Milady - On ne vit que trois fois

di Yanez76
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il giudizio ***
Capitolo 2: *** Si vive solo tre volte ***
Capitolo 3: *** La storia di Milady ***
Capitolo 4: *** La missione del Cardinale ***
Capitolo 5: *** Pezzi da otto ***



Capitolo 1
*** Il giudizio ***


PREFAZIONE
Sarete libera di difendervi, giustificatevi se lo potete.” con queste parole, nel capitolo LXV dei Tre moschettieri, Athos tenta di far passare per un processo regolare il suo secondo tentativo di assassinare sua moglie, meglio nota come Milady. Nel romanzo, però, a Milady non viene di fatto concessa alcuna possibilità di difendersi, anche se, in realtà, le accuse contro di lei, almeno così appaiono a me, sono infondate e piene di contraddizioni e l’intero processo non è che una farsa per mascherare una vendetta (lo confesseranno, in Vent’anni dopo, sebbene tardivamente, sia il boia di Lille sia lo stesso Athos). Ho voluto, quindi, riscrivere il testo, riempiendo questa lacuna per consentire a Anne de Breuil/Milady di dire la sua.
Nelle argomentazioni difensive, ho però voluto attenermi ai fatti ed alle circostanze narrati nel romanzo (Dumas, da narratore onnisciente, è “neutrale” e non dà giudizi morali) senza contraddirli in alcun punto.
Quando i racconti fatti dai personaggi si contraddicono, ho privilegiato il racconto logicamente più coerente, evidenziando l’incoerenza dell’altro (ad esempio, il racconto del boia di Lille non è coerente quando dice che suo fratello si sarebbe suicidato quando Anne/Milady lo lasciò per Athos, mentre - da quanto dice lo stesso Athos - fu proprio lui a celebrare il matrimonio e visse ancora parecchio tempo dopo).
Nella scena dell’esecuzione, poi - che avviene fuori dalla vista dei presenti - Dumas scrive che “si udì il sibilo della scimitarra e il grido della vittima”, ma come fa una donna decapitata a gridare? Si tratta di una svista dell’autore, oppure di un espediente per lasciare aperta la possibilità che le cose non siano andate come sembra? Certo la confessione del boia di Lille in Vent’anni dopo sembra non lasciare possibilità a Milady. A meno che…
 
CAPITOLO I - IL GIUDIZIO
 
Era una notte buia e tempestosa, alla luce di una lampada, una donna, avviluppata in un mantello, stava seduta su uno sgabello accanto ad un fuoco morente appoggiando la testa alle mani bianche come l'avorio. In quel momento, un cavallo nitrì; Milady levò il capo e vide, incollato ai vetri, il pallido viso di Athos, con un sinistro sorriso che gli sfiorava le labbra. Milady corse alla porta e l'aprì; più pallido e più minaccioso di Athos d'Artagnan era sulla soglia.
D'Artagnan levò una pistola dalla cintura, ma Athos lo fermò.
“Aspetta ancora un attimo, d'Artagnan, e sarai soddisfatto. Non voglio che si dica che questa donna è stata assassinata.”
Dietro d'Artagnan, entrarono Porthos, Aramis, lord Winter e l'uomo dal mantello rosso. I quattro servitori rimasero a guardia della porta e della finestra.
“Che cosa cercate?” esclamò Milady.
“Cerchiamo”, rispose Athos, “Anne de Breuil che si chiamò dapprima contessa di La Fére, poi lady di Winter, baronessa di Clarick.”
“Sapete benissimo che sono io!”, mormorò la donna al colmo del terrore.
“Bene, volevo solo sentirlo da voi.”, disse Athos.
“Cosa volete da me?”
“Vogliamo giudicarvi in base ai vostri delitti”, disse Athos, “voi sarete libera di difendervi; giustificatevi, se lo potete. D'Artagnan, a voi l'accusarla per primo."
D'Artagnan si fece avanti.
"Davanti a Dio e davanti agli uomini", disse, "accuso questa donna di aver avvelenato Constance Bonacieux, morta ieri sera."
Si volse verso Porthos e Aramis, ed essi a una voce esclamarono: "Lo confermiamo."
“È vero”, disse Milady, “l’ho uccisa io. Il cardinale Richelieu aveva scoperto una macchinazione ordita da persone molto potenti che, all’interno della Corte, complottavano contro il Re e contro la Francia nell’interesse dei nostri nemici: dell’Inghilterra, dell’Impero, della Spagna e della Lorena.[1] Era stata proprio la signora Bonacieux che, in accordo con noti traditori, come la signora di Chevreuse, aveva introdotto nelle stanze reali il duca di Buckingham, emissario di una potenza nemica, contro cui voi, moschettieri del Re, state attualmente combattendo, o almeno dovreste farlo. Sua Eminenza stava per smascherare questi traditori, ma è stata ancora la signora Bonacieux, con la complicità vostra e dei vostri compari qui presenti, che ha impedito che il Re venisse informato degli intrighi che il duca di Buckingham ed i suoi complici ordivano a Corte contro di lui.
Quando giunsi al convento di Béthune e seppi chi era quella donna: una donna già tratta in arresto, evasa e ricercata, e scoprii, inoltre, che ella teneva ancora corrispondenza con la signora di Chevreuse, esiliata in Lorena come principale responsabile della congiura contro il Re ed il Cardinale che, due anni or sono, costò la testa al conte di Chalais[2], era mio dovere tentare di assicurarla alla giustizia. Non avevo intenzione di ucciderla: l’avevo quasi convinta a seguirmi pacificamente e l’avrei semplicemente riportata là da dove era fuggita senza farle alcun male; ma il vostro arrivo improvviso ha fatto precipitare la situazione. La signora Bonacieux aveva udito il mio nome e vi avrebbe quindi certamente segnalato la mia presenza. Ero certa che, sapendomi nei paraggi, mi avreste inseguita per assassinarmi – come state per fare adesso e come avete tentato di fare con il servitore di Rochefort – ho quindi tentato in ogni modo di convincerla a seguirmi ma, poiché ella si rifiutava, non ho avuto altra scelta…”[3]
D'Artagnan, non sapendo cosa ribattere, e volendo trovare qualche altra accusa continuò: "Davanti a Dio e davanti agli uomini, accuso questa donna di aver cercato d'avvelenarmi con vino mandatomi da Villeroy con una falsa lettera, come se il vino mi fosse stato spedito da amici; il Signore mi salvò, ma un uomo morì in vece mia, un uomo che si chiamava Brisemont."
"Lo confermiamo" dissero all'unisono Porthos e Aramis.
"Davanti a Dio e davanti agli uomini, accuso questa donna di avermi spinto ad assassinare il barone di Wardes e, siccome nessuno qui può attestare la verità di questa accusa, l'attesto io, come ho detto."
“Ah! Questo è troppo!”, gridò Milady, “Sapete bene che siete voi il solo colpevole di ciò di cui mi accusate! Io non avevo nulla contro di voi, anzi, quando vi vidi per la prima volta, a Meung, m’ispiraste simpatia e vi salvai la vita quando misi fretta a Rochefort che altrimenti vi avrebbe senz’altro ucciso. Voi, per tutto ringraziamento, per obbedire alla vostra amante, per proteggere i traditori che tramano contro Sua Eminenza, contro il Re e contro la Francia, avete quasi ucciso l’uomo che amavo, il conte de Wardes, un uomo che non vi aveva offeso in alcun modo e che, per colpa vostra, sarà costretto a vivere come un infelice per i giorni che gli restano a causa delle crudeli ferite che gli avete inferto. Vedete bene come avessi ottimi motivi per odiarvi e per odiare la vostra amante; tuttavia, non vi feci alcun male: vi accolsi come un ospite in casa mia, dove avrei potuto facilmente avvelenarvi o farvi uccidere, ma non tentai nulla contro di voi. In seguito, come non vi bastasse il male che mi avevate fatto, avete rubato le lettere che, preoccupata per la sua sorte, avevo scritto al mio amato e ve ne siete vilmente servito per poter abusare di me con un infame inganno. Non ancora contento, avete poi scritto una falsa lettera di insulti per indurmi ad odiare il povero de Wardes, e vi siete offerto di ucciderlo al solo scopo di abusare ancora del mio amore. Avete, con l’inganno, scoperto il marchio che porto e lo avete rivelato ai miei nemici, ai nemici della Francia, perché venissi uccisa o imprigionata. Ebbene, d’Artagnan, voi a Meung volevate uccidere degli uomini solo perché avevano osato scherzare sul vostro ridicolo ronzino, non avevo io il diritto di vendicare il mio onore dalle vostre atroci offese?”
“Oh, da quando in qua una donna marchiata ha un onore da difendere?”, disse Athos con un ghigno beffardo e sinistro.
“Non avevo il diritto di difendere la mia vita, la mia libertà da chi mi aveva crudelmente ingannata e abusata e voleva perdermi?”, riprese Milady rivolta a d’Artagnan, ignorando le parole di scherno di Athos. “Dite, d’Artagnan, non è forse vero ciò che ho detto?”
Il guascone rimase in silenzio.
“Milady”, intervenne Athos, “vi ho detto che siete libera di difendervi, non di accusare. Voi, d’Artagnan, se non avete altre accuse da aggiungere, cedete il posto agli altri.”
E d'Artagnan andò dall'altro lato della camera insieme con Porthos ed Aramis.
"A voi, milord", disse Athos.
Il barone si avvicinò a sua volta.
"Davanti a Dio e davanti agli uomini", disse, "accuso questa donna di aver fatto assassinare il duca di Buckingham."
"Il duca di Buckingham assassinato!" esclamarono tutti i presenti con un grido.
"Sì, assassinato", ripeté il barone. "Dopo ricevuto la lettera d'avviso che mi avevate scritta, feci arrestare questa donna; avevo incaricato di vigilare su di lei un leale servitore; ella ha corrotto quest'uomo, gli ha messo in mano il pugnale, gli ha fatto uccidere il duca, e forse in questo momento Felton sconta con la sua testa il delitto di questa furia."
Un fremito invase i giudici alla rivelazione di questi delitti ancora ignoti.
“Non ho fatto altro che il mio dovere nel portare a termine la missione affidatami dal cardinale Richelieu. Una missione che assicurerà la vittoria della Francia e permetterà anche di risparmiare le vite di molti soldati inglesi e francesi.”, rispose Milady con espressione di orgoglio.
“Sua Eminenza”, aggiunse Milady, “mi aveva affidato l’incarico di recarmi presso lord Buckingham e di proporgli lealmente uno scambio: se il duca avesse desistito dall’inviare truppe inglesi in appoggio ai ribelli di La Rochelle, il cardinale non avrebbe rivelato il tradimento della regina, di cui ha ormai numerose prove. Solo nel caso in cui il duca si fosse ostinato a non voler trattare, il cardinale mi aveva dato istruzioni di eliminarlo.[4] Se avessi potuto presentare al duca la proposta di Richelieu, con ogni probabilità Buckingham avrebbe accettato per salvare la sua amante e adesso sarebbe ancora vivo. Io seguo fedelmente le istruzioni di Sua Eminenza, ed egli mi aveva ordinato di non nuocergli a meno che non fosse necessario; purtroppo, sono stata presa a tradimento ed imprigionata e non mi è stato possibile recarmi dal duca. Privata della libertà, non avevo alternative per portare a termine la missione che avevo il dovere di compiere anche a rischio della mia stessa vita: siamo in guerra, Buckingham era un nemico del mio paese, ed il cardinale mi aveva dato l’autorizzazione ad agire come ho agito.”
Milady si volse allora verso Athos e gli altri moschettieri.
“Voi, che avete spiato la mia conversazione con il cardinale, ricorderete sicuramente le istruzioni che egli mi ha dato. Voi, Athos, marito mio, non ricordate che, all’albergo di Colombier-Rouge, mi avevate garantito che non avreste intralciato la mia missione in Inghilterra?[5] Avevate detto che non v’importava se anche avessi dovuto assassinare Buckingham, mi avevate minacciata solo in caso avessi fatto del male a d’Artagnan. Ebbene, cosa ho fatto contro di lui, dopo quel giorno? E voi, leali moschettieri del Re, cosa avete fatto? Avete tentato di far fallire la mia missione, avete agito contro il vostro paese! Voi, dei soldati francesi! Voi che dite di servire il Re!”
“Basta così!”, disse Athos. “Siete voi che dovete essere giudicata, non noi. Dei gentiluomini non sono certo tenuti a rispondere alle accuse di una donna infamata come voi…”
"Ma non è tutto" ripigliò lord Winter; "mio fratello, che vi aveva nominata sua erede universale, è morto in tre ore, di una strana malattia che lascia su tutto il corpo delle macchie livide. Sorella mia, com'è morto vostro marito?"
"E' orribile!" esclamarono Porthos e Aramis.
“È morto di peste, fratello mio.”, rispose freddamente Milady. “Mio marito morì nel settembre 1623 al ritorno da un viaggio in Cumbria, dove la malattia si era manifestata[6]; i bubboni lividi rivelarono che si trattava di peste. Avete ragione, cari Porthos e Aramis, è davvero una malattia orribile che, in alcuni casi, uccide in poche ore.”[7]
“Mentite!”, urlò lord Winter. “È evidente che mio fratello è stato avvelenato da voi!”
