Walk away - 2.0

di AnneC
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When's the day you start again? ***
Capitolo 2: *** Give me highs, give me lows. ***
Capitolo 3: *** I still don’t know where to start. ***



Capitolo 1
*** When's the day you start again? ***


 

Capitolo 1
*
When's the day you start again?


 
Quando si decide di mollare tutto e trasferirsi in un'altra città, non sei pienamente consapevole di ciò che troverai nella tua nuova vita. Abbandoni la tua casa e i ricordi legati ad essa, la tua famiglia, i tuoi amici e persino la persona che sei stata fino a quel momento. Molti dicono che hai la possibilità di essere diversa, diventare chi vuoi essere davvero, puoi creare una versione migliore di te stessa, ma chissà se sarà vero.
Fin quando un'hostess non ti riconsegna il biglietto aereo ed il tuo documento, vivi in una sorta di limbo tra la tua vita passata e quella futura. Ed è questa la situazione in cui mi trovo in questo momento.
Ho deciso di abbandonare l'Italia per andare alla ricerca di un futuro migliore, che non mi intrappoli in un lavoro sottopagato, che non mi soddisfi appieno, che mi permetta di essere autonoma economicamente e di non essere costretta a vivere con i miei fino ai trenta e passa anni. Certo, fra due giorni inizierò a lavorare in una caffetteria, ma spero che tra un mesetto abbia trovato qualcosa di meglio, o altrimenti resterò qui finché potrò permettermelo e poi ritornerò in Patria con la coda tra le gambe.
Ed eccomi qui, una ventiduenne in un aeroporto fuori Londra all'una di notte, ad aspettare che il nastro trasportatore mi restituisca il mio bagaglio sano e salvo. Nonostante sia già stata in questa che ora sarà la mia città, tutto ciò che mi circonda mi appare sotto un'altra luce, ma forse è dovuto solamente al fatto che siamo a gennaio e, a quanto pare, fuori sta per cominciare una bufera di neve. Ho scelto davvero un bel periodo per trasferirmi.
Anche se è notte fonda, l'aeroporto non è deserto: ci sono i viaggiatori del mio volo, giovani accampati in ogni dove che attendono i primi voli del mattino e un altro gruppo di viaggiatori provenienti da qualche città che non ho ben capito. Con al seguito il mio bagaglio integro, mi dirigo verso la fermata dei taxi, ma mi fermo poco prima della porta per infilarmi sciarpa, cappello e guanti e prepararmi all'idea che presto diventerò un pupazzo di neve. Non so se ho impiegato un'eternità per conciarmi come una befana, ma appena esco mi rendo conto che sono rimasti solo due taxi liberi. Cerco di correre, ma il trolley mi impedisce di accelerare quanto vorrei, e non solo rischio di cadere ogni due passi, ma arrivo letteralmente addosso a qualcuno. Mi scuso velocemente con la persona che ho urtato e,  mentre noto che uno dei due taxi si allontana, una donna impellicciata mi guarda storto dicendo qualcosa con un accento alquanto strano; la guardo dispiaciuta, qualunque cosa abbia detto e mi allontano con la speranza di accaparrarmi l'ultimo mezzo a disposizione. Riparte così la mia corsa folle e quando sono ad un metro di distanza dallo sportello, qualcuno mi precede e sale a bordo.
A questo punto, mi rassegno all'idea che passerò la mia prima notte londinese rannicchiata su una poltrona, aspettando che diventi giorno, ed allora faccio dietrofront con la testa china, come se mi stessi dirigendo al patibolo.
D'un tratto però lo sportello dell'auto si apre.
«Credo che debba prendere tu questo taxi».
«Dici a me?» chiedo voltandomi, ma d'altronde a chi potrebbe riferirsi se non c'è anima viva qui fuori.
«Sì, non è prudente passare la notte da sola in aeroporto» mi dice il ragazzo avvicinandosi.
«Ma l'hai preso per primo, io sono arrivata tardi» ammetto.
«Posso farmi venire a prendere da un amico» insiste. «Mi pare che tu non abbia alternative».
«Se è cosi, ti ringrazio davvero» gli dico, mentre il freddo pungente mi sta quasi congelando e lui fa cenno al tassista di mettere il mio bagaglio in auto.
«Grazie mille. Mi dispiace se rientrerai tardi a causa mia» aggiungo sincera mentre l'aria calda dell'abitacolo mi accarezza il viso.
«Non preoccuparti, ormai ci sono abituato» mi rassicura col sorriso sulle labbra.
Non so a cosa si riferisca, ma qualunque cosa sia mi ha fatto guadagnare un posto al calduccio. Quando l'autista si allontana dal marciapiede, lui è ancora lì che mi guarda sorridente e mi saluta con la mano ed io d'istinto ricambio.
Allora è proprio vero che in Inghilterra esistono ancora i gentiluomini. 

