la linea del telefono.

Alla fine fu di nuovo Cecilia a prendere la parola per prima.

-Ricordi quando hai raccontato a me e a Marco del giorno in cui tu ed Elena siete andate al concerto dei 30 Seconds To Mars? Lo hai definito il giorno più felice della tua vita e, anche se non lo avessi precisato, lo avrei capito lo stesso, dall’entusiasmo con cui ne parlavi-.

Non dissi niente. Sia perché non trovavo le parole adatte, sia perché il mio cervello era ancora in fase di connessione.

-Quindi scusami se insisto, ma davvero rinunceresti a una possibilità del genere? Non hai più un lavoro a cui dover rinunciare, né un fidanzato a cui dover rendere conto di qualcosa…-.

-Grazie per la precisazione- commentai.

-Dai, Zoe, piantala di guardare solo la parte mezza vuota del bicchiere-.

-Ma riesci a capire cosa verso cosa mi state spingendo?- chiesi.

-Due mesi di vita da rockstar in giro per il mondo con i tuoi idoli? Capperi, non l’avevo ancora vista sotto questa luce. In effetti, sembra proprio una prospettiva orribile-.

Mi ripromisi di dare un taglio al sarcasmo perché stava cominciando a diventare seriamente contagioso.

Promessa disattesa circa 2,5 minuti più tardi.

-Non lo so, Cecy. Non so davvero che dire. Né che fare- dissi onestamente, sospirando e passandomi la mano libera tra i capelli.

-Zoe…non dovrei dirtelo. Avevo promesso di non parlartene ma, visto come si stanno mettendo le cose, forse è meglio che ti spieghi qualcosina in più: se deciderai di rinunciare, non deluderai solo Elena e me- confessò e, subito dopo, si affrettò ad anticipare la domanda più scontata che potessi fare, nonché quella che ero già sul punto di pronunciare. -Ti avverto: è inutile che tu ora mi chieda ulteriori spiegazioni perché ti ho già detto molto più di quello che avresti dovuto sapere-.

Dopo qualche altro istante di silenzio da parte mia, Cecilia sospirò rassegnata.

-Dimmi almeno che ci penserai. Puoi promettermi almeno questo?-

-Sì…credo di sì- risposi, con un filo di voce.

-D’accordo. Buona serata, Zoe-

-Grazie, Cecy. Fa’ buon viaggio e salutami Davide-

-Senz’altro. E tu, per favore, pensa bene a quello che ti ho detto- si raccomandò, un secondo prima di riagganciare.

Mi ritrovai così di nuovo sola, nella mia stanza, con il muro spoglio davanti, con un milione di domande in più, con una decisione che, se solo avessi dovuto prendere qualche anno prima, sarebbe stata la più facile del mondo e con il minestrone che, in cucina, si stava raffreddando.


 

*NdA: Hello everybody! Prima di tutto, come sempre, vi devo ringraziare perché continuate a sopportare il frutto dei viaggi nei meandri della mia mente contorta.

Secondo di tutto, volevo precisare il fatto che non ho dimenticato che questa è una fan fiction sui Mars e mi scuso se siete delusi dal fatto che non siano ancora entrati in gioco. Quanto ho scritto finora era indispensabile per poter comprendere al meglio la situazione, altrimenti questa storia sarebbe stata solo un gran casino, prometto però che la vostra fedeltà verrà ricompensata al prossimo capitolo.

Detto ciò, spero che il racconto vi stia piacendo e che continuiate a seguirlo.

A presto :)*

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Come (e in quali condizioni) sono arrivata qui ***


*NdA: Mi dispiace averci messo così tanto per pubblicare il nuovo capitolo, purtroppo ho avuto dei problemi con il computer (NUOVO, porca paletta!) che, a quanto pare, possiede il libero arbitrio ed ha quindi deciso di cancellare di sua spontanea volontà l'intero contenuto di diversi file, incluso quello in cui conservavo questa storia e, di conseguenza, questo capitolo, che avevo quasi ultimato. Dopo aver superato l'esaurimento nervoso che ne è conseguito ed aver versato qualche ettolitro di lacrime però, mi sono armata di pazienza e l'ho riscritto daccapo.
Tralasciando le mie sfighe, ho deciso di scrivere le note autrice all'inizio perchè volevo precisare un paio di cose prima che leggeste:
1- ho cercato di documentarmi al meglio su come si sviluppa un reality show e su cosa accada realmente nei backstage dei grandi concerti, ma alcune mie lacune non sono state del tutto colmate quindi, se vedete qualche imprecisione, abbiate pietà.
2- Ovviamente non conosco personalmente i Mars, per cui ho costruito i loro caratteri basandomi sulla loro immagine pubblica e sulla mia contorta fantasia (soprattutto sulla seconda).
3- I personaggi secondari sono stati quasi tutti partoriti dalla sopracitata contorta fantasia.
4- Questa ff è ispirata al periodo 2013/14 anche se non ha un precisa collocazione temporale, pertanto Jared e Shannon hanno ancora i capelli lunghi (lo dico per evitare eventuali lamentele dai più precisini).