“Se è così evidente come sostenete, caro cognato, perché non mi avete denunciata subito, alla morte di vostro fratello? Perché solo adesso formulate contro di me questa accusa infame? Vi sareste fatto ospitare nella mia casa di Parigi, sapendomi l’avvelenatrice di vostro fratello? O forse avete appreso la mia colpevolezza solo adesso, dalla lettera di questi gentiluomini, che mai hanno visto o conosciuto mio marito?”
“Avete ucciso mio fratello, e avreste ucciso anche me, se questi signori non mi avessero avvertito in tempo!” disse lord Winter, posando su Milady uno sguardo pieno d’odio.
“A Parigi, quando alloggiavate in casa mia, avrei potuto avvelenarvi facilmente, se solo lo avessi voluto, eppure mi sembrate in ottima salute…” rispose Milady sarcastica.
Lord Winter alzò le spalle con un’espressione di disprezzo sulle labbra e, senza rispondere, riprese: "Assassina di Buckingham, assassina di Felton, assassina di mio fratello, io chiedo giustizia contro di voi, e dichiaro che, se giustizia non sarà fatta, la farò da me." E lord Winter prese posto vicino a d'Artagnan, cedendo il posto a un altro accusatore.
Milady lasciò cadere la fronte tra le mani e cercò di riordinare le idee confuse da una vertigine mortale. Ormai era evidente che il processo era una farsa: si voleva ucciderla comunque, anche se fosse riuscita a dimostrare la sua innocenza. Ebbe paura, rabbrividì, ma subito si riscosse, avrebbe sostenuto la lotta con dignità, fino in fondo.
"È il mio turno" disse Athos, tremando anch'egli.
“Sposai questa donna quand'era giovinetta, la sposai contro la volontà di tutta la mia famiglia; le detti le mie ricchezze, le detti il mio nome; ma un giorno mi accorsi che questa donna era infamata, marcata con un fleur de lys sulla spalla sinistra."
"Oh!", disse Milady alzandosi, "Io porto ingiustamente questo marchio: nessun giudice mi ha mai condannata. Il giglio mi fu impresso da un uomo che mi odiava, che mi aveva usato violenza e, temendo che io lo denunciassi, volle infamarmi perché nessuno credesse alle mie parole. Sfido chiunque a ritrovare il tribunale che ha pronunciato contro di me questa infame sentenza. Sfido chiunque a ritrovare colui che l’ha eseguita."
"Silenzio" disse una voce. "A questo spetta a me rispondere." E l'uomo dal mantello rosso si avanzò a sua volta.
"Chi è quell'uomo? Chi è quell'uomo?" urlò Milady soffocata dal terrore.
Gli occhi dei presenti si volsero verso l'uomo, sconosciuto a tutti, tranne che ad Athos. Ma lo stesso Athos lo guardava stupefatto; infatti, neppure lui era in grado d'immaginare come egli potesse essere immischiato nell'orribile dramma che stava svolgendosi.
Dopo essersi avvicinato a Milady con passo lento e solenne, di modo che il tavolo solo lo separava da lei, lo sconosciuto si tolse la maschera.
Milady osservò per un attimo e con crescente terrore quel viso pallido, inquadrato dai capelli e dai favoriti neri, la cui sola espressione era una glaciale impassibilità.
"Oh, no!", disse alzandosi e arretrando sino alla parete, sconvolta dagli orribili ricordi che quel viso le evocava, "No, no, è impossibile. Questa è un'apparizione infernale! Non può essere lui! Aiuto, aiuto!", esclamò con voce rauca, volgendosi contro il muro, come se sperasse di aprirsi un passaggio con le mani.
"Ma chi siete dunque?" domandarono tutti.
"Domandatelo a questa donna", rispose l'uomo dal mantello rosso, "perché vedete bene che lei mi ha riconosciuto."
"Il boia di Lille! Il boia di Lille!", esclamò Milady in preda ad un folle terrore, aggrappandosi alla parete con le mani per non cadere.
Tutti si fecero da parte e l'uomo dal mantello rosso rimase solo ritto in mezzo alla stanza.
"Oh, grazia! grazia! perdono! Vi scongiuro, non datemi a quest’uomo che mi ha violentata e torturata! Tutto ma non questo!" supplicò la sventurata cadendo in ginocchio.
Lo sconosciuto aspettò che il silenzio fosse ristabilito e riprese: "Ve lo dicevo che mi aveva riconosciuto! Sì, sono il boia di Lille ed ecco la mia storia"
Tutti gli occhi erano fissi su quell'uomo, di cui i presenti attendevano le parole con ansiosa avidità. "Questa giovane donna fu, in altri tempi, una giovinetta bella quanto lo è ancor oggi. Era monaca nel convento delle benedettine di Templemar. Un giovane prete dal cuore semplice, credente, era curato nella chiesa di quel convento; ella cercò di sedurlo e vi riuscì, avrebbe sedotto un santo. I voti di entrambi erano sacri, irrevocabili”
“E come avrei mai potuto pronunciare dei voti irrevocabili?” disse Milady, ripresasi un poco dallo spavento, “Ero troppo giovane per farlo! Athos, voi lo sapete! Avevo solo sedici anni quando ci conoscemmo; e non ne avevo neppure quindici quando lasciai il convento![8]
Il boia continuò imperturbabile: “La loro relazione non poteva durare a lungo senza perderli tutti e due. Essa ottenne da lui che abbandonasse il paese; ma per lasciare il paese, per fuggire insieme, per rifugiarsi in Francia ove fosse loro possibile vivere tranquilli grazie al fatto d'esservi sconosciuti, ci voleva del denaro; né l'uno né l'altra ne avevano. Il prete rubò gli arredi sacri e li vendette; ma, allorché stavano per fuggire insieme, furono arrestati. Otto giorni dopo, ella aveva sedotto il figlio del carceriere ed era fuggita.”
“Non l’ho sedotto, ha avuto compassione di me, della mia sventura”, disse Milady, “Già, ma a cosa serve parlare a voi di compassione per una sventurata? Gente come voi non conosce questo sentimento!”, aggiunse con un sospiro.
L’uomo continuò come nulla fosse: “Il giovane prete fu condannato a dieci anni di ferri e al marchio infame. Io ero il carnefice di Lille, come vi ha detto questa donna. Fui costretto a marchiare il colpevole, e il colpevole, signori, era mio fratello! Giurai quel giorno che colei che lo aveva perduto, che era più che la sua complice, avrebbe condiviso il suo castigo. Indovinai dove poteva essersi nascosta, la inseguii, la raggiunsi, la legai e le impressi lo stesso marchio che avevo impresso nelle carni di mio fratello.”
“Ah! Ma non capite che sta mentendo? Lille è in territorio spagnolo![9] Da quando in qua i boia spagnoli, marchiano i condannati con il giglio di Francia?”, gridò Milady.
Il boia continuò senza risponderle: "Il giorno dopo, allorché tornai a Lille, mio fratello riuscì anch'egli a fuggire; fui accusato di complicità e condannato a restare in carcere finché egli non si fosse costituito prigioniero. Il mio povero fratello ignorava questa condanna; aveva raggiunto questa donna e insieme erano riparati nel Berry dove egli aveva ottenuto una piccola parrocchia, e dove costei era creduta sua sorella. Il signore della terra su cui sorgeva la chiesa del curato, vide questa pretesa sorella e se ne innamorò, se ne innamorò al punto che le propose di sposarla. Allora ella abbandonò colui che aveva rovinato e divenne la contessa di La Fére."
Tutti guardarono Athos del quale questo era il vero nome, ed egli accennò col capo che quanto aveva detto il carnefice era vero. "Allora" riprese quest'ultimo "il mio povero fratello, quasi impazzito, risoluto a finire una esistenza alla quale essa aveva tolto tutto, onore e felicità, tornò a Lille e venuto a conoscenza della sentenza che mi aveva condannato in sua vece, si costituì prigioniero e la sera stessa si impiccò al finestrino della sua cella. D'altronde, debbo rendere giustizia a coloro che mi avevano condannato: essi mantennero la parola. Non appena identificato il cadavere, mi misero in libertà. Ecco il delitto del quale accuso questa donna, ecco la ragione per cui la marcai."
“Athos!”, disse Milady, rivolta al suo antico marito che rimaneva impassibile, “Athos, voi sapete che non è andata così. Sapete che è stato quel prete a sposarci e che non lasciò Vitray che il giorno prima che…”[10]
“Che io scoprissi la vostra infamia?”, chiese Athos, beffardo.
“Che voi tentaste d’assassinarmi!”, rispose Milady lanciando su di lui uno sguardo fiammeggiante.
“E se anche fosse?”, disse Athos ridendo, “In fede mia non sapevo che quest’uomo fosse fratello del vostro primo amante e non me ne importa nulla dei vostri trascorsi; quello che importa è che faccia ciò per cui l’ho fatto venire qui.”
“Ma qual è dunque il mio delitto? Aver voluto fuggire un convento dove ero stata rinchiusa contro la mia volontà? Essere bella? Essere stata amata? Oppure il mio delitto è di essermi innamorata di voi, Athos?”
“Tacete! Una come voi è incapace d’amare!”, disse Athos freddamente. “E poi, fosse anche vero che mi amavate, cosa cambierebbe? L’amore non è che una chimera, una miseria, una lotteria dove non c’è uomo che non sia stato ingannato dalla sua innamorata; è la nobiltà, il rango che conta! La nobiltà è lo Spirito di Dio, è un principio invisibile che Dio ha voluto rendere tangibile in alcuni uomini. Voi eravate disonorata, lo sapevate, non eravate degna di essere elevata alla nobiltà, eppure vi siete fatta sposare ugualmente da me, da un conte: ecco il vostro crimine! Se non mi aveste ingannato, forse avrei potuto prendervi come amante…”
“O magari prendermi di forza, non è forse così che si usa tra i pari vostri con le popolane?” chiese Milady con aria di sfida.
“E perché no? Non vi avrei certo tolto l’onore, visto che eravate una donna già infamata!” disse Athos, che poi concluse: “Bene. Adesso che avete detto la vostra, è ora di finirla con queste ciance: Signor d'Artagnan, qual è la pena che chiedete contro questa donna?"
"La pena di morte" rispose d'Artagnan.
"Milord de Winter" continuò Athos "qual è la pena che chiedete contro questa donna?"
"La pena di morte" rispose lord Winter.
"Signori Porthos e Aramis", riprese Athos, "voi che siete i suoi giudici, qual è la pena a cui condannate questa donna?"
"La pena di morte" risposero con voce sorda i due moschettieri.
Milady gettò un grido spaventoso e fece qualche passo verso i suoi giudici trascinandosi sulle ginocchia.
“Porthos, Aramis, io non vi ho mai fatto nulla. Perché mi condannate? Lo sapete che sono innocente di quanto mi accusano. Perché vi prestate a questa infamia?”
“Per quanto mi riguarda”, disse Porthos, “la questione è semplice: se voi restaste viva, ci denuncereste al cardinale e, in fede mia, preferisco evitare di finire i miei giorni alla Bastiglia! Anzi, vi giuro che, se non ci fosse qui un boia, m’incaricherei io stesso di tagliarvi il collo con la mia spada, e senza pensarci due volte: siete una donna malvagia, giacché avete tentato di uccidere il mio amico d’Artagnan.”
“Devo ammettere, Milady”, fece Aramis con tono mellifluo, “che il vostro caso è uno di quelli che si prestano di più alla discussione; tuttavia, se ammettiamo che la giustizia divina determini gli eventi di questo mondo, bisogna allora convenire che voi verrete punita per volontà di Dio, di cui noi siamo semplici strumenti…”
“Oh, abbiamo un filosofo…”, sospirò Milady alzando gli occhi, “e il libero arbitrio? Dove lo mettete?”
“Il giudice ha il suo libero arbitrio eppure condanna senza problemi. Il boia è padrone del suo braccio, eppure colpisce senza rimorsi…”, rispose Aramis che continuò: “e poi, come ha detto Porthos, poiché lasciarvi in vita ci condannerebbe sicuramente a morte o alla Bastiglia, noi non agiamo che per legittima difesa. Siamo soldati e abbiamo già ucciso tanti poveracci, una morte in più sulla coscienza non cambierà granché.”
“Avete mai pensato, Aramis, di entrare tra i gesuiti? Mi sa che fareste una brillante carriera…”, disse Milady con un sorriso sarcastico.
“Il mio unico rammarico” riprese Aramis “è di dover mandare a morte una donna e, perdonatemi l’audacia, una donna bella come voi…”
“Oh, come siete galante. Un vero gentiluomo…”, fece amaramente Milady.
“Bah, può darsi che abbiate ragione voi, Milady, che noi stiamo commettendo un crimine facendovi uccidere. Vorrà dire che, giunta l’ora suprema, mi confesserò…” concluse Aramis.
Athos tese una mano verso di lei. "Anne de Breuil, Charlotte Backson, contessa di La Fére, lady di Winter", disse, "i vostri delitti hanno stancato gli uomini sulla terra e Dio in cielo. Se sapete qualche preghiera, ditela, perché la vostra sentenza è stata pronunciata e fra poco morrete." A queste parole, che non le lasciavano alcuna speranza, Milady si levò in tutta la sua altezza e volle dire qualche cosa, ma le forze l'abbandonarono. Sentì che una mano forte e implacabile la afferrava per i capelli e la trascinava irrevocabilmente, come la fatalità trascina l'uomo; essa non tentò dunque neppure di resistere e uscì dalla casetta. Lord Winter, d'Artagnan, Athos, Porthos e Aramis uscirono dietro di lei. I domestici seguirono i loro padroni e la camera restò vuota e silenziosa con la sua finestra fracassata, la sua porta aperta e la sua lampada fumosa che ardeva tristemente sulla tavola.
 