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Capitolo 2
*** Give me highs, give me lows. ***


 
Capitolo 2
*
Give me highs, give me lows.

Nonostante la stanchezza del viaggio, la scorsa notte non ho quasi chiuso occhio; non so se è dovuto al fatto che sono in un ostello sgangherato o da quel leggero senso di ansia che mi causa questa nuova situazione. Mi sono ritrovata a girarmi e rigirarmi nel letto, finendo ingarbugliata tra le lenzuola, con la mente sempre attenta e vigile; per un tempo che non sono riuscita bene a quantificare, il cigolio delle assi del pavimento del corridoio si è intervallato alle voci sconosciute che bisbigliavano oltre la porta, ed essere all’oscuro di ciò che stesse accadendo lì fuori, non mi ha affatto aiutato ad addormentarmi. Questa mattina, ai lati delle strade ci sono i cumuli di neve fresca, che la tormenta ha fatto cadere durante tutta la notte, e svegliarsi con la città imbiancata fa tutto un altro effetto. Ho sempre adorato il lato dinamico e all’avanguardia di Londra, ma la cosa che probabilmente mi piace di più è che nessuno si lascia condizionare dal tempo: all'improvviso comincia a piovere o a nevicare? Non importa, la gente continua a camminare senza darci peso. Ho provato ad adottare anch’io questo tipo di approccio, ma dopo qualche ora trascorsa a girovagare per le strade con numerosi fiocchi di neve che scendono dal cielo, ho cambiato idea. Così, ho deciso di raggiungere il Cafe 409, la caffetteria in cui comincerò a lavorare dopo pranzo.
Lungo il tragitto, ho trascinato controvoglia la valigia, pesante come se contenesse tutta la mia vita e i miei ricordi. Camminare per le strade, con questo carico così ingombrante, mi fa sentire un po’ spaesata: la preoccupazione di non sentirmi all’altezza sovrasta ogni altro pensiero, tanto che spesso mi capita di non capire pienamente la lingua che parlano quelli che mi sono intorno, come se non conoscessi affatto l'inglese; mi ritrovo spesso ad ascoltare i frammenti di conversazioni delle persone che incrocio, cercando di volta in volta la mia lingua madre e da quando sono in giro, è successo un paio di volte, ognuna delle quali mi ha fatto sciogliere il cuore, facendo scomparire il freddo gelido.
Il Cafe 409 è uno di quei locali che attirano lo sguardo dei passanti; non perché abbia colori sgargianti, ma ha quel tipo di atmosfera che ricorda l’aria di casa, quella calda sensazione che provoca il bere una cioccolata calda davanti al camino o quell’odore di dolci appena sfornati che riempie ogni stanza. Appena entrata, mi metto in fila per parlare con la cassiera e ne approfitto per dare un’occhiata in giro: due grandi vetrate incorniciano la porta d’ingresso, che si apre e si richiude senza sosta; sulla parete opposta, tazze variopinte riempiono gli scaffali, mentre una scala in legno conduce ad un soppalco, che ospita altri tavolini. Arrivato il mio turno alla cassa, l’odore di caffè e vaniglia che riempie l’aria si fa ancora più intenso; chiedo a Leslie, la brunetta che ho di fronte, dov’è l’ufficio del proprietario del locale e lei mi indica una delle tre porte alle sue spalle. Steve è un uomo sui trent’anni, dalla stretta di mano salda e col sorriso sempre sulle labbra; mi spiega i compiti che dovrò svolgere in caffetteria, che il mio primo turno comincerà tra tre ore e che, almeno per i primi tempi, non ho un giorno libero a mia disposizione.
Tutto sommato, non è andata male ed ho tutto il tempo di pranzare e di raggiungere quella che sarà la mia nuova casa. Ora fa ancora più freddo di prima, ma almeno ha smesso di nevicare; prendo la metropolitana e scendo alla mia fermata, alla ricerca del civico 237 di Victoria Road. Individuo il palazzo dai mattoni rossi e salgo al secondo piano, dove sul pianerottolo mi sta già aspettando il Signor Lewis, il proprietario dell’appartamento, che mi consegna le chiavi e mi dà il benvenuto nella mia nuova vita.
 
