Vampire Devil, sєcσηd αcт.

di Night_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** La loro perfezione diventava un imperfezione. ***
Capitolo 3: *** Come lo sbattere di ali. ***
Capitolo 4: *** Un ballo al chiarore della luna. ***
Capitolo 5: *** La tana del lupo. ***
Capitolo 6: *** La perpetua rabbia di una mezzosangue. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


 

Inafferrabile dovere.

Narratrice.

 

 

 

 

 

 

Prologo

 

 

 

 

 

 

 

«Ancora!», un ringhio nel cuore della notte, ebro della sfrenata sete di sangue messa a cuccia per, a quanto sembrava, troppo tempo, – troppi anni – risuonò grave nell'enorme e polveroso salone, probabilmente da ricevimento. L'uomo aveva persino il dubbio che fosse passato un secolo o più, da quando aveva cenato in modo legale, alla luce del... beh, delle luci accecanti dei lampadari della sua residenza.
E ora, dov'era andato a finire?
Bella domanda – non che scalfisse la sua attenzione. «Ma quanto diavolo ci mettete? Mia nipote di dodici anni è più veloce di voi!». Cavoli, vabbene che la situazione era quella che era, ma avrebbe potuto trovare gente un po' più... utile.
Con un gesto di profonda stizza, gettò contro il pavimento di marmo il corpo appena prosciugato che, fino ad un secondo prima, teneva stretto per il collo – a mo' di gallina; non era male come sangue, almeno per il momento, ma il suo palato raffinato desiderava forsennatamente qualcosa di più denso, più caldo, più solleticante.
«Questa è l'ultima», esclamò un vampiro – uno dei tre vampiri presenti.
«Esco da quella dannata e putrida cella ed è questo il servizio che mi offrite?», il vampiro dai capelli neri, lucidi e lunghi fino alle spalle, scosse la testa, teatralmente afflitto.
Il terzo vampiro raggiunse i due, tenendo il proprio mantello sollevato con una mano mentre, nell'altra, un cellulare – piuttosto moderno, c'era da dirlo: uno scambio di sguardi e si erano capiti. «Alyon-sama».
«Sì sì, ho capito. E' arrivato il momento di andare a trovare la mia bella famigliola».

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:

Bentornati a tutti i lettori di Vampire Devil eeee benvenuti nel secondo atto!

WAH.

Siamo arrivati fin qui. Mi piacerebbe fare un piccolo e puccio discorso (?), ma mentre sto scrivendo è mezzanotte e Dio solo sa come farò ad alzarmi domani mattina, quindi-

Vi dico solo che sono dannatamente felice di essere arrivata fin qui, con i vari incoraggiamenti dalla mia Kouhai (Lottie) e... anche a tutti voi, lettori silenziosi!

E niente, prendetevi cura di me~

 

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

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Capitolo 2
*** La loro perfezione diventava un imperfezione. ***


 

 

Non posso dire cos'è giusto, ma posso almeno pensarlo?

Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

La loro perfezione diventava un imperfezione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"La coppia perfetta".
Da un po' di tempo a quella parte, era questo il soprannome che veniva bisbigliato e invocato lungo i corridoi scolastici, la terrazza, il grande giardino dietro all'edificio, al cancello. A momenti veniva spifferato anche nei bagni – non sarebbe stato molto igienico. Una mano a coprire la propria bocca, ardivano sussurri: «Eccoli, che belli! "La coppia perfetta"!».
Lui: un enigma silenzioso quanto affascinante.
Lei: una Regina incrollabile bella come la luna.
Insomma, agli occhi altrui apparivano sul serio come una coppia- particolare, sicuramente, ma soprattutto avvenente e indistruttibile, perfetta, appunto – come lo sguardo dell'albina. Che, a dire il vero, da quando era cominciato quel tormentone era più inclinato per il... "furioso".
«Se non chiudono quei dannati forni, un bel giorno... », ringhiava, un braccio mollato pigramente sul banco e l'altro sulle gambe accavallate e lo sguardo più torto che potesse mostrare – non molto carino.
Ma sia Takeshi che Sayumi erano abituati a quei occhi spesso arrabbiati col mondo o con gli altri e scrutavano, analizzavano, scoprivano – puntavano come falchi. E i due, il primo appoggiato al lato del banco di Yuki e la seconda seduta affianco, sorridevano placidi. «Credo che questa sarebbe l'unica scusa che ti porterebbe a lasciare Takeshi», diceva Yumi, inarcando un sopracciglio e guardando in direzione del moro – lui aggrottò la fronte.
«"Non lo lascerei per nessun motivo al mondo"», disse. «"Non dire idiozie". Ecco, Yumi, dovresti ascoltare cosa ti dice la tua amica falco».
Sayumi scoppiò allegramente a ridere, reclinando il capo indietro.
«Un genocidio organizzato in fretta e furia dovrebbe andare bene comunque», diceva intanto Yuki, una mano al mento e realmente seria. «Non credo che Adolf me ne farebbe una colpa... ».
«Tra colleghi ci si capisce», disse Takeshi, alzando lo sguardo verso la porta scorrevole che venne aperta con grinta; una donna entrava, trafelata, con imbraccio un libro e qualche scheda, qualche foglio – sospirò pesantemente. «Ehi. E' arrivato un tornado».
Le iridi turchine di Yumi si spostarono rapidamente dalla porta – e dalla donna, disinteressata – a Takeshi, seguendo attentamente i suoi lineamenti; la chioma scarmigliata, che gli copriva la fronte e cadeva confusa persino un poco sul naso, dalla linea dritta, e le labbra vermiglie incurvate in un leggero e spensierato sorriso – l'opera d'arte su una scultura. Più lo guardava, più si rendeva conto di quanto fosse bello.
In contemporanea, ricordava che lui e la sua migliore amica si erano fidanzati una settimana prima – aveva provato una strana sensazione. Non tristezza, non gelosia.
«Dovresti tornare in classe», era meglio mettersi a parlare, quando cominciava a riaffondare. «Già fai abbastanza schifo, con i voti, almeno con la condotta... ! Forza, pussa via!».
«Ehi», sbottò lui, aggrottando la fronte e gettandole un'occhiata a metà fra l'indignato e il consapevole – già.
«Non ha tutti i torti», Yuki ridacchiò appena – poi lo guardò con occhi gentili.
Sayumi era un po' colpita da quello sguardo così amabile. Non le aveva mai visto addosso un'aria simile. Ne era felice, davvero
Ma con una strana sensazione che non voleva tardare ad insidiarsi.

 

 


 

***

 

 

 

«Sbaglio o è la prima volta che torniamo a casa insieme da... ?».
Takeshi non finì la frase, lasciando intendere all'albina il significato nascosto, ma piuttosto palese – un sopracciglio alzato. Lei non rispose, con la bocca sigillata e lo stupore in viso, mentre spostava le iridi ambra da lui alla strada che li avrebbe portati davanti a quella enorme, mastodontica – inutilmente – casa.
Come sempre, Takeshi non si sentiva a suo agio a chiamare un edificio simile "casa" ma... a parte questo particolare, Yuki pensava che il moro avesse piuttosto ragione; un po' perché, all'inizio della prima settimana – che stavano insieme – lei si sentiva ambiguamente schiva, un po' perché Takeshi era stato trattenuto un paio di volte a scuola, dai professori, per... motivi.
Oh, beh.
Di certo il tempo non gli mancava, a quei due, non sarebbe mai mancato. «E' vero. E' la prima volta», concordò lei, arcuando la bocca in un sorriso leggero, languido. Si sentiva un po' languida, lei.
«Posso farti una domanda?», disse lui.
«Hm, dipende. Le tue domande sono sconvenienti».
«Oh, forse – forse lo sarà».
«Allora no, grazie». Yuki e Takeshi si girarono, nello stesso attimo, per guardarsi in viso con espressioni divertite, consapevoli che molte delle loro conversazioni avrebbero preso questa piega così buffa ma screziata d'intesa – nel profondo, però, l'albina aveva dei sospetti sulla domanda. Solo che non voleva pensarci, non voleva provare a cercare una risposta. Sapeva cosa le avrebbe chiesto.
Il leggero venticello, intanto, non tardava ad arrivare, sempre più caldo mentre i giorni proseguivano e l'estate si faceva spazio tra la primavera, prepotente e afosa; la mezzosangue si era sempre ritenuta fortunata della seconda natura da vampira che non permetteva al suo corpo di sentire il caldo in maniera normale. Lo avvertiva appena appena, così come il freddo. Ah, a volte non era male per niente!
Con le ombre prodotte dalle chiome smeraldo, ondeggianti sopra le loro teste, continuavano a camminare, lenti e rilassati, lasciandosi cullare dalla temperatura più mite del pomeriggio mentre, all'orizzonte, l'enorme sfera arancio si nascondeva timidamente – mancava pochissimo alle porte di legno mogano.
Anche troppo poco. Ecco, quella bestia del tempo sembrava deciso a prendersi gioco di loro; proprio quando lei aveva pensato che non sarebbe mancato, ecco, stava scivolando via, man mano che avanzavano. Quasi quasi, sarebbe tornata indietro.
«... Yuki- ehi!», la voce di Takeshi la scombussolò – e si fermò, in tempo per non andare in contro alle porte. «Siamo arrivati. O vuoi passarci attraverso?».
La mezzosangue fece un piccolo passo indietro, storcendo la bocca e aggrottando gravemente la fronte, un solco a formarsi fra le sopracciglia – e sbuffò, sonoramente. «Hm. Vedo».
«Qualcosa-», ed ecco che la bocca, carnosa e rosea, di quel ragazzo si incurvava allegramente, con i denti lindi in bella vista, quasi vanitosi. «Ah... ti manco già?».
Puff!, il viso niveo di Yuki faceva pendant col fiocco cremisi che pendeva all'altezza del petto. Ci aveva azzeccato. Diavolo, se l'aveva fatto – le leggeva nel pensiero o cosa? Si sentiva fin troppo scoperta mentre, con gli occhi un po' bassi, vide i suoi piedi muoversi e toccare le punte dei propri – sollevò lo sguardo di scatto, bordeaux.
Nel pallone.
«Non ti crucciare», lo sentì sussurrare, contro il suo viso. Le sue braccia si avvicinavano, le cingevano elegantemente la vita. Avrebbe aggiunto qualcos'altro, ma ormai, la sua attenzione era focalizzata sulle guance che non volevano smettere di prendere colore e... sulle sottili labbra socchiuse. Sembravano aspettare di essere accolte, amate.
Ah, erano davvero... troppo.
La guardò diritto nelle pupille. Percepiva sul mento, sul collo, il suo respiro freddo e inumano, ma così piacevole e stranamente rinfrescante – chiuse lentamente le palpebre e si sporse verso di lei. Piano, con attenzione, mentre l'aria intorno a loro sembrava già carica di elettricità statica, irradiante.
Lo voglio anch'io, pensava lei, ma... mi scoppia il cuore!
E intanto il tempo pareva essere rallentato, coma la bobina di un film che veniva analizzato, in ogni sua piccola parte – granelli di polvere immobilizzati e mezz'aria.
Takeshi, urlavano i suoi pensieri, aspetta-
E se gli avesse esposto i propri pensieri, i propri desideri? Invece di sentirsi incrociare gli occhi a causa di quella meravigliosa e distruttiva vicinanza che, docilmente, produceva un'ombra sul viso di lei.
Forse... forse doveva solo... spingerlo via; le mani che si erano prima posate con delicatezza sul suo petto, premettero improvvisamente, con violenza, e lo allontanarono di un metro.
In quello stesso istante, l'anta sinistra delle porte si aprì lentamente.
Un bel quadretto, non c'era che dire; un avvenente ragazzo di, probabilmente, diciassette anni, con un espressione che dire confusa era un eufemismo – con tanto di sopracciglia alte, altissime –, una ragazza albina della medesima età, con i bollori che avvampavano nel suo corpo in ogni dove, e le braccia incrociate dietro la schiena – infine, un uomo. Sembrava sulla quarantina, con i suoi occhi gelidi color bordeaux, la bocca sottile e rigida e i capelli argentei, tirati indietro in modo ordinatissimo e composto. In abiti piuttosto eleganti: un gilet che fasciava il torso altrettanto stabile, con una camicia bianca sottostante e un paio di pantaloni neri.
Un incredibile e bellissimo uomo.
«... », Yuki lo guardava con occhi strani; come se lei fosse diventata una turista ignorante e stesse guardando una scultura con dieci braccia – beh, non aveva senso. «Tadaima*».
Takeshi li teneva d'occhio. Avevano qualcosa di assolutamente somigliante, l'un l'altra. Probabilmente, era lo sguardo che sembrava disperatamente desideroso di strapparti le carni e farcirne poi la bocca, per mettere a tacere. Okay, stava esagerando.
Però, insomma, la luce era la stessa: fiera, orgogliosa, fredda, indistruttibile – ma all'uomo mancava l'ironia della mezzosangue.
Non ci voleva un genio per capire il loro legame, già – padre e figlia.
«Vedo», fece l'uomo.
Takeshi sollevò ancora di più le sopracciglia scure, talmente tanto che a momenti avrebbe sfiorato l'attaccatura dei capelli. Wow. Quanto sentimento, quanta gentilezza: oltretutto, avrebbe dovuto rispondere in un altro modo. Insomma, era una tradizione giapponese – il ragazzo si passò la lingua fra le labbra.
Le sentiva bruciare come tizzoni ardenti e, solo per questo, si rese conto di averle morse parecchio.
«Entra», disse l'uomo – poi, dalla figlia, passò a Takeshi. E che diamine! Era peggio di essere in tribunale a proteggersi dall'accusa di magnificenza esagerata! Solo che, in quel caso, lui non aveva nessuna accusa, nessuna colpa.
A parte, forse, quella di trovarsi nel posto sbagliato: non c'erano momenti sbagliati. Da quei occhi tinti di rosso oscuro e la loro luce infrangibile, aveva capito all'istante che per quell'uomo lui non avrebbe dovuto trovarsi lì – mai.
«Se il mondo starà per precipitare», sbottò Yuki. «In quel caso, prenderò in considerazione l'idea di seguire le tue stup--- ehi! Ehi, sto parlando con te! Dannazione!». Con furia repressa – strano! – scalciò la terra, sotto i suoi piedi, sollevando una leggera coltre di polvere – schioccò un'occhiata alla sua figura, mentre rientrava.
Era sempre così... prendendo un respiro profondo, e poi espirando, ruotò i piedi verso il moro. Lo spettatore.
Indugiò. Adesso lui aveva assunto un espressione che esigeva delle spiegazioni, quanto meno decenti. Era stato respinto con uno spintone per niente delicato, aveva ragione.
«Scusami», borbottò lei. «Avevo sentito i suoi passi. Immagino tu abbia capito chi sia».
«Immagini bene», disse l'altro. «E'... particolare», si fermò per poter incrociare le braccia al petto, la valigetta che pendeva dalle dita della mano più esterna. «Ti somiglia molto».
Yuki aprì la bocca – la richiuse subito dopo.
Lo guardò.
Aggrottò la fronte.
«... ciao, Takeshi, ci vediamo domani».