 
[1] Cfr. I tre moschettieri, cap. XLIII
[2] Si tratta della Congiura di Chalais, che ebbe luogo nel 1626.
[3] Cfr. I tre moschettieri, cap. LXIII, “Ah! Non è così che volevo vendicarmi!” disse Milady
[4] Cfr. I tre moschettieri, cap. XLIV.
[5] Ibidem
[6] Storico. Cfr. S.Scott, C.J. Duncan, The mortality crisis of 1623 in north-west England, in “Local Population Studies”, 1997, pp. 14-25.
[7] Ad esempio nel celebre caso del Griso, riportato dal Manzoni: “mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono su un carro; sul quale spirò, prima d'arrivare al lazzeretto.” (I Promessi Sposi cap. XXXIII)
[8] Il Concilio di Trento aveva stabilito che i voti irrevocabili potessero essere pronunciati compiuti i 16 anni.
[9] Faceva parte dei Paesi Bassi Spagnoli.
[10] Cfr. I tre moschettieri cap. XXVII e XLV

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Capitolo 2
*** Si vive solo tre volte ***


CAPITOLO II
 
Era quasi la mezzanotte, la luna calante, che le ultime vestigia dell'uragano tingevano di sanguigno, sorgeva dietro la cittadina di Armentières, stagliando, nella sua luce livida, i profili delle case e l’alto campanile traforato.
Lungo la riva della Lys, si scorgeva la massa nera degli alberi profilarsi su di un cielo tempestoso, dove grosse nuvole color di rame velavano la luna, creando quasi un crepuscolo nel cuor della notte.
Dalle rovine di un vecchio mulino abbandonato dalle ali immobili, che sorgeva vicino la riva sinistra del fiume, dove una civetta faceva udire il suo grido acuto, periodico e monotono, uscirono silenziosamente due uomini che, fermatisi un momento ad accendere le loro lunghe pipe, si diressero poi pigramente verso il fiume. Sotto i pastrani che li ricoprivano, l’uno portava la divisa delle guardie del cardinale, l’altro una bizzarra tenuta da uomo di mare che, ad un occhio esperto, lo avrebbe fatto riconoscere per uno di quei formidabili corsari dell’isola di Saint Christophe, capitanati da Pierre Belain d’Esnambuc che, alcuni anni dopo, avrebbero occupato l’isola della Tortue.
“È una vera fortuna, caro Rosnay, che conosceste quel nascondiglio nel vecchio mulino”, disse il corsaro.
“Il cardinale non lascia nulla al caso”, rispose l’altro, “vi sono molti di questi luoghi segreti, in Francia o all’estero, dove chi è al suo servizio può trovare rifugio.”
“Stavolta è stato davvero provvidenziale. Con quell’uragano che ci ha sorpresi, mi sembrava quasi di essere tornato nelle mie Antille.”
“Già, per fortuna sembra che adesso il tempo si sia calmato e che ci permetterà di farci una fumatina all'aria aperta.”
I due uomini, giunti alla riva del fiume, si fermarono e fu di nuovo la guardia a rivolgersi al compagno tra il serio e il faceto.
“Siete stato voi a placare l'uragano? Si dice che voialtri maghi possiate comandare agli elementi, non è forse così?”
“Ah, ah, ma che dite, caro Rosnay, io non sono affatto un mago.”
“Eppure io stesso vi ho visto con i miei occhi compiere prodigi davanti al cardinale: siete riuscito a dominare la mente di un cameriere…”
“Vi ripeto che non vi è nulla di magico in ciò che avete visto: si tratta di un fenomeno naturale, una tecnica che ho appreso da un bramino del Malabar, suddito del Gran Mogol. Un giorno, vidi quel vecchio indiano, che alcuni pirati avevano catturato da una nave saccheggiata, portato al mercato degli schiavi e lo riscattai. Il vecchio, per ringraziarmi, mi insegnò il metodo, conosciuto dai saggi delle sue terre, per porre la mente in stato di sonnanbulismo. Una volta lo provai su un compagno cui bisognava estrarre una pallottola che l’aveva colpito in battaglia e che soffriva terribilmente; lo sonnambulizzai, mettendolo in uno stato di totale insensibilità, tanto che, durante l’estrazione, non si lamentò né diede alcun segno di dolore e, quando lo risvegliai dal suo stato, non ricordava nulla.” 
“Incredibile, e potete indurre chiunque a fare tutto ciò che voi gli ordinate?”
“Chi viene sonnambulizzato può essere indotto a dire o a fare ciò che gli si suggerisce e, anche dopo il risveglio, ricorderà o avrà dimenticato quanto accaduto, secondo ciò che gli è stato ordinato. A dire la verità, però, non amo servirmi di questa capacità se non quando necessario.”
“Ah, come vorrei che mi insegnaste la vostra arte, ne avrei proprio bisogno…” fece Rosnay con un sospiro.
“Davvero? E per farne cosa?”
“Per guadagnare l’amore.”
“Voi amate dunque?”
“Sì, una donna bellissima e misteriosa. Nessuno sa il suo vero nome, dubito che persino il cardinale, per cui ella lavora, lo conosca; ma tutti la chiamano semplicemente Milady.”
“Milady?”
“Sì, Milady, contessa de Winter”
“È dunque una dama inglese?”
“No, francese, ma vedova di un conte inglese.”
Proprio in quel momento, dall’altra parte della Lys, rispetto a quella dove si trovavano i due uomini, Grimaud e Mousqueton conducevano Milady verso il fiume; il carnefice veniva dietro, e lord Winter, d'Artagnan, Athos, Porthos e Aramis venivano dietro il carnefice. Planchet e Bazin venivano per ultimi.
Milady non diceva nulla, ma i suoi occhi parlavano con inesprimibile eloquenza, supplicando a volta a volta ciascuno di coloro che guardava. Grimaud, di cui Milady era stata un tempo la padrona, era esitante, e Mousqueton tremava in tutte le membra.
Athos sentì la voce disperata di Milady supplicare gli uomini che la trascinavano, offrir loro del denaro, allora si avvicinò prontamente e lord Winter lo imitò.
“Rimandate indietro questi due servitori”, disse Athos, “ella ha parlato loro, non sono più sicuri.”
Planchet e Bazin presero il posto di Grimaud e di Mousqueton.
Arrivati alla riva, il boia iniziò a legare le mani e i piedi di Milady che gridò: “Siete dei vili, dei miserabili assassini, vi mettete in dieci per uccidere una donna, vittima delle vostre paure e delle vostre calunnie. Badate, se non sarò soccorsa, sarò, vendicata!”
“Voi non siete una donna”, disse freddamente Athos, “non appartenete alla specie umana, siete un demonio fuggito dall'inferno nel quale ci disponiamo a farvi rientrare.”
“Ah! Signori uomini virtuosi!”, disse Milady, “ricordatevi che colui che toccherà un capello della mia testa sarà anch'egli un assassino.”
“Il carnefice può uccidere senza essere per ciò un assassino”, disse l'uomo dal mantello rosso, battendo la mano sulla sua grande spada, “esso non è che l'ultimo giudice.”
“Voi non siete giudici! Non potete condannarmi!”, gridò Milady, “Se sono colpevole, se ho commesso i delitti di cui mi accusate, portatemi dinanzi a un tribunale!”.
“In un tribunale francese, godreste della protezione del cardinale. Io vi avevo proposto Tyburn”, disse lord Winter, “perché non avete accettato?”
“Perché sono francese e lavoro al servizio della Francia, un tribunale inglese mi avrebbe sicuramente condannata a morte e io non voglio morire!”, esclamò Milady dibattendosi, “Sono troppo giovane per morire.”
“La donna che avete avvelenata a Béthune era più giovane di voi, signora, e tuttavia è morta”, disse d'Artagnan, scordando che la signora Bonacieux aveva qualche anno più di Milady.
“Vi prego, non voglio morire! Non sapete cosa vuol dire essere marchiata fin dalla più tenera età, in modo che tutti mi odino e mi temano. Cambierò vita. Se volete, mi chiuderò in un convento, mi farò monaca, lo giuro!”, continuò Milady.
“Eravate in un convento”, disse il carnefice, “e ne usciste per la rovina di mio fratello. Avete disprezzato la vita consacrata per dedicarvi al vizio, depravata sacrilega!”
A quelle parole, Aramis fremette e fece il gesto di por mano alla spada; ma, colto uno sguardo di Athos, riabbassò la mano.
“Vi prego, grazia. Ho un figlio di pochi anni, chi penserà a lui?”
“Cosa volete che ce ne importi della covata di una serpe come voi?”, disse lord Winter.
“Ma dopotutto è vostro nipote! Non può non importarvi nulla di lui…”
“Chi mi dice che sia veramente figlio di mio fratello? Che se ne vada al diavolo…”
Milady gettò un grido di spavento e cadde in ginocchio.
Le grida disperate della donna risuonarono con un effetto cupo e strano involandosi nella notte e perdendosi nella profondità del bosco, giungendo fino alle orecchie dei due uomini sull’altra riva del fiume.
Acquattatisi dietro l’argine, nascosti dai folti cespugli che vi crescevano, essi poterono vedere chiaramente la scena che si svolgeva dall’altra parte, illuminata dalla luna rossastra.
“Mio Dio!” esclamò Rosnay “È lei!”
“Lei chi?”, chiese il corsaro.
“È Milady, ne sono certo! Mio Dio, quell’uomo con il mantello, un carnefice! Vogliono assassinarla!”
Rosnay fece per slanciarsi insensatamente fuori dal nascondiglio, ma l’altro lo trattenne.
“Fermo! Altrimenti siamo perduti tutti: noi e lei. Riflettete un attimo, dannazione! Come pensate di attraversare il fiume? Il battello è dall’altra parte, senza contare che là ci sono dieci uomini e noi siamo solo in due…”
“Ma non possiamo restare qui a guardare senza far nulla! La uccideranno!”, disse Rosnay al colmo della disperazione.
Il corsaro prese l’archibugio con fare pensoso.
“Ascoltate, Rosnay, qui noi siamo al coperto e loro no: quando quel boia alza la spada, gli apro un terzo occhio in fronte con un’archibugiata. Voi cercate di buttar giù uno di quei cinque beccamorti: i quattro in divisa o quello vestito all’inglese, lasciate stare i servitori. Non si aspettano un attacco, non sanno quanti siamo e probabilmente scapperanno a cercare delle armi; se ricarichiamo in fretta forse riusciamo a buttarne giù altri due prima che si mettano al coperto. Se la vostra amata è furba, dovrebbe riuscire a scappare.”
“Va bene, ma vi prego, amico, mirate bene. Non vivrei più se la uccidessero davanti a me…”, disse Rosnay, impallidendo in preda ad una terribile angoscia.
Il carnefice prese Milady in braccio e si mosse verso il battello.
“Dio mio! Dio mio!”, esclamò la donna, “mi annegherete dunque! Non potete uccidermi così, come un animale, senza conforti, senza un prete: anche ai criminali è concesso di confessarsi prima di morire!”
“Beh, c’è Aramis se volete, è quasi un prete, almeno credo…”, bofonchiò d’Artagnan.
“Non è un vero prete! Non è la stessa cosa, ho il diritto di confessarmi!”
“Sciocchezze!”, tagliò corto Athos, “Non fateci perdere altro tempo. Pregheremo per voi; ma credo siate incapace di un pentimento che possa salvare la vostra anima.”
“Assassini! Macellai!”, gridò Milady furente, “Datemi almeno la possibilità di difendermi, di combattere per la mia vita! Non c’è nessuno che ha il coraggio di incrociare la lama con me? Dov’è adesso il vostro coraggio, moschettieri? Dove il vostro spirito cavalleresco?”
Di fronte a quelle grida strazianti, d'Artagnan si lasciò cadere su un ceppo, e chinò il capo.
“Oh! Non posso acconsentire a che questa donna muoia così!”
Milady fu ripresa da un barlume di speranza.
“D'Artagnan, d'Artagnan!”, gridò, “ricordati di quando ti ho dato il mio amore!”
Il giovane si alzò e fece un passo verso di lei; ma Athos, bruscamente, snudò la spada e si frappose tra loro.
D'Artagnan cadde in ginocchio e pregò.
Athos, soddisfatto, fece un passo verso Milady.
“Vi perdono”, disse, “il male che mi avete fatto, vi perdono il mio avvenire spezzato, il mio onore perduto, il mio amore calpestato e la mia salute compromessa dalla disperazione in cui mi avete sprofondato. Morite in pace.”