Infine, ringrazio Elenaspine e 30STM96 per le gentili recensioni e chiunque altro abbia messo la mia storia tra le storie seguite, le ricordate o (incredibile ma vero) tra le preferite. Spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento :)*


COME (E IN QUALI CONDIZIONI) SONO ARRIVATA QUI


Erano lì.
Proprio davanti ai nostri occhi.
In carne, ossa e figaggine.
E con un'aura luminosa tutt'intorno mentre un coro angelico, da qualche parte nella mia testa, intonava una lode a sette voci.
Ero ufficialmente nella stessa stanza - e a meno di tre metri - dai 30 Seconds To Mars.

* * *

[Diverse ore prima]

20 Giugno, ore 5.40.
Il suono della mia vecchia e maledetta sveglia irruppe nel silenzio della mia camera dopo appena tre ore di sonno.
Sempre che rotolarsi nel letto ad occhi chiusi possa definirsi "sonno".
Stavo per allungare il braccio e spegnere l'aggeggio infernale, ma mia madre mi precedette. Sarei anche potuta essergliene grata se la sua mossa successiva non fosse stata quella di liberarmi brutalmente dalle coperte nelle quali mi ero avvolta a mo' di crisalide, un po' per il clima insolitamente fresco, un po' per la mia fobia del Mostro Carnivoro che, secondo le mie paure ancestrali, viveva sotto il mio letto in attesa del momento migliore per aggredirmi e saziarsi delle mie interiora.
-Maaammaaaa!- protestai, andando a tastoni per il letto, cercando di riappropriarmi delle coperte.
Per tutta risposta, mia madre spalancò i balconi della mia camera che, disgraziatamente, è situata ad est, aggiungendo così all'insonnia e all'ipotermia improvvisa, anche la cecità temporanea dovuta alla luce del sole.
-Non provarci nemmeno- mi minacciò, nello stesso momento in cui riuscii finalmente ad afferrare un lembo del lenzuolo. -Oggi i ritardi non sono contemplati. Se hai sonno dormirai in aereo-
Aereo.
Quella parola agì sulla mia mente come una specie di password che sbloccò la mia memoria a lungo termine, facendomi ricordare nel giro di pochi istanti quanto accaduto nell'ultimo mese e mezzo.
Rivolsi lo sguardo ai piedi del mio letto. Le mie valige erano sempre lì, ancora aperte e non ancora pronte. Avevo passato le ultime settimane a passare in rassegna il mio guardaroba e le mie (precarie) finanze allo scopo di arricchirlo, ma non ero esattamente soddisfatta del risultato.
Non ero mai stata una fashion victim e generalmente non mi preoccupavo molto di come mi vestivo  - eccezion fatta per le grandi occasioni - . Per come la vedevo io, la giusta maglietta ed il giusto paio di jeans rappresentavano un pass-par-tout per qualunque circostanza. Che mi piacesse o meno però, ormai avevo accettato di partecipare al Mars Camp Project e, di conseguenza, di avere uno o più obbiettivi puntati contro come un'arma per la maggior parte della giornata. Ovviamente, questo fatto collocava automaticamente la cosa nella categoria delle "grandi occasioni".
Già, obbiettivi. Gli oggetti che mi avrebbero privata di una delle cose a cui tenevo di più al mondo: la mia privacy.
A quel pensiero, istintivamente rivolsi lo sguardo ad un oggetto che si trovava sopra al mio comodino: quella che avevo ribattezzato "MarsCam".
Stando a quanto diceva la lettera con cui era arrivata all'incirca una settimana prima, avrei dovuto raccontare a quella piccola videocamera ogni dettaglio riguardante le nuove esperienze, i pensieri e le emozioni che di lì a poco avrebbero caratterizzato le mie giornate. Una specie di confessionale portatile, insomma.
Si trovava sul mio comodino per il semplice motivo che avevo provato ad ottimizzare le mie ore insonni della notte precedente cercando di capire come funzionasse.
L'ho già detto che m'intendo di tecnologia tanto quanto di fisica quantistica?
Era molto probabile che per errore ci avessi registrato un paio di minuti di primo piano delle mie narici, delle mie sopracciglia o del pavimento, mentre cercavo di carpire i segreti del misterioso congegno che avevo tra le mani, anche se, solo a guardarlo, mi trasmetteva un senso di inquietudine.
Perchè inquietudine? Beh, non so dire con esattezza quando abbia cominciato a sentirmi così, sta di fatto che, sin da quando ero piccola, trovarmi nei paraggi di qualunque apparecchio in grado di fotografare o videoregistrare mi aveva sempre fatta sentire tremendamente a disagio. E detestavo ancora di più riconoscermi in una foto o in un filmato.
Odiavo il modo in cui apparivo, mai abbastanza sorridente, troppo sciatta, con un fisico maledettamente diverso da quello che desideravo ed una perenne espressione da sogliola appena pescata - consiglio vivamente di andare a cercare su Google qualche immagine del suddetto pesce, tanto per farvi un'idea - . Ovviamente poi, odiavo riascoltare anche la mia voce, che registrata suonava sempre tremendamente nasale ed irritante.
No, non avevo proprio idea di come sarei riuscita a convivere con la MarsCam e con le decine di altre telecamere che per i successivi due mesi e mezzo mi avrebbero ronzato costantemente intorno. Il piano migliore che ero riuscita ad ideare consisteva nel pregare e sperare che, con il passare dei giorni, mi sarei semplicemente abituata a quella nuova condizione e che, di conseguenza, il mio disagio - così come la mia famigerata espressività da sogliola - si sarebbero attenuati fino a scomparire del tutto.
In poche parole, confidavo in un miracolo.
Ad ogni modo, avevo preso quella decisione oltre un mese prima, dopo aver valutato attentamente i pro e i contro almeno un milione di volte: ormai era tardi per tirarsi indietro e comunque non avevo certo intenzione di farlo dopo tutta la preparazione psicologica delle ultime settimane.
Era fatta: avrei preso parte alla prima edizione del Mars Camp Project.
Il fatto che le ragioni che mi avevano portato a quella scelta non fossero esattamente convenzionali, non cambiava nulla. Sarei partita, avrei vissuto un'avventura che in molti non avrebbero nemmeno mai osato sognare e mi sarei lasciata la mia incasinata vita in Italia alle spalle, anche se solo per un po'.
Ad oggi, ancora non ho capito cosa esattamente mi abbia spinto a formulare un pensiero così incredibilmente idiota. Forse la mia poca conoscenza nei confronti dell'ambiente dei reality show - e sarebbe strano, visto e considerato che ho trascorso la mia adolescenza di fronte ai programmi stermina-neuroni di Mtv. Forse il fatto che, in quel momento, anche una vacanza sulla Striscia di Gaza mi sarebbe sembrata più allettante che rimanere a crogiolarmi nelle sfighe che mi riservava la mia terra natia. Forse, molto più semplicemente, i miei genitori mi avevano nascosto l'esatto numero di cadute che avevo fatto dal seggiolone qund'ero ancora troppo piccola e scema per poterle contare o almeno ricordare.
Sta di fatto che, sì, ero in qualche modo convinta che partecipare a quel benedetto programma sarebbe stata una specie di rilassante vacanza. Non avevo ancora idea che quella su cui stavo per salire era una giostra dalla quale sarebbe stato molto difficile scendere.
E, soprattutto, l'esatto contrario dell'aggettivo "rilassante".