Il mio turno di lavoro comincia tra mezz'ora, ma sono già nello spogliatoio della caffetteria ad indossare la divisa e a scrivere il mio nome sulla targhetta con una grafia chiara ed ordinata.
«Tu devi essere Emma» dice una ragazza, facendomi sobbalzare. «Io sono Marisol».
Le stringo la mano, ma lei subito trasforma quel gesto formale in un abbraccio; mi sorride, muovendo su e giù le sue mani sulle mie braccia, come per riscaldarmi.
«Questo è il peggior periodo per lasciare il clima dell’Italia per trasferirsi qui».
«Come fai a...».
«Qui siamo come una grande famiglia», mi interrompe, «le notizie si diffondono in fretta. Ti conviene far attenzione, se hai un segreto».
«Me ne ricorderò» dico sorridendo e annuendo allo stesso tempo, come a mostrarle di aver afferrato il concetto. Mentre Marisol indossa la sua uniforme, mi racconta un po’ di sé: è spagnola ed ha sempre vissuto a Barcellona, è una ragazza dalla battuta sempre pronta e sprizza allegria da ogni poro, ha una risata contagiosa ed è tremendamente schietta, si è trasferita a Londra da circa tre mesi e da due lavora qui in caffetteria.
Dal momento in cui è cominciato il nostro turno, non abbiamo avuto tregua: i clienti affollano il locale, facendo sì che ci sia sempre fila alla cassa, mentre gli ordini si moltiplicano a dismisura. Per questa volta, Marisol si è offerta per preparare le bevande, vista la mia poca esperienza, ma a causa di questo continuo via vai di gente, corriamo senza sosta tra il bancone e i tavoli da ripulire. Per le cinque ore della durata del mio turno, non ho fatto altro che prendere ordinazioni, scrivere nomi sui contenitori da asporto e ascoltare più volte due parole italiane che perdono il loro accento: cappuccino, che diventa capucino, e latte, che diventa lattè. Credo che non ci farò mai l’abitudine.
Per fortuna, alle diciannove in punto, il locale si svuota e Marisol ed io finiamo di ripulire le ultime cose prima di chiudere la caffetteria.
«Quasi dimenticavo...» dice, subito dopo aver chiuso la porta d’ingresso. «Questa è tua» continua, porgendomi una copia delle chiavi della caffetteria. «Ti servirà domani mattina, nel caso in cui Paul faccia tardi».
Annuisco, stringendomi di più nel cappotto, che riesce a mala pena a schermare il freddo pungente, e ci dirigiamo insieme alla fermata della metropolitana, percorrendo parte del viaggio insieme. Marisol mi chiede di più della mia vita, delle mie passioni e dei motivi che mi hanno spinto a venire a Londra; le racconto dell’insoddisfacente mondo del lavoro italiano e delle opportunità che spero di trovare qui. Lei annuisce, condividendo ogni parola ed ogni speranza per un futuro migliore.
«Anch’io credevo che il lavoro alla caffetteria fosse qualcosa di temporaneo, una sorta di trampolino di lancio, ma poi mi sono affezionata così tanto a quel posto che non riesco ad immaginare come abbia fatto a vivere senza» confessa, con un’espressione felice sul volto. «Ho perfino smesso di cercare un altro lavoro» mormora, prima di salutarmi con un altro abbraccio e scendere dalla metro.
Io non so cosa aspettarmi dal futuro.
 
Il palazzo dove si trova il mio appartamento è silenzioso, così una volta entrata, ho la sensazione che abbia chiuso fuori una realtà troppo scomoda da accettare. Mi rifugio in casa, accendendo al massimo il riscaldamento e sfregando le mani tra di loro in modo da far circolare il sangue più velocemente; mentre aspetto che si scaldi il piatto pronto che ho comprato al supermercato, mi infilo una felpa sopra i vestiti, nella speranza di riuscire a proteggermi dal freddo. Accendo il televisore, portando il piatto e la bottiglia d’acqua in salotto, per poi cenare lì, seduta sul divano. Lo squillo del cellulare mi fa quasi andare di traverso l’acqua.
«Ciao, Emma. Come stai?».
«Ciao, Marta» saluto mia sorella minore, mentre un’espressione felice compare sul mio volto. «Qui va bene, tutto sommato» mi sforzo ad avere un tono allegro e soddisfatto, mentre ascoltare la sua voce non fa che allargare la voragine che sento aprirsi nel petto.
«Sicura di star bene?» domanda cauta e, conoscendola, avrà alzato un sopracciglio.
«Mi manca un po’ casa» ammetto, sospirando appena. «Ma credo sia normale per i primi giorni».
«Sai che qui c’è sempre un posto per te» mormora.
«Lo so».
«Facciamo così» comincia, interrompendo il silenzio che si era creato, «Vivi al massimo questa esperienza e nel caso in cui ti manca così tanto l’Italia, torna qui. Ci sarò io ad aspettarti a braccia aperte».   
Annuisco, sorridendo a quelle parole, che mi scaldano il cuore come se fossi lì accanto a lei.
 