 

 

 

 

***

 

 

 

Solo dopo che ebbe avuto la certezza che lui stesse avviandosi, facendo a ritroso per quella strada insidiata nel verde, si decise ad entrare. Lenta, con grossi sospironi e un diavolo per capello.
Somigliarsi? Lei? Con lui?
Ma non diciamo fesserie!, pensò, non per vantarmi, ma sono decisamente meglio di lui. Sono più gentile. E affettuosa. ... okay, ora ho detto una balla.
Inutile dire che, dentro di sé, lei si trovava molto d'accordo con il ragazzo perché, per quanto ne sapeva, era nel gene della famiglia del padre somigliarsi in modo incredibile. Ed essere più freddi di un surgelato scaduto – dimenticato nel freezer.
Mentre faceva per avviarsi in camera sua, dove probabilmente avrebbe rotto qualche mobile, vide la figura del padre in cima alle scale che la guardava, eloquente, palesemente desideroso di parlarle.
«Complimenti», ringhiò Yuki. «Hai proprio la gentilezza – o l'ospitalità? – di un uomo delle caverne. Vuoi anche una clava, visto che ci siamo?». L'uomo non si scompose minimamente, anzi, se possibile si trovò a plasmare una maschera ancora più spessa. Era peggio di Kazuki – sospirò, salendo i gradini.
«Con te ci si diverte da morire, eh», fece, chiudendo le palpebre e lasciando che le folte ciglia nere carezzassero gli zigomi lattei.
«Non ci si deve divertire, difatti», ribatté lentamente l'uomo. «Non sono certo un clown. O un tuo amico».
Yuki riaprì gli occhi, guardandolo senza la minima esitazione o rispetto. Non lo odiava, sul serio.
Ma se avessi un salvagente, pensava, mentre finalmente arrivava in cima, ad un metro da lui, e tu stessi affogando, lo bucherei con un riccio arrabbiato.
«In ogni caso», disse l'albina. Ecco, era davanti a lui; non c'era molta differenza d'altezza, l'uomo non era particolarmente slanciato, quindi riusciva persino a guardare nei suoi occhi. «Volevi qualcosa?».
Attenzione, sarebbe stata la frase più gentile della giornata.
«Sì», rispose lui.
«Andiamo in quello schifo del tuo studio?».
«Vabbene qui. Il mio studio è fin troppo perfetto».
L'albina si morse la lingua, dentro la bocca – perfetto proprio no; freddo, angusto, con una scrivania pregna di documenti e scartoffie varie, privo di finestre e circondato da librerie ricolme di tomi di cui... ignorava il contenuto.
Vide l'uomo battere le ciglia e accennare un leggero, quasi impercettibile sorriso. Le sue labbra sottili sembravano divertite. «Era un tuo compagno di classe? O forse, una preda?».
«Cosa? No», sibilò lei. «Sai che non ho prede».
"Non più" – sentiva di doverlo aggiungere, almeno nel suo subconscio. E... beh, tecnicamente, una volta aveva approfittato del sangue di Takeshi e tuttora, quando i suoi pensieri si focalizzavano su quel ricordo – sembrava così distante – avvertiva il sangue arrivare alla guance e circolare lì, dispettoso. Oh, ricordava benissimo persino il sapore; dolce, denso, delizioso e... per il momento, non le venivano in mente altri aggettivi con la "d".
«Quindi», riprese l'uomo. «non è una tua preda».
«Esatto».
Tuttavia, Yuki non seppe mai dire se lui avesse o meno sospetti sulla neo-relazione dei due. Certo era che, se l'avesse scoperto, i guai non sarebbero stati uno o due – oh, no. Magari.
Ma questo, in quel momento, non aveva importanza; voleva solo sentire cosa diamine cercasse e poi recarsi nella sua ampia e spoglia camera. Con lo sguardo ambra, lo interrogò, laconica.
E l'uomo – Oseroth Akawa, il "Re di ghiaccio" – incurvò ancora una volta la bocca. Sadicamente.
«Ballo».
E Yuki si maledì per non essere una povera orfanella.

 

 

 

***

 

 

 

«Ti prego, ti scongiuro... portami con te. Sono o non sono la tua migliore amica?!», dall'altra parte della cornetta, la voce squillante di Sayumi risultava doppiamente più acuta, quasi l'apparecchio stesse amplificandola – a discapito della mezzosangue. «Merito ciò!».
«Proprio perché sei la mia migliore amica», sospirò. «non ti porterò ad uno schifo del genere. Sai come si svolgerà? Tanti pinguini con la puzza sotto al naso che sbaciucchiano manine e tanti saluti ai principi morali».
«Okay», sentì il respiro di Yumi farsi strada fra le sue labbra, abbattuto. «Immagino di essere ferma ai vecchi balli».
«Din din, esatto».
E non sapeva nemmeno quanto avesse ragione, soprattutto perché questo non sarebbe stato un ballo di umani, no, ma di creature che la notte avevano di meglio da fare, da compiere. «Ripetimi il nome del festeggiato?».
«Ichiro. Ichiro Fukanishi».
«Uhm. Dunque- ah, come sospettavo», Yumi ridacchiò sommessamente. «è il figlio di un tizio piuttosto ricco. Dovrebbe avere un'industria di mobili, fa concorrenza all'Ikea». Se conosceva bene l'umana, aveva aggrottato la fronte, mentre sforzava gli occhi turchini per leggere le righe al suo portatile – lo usava sempre, quando cercava qualcosa.
Per quanto Yuki sapesse, l'amica era stata incapace di usare qualsiasi forma di tecnologia almeno fino a quindici anni dove, tutto ad un tratto, ne era diventata piuttosto amica.
«Sì, molte delle persone famose che circolando sono probabilmente... qualcosa», disse. «Cantanti, attori, professori famosi, medici».
«Non so se spaventarmi o farmi dire un paio di nomi».
«... facciamo nessuna delle due?». Yuki sospirò gravemente, premendo l'indice e il medio della mano libera contro il centro della fronte. Quella ragazza era un tornado.
«Per lo meno, ci sarà Tetsuya, con me».
Dall'altra parte, il rumore di un tonfo pesante.
«Yumi?!», esclamò la mezzosangue, spostandosi dal letto su cui, sin dall'inizio della chiamata, si era appostata: gambe stese e incrociate, un braccio dietro la testa e l'espressione di una condannata alla forca.
«Ah, sì – sono caduta dalla sedia», biascicò Sayumi, lamentando dolori sottovoce. «Okay. Dunque. Sarai con Tetsuya. Vi... vi fate una foto?».
Al ché, Yuki era seriamente indecisa se mettersi a ridere o assecondarla e basta, senza aggiungere altro. «Ti faccio una foto dell'interno, vabbene, così?».
«Direi che ti prometto un favore».
Yuki socchiuse le palpebre. Non avrebbe dovuto dire una frase come quella – eh, no: non bisognava mai dare la parola ad una creatura notturna, specie se era una demone dagli infimi scopi. E con la mezzosangue – a maggior ragione.
«Allora, domani sera, siete invitati ad una festa notturna».

 

 

 

 

 

 

* tadaima: significa "sono tornato/a" e la tradizione a cui si riferisce Takeshi è di rispondere con "Okaeri", e cioè: "Bentornato/a".

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE: 
ZALVE GENTE. 
All'inizio avevo pensato di non scrivere nessuna nota, perché non ho niente in particolare da dire, ma... poi mi sono ricordata che ho fatto una modifica: d'ora in poi aggiornerò il martedì. Perché? 
Hm... SECONDO ATTO, SECONDO GIORNO. 
... a casissimo. Vbb. E niente, come avete potuto constatare, è apparso un nuovo personaggio e, a breve, ne appariranno altre due. Eheh. 
STO ZITTA, HM. 

Night, ovviamente, con affetto.

 

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Capitolo 3
*** Come lo sbattere di ali. ***


 

 

Con le mani, cercavo di afferrare una corda. Poteva essere spinata, potevo bruciarmi le mani, ma non volevo affondare insieme alla melma.

Takeshi.

 

 

 

 

 

 

 