* * *

-Di sicuro hanno fatto un grande affare a sceglierti: sei un essere imbarazzante a tempo pieno, farai sicuramente alzare l'audience!-
Buongiorno signore e signori! Benvenuti a questa nuova edizione della Fiera del Tatto e della Delicatezza, come sempre presieduta da Miss Elena!
Mi voltai verso i sedili posteriori dell'auto e lanciai un'occhiata inceneritoria alla mia cosiddetta "amica".
-Se questo è il tuo modo di incoraggiarmi, sarebbe stato più serio e produttivo da parte tua rimanere a casa a studiare. Ti ricordo che gli esami incombono- le ricordai, sorridendo sadica.
Tirare in ballo gli imminenti esami di maturità, quella che al momento era la più grande preoccupazione di Elena, ottenne l'effetto desiderato e quest'ultima decise saggiamente di piantarla con le frecciatine. In compenso cominciò a stilare un elenco lungo quanto la Divina Commedia riguardante le milleduecento cose che avrei dovuto fare una volta che mi fossi trovata al cospetto di Jared, Shannon e Tomo.
-Dar loro un bacio da parte sua.
-Farsi fare un autografo con dedica.
-Farsi fare un video con dedica.
-Aggiornarla costantemente su qualunque dettaglio riguardante la loro vita, dal vestiario a quello che avevano mangiato a pranzo, passando per la marca di carta igenica che preferivano e altre cazzate del genere.
-Trovare un valido avvocato in grado di difendermi dalle probabili accuse di stalking che sarebbero conseguite al punto precedente.
-eccetera, eccetera...
Smisi di ascoltarla dopo qualche minuto, ossia dopo la sua richiesta di portarle a casa come souvenir una ciocca dei capelli shatushati di Jared Joseph "Jesus" Leto e trascorsi il resto del viaggio in auto a guardare fuori dal finestrino, a salutare tutti quei panorami familiari che non avrei più rivisto fino quasi all'autunno successivo.