“Il male che vi ho fatto? Sono stata io forse che vi ho stretto un cappio al collo, dopo aver giurato di amarvi e rispettarvi? L’onore perduto? Ma quale onore può avere chi tenta di assassinare una donna inerme e svenuta? E l’avvenire? Io vi amavo, avremmo potuto essere felici se solo… se solo mi aveste lasciato spiegare, se solo aveste cercato di comprendere…” disse Milady, digrignando rabbiosamente i denti.
Athos non rispose e lord Winter avanzò a sua volta:
“Vi perdono”, disse, "di aver avvelenato mio fratello, di aver fatto assassinare Sua Grazia, Lord Buckingham; vi perdono la morte del povero Felton, vi perdono i vostri tentativi contro di me. Morite In pace.”
Milady rimase in silenzio.
“Quanto a me”, disse d'Artagnan, “perdonatemi, signora, di avere con uno stratagemma indegno d'un gentiluomo provocato la vostra collera.”
“Che ipocrita, ora chiede scusa quando è troppo vile per difendermi…”, pensò tra sé Milady, sempre senza dire nulla.
D’Artagnan continuò: “e in cambio, vi perdono l'assassinio della mia povera amica e le vostre crudeli vendette tentate a mio danno; vi perdono e piango su di voi. Morite in pace.”
I am lost!” mormorò Milady “I must die!
Allora si rialzò senza bisogno di aiuto e gettò attorno a sé uno di quegli sguardi chiari che sembravano scaturire da un occhio di fiamma.
Guardò ad uno ad uno i suoi accusatori che, tutti, distolsero lo sguardo. Sperò, per un istante, di vedere qualcuno, Rochefort, che accorreva in suo aiuto ma non vide nulla. Tese l'orecchio e non udì nulla. Non aveva intorno a sé che nemici, così le pareva in quel momento supremo.
“Dove morirò?” chiese Milady.
“Sull'altra riva”, rispose il carnefice.
“Sarò vendicata!”
L’uomo la fece entrare nella barca. Athos gli tese del denaro.
“Sappia questa donna che io non compio il mio mestiere, ma il mio dovere.” rispose il carnefice, gettando il denaro nel fiume.
“Caro Rosnay, la vostra bella può giocare a carte quando vuole! Stanno venendo qui e sarà più semplice liberarla.”, bisbigliò il corsaro.
“Sia ringraziato il cielo!”, mormorò Rosnay.
“Salvata la tua principessa, bisognerà filare in fretta: noi saremo in tre con due cavalli, col battello da questa parte del fiume, quei beccaccioni dovranno cercarsi un altro guado; ma scommetto che tra mezz’ora li avremo addosso. Sono moschettieri e non sarà uno scherzo averli alle calcagna.”
Il battello, con a bordo Milady e il carnefice, si allontanò verso la riva sinistra della Lys, scivolando lentamente lungo la corda della chiatta. Gli altri, caduti in ginocchio, erano rimasti sulla riva destra a pregare.
“Allora, Milady, non volete tentare di sedurmi in questi ultimi minuti?” chiese beffardo il boia.
Milady se ne stava in silenzio, raggomitolata sul fondo del battello, volgeva uno sguardo disperato all’acqua inargentata dalla luna, dove si specchiava una pallida nube. Neppure in quel momento estremo, però, quella donna eccezionale volle darsi per vinta: pensò che, se avesse potuto sciogliere i nodi che le stringevano i piedi, giunta sull’altra riva, avrebbe potuto fuggire; lei era giovane ed agile, quell’uomo tozzo e appesantito non sarebbe riuscito a tenerle dietro.
Doveva solo guadagnare un po’ di tempo...
“A che servirebbe?”, rispose con voce rassegnata, “Se anche riuscissi a sedurvi, dopo non mi lascereste certo in vita per denunciarvi…”
“Ah, ah, siete davvero intelligente quanto bella…”, disse ridendo il boia.
“Vi chiedo, però, un’ultima grazia”, riprese Milady, “voglio sapere com’è morto davvero vostro fratello, e come fate voi ad essere vivo: Georges mi aveva detto di avervi ucciso.”
“Curiosa fino all’ultimo, eh? Oppure volete solo morire un po’ più vecchia? Bah, comunque posso accontentarvi, tanto non lo racconterete a nessuno.
Il boia rallentò i colpi di remi fino a quasi fermare il battello in mezzo al fiume e riprese a parlare.
“Vengo da una famiglia povera, mio padre, da cui ereditai il lavoro di carnefice, era già morto quando mio fratello se ne andò a fare il prete, lasciandomi da solo a badare a nostra madre; anche lui, come gli altri a Béthune, aveva orrore di me e del mio lavoro. Ero stato io a suggerirgli di prendere i vasi e i preziosi dal tesoro del convento: avrebbero potuto darci una vita agiata da qualche altra parte, dove non sarei stato più evitato da tutti con ribrezzo; ma lui si rifiutò sempre di farlo per la sua famiglia, per il sangue del suo sangue, per voi, invece, sì che li rubò. Mi aveva anche promesso una parte del denaro se lo avessi aiutato a nascondersi ma poi, sempre a causa vostra, mi tradì e fuggiste assieme senza darmi quanto promesso. Quando scopersi dove vi eravate rifugiati, vendetti l’informazione a dei cacciatori di taglie, così mio fratello fu catturato, portato in carcere a Lille e condannato a 10 anni. Georges, in cella, chiese di vedermi e mi disse che aveva nascosto la refurtiva nei paraggi e me la promise in ricompensa se l’avessi aiutato a fuggire; non ebbi difficoltà a credergli: i gioielli e i vasi sacri non erano mai stati ritrovati e, se foste riusciti a portarli con voi, pensai, non avreste certo dovuto nascondervi in quella misera canonica francese. Grazie alle mie conoscenze tra i carcerieri, organizzai la sua evasione; ma, una volta fuori, mi pugnalò e mi lasciò per morto. Tentò di uccidere me, suo fratello! Voi lo avevate spinto sulla strada di Giuda e di Caino!
Sebbene non riuscissero mai a provare la mia complicità nell’evasione, persi il lavoro, finii in miseria e nostra madre morì per la disperazione. Allora, anelando solo alla vendetta, mi misi sulle sue tracce e scoprii che era tornato a Vitray, dove voi eravate ormai diventata la contessa de La Fère. Quando mi vide, folle di terrore credendomi un fantasma o forse sopraffatto dal rimorso, si uccise. Allora presi il suo corpo e lo riportai a Lille, incassai la taglia e riottenni il mio lavoro.”
Finito il suo racconto, il boia riprese a remare. Milady era riuscita a sciogliere la corda che la legava ai piedi, cosicché, non appena il battello toccò la riva, saltò agilmente a terra e si dette alla fuga.
Rosnay trasalì con il cuore in tumulto. La donna veniva verso di loro, ancora pochi passi e avrebbe potuto prenderla tra le braccia, rassicurarla e proteggerla.
“Fermo Rosnay! Non ancora.” fece il corsaro.
Il terreno era bagnato e, non appena giunse alla sommità dell’argine, Milady scivolò dall’altra parte e cadde sulle ginocchia. Sentì un dolore alla caviglia e un'idea superstiziosa le attraversò il cervello: ella pensò che il cielo le negava il proprio soccorso e restò col capo chino come si trovava.
Allora, dall'altra riva, gli uomini in ginocchio videro solo il carnefice, poiché Milady era nascosta dall’argine, levare lentamente le braccia; un raggio di luna si rifletté sulla lama della sua larga spada e tutti abbassarono lo sguardo biascicando una preghiera.
Il corsaro alzò l’archibugio; ma Rosnay, non resistendo oltre, aveva già sguainato la spada e s’era avventato verso il boia. Fu questione di un istante: le braccia del carnefice ricaddero, si udì il sibilo della scimitarra e il grido della vittima designata, poi una massa inerte si accasciò al suolo.
Milady aveva atteso il colpo fatale senza muoversi, con gli occhi chiusi e sulle labbra una preghiera che, da bambina, aveva appreso da sua madre; ma, sentendo il sinistro sibilo della lama che scendeva, non aveva potuto impedirsi di lanciare un grido.
“Un grido…” fu il pensiero che attraversò la mente della donna, sconvolta dal terrore, “come posso aver gridato? Sono morta…eppure…respiro…sono ancora viva!”
La donna aprì gli occhi e vide il corpo di un uomo decapitato, che portava la divisa delle guardie del cardinale, giacere ai piedi del boia che se ne stava immobile mentre un uomo gli premeva una sciabola dalla strana foggia contro la gola.
“Un incubo. Dev'essere solo un terribile incubo.”, pensò Milady, mentre fissava incredula lo spettacolo agghiacciante che si parava davanti ai suoi occhi sbarrati.
Il carnefice, terrorizzato, lasciò cadere la spada.
“Grazia, grazia”, implorò con un filo di voce, “in nome del cielo, cosa volete da me?”
Il corsaro, dopo aver costretto il boia a fare alcuni passi avanti per essere sicuro di toglierlo dalla visuale degli uomini sull’altra riva, gli si accostò all’orecchio e gli disse, quasi in un sussurro: “Maledetto assassino! Se vuoi vivere guardami, guardami bene nel bianco degli occhi! Hai capito? Nel bianco degli occhi!”
Atterrito, il boia obbedì. L’uomo, mentre con una mano continuava a premergli la sciabola contro la gola, con l’altra raggiunse il viso del boia, compiendo dei rapidi gesti.
Il carnefice si sentì bloccare da una forza invincibile, il petto gli sembrò riempirsi di una sorta di calore stupefacente che gli saliva fino al cervello, come una spirale di densi vapori, si sentì preso da un intorpidimento irresistibile che lo affascinava e lo terrorizzava allo stesso tempo, ponendolo alla completa mercé dello sconosciuto. Il boia fece uno sforzo sovrumano per chiamare aiuto ed avvisare i compagni, inginocchiati sulla riva opposta, ma il corsaro stese la sua mano sopra la testa dell’incappucciato e nessun suono uscì dalla sua bocca. Il boia di Lille era ormai svuotato di tutta la sua forza e privato di ogni volontà; i suoi occhi si rovesciarono, si chiusero e infine si riaprirono, rivelando uno sguardo vitreo ed assente.
“Ora mi obbedirai!”, disse il corsaro con una voce calma e suadente, ma che non ammetteva repliche.
“Parla! Chi ti ha ordinato la morte di questa donna?”
Il boia iniziò a parlare con una voce atona ed impersonale: “Un uomo di aspetto nobile, che porta la divisa dei moschettieri francesi, è venuto a cercarmi l’altra sera e mi ha offerto del denaro, dicendomi che bisognava decapitare un’assassina che aveva ucciso il suo secondo marito, una giovane ed il favorito del Re d’Inghilterra. L’uomo mi ha condotto da quattro altri signori, tre moschettieri come lui ed un inglese. Abbiamo cavalcato per cinque o sei leghe fino ad una piccola capanna, dove mi hanno mostrato colei che avrei dovuto uccidere.”
“E voi avete obbedito? A degli stranieri sconosciuti e senza l’ordine di un giudice?”
“Mi ero riservato di rifiutarmi, se avessi trovato l’incarico ingiusto, ma quando ho visto la donna, ho riconosciuto in lei una persona che odiavo: la prima amante di mio fratello, colei che lo aveva sedotto e traviato ed era stata la vera causa della sua morte. Certamente quegli uomini desiderano la sua morte per una vendetta; ma anch’io desideravo vendicarmi di lei, così ho accettato di condurla qui per decapitarla.”
“Miserabile!” disse il corsaro “E cosa ti hanno ordinato di farne del corpo?”
“Non mi hanno detto nulla; ma io pensavo di farlo sparire nella Lys. Così nessuno la troverà e non potranno mai accusarmi di nulla.”
“Ora ascoltami bene: prenderai il corpo di quest’uomo che hai ucciso e lo getterai nel fiume al posto di quello della donna che volevi assassinare; poi dimenticherai tutto quello che hai visto e ricorderai solo di aver decapitato la donna. Ricorderai per tutta la vita di averla uccisa. Il rimorso ti tormenterà: ogni notte rivedrai il suo fantasma e ricorderai di essere un assassino!”
Allora il boia si tolse il rosso mantello, lo stese a terra, vi coricò il corpo e vi gettò la testa, poi annodò i quattro capi, si caricò sulla spalla il fardello e risalì nell'imbarcazione. Giunto in mezzo alla Lys, fermò la barca e, tenendo sospeso sull'acqua il suo fardello: “Lasciate passare la giustizia di Dio” gridò ad alta voce. E lasciò cadere il cadavere nell'acqua profonda che si richiuse su di esso.
 