Come lo sbattere di ali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando arrivarono di fronte all'enorme edificio che, probabilmente, considerava una soffitta sopra al secondo piano, Sayumi si trovò a dover trattenere la mandibola con ambe le piccole mani, perché... diamine! E quella casa dove l'aveva nascosta, la sua amata migliore amica?
Era mostruosa.
E se avesse saputo che la sua reazione e quella di Takeshi - quando ebbe anche lui l'onore di rompersi il collo a guardare l'edificio -, proprio di fianco a lei, erano state pressoché identiche, si sarebbe fatta una bella risata: qualche passo indietro e il capo reclinato all'indietro, alla disperata ricerca di una fine per quel tetto nero e lucido. Era un po' eccentrico, c'era di dirlo; aveva quella punta che spiccava nel cielo ricoperto di pallore e nuvole sporche e poi, all'improvviso, tornava in orizzontale.
«Allora, vi muovete?». Come sempre, la voce di Yuki era graffiante e, quel giorno, uno spicchio di divertimento si annidava e smascherava quella maschera di fastidio che aveva in viso. Gli angoli della bocca sottile verso il basso e le sopracciglia inarcate – era buffa, ah.
«Ah, beh», grugnì Sayumi, spingendo le mani chiuse a pugni contro i fianchi, impettita. «Se una certa signorina non possedesse una casetta che fa invidia alla Casa Bianca, saremmo già entrati da un pezzo». Di fronte alla voce "grossa", boriosa, che esibì l'umana – Yuki serrò le labbra per non riderle in faccia. «Ah-ah, chiedo venia. Ora, muovete le natiche?».
Muovete le natiche! Se suo padre l'avesse sentita, avrebbe attaccato con l'unico argomento – oltre al suo tanto prediletto studio, ovviamente – che riusciva a spiccicargli dieci parole più del dovuto: il linguaggio e la moderazione che necessitava.
Che idiozie.
«Quanta fretta», cantilenò Tetsuya, abbozzando un sorriso sulle labbra leggermente rosate. I primi due bottoni della camicia linda e immacolata – sapeva di rose – erano aperti e le clavicole e il collo erano scoperti, carezzati dall'aria tiepida della sera.
Erano circa le diciassette e mezza quando, dopo aver passato un'oretta a bazzicare per i corridoi silenziosi e annebbiati dal caldo, avevano deciso di uscire dalla scuola e raggiungere casa di Yuki, di certo più fresca. Lei stava ancora ripensando alla faccia di Takeshi quando Sayumi aveva annunciato quello che, alla fine della fiera, era un pigiama party.
In quattro, ma pur sempre un party.
... in qualche modo.
«Chiaro, dunque?», aveva chiesto la mezzosangue – e Takeshi aveva aggrottato profondamente la fronte. La bocca carnosa storta da un lato, come pensieroso – o dubbioso – e gli occhi che si concentrava sul viso di Yuki. Sembrava che stesse guardando una mezzosangue con dieci teste e quattro gambe.
«Ehi, c'è nessuno?», la voce echeggiò un paio di volte prima di arrestarsi, come abbattuta. Nessuna risposta. Yuki fece un passo all'interno e si spostò di lato, per far passare gli altri che, uno alla volta, facevano il loro ingresso dentro... il salone più mastodontico che Sayumi avesse mai visto; okay, teoricamente parlando, era stata in quella casa – per circa dieci secondi? – una volta, quando Tetsuya l'aveva resa schiava delle sue volontà e, di punto in bianco, si era ritrovata fulgide iridi color oro che la guardavano, preoccupate.
E le pareti di una stanza dieci volte la propria tutte intorno – però, non ricordava nulla. Quella volta la sua mente era completamente annebbiata dalla schiavitù che Tetsuya – o Ai? Era difficile stabilirlo – le aveva imposto. Che tipaccio! Molto somigliante all'albina, certo.
«Io mi chiedo che lavoro facciano i tuoi per permettersi una bestia simile», boccheggiò Sayumi.
«Non farti domande di cui non vuoi la risposta», sussurrò Takeshi.
«E' bello vedere questo posto con la coscienza libera da Ai», disse il vampiro biondo mentre, con movenze lente, sollevava le braccia verso l'alto e le stendeva – Yuki inarcò un sopracciglio chiaro. «Già. Come vedi, o come hai visto, non è cambiato granché».
Tetsuya annuì. Mancava quel grande tappeto dai motivi persiani, posto proprio al centro del salone – parallelo alle scale – , con i due divani a tre posti dal vivido colore rosso, color alizarina.
La prima volta che aveva messo piede in quel posto, i suoi occhi, grandi e ornati da lunghe ciglia marroncine, si erano inchiodati su quei divani così confortevoli e, in un certo senso, pericolosi. Dopo di ché, aveva avuto l'onore di sedercisi, affianco al suo papà, con il gomito appoggiato sul bracciolo troppo grande e i piedi piccini che penzolavano nel vuoto. Aveva compiuto nove anni ad Agosto ed ormai era Settembre, con il caldo che scivolava lentamente via – forse era iniziato tutto da quel momento?
I grandi facevano dei discorsi talmente noiosi... Tetsuya si sentiva assonnato come un ghiro. La guancia, appoggiata contro la mano e il gomito sul bracciolo, si era arrossata un bel po', a forza di rimanere immobile in quella posa – poi, come un salvagente, un profumo alla vaniglia gli aveva carezzato le narici. Il suo sguardo non perse tempo e si sollevò verso l'alto: solo un bagliore bianco riuscì a cogliere, con la coda dell'occhio sinistro. Quel bagliore era fuggito quasi all'istante, come una timida e leggera brezza pre autunnale – fuggì via.
E si sa, i bambini hanno un'innata curiosità: per le cose belle, per le cose brutte, per quelle strane, per quelle facili e quelle difficili. E quel pizzico di luce bianca pareva quasi racchiuderle tutte – di fronte ai suoi occhi di bambino.
L'aveva seguita, l'aveva conosciuta. L'aveva scoperta in piedi, nel sottile vestitino in tinta con i suoi capelli, a sporgersi oltre il davanzale di una finestra, i piccoli palmi premuti contro il legno – era stata catturata dalle orchidee fragola che punterellavano un ramo.
Ed era bastato un sospiro del piccolo vampiro che si era girata, scattante, le guance che parevano esplodere di vitalità – e un sorriso ad incorniciarle raggiante il viso.
«Tetsu, ma ti sei imbalsamato?». Peccato che, ormai, di quella Yuki dolce come un macarons c'era solo il nostalgico ricordo. Che amarezza.
La guardò, scorgendo l'ombra della confusione sul suo volto. Scosse leggermente il capo, laconico. «Stavo solo pensando».
La mezzosangue inclinò la testa d'un lato. «Erano brutti pensieri?».
E il vampiro biondo sorrise, quasi divertito: se c'era qualcosa che in lei non era mai mutato, anche a distanza di quasi dieci anni, era quel senso di protezione che aveva verso gli altri. Sempre pronta a sgozzare teste, se doveva – non che le dispiacesse, eh.
La mano destra si sollevò, per un attimo sembrò che stesse facendo tutta da sola, e l'indice andò a spingere contro la fronte dell'albina.
«Pensieri tranquilli», rispose lui. «Bei pensieri, anzi».
Yuki arricciò il piccolo naso, inarcando le sopracciglia chiare e guardandolo sospettosa – rilassò l'espressione, con un leggero sorriso. Tanto meglio, gli avrebbe risposto, perché quel ragazzo aveva passato fin troppi drammi e cattivi pensieri e, più di una volta, l'albina aveva pensato che si sarebbe spezzato.
Come un ramo di orchidee color fragola.
«Ehi, ragazzi!».
Silenzio – per poco, naturalmente.
«Che strano», disse Sayumi, guardando prima Takeshi, poi l'albina e il vampiro. «Mi è sembrato di sentire la voce di Hokori».
Tutti, eccetto il piccolo tornado rosa, si voltarono in direzione della raggiante voce femminile. Yuki aggrottò la fronte.
«Perché è Hokori», disse Takeshi: era difficile dire se fosse più sorpreso o indispettito dalla comparsa della ragazza. Incrociò le braccia al petto e anche la sua fronte si irrigidì, nel vederla; probabilmente stava scendendo i gradini, essendo al secondo dal basso, con un gomito appoggiato al corrimano e la gamba sinistra incrociata alla destra. Un sorriso le illuminava l'espressione già piuttosto allegra e i capelli corti e neri erano legati dietro la nuca in un codino pratico.
«Cosa ci fai qui?», domandò Yuki, allontanandosi da Tetsuya per avvicinarsi alla giapponese.
«Beh, sapete, mio nonno vuole che conosca un po' meglio il suo mestiere come maggiordomo – nel mio caso, come cameriera –, non si sa mai. Quindi... ».
In tutta la residenza, c'era un solo uomo come maggiordomo e che, soprattutto, che fosse abbastanza anziano da essere nonno.
E francamente – non ci aveva proprio ragionato su; d'altro canto, ricordava che il cognome di Sebastian, quel tipo slanciato ed efficiente, fosse un qualcosa in inglese ma comunque non sarebbe mai arrivata a collegarlo ad Hokori, che possedeva nome e cognome giapponesi – il secondo era decisamente diverso da quello di Sebastian!
Erano molto diversi. Quest'uomo non era affatto giapponese mentre, Hokori... uhm.
«Hokori», disse. «Per caso, ma per caso, eh, sei per metà inglese?».
La diretta interessata, col viso ancora incorniciato dal sorriso, annuì. «Dalla parte materna, sì!».
Bene, l'albina aveva appurato quanto poco conoscesse certe persone della sua vita e soprattutto che, nel momento
più impensabile, si arrivassero a scoprire cose come quelle – che poi, non era niente di eclatante, se ci pensava un attimo. Okay.
«Però, mio padre voleva che almeno io avessi un nome giapponese», continuò la ragazza dai capelli corvini, inclinando il capo da una parte all'altra.
«In che senso?», chiese Yumi, aggrottando la fronte rosea in un espressione confusa.
«Nel senso che mio fratello ha un nome inglese. E mio padre voleva che i suoi figli avessero dei nomi giapponesi!». 
«Ah», fecero i quattro, in un coro armonioso e misto – avrebbero potuto formare una band, sincronizzati com'erano. 
Mentre nella testa di Yuki si faceva largo una domanda chiara e concisa – perché una cacciatrice doveva imparare quel lavoro –, Takeshi le si fece vicino con appena due passi. Le sfiorò la vita con la mano destra, richiamandola a sé semplicemente con le iridi caramellate. «Andiamo?».
Yuki lo guardò. «Andiamo».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il sistema della residenza Akawa non era niente di particolarmente intricato e astruso e soprattutto il raggiungimento della stanza di Yuki, era roba da nulla; bastava salire i gradini, svoltare a destra e salirne altri e, infine, percorrere qualche metro per raggiungere la porta, affiancata a diverse altre: la temperatura era bassa ma largamente sopportabile.
E poi, i vestiti per la notte che avrebbero indossato erano abbastanza caldi da non far pensare nemmeno al freddo – beh, eccezione fatta per Yuki e Tetsuya; la prima aveva indosso una delle sue camicie per la notte, lunga fino alle ginocchia e a bretelle, di un chiaro violetto; il secondo – aveva fatto un po' di storie, pareva non volersi far vedere in pigiama – aveva una sottile e grigia maglia a maniche lunghe che andava a nascondere anche le nocche, un paio di pantaloni comodi sotto.
«Mi viene freddo solo a guardarvi», aveva commentato, quasi brontolando, Takeshi. I suoi abiti erano molto simili a quelli della gita scolastica, con la differenza che avevano più spessore e si era portato una giacca dietro, con tanto di cappuccio. D'altro canto, visto che Yuki era stata talmente gentile da avvertire i ragazzi dell'inevitabile e attanagliante gelo... meglio approfittarne e prepararsi.
«Umano freddoloso», ghignò Tetsuya.
«Beh, ma non si sta male. Ah, Yuki-chan, adoro la tua stanza!».
Sayumi sembrava in procinto di spiccare il volo o mettersi a fare agili balzi da una parte all'altra, tanto per guardare ogni angolo della spaziosa e spoglia camera: il letto a baldacchino con le coperte corallo, la scrivania poco distante con lo specchio bordato d'oro, l'armadio in legno bianco e le pareti rosate.
Lisciò con i palmi il tessuto del pigiama rosa a due pezzi. «Dunque, andrete a questo ballo», guardò Yuki e Tetsuya – ormai si erano appollaiati sul letto. Il vampiro interrogato aggrottò la fronte e schioccò un'occhiata eloquente alla mezzosangue che, intanto, si era già premurata di virare la testa e, con nonchalance, fischiettare: «Uhm? Chi? Cosa?».
«Non sapevo di nessun ballo a cui andremo», la voce di Tetsuya era appena udibile, silenziosa come il fruscio di sottili tende, in una notte inquietante. Non gli piaceva quando la gente decideva al suo posto o non gli dava l'opportunità di farsi sentire. Proprio per niente.
E lei lo sapeva bene – l'albina piegò la testa da un lato.
Come a volersi nascondere, socchiuse le palpebre e ruotò lo sguardo ambra. «Hmmm, sì. Il punto è che... il festeggiato è Ichiro Fukanishi. Capisci cosa intendo?».
Arrivato a quel punto, il biondo aveva due possibilità: comportarsi da fidato amico o lasciarla affogare in una barbosa serata. La tentazione gli solleticava l'anima mentre dalla sua bocca già fuoriusciva un pesante sospiro, una boccata d'aria in quella stanza tiepida.
«Mi devi un favore», articolò, alzando il mento verso il soffitto. «Un grosso favore».
E dalla curva sghemba che piegò l'angolo della bocca sottile e pallida, Yuki aveva persino già una mezza su come sdebitarsi; esatto, il loro rapporto era basato forse soprattutto sul dare e avere, uno scambio equivalente ed equilibrato: niente di terribile.
A loro detta, era semplice logica.
«Bene bene», sussurrò. «Grazie».
«Perché sei così restia ad andare a questo ballo?», chiese Takeshi, scandendo lentamente le parole mentre premeva la schiena alla testata del letto. Aveva preso posto al lato dove l'albina dormiva – inconsapevolmente – e, dopo aver strofinato le dita sulla pelle delle braccia, aveva pian piano preso... diciamo, familiarità con l'ambiente.
Yuki piegò un sopracciglio chiaro sull'occhio e trattenne un ringhio – al solo ricordo di quel lercio insetto.
Notando, con un certo rammarico, gli sguardi incuriositi, chi più chi meno, di Takeshi e Sayumi – il vampiro già conosceva la storia – cominciò a raccontare.
«Adesso capirete perché reputo la mia vita un continuo incontro di poltiglia».
Era accaduto un anno fa. Mancava un po' di tempo al trasferimento nell'attuale città e la vecchia casa – quella ove Yuki aveva passato dai tredici ai quindici anni – era piena di scatole traboccanti e di gente isterica. Il ritorno nella casa dell'infanzia delle due mezzosangue le aveva prese alla sprovvista ma, da brave creature sovrannaturali, avevano indossato la maschera del “Ah, okay”.
Ma prima di continuare l'impacchettamento, doveva avere luogo una di quelle cene più di interesse che di socialità.
Ichiro sorrideva come se, davanti alle iridi smeraldine, avesse il giovane corpo di un'umana, dal caldo e denso sangue. Con l'acquolina in bocca.
«Yuki, giusto?», aveva detto. «Oppure, “il volto dell'irritante perfezione”. Certo, ha senso».
Quel disgustoso soprannome se lo sarebbe portato fino alla fredda tomba che avrebbe funzionato come un letto eterno. Spoglio e freddo, schifosamente adatto.
Era arrivata l'ora della cena.
La tavola abbondantemente servita e decorata, con una lunga tovaglia bianca dai ricami eleganti e dettagliati: i calici trasparenti con, all'interno, stuzzicante e oscuro liquido scarlatto; portate, con un intervallo di qualche minuto, che avrebbero fatto strabuzzare gli occhi, probabilmente, a chiunque.
Una cena che avrebbe potuto concludersi pacificamente, con qualche tirato sorriso di circostanza e tanti saluti – invece. Invece, durante il dessert, la coscia appena scoperta dalla gonna lilla e il ginocchio carezzato dal bordo della tovaglia avevano sentito del gelo, abbastanza improvviso da farle alzare lo sguardo, grave, alla sua destra.
Eccolo.
«Con quel sorriso idiotissimo stampato in faccia», sputò Yuki, stropicciando l'espressione quieta in puro e reale ribrezzo, mentre stringeva le mani in pugni ferrei.
La punta delle dita di Ichiro, quei polpastrelli bianchi e gelidi, premevano impercettibile sulla pelle nuda. Oh, l'avrebbe ucciso.
«... l'hai ucciso? Non è che andrete ad un funerale?», mormorò Sayumi – la mezzosangue scosse il capo, dispiaciuta.
«No», le palpebre si erano calate giusto un secondo sugli occhi, poi si erano sollevate e le labbra incurvate. Sì. Verso la fine del racconto, diventava tutto molto più piacevole. «ma diciamo che, per un po' di tempo, credo che sia stato una specie di antenna satellitare». Persino Tetsuya sembrava sul punto di ridere fragorosamente, ma la mano che poggiò contro la bocca riusciva a reprimere bene l'ilarità.
«L'hai elettrizzato!», Takeshi boccheggiò, biascicando le parole come se la lingua gli fosse stata attorcigliata intorno ad un palo. Da una parte, provava quasi pena per quel vampiro; dall'altra, era talmente felice di avere una ragazza del genere! Pff.
Non doveva nemmeno preoccuparsi di aspiranti corteggiatori. Yuki arricciò una lunga ciocca albina all'indice, lasciandola rimbalzare leggermente sul petto. «Se l'è meritato».
«Mi stai dicendo che», e Takeshi dovette cercare di non sorridere troppo. Con la bocca aperta e piegata, lasciava scoperti una fila di denti lindi. «friggi a puntino ogni povero malcapitato che ti sfiora?».
Lo sguardo della mezzosangue brillò teatralmente nella stanza illuminata dal lumicino. Piegò la schiena in avanti e poggiò i gomiti sulle cosce, le punte delle dita sfioravano le ginocchia e il suo viso, con la sinuosità di un serpente, si avvicinava quatto quatto all'umano – guardò dentro le sue iridi. Così belle...
«Friggo chi lo merita», disse, come che stesse canticchiando una cantilena. Le sopracciglia si alzarono un poco. «Chissà, magari lo meriti anche tu».
«Dovrei preoccuparmene?». Il tono del ragazzo, nonostante la premessa di Yuki, non era né spaventato né particolarmente attento alla prospettiva – leggero e basso.
«Dimmelo tu».
«Posso dimostrarti che non dovrai farmi cose simili».
«Un po' mi dispiacerebbe».
Takeshi avvicinò il viso a quello di lei – le punte dei nasi si sfioravano di un centimetro. «Sadica~».
Fu il tossire sgraziato di Sayumi a riportare la coppia sul pianeta terra, in Giappone, a casa Akawa – nella stanza dell'albina – e a farli retrocedere, chi con la schiena, chi con il viso, come se fra di loro stesse intercorrendo lava ardente, bufere di neve e terremoti. Insomma – lontani.
Yuki e Takeshi guardarono prima il vampiro biondo che restituì l'occhiata, solo più confuso. Un po' come se stesse chiedendo: “Beh?”, perché non era stato certo lui ad interrompere quello scambio di occhiate, sorrisi e frasi di ardente intesa. Allora, rigidi, guardarono Yumi – lei aggrottò la fronte. «Un po' di contegno», gracchiò, storcendo la rosea bocca in una smorfia di disappunto.
Hm, Yuki sapeva che aveva ragione. Perché lei, il contegno, ce l'aveva – Takeshi no, probabilmente. Lui, contrariamente alla mezzosangue, continuava a tenere le iridi sul viso corrucciato della ragazza, come se volesse scuoiarla con gli occhi.
«Quindi», bisbigliò lui. «Vabbene se non è davanti a qualcuno?».
E Sayumi, allora, si strinse notevolmente nelle piccole ma solide spalle, incassando persino la testa. Quella domanda era così... strana. Impudica, oserebbe dire. «Immagino... di sì».
E già mentre la sua bocca si muoveva per articolare la risposta – già sentiva un po' di dolore, al petto impercettibilmente pulsante.
Poi accadde tutto in grande fretta. La stessa persona che era stata l'ultima a prendere familiarità col posto, scattò in piedi come una giovane e prestante molla e afferrò entrambi i polsi di Yuki – scattante, volò verso la porta della camera.
«Allora facciamo un gioco!». La sua voce era già diventata un eco mentre varcava la soglia e spariva dalla stanza della mezzosangue – un tifone al sapore dell'imprevedibilità.
E Sayumi, sospirò.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL'AUTRICE:
Well.
Omg.
Perché mi sembra come se fosse passato un secolo e mezzo dall'ultimo aggiornamento? :o

Non so se esserne felice o meno, ma vbb. X”
ALLUR-- Takeshi vuole vestire i panni dell'Enigmista, E' QUESTA LA VERITA'.
… lo chiamate voi lo psichiatra o faccio io?

VBB.

 

Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 4
*** Un ballo al chiarore della luna. ***


 

Danziamo, pensando alla felicità, pensando alla soddisfazione di guardare dall'alto in basso tutti loro.