* * *

Erano passati diversi anni dalla prima nonchè unica volta che ero stata all'aeroporto Marco Polo di Venezia. Curiosamente, l'unico ricordo nitido che avevo di quel giorno era ambientato proprio davanti al grande tabellone indicante gli orari delle partenze degli aerei che stavo scrupolosamente esaminando assieme a mia madre e ad Elena, alla ricerca del mio volo: Parigi, 9.45.
Avevo preso solo due volte un aereo, prima di quel giorno e la cosa non mi aveva mai reso particolarmente nervosa...almeno fino a quando l'iperprotettività e il pessimismo che da sempre caratterizzavano il lato materno di mia madre non avevano deciso di unire le forze, dando vita ad una sequenza infinita di paranoie a proposito di (im)probabili scenari catastrofici riguardanti il mio aereo, ognuno dei quali terminava ovviamente con uno schianto, un'esplosione e nessun superstite.
Ovviamente, la mia amorevole mammina si era premurata di descrivermeli tutti nei minimi dettagli, giusto per rendermi partecipe delle sue ansie.
-C'è scritto che puoi già recarti al check-in- annunciò Elena, indicandomi un punto sulla parte in alto a sinistra del tabellone. Seguendo il suo dito, finalmente trovai la scritta luminosa che stavo cercando, quella indicante il mio volo.
Nonostante fossero passati anni dall'ultima volta che avevo preso l'aereo, ricordavo ancora abbastanza bene quali fossero le procedure pre-imbarco. Quindi, prima di passare al check-in, affidai i miei bagagli e tutto il loro contenuto ad una biondina sui trent'anni con un sorriso talmente forzato da farmi sospettare una paralisi facciale. Dopo averle pesate ed etichettate, la bionda depose le mie valigie su di un nastro trasportatore e, nel giro di qualche secondo, le vidi allontanarsi dal mio campo visivo.
Considerate le precedenti esperienze di alcuni miei conoscenti, sperai ardentemente che non fosse l'ultima volta.
Prima di mettermi in coda per il check-in, tornai da mia madre e da Elena per l'ultimo saluto.
Quest'ultima non disse niente,  mi fissò per qualche istante con un mezzo sorriso e poi mi strinse a sè. Tutta la voglia di stuzzicarmi che aveva fino a poco prima sembrava improvvisamente scomparsa.
Niente frecciatine, nessun commento ironico sul fatto che non le sarei mancata per niente, nessuna considerazione sulla vita che, senza di me, sarebbe stata molto meno stressante, niente battute a sfondo sessuale sui Mars. Solo un abbraccio della serie "strizzapolmoni" che ricambiai, anche se non con altrettanta forza.
Poi fu il turno di mia madre, che replicò il gesto di Elena, con la sola differenza che il suo abbraccio (classificabile come "incrinacostole") durò più a lungo.
Molto più a lungo.
Abbastanza a lungo da compromettere le mie capacità respiratorie e farmi rischiare la cianosi.
Tuttavia non tentai nemmeno una volta di ribellarmi. Quegli abbracci erano stati un must della mia infanzia e, di conseguenza, sapevo bene che sarebbe stato più facile liberarsi dalla stretta di un anaconda affamato.
Quando finalmente mi lasciò andare per asciugarsi le lacrimucce che le erano comparse agli angoli degli occhi, mi illusi che gli "arrivederci" strazianti e strappalacrime fossero terminati e cercai di dirigermi il più in fretta possibile verso il...
-Tesoro!?-
Avevo gioito troppo presto.
-Cosa c'è, mamma?- risposi, approfittando del fatto che le stessi dando le spalle per alzare gli occhi al cielo. Purtroppo non ero riuscita ad allontanarmi abbastanza infretta da riuscire a fingere di non averla sentita.
-Te la sei ricordata la crema solare, vero?-
Tu che stai Lassù, ti prego, ascoltami. Sono Zoe. Sì, quella che da piccola usava l'acquasantiera per schizzare la gente che entrava in chiesa. Lo so che non abbiamo avuto un gran dialogo negli ultimi...ehm...otto anni e mezzo ma se puoi, ti supplico, risparmiami almeno questa umiliazione...
-E gli occhiali da riposo? Guarda che mi sembrava di averli visti sul tavolino del salotto. E la giacca? Hai messo un cambio di vestiti nel bagaglio a mano, vero? Hai scritto l'indirizzo di casa sull'etichetta delle valigie? E ricordati di chiamarci almeno una volta al giorno...-
Evidentemente il Grande Capo non aveva granchè voglia di sprecare misericordia con la miscredente che andava in chiesa solo a Natale e Pasqua.
Mia madre quindi continuò ad elencare tutti i luoghi comuni delle raccomandazioni genitoriali mentre io annuivo esasperata, sperando che tutto ciò cessasse al più presto.
-...e se ti perdi, mi raccomando, cerca un vigile o un...-
-...poliziotto- la interruppi. -Non raccogliere le siringhe da terra, non dare confidenza a nessuno, non accettare caramelle o soldi dagli sconosciuti a meno che non siano davvero, davvero tanti-.
Lo sguardo inceneritore della mia apprensiva mammina mi fece capire che non aveva apprezzato la battuta, al contrario di Elena, che però tentò di far passare la sua risata per un colpo di tosse.
-Eddai, mamma, ho ventidue anni! Non trattarmi come una marmocchia! Specialmente in pubblico...-
Per tutta risposta, mia madre sorrise e vidi i suoi occhi ricominciare ad inumidirsi.
-Lo so, pulce, ma non posso farci niente. Tu sei e sarai sempre la mia marmocchia-.