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Capitolo 3
*** La storia di Milady ***


~~Il corsaro si avvicinò a Milady che lo fissava con aria attonita, ancora incerta se attribuire quanto stava vedendo solo ad un sogno inconsueto e bizzarro.
L’uomo accostò un dito alle labbra per raccomandarle il silenzio, poi l’aiutò ad alzarsi. Appoggiandosi a lui, poiché la caviglia le doleva ancora per la storta, Milady lo seguì senza parlare fino ad una macchia di alberi da dove, senza timore di essere scorti, si poteva dominare l’altra riva del fiume, rischiarata dalla luce della luna che usciva in quel momento da una nube.
I moschettieri, in ginocchio sulla riva opposta, sentito il grido di Milady, avevano tutti chinato il capo, chiudendo gli occhi. Athos e Aramis, che erano gli unici a ricordarne le parole, avevano biascicato frettolosamente un Requiem aeternam; poi, tutti si erano rialzati senza proferire parola, scambiandosi uno sguardo inquieto. Lord Winter era sparito e, poiché nessuno voleva indugiare oltre in quel luogo, i quattro servitori furono mandati a preparare le cavalcature con in testa Planchet che, non amando frequentare la notte i luoghi alberati, più di ogni altro non vedeva l’ora di lasciare quel lugubre posto. Porthos e Aramis affrettarono il passo dietro i valletti; mentre d’Artagnan e Athos si trattennero ancora per un attimo sulla riva del fiume.
Athos, lanciando un ultimo sguardo alle scure acque della Lys, che si erano appena richiuse sul povero Rosnay, con una voce appena udibile, mormorò: “Anne…”.
Colei che rispondeva a quel nome, nascosta dietro un arbusto sull’altra riva del fiume, lo vide girarsi e trasalì, temendo insensatamente che potesse scorgerla; poi, forse, per un breve istante, entrambi ripensarono ad una notte lontana di sette od otto anni prima in cui un anello con uno zaffiro era stato donato e molte vane promesse si erano sprecate.
D’Artagnan si passò rapidamente una mano su gli occhi umidi, prima di appoggiarla sulla spalla dell’amico.
“L’amavate?”, chiese con un filo di voce.
“Amico mio, io amo tutto ciò che mi distrugge e mi inebria: è la mia disgrazia” e, così dicendo, Athos trasse di tasca una piccola bottiglia, piena di un liquido ambrato, che portò alle labbra, vuotandola d’un fiato.
Quando il boia ebbe riattraversato il fiume, tutti erano già partiti al galoppo. L’uomo si guardò furtivamente attorno e, constatato che nessuno era più in vista, immerse la mano nell’acqua bassa del fiume, in un punto che aveva ben memorizzato, traendone la borsa che gli aveva dato Athos.
“Che razza di ipocrita!”, sibilò Milady tra i denti.
Il carnefice, recuperato il denaro e contate le monete gocciolanti, si affrettò ad andarsene a sua volta. Milady e il corsaro lo osservarono immoti finché non sparì alla loro vista e la riva destra della Lys rimase deserta nella luce spettrale della luna velata, senza più nessuna traccia che testimoniasse il terribile dramma che vi si era svolto solo pochi minuti prima; solo in lontananza, nella capanna, si intravvedeva ancora filtrare dalla finestra infranta il fioco bagliore della lucerna che finiva di consumarsi.
Vedendo cessato il pericolo, il corsaro respirò con sollievo l’aria notturna odorosa di terra bagnata.
“Grazie, amico mio, chiunque voi siate, grazie per avermi salvata…”, mormorò Milady, sorridendo di sollievo.
Come in un incubo, le erano sfilati davanti tutti fantasmi del suo passato: suo marito Athos, che due volte aveva tentato di ucciderla; d’Artagnan, che l’aveva insultata e abusata; suo cognato, lord Winter, che voleva privare di tutto lei e suo figlio; il boia che l’aveva marchiata con il ferro rovente quando era poco più di una bambina. Tutti quegli ipocriti che si pretendevano virtuosi, che si credevano in diritto di giudicare e condannare, si erano coalizzati per ucciderla, eppure lei era ancora viva. Viva a dispetto di tutto e tutti! Nella loro presunzione, i suoi nemici si credevano inviati da Dio per punirla e invece il Cielo non le aveva negato suo soccorso, ce l’aveva fatta anche stavolta! Aspirò con voluttà a pieni polmoni l’aria profumata della libertà. Volle alzarsi e gridare; ma un improvviso capogiro la prese e vide come una nuvola sanguigna passarle sugli occhi.
Il corsaro sentì un peso improvviso gravargli sul braccio, si voltò e si accorse che, sopraffatta dalla tensione e dalla stanchezza, la giovane era svenuta. L’uomo la sollevò tra le braccia, s’incamminò lasciandosi il fiume alle spalle e avanzò alla sua sinistra per alcuni minuti, finché non giunse in prossimità di un vecchio mulino.
Si trattava di una costruzione in legno, non molto grande, dalle pale ormai immobili, che, con la porta sprangata da travi inchiodate, sembrava in completo abbandono. Appoggiata delicatamente Milady contro la parete di legno, l’uomo prese una robusta scala, ben mimetizzata tra il fogliame, che poi appoggiò ad una finestrella semiaperta. L’uomo di mare, avvezzo ad arrampicarsi sul sartiame dei velieri, non ebbe difficoltà a salire reggendo la giovane su di una spalla. Entrato con lei in una stanzetta arredata semplicemente, il corsaro adagiò Milady, ancora incosciente, su di un pagliericcio e, ritirata all’interno la scala, accese due candele su di un doppiere.
Per quanto nel corso della sua vita avventurosa avesse avuto occasione di visitare molti luoghi e di vedere molta gente, il corsaro non ricordava tuttavia di essersi mai imbattuto in una giovane di tale bellezza: il corpo, di statura media, rivelava delle forme perfettamente modellate; i capelli, lunghi quasi fino alle spalle, d’un biondo pallido dai riflessi argentei, cadevano inanellati sul viso la cui pelle vellutata, bianchissima e luminosa, faceva risaltare le sopracciglia e le lunghe ciglia, nere come l’ebano, che incorniciavano gli occhi chiusi dal taglio perfetto che, solo qualche istante prima, con il loro turchino purissimo, limpido e profondo e la loro espressione indefinibile, languida e fiera, intrepida ed angosciata al tempo stesso, tanto avevano colpito l’immaginazione dell’uomo.
Le labbra rosee della donna erano graziosamente socchiuse in un respiro lieve e affannoso che rivelava come la mente di Milady fosse turbata da un sogno angoscioso. Gli eventi di quella terribile notte avevano infatti richiamato un incubo che già più volte aveva visitato i sonni della giovane donna: Milady si rivedeva assieme al suo primo marito; era felice mentre cavalcavano assieme nella campagna ridente del Berry in un bel giorno d’inizio estate finché, all’improvviso, il suo cavallo scartava e lei cadeva...
Una delle principali differenze tra i sogni e la realtà consiste nel fatto che, mentre nella realtà quando si cade si tocca terra, nei sogni si continua a cadere; e Milady, che aveva sempre avuto terrore del vuoto, continuava appunto a cadere, cadeva in un abisso senza fondo, mentre tutto si faceva buio attorno a lei, finché non sentiva la corda stringersi attorno al suo collo a toglierle il respiro.
Il corsaro, vedendo Milady respirare a fatica, volle aiutarla e le allentò le vesti scoprendo la candida rotondità delle spalle. L’uomo trasalì vivamente nel vedere su una di esse il piccolo giglio rosso, impresso dal ferro del carnefice.
In quel momento, Milady si svegliò dal suo incubo ed aprì gli occhi gridando; ma, anziché calmarsi, vedendo l’uomo chino su di lei e il suo marchio scoperto, proprio come era avvenuto quel terribile giorno che aveva appena rivissuto in sogno, la donna afferrò l’impugnatura di un coltellaccio che spuntava dalla cinturone del corsaro e, con una mossa tanto fulminea da lasciare di stucco persino quell’uomo che aveva affrontato tante imprese, in un attimo puntò contro il suo petto la lucente lama d’acciaio.
“State indietro!”, gli ordinò, ruggendo come una pantera ferita, “Chi siete? Cosa volete da me?”
Sebbene il corsaro avesse affrontato pericoli di ogni genere, non poté non rimanere intimorito dal repentino cambiamento che aveva visto prodursi in quella donna che ora puntava su di lui due pupille dilatate, pallidissima, con la fronte imperlata di sudore e con le labbra strette e tremanti come scosse da una violenta febbre.
“Calmatevi, vi prego… Non abbiate paura. Non voglio farvi del male.”, disse l’uomo affascinato nonostante tutto dal coraggio che mostrava quella donna incredibile.
Milady lo guardò sospettosa. “Non vi avvicinate!”, lo minacciò, protendendo la lama lucente della navaja, mentre la sua mente tentava di riordinare i pensieri, ricostruendo gli ultimi convulsi avvenimenti.
Milady era sempre stata molto abile nel leggere sui volti l’animo di chi le stava di fronte, e si stupì di constatare che l’espressione del corsaro non mostrava nulla dell’orrore e del disprezzo che di solito la vista del suo marchio suscitava. La donna respirò profondamente, si ricordò che l’uomo le aveva salvato la vita e si chiese se poteva fidarsi. Cosa sapeva in realtà di quell’uomo, salvo che doveva trattarsi di una specie di negromante che aveva lanciato un incantesimo sul boia? Cosa ci faceva lì, vestito a quel modo? Era forse un pirata? Ora che sapeva del marchio l’avrebbe denunciata?
“È per via del vostro marchio che temete?”, le chiese l’uomo con voce calma, quasi leggendole nel pensiero.
Milady annuì, “Siete forse rammaricato di aver salvato una criminale, credendola una vittima innocente?”
“Niente affatto; e non temete, non intendo denunciarvi. Capisco il vostro spavento…”.
“Come potete capire? Che ne sapete voi?”
“Forse ne so più di quanto immaginiate”, disse il corsaro con un sospiro e, attento a non fare mosse brusche, per non allarmare ulteriormente la donna, si tolse il lungo gabbano di foggia marinaresca ed allentò la sua casacca di seta celeste, mettendo a nudo una spalla.
Milady vide, disegnato sulla pelle dell’uomo, un complicato tatuaggio, di quelli tanto in voga tra la gente di mare, che rappresentava un serpente marino, una di quelle creature fantastiche e mostruose che popolano i racconti che i marinai ubriachi si scambiano a sera nelle taverne.
“Ebbene? Non capisco!”, fece la donna, temendo si trattasse di qualche tranello per distrarla.
“Guardate meglio…”, rispose il corsaro avvicinandosi cautamente.
Milady, tenendo sempre stretto il pugnale, esaminò meglio il tatuaggio e scorse, mimetizzata tra le scaglie del serpente, la cicatrice a forma di fleur de lys.
“Ah! Allora anche voi…”, esclamò interdetta.
“Vedete bene, Milady, che so anch’io come la giustizia umana, spesso, sia umana solo di nome.”
Milady esaminò l’uomo con uno dei suoi sguardi più penetranti e sentì che il suo aspetto le ispirava fiducia. In ogni caso, ragionò, si trattava certo di un abile uomo d’arme e sapeva di non avere grosse possibilità in uno scontro diretto con lui.
“Scusatemi, non so cosa mi abbia preso. Ero spaventata e…”, disse, restituendogli l’arma che il corsaro si affrettò a riporre lontano.
“Non temete, vi capisco…”, rispose l’uomo con dolcezza, riponendo il coltellaccio e prendendo una bottiglia da cui versò in un bicchiere un liquore ambrato.
“Bevetene un po’, vi aiuterà a superare lo spavento”, disse porgendo il bicchiere a Milady ancora scossa da brividi per la terribile esperienza.
Milady vuotò il bicchiere d’un sorso.
“Uhm, un po’ forte ma niente male…” disse la donna strizzando gli occhi, scossa da un ondata di piacevole tepore.
“È rum delle Barbados. Non c’è niente di meglio per cacciare lo spavento.”, disse sorridendo l’uomo di mare.
“Sono proprio un’ingrata… Vi ringrazio ancora per avermi salvato la vita. Ma chi siete?”
“Perdonate voi la mia villania, non mi sono presentato. Mi chiamo Emile de Rochenoire, dei conti de Vintimille.”
“Milady Clarick, contessa de Winter, molto lieta.”, fece la donna sfoderando il suo sorriso più seducente e porgendogli la mano che il corsaro si affrettò a baciare.
Un tempo, Milady si era ripromessa di non permettere che nessuno, da vivo, conoscesse il suo segreto: quel terribile segreto, quel marchio inflittole ingiustamente che la perseguitava e la minacciava. Adesso, però, quella donna, abituata ad affrontare ogni situazione con coraggio e lucidità, capiva bene che le cose erano cambiate: il suo segreto era ormai conosciuto dai suoi mortali nemici: il boia, lord Winter, i moschettieri, senza contare i valletti; decisamente troppi per sperare di metterli tutti a tacere… Inoltre, quando Rochefort avrebbe riferito al cardinale del tentativo di far fallire la sua missione in Inghilterra, Athos e d’Artagnan sarebbero stati arrestati e, per difendersi, avrebbero certamente tentato di screditarla in ogni modo, raccontando tutto ciò che sapevano del suo passato. Come lei, anche il corsaro portava un marchio e, da ciò che le aveva detto, si capiva che, come lei, era stato vittima incolpevole dell’odio dei suoi nemici; bisognava, quindi, pensò Milady, che conoscesse tutta la storia, che sapesse che anche lei, come lui, era stata vittima di un’ingiustizia. Oltretutto, Milady aveva bisogno dell’appoggio di quell’uomo e, sapendo bene quale potere di fascinazione avesse la sua voce, era sicura di poterlo portare dalla sua parte. Se era riuscita nell’impresa impossibile di convincere quell’incorruttibile Felton, sarebbe stata una passeggiata affascinare quell’uomo che, lo indovinava bene, le dimostrava già simpatia e ammirazione.
Al ricordo del suo trionfo su quel puritano fanatico, un sorriso di compiaciuta soddisfazione increspò le labbra della donna che, però, accingendosi ad iniziare il suo racconto, assunse subito un’espressione melanconica.
“Beh, ormai che sapete del mio marchio”, iniziò Milady con l’aria triste ed ispirata, “lasciate che vi narri la mia storia. Potrete così decidere se avete salvato una criminale o una vittima innocente.”
“Oh, non ne siete obbligata”, rispose il corsaro, “non spetta a me giudicarvi e, in ogni caso, qualunque cosa possiate aver fatto, chi voleva uccidervi di nascosto, la notte, facendo poi sparire il vostro corpo nel fiume, non stava certo compiendo un’opera di giustizia.”
“No, no, voglio che sappiate tutto…”, riprese Milady, che, con un abile movimento, fece cadere un po’ più in basso i merletti sgualciti che le coprivano il petto, gettando poi, con un gesto teatrale, la testa all’indietro, passando le agili dita ad arricciare graziosamente i bei capelli sparsi come fili dorati.
Poi, dardeggiando sull’uomo lo sguardo più languido e sconsolato di cui erano capaci i suoi profondi occhi celesti, Milady iniziò il suo racconto.
“Sono nata in Irlanda quasi venticinque anni fa con il nome di Anne de Beuil. Mio padre era un nobiluomo del Galles  amico di quell’Anthony Babington che fu giustiziato per aver congiurato al fine di riportare sul trono Maria Stuarda . Non ho mai saputo se mio padre avesse realmente preso parte alla congiura di Babington; ma sua moglie, per mettere le mani sul suo patrimonio e rifarsi una vita con il suo amante, lo denunciò. Mio padre dovette fuggire e cercò rifugio in Irlanda, nel Donegal, sotto la protezione del re di Tir Chonaill, Hugh O’Donnell. Fu proprio mio padre ad aiutare figlio di O’Donnell, fatto rapire dal luogotenente d’Irlanda  ad evadere dal castello di Dublino.
Dopo la disfatta degli Irlandesi a Kinsale, mio padre seguì O’Donnell in Spagna per cercare rinforzi. O’Donnell morì improvvisamente  e mio padre, non avendo ottenuto nulla dagli Spagnoli, si recò a cercare aiuti presso la corte francese, senza incontrare, però, migliore fortuna. In Francia, conobbe mia madre, che apparteneva ad una nobile famiglia della Turenna, e se ne innamorò. Ovviamente, avendo già una moglie in Inghilterra, non avrebbe mai potuto sposarla; ma mia madre decise di fuggire ugualmente con lui e lasciò la sua famiglia per seguirlo in Irlanda, dove venni alla luce.
Avevo circa quattro anni quando i miei genitori, per sottrarsi alla vendetta degli Inglesi che avevano ormai domato la rivolta irlandese, fuggirono assieme al conte di Tyrone  e si stabilirono nei Paesi Bassi Spagnoli, vicino ad Armentières, poco distante da qui. Come molte fanciulle di buona famiglia, per la mia educazione, fui mandata dalle monache di Templemars. Mio padre morì improvvisamente quando avevo otto anni e mia madre lo seguì tre anni dopo. Rimasta orfana, un mio fratellastro, figlio della moglie di mio padre, riuscì ad impossessarsi di tutto il patrimonio, mentre io, in quanto figlia illegittima, fui privata di ogni diritto e costretta a rimanere al convento per prendere i voti . Non avevo che dodici anni, amavo la vita, la poesia, gli animali, le corse nei prati ed ero stata condannata a non uscire più da quelle mura per tutta la vita! Passarono così due anni, tristi e lunghi come secoli; il mio unico svago era il canto nel coro delle monache. Fu forse la mia voce a farmi notare dal nostro confessore, un giovane prete, bello e dai modi gentili che, come me, amava la musica; lui diceva che cantavo come un angelo del paradiso. A differenza delle monache, il giovane prete era buono con me: mi prestava dei libri e mi faceva dei piccoli regali. Ben presto, compresi che non aveva più vocazione di quanta ne avessi io e che il suo affetto per me non era quello di un padre o di un fratello… Anch’io lo amavo, o almeno credevo di amarlo, come si può amare a quattordici anni. Il prete mi aveva promesso di portarmi via con lui: credo che avrei amato anche il diavolo se mi avesse aiutato a fuggire da quella prigione! Andarsene, però, era difficile, poiché il prete non aveva denaro: era di famiglia povera, figlio del vecchio carnefice della città di Lille, di cui suo fratello aveva ereditato la professione.
Viveva da quelle parti un uomo dalla fama terribile quanto misteriosa: nessuno sapeva con certezza il suo nome; ma si diceva fosse un Visconti che aveva dovuto lasciare Milano, per fuggire un bando o una vendetta e si era rifugiato nelle Fiandre spagnole. Si diceva che quell’uomo potesse procurare qualsiasi cosa a chi lo pagava bene e Georges, questo il nome del prete, si rivolse a lui per trovare il modo di fuggire dal convento assieme a me. Quell’uomo gli disse che poteva procurargli una lettera di raccomandazione per un potente ecclesiastico francese, il vescovo di Luçon, il quale gli doveva un favore. Con quella lettera sarebbe stato facile trovare una sistemazione lontano da lì, dove avremmo potuto vivere nascosti e tranquilli. In cambio, però, quell’uomo gli chiese di portargli dei vasi preziosi custoditi nel convento.
Così, Georges rubò i vasi e lasciò furtivamente il monastero, promettendomi che sarebbe pesto tornato per far fuggire anche me. Non avevamo, però, considerato che quei dannati conventi hanno mille occhi; scoperto il furto, qualcuno, forse una novizia gelosa, denunciò la mia relazione con il prete. Fui arrestata e, sebbene non potessero collegarmi al furto, fui destinata ad un convento di penitenza. Per fortuna, vidi che il giovane figlio del carceriere mostrava compassione verso di me; ormai avevo capito che gli uomini trovavano attraente il mio aspetto e, ovviamente, tentai di tutto per convincerlo a lasciarmi andare. Così, fosse mia la bellezza o la pietà per me a convincerlo, mi lasciò fuggire.