Il mattino seguente quando la sveglia suona, il cielo è ancora buio; esco di casa, cercando di coprirmi il più possibile. Le macchine scorrono lente lungo le arterie della città e i pochi pedoni in giro a quest’ora si affrettano per raggiungere la stazione della metropolitana. La caffetteria è ancora chiusa e tutto è così silenzioso che fa quasi venire la pelle d’oca. Di questo fantomatico Paul non c’è nemmeno l’ombra e, per fortuna, Marisol mi ha dato una copia delle chiavi, così non dovrò aspettarlo all’esterno. Nonostante abbia fatto tutto con calma, è ancora presto per aprire il locale e non si vedono clienti all’orizzonte; ne approfitto per sbirciare in magazzino, accendere la macchina per il caffè e ricaricare i dispenser dei tovaglioli, attendendo che le lancette dell’orologio segnino le sei in punto.
«Ciao» ansima un ragazzo dai capelli rossicci, entrando nella stanza. «Ho fatto tardi». 
«Sei Paul?» chiedo e lui annuisce col capo, provando a riprendere fiato.
«Mi cambio e ti raggiungo subito» dice veloce, puntando i suoi occhi verdi nei miei, per poi scomparire oltre la porta dello spogliatoio. Ritorna dopo qualche minuto, chiedendomi se fosse già arrivato Chris.
«Chi è Chris?» domando, non ricordando nulla a riguardo.
«Il ragazzo della pasticceria» mi informa, alzando le spalle. «Doveva consegnarci i dolci dieci minuti fa» ammette, estraendo una rubrica telefonica dal cassetto del bancone.
«Buongiorno» mormora un ragazzo, entrando con una scatola tra le mani.
«Eccoti qui», lo saluta Paul, «Come mai sei in ritardo?».
«Io...» dice imbarazzato, stringendosi nelle spalle. «Ho fatto un po’ tardi ieri sera, quindi...».
Paul lo fulmina con lo sguardo, prendendo la scatola, mentre Chris abbassa la testa, sempre più a disagio.
«Oh, non preoccuparti», intervengo, aiutando Paul a riempire la vetrina dei dolci. «Non sei l’unico che ha fatto baldoria la notte scorsa» continuo, ridacchiando appena. Sulle labbra del ragazzo delle consegne si fa largo un sorriso, che fa formare due fossette sulle guance, ed i suoi occhi verdi appaiono più brillanti, come a riflettere il suo stato d’animo.
«Quindi, diciamo che mi merito un caffè per recuperare la carica» dice col suo accento tipicamente inglese, mentre i primi clienti entrano nel locale.
«Guarda che devi pagarlo» mormora Paul, allungando una mano.
Chris estrae qualche moneta dalla tasca dei jeans e mi raggiunge dall’altro lato del bancone; compio i vari passaggi che ieri Marisol mi ha ripetuto fino allo sfinimento, che ho ripassato ripetutamente come un mantra fino a poco fa.
«È il primo che faccio» mormoro, porgendogli la tazza. «Se è imbevibile, te lo faccio rifare da Paul».
Il ragazzo ne beve un sorso, senza distogliere lo sguardo dai miei occhi; si lecca le labbra, come per assaporare meglio la bevanda.
«Non è affatto male, Emma» dice, leggendo il mio nome sulla targhetta.
«Davvero?» domando, incredula di esserci riuscita al primo tentativo.