* * *

Straordinariamente, ero riuscita a non fare figure di merda al check-in e in quel momento mi trovavo seduta comoda ad aspettare la chiamata per il mio aereo. Non avrebbero però cominciato ad imbarcare i passeggeri prima delle nove e un quarto, quindi tanto valeva sfruttare quel tempo combinando qualcosa di utile, ergo: era ora di far fruttare il mio diploma di perito turistico e di entrare in modalità "anglofona".
Dunque, a noi due, MarsCam.
Estrassi la videocamera dal mio bagaglio a mano e mi puntai l'obbiettivo contro.
...
Okay, non avevo la minima idea di cosa dire.
Cioè, quali potevano essere le parole giuste per rompere il ghiaccio? Un "Buongiorno a tutti"? troppo formale.
 Un "Ehi, gente!"? Se volevo suicidarmi socialmente già dal primo giorno, tanto valeva indossare una maglietta con la scritta "SONO UN'EMERITA SFIGATA" a caratteri cubitali.
Chiusi gli occhi e sospirai.
-Dio, mi sto davvero facendo paranoie su come parlare ad una videocamera?- mi chiesi, a bassa voce.
Alla fine ricordai che qualunque registrazione sarebbe dovuta passare in sala montaggio prima di essere inserito nei vari episodi quindi, se anche qualcosa fosse andato storto, avrebbero sicuramente provveduto a compiere qualche miracolo tecnologico che nel programma mi avrebbe fatta apparire come una persona normale. Conclusione: tanto valeva parlare a ruota libera.
-Ciao, mi chiamo Zoe Caivano, ho ventidue anni, vivio in Italia e, a differenza dei miei futuri colleghi, questa è la prima volta che mi trovo davanti ad una videocamera di mia spontanea volontà-.
Così cominciò la mia prima video-confessione. Parlai di me, della mia vita, di come fossi finita lì e del giorno in cui ero venuta a sapere di tutta quella sottospecie di complotto per farmi partecipare di cui, in realtà, sapevo ancora troppo poco.
A nulla infatti erano serviti i miei innumerevoli tentativi di esorcere qualcosa a coloro che sapevano (Elena e Cecilia) e a chi sospettavo sapesse (mia madre).
Ero talmente presa dal mio sfogo da non fare minimamente caso alle persone che, sedute poco disanti da me, ogni tanto mi lanciavano occhiate della serie questa-è-fuori e da dimenticarmi addirittura della mia faccia da sogliola, che dall'obbiettivo veniva riflessa nel piccolo schermo aperto della MarsCam.
L'unica cosa che riuscì a distrarmi fu la chiamata per il mio volo.
Dopo una frettolosa conclusione, ficcai la MarsCam nella mia borsa e mi misi in coda per mostrare il biglietto e potermi imbarcare.
L'ora e quaranta minuti che trascorsi in aereo fu relativamente tranquilla. Ascoltai musica, sbranai la merendina ai cereali che mi offrì un gentile steward, ammirai lo spettacolo delle nuvolette che scorrevano pigre sotto di noi e la visione del mondo sottostante: monti, boschi sterminati, campagna, centri abitati, grandi città. un panorama che non avrebbe mai smesso di affascinarmi. Quel "relativamente" era dovuto al fatto che ogni minima turbolenza suscitava in me un pensieri ottimisti quali: Moriremo tutti! Moriremo tutti! Moriremo tutti!
I miei primi passi in suolo francese furono caratterizzati dalla mia solita nausea post-atterraggio. Dopo essermi letteralmente trascinata dall'aereo all'aeroporto, la prima cosa che feci fu cercare di identificare una sedia dove potermi riprendere o morire in pace, a seconda.
Fortunatamente prevalse la prima e, dopo una capatina alla toilette dove constatai con sollievo di non avere più quel gradevole colorito verde che di solito assumeva il mio viso in quelle circostanze, mi avviai all'uscita dove, secondo le istruzioni che avevo ricevuto qualche giorno prima via mail, un autista mi stava aspettando per accompagnarmi al quartier generale (ossia l'hotel).
Lo identificai come un elegante tizio sulla cinquantina che reggeva un cartello con su scritto "CAIVANO / ISAKSSON"
Isaksson? E chi cappero era? Non mi avevano detto nulla riguardante gli altri partecipanti al programma, se non che in tutto eravamo in sei.
-Ehm, Bonjour- salutai, rispolverando per la prima volta dopo la maturità i tre anni di francese che avevo tentato di reprimere assieme al ricordo di quella sadica strega della mia professoressa. -Je suis Zoe Caivano. Parlez-vous anglais?*-
Sperai ardentemente che la risposta fosse affermativa, considerato che con l'inglese mi trovavo molto più a mio agio e che, solo con quella frase, avevo già fatto sfoggio di circa un terzo dei vocaboli francesi che ricordavo.