Finalmente libera, non sapevo però dove andare; mi diressi allora a casa di Georges, a Béthune. Sua madre, una vera arpia, non volle ospitarmi; ma il fratello, il boia, si mostrò invece amichevole: mi disse che Georges era andato da quell’uomo senza nome e sarebbe tornato presto a prendermi. Il boia mi mostrò una casupola, dove avrei potuto nascondermi durante l’attesa. Si trattava di una specie di laboratorio dove quell’uomo si occupava della sua passione per le scienze naturali; il posto mi spaventava un poco, pieno com’era di lucertole diseccate, scheletri e fasci di erbe di ogni tipo attaccati al soffitto.
Il boia mi portò da mangiare, mi disse di non aver paura e mi preparò una tisana di certe erbe medicinali che, disse, mi avrebbe aiutato a rilassarmi. Quand’ebbi bevuto l’infuso, dal sapore gradevole, mi sentii prendere da un torpore sconosciuto e irresistibile. Ebbi appena il tempo di stendermi sul letto che l’uomo mi aveva approntato, che caddi in un sonno profondissimo, provocato dal potente narcotico. Quando, il giorno dopo mi svegliai, mi accorsi da inequivocabili segni che quell’uomo aveva approfittato di me…”
“Ah! L’infame!”, esclamò il corsaro.
“Appena tornò”, riprese Milady, “gli gridai la mia rabbia e il mio disprezzo per ciò che mi aveva fatto. Lui dapprima negò, poi, ridendo, ammise tutto.
 – Suvvia -, mi disse, - non vorrete farmi credere che il mio caro fratellino non vi aveva ancora toccata? E poi lui, lo sapete, non potrà mai sposarvi e non ha quindi diritto di lamentarsi. In fondo, lui ha tutte le fortune: è bello, ha un lavoro pulito, il rispetto della gente e adesso ha pure un bel bocconcino come voi, era giusto che anch’io mi prendessi qualcosa. -
- Non la passerete liscia! – gridai – Vi denuncerò! – Con un ghigno beffardo, lui allora mi disse che avrei fatto meglio a stare zitta e dimenticare tutto. Io, fuori di me dalla rabbia, lo minacciai ancora di denunciarlo e mi gettai contro di lui colpendolo e graffiandolo. Allora montò in collera e iniziò a picchiarmi con tale forza da rompermi un dente. Caddi a terra tramortita, lui ne approfittò per legarmi e…”
“Oh, non dovete continuare se ciò vi fa soffrire”, disse il corsaro.
“No, no, voglio che sappiate”, rispose Milady riprendendo il suo racconto, “Quell’uomo mi disse che non ero altro che una prostituta che aveva sedotto suo fratello e che, visto che non volevo tacere, avrei subito il supplizio delle prostitute. Con orrore vidi il ferro per la marcatura che si arroventava sul braciere.
– Una volta infamata davanti agli uomini – mi disse – nessuno vi crederà e, se mi accuserete, vi prenderanno per una criminale o per pazza. –
 - Siete voi il pazzo! – gli gridai allora – potrò dimostrare che nessun tribunale mi ha condannata! Farò appello alla giustizia, al re, se necessario! –
Allora il boia esplose in una risata sinistra – Ma io vi marchierò con il giglio di Francia: se vi rivolgerete alla giustizia spagnola, vi prenderanno per una criminale o una prostituta marchiata in Francia. Come farete a dimostrare il contrario? –  , con un'altra orribile risata prese il ferro incandescente e lo premette sulla mia spalla.”, disse Milady con un sospiro.
“Mio Dio, povera fanciulla…”
“Non rinvenni che il giorno seguente, Georges era tornato e, assieme, partimmo per la Francia. Quel nobile italiano era stato di parola e, grazie alla sua lettera di raccomandazione, Georges ottenne una parrocchia nel Berry  e dei documenti falsi in cui passava per mio fratello. Ero finalmente lontana da quel maledetto monastero; ma la mia nuova vita non era certo quella che avevo sperato: George era sempre più chiuso, taciturno e scontroso, viveva praticamente ritirato nella canonica, mentre i giorni della mia giovinezza passavano in una noia mortale, finché non conobbi il…”
Milady trasalì e si arrestò un attimo, come sopraffatta da una forte commozione, prima di riprendere a narrare, “conobbi il visconte de La Fère. Era appena tornato dall’assedio di Angers e sembrava davvero un principe delle favole: era così bello, gentile, educato. A differenza degli altri nobili, fatui ed esperti solo di armi e caccia, lui era colto e raffinato. Amavamo le stesse cose: la campagna, i fiori, l’aria libera, la poesia. Mi insegnò a cavalcare, mi prestava i libri della biblioteca del suo castello; assieme parlavamo per ore dei nostri autori preferiti, mi fece conoscere Ronsard e Malherbe, recitavamo i loro versi. Lui mi diceva che avevo un animo da poeta… Mio Dio, come tutto sembrava sorridermi allora: avevo sedici anni e l’avvenire mi si schiudeva roseo davanti. Non avevo di certo mai sentito per Georges quello che sentivo adesso per il visconte: ero felice, libera ed innamorata.
Un brutto giorno, Georges venne rapito da dei cacciatori di taglie che lo avevano riconosciuto, ed io rimasi sola nel presbiterio. Il posto di Georges venne assegnato ad un altro curato ed io, esauriti i pochi denari rimasti, sarei dovuta andarmene a menare una vita grama nella miseria. Stavo appunto raccogliendo le mie poche cose quando… quando il visconte mi chiese di diventare sua moglie! Sarebbe stato un matrimonio segreto perché suo padre, gravemente malato, non avrebbe approvato la sua unione con una fanciulla senza nobili natali e lui non intendeva contrariarlo negli ultimi giorni di vita; ma alla sua morte sarei andata a vivere al castello con lui.
Mio Dio! Non ci potevo credere: sarei diventata contessa! Finalmente avrei dimenticato tutto: il monastero, la cupezza di Georges, la miseria, la paura. Avrei avuto una nuova vita, una vita finalmente ricca e felice assieme all’uomo che amavo.
In fondo sentivo di meritarlo: i miei genitori erano nobili e ricchi, da bambina ero vissuta negli agi, avevo un’educazione aristocratica; ma tutto mi era stato strappato ingiustamente. Perché non avrei dovuto approfittarne se ora il destino mi offriva un’occasione di rivincita? Sì, quella rivincita mi spettava, ne avevo diritto!
Certo, c’era sempre il marchio: avrei potuto dimostrare che non ero mai stata condannata da nessun tribunale francese, che il marchio mi era stato inflitto ingiustamente; ma sarei stata costretta a raccontare tutta la storia e temevo che il visconte, sapendo che non ero vergine, non avrebbe mai accettato fare di me sua moglie.
Fui abbastanza pazza da credere di poter superare anche quell’ostacolo; nei primi tempi, pensai, avrei potuto nascondere il marchio. In fondo, alcune dame dell’aristocrazia tengono la camicia da notte anche mentre…ehm…assolvono i doveri coniugali, poi gli avrei dato dei figli, avrebbe avuto la prova del mio amore e, speravo, alla fine avrebbe capito…”
Milady sospirò amaramente, “Già, che sciocca sono stata. Credevo veramente che nulla fosse impossibile per un vero amore, che esso potesse vincere tutto. Non avevo notato, o non avevo voluto notare, il puntiglio aristocratico del visconte, i suoi scatti improvvisi d’ira, la sua ossessione per l’onore… Non avevo considerato che certe persone, per l’onore, sono disposte a sacrificare anche la vita, la propria o quella di una moglie…
Georges ritornò e mi raccontò una storia spaventosa: era stato suo fratello, il boia che mi aveva marchiata, a venderlo a dei cacciatori di taglie e lui aveva dovuto ucciderlo per riuscire a fuggire. Quando seppe che avrei sposato il visconte si infuriò; ma, alla fine, accettò la cosa e fu lui stesso a celebrare le nozze in segreto. Data la sua lunga assenza, era stato ormai sostituito da un nuovo curato, ma mio marito, che lo credeva sempre mio fratello, e a cui avevo detto che era ricercato perché aveva dovuto uccidere per difendersi, gli permise di rimanere a vivere nascosto in paese.
Il visconte fu di parola e, quando suo padre morì, mi condusse con lui al castello. Passai dei mesi da sogno, finalmente mi ero lasciata alle spalle la miseria, ero diventata una delle prime dame della provincia, tutti mi trattavano con rispetto e ammirazione. Passavo le giornate con l’uomo che amavo a leggere poesie e a cavalcare e, quando sospettai di aspettare finalmente un figlio ero davvero al colmo della felicità.
Purtroppo, Georges sparì di nuovo ed io ero così preoccupata e spaventata, che passai la notte senza chiudere occhio. La mattina dopo, mio marito mi propose una cavalcata nel bosco; non avevo voluto dirgli che pensavo di essere incinta finché non ne fossi stata sicura e sapevo che, protettivo com’era, una volta che glielo avessi detto, mi avrebbe trattata come una fragile statuetta di porcellana e non avrei più potuto salire a cavallo per chissà quanto tempo. Così, decisi di dirglielo quella sera a cena, dopo quell’ultima cavalcata. Non so se fu per la notte in bianco, la preoccupazione per Georges, un capogiro dovuto al mio stato oppure solo una tragica fatalità, ma caddi da cavallo e quando mi svegliai…”
Milady si fermò di nuovo nel suo racconto, portandosi una mano agli occhi, come sopraffatta dal terribile ricordo.
“Cosa successe quando vi svegliaste?”, chiese l’uomo.
“Quando mi svegliai, ero nuda e stavo soffocando appesa ad un albero…”
“Mio Dio! Come può essere? Cosa vi era accaduto?”
“Il mio amato marito aveva scoperto il marchio, aveva stracciato le mie vesti e, fatta una corda con i brandelli, mi aveva impiccata…”
“Ah! Miserabile! Così, senza neppure chiedervi cosa aveste fatto?!”
“Beh, mio marito non è mai stato un tipo molto curioso…”, rispose Milady con una smorfia di amara ironia.
“Per mia fortuna, agitandomi, la stoffa si strappò e caddi a terra; riuscii a liberarmi le mani e a togliermi il cappio dal collo, prima di perdere nuovamente i sensi. Quando mi ripresi, mi ritrovai in un letto in una capanna nel bosco. Ero stata raccolta da una certa Madame Chouette, una vecchia levatrice che viveva nella foresta curando gli abitanti del paese o i briganti quando cadevano malati o feriti.
Madame Chouette si prese cura di me e, grazie a lei, mi rimisi presto completamente. Mi disse che mio marito aveva lasciato il castello; in paese, girava voce che si fosse ucciso, impazzito per la disperazione di aver perso l’amata moglie. Ero ormai sola al mondo, al castello non potevo certo tornare, così vissi per un certo tempo con Madame Chouette. Era una vecchia gentile e simpatica, anche se un po’ originale; da lei appresi un sacco di cose utili sulle virtù delle erbe, sui medicamenti e… sui veleni. Ero però inquieta: avevo capito che Madame Chouette era una di quelle donne sagge che i nostri bravi inquisitori amano tanto far arrostire sul rogo e, vivendo con lei, temevo di seguirne un giorno il destino. Quando le chiesi se non temesse di cadere nelle grinfie dell’Inquisizione, mi rispose, ridendo, che godeva della protezione di un vescovo molto potente di cui lei era l’unica a poter curare i terribili mali di testa cui andava soggetto. Qualche tempo dopo, infatti, il vescovo venne a sottoporsi alle cure di Madame Chouette e fui molto stupita di riconoscere in lui Armand du Plessis, il vescovo di Luçon. Si fermò da noi per un po’, era un uomo molto intelligente e possedeva uno sguardo magnetico e affascinante; quando se ne andò, mi propose di andare con lui e lo seguii. Avevo notato che si mostrava molto interessato a me e, dapprima, pensai che volesse fare di me la sua amante; ma, presto, scoprii che intendeva approfittare di altre mie qualità. Mi disse che, se avessi accettato di mettermi al servizio della Francia, avrebbe potuto darmi tutta la protezione di cui avevo bisogno: da uomo perspicace qual era, aveva certo indovinato che mi portavo dietro qualche terribile segreto e che non avrei potuto rifiutarmi. Mi introdusse a Corte, presentandomi come una dama inglese, visto che parlavo perfettamente la lingua di mio padre, e fu anche per merito mio che riuscì a risolvere una delicata situazione e ad ottenere la porpora cardinalizia cui, poco dopo, seguì il posto da Ministro e il titolo di duca di Richelieu.
Fu così che entrai al servizio del cardinale e della Francia. Presto, visto che passavo per inglese, Richelieu mi mandò a Londra a sorvegliare il duca di Buckingham. Fu alla corte inglese che conobbi lord de Winter, fratello di uno dei migliori amici del duca. De Winter era un bell’uomo, piuttosto simpatico; si innamorò di me e mi propose di sposarlo e, visto che mi credevo vedova e che entrare in una famiglia così legata a Buckingham avrebbe certo facilitato la mia attività di informatrice, accettai. Dopo un breve matrimonio, però, de Winter mi lasciò vedova e incinta.
Dopo la morte di mio marito, il duca di Buckingham venne più volte a visitarmi, con il pretesto di informarsi sulle mie condizioni di salute; ben presto, però, capii che quel noto libertino intendeva semplicemente aggiungermi alla lista delle sue numerose conquiste. Non era di aspetto sgradevole e non vi nascondo che avrei probabilmente finito per accondiscendere se non fosse stato tanto volgare da farmi delle proposte esplicite già pochi giorni dopo la morte di mio marito.
L’arroganza, la presunzione, la prepotenza del duca me lo avevano ormai reso detestabile ma, a causa della mia missione, ero costretta a fingere di accoglierlo come amico; tuttavia, rimasi sempre ferma nel respingere le sue profferte. Contrariato dai miei rifiuti, quell’infame, una sera, con la complicità di mio cognato, si introdusse nelle mie stanze, dove ero costretta a letto a causa della recente nascita di mio figlio e, senza riguardo per le mie condizioni, approfittando della mia debolezza, abusò di me con la forza.
Ormai odiavo quell’uomo con tutte le mie forze, fui anche tentata di denunciarlo; ma la cosa avrebbe certo compromesso la mia missione, senza contare che avrei avuto ben poche possibilità di ottenere giustizia contro un favorito del re. Dovetti così tacere e, piena di disgusto, feci ritorno in Francia assieme a mio figlio. Il duca, da quell’uomo fatuo e sciocco che era, attribuì la mia partenza al dispetto causato dalla gelosia per aver saputo della sua tresca con la regina di Francia.
A Parigi, credetti di poter ritrovare finalmente un po’ di felicità: ad un ballo dato dalla signora di Guisa, conobbi un giovane gentiluomo che, come me, godeva della fiducia del cardinale Richelieu, il marchese de Wardes. Il marchese era bello, gentile, ricco e raffinato e me ne innamorai a prima vista e, siccome anche lui sembrava ricambiare i miei sentimenti, per un poco pensai che, dopo tanti travagli, anch’io avrei potuto trovare un po’ di sollievo e la vita potesse tornare a sorridermi.
Purtroppo non era che un’illusione: il cardinale mi ordinò di ritornare a Londra per sorvegliare il duca di Buckingham; fu proprio il giorno che ricevetti il suo ordine, a Meung, che vidi per la prima volta quel d’Artagnan , uno di quei gentiluomini che poco fa volevano assassinarmi. Di nuovo in Inghilterra, ebbi finalmente l’occasione di vendicarmi del duca: per ordine del Cardinale, ad una festa, senza che neppure se n’accorgesse, gli sottrassi due dei puntali che la sua regale amante gli aveva donato e, una volta compiuta la mia missione, tornai definitivamente in Francia.
Purtroppo, il piano del Cardinale, per la riuscita del quale avevo tanto rischiato, fallì proprio per colpa di quel dannato d’Artagnan, il quale, dopo aver crudelmente aggredito e ridotto in fin di vita il povero de Wardes, in combutta con Buckingham, riuscì ad ingannare il re con dei gioielli abilmente contraffatti.
Visto poi che, come si dice, le disgrazie non vengono mai sole, mio cognato, degno amico del duca di Buckingham, mi seguì a Parigi e fui anche costretta ad alloggiarlo a casa mia in Place Royale. Sapevo che mio cognato mi detestava da quando la nascita di mio figlio lo aveva privato del titolo di conte e dei beni che, altrimenti, avrebbe ereditato da suo fratello. Quando mi fece delle proposte di matrimonio, pensai che di certo mirava a riprendersi l’ingente fortuna lasciatami da mio marito e lo rifiutai decisamente. Mio cognato non si volle dare per vinto e le sue sciocche insistenze mi infastidivano talmente che un giorno, in carrozza, giungemmo ad un violento litigio. Quel guascone, d’Artagnan, si trovava a passare di là, si offerse di difendermi e lo sfidò a duello. Devo ammettere che sperai vivamente che quell’imbecille si dimostrasse almeno utile a qualcosa liberandomi da mio cognato; ma d’Artagnan, invece, pensò bene di risparmiargli la vita e di stringere amicizia con lui.
In quel momento, tuttavia, tutti i miei pensieri erano rivolti al mio povero de Wardes, ed ero così sollevata dal sapere che si era salvato, che scordai persino la mia rabbia per il fallimento della missione e le prepotenze di mio cognato. Ma poi quell’infame…”
Milady s’interruppe, scossa da una violenta emozione; poi, con un’espressione furente sul volto, quasi sibilando le parole tra i denti, raccontò al corsaro in che modo d’Artagnan aveva abusato di lei con l’inganno.
“Ma è ignobile! Come può osare definirsi ancora gentiluomo chi si rende capace di un’azione così spregevole?!”, esclamò l’uomo indignato, afferrando la mano di Milady per consolarla.
“Ma il peggio doveva ancora venire”, riprese Milady, “come in un incubo, il terribile passato, che ormai credevo di essermi lasciata alle spalle, tornò a perseguitarmi. Il mio primo marito non era morto ma si era fatto moschettiere e, legato d’amicizia con quel dannato guascone, tornò a minacciarmi e a tormentarmi. Incuranti del bene della loro stessa patria, non esitarono ad unirsi a mio cognato, un inglese loro nemico, pur di colpirmi, di togliermi la libertà e minacciare la mia vita.”
Milady raccontò concitatamente, con voce rotta, gli ultimi eventi della sua prigionia in Inghilterra e del’inseguimento da parte dei moschettieri fino alla farsa del processo che avevano inscenato per ucciderla.
“Ecco, ora sapete tutto”, concluse infine con un profondo sospiro la donna, scossa da un fremito febbrile. 
Il corsaro, sopraffatto dalla commozione, l’abbracciò. La giovane donna posò la testa sulla sua spalla ed egli ne accarezzò dolcemente i capelli dorati.
“Non temete. Nessuno vi farà più del male”, la rassicurò, “voi siete un’anima nobile e sfortunata che avrebbe meritato di vivere in una reggia non di essere perseguitata come lo siete stata. Ringrazio la Provvidenza che mi ha dato modo di giungere in vostro soccorso.”
Milady si quietò e, risollevata la testa, rivolse al corsaro uno sguardo che brillava di gratitudine e commozione. Il suo viso, prima soffuso di pallore, sembrò riprendere i suoi colori, mentre le labbra, opportunamente mordicchiate, avevano ripreso la tinta scarlatta della melagrana.
Sul volto della giovane apparve allora un indefinibile sorriso, che non si sarebbe potuto dire se dovuto più al sollievo per aver trovato quella comprensione che finora nessuno le aveva mostrato o alla soddisfazione di constatare che non aveva perso la sua capacità di affascinare.