Tetsuya.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un ballo al chiarore della luna

 

 

 

 

 

 


 

 

 

Era incredibile ma, alla fin fine, la sensazione che pareva percorrere la pelle di Takeshi era quella di essersi infiltrato in un labirinto contaminato e bastava prendere una strada sbagliata che si sarebbe scontrato irrimediabilmente con il Minotauro. Non sarebbe stato carino.
Oh, accidenti, non voleva certo dire che Oseroth Akawa fosse una creatura del genere – sarebbe stato un eufemismo; ma doveva essere chiaro che lui non aveva paura di quell'uomo, di cui ignorava il preciso DNA, ma solo leggero, irritante e bruciante... disagio. Era come se la lama di una ghigliottina stesse oscillando sopra al suo collo, invitata.
«Take, devi davvero smetterla di trascinar----», l'albina dovette richiudere la bocca visto che non voleva finire col mordersi la lingua biforcuta e farsi un poco male. La serrò come una porta blindata e guardò l'ampia schiena fasciata dalla stoffa grigia della giacca. Non era la sua schiena ciò che voleva vedere. «Ehi, coso».
A quel punto, il moro parve aver preso una decisione – si voltò per rivolgerle un ghigno sghembo. «Sì, Hitler?».
«Puoi illuminarmi sulla tua decisione di fare dieci metri in dieci secondi?», brontolò Yuki. Lui lasciò scivolare via le dita dal suo polso e lei ne approfittò per incrociare le braccia al petto. Storse la bocca e lo studiò con le pepite d'oro incastonate. Era davvero strano, quel tipo – guarda caso però, quel tipo era il suo ragazzo.
«Stavo pensando che sarebbe divertente fare un gioco».
«Okay, enigmista, quindi la tua idea di gioco sarebbe... ?». Al suono di quelle nocivi sentenze, le sopracciglia di Takeshi spiccarono verso l'alto, latenti dai folti capelli scuri. Erano più scompigliati, con quell'improvvisata scappata – ma poi, dovevano fermarsi proprio lì?
Dalla passerella destra, avevano percorso le due piccole rampe di gradini ed erano arrivati fino alla sinistra e adesso se ne stavano immobili, a lanciarsi battutine e occhiate, davanti alla porta che conduceva allo studio di Oseroth. Che, probabilmente, era proprio lì.
Non ne era sicura. Non sapeva cosa facesse, nella giornata.
Yuki avvicinò il pollice e l'indice alla giacca del ragazzo e afferrò un morbido pezzo di stoffa – lo tirò, storcendo l'espressione. «Comunque, è meglio non restare qui. Andiamo altrove».
«Anche in fretta», disse Takeshi.
La mezzosangue aggrottò la fronte e la sollevò, per poter incrociare lo sguardo con quello del ragazzo. Ed eccola là, quella sinuosa e ammaliante sfumatura che gli illuminava le iridi caramello, un agglomerato di dolcezza che ti mandava in confusione ogni parte del corpo – stomaco e cervello, petto e istinti.
Allora, lei chiuse gli occhi e la gamba sinistra si tirò indietro, poi anche la destra. «Sai che facciamo? Andiamo... lì». Stese il braccio verso l'ultima porta a sinistra: un legno scuro, quasi pece, ma lucido pareva scoraggiare ogni visitatore. Eppure l'albina aveva bellamente deciso di indicare con l'affusolato indice la stanza – Takeshi ne aveva seguito la direzione con lo sguardo.
Poi ci erano entrati, in quella stanza, lasciandosi alle spalle una festa notturna.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Forse... forse sono qui».
«Cosa ti spinge a volerli cercare tu, in questa immensa casa che vedi per la prima volta?».
Okay.
La parte negativa della faccenda – oltre al dettaglio che non erano mai rimasti soli, probabilmente – era che Tetsuya aveva pienamente ragione; un passo dopo l'altro, una man al mento e l'espressione pensierosa a decorarle il roseo viso, Sayumi non sapeva più come raccapezzarsi. Se continuava così, sarebbero arrivati fuori dalla residenza.
Però diamine, quel tono talmente saccente poteva anche risparmiarselo!
«Ma... uhm», un mugugno senza futuro era scivolato dalla bocca dell'umana dai vaporosi capelli rosati. L'indice era premuto contro il labbro inferiore e a volte picchiettava mentre, girovagando con lo sguardo turchino, guardava da una parte all'altra, setacciava vagamente gli angoli in penombra.
Una casa talmente enorme per quattro persone e qualche inserviente... faticava a capacitarsene.
«Dove pensi possano essere?», chiese lei, senza guardarlo: molteplici motivi. Era come se quelle iridi violacee, dalle tonalità fredde e vitree potessero, in qualche modo, trafiggerla da parte a parte – era una sciocchezza, lo sapeva anche lei. Che c'entrasse, forse, la sua natura di vampiro?
Ecco, un'altra sciocchezza – ultimamente non faceva altro. Anche alla gita scolastica, quando aveva chiamato la mezzosangue albina “manichino”, senza considerare le sue reazioni, i suoi sentimenti... poi non avrebbe potuto lamentarsi se lei non confessava nulla. A quel punto, visto che di azioni intelligenti sembrava essere priva, tanto valeva trovare Takeshi e spiattellargli quei sentimenti – confusi e annebbiati.
«Se è Takeshi a condurre», la voce, ridotta ad un sussurro, del vampiro. «non ne ho la più pallida idea. Se è Yuki... penso di poterlo immaginare facilmente».
«Vi conoscete da tanto?», chiese la voce di Sayumi, quasi autonomamente, altrettanto bassa e inudibile.
«A Settembre saranno tredici anni». Improvvisamente, Tetsuya si scoprì a voler tornare indietro nel tempo. Voleva appoggiare le dita su uno stupido e insulso tasto da quattro soldi e camminare all'indietro, fino a giungere a poco dopo il loro incontro, quando si sentivano talmente legati da non poter vivere l'uno senza l'altra.
Chissà se era ancora così – lei era cresciuta; rapidamente, splendidamente, e il suo carattere anche, purtroppo precocemente. Se l'era goduto il periodo prima dell'adolescenza? Tetsuya sentiva la risposta scorticargli il cervello come un tumore.
No.
«Sì, direi che è tanto tempo», sussurrò. Poi, anche il suo sguardo ruotò e ruotò, fino a raggiungere quello di Sayumi. Che bell'umana, pensò, accarezzando con le iridi i lineamenti delicati e le lunghe ciglia nere, che sfarfallavano allibite sopra i mari d'estate. La vide sorridere, un fuoco d'artificio su una distesa pacifica.
«Mi sarebbe piaciuto conoscerti tredici anni fa', Tetsuya».
E il vampiro si disse che sarebbe piaciuto anche a lui.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Immersi fino alla punta dei capelli dal buio pesto e più totale, loro non smettevano comunque di nuotare nell'oscurità di quella strana stanza, cercando accuratamente di salvaguardarsi da spigoli e mobili intralcianti; mano nella mano, pelle contro pelle, freddo contro caldo, lui si lasciava condurre da lei, non senza irrigidire i bicipiti e i muscoli dell'addome marcato. Com'era giusto che fosse, temeva di scontrarsi contro qualcosa di poco confortevole – e al contempo, era fiducioso. Lei ci vedeva e anche bene, ne era talmente certo da stupirsi. Forse stava cominciando ad amalgamarsi con quell'eccentrico sistema innaturale.
«Non riesco a capire dov'è che stiamo andando», fece Takeshi, arricciando le labbra e abbassando le sopracciglia scure sugli occhi. Ed era strano che fosse stato lui a parlare, tra i due, segno che era davvero confuso.
«E' un bel posto», rispose l'albina, sorridendo al vuoto, continuando a dare le spalle al moro per proseguire – sollevò delicatamente una gamba. La pianta del bianco piede toccò il legno rassicurante e familiare di scale, scale che aveva percorso per tante di quelle volte... !
Poi, con la mano libera, toccò il corrimano che si incurvava come una spirala – quelle scale a chiocciola davano un po' i brividi.
«Adesso saliamo delle scale», disse e, con attenzione, si voltò verso di lui, senza lasciargli la mano nemmeno per un attimo. Latente, un sorriso brillò sulle labbra sottili di Yuki, come lo spicchio della mezzaluna, che sembrava voler vantare l'arrivo di qualcosa di meraviglioso.
«I tuoi occhi non si sono ancora abituati, al buio?».
Lui scosse lentamente il capo – poi, ridacchiò. «No, non ancora».
«Sei proprio problematico», Yuki sospirò teatralmente, uno sbuffo gelido a solcare le sue labbra. «Vorrà dire che dovrò pensarci io, a te». E se il suo tono fosse stato realmente serio, comunque lui avrebbe notato che, sotto sotto, non sarebbe mai stato un problema. Occuparsi di lui, il povero umano inciampato gravemente nell'anormale, raccoglierne i resti se avesse dovuto.
Beh, lui sperava che Yuki non dovesse mai farlo, a dirla tutta – fece un passo e anche lui toccò il legno. Sembrava stabile.
«Vieni», la mezzosangue indietreggiò per salire sul gradino appena dietro, ci appoggiò una porzione del tallone e aspettò un secondo, prima di rendere più salda la posizione; poi, allungò l'altra mano per afferrare quella di Takeshi e lo incitò a fare un passo avanti, a raggiungerla – voleva condurlo con sé. Come una maliziosa e ammaliante sirena, con quei suoi strani capelli che l'avrebbero strozzato, che avrebbero preso il suo collo per renderlo suo, tutto suo: era suo.
Non ci misero molto a raggiungere il posto tanto desiderato dall'albina, era solo complicato camminare nel buio senza inciampare e, soprattutto, ruzzolare giù dalle scale. Specie perché il suo percorso sinuoso dava un po' di vertigini, nel tentativo di starsene dritto: solo gli sporadici raggi della luna, alta nel cielo notturno e costellato, riusciva ad illuminare la loro storta via.
Una soffitta. Decisamente impolverata.
Ma, c'era qualcosa – qualcosa di strano, sì, ma di bellissimo. Chissà se era l'atmosfera in sé; la tenue luce azzurrina che filtrava dalla minuscola finestra contro la parete, illuminando con il suo fascio un pezzo di quel pavimento scricchiolante, le ragnatele incastrate negli angoli oscuri, lucide e bianche, bauli, scatole ed ogni sorta di oggetto dimenticato dagli Akawa – risiedeva lì. Senza un'anima e un destino.
Doveva essere brutto, non avere un destino.
«Questo è sempre stato... quando avevo sei anni, amavo venire qui di giorno, in estate specialmente. Ho continuato a rifugiarmi qui, senza un motivo, perché ai tempi le cose andavano piuttosto bene».
Yuki tacque.
Il suo sguardo se n'è stava lì, posato su quella finestra, da cui Takeshi poteva immaginare una piccola e solare bambina albina guardare fuori e magari, dentro di sé, desiderare ardentemente poter toccare i raggi del sole. A costo di ferirsi.
Ma forse sbagliava, lui non poteva saperlo.
«Poi», la vide scostare le iridi ambra, oscurate dall'assenza di luce artificiale. Ora, non guardava niente. «Ad undici anni, ho cominciato ad odiarlo». Takeshi non diceva nulla. Con la bocca chiusa e gli occhi su di lei, senza un apparente sentimento ad infestarli – attendeva.
«Sai, sin dalla prima volta che vidi Tetsuya... », e nel suo tono c'era una sfumatura di nostalgia trasognante e persa a vagare, per l'eternità, nei suoi meandri. «... probabilmente, provai qualcosa. Ed è strano, perché ai tempi ero una mocciosa, una mocciosa strana, credo. Ad undici anni però, avevo la certezza che non era solo “qualcosa”. Era abbastanza. Ma, come avrei dovuto immaginarlo io stessa, non era reciproco».
Lui chiuse i pugni e abbassò lo sguardo. In silenzio.
Yuki fece spallucce, abbozzando una leggera e malinconica risata. Ed era orrendo, perché lei non faceva quel tipo di risate. «Beh, penso proprio di averlo scioccato. Un bel giorno, in inverno, gli dissi che lui non poteva essere il mio migliore amico – o qualcosa di così stupidamente simile. Sarebbe stata una fregatura per me, mpf», guardò Takeshi con la parvenza di un sorriso. «Lui mi guardò e mi disse che ero pazza. Che non poteva in alcun modo essere di più, non con me».
Forse avrebbe dovuto essere più chiaro, perché ai tempi ero facilmente distruttibile, avrebbe aggiunto, magari con un'altra amara risata echeggiante nella gola, dolorosa come un porcospino arrabbiato – ma stette in silenzio. Ad ascoltare i battiti cardiaci di quel ragazzo.
Scandivano il tempo come un orologio a pendolo, quei cosi assurdamente inquietanti che, di tanto in tanto, incontrava nelle stanze della residenza. I suoi battiti erano rassicurante. Erano dolci.
«Facevo bene a trovarlo antipatico», ecco cosa disse, Takeshi. Imbronciato e con la bocca tutta storta, l'espressione corrucciata e persino un tantino infastidita – era proprio un infante, con quella faccia.
E lei credette di non avergliela mai vista addosso.
«Che grandissimo idiota», continuò lui, poi si voltò verso l'albina – fece qualche passo verso di lei, ovattato dallo scricchiolare del legno antico. La vide aprire gli occhi con sorpresa e dubbio, le braccia stese lungo i fianchi erano indecise se incrociarsi dietro la schiena o starsene lì – il suo sguardo s'incrinò. «Adesso, però, hai me. Ti basto?».
Il suo tocco era talmente delicato e gentile da ricordarle lo sfogliare delle pagine di un libro; le dita della mano sinistra arrivarono alla vita stretta e l'accarezzarono, strofinandosi sulla leggera stoffa della veste violetta, mentre quelle della destra cercarono la mano dell'albina – si intrecciarono come sottili fili rossi.
Lui sorrise. «Non che tu abbia molta scelta, in ogni caso». Yuki rise, rise alla grande, anche a costo di svegliare Kukuri o qualsiasi altro ghiro, in casa.
Sì, effettivamente, lui le bastava eccome.