-Bonjour, mademoiselle Caivano. Oui, je parlé anglais**- mi rassicurò l'uomo, sorridendo. -Io sono Jules, il suo autista. Mi dispiace chiederle di attendere ancora un po', ma l'aereo della signorina Isaksson è in leggero ritardo. Stando a quanto comunicatomi, sarebbe dovuto arrivare circa venti minuti prima del suo-.
E così stavo finalmente per conoscere un'altra partecipante. A giudicare dal cognome, ipotizzai che potesse essere norvegese, finlandese, svedese...insomma, che venisse dalle parti dei Vichinghi e di Babbo Natale.
Per ammazzare il tempo, io e Jules ci scambiammo qualche formale informazione sulle rispettive vite e luoghi d'origine. Scoprii così che aveva sempre vissuto a Parigi, era sposato con due figli, che faceva l'autista da quasi trent'anni e che durante la sua carriera aveva portato a spasso gentaglia del calibro di Sharon Stone, Johnny Depp e altre celebrità.
Allo stesso modo lui scoprì che ero disoccupata da un mese e mezzo, patogicamente single e che ad una gita a Venezia svoltasi durante la settimana del Festival del Cinema, avevo incontrato Daniel Radcliffe mentre usciva dal bagno di un bar***.
Proprio mentre ero immersa nel racconto di quest'ultimo aneddoto però, venni interrotta da qualcuno che, alle mie spalle, si schiarì la voce in modo ambiguo.
Quando mi voltai, mi ritrovai di fronte ad una statuaria ragazza bionda alta come minimo dieci centimetri più del mio metro e settantatre, con occhi chiari e pelle diafana da perfetta scandinava.
La mia autostima affondò inserorabilmente come il Titanic nel giro di un paio di secondi.
-Perdonate l'interruzione. Sono Rebeka Isaksson, penso mi steste aspettando- disse, con voce seria e formale, che rifletteva perfettamente la sua espressione. -Mi scuso per l'attesa. Purtroppo l'aereo era in ritardo-.
-Nessun problema- rispose Jules, tendendo e stringendo la mano a Rebeka. -Io sono Jules, il vostro autista. Vogliamo andare?-
Io e la valchiria affonda-autostima annuimmo e, una volta recuperati i bagagli e tirato un opportuno sospiro di sollievo per il fatto che non mancasse nulla all'appello, ci incamminammo verso l'uscita dell'aeroporto Charles de Gaulle.
-Comunque io sono Zoe, piacere di conoscerti- dissi, sorridendole il più amichevolmente possibile.
In risposta ottenni un sorrisino di cortesia autentico come una banconota da tre euro e della durata di circa un quarto di secondo, cosa che un po' mi infastidì. Decisi di sorvolare, del resto l'avevo appena conosciuta.
-Allora, ehm...di dove sei?- chiesi, tentando nuovamente di avviare una conversazione.
-Svezia- si limitò a rispondere lei in tono piatto, senza nemmeno guardarmi negli occhi.
Da "un po' infastidita" passai alla modalità "assai scocciata" e decisi di lasciar perdere i tentativi di stabilire i contatti col pianeta Sono-Gnocca-Sono-Bella-Sono-una-Fotomodella.
E io avei dovuto trascorrere l'intera estate con questa? Per la serie "chi ben comincia..."
Feci per la seconda volta appello al mio lato religioso nel giro di mezza giornata - che, ricordiamolo, era stato dissotterrato quella stessa mattina dopo quasi un decennio di letargo - per supplicare il Big Boss affinchè il resto della combriccola con cui avrei dovuto condividere quell'esperienza non fosse socievole come la ghiacciola che mi camminava accanto.
A risollevarmi il morale però, ci pensò Jules non appena ci indicò l'auto con cui ci avrebbe accompagnato all'hotel: una magnifica limousine nera.
E qui, per la prima volta, io e Rebeka ci trovammo d'accordo su qualcosa, ossia la reazione di fronte a quella magnifica - e lunghissima - automobile.
Ripensai istintivamente alla mia auto, una Fiat Panda grigia del '97 che avevo comprato usata un paio d'anni prima e che, visto i sacrifici che avevo dovuto fare per riuscire a permettermela, io avevo sempre considerato al pari di una Porsche.
Confronto che andò a quel paese esattamente un secondo dopo essermi trovata davanti quella meraviglia.
Rebeka e io eravamo così prese a far ricongiungere la nostra mandibola al resto del corpo da non accorgerci nemmeno del cameraman che si trovava accanto all'auto e che, al nostro arrivo, aveva acceso la propria telecamera giusto in tempo per riprendere le nostre espressioni da tonni boccheggianti.