«Ottimo lavoro!» si congratula Chris, per poi fare l’occhiolino.
«Non la distrarre» mormora Paul, portando alcuni bicchieri da asporto con le ordinazioni dei clienti. «Non la sto distraendo» ribatte, prendendo un altro sorso di caffè. «Le ho fatto da cavia. Potevo rimetterci la pelle».
«Non ti sembra di esagerare?» chiede il barista, alzando un sopracciglio, per poi ritornare alla cassa scuotendo la testa. Chris ridacchia, passandosi una mano tra i capelli ricci, per poi leccarsi le labbra ancora una volta. Lo ignoro, concentrandomi sulla preparazione dei nuovi ordini, mentre i loro proprietari attendono impazienti oltre il bancone; dopo qualche minuto in più del dovuto, prendo i tre bicchieri e li consegno ai clienti, mentre Chris è ancora lì, che mi sorride.
«Peccato che tu non abbia sbagliato a fare il mio caffè» dice, passandomi la tazza vuota. «Avrei avuto una scusa per invitarti ad uscire».
Lo guardo non sapendo cosa dire, lusingata dal suo invito e sbigottita al tempo stesso.
«Ci vediamo domani» dice sorridendo, per poi fare un cenno con la mano a Paul ed uscire dal locale.
La mattinata procede tranquilla, tra Paul che mi sorveglia dal suo posto dietro alla cassa e le bevande da preparare; per fortuna non ho confuso gli ordini, ma in compenso, mi sono bruciata con l’erogatore del vapore.
«Come va la mano?» chiede il mio collega in un momento in cui non ci sono clienti da servire.
«Brucia un po’» ammetto, guardando la pelle arrossata del dorso della mano destra. «Ma sopravvivrò, non preoccuparti» mormoro, alzando le spalle.
«Bene. Vuoi andare a pulire i tavoli sopra, allora?» domanda divertito, porgendomi lo straccio ed il vassoio.
«L’onore è tutto tuo. Ti controllo da qui, mentre mi godo questa piccola pausa» dico, dandogli una pacca sulla spalla.
«Allora se arriva qualche nuovo cliente, ci sei tu alla cassa».
Come se le sue parole fossero una sorta di premonizione, due ragazze entrano nella caffetteria; ascolto di nuovo la pronuncia sbagliata di cappuccino, mentre una signora si unisce alla fila, così prendo gli ordini per poi preparare le bevande. Una volta servito le clienti, Paul si sporge oltre il parapetto del soppalco, per controllare che tutto vada per il verso giusto; alzo entrambi i pollici sorridendogli, mentre la porta si apre di nuovo.
«Buongiorno, cosa desidera?» chiedo al nuovo cliente, una volta che ha raggiunto il bancone.
«Non c’è Steve?» domanda, guardandosi intorno.
«No, ancora non è arrivato».
«Mi sembra di non averti mai vista qui» mormora, con un’espressione pensierosa sul volto. «Sei stata assunta da poco» conclude sorridendomi, dopo aver notato la bruciatura sulla mano.
«È il mio secondo giorno» ammetto, per poi ridacchiare. 
«Guarda un po’ chi si vede! Mi sembrava di aver sentito una voce familiare!» esclama Paul, raggiungendolo. Lo abbraccia, dandogli poi una pacca su una spalla. «Che ci fai da queste parti, Glen?».