 

 

 

***

 

 

 

 

Non voleva farlo.
Mai – e poi mai! – avrebbe detto “Certamente”, né imbronciata com'era solita essere, né sorridente; questo non era dovuto solo alla sua indole ribelle e alla certa soddisfazione nel rifiutare tutte le richieste da parte dei suoi genitori o del Consiglio.
Era un rifiuto fisico, morale e psichico.
Tutti conoscevano, chi meno, chi più, il carattere contorto che l'albina Akawa possedeva, eppure non accennavano a comportamenti un tantino meno falsi, approfittatori ipocriti; con questi pensieri per la testa, Yuki si era seduta sullo sgabello di pelle nera, davanti alla scrivania di camera sua. Le iridi erano incollate con insistenza contro il vetro, a guardare il proprio riflesso baciato dai raggi solari arancio che filtravano poco distanti – dalle lucide finestre –, cercando un qualche difetto nel suo aspetto.
Non c'erano.
Era fisicamente perfetta, plasmata ad arte: eppure, ciò che vedeva, lo trovava orrendo. I passi di Kukuri, che apparve alle sue spalle, distolsero la sua attenzione. Le mani erano occupate da una spazzola e una trousse. Con un sorriso, chiese allegramente: «Siete pronta? Sta notte entrerete nella società!».
Yuki incurvò la bocca verso l'alto, ironicamente. «Non vedo l'ora».
La cameriera si lasciò sfuggire un risolino, posizionandosi davanti alla ragazza per studiarne i lineamenti impeccabili – attenta, divertita. Incrociò le braccia al petto e si sfiorò il labbro inferiore con l'indice sinistro. «Cosa potrei fare~».
Come può essere così felice?, pensò Yuki, contraendo il viso in un espressione infastidita e u n tantinello angosciata.
«A proposito», esclamò Kukuri. «Quali casati vi parteciperanno?».
«Beh, Akawa», un leggero sospirò aleggiò sulla bocca pallida, presto colorata di qualche tinta. «Osawa, Tanigawa, Ichinose, Tachibana e... non saprei. Non ricordo tutti i loro stupidi cognomi».
«Avanti!», Kukuri si spostò dal suo posto per andare alle spalle della mezzosangue e, con delicatezza, infiltrò le piccole dita fra i filamenti argentei. «Pensate positivo. Magari trovate qualcuno di interessante».
Il sopracciglio chiaro dell'albina si piegò contro l'occhio; interessante? Non lo escludeva a priori, se proprio doveva ammetterlo, ma nemmeno osava provare una tale speranza, un sogno del genere – qualcuno non troppo preso agli affari. O agli incontri combinati.
Insomma, stupidaggini del genere si insidiavano fra una piacevole chiacchiera e l'altra, come vermi striscianti.
«Se trovo qualcuno di interessante», borbottò. «Dovrò essere capitata nel ballo sbagliato. Ma va', Kukuri, che idiozie farnetichi?».
Vide la ragazza inclinare la testa di lato, con uno sguardo innocente negli occhi. E allora sospirò, ancora una volta. «Iniziamo, va'».

 


 

 

***

 

 


 

Quando ebbe varcato la soglia di casa, si trovò a ringraziare mentalmente la cameriera per aver insistito ad indossare un mantello; non che sentisse realmente un freddo che la costringesse a coprirsi, ma non faceva mai male mettersi al riparo – gli schiaffi del vento graffivano le guance appena rosate.
Con l'animo più leggero, camminò in direzione della carrozza, nascosta nella parte più centrale di quell'enorme vegetazione; per recarsi alla residenza Fukanishi avrebbero usato una seconda via, passando per le vie celate dal verde oscuro del bosco. Sarebbe stato un tantino appariscente, fuori in strada, appena fuori dal cancello.
S'inoltrò silenziosamente, scostando con le mani guantate i rami che apparivano come braccia denutrite.
Ah, come le sarebbe piaciuto trovarsi lì con Takeshi, era talmente bello. Con il cielo tempestato di minuscoli e preziosi diamanti, con uno sfondo talmente scuro da parere nero – la luna brillava fulgida. Con quella sottile brezza pungente, che l'albina percepiva ben poco, con lui che l'avrebbe abbracciata per riscaldarla: ignaro.
Oh, beh, meglio tornare con la testa al momento o sarebbe stato ancora più ardua, come serata da trascorrere; accelerò il passo quando scorse poco distante il veicolo, di un nero lucido e brillante.
«Yuki!», la voce femminile e aggraziata di sua madre le carezzò l'udito, richiamando la sua attenzione. Lo sportello destro era ancora aperto, aspettava solo la mezzosangue. «Fa' in fretta!».
Di fronte alla sollecitazione, Yuki aggrottò appena la fronte, umettandosi le labbra gelide – improvvisò una corsa, scomoda dai tacchi. Non erano particolarmente alti, appena cinque centimetri, ma se bisognava correre si facevano sentire, quei bruti.
Con un respiro – un po' rassegnata –, raggiunse la carrozza e prendendo di slancio la mano porta da Sebastian, salutandolo con un sorriso, entrò dentro. In silenzio religioso, prese posto proprio davanti ad Oseroth, la cui figura sembrava volersi unire alle ombre dell'interno del veicolo, con il suo mantello nero e l'espressione rigida; Kazumi, invece, era deliziosa come sempre ma, Yuki doveva proprio dirlo – o pensarlo, insomma –, quella sera in maggior modo. I capelli rossi scendevano in sinuose onde lungo la schiena, oscillando ai fianchi – l'albina non riusciva a vedere bene l'abito, ma sembrava su un rosa chiaro - e il colore dorato dei suoi occhi scintillava come una lucciola.
«Tetsuya?», chiese.
Il sonoro schiocco delle stringhe avvisò i tre che la carrozza incominciava a muoversi, con calma, verso l'uscita del bosco. Yuki scostò la tendina rossa con l'indice e guardò fuori, beandosi le iridi ambra della fredda oscurità. «Sta aspettando direttamente lì».
E ci credo, dicevano i suoi pensieri, frattanto, avrei fatto lo stesso, anche se il rischio di incontrare quell'idiota di Ichiro fosse stato del 1000%.
Kami-sama, se provava disgusto, ribrezzo, puro odio nei confronti di quella creatura! Quando le sue orecchie sentirono il sospiro della vampira, spostò finalmente lo sguardo su entrambi gli adulti: prima sul demone, poi su di lei. Oseroth, le braccia incrociate all'ampio petto, guardò di traverso la moglie; aveva un modo di nascondere le sue preoccupazioni o qualsivoglia sentimento che faceva concorrenza con la Mona Lisa, già. A volte, poteva sembrare che non amasse nemmeno la sua famiglia – e invece!
«Ascolta», disse, mentre concentrava la sua attenzione sulla figlia – l'albina alzò le sopracciglia.
Oh-oh, quindi aveva la lingua?
«Mi aspetto molto da te, questa sera», disse lui. «E' il tuo debutto nella società dei vampiri e dei demoni. Mi aspetto molto, ripeto». Si scostò il pesante mantello dalle spalle e riprese, con calma e naturalezza: in altre parole, gelido come un iceberg. «Per cui, approfondisci il tuo rapporto con il primogenito dei Fukanishi».
Yuki si strozzò con la saliva – tossì, coprendosi la bocca. Poi gli lanciò un'occhiata perforante, inceniritrice... sconvolta.
L'udito di creature come quelle era dieci volte più sviluppato e amplificato, la possibilità che avesse sentito male era pari a zero – aveva sbagliato lui? Meglio riformulare la domanda: si può sbagliare un'intera frase?
«Vuoi che... », sotto gli occhi apprensivi della madre e quelli inaccessibili del padre, appoggiò la schiena allo schienale. «... davvero? Cioè, parli sul serio?».
Oseroth si lasciò andare un sospiro, quasi sconsolato. «Certo. Approfondisci quanto riesci. Abbastanza da portarci a pensare al vostro matrimonio, a fine serata».
Matrimonio.
Quella parola rimbalzò fra le quattro pareti, improvvisamente troppo strette per quei tre, e l'albina ebbe l'impressione che avesse prodotto un eco – Kazumi si era girata verso il marito, di scatto. «Hai battuto la testa contro uno spigolo, per caso, mio caro?». Ecco una cosa che avrebbe potuto far cadere le aspettative di una decina di uomini: Kazumi Akawa non era poi tanto gentile come sembrava. O meglio, non lo era perennemente, senza eccezioni. La mezzosangue taceva, stringendo la bocca in una morsa ferrea. Non si aspettava un aiuto da parte sua, era così...
«E Tetsuya? Lui è un ottimo partito!».
Come non detto.
«Kazumi, non ti ci mettere anche tu».
Che bella luna, sì sì, pensava la povera, malcapitata figliola.
«Fukanishi Yuki. Suona bene!».
«Come no!», esclamarono entrambe, la fronte contratta e il tono di chi sperava di aver sentito male – poi si guardarono, stupite. Yuki espirò un soffio gelido, prima di tornare contro il dorsale e fissare il soffitto. Interessantissimo. Tutto nero.
«Senti... », esordì. «Non obbedisco ad una tua richiesta – o ordine, chiamalo come vuoi – da quando avevo undici anni. Undici. Ti aspetti che ne esegua una adesso?».
E poi, e poi... lei aveva Takeshi. Lei aveva quel meraviglioso, mentecatto distruttore dagli occhi caramello fuso e l'amore più gentile di intere galassie. Mettere a confronto Takeshi con Ichiro... le veniva da ridere, al solo pensiero.
Incrociò lo sguardo dell'uomo. Sorrideva, sornione. «Non è che me l'aspetto. Non mi aspetto poi tanto. Devi farlo. Non c'è scelta».
«Siamo arrivati!», gridò la voce del cocchiere. Il rumore secco degli zoccoli contro il terreno era la prova che, ormai, erano davvero giunti davanti alla luminosa e festaiola residenza. Stava per cominciare.
Yuki scrutava Oseroth.
I suoi occhi carmini erano privi di emozione, di anima?, e ricambiavano lo sguardo senza esitazione, fermi; accerchiati e incorniciati da ciglia nere come l'ebano, le palpebre battevano lentamente. Odiava ammetterlo – ma si assomigliavano fin troppo.
«Questa discussione la finiremo una prossima volta, okay?», la voce di Kazumi destò la figlia dalla sua feroce contemplazione, mentre si apprestava a scendere dalla carrozza.
Yuki indirizzò lo sguardo sulla madre e poi tornò al demone – la sua testa si scrollò.
«Non ce n'è bisogno. Lo farò».





NOTA DELL'AUTRICE: 
Aaaaah, ho fame. 
Aloha, svitati del mio cuore, come va? Rileggendo, finendo di scriverlo, correggendolo... mi sono resa conto di non aver dedicato una descrizione decente per Kazumi, ugh. Devo assolutamente rimediare, sì. 
E niente. Hmmm. Viva Connor Walsh, YEEEH. (?) 



Night, ovviamente, con affetto.

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Capitolo 5
*** La tana del lupo. ***


 

La rabbia spazza via come un tornado la tristezza.
Per questo la preferisco.
Yuki.

 

 

 

 

 

 

 

La tana del lupo

 

 

 

 


 


 

Perché l'aveva detto?
Era chiaro sia a lei che alla madre, per quanto poco parlassero, che non avrebbe approfondito un bel niente e, casomai, avrebbe gettato ogni rapporto nel water – per essere elegantiKazumi aveva assottigliato le palpebre e le labbra si erano fatte distanti per mostrare denti inferociti – ma si era limitata a muovere le labbra: come un bambino che prova a scandire una parola difficile.
Oseroth ne era stato piuttosto lieto.
Nell'inquietante quiete di una famiglia in totale disaccordo, avanzarono verso l'entrata che brillava di un'abbagliante
luce dorata: all'interno, un vociare rumoroso e contento esplodeva, insieme a forti risate.
Yuki, intanto, girava con lo sguardo per individuare il suo accompagnatore biondo – ed eccolo là, la schiena contro il muro; gli occhi erano persi a guardare lontano ma senza risultare vacui o assenti, bensì concentrati e scrupolosi; i capelli biondi non erano stati acconciati in particolare modo, eccetto dietro il capo, dove erano stati ingellati.
Con il lungo soprabito scuro e la parvenza dello smoking nero sotto, era davvero elegante. Una delizia per gli occhi. 
Un cenno ai genitori – e s'incamminò verso di lui.
Le sue mani erano inforcate nelle tasche del soprabito mentre la gamba sinistra era accavallata all'altra. In un certo senso, quella posa sembrava contribuire. Ed ecco che, in un soffio di nostalgia e frammenti di memoria, l'immagine di un esile ma amabile e piccino vampiro biondo si affacciò nella sua testa, schiacciando con dolcezza qualsiasi altro pensiero, ricordo – sorrideva nostalgica, una vampata di calore. Oh, ricordava ogni minimo istante, ogni parola e respiro tremante del loro primo incontro.
Quando nella mezzosangue nacque quello che era stato amore.
«Monsieur, sta per caso facendo finta di non sentirmi o vedermi?», sussurrò – le sue dita toccarono il braccio sinistro. Tetsuya ruotò il capo verso la sua dama e si specchiò nei laghi di oro fuso, arcuando un angolo della bocca in un sorriso dubbio. «Mi sembra un po' inquietante. Sentirti parlare così, intendo».
Le palpebre di Yuki si socchiusero come le saracinesche di un ristorante; quel suo modo di fare calmo e sicuro di sé, senza sfociare nell'arroganza, l'avrebbe riconosciuto tra mille. Affascinante e irritante al contempo.
«Bla bla bla», biascicò lei. «Ma guarda, come ti sei messo in tiro».
«Senti chi parla». Lui rise leggermente.
«Mpf. Sono normale»
Al suono di quelle poche, contate parole, le schioccò un'occhiata divertita e si mosse, lasciando che il soprabito venisse spostato dal vento; le sue mani guantate andarono al suo viso, lo presero fra le dita – le iridi rosa scuro guizzavano energicamente. Un sorriso faceva bella mostra di sé sulle sue labbra.
«Che... », Yuki sussurrò, stordita. Tetsuya si avvicinava, i suoi occhi fissi sulle pallide labbra socchiuse, sorprese: sentiva il respiro del vampiro su di sé. E soprattutto, le gote accendersi violentemente, come semafori di uno sgargiante rosso. Lui non smetteva di sorridere, mentre strofinava gentilmente il pollice contro il suo zigomo e le punte dei loro nasi si sfioravano delicatamente, quasi accarezzandosi. A momenti si sarebbe persa nello strano colore di quei occhi... «Sei meravigliosa, lo sai?».
E quando Yuki pensò seriamente di perdere battiti cardiaci, si sentì tirare la carne delle guance come elastici.
Aggrottando la fronte, provò a parlare. «Shme... ti... shubito!». Si divincolò, afferrando le mani di Tetsuya con le proprie e gettandole via in malo modo. Fece qualche passo di lato e poi lasciò la schiena aderire contro il muro.
Con le guance arrossate ancora di più, borbottò. «Sei davvero strano».
La risata di Tetsuya, probabilmente, l'avevano sentita fin dentro – già, ormai erano tutti là. Gli ci volle qualche secondo prima di smettere per davvero e concedersi un colpo di tosse, breve. Si rivolse all'amica inclinando il capo in avanti, lasciando che i lunghi ciuffi biondi sulle guance si scompigliassero un minimo. «Ho come l'impressione che il viaggio fin qui sia stato un po' come saltare in una vasca di piranha». Yuki annuì, più volte.
«Hai colto nel segno», disse. «Indovina, quale è stato il motivo?».
Tetsuya aprì la bocca per tentare la sorte ma lei, irritata ed esterrefatta, scattò. «Mio padre vuole che io approfondisca il mio rapporto con quel viscido, lurido, idiota, lussurioso di un Fukanishi!».
Il vampiro batté le palpebre. «Con... il figlio?».
Macché, con il padre, che avrà un cinquecento anni per gamba, l'avrebbe detto ad alta voce e pure urlando se non avesse un dolore fisso alla testa – raro, ma quando arrivava, arrivava – e affetto per il suo migliore amico.
Chiuse le mani a pugni serri.
«E tu cosa... hai risposto?», domandò Tetsu, piano.
Lei sospirò. Già. «In primo luogo, mi sono ovviamente rifiutata. Ma poi... non chiedermi per quale malato motivo, ma ho detto di sì». Sul viso del vampiro comparve la stessa identica espressione sconcertata e stralunata che aveva avuto lei, al suono delle sue stesse parole. «Scherzi».
«Magari!», esclamò l'albina, aprendo le braccia – per poi farle tornare lungo i fianchi. Alzò lo sguardo al cielo. «Comunque, mia madre non è d'accordo. Già, per lei, il mio futuro sposo dev'essere una persona slanciata, bionda e con gli occhi color ametista. Oh, e un atteggiamento da schiaffeggiare».
Il viso del vampiro si plasmò in un espressione divertita, profondamente divertita. «Sono desiderato come genero da Kazumi, entusiasmante». Beh, non gli sarebbe dispiaciuto, d'altronde... «Quindi? Che intenzioni hai?».
Che intenzioni aveva?
Affondare le dita nella tenera carne di quel pezzo di idiota di Ichiro poteva valere, come risposta? Se non fosse stato più in vita, non avrebbe dovuto più approfondire un bel niente – un toccasana. 
Anche Tetsu sollevò il viso contro la volta macchiata di nero, pensieroso.
«Cambierai il tuo cognome... in Tanigawa,
forse?».
Al ché, guardò la mezzosangue – lei aveva gli occhi fissi davanti. La vide incastrare un labbro nella morsa dei lindi denti e tacere, trattenere una risposta che nessuno dei due avrebbe voluto ascoltare.