Ok, devo piantarla con i paragoni ittici.
Fu la biondona ad individuarlo e a ricomporsi per prima, ovviamente premurandosi di non farmelo sapere affinchè la mia primissima figura di merda in territorio straniero fosse dettagliatamente registrata.
Dopo aver caricato le nostre valigie nel bagagliaio, Jules, da bravo autista professionista, aprì la portiera posteriore della limousine invitandoci ad entrare e noi, senza farcelo ripetere, ci fiondammo all'interno, seguite dal cameraman, un uomo poco più giovane di Jules che si identificò come Robert.
Gli interni dell'auto erano magnifici, con eleganti sedili di pelle beige, minibar ben fornito, una piccola tv e un pannello touch screen attraverso il quale era possibile accandere la musica, abbassare i finestrini o aprire il tettuccio.
Durante il viaggio, io e Rebeka continuammo a guardarci intorno incredule e a mettere le mani ovunque. Il detto "sentirsi come due bambine in un negozio di caramelle" non sarebbe potuto essere più appropriato. Persino miss Svezia aveva mandato quasi del tutto a quel paese il suo contegno e la sua aria di pseudo-superiorità per testare tutti gli optional di quella lussuosa automobile.
Il tutto, ovviamente, venne opportunamente registrato da Robert, che dal suo angolino seguiva ogni nostra mossa con sguardo divertito.
Ricorderò per sempre quel viaggio, anche se durò appena mezz'ora, come la prima volta in cui mi sentii come una rockstar - sorvolando sull'insignificante dettaglio che l'unico strumento che avessi mai suonato fino a quel momento era il flauto dolce (prontamente archiviato dopo le medie) e che possedevo le capacità canore di una balena in agonia - .
Ero talmente presa da quel primo assaggio di vita da vip, da non rendermi nemmeno conto di essere arrivata a destinazione, almeno fino a quando l'auto non accostò e Jules ci aprì nuovamente la portiera.
Il primo a scendere fu Robert, che ci chiese di aspettare un secondo prima di scendere poichè desiderava riprendere la nostra uscita. Al suo segnale, Rebeka scese a sua volta, seguita da me che tanto per dare un'ulteriore prova del mio essere geneticamente imbranata, appena uscita mi scontrai con la schiena della bionda rischiando di perdere l'equilibrio.
-Ehi!- esclamai, non capendo perchè si fosse bloccata così all'improvviso.
Quando però la guardai, notai che la sua espressione era identica a quella di poco prima, quando avevamo visto la limousine. Seguii il suo sguardo ed immediatamente capii cos'avesse catturato la sua attenzione in quel modo.
Oh. Santo. Tomo.
Era uno scherzo?
Ci trovavamo di fronte nientemeno che al bellissimo, lussuosissimo, maestosissimo Four Seasons George V di Parigi.
-Noi- chiesi, anche se non sapevo con esattezza a chi mi stessi rivolgendo -alloggeremo qui?!-
Non ottenni risposta ma non me ne preoccupai: se anche l'avessi ricevuta, probabilmente non l'avrei nemmeno sentita, tanto ero inebetita.
L'enorme costruzione bianca era divisa in due edifici di otto piani uniti al centro dall'ingresso principale - che contava solo il pianterreno - davanti a cui ci trovavamo.
Ad ogni finestra erano esposti magnifici fiori viola che davano al complesso un delicato tocco di colore e, al centro, esattamente sopra alle nostre teste, sventolavano tre bandiere: quella francese, quella canadese ed una verde che però non riuscii a riconoscere.
Mentre Rebeka ed io studiavamo ogni dettaglio dell'edificio che avevamo davanti cercando di riprenderci dallo shock, Jules si premurò di scaricare i nostri bagagli per consegnarli ad un facchino che prontamente li caricò su uno di quei carrelli dorati tipici degli aberghi di cui ignoro il nome tecnico.
-Signorine- disse infine Jules, distraendoci dalla contemplazione dell'hotel. -E' stato un piacere accompagnarvi fin qui. Vi auguro una buona permanenza a Parigi-.
Lo sarà sicuramente pensai.
Dopo aver ringraziato e salutato Jules, finalmente entrammo nell'albergo scortate da Robert e dal facchino che aveva preso in custodia le nostre cose.
Pur intuendo già dall'esterno che cosa ci aspettasse, rimanemmo comunque senza parole per la terza volta nel giro di nemmeno un'ora. Questo perchè neanche nelle mie più dettagliate fantasie di quando, da bambina, giocavo a fare la principessa avevo mai osato sognare un castello delle fiabe di una bellezza simile.
