A wine of character

di Helmyra
(/viewuser.php?uid=17420)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Journey to Misty Grove ***
Capitolo 2: *** Strange encounters ***
Capitolo 3: *** Sanguine's Dragonborn ***
Capitolo 4: *** Ritual of roses (Extra) ***



Capitolo 1
*** Journey to Misty Grove ***


Si sentiva incredibilmente viva, in quei momenti. Vento e neve erano una costante a Winterhold, e le schiaffeggiavano il volto con una forza inaudita: non esistevano cambi di programma. Sembravano ben accetti dagli abitanti che, indolenti, se ne stavano rintanati