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Salve! Come va?
Ecco il secondo capitolo di questa storia.  Come potete notare, prima del titolo di ogni capitolo c'è un asterisco, che porta dritto al video della canzone da cui è tratto il verso successivo. Nel caso in cui non (ri)conosciate da quale brano è tratto, lo avete lì, a portata di mano. Chi ha letto la prima versione di Walk away noterà che sono cambiate un po' di cose. Beh... Non so bene cos'altro dire, se non ringraziarvi per il supporto che mi state dando.
Grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite e alle seguite e a coloro che hanno recensito il primo capitolo.
Per qualsiasi dubbio, errore o curiosità, non fatevi scrupoli!
A presto,

AnneC

P.S. Buon San Valentino a tutti!


 

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Capitolo 3
*** I still don’t know where to start. ***


 
Capitolo 3
*
I still don’t know where to start.
 
«Lo sai, quando torniamo a Londra passiamo sempre a trovarvi» mormora Glen, sorridendo ad entrambi. 
«Passiamo?» chiede Paul, alzando un sopracciglio. «Quando hai cominciato a parlare al plurale di te stesso?»
In quel momento, alcuni clienti lasciano la caffetteria, così approfitto di quel momento di calma per poter ripulire i tavoli. Mi guardo distrattamente la scottatura, che non smette di bruciare, mentre prendo lo straccio ed il vassoio; Steve entra nel locale, salutandomi con un gesto della mano, per poi avvicinarsi alla cassa. Prendo un respiro profondo, prima di tornare al bancone, sperando di non far danni e sorrido alla coppia che è appena entrata, mentre trattengo il fiato per non far cadere nulla a terra. Una volta al sicuro dietro al bancone, svuoto il contenuto del vassoio, per poi riporre le tazze sporche nella lavastoviglie.
«Ci penso io agli ordini» mormora Paul, cominciando a preparare due tazze di cappuccino. «Però», continua, «si sono liberati altri tavoli sopra».
«Ecco spiegata la tua gentilezza» ridacchio, scuotendo la testa. «Devo imparare a non fidarmi di te».
Il barista alza le spalle, per poi scoppiare a ridere e finisce per contagiare anche me; continua così a preparare le bevande, mentre io prendo l’occorrente, per poi avvicinarmi alle scale.
«Oh, Emma» dice Steve mentre gli passo accanto. Mi fermo, notando solo in quel momento che qualcun altro si è unito a loro.
«Loro sono Glen e Danny» dice, indicando l’uomo dagli occhi blu di poco fa e poi l’altro, più alto del primo e dagli occhi più scuri. «Temo che in questi giorni te li ritroverai spesso tra i piedi».
Stringo la mano ad entrambi, perdendomi per qualche istante nei miei pensieri, avendo la sensazione di aver già incontrato il nuovo arrivato da qualche parte.
«Tutto bene? Cos’è successo?» chiede Steve, notando il segno rosso.
«Non è niente» lo tranquillizzo, nascondendo la mano nella tasca del grembiule. «Ho solo avuto uno scontro con l’erogatore del vapore».
«Ed ha vinto lui» conviene Danny, sorridendo appena.
«Già» mormoro, alzando le spalle. «Torno a lavoro adesso».
Lascio i tre a parlare tra loro, mentre sorrido ad un gruppetto di nuovi clienti e raggiungo il piano di sopra. Dal soppalco, tutto sembra più tranquillo, come se il tempo si fosse fermato d’un colpo, e posso permettermi di abbassare la maschera di serenità che ho indossato senza accorgermene. Sospiro debolmente, stringendo appena le labbra; mi sento fuori luogo, sola, immobile in una città che non si ferma mai. Prendo un respiro profondo, provando a placare il senso di angoscia che sembra aumentare a dismisura, fino ad inghiottirmi. Sorrido tristemente ad una ragazza dai capelli rossi che sta sorseggiando il suo tè; mi sorride di rimando, spostando poi lo sguardo sul libro ingiallito che ha aperto sul tavolino. Sistemo silenziosamente le sedie per non disturbare la sua quiete, per poi ritrovarmi ad osservarla di tanto in tanto: ha un’espressione malinconica in volto e stringe spesso  le labbra, accarezzandosi distrattamente il collo.
Chiudo gli occhi, massaggiandomi piano la fronte, obbligandomi a concentrarmi solo sul mio lavoro. La sensazione di essere osservata mi fa quasi rabbrividire, ma mi sforzo di sorridere ancora alla ragazza seduta qualche tavolo più in là. Lei però è concentrata sul suo libro, immersa nei propri pensieri. Scuoto la testa e sospiro appena, per poi sentire l’eco del suo pochi secondi dopo; sposta lo sguardo fuori dalla finestra, osservando la vita degli altri che scorre inesorabilmente senza freno, con lo sguardo triste, lo stesso che ho io in questo momento.
Torno al piano di sotto, sentendo sulle spalle il peso della tristezza di quella ragazza e della mia. Ritorno al mio posto dietro al bancone, sospirando un’altra volta, mentre Paul chiacchiera allegramente con Steve ed i suoi amici. Controllo l’orologio, tamburellando distrattamente le dita sulla superficie di legno del ripiano; manca poco più di mezz’ora alla fine del turno, così tra poco potrò rifugiarmi nel mio appartamento e mettere la testa sotto le coperte. 
Dopo un po’ Paul ritorna al suo posto, servendo altri clienti, per poi comunicarmi le ordinazioni.
«Sei stanca?» mi chiede preoccupato, corrucciando le sopracciglia.
«Sto bene» mormoro, sforzandomi di sorridere. Scavo dentro di me, nella speranza di trovare un po’ di tranquillità, seppur apparente, ma sembra essersi volatilizzata nel nulla; sospiro appena, concentrandomi poi sulla macchina del caffè. Provo a sorridere ancora, consegnando ad ognuno la propria bevanda, mentre il tempo sembra scorrere più lentamente del solito.
 