Oh, ma perché doveva...
«Avere una moglie come te», lo sentì sospirare teatralmente. «sarebbe una sventura. Comincerei a chiedermi se non avessi compiuto un enorme peccato, nella vita precedente. Direi che mi dispiace per Takeshi».
Yuki si girò – e sorrise, scavando forsennatamente nei suoi occhi.
«Entriamo, prima che i miei inizino a pensare che siamo fuggiti».

 

 

 

 

***

 

 

 

Il casato Fukanishi, composto da tre figure in particolare, non era noto solo per l'alto prestigio che avrebbe potuto sfamare l'Africa; bensì per gli interni, le decorazioni sgargianti e sfarzosi il cui colore predominante era il dorato.
La società se n'era accorta più o meno all'istante.
Ed era risaputo che il primogenito, Ichiro, provasse un certo interesse – probabilmente superficiale, non spettava a loro giudicarlo – per la primogenita degli Akawa, Yuki, anche conosciuta come “Regina di ghiaccio” o “Il volto dell'irritante perfezione”.
Ed era altrettanto risaputo il secco rifiuto di lei.
Tutta la situazione era motivo di grasse risate per tutti – e come dar loro torto? Era alle stregua di una serie tv di cattivo gusto.
Subito dopo aver varcato le porte dell'ingresso, un ampio e mostruosamente illuminato salone, con una volta a cupola alta dieci metri, dava il benvenuto a chiunque vi ci mettesse piede. A donare tutta quella luce, abbagliante, era un esagerato lampadario da cui pendevano innumerevoli e minuscole gocce di cristallo: riusciva ad illuminare il soppalco che si ergeva alla sinistra della sala, gremito di persone. Alla destra, una lunga – anche infinita – tavolata era addobbata ad arte per servire un numero spropositato di ospiti, sparsi un po' in giro a parlottare
Yuki, un po' allucinata, strizzò gli occhi quanto più possibile.
«Scusatemi, volete affidarmi i vostri abiti?», disse un maggiordomo impacciato, avvicinatosi alle spalle dei due. Yuki gli schioccò un'occhiata e trattenne lo stupore – era un umano.
Guardandolo di sottecchi, si sfilò l'indumento, piegandolo e appoggiandolo sulle mani protese del ragazzo. Dai lineamenti dolci, si capiva che doveva essere di uno o due anni più giovane di lei. Quando prese anche il soprabito di Tetsuya, fece un inchino con la testa e si fiondo a passo svelto dentro una stanza sotto al soppalco.
Yuki indietreggiò vicino a Tetsuya. «Ehi, hai visto? Cosa diavolo ci fa un umano qui?».
«In effetti», rispose lui, con calma. «Non avendo mai partecipato ad un ballo, non puoi saperlo, ma solitamente... c'è sempre qualche umano. Come sacrificio, di solito. Però è strano che li facciano lavorare. Comunque... ». Il vampiro chinò lo sguardo sulla mezzosangue – intenta a metabolizzare la presenza di un sacrificio – e sorrise compiaciuto. «Non mi ero sbagliato: sei uno splendore».
Le guance di Yuki si colorarono; adesso che Tetsuya le aveva fatto un complimento così diretto, lei aveva spostato forzatamente gli occhi per la sala, – per evitare lo sguardo del vampiro – quindi aveva fatto caso agli altri invitati, che a loro volta avevano fatto fin troppo caso a lei.
Il suo lungo abito cobalto, con dei ricami di rose appena sotto il busto, alla cinta, scendeva ampio fino ad accarezzare il lucido pavimento di marmo; la mano di Tetsuya, privata dei guanti neri, andò a toccare il retro del busto intrecciato che finiva per percorrere il resto della spina dorsale.
Con le mani e buona parte del braccio – fino all'altezza del petto – fasciati da guanti bianchi di raso, si spostò una ciocca ondulata, lasciandola cadere di fianco al viso; il suo collo nudo e privo di spalline era agghindato da un bianco collier, mentre i capelli erano acconciati in un elegante coda laterale trattenuta da un fermaglio a forma di farfalla, viola.
«Troviamo i miei genitori», borbottò laconica. Senza rifletterci, prese la mano di Tetsuya e cominciò a camminare gettando occhiate a destra e manco – il suono dei suoi tacchi echeggiava nelle orecchie.
In teoria, quello era un ballo i cui gli invitati sarebbero dovuti essere unicamente vampiri ma, vista l'importanza, avevano fatto un eccezione per Oseroth – un demone, o meglio, uno sporco demone di bassi virtù – e neanche troppe storie.
Yuki non sapeva se quell'eccezione le facesse piacere o meno. «Eccoli».
Con una smorfia, si rese conto che stavano parlando con una giovane coppia di vampiri. Questo implicava che sarebbe stata presentata, e che avrebbero presentato Tetsuya come il suo “compagno”. E quelle persone avevano da ridire su ogni cosa, figurarsi sugli uomini definiti “compagni” o sulle donne “compagne”...
Quindi si fermò – di scatto.
«Ehm, ripensandoci», disse, con un sorriso tirato che storceva un po' la bellezza del suo viso. «Potremmo, non so, andare da qualche parte».
Tetsuya guizzò con gli occhi dagli Akawa a Yuki, per poi alzare un sopracciglio e inarcare l'altro. «Mi stai proponendo di appartarci?». Yuki batté le palpebre e scosse la testa con grinta, mettendo in serio rischio i capelli elegantemente acconciati
«Dannazione, no!», esclamò. Si passò la lingua fra le labbra. «Voglio dire... l'idea di parlare con tutti questi vampiri non mi entusiasma. Voglio allontanarmi».
Il vampiro fece un sospiro profondo, come se avesse davanti un caso disperato – alzò leggermente le spalle.
«Va bene», mormorò; in un'unica mossa, lasciò scivolare il braccio sinistro sul fianco destro dell'albina, nel momento in cui entrambi ricominciarono a camminare.
«Quella mano non è necessaria», sibilò lei, socchiudendo gli occhi – ah, oggi era proprio una tragedia!
Ma lui continuava a bearsi di sorrisi dannatamente messi a dura prova, si sarebbe messo a ridere – guardando davanti a sé, ridacchiò. «A giudicare da chi sta venendo da questa parte, mi sembra di sì».
Allora, le iridi ambra indispettite e provocate, si decisero a spostarsi da quel punto vuoto e a guardare davanti, anche lei: un ragazzo slanciato camminava verso loro. Era avvenente – eppure.
Eppure, c'era qualcosa di assolutamente irritante e contorto, nella sua camminata placida e nel suo aspetto allettante; i capelli che sembravano le onde di un mare giallo platino e gli occhi dal taglio felino e sottile, smeraldini e luccicanti.
Gli abiti bianchi, sgargianti.
Yuki dovette fare appello a tutte le sue forze per non fare dietrofront.
«Ich... », sgranò gli occhi. «... Ichiro!».

 


 

 

***

 

 

 

«Akawa Yuki, la mezzosangue», esordì Ichiro. «Quale onore. Non ci speravo neanche più».
Yuki si guardò bene dal rispondergli nel suo usuale modo, con la lingua biforcuta e un diavolo per capello; odiava ammettere una tale assurdità, ma conosceva quel vampiro abbastanza bene da sapere com'era il caso di rivolgersi a lui – se il suo tono era giocoso, bisognava assecondarlo. Accontentarlo.
E in quel momento, parlava in modo calmo ma lieto. Lei si strinse nelle spalle nude e guardò il vampiro, con un acciglio enigmatico. «Non avete bisogno di sperare».
Lui sorrise contento – con freddezza palpabile, roteò lo sguardo su Tetsuya; la fronte leggermente contratta, ma con una sfumatura elegante, e la bocca chiusa in un espressione che non pareva essere molto felice.
Yuki lo squadrò, alzando un sopracciglio.
'sto tizio cambia espressione non appena batto le ciglia, pensò, altro che Kazuki.
«Tetsuya», sibilò Ichiro. «Quanto tempo. Felice di vederti vivo e vegeto. Almeno te, nella tua famiglia».
«Ci credo». I due vampiri biondi si studiarono per quelli che sembravano ere geologiche, con le palpebre calate a tagliare gli occhi, gelidi; la netta diversità di colore – Tetsuya li aveva più sul paglia, mentre Ichiro aveva un platino vero e proprio – avrebbe potuto accecare anche qualcuno con gli occhiali di sole.
Sembravano così concentrati a lanciarsi occhiate di fuoco che l'albina, mordicchiando il labbro inferiore, fece un passo indietro per una tentata fuga - “non me ne vorrà”, si disse, nei confronti dell'amico.
«Ho parlato con i tuoi genitori», Yuki arrestò il piede a mezz'aria, celato dall'ampia gonna blu. Diamine. Lo vide girarsi per rivolgerle un raggiante sorriso mentre, incollati e feroci, sentiva gli occhi ametista di Tetsu addosso – ahi, ahi, ahi. «Aveva uno sguardo... strano. Sembrava felice».
Aggrottò la fronte, come se non riuscisse a spiegarsi una cosa del genere. «Posso immaginare la ragione, ma non posso darla per scontata». Fece una pausa. Sembrava aver dimenticato la presenza del giovane Tanigawa. «Che sia... hai deciso di dargli retta?».
Yuki sorrise appena. «A proposito di... ?».
«Il tuo ritiro dalla scuola umana», Ichiro fece per sorridere ancora, ma si fermò, cedendo il posto ad un viso leggermente contrariato. «e dagli umani stessi. Non riesco a trovare un solo buon motivo per stare ulteriormente in loro compagnia. E, per quanto ti suoni surreale, molti di noi attendono che tu entra ufficialmente – e subito – nella società. Lasciando da parte quella razza così... ». Aggrottò la fronte. «... insulsa? Miserabile? Inutile?»
Già, ci aveva preso in pieno: era surreale.
Al suono di quelle parole, non riuscì a fermare l'inarcamento del sopracciglio; alla fine, comunque, lei non passava questa grande quantità di tempo con gli esseri umani e, visto che loro non tentavano nemmeno l'avvicinamento... le possibilità si azzeravano in continuazione.
Anche se... - non era arrivata in quel paese solo per Tetsuya. Quando lui, da un momento all'altro, si era dissolto.
«Beh», cominciò lei. «Se vi può consolare, non ho particolari contatti con loro. Oserei dire di non averne affatto».
Tetsuya ebbe un leggero tremito, mentre girava la testa verso la mezzosangue e le sopracciglia, chiare come raggi solari, si alzavano impercettibilmente – cosa?
«Per quanto concerne il mio ritiro, non penso sia una buona idea renderlo immediato: desterebbe sospetti. Mi chiederete come possa il ritiro di una singola persona creare sospetti e... beh, non credo di essere vista di buon occhio», Yuki strinse le labbra, sospirando leggermente. «ma fanno caso, a me. Per cui, vi invito ad aspettare la fine di questi anni scolastici».
«Ci vorrà del tempo», osservò Ichiro – corrugò la fronte. Non aveva torto, l'albina.
Lei sorrise, inclinando il capo d'un lato e lasciando che qualche ciuffo della coda laterale scivolasse sulla guancia. «Non lo sapete? “Chi va piano, va sano e va lontano”».
Ichiro si limitò a qualche sospiro comprensivo, per poi prenderle la mano sinistra e portarne il dorso alle labbra, alzando lo sguardo smeraldo su di lei, intenso e screziato di sfumature. Con dolcezza, un bacio venne attutito dalla stoffa del guanto. «Adesso devo lasciarti, piccola, ma tornerò appena possibile».
Non ti disturbare, pensò gravemente, cercando di scacciare in tutti i modi possibili quei brividi algidi che percorrevano la schiena fasciata dal corpetto, toccando ogni vertebra, tagliando la pelle di porcellana – Ichiro fece un cenno col capo a Tetsuya e, lento, si allontanò.
«... schifosissimo, lurido, deficiente di un mentecatto, appiccicoso... ». Kami-sama, se Tetsuya stava ridendo! Ci mancava poco che si piegasse in due e trattenesse lo stomaco con le braccia – Kami!
Oh, avrebbe continuato a quel modo per tutta la lunga ed interminabile serata, approfondendo il suo dizionario di insulti, magari, anche grazie all'amico. In quel momento però non era molto utile.
Ridere delle sue sventure non era molto gentile, e che diamine. Solo una volta che furono nei pressi della coppia Akawa richiuse la bocca e smise di infierire, concentrandosi sul modo con la quale avrebbe dovuto... conversare – a malincuore.
«Cara», Kazumi posò una mano sulla spalla della figlia, preoccupata. «ho visto che hai parlato con Ichiro Fukanishi. Tutto bene?».
Ecco, Yuki sarebbe stata davvero propensa a sorrisi riconoscenti, per quella preoccupazione così carina!, se solo non fosse dovuta a... desideri della donna sul suo genero. Già.
«Uhm, discretamente».
Oseroth invece, dopo aver rivolto un sorriso di ghiaccio a qualche persona, si avvicinò alla figlia con una punta di eccitazione a brillare nelle iridi. «Allora? Come è andata? Ti è sembrato ancora interessato a te? Dobbiamo preoccuparci del tuo vestito?».
Adesso capiva cosa intendeva Ichiro. “Strana felicità” - diciamo pure pazzia.
Mi sembra un adolescente innamorata dell'amore, pensò.
Lanciò un'occhiata tormentata a Tetsuya, guadagnandosi un'alzata di spalle, per poi tornare al padre. «C-ci ho parlato per appena qualche minuto», borbottò. «E non mi guardare così. Non sei tu la sposa!».
Il demone fece una smorfia indispettita e si allontanò dalla ragazza di un solo passo, mentre Kazumi reprimeva una risata con qualche colpetto di tosso.
«Oh, a proposito», esclamò. «Venite, Yuki, Tetsuya: vorrei presentarvi gli Osawa».
Yuki guardò la madre. «Gli... Osawa».
«Sì. Uno dei casati più influenti e in più sono davvero simpatici, delle delizie!».
«... che bello».
«Magari sono davvero delle delizie», cantilenò Tetsuya, sfiorando la schiena della mezzosangue con i polpastrelli; lei gli lanciò un'occhiata piuttosto eloquente – ma tu guardalo.
Kazumi gettò qualche occhiata intorno a sé e poi, con un leggero sussultò, sorrise e indicò quattro persone. Sembrava stessero camminando proprio dalla loro parte; una donna sorridente, un uomo allegro, e due ragazzi: una femmina e un maschio.
Uhm, allegria, eh?, pensò Yuki, adocchiando le espressioni dei due.
Non c'era molto distanza e, in men di qualche attimo, li avevano davanti. Yuki poté appurare che – come ci si aspetta da vampiri – erano di una bellezza limpida e davvero piacevole; lei, con i soffici capelli castani acconciati in un chignon e gli occhi che erano come tuffarsi nel cioccolato. Sembravano piuttosto seccati.
Il corpo era fasciato dall'elegante abito indaco scuro, con l'unica bretella a circondare la spalla sinistra – la scollatura a cuore lasciava intendere un petto generoso. Alle braccia, lunghi guanti bianchi. Le iridi ombra osservavano senza tentennamenti quella ragazza – apparentemente, era l'ombra dell'indifferenza. Dentro l'anticamera della mente, si chiedeva se anche lei non si sentisse come all'interno di una gabbia di leoni.
«Buonasera, signori Osawa», la voce di Kazumi era energica e dolce, sembrava molto felice di vedere quei quattro – ma perché, poi.
«Buonasera a voi, signori Akawa», rispose la donna – Yuki dedusse essere la madre dei due ragazzi –, affiancata al ragazzo: anche lei sembrava preferire un bagno nell'acido tossico.
«Lui è mio marito, Oseroth Akawa», disse Kazumi, carezzando la schiena del demone la quale esibì un sorriso cordiale; non gentile, non emozionato all'idea di fare nuove conoscenze.
Cordiale.
«Io sono Kazumi», disse poi, poggiando la mano sulla spalla di Yuki. «Questa ragazza è la nostra figlia maggiore, mentre il ragazzo è il suo accompagnatore, Tetsuya Tanigawa».
I due simularono un inchino.
«Lieta di fare la vostra conoscenza», cinguettò la donna. «Il mio nome è Miwa mentre lui», e rivolse lo sguardo, affettuoso, gentile, all'uomo che le era vicino. «è Hiroyuki. Mio marito».
Poi, come se stesse trattando con tesori di inestimabile valore – come se non esistesse niente di più bello al mondo – le sue dita toccarono la spalla del ragazzo e sorrise. «Questi due giovani sono i miei figli, Kyo e Mitsuki».
Kyo e Mitsuki – erano i loro nomi: erano fratelli?
Difficile da credere, difficile come verità. Anche se, beh, belli erano belli entrambi; lui, con la sua fisionomia slanciata e, probabilmente, una notevole muscolatura, aveva i lineamenti tipici di chi stava per diventare un adulto, un miscuglio di dolcezza e spigoli scolpiti ad arte – occhi e capelli scuri, i primi profondi come il cielo di notte.
Aveva lo sguardo un po' distante, quasi trovasse tutto quello incredibilmente soffocante. Una penitenza per un peccatore.
Che Kyo Osawa avesse commesso una grande colpa?