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Capitolo 4
*** La missione del Cardinale ***


Così come Milady, forse anche i miei lettori saranno curiosi di sapere quali circostanze avessero condotto quel corsaro sulle rive della Lys. Sarà quindi necessario raccontare la scena che si era svolta qualche giorno prima nei pressi di La Rochelle, dove il cardinale Richelieu dirigeva l’assedio alla città ribelle.
Lo scontro ormai si protraeva da troppo tempo e minacciava di durare ancora, nonostante la diga e il blocco avessero ormai ridotto alla fame gli assediati. Quella mattina, il cardinale aveva fatto impiccare alcune spie del duca di Buckingham, che erano state catturate il giorno precedente; addosso ad una di esse, era stata trovata una lettera, destinata al duca inglese, dove i roccellesi gli avevano scritto a chiare lettere che, se non fosse arrivato ad aiutarli entro quindici giorni, li avrebbe trovati tutti morti di fame.
Il cardinale nutriva una grande ammirazione per gli uomini coraggiosi; ma non comprendeva l’ostinazione di quella banda di fanatici che, nonostante l’editto di Nantes che garantiva agli ugonotti la libertà di culto, credevano di conquistarsi il paradiso facendo della Rochelle una seconda Masada.
D’altronde, Richelieu sapeva bene che, se avesse ordinato l’assalto per prendere la città con la forza, avrebbe rischiato un bagno di sangue che avrebbe fatto impallidire il fosco ricordo della notte di san Bartolomeo del 1572 e il cardinale, la cui prima preoccupazione era sempre stata quella di rendere la Francia forte e coesa, non voleva imprimere al regno una ferita che avrebbe rischiato di minarne la pace interna per chissà quanti anni.
La lettera non lasciava dubbi sul fatto che gli assediati vedessero in Buckingham l’estrema risorsa e la loro ultima speranza di resistenza: se si fosse saputo che il duca non sarebbe partito in loro soccorso, i roccellesi stessi, ormai allo stremo, avrebbero costretto quei fanatici dei loro capi alla resa.
Il duca di Buckingham, inoltre, nella sua folle ambizione, tramava ormai apertamente per formare una coalizione antifrancese: era pronto a scatenare una guerra europea solo per marciare su Parigi e presentarsi alla sua amata regina nelle vesti del vincitore. Se quell’uomo non veniva fermato, non solo la situazione alla Rochelle si sarebbe fatta difficile, ma tutto il regno di Francia rischiava di venire investito contemporaneamente dagli eserciti spagnoli, inglesi e lorenesi.
Richelieu attendeva quindi con impazienza notizie dall’Inghilterra: aveva inviato in missione il suo miglior agente, ma perché tardava tanto a dare notizie? Cosa le era successo? Era stata forse scoperta e uccisa? Se la missione di Milady era fallita, le cose rischiavano di divenire incontrollabili e, come se non bastasse, iniziava già a diventare difficile tenere a bada i contrasti di Bassompierre e del duca di Angoulême.
Tuttavia, nonostante quelle gravi preoccupazioni, quella mente eccezionale non era così interamente occupata dall’assedio da non poter esaminare altre questioni che si sarebbero rivelate di non meno vitale importanza.
Il cardinale aveva sempre pensato che la Francia non avrebbe mai potuto emanciparsi dall’orbita spagnola se non avesse saputo contrastare il dominio della Spagna sui mari e nelle terre del nuovo mondo. Per questo aveva persino investito di tasca sua diecimila livres nella Compagnia di Saint-Christophe e attendeva appunto per quel giorno un’ambasceria di quegli audaci corsari; ma, in quel momento, neppure quella preoccupazione assorbiva interamente le inesauribili energie della sua mente: il cardinale, che sempre doveva guardarsi da ogni genere di nemici, in patria o all’estero, stava riflettendo su delle comunicazioni riservate che aveva ricevuto dall’Anjou.
Una certa Jeanne de Belciel aveva riferito che il curato di Saint-Pierre de Loudun, direttore spirituale del convento delle orsoline di quella cittadina, uomo colto e di bell’aspetto le cui prediche ottenevano un tale successo, specialmente presso le donne e le fanciulle, che i predicatori cappuccini di quella regione se ne erano lamentati persino con père Joseph,  avesse ottenuto, in virtù di un patto diabolico, degli straordinari poteri che gli permettevano di dominare la mente delle povere monache a lui affidate, tra le quali la stessa Belciel, allo scopo di soddisfare la sua insana concupiscenza. Sicuramente, peraltro, il successo di quel prete non doveva limitarsi alle sole prediche, se era vero che la giovane figlia del magistrato Trinquant, una delle penitenti più devote e assidue a frequentare i suoi esercizi spirituali, aveva da poco partorito un bel bambino in cui tutti vedevano il ritratto del curato.
Il cardinale, il quale sapeva bene come, in questo genere di affari, la semplicità, che ordinariamente caratterizza le anime più pie, porta spesso a ritenere vere le ingannevoli visioni partorite da una fantasia suggestionabile , non avrebbe dato credito a quei rapporti, frutto di vecchie ruggini, invidie, scandali e voci messe in giro da gente che aveva più motivi per odiare quel curato, se il nome del prete non avesse risvegliato in lui preoccupazioni ben più serie.
Richelieu lanciò un’occhiata pensosa alla cartella di cuoio appoggiata sul suo scrittoio sulla quale si leggeva il nome di Urbain Grandier;  si ricordava bene di quell’uomo, l’aveva conosciuto all’epoca in cui era priore di Coussay e, già allora, aveva avuto occasione di scontrarsi con lui.
Il cardinale sapeva da fonte sicura che Grandier era l’amante di quella Hammon, la protetta di Maria de Medici, che, con ogni probabilità era la famosa “Cordonnière” a cui si doveva quell’infame satira contro di lui pubblicata l’anno prima.  Non era difficile indovinare che, se non l’aveva scritto lui stesso, fosse stato proprio Grandier a suggerirle di scrivere quell’ignobile pamphlet.
Se poi, in quelle voci di possessioni e poteri straordinari c’era un fondo di verità - e il cardinale sospettava ci fosse - allora poteva persino darsi che Garnier avesse riscoperto il segreto di quella scienza misteriosa che consente di dominare le menti: quel misterioso magnetismo, già noto agli antichi Egizi ed ai Greci, il cui segreto, perso nelle brume del medioevo, era ormai noto solo a pochi iniziati; se un suo nemico poteva realmente disporre di quei poteri segreti, la cosa non doveva essere sottovalutata.
Sì udì bussare leggermente alla porta e l’usciere di servizio entrò, porgendo una lettera. Ad un cenno del cardinale, l’usciere lasciò la stanza per condurvi poco dopo un uomo che portava abiti di foggia marinaresca.
L’usciere si ritirò senza proferire una parola, mentre il cardinale fissava il suo occhio indagatore sul giovane che attendeva in silenzio e a capo scoperto con un’aria piena, ad un tempo, di rispetto e di dignità.
Si trattava di un bellissimo giovane di ventotto o trent'anni, di statura alta, e dalle forme elegantissime che ne rivelavano l’origine aristocratica. Aveva gli occhi di un verde smeraldino animati da uno sguardo fiero e ardente, i capelli e i baffi d’un castano quasi dorato e la pelle chiara solo leggermente abbronzata dal sole bruciante del Golfo del Messico. Vestiva un lungo gabbano di foggia marinaresca blu scuro con gli alamari dorati, mentre la casacca, i calzoni e il giustacore erano di finissima seta turchina. Portava un feltro adorno d'una lunga piuma e una larga cintura nera da cui spuntavano i manici di due pistole e l’elsa di una larga sciabola dalla guaina di cuoio bruno come quello degli alti stivali.
Quelle possenti armi che richiamavano terribili abbordaggi, producevano un pittoresco contrasto con i guanti candidi e i raffinati merletti che parevano usciti dalle mani dei migliori artigiani di Bruges.
“Signore”, disse infine il cardinale, “siete voi il conte de Vintmille?”
“Per servirla, Eminenza”, rispose l’uomo con un inchino.
“A quanto ne so, la vostra famiglia conta numerosi rami…”
“Sono il figlio di colui che diede la vita nel tentativo di difendere dai suoi assassini il Maresciallo d’Ancre.”, rispose il corsaro, “Io ero allora molto giovane e stavo di guardia alla famiglia del ministro; riuscii, a rischio della vita, a salvare il piccolo Henri  dalla plebaglia inferocita che aveva assaltato il palazzo di Saint Germain”.
“Conoscevo bene vostro padre, un valoroso. La sua morte fu una grave perdita per la Francia”, disse il cardinale con amarezza, mentre alla sua memoria si ripresentava la terribile visione del corpo straziato di Concini sul Pont Neuf, quando lui stesso era stato a un passo dal condividere la sorte di quell’italiano che lo aveva nominato ministro.
“Fu il più infame dei tradimenti, giacché fu il suo stesso fratello, mio zio, uno dei prezzolati tagliagole inviati da Vitry, ad ucciderlo.”
“Che volete farci? La brama d’oro può spingere un uomo alle peggiori infamie; ma mi pare che vostro zio non poté godere la ricompensa che gli era stata promessa…”
“Vostra Eminenza è bene informata” disse il corsaro sul cui volto era scesa un’ombra cupa.
“Non foste forse voi a punirlo? A quanto mi hanno riferito, lo sfidaste a duello e lo uccideste.”
“Ho creduto fosse dovere di un figlio vendicare l’assassinio di suo padre…”
“Un figlio che vendica il padre assassinato dallo zio: mi ricorda un dramma scritto da un inglese morto qualche anno fa…”, fece Richelieu pensoso, “Tuttavia, i giudici non sono stati del vostro avviso: vi hanno condannato sostenendo che aveste voluto la morte di vostro zio per ereditarne le fortune e perché eravate l’amante della sua giovane moglie.”
“È un’infamia Eminenza!”, gridò il corsaro balzando in piedi, “Purtroppo un giudice può sbagliare o venir corrotto…”
“Va bene, non occorre che continuiate.”, lo fermò il cardinale con un gesto che rivelava come conoscesse perfettamente la storia, “Sta di fatto che siete stato condannato, avete perso tutti i vostri beni e avete quindi cercato fortuna oltremare, assieme al signor d’Esnanbuc, tra i corsari di Saint Christophe. Il signor di Calvet mi ha parlato molto bene delle vostre imprese ed io so apprezzare l’intelligenza ed il valore anche quando portano un giglio sulla spalla.”
Il corsaro trasalì quando Richelieu accennò al marchio che lo condannava all’infamia.
“Vedo che a vostra Eminenza non si può celare nulla…”, disse con un lieve inchino.
“Non occuperei il posto che occupo se non fossi in grado di conoscere tutto dei miei amici come dei miei nemici; ma non temete, non siete l’unico, tra coloro che sono al mio servizio a portare un fleur de lys e coloro che mi sono amici non hanno nulla da temere dai giudici del Re…”
“Vi sono molto obbligato, Eminenza. Ma tengo a farvi sapere che non è da un atto di giustizia che la vostra mano mi protegge.”
“Oh, ne sono certo; ma non è per parlare del vostro passato che vi ho fatto convocare: ci sono questioni molto importanti da trattare.”
“Certamente, Eminenza: purtroppo la nostra situazione a Saint Christophe diventa sempre più difficile. All’inizio, i rapporti con gli Inglesi del capitano Warren erano abbastanza buoni; ma ora con la guerra abbiamo assolutamente bisogno di rinforzi o la nostra posizione rischia di diventare insostenibile.”
“Ne sono al corrente e conto di provvedere non appena risolta la situazione qui a La Rochelle; e potrebbe risolversi presto se l’emissario che ho inviato a Sua Grazie il duca di Buckingham porterà a termine la sua missione. C’è, però, anche un’altra questione sulla quale desidero voi mi illuminiate.”
“Quale, Eminenza?”
“Si dice che voi possediate una sorta di dono straordinario che vi consente di suggestionare la mente delle persone e di dominare le loro volontà.”
Il corsaro trasalì e la fronte gli si imperlò leggermente di sudore.
“Non temete”, fece il cardinale, intuendo acutamente il dubbio che passava nella mente dell’uomo che aveva di fronte, “Non siete davanti ad un inquisitore ottuso che sente ovunque odore di zolfo e smania solo di accendere cataste di legna. So bene che si tratta di una facoltà già nota agli antichi Egizi e voglio solo sapere se voi ne possedete il segreto.”
“Lo possiedo, Eminenza.”
“Dunque potete veramente far fare a qualcuno ciò che gli ordinate?”
“In realtà, Monsignore, non posso costringere nessuno a fare cose impossibili o sovraumane e neppure posso magnetizzare tutte le persone; non credo potrei dominare una volontà forte come la vostra; ma potrei indurre, per esempio, il vostro cameriere ad indossare il vostro zucchetto”.
“Il mio cameriere indossare il mio zucchetto?”, esclamò Richelieu scoppiando in una risata, cosa che gli accadeva di rado, “in fede mia, questa vorrei proprio vederla.”
Richelieu batté brevemente le mani e la porta si aprì facendo entrare il cameriere il quale conduceva due persone: un individuo dall’aria distinta che indossava l’uniforme delle guardie del cardinale e una donna bruna dagli occhi languidi colore dell’ebano la cui veste attillata ne faceva risaltare le forme superbamente modellate.
Il cardinale presentò i due nuovi arrivati come il conte Rosnay e l’agente 860. Il corsaro salutò garbatamente la guardia, inchinandosi poi a baciare galantemente la mano che la bella agente gli porse con un sorriso malizioso.
Richelieu indicò il cameriere con un cenno del capo; il corsaro, compreso il tacito ordine del cardinale, fissò il cameriere negli occhi mentre, con la mano, tracciava in aria dei rapidi gesti davanti al suo volto. L’uomo chiuse gli occhi e rimase immobile come profondamente addormentato.
“Orsù, buon uomo”, fece il corsaro con voce suadente, “non avete sentito che sua Eminenza vi ha ordinato di prendere il suo zucchetto e di mettervelo in capo?”
Improvvisamente, il cameriere riaperse gli occhi e, con aria imbarazzata, biascicò un “come ordina Monsignore…” e, preso lo zucchetto scarlatto dalla testa del cardinale, lo indossò, con grande stupore di tutti i presenti.
“Veramente incredibile!”, esclamò Richelieu. “Adesso, però, sarà meglio rimettiate le cose a posto.”
Il corsaro ordinò al cameriere di rimettere lo zucchetto dove si trovava prima, quindi risvegliò l’uomo con uno schiocco delle dita, dopo avergli ordinato di dimenticare tutto l’accaduto.
Il cameriere si guardò attorno stupefatto, non riuscendo a comprendere perché tutti gli sguardi fossero fissi su di lui.
“Vi sentite bene?”, gli chiese Richelieu.
“Ottimamente, Eminenza”.
“Non ricordate nulla?”
“Ma…Non vi capisco. Cosa dovrei ricordare?”, chiese l’uomo esterrefatto.
“Nulla, nulla, andate pure.”, disse Richelieu, congedando l’uomo che si affrettò ad inchinarsi e ad uscire borbottando qualcosa sulle preoccupazioni dell’assedio che dovevano aver affaticato troppo il signor cardinale.
“Molto bene. Non mi ero sbagliato nel giudicarvi un uomo pieno di risorse e, forse, ciò che mi avete appena mostrato mi aiuterà a chiarire un certo mistero”, disse Richelieu, gettando nuovamente uno sguardo al plico con il nome di Grandier.
“Tuttavia”, continuò il cardinale, “i misteri da chiarire in questo mondo sono molti e può darsi che voi mi possiate essere utile anche per risolvere un altro di essi.”
“Quale, Monsignore?”.
“Sappiate che quanto sto per dirvi è un segreto che riguarda la sicurezza della Francia e non dovrete farne parola con alcuno, eccetto con chi lavora al mio servizio.”
Il corsaro assentì con il capo.
“Voi che siete un uomo di mare, caro Rochenoire”, iniziò il cardinale, “avrete forse sentito parlare del capitano Towerson e degli Inglesi della Compagnia delle Indie Orientali che gli Olandesi hanno fatto giustiziare alle Molucche cinque anni or sono…”
“Ne ho sentito parlare, Eminenza”, rispose il corsaro.
“Come potrete immaginare, questo spiacevole episodio non ha certo favorito i rapporti tra l’Inghilterra e le Province Unite; tanto che gli Inglesi hanno, per ritorsione, sequestrato cinque navi olandesi, dietro il pretesto del contrabbando delle spezie ed, al momento, le cinque navi sono ancora in sequestro nel porto di Londra.”
Il corsaro annuì, non riuscendo però ad immaginare perché Richelieu si interessasse a quella lontana vicenda.
“Vedete, così come noi, in Francia, ci siamo trovati nella necessità di organizzare una rete di agenti in modo da essere sempre al corrente dei progetti delle altre potenze e, all’occorrenza, di agire in modo efficace e riservato per tutelare i nostri interessi, anche gli Spagnoli hanno fatto altrettanto. Ebbene, si dà il caso che l’uomo che dirige l’attività di spionaggio spagnolo in Francia, che si fa chiamare don Cifra, sia particolarmente incline a concedersi ogni sorta di lussi e piaceri, il che ha grandemente facilitato la raccolta di informazioni da parte della nostra agente 860 della sezione F.”, Richelieu rivolse per un attimo lo sguardo alla bellissima donna che increspò leggermente le labbra in un sorriso di soddisfazione, “Come ha scoperto la nostra agente, lo stile di vita poco parsimonioso di don Cifra sembra aver esaurito le pur cospicue ricompense che gli versa sua grazia il conte di Olivares e che don Cifra abbia così pensato di realizzare altri profitti, investendo i fondi che Filippo IV di Spagna mette a sua disposizione per la sua attività, nel contrabbando delle spezie. Fatalità ha voluto che abbia investito i suoi fondi proprio nei carichi che sono stati sequestrati, il che, al posto dei guadagni con cui sperava di continuare la sua vita nei lussi, gli ha procurato la perdita completa dei milioni di reales che aveva ricevuto per finanziare la sua rete di spie. Credo che don Cifra sia consapevole che qualora l’Olivares venisse a conoscenza dell’accaduto, a lui non resterebbero alternative oltre a suicidarsi o far perdere le proprie tracce, così ha deciso di rifarsi giocando d’azzardo. Conoscete il gioco dello zecchinetto?”
“Lo conosco, naturalmente”, rispose il corsaro, “come faremmo altrimenti noi gentiluomini di fortuna ad ammazzare il tempo nelle bonacce, se non sapessimo come spennarci reciprocamente i dobloni guadagnati negli abbordaggi? Ma francamente non capisco come questo Cifra speri di recuperare una simile quantità di denaro a quel modo…”
“Qui sta il punto”, fece Richelieu, “sembra che don Cifra disponga di un giocatore imbattibile, detto el ciego che finora è sempre riuscito a vincere anche contro i migliori giocatori.”
“El ciego? Ma in spagnolo vuol dire cieco. Volete dire che non ci vede?”
“Proprio così, si dice che sia dotato di poteri magici; ovviamente, l’aura di mistero che lo circonda attira molti giocatori curiosi di vedere questo fenomeno, e i loro danari finiscono regolarmente nelle tasche di don Cifra che, in tal modo, sembra sia già riuscito a recuperare una certa somma. Tuttavia, per sperare di recuperare tutto il denaro che ha perduto, il nostro uomo ha bisogno di una vincita molto consistente, così ha preso una piccola villa ai confini delle Province Unite dove, grazie ad un discreto passa parola, ha dato convegno ai più forti giocatori d’azzardo per un torneo di zecchinetto il prossimo 15 settembre.”
“Capisco”, fece il corsaro, “don Cifra spera che il suo giocatore magico riesca a fargli recuperare la somma perduta, così da non farsi eliminare dai sicari del conte d’Olivares”.
“Esattamente”, rispose il cardinale, “se, invece, qualcuno riuscisse a battere questo supposto mago al tavolo da gioco, la rete spionistica spagnola in Francia andrà incontro ad una completa bancarotta e Olivares sarebbe costretto ad eliminare il suo principale agente e a ricominciare tutto da capo. Naturalmente, sarebbe nell’interesse della Francia che ciò accada, per cui ho pensato a voi.”
“A me?”, chiese il corsaro stupito.
“Sì, potrebbe darsi che don Cifra adoperi qualche metodo per suggestionare la mente degli avversari e voi potreste essere la persona adatta per smascherarlo. Voi dovreste partecipare al torneo di zecchinetto nei panni di un facoltoso gentiluomo inglese e cercare di aggiudicarvi la vincita o, almeno, di smascherare don Cifra come baro. Rosnay vi accompagnerà e vi metterà in contatto con il nostro agente che vi aspetta a Middelburg. Il nostro servizio nelle Province Unite provvederà a fornirvi documenti e lettere credenziali. Accettate?”
“Sono al servizio della Francia e di vostra Eminenza”, rispose il corsaro con un inchino.
Definiti i particolari della missione, il corsaro prese congedo dal cardinale e, il mattino seguente lui e Rosnay partivano al galoppo lungo la via che conduceva verso le Fiandre.
 