Appena Leslie prende il mio posto al bancone, mi precipito nello spogliatoio. Ho il fiato corto, come se avessi un peso che mi schiaccia il petto; scivolo lungo la parete, chiudendo gli occhi e provando a riempiere i polmoni. Deglutisco a fatica, sfregandomi le mani sulle braccia, ma la situazione non sembra migliorare. Mi alzo lentamente, provando a regolare il respiro, per poi avvicinarmi all’armadietto per prendere le mie cose; mi cambio il più veloce possibile, cominciando a sentire gli occhi bruciare. Passo una mano sul volto, sospirando, per poi infilarmi il cappotto e prendere la borsa. Chiudo la porta alle mie spalle, camminando a testa bassa per paura di non riuscire a fingere più; saluto Steve e gli altri con un cenno della mano, per poi uscire in strada.
Il contatto con l’aria fredda sulla pelle del volto mi fa rabbrividire all’istante ed infilo le mani nelle tasche, provando a ripararle dal gelo. Mi incammino verso la fermata della metro col suono dei miei passi che sembra sempre più distante, sopraffatto dai pensieri che mi affollano la mente. Passo una mano tra i capelli, per poi stringermi nel cappotto scuro, sospirando ancora; sento lo squillo del cellulare,  ma impiego qualche istante di troppo per capire che è il mio.
«Mamma» rispondo, mordendomi le labbra per provare a tenere a bada le lacrime.
«Tesoro, come stai?» chiede lei con un tono quasi preoccupato.
«Bene» mento, sentendo però la voce tremare.
«Stai bene, Emma?».
«Sì, mamma, sono solo stanca» mi giustifico, asciugando la scia lasciata da una lacrima sulla guancia. Tiro su col naso, ridacchiando poco dopo al ricordo di lei che mi dice di non farlo.
«È strano...», ammette d’un tratto, «sentirti al telefono e non poterti abbracciare».
«Vorrei abbracciarti anch’io» confesso, stringendomi nelle spalle.
«Allora, come ti trovi lì? Hai avuto difficoltà all’aeroporto? Com’è l’appartamento?» chiede veloce, bombardandomi con le sue parole.
«Oh, mi abituerò» mormoro, provando ad organizzare un discorso. «L’appartamento è carino, non ha una vista eccezionale, però almeno è caldo. Qual era l’altra domanda?» continuo, grattandomi la testa. «Ah, l’aeroporto».
«Esatto» dice, ridacchiando.
«Non è andata affatto male. Mi hanno persino ceduto...» mi fermo lungo il marciapiede, ricordando solo in quel momento dove ho già visto Danny.
«Cosa?» incalza, dopo qualche istante di silenzio.
«Il taxi», continuo, «Mi hanno ceduto l’ultimo taxi».
«Che cosa carina» mormora allegra. «Sei partita col piede giusto, allora!».
«Sì...» ammetto, pensando però che probabilmente quello è l’unico evento positivo.
«E chi era?», domanda, «Era un bel giovanotto oppure un uomo di mezz’età? Sicuramente non una donna».
Ridacchio, scuotendo appena la testa. «Perché non una donna?».
«Tu lasceresti l’ultimo taxi a qualcun altro? No, è inutile che ci pensi su» conviene, scoppiando poi a ridere. «Era bello almeno?».
«Un bel tipo» dico semplicemente, ancora incredula al fatto che l’abbia rivisto in caffetteria. «Sì, decisamente un bel tipo».
«Hai avuto un benvenuto in grande stile».
«Non è un film, mamma. Mi ha solo ceduto il suo taxi, tutto qui».
«Però, è stato un gesto adorabile», ribatte, «ma conoscendoti, non gli avrai nemmeno chiesto il numero».
Schiudo le labbra, sorpresa dalle sue parole. «Mamma, non...» biascico, alzando le sopracciglia. «Oh, d’accordo. Non gli ho chiesto nulla».
«Tipico» mormora in disappunto, mentre il cielo minaccia un acquazzone.
Sospiro appena, mentre mi avvicino veloce alla fermata della metro. «Ne riparliamo, va bene? Sta per piovere e non ho l’ombrello».
«Va bene, ma mi raccomando...» dice, per poi ridacchiare. «Se ti capita un’altra occasione del genere, non la sprecare».
 