NOTA DELL'AUTRICE: 
Non riesco a credere che siamo arrivati fin qui. 
WOW. I'M SO FELICE E SORPRESA.Btw, ci vuole una bella e minuscola precisazione riguardo Mitsuki e Kyo Osawa; questi bei tipetti così rotti di palle di stare a 'sto ballo di Mr.Mlmlml, non sono miei purtroppo, bensì di Sae Morinaga alias la mia caVa persona amata, Aisuruhito, Sensei e Hime, oh. (?) 

E siccome voglio farlo, vi racconto come accadde. Un bel giorno, mentre ce ne stavamo a casa della sottoscritta a fare robe che non ricordo, decidemmo di punto in bianco che i quattro deficienti di Vampire Devil avrebbero dovuto conoscere i due di Hika to Kage. E voi non potete nemmeno lontanamente immaginare come saranno legati, questi qua. Eheh.
Vbb, mi fermo qui. 

Night, ovviamente, con affetto.


 

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Capitolo 6
*** La perpetua rabbia di una mezzosangue. ***


 

 

Tu che disarmi, tu che vivi e respiri: arrenditi.

Ichiro.

 

 

 

 

 

 

 

La rabbia perpetua di una mezzosangue

 

 

 

 

 


 


 

«Fammi capire... ».
Gli Osawa, alla fine della fiera, si erano rilevati soggetti gradevoli ed educati, al netto contrario di Yuki che, guardando le espressioni poco felici dei due giovani Mitsuki e Kyo riusciva a stento a trattenere ondate di risa. Ci voleva una gomitata nel costato, a turno, di Tetsuya e Kazumi, per darsi un contegno.
Accidentaccio – però erano davvero carini.
E come ulteriore punto, c'era l'importante fatto che si erano congedati abbastanza in fretta da lasciare l'albina e il biondo in pace, fra di loro, e potersi allontanare per raggiungere la tavola infarcita. O meglio, Tetsuya aveva trascinato Yuki fin là. La sua faccia era decisamente innervosita – di punto in bianco, poi!
«... quei due si sono infiltrati qui?!». Ed ecco magicamente spiegato il nervosismo dell'amico. In mezzo secondo. Adesso, però, pareva molto più rilassato, con il calice fra l'indice e il medio – una farfalla era forgiata nel mezzo, con le ali richiuse – e il sangue fresco che ondeggiava da una parte all'altra, come una piccola nave che cavalca le onde.
La mezzosangue lo guardava, le palpebre a tagliare la pupilla e l'iride. Cercava di auto-convincersi che quei due non ero così idioti da... gettarsi nelle fauci di bestie affamate! 
Non era possibile. Era completamente insensato.
«Dannazione», digrignò i denti. «Dannazione, dannazione!». E senza nemmeno farci caso, aveva alzato il tono della voce, stringendo fermamente i pugni guantati. Le unghie avrebbero bucato la stoffa di raso.
Con lo sguardo basso al lucido pavimento, vide le punte delle scarpe di Tetsuya farsi avanti e poi – le sue mani sulle spalle nude. «Capisco cosa provi», disse. «Sto seriamente meditando di massacrarli, ma per ora... ».
Yuki ruotò lo sguardo, angosciata, irata, con gli occhi stancamente socchiusi – e nel profondo della sua coscienza, stupita. Quel suo amico si stava davvero affezionando a quegli idioti? Non l'avrebbe mai detto.
Ma d'altro canto, si parlava di Takeshi Katugawa e Sayumi Ichinomiya: coloro che scioglievano dolcemente i cuori altrui. Entrambi – anche se in campi differenti – avevano adempiuto ai loro compiti.
«Ti hanno mandato un messaggio o cosa?», chiese, piano, sospirando. Tetsuya lasciò scivolare le sottili dita sulle braccia lattee, fino a staccarle e portarle nelle tasche dei pantaloni. «E' stata Sayumi».
Era proprio da lei.
Se fosse stata una ladra o qualcosa di simile, avrebbe mandato una sottospecie di avviso.
«E ti hanno detto i dettagli del loro geniale piano... ?».
Il vampiro scosse mestamente la testa. «No, ma se li conosciamo bene... ». E guardò di sottecchi la giovane mezzosangue che aveva ruotato il busto e allungato un braccio alle sue spalle, a recuperare il suo calice. Yuki sbuffò.
«... avranno intenzione di travestirsi», bevve un lungo sorso, reclinando il capo indietro.
Che razza di idioti. Quasi fossero a Carnevale!
Ho già abbastanza gatte da pelare, pensò, lasciando il calice sul tavolo. «Qual è il piano?».
«Il piano sei tu che ti giri e mantieni la calma».
A questo punto, l'albina non seppe se preoccuparsi o stupirsi, o se fare entrambe le cose – ma a quale dare la precedenza? Fatto sta che le sue palpebre batterono, le ciglia lambite dal mascara si toccarono. Allora, il vampiro biondo, sollevò il pollice destro e indicò poco sopra la propria spalla.
E Yuki sbiancò.
A proposito di gatte da pelare. «Oh, no».
«E invece sì», replicò Tetsu – meglio non ridere. Con un passo la raggiunse e l'affiancò, per poterle circondare rassicurante le spalle con il braccio sinistro. «Mentre tu ti occupi della prima piaga a cui sono state concesse le gambe, io cerco di estorcere informazioni con metodi-- ».
«Illeciti, spero».
«Ovviamente». Con una pacca sulla spalla e un sorriso ad illuminargli il viso roseo, Tetsuya staccò il braccio e si allontanò a larghi passi da Yuki. Riusciva a sentirne la pressante sensazione di disagio mista a profonda rabbia, raccapriccio. L'idea di stare vicino ad Ichiro Fukanishi le bruciava i neuroni, le mandava il sangue al cervello, i muscoli si scioglievano sotto la pelle. Ma doveva farlo.
Per quei mentecatti.

 

 

 

***

 

 

 