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Capitolo 5
*** Pezzi da otto ***


~~Milady, dopo aver osservato il corsaro con il suo sguardo curioso e indagatore, pensò che doveva assolutamente saperne di più su quell’uomo così singolare.
“Posso chiedervi cosa ci fa un conte dai modi squisiti in abiti da pirata? Ammetterete che fa un effetto ben curioso…”, chiese la giovane donna.
Il corsaro sospirò e, con un sorriso amaro, iniziò a sua volta a raccontare di come aveva ucciso suo zio per vendicare la morte di suo padre assassinato assieme a Concini e di come fosse stato condannato e gli fosse stato impresso il marchio del giglio. “Fortunatamente, riuscii a fuggire; ma avevo perso tutto, nome e fortuna. Dovetti lasciare la mia casa e nascondermi, senza poter più contare su di nulla salvo il mio braccio e la mia sete d’avventura. Giunsi fortunosamente a Saint Malò e, non avendo più nulla da perdere, mi imbarcai su di una piccola nave, che faceva rotta per i Caraibi. Nel nuovo mondo, conobbi il signor d’Esnanbuc, il quale grazie ai buoni offici del signor d’Hertelay,  aveva ottenuto l’appoggio del Cardinale per la colonizzazione delle isole delle Indie occidentali in nome della Francia. Il capitano d’Esnanbuc mi prese con lui e fu così mi feci corsaro.”
“Ma Armentières è un po’ distante dai Caraibi...”, ribatté Milady sempre più curiosa.
“Purtroppo, dopo lo scoppio delle ostilità con l’Inghilterra, la nostra posizione è divenuta molto difficile e sono venuto in Francia proprio con l’obiettivo di ottenere da Cardinale l’invio di rinforzi”.
“Ma il cardinale dovrebbe trovarsi al campo di la Rochelle, non nelle Fiandre…”
Per un attimo l’uomo esitò, ricordando che il cardinale gli aveva proibito di parlare della missione affidatagli, poi, però, riflettendo sul fatto che Milady era come lui al servizio di Richelieu, si decise a raccontarle tutto.
“Purtroppo, solo Rosnay sapeva come trovare il nostro contatto a Middelburg e senza di lui non posso proseguire; adesso non mi resta che tornare da Richelieu ed informarlo che la missione è fallita. Il cardinale ne sarà furioso, spero solo che ciò non comprometta l’invio degli aiuti che ha promesso di mandare a Saint Christophe.”, concluse amaramente il corsaro dopo averle raccontato tutto ciò che gli aveva detto Richelieu.
“Beh, non è detto che debba finire così…”, rispose Milady dopo essere rimasta silenziosa per un po’, “Da tempo sono al servizio di sua Eminenza e credo di sapere dove trovare il nostro agente a Middelburg. In fin dei conti, il povero Rosney ha perso la vita a causa mia e il minimo che possa fare per onorare la sua memoria è di portare a termine la sua missione.
L’idea di nuove avventure e di nuovi intrighi in cui avrebbe potuto dar prova delle sue abilità stuzzicava Milady, tanto più che, ragionava la giovane, avrebbe avuto molto da guadagnarci. Milady sapeva bene che poche cose facevano infuriare il cardinale come il fallimento di una missione e, da quanto le aveva detto il corsaro, capiva che quella era una missione di grande importanza; se la possibilità di eliminare la rete delle spie spagnole in Francia fosse sfumata perché lei si era tirata indietro, ragionava Milady, c’era il rischio che ciò finisse per offuscare il successo da lei riportato con l’eliminazione del duca di Buckingham; mentre, se fosse stata lei a portare a termine anche quella missione, Richelieu non avrebbe potuto rifiutarsi di concederle tutto ciò che lei avrebbe voluto chiedergli. Per un momento, la donna pensò di scrivere al cardinale per informarlo che stava bene; ma scartò subito l’idea: era inutile esporsi al rischio che la lettera fosse intercettata e compromettesse tutto. Se fosse tornata ad Armentières, dove aveva dato appuntamento a Rochefort, c’era il rischio che, se de Winter e i moschettieri si trovavano ancora lì, potessero scoprirla. Se Rochefort, invece, non l’avesse trovata ad Armentières, pensava Milady, non ci avrebbe messo molto a ricostruire quanto accaduto; in fondo, i suoi assassini mancati erano stati visti al convento di Béthune e avevano lasciato una gran quantità di tracce. Il cardinale avrebbe fatto arrestare i moschettieri: l’assassinio di un agente al suo servizio, il tentativo di far fallire la sua missione in Inghilterra in combutta con un nemico erano più che abbastanza per spedirli direttamente sul patibolo per alto tradimento. Se si fosse saputo che lei era viva, ciò avrebbe solo alleggerito le accuse contro di loro, senza contare che i moschettieri avrebbero cercato in tutti i modi di screditarla, rivelando tutto ciò che sapevano del suo passato. In fondo, non era un male che la si credesse morta per un po’, così che nessun giudice fosse tentato di controllare se davvero portava un giglio sulla spalla. Milady sarebbe tornata a cose fatte e sarebbe stato un trionfo: vincitrice in due importantissime missioni, i suoi nemici distrutti… magari sarebbe riuscita a tornare in tempo per godersi la loro esecuzione… la donna sorrise immaginando le facce che avrebbero fatto nel riconoscerla tra gli spettatori e chissà che poi non le riuscisse di accaparrarsi anche l’eredità del suo caro maritino Athos…
All’improvviso, le riflessioni di Milady vennero bruscamente interrotte da una voce roca che risuonò nella piccola stanza: “Corpo di mille sabordi! Che pezzi da otto!”.
Meravigliata, la donna si voltò e vide una sagoma variopinta che frullava nell’aria andando a posarsi sulla spalla del corsaro.
“Ah, ah, vi prego di perdonare Pepito”, disse ridendo il corsaro indicando alla donna un magnifico pappagallo, “a furia di vivere tra i marinai, ha imparato un sacco di imprecazioni marinaresche.”
“Ah, non preoccupatevi, se fosse vissuto nelle camere segrete della corte, avrebbe appreso parolacce ben peggiori.”, rispose Milady ridendo.
Milady aveva una passione per gli animali specialmente quelli esotici e rimase subito ammirata dal superbo volatile.
“Da bravo, Pepito, saluta Milady”, disse il corsaro.
“Milady…Milady… Pepito bravo”, ripeté il pappagallo
“Ah, ah davvero moto simpatico. Sapete che, nella mia casa di Parigi, la mia scimmietta favorita si chiama Pepita? Curioso no? Dovremmo farli conoscere…”
“Già. Ora, però, sarà meglio andare a riposare un poco”, fece il corsaro.
“Non avreste un po’ d’acqua? Prima vorrei rinfrescarmi”, chiese Milady.
Il corsaro passò in un stanza attigua e tornò dopo pochi istanti, reggendo un bacile ed una brocca d’acqua.
“Fate pure con comodo e chiamatemi quando posso entrare.”, le disse, inchinandosi galantemente e lasciando la donna sola nella stanza.
Nel momento in cui Milady si era trovata di fronte alla morte, tutti i suoi desideri si limitavano a quello di poter continuare a vivere; in quel momento terribile, aveva pensato a quanto le sarebbe piaciuto invecchiare guardando semplicemente scorrere noiosamente i giorni. Piccoli piaceri come sonnecchiare pigramente nell’afa estiva o contemplare le gocce di pioggia battere sul vetro di una finestra, le erano sembrati allora irraggiungibili e meravigliosi. Adesso, invece, che lo spettro della morte si era dileguato, tutta la sua brama appassionata di vita faceva prepotentemente ritorno nel suo animo: sognava la vendetta e il trionfo, voleva assaporare la vita che le si offriva come un frutto maturo.
Aveva visto le straordinarie capacità di quel corsaro e sentiva di potersi fidare di lui: con lui non doveva nascondere i suoi segreti. Pensò che, con l’appoggio di quell’uomo eccezionale, avrebbe certo avuto ragione dei suoi nemici e le si sarebbe aperta ogni strada; inoltre, le aveva salvato la vita e lei non era un’ingrata, soprattutto quando dimostrare la propria riconoscenza poteva rivelarsi oltremodo piacevole…
Quando il corsaro, sentita la voce di Milady che lo chiamava, rientrò nella stanza, il corpo elegante e flessuoso della giovane era steso sul pagliericcio, coperto solo da un lenzuolo che pareva stuzzicare l’immaginazione a indovinare ciò che esso velava; i seni eretti puntavano in alto contro il tessuto bianco come due collinette innevate.
La giovane, con gesto pudico, tirò il lenzuolo a coprire il viso facendo apparire in basso le punte di due candidi piedini.
“Oh, sono veramente mortificata, devo aver versato l’acqua della brocca sul mio pagliericcio e, visto che non ce ne sono altri…”
Il corsaro tossicchiò e sorrise, sedendosi sul bordo del letto e prendendo delicatamente tra le dita uno dei riccioli dorati sparsi sul guanciale.
“Ehm, posso chiedervi se avete qualcosa indosso?”
“Certo che indosso qualcosa!”, rispose da sotto il lenzuolo una voce fintamente scandalizzata. Una mano dalle dita eleganti iniziò ad abbassare lentamente la stoffa, scoprendo prima un vivace occhio azzurro e poi la pelle candida e vellutata del collo, cinto da una magnifica collana con un rubino grande come una nocciola.
““Ho questa. Non vi sembra forse appropriata per la situazione?” chiese con una risata argentina
Il corsaro, controllandosi a fatica, perso nel luccichio degli occhi di Milady, le prese dolcemente una mano.
“Oh… Non avrete intenzione di magnetizzarmi con quei vostri strani poteri?” chiese la donna con studiata ingenuità.
“Impossibile, Milady, sono già stato magnetizzato da voi.”
L’altra mano di Milady cinse il collo dell’uomo, attirandolo verso di lei e le labbra della giovane fremettero un attimo sotto quelle del corsaro prima di concedersi in un bacio appassionato. Catturato da una forza irresistibile, come il ferro da un magnete, il corsaro, inebriato da quei baci che si affrettava a restituire, accarezzò quei seni perfetti, sentendone i capezzoli ritti di desiderio, e scese, con studiata lentezza, sul morbido ventre piatto e vellutato.
Milady fremette e chiuse gli occhi; le sue lunghe ciglia scure vibravano come ali di libellula mentre le sue labbra, staccatesi per un attimo da quelle dell’uomo, si socchiusero in un dolce gemito.
Quattro mani impazienti si affrettarono a far cadere a terra le vesti del corsaro; poi l’uomo, afferrato il lenzuolo, scoprì interamente il corpo di Milady, che indossava unicamente la collana, contemplando per lunghissimi istanti le membra più superbe che avesse mai visto. I due fiori di giglio che marchiavano le loro spalle si sfiorarono.
“Volete che spenga le candele?”, chiese l’uomo.
“No, è da troppo tempo che sono costretta ad amare con il timore di essere scoperta. Non voglio più nascondermi! Lasciatele accese se non vi dispiace.”, rispose Milady.
“Ne sono felice, mi sarebbe dispiaciuto perdere anche il minimo dettaglio di voi. Ora credo di capire perché il vostro primo marito si è tanto infuriato, scoprendo che lo avevate privato della vista di simili tesori…”.
“Oh, che ragazzaccio siete!”, rispose Milady dandogli un pizzicotto, mentre le sue braccia si sollevavano per accogliere il corpo dell’uomo.
L’occhio indifferente di Pepito rimase a fissare i corpi degli amanti che si intrecciavano in mille appassionati arabeschi; poi la voce del volatile coprì i loro sospiri.
“Per mille sabordi! Che pezzi da otto!”
Milady era sempre stata dotata di un temperamento ardente: lei e Athos si erano amati d’un amore impetuoso e travolgente; de Winter era stato un amante dolce e attento; per de Wardes l’aveva presa un capriccio da tigre; ma, con nessuno di loro, si era mai abbandonata così fiduciosamente, così completamente con tutta se stessa come in quel momento con quel corsaro che conosceva da appena un’ora. Con lui non doveva nascondere nulla, non doveva temere di essere scoperta o giudicata. Era comparso all’improvviso dall’ignoto, come uno di quei principi di cui parlavano le favole che ascoltava da bambina, come Ruggero in groppa all’ippogrifo e l’aveva tratta in salvo come Angelica. Se non fosse stato per lui, a quell’ora il suo cadavere decapitato avrebbe nutrito i pesci in fondo alla Lys. Se ne era innamorata? Non lo sapeva e neppure le importava saperlo; ora che il pericolo era passato e la tensione si era sciolta, voleva solo sentirsi libera di concedersi senza vergogna né rimpianti e dimenticare la paura e le terribili prove degli ultimi giorni tra le braccia dell’uomo che l’aveva salvata.
Quando gli slanci appassionati finalmente si quietarono, i due giacquero spossati uno accanto all’altra.
Milady si rannicchiò su un fianco e sentì l’uomo stringersi al suo dorso e alle sue gambe.
“Ehi, che modo simpatico di dormire, sembriamo due cucchiai…”, ridacchiò Milady.
“Siete una donna eccezionale, sono pazzo di voi, Milady”, le sussurrò il corsaro, sfiorandole un orecchio con le labbra.
Milady, esausta per tutti gli avvenimenti che aveva vissuto nelle ultime ore, scivolò presto nel sonno, dolcemente cullata dalle braccia del corsaro.
L’uomo rimase a contemplarla per un poco, pensando che, in fondo, non sapeva nulla di quella donna straordinaria che era entrata improvvisamente nella sua vita e lo aveva ammaliato; non sapeva se quanto gli aveva raccontato fosse vero e falso. Chi era veramente? Poteva fidarsi di lei? Non gli aveva forse puntato un pugnale al petto solo poco prima? Era forse una novella Giuditta che aspettava solo che lui si addormentasse per fargli fare la fine d’Oloferne?
“Bah, in fondo la vita è uno strano teatro e, se si deve uscire di scena, meglio farlo pugnalati da una bellissima donna dopo una notte d’amore, che su di una forca spagnola o trafitti da una freccia arawaka”, concluse filosoficamente l’uomo, soffiando sulle candele del doppiere e stendendosi al fianco di Milady dove s’addormentò, cullato dal suo respiro lieve, pensando a com’era bella mentre dormiva, con quel volto ancora da fanciulla, con il sorriso sulle labbra, rapita in chissà quale sogno meraviglioso.
Milady in effetti stava facendo un sogno molto bello che le disegnava sulle labbra quel soave sorriso: si vedeva navigare sull’oceano, ritta sul ponte di una nave corsara con in pugno una larga sciabola; davanti a lei, il boia di Lille, lord Winter e i moschettieri, d’Artagnan in testa, camminavano sull’asse.
 

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