Per fortuna sono riuscita a rientrare prima che le copiose gocce cadessero dal cielo; ho acceso il riscaldamento al massimo ed indossato un maglione di lana per provare a sciogliere il freddo che sento nel petto.  Accendo il televisore, stendendomi poi sul divano, nella speranza di poter placare i pensieri che non hanno intenzione di abbandonarmi.
Mi alzo controvoglia, annoiata dai programmi in tv, e sentendo la testa scoppiare; chiudo gli occhi, massaggiandomi piano la fronte. Aspetto che l’acqua bolla, tamburellando le dita sul ripiano del mobile; sospiro piano, passandomi una mano tra i capelli, per poi legarli in una coda. Mentre il bollitore fischia, nascondo il volto tra le mani, provando a fermare le lacrime che mi offuscano la vista.
Mi sento stanca, tormentata dalla sensazione di non essere all’altezza di cominciare una nuova vita. Sento la mancanza della mia famiglia, dell’Italia e tutto ciò che ho lasciato lì; i ricordi mi affollano la mente, si materializzano vividi davanti ai miei occhi ed io sono incapace di rinchiuderli in un cassetto, per affrontare al meglio questa nuova avventura. Verso l’acqua nella tazza, per poi immergerci una bustina di tè; osservo il liquido cambiare colore con gli occhi ormai arrossati e ne respiro il profumo, provando a calmarmi. Torno in salotto, stringendo la tazza tra le mani e spengo il televisore. Mi stendo sul divano, ascoltando il rumore della pioggia che batte contro i vetri delle finestre e stringendo il cuscino contro il petto.
Non so quanto tempo sia trascorso da quando mi sono addormentata, ma il tè si è ormai freddato e non piove più. Apro la finestra, appoggiandomi con i gomiti al davanzale; respiro a pieni polmoni, osservando le automobili che scorrono lente e qualche passante che si ferma a chiacchierare per strada. Il cielo sembra riflettere il mio stato d’animo: grigio ed apatico. Mi sento vuota, come un corpo senza anima, in bilico tra restare e ripartire, con una strana sensazione di star aspettando qualcosa che potrebbe arrivare da un momento all’altro.
Ma non accade nulla. Non cambia niente.
Chiudo la finestra, prendendo poi il cappotto e la borsa ed uscendo dall’appartamento. Cammino per strada senza meta, lasciandomi accarezzare la pelle dal vento freddo che mi scompiglia i capelli; procedo senza sosta, un passo dietro l’altro, con la mente spenta e le mani congelate. I negozi stanno chiudendo e il cielo comincia a farsi più scuro, mentre le luci illuminano il mio vagare. Mi siedo su una panchina, non perché sia stanca; è come se una forza che non riesco a spiegare mi stia attirando lì per qualche motivo.
Mi stringo nelle spalle, mentre una giovane donna porta a spasso un cane dal pelo riccioluto, scomparendo oltre l’entrata del parco. Il traffico si è affievolito, lasciando così quella parte di strada in silenzio; riesco a sentire il mio cuore battere forte sotto la pelle, per poi riempirmi le orecchie, fino a sovrastare i miei pensieri. Mi guardo distrattamente intorno, fin quando un particolare non cattura la mia attenzione. Accanto alla fermata dell’autobus, c’è un manifesto pubblicitario: ritrae una coppia con una valigia, con lo slogan che recita “Pronto per partire? Blue Airlines ti aspetta”.
Non so se mi ha incuriosito di più il messaggio scritto a caratteri cubitali o l’immagine dell’aeroporto che evoca, ma mi ritrovo a sorridere inconsapevolmente. Chiudo gli occhi, mentre la mia mente mi catapulta in quel luogo, tra la folla che si affretta ad uscire ed io che vado alla ricerca di un taxi. Ridacchio debolmente, dandomi della stupida per non essermi ricordata prima di Danny; mi stringo nel cappotto, provando a proteggermi dal freddo, per poi appoggiare la schiena alla panchina e stringere le gambe al petto. Mi sento sollevata, come se ogni preoccupazione fosse sparita di colpo, lasciando spazio ad una sensazione di calore che si irradia in ogni singola cellula; sorrido ancora, appoggiando il mento sulle braccia incrociate, mentre si accendono le luci nel locale dall’altro lato della strada ed il silenzio lascia spazio ad una flebile canzone suonata al pianoforte. Rimango per un po’ così, raggomitolata su me stessa, con la mente sgombra e il cuore più caldo.
Quelle note soffuse mi trasmettono una tranquillità che non sembra essermi mai appartenuta, come la calda sensazione di sentirsi al sicuro, al riparo da ogni turbamento.  
Mi alzo col sorriso ancora sulle labbra, per poi avviarmi verso quella che ancora non sento come casa mia, in quel luogo che, sì, mi tiene al riparo dal gelo londinese, ma che mostra il ghiaccio che invade la mia anima.
Questa volta però, una volta chiusa la porta alle mie spalle, mi sento meno sola, con un sorriso ed un paio di occhi che mi affollano la mente. Gli stessi che spero di rivedere domani in caffetteria.






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Salve! Come va?
Ecco un nuovo capitolo!
Stiamo entrando nel vivo della storia, al centro del disadattamento di Emma. Scrivere questo capitolo non è stata una passeggiata, ma spero che il risultato sia positivo, almeno. Come potete notare, non riesco ad aggiornare ad intervalli regolari, ma spero di accorciare al più presto i tempi di pubblicazione. Vorrei ringraziare tutte voi che avete recensito lo scorso capitolo e chiunque legga questa storia in silenzio.
Per qualsiasi dubbio, errore o curiosità, non fatevi scrupoli!
A presto,

AnneC



 

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