L'allettante idea di restarsene lì, alla tavola col buffet, era davvero stuzzicante; ma la consapevolezza che difficilmente quel tipo sarebbe riuscito a raggiungerla, preso com'era da rivolgere sorrisi e saluti a destra e manca, si disse che era meglio incamminarsi. Afferrò pesanti lembi dell'abito e li sollevò da terra quel poco che le bastava per non inciampare e camminò, celere, verso un compatto mucchio di vampiri.
Gli stavano intorno come mosche armate, risucchiando il profumo alle rose che rendeva la sua presenza ancora meno sopportabile. Quel tipo era talmente egocentrico e sgargiante che, sebbene fosse accerchiato, la sua figura si notava all'istante – allora, pregando per i suoi capelli, piegò la schiena e s'infilò nella folla. Come se quella che stesse percorrendo fosse una miniera, camminò allungo, schivando gomiti e mani volanti, fino a giungere – dannatamente – proprio dinanzi a lui.
Wow.
Che fortuna.
«Piccola!», Ichiro sorrideva radiosamente, dando vita a piccole e graziose fossette ai lati della bocca. Con un gesto rapido e istintivo – si suppone –, si fece avanti e prese le dita della mezzosangue, sollevandole leggermente. «Finalmente. Ti aspettavo».
Primadonna, pensò lei. E sorrise. «Avevo capito che mi avreste raggiunta voi stesso».
Ichiro ricambiò la docile curva e le lasciò una mano, tenendo in ostaggio l'altra. Come un trofeo.
«Signori, ho urgenza di disquisire con Yuki Akawa», disse. «Vi chiedo, per cui, di lasciarci andare per un po'».
Un coro di scuse e assensi inondò i due – i presenti annuirono e lanciarono occhiate incuriosite. Avvoltoi affamati di notizie, ormai stanchi della loro perpetua e monotona vita da immortali: Yuki non poteva biasimarli del tutto.
Quando finalmente furono “soli”, – d'altronde, erano pur sempre ad un ballo – lei si apprestò ad alzare la testa, per guardare in volto Ichiro che, forse, si era reso conto del disagio per lei e aveva reclinato il capo nella sua direzione. E detto fatto, si guardavano negli occhi. Oro e smeraldo.
Lei si disse che doveva raccogliere la sua attenzione in tutti i modi possibili. Che non doveva per nessuna ragione al mondo allontanarsi da lei e dare l'okay per il sacrificio. In quel caso, numerosi domestici avrebbero cominciato a disperdersi, ad azionarsi, per raggiungere i sotterranei e trascinare gli umani rinchiusi. In quel caso, anche Sayumi e Takeshi avrebbero dovuto lavorare – e non potevano correre il rischio che il loro squisito odore arrivasse ai vampiri.
Solo pensare a tutto questo le faceva venire i brividi dalla nausea.
«Allora», Ichiro sorrise. «posso chiedere l'onore di questo ballo?». In quell'istante, lei si rese conto che la sinuosa ed ipnotica melodia di vari strumenti – violini, soprattutto – era cominciata, aveva catturato la sala e un'atmosfera di silente eleganza si era instaurata.
Osservò Ichiro e la sua mano, con la coda dell'occhio, protesa verso di lei; non voleva farlo, non voleva toccare nemmeno la stoffa dei suoi guanti bianchi, quella vicinanza la rendeva già abbastanza lercia. Eppure – la prese.
Le sue dita lunghe si intrecciarono alle proprie e spinsero la mano verso di sé, come a volerla costringere a farsi più vicina – la sporcizia strappava il tessuto del corpetto. Non si oppose, non si ribellò. Nemmeno quando sentì la sua mano appoggiarsi al fianco, spingere tutto il palmo contro di esso.
«Balli benissimo», i suoi sussurri parevano quelli del Diavolo; stessa malizia, stessa acerba furbizia. Era quasi doloroso.
Yuki avrebbe voluto che suonassero più forte, più violentemente, a costo di spaccare i timpani e far tremare i vetri – almeno, non avrebbe sentito quello là –, farli cedere sulle loro teste: si chiese dov'era finito Tetsuya. Aveva un dannato bisogno di lui.
«Oh? Ah, vi ringrazio... », rispose, distrattamente, spostando gli occhi dalla sua spalla per guardarlo negli occhi e concedergli, forzata, un sorriso. Beh, lui doveva essere troppo stupido per capire quali fossero i reali sorrisi e i falsi.  Le era andata bene, a questo punto.
«Sembri distratta», disse Ichiro, inclinando la testa d'un lato, cercandone le attenzioni con le iridi smeraldine, brillanti quanto le pietre stesse, annebbiate dal suo interesse per la mezzosangue – era quasi folle.
Yuki si specchiava in quello sguardo familiare e disgraziatamente, non c'era neanche uno spicchio di decenza; allora, aprì le labbra per mormorare qualcosa, giustificare la sua distrazione in qualche modo. In quell'istante, la melodia bassa della musica virò.
«Hanno cambiato», sorpresa, gettò un'occhiata verso il quartetto.
La musica che avvolgeva la sala, ora, sembrava in preda ad una fuga, con i brividi di freddo a pervadere gli stati d'animo: sembravano spaventati. Era fin troppo veloce e, soprattutto, fin troppo improvviso.
Ichiro strinse la mano unita a quella di Yuki – e lei, tornò a guardarlo.
«Ascolta bene ciò che sto per dirti», sussurrò, a fior di labbra. Continuava a guardarlo.
«Cosa... ». Nel momento in cui piegò la testa verso l'orecchio sinistro dell'albina, scaglie verdi squadrano la sua espressione – era turbata. Turbata mentre sentiva le parole solleticarle l'orecchio. Mentre, pizzicata, sentiva le dita strette sempre di più da quella morsa.
Al suono di quelle parole, i suoi occhi si sgranarono come risucchiati nella sclera. Si sollevarono leggermente, aspettando che lui tornasse con il capo alto. «Non può essere vero», sibilò, Yuki. Il pavimento vorticava, girava, ruotava pazzamente. Non si sentiva...
Ichiro ridacchiò sottovoce, scuotendo la testa. «Ma mia cara», rise, ancora e ancora. La sua risata echeggiava come una maledizione senza fine dentro le orecchie. «Tu sei la prova vivente che tutto può accadere. Non esistono le menzogne, viviamo nella realtà, d'altronde. Una realtà strana, pensandoci. Se esisti tu, Yuki... è davvero ambigua».
Lei guardò in basso, verso le punte delle scarpe che continuavano a ruotare, insieme a quelle di Ichiro – ed era più una farsa.
«Non ti preoccupare», disse. «C'è una soluzione. Devi solo fare come ti dico».
Yuki sentì un terremoto dentro, uno tsunami annegare la calma e una valanga di magma sotterrarle il cuore. Ed erano emozioni così belle, istinti così selvaggi e crudeli... che si sentiva una meravigliaSemplicemente, una meraviglia. «Bene, c'è una soluzione. Ci penserò dopo alla soluzione, per ora ti spaccherò in due».
Ichiro sollevò il mento, scrutò nelle iridi di oro sciolto – no, l'oro era andato. Erano fiamme, decorate dalla sua ira, che si muovevano come matte, che combattevano per mangiare la pupilla affilata come la splendida lama di una katana.
I suoi occhi lo stavano uccidendo.
Chi era la preda, fra i due?
«E' inutile», disse il vampiro – ma non era poi tanto certo. «Ho saputo. Ultimamente stai avendo problemi fisici. Che dispiacere». La compassione parve guizzare sui lineamenti delicati del suo viso come un enorme parassita ma, appena un istante dopo, era stata sostituita dal solito lampo di divertimento.
«Voglio mostrarti qualcosa», disse. Staccò la sua mano destra dal fianco di Yuki, continuando però a tenere stretta la sinistra a quella di lei, le dita intrecciate – lei inarcò le sopracciglia, strinse le palpebre.
Quando si trattava di Ichiro Fukanishi, c'era da farsi mille domande, c'era da avere mille dubbi. Andarci cautamente.
E, mentre salivano le scale a chiocciola che conducevano al soppalco, ora più svuotato, Yuki sentiva che quella non era una mossa cauta, proprio per niente; d'altro canto, doveva distrarlo il più possibile e magari farsi dire qualcosa – il ché, in realtà, sembrava impossibile. Ichiro non l'avrebbe certo aiutata.
Non volontariamente.
«Siete di fretta?». Ichiro dovette fermarsi e l'albina per poco non gli andò a sbattere contro. Ecco, l'ennesimo vampiro imbellettato, con tanto di sorrisone sporco e dita impegnate – a reggere un bicchiere, a tenere una civetta per un fianco. Ichiro fece un sorriso, disse qualcosa e poi, in mezzo secondo, riprese a camminare e a trascinarsi dietro Yuki.
«Visto che ci siamo, perché non mi lanci direttamente verso la nostra meta? Sai com'è», ringhiò, sottovoce, scostando la gonna dalle punte delle scarpe. «mi sento tipo come un sacco di patate».
Il vampiro rise leggermente, spingendosi fino ad una porta; sebbene l'esterno facesse credere ad un posto ristretto, un lungo e stretto corridoio, illuminato da lampade a luce gialla, si estendeva fino a prendere una decina di metri – o più. Il pavimento era coperto del tutto da un infinito tappeto con disegni di mosaici dove il rosso era il colore predominante.
Una specie di pugno nell'occhio.
«Eccoci», esclamò, fermandosi di scatto davanti ad una parte del medesimo colore lampeggiante, in fondo al corridoio – l'ultima stanza, l'ultima porta. Yuki era davanti a quella porta e alle sue spalle Ichiro sembrava scalpitare un po'. La guardò, aggrottando la fronte. «E quindi?», sbottò, incrociando le braccia al petto.
Poi, un braccio fasciato da stoffa bianca spuntò al suo fianco, appoggiandone la mano sul pomello – la porta fece un suono.
Era aperta.
Lei si limitò ad allungare il collo per sbirciare un minimo ma, francamente, non osava entrare in quella stanza. L'unica certezza era che doveva esserci una finestra, aperta, perché uno spiffero d'aria fredda arrivava fin lì – come una scia di polvere. E nonostante il fitto buio dell'interno, i suoi occhi scorsero all'istante le tende scarlatte e i divani, decorati da tanti cuscini... a forma... di cuore.
Oh, porca p---, d'un tratto, era già dentro.
Mani avevano spinto la sua schiena e l'avevano fatta incespicare contro qualcosa di lungo e massiccio, fino a farla cadere pesantemente sul divano, contro lo schienale. «Kami-sama, la tua eleganza-- », tra un imprecazione e l'altra, si massaggiava il naso.
Chiedendosi perché dovesse respirare lo stesso ossigeno che rubava quello lì – sollevò gli occhi fino alla sua figura, ferma alla soglia della porta; baciato dalla luce esterna, che contornava la sua figura, i suoi contorni, sembrava una specie di Diavolo in procinto di cibarsi. Immobile, a guardarla, con un sorriso affilato sulle labbra. Chissà se poteva diventare ancora più inquietante...
«Che accidenti vuoi, me lo spieghi?», fu il ringhio che uscì, prepotente e sincero, dalla gola della mezzosangue. E forse ci voleva una domanda per invitarlo a smuoversi da lì e, se proprio voleva, sedersi di fianco a lei; si chiuse lentamente la porta alle spalle, facendole emettere un cigolio raccapricciante – e poi, si gettò seduto sul divano.
«Uhm», fece Ichiro.
Seduto e con il capo reclinato indietro, a lasciare scoperto il bianco e virile collo, continuava a non parlare, a lasciare Yuki su un letto di spine. Eppure, le sue intenzioni si percepivano chiaramente – nonostante questo, non poteva arrostirlo: non ancora. 
Era un'amicizia comoda e, alla fine della fiera, fin quando i suoi amici non avessero fatto una brutta fine... non aveva niente contro di lui. Solo disgusto. Era colpa di quei due idioti se stavano rischiando la vita.
«Lo sapevi?», sussurrò, nel buio, fievolmente sconfitto dalla luna alle loro spalle, curiosa. «Si dice che il sangue della persona amata sia quello che placherà la tua fame. Per sempre». Girò lo sguardo verso di lei e aspettò. Aspettò una risposta, una reazione, un espressione – una debolezza. 
Ma su quel viso così deliziosamente scolpito non c'era nulla, se non... noia? Era annoiata? Anche se era in pericolo e non avrebbe potuto veramente difendersi? Ad Ichiro venne sonoramente da ridere. Era sempre la stessa!
Ma adesso le avrebbe fatto provare la paura, la sensazione di non essere in grado di fare alcunché. Le avrebbe fatto capire com'è che stavano le cose.
Lentamente, sollevò la mano destra e affondò i denti al bordo del guanto, sfilandolo dai polpastrelli – e lo stesso fece con il sinistro; solo un'occhiata meritò quella mezzosangue, un'occhiata che cercava, ancora, di mettere in subbuglio il suo animo – e poi, si avvicinò a lei. Con le mani libere dal tessuto dei guanti, sganciò il collier che pendeva al suo collo – era così buono. Riusciva a sentire il profumo della sua pelle, del suo sangue.
La sentì trattenere il respiro.
«Beh, cosa ne pensi?», sussurrò Ichiro.
«Penso che sia un'idiozia».
«Ne ero certo».
Il collier le cadde in grembo, affondando nell'ampia gonna blu. Era chiaro quale fosse l'andazzo, erano chiare le intenzioni di Ichiro – cosa fare? Come comportarsi? Quale scelta le avrebbe permesso di non far affondare la reputazione degli Akawa?
Oh, se fosse stato per lei! Le cose sarebbero andate in un altro modo, la situazione sarebbe già chiusa nel fondo di una bara. Allora, gli buttò le braccia al collo, invitandolo a spingersi di più verso di lei – verso il suo corpo. «Il sangue è il sangue. Non cambia, a prescindere di chi sia... », e la sua voce era un sibilo sensuale all'orecchio, con un sorriso divertito ad alzare gli angoli delle labbra; si avvicinò a quell'orecchio, sfiorandolo, baciandolo – sentiva il respiro di Ichiro carezzarle il collo.
E poi, lui si allontanò e si sporse verso la bocca sottile – e poi, si fermò.
«Mi credi così stupido?».
D'un tratto, Ichiro si scostò bruscamente e la spinse contro la superficie del divano: forse non lo era poi così tanto.
Sdraiata e spaesata, batté le palpebre ed incrociò il ghiaccio delle iridi smeraldo, brillare nel buio, fameliche e infastidite.
Yuki si strinse nella spalle. «In realtà... sì».
«Sbagli. Uno sbaglio davvero grossolano». Si fermò, scostando lo sguardo verso la finestra. Sorrise leggermente.
«E credevo avessi buona memoria. Ti conviene farmi arrabbiare, cara... ?».
“Ho sentito che hanno trovato degli umani nascosti nei giardini, sai?”, non se n'era dimenticata, tutt'altro: era per loro che adesso era nella tana del lupo.
«Non passano nemmeno inosservati. Capelli rosa e occhi azzurri, bellissimo e moro con occhi scuri», continuò, aggrottando la fronte. «Che stupidi. Davvero, sono perplesso». Ichiro sapeva dove colpire. Ichiro non sapeva nulla di lei, eppure sapeva dove gli conveniva infilare i suoi artigli. Ichiro sapeva. E la cosa era talmente disturbante da farla sentire violata, sudicia – il raccapriccio le ruppe i lineamenti.
Non poteva nemmeno dargli torto, perché erano stati davvero degli stupidi, stupidi incoscienti che non avevano ancora capito dove diavolo si erano infiltrati, nella vita di chi avevano deciso di mettere piede.
«Pensi che mi interessi?», sussurrò.
«Penso di... oh, questo è il tuo primo ballo, adesso che ci penso. Quindi, forse, non lo sai, ma... ci sono dei sacrifici. Degli splendidi e gustosi sacrifici».
Yuki tremò.
Troppo forte per sperare che lui non l'avesse notato. L'aveva detto. Aveva capito tutto. Dannazione – stava mentendo. Un'infima bugia per impedirle di ragionare; farle credere che avessero catturato i suoi amici e che sarebbero stati il piatto forte della serata, solo per... spaventarla a morte. Solo per far sgorgare roventi lacrime dai suoi occhi.
«Prova a scapparmi e li faccio ammazzare», lei sussultò, battendo le palpebre sugli occhi ricolmi. Lo vide sfilarsi il fazzoletto dal bavero, aprire i bottoni della giacca per poi gettarla a terra – sbottonare quelli della camicia, lento, ora.
«Non ce la farai mai», ancora, ringhiò lei. «Nel frattempo che andrai a dare i tuoi ordini, io ti avrò già fermato».
Ichiro parve soppesare le sue parole, emulando un espressione di sorpresa e poi, un attimo dopo, di terrore e angoscia. La sua bocca si aprì leggermente e gli occhi si impietosirono teatralmente. Com'era sciocca!, se pensava che lui non avesse pensato a qualcosa per contrastarla – sorridendo appena, infilò la mano degli immacolati pantaloni. Una forma rettangolare e lucida splendette lievemente contro i raggi lunari.
Un cellulare.
«Eccezionale invenzione, vero?», e rise, ancora e ancora, sempre, con quella risata maledettamente irritante e compiaciuta – lui si divertiva; si divertiva, si sentiva soddisfatto di sé stesso a scorgere il panico, l'angoscia, in quella viziata di una mezzosangue; o forse perché riusciva così facilmente a colpirla?, quasi ella fosse un ridicolo vaso di porcellana, e avrebbe finito per farla sgretolare ai suoi stessi piedi.
Rideva, rideva.
Eppure, più lui rideva, più lei era certa di non voler fare quella fine – e che non voleva perdere quei due idioti. Sentiva la loro mancanza e ne sentiva le responsabilità. Sentiva la mancanza di qualcuno, una persona molto strana; aveva visto questa persona come una specie di meteorite, più luminosa della luna, più calda del sole.
L'aveva scambiata per un ragazzo. Ma si era sbagliata.
No.
«Perché?».
Ichiro smise di ridere – e guardò Yuki, le pepite oro acquose dalle lacrime.
«Perché... perché?», disse lui. «Perché sono annoiato, immagino. Perché sei divertente. E disarmi le persone, cara, te ne sei mai resa conto? Non possono ferirti, loro. Tu... ».
Inspirò l'aria fredda di Dicembre, si riempì i polmoni di quell'ingorda boccata.
«... sei solo una perfetta macchina da guerra, piccola».

 

 

 

 



NOTA DELL'AUTRICE:

Salve. Err.

Hm. Salve, sì. Riuscirò a comporre una frase di senso compiuto, mi chiedo? Pubblico un capitolo di VD dopo... quasi tre mesi, credo, non ne sono certissima... che dire... ?

Innanzitutto, mi scuso con chiunque avesse almeno un po' a cuore questa storia, chiunque volesse seguire Yuki e i suoi amici del bosco (?), chiunque volesse... boh, qualsiasi cosa, a questo punto. :'

Niente, in realtà vorrei ringraziare la mia kohai, la mia L o t t i e; vorrei ringraziarla per tutto, un po' tutto, ma questi sono discorsi che farò in privato con lei. Adesso me ne andrò bellamente a leggere la sua long, che damn, se mi è mancata – sono feliciah, gente.

ADDIO.

 

 

Night, ovviamente, con affetto.

 

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