 Il pavimento di marmo era decorato con eleganti disegni ed era così lucido che riuscii addirittura a scorgervi una delle mie anarchiche ciocche di capelli mentre cercava di liberarsi dalla coda di cavallo in cui l'avevo costretta. Al centro della hall, proprio davanti a noi, una magnifica e colorata composizione floreale si elevava, grazie ad alcuni sostegni di vertro, dal pavimento fino ad uno dei lampadari di cristallo che campeggiavano sontuosi sulla sala. Lanciando un fugace sguardo intorno alla sala prima di recarmi alla reception, notai un'incredibile quantità di dettagli, dalle statue, alle colonne, ai suppellettili, ognuno dei quali contribuiva a rendere quella stanza la più lussuosa in cui avessi mai messo piede.
Ero sul punto di esclamare qualcosa come "porca vacca!", ma mi trattenni. Esibire il mio lato da scaricatrice di porto in un luogo raffinato come quello sarebbe stato opportuno come bestemmiare in chiesa.
-Bonjour!- esclamò sorridente la receptionist, un'elegante signora sulla quarantina con i capelli marmorizzati in un'impeccabile messa in piega e un sorriso talmente smagliante da fare concorrenza a una pubblicità della Colgate.
-Salve, siamo Rebeka Isaksson e Zoe Caivano- esordì Rebeka. Lo shock derivato dallo scoprire che ricordava il mio nome quasi superò tutti quelli delle ultime ore.
La donna digitò qualcosa sul computer che aveva davanti e poi si rivolse nuovamente a noi, il tutto senza affievolire di un millimetro il suo sorrisone. Ipotizzai che dovesse esserci una clausula nel suo contratto di lavoro che implicava di sorridere sempre, anche davanti al cliente più stronzo e scortese.
Al suo posto, probabilmente mi avrebbero licenziato quindici minuti dopo avermi assunta.
-Molto bene!- Esclamò. -Vi stavamo aspettando, gli altri vostri compagni sono già arrivati-.
Ecco, ci mancava giusto il ritardo per mettere subito in chiaro chi era la diva e chi l'italiana.
-Sono qui da molto?- chiesi.
-Veramente sono appena arrivati anche loro- disse una voce alle nostre spalle, anticipando la signora della reception. Io e Rebeka ci voltammo nello stesso momento. -Non preoccupatevi, signorine, non siete in ritardo-.
E qui, come si suol dire, si chiude il cerchio.
Perchè erano lì.
Proprio davanti ai nostri occhi.
In carne, ossa e figaggine.
E con un'aura luminosa tutt'intorno mentre un coro angelico, da qualche parte nella mia testa, intonava una lode a sette voci.
Ero ufficialmente nella stessa stanza - e a meno di tre metri - dai 30 Seconds To Mars al gran completo.
Giusto per rendere il tutto ancora più surreale poi, quello che ci aveva appena rivolto la parola e che in quel momento ci stava guardando con quei suoi enormi e meravigliosi occhi azzurri mentre sorrideva era propio Jared Leto.
Ogni area funzionante del mio cervello si attivò nello stesso momento, nel frenetico tentativo di realizzare a pieno la cosa e, al tempo stesso, di elaborare una risposta abbastanza ragionevole da superare il test della famigerata e temutissima prima impressione.
Il risultato fu che il suddetto cervello si trovò sull'orlo di un'implosione e che il primo ricordo che Jared, Shannon e Tomo ebbero di me fu la mia insulsa espressione da sogliola. Tuttavia, anche se ancora oggi mi pare incredibile, riuscii perlomeno a rimanere lucida e cosciente.
Okay, solo cosciente.
Mi ci volle un bel po' a rimettere ordine nella mia testa ma, anche se non so come, ci riuscii. Poi però, proprio quando mi trovai sul punto di riuscire finalmente ad articolare qualcosa (di senso compiuto), vidi Rebeka muoversi in modo strano ai margini del mio campo visivo. Non feci neanche in tempo a voltarmi verso di lei, che questa si accasciò ai miei piedi come un sacco di patate, svenuta.

[* Sono Zoe Caivano, lei parla inglese?
** Buongiorno, signorina Caivano. Sì, io parlo inglese.
*** Episodio realmente accaduto ad una mia amica (che ha ovviamente suscitato in me parecchia invidia) con la sola differenza che il fortunato incontro con Daniel Radcliffe non si è svolto fuori dal bagno ma nel bagno stesso. Considerati i livelli di fanatismo che la mia amica è in grado di raggiungere, non oso immagnare cosa deve aver pensato Mr. Harry Potter. Probabilmente di essere incappato in qualcosa alla "Misery non deve morire".
]

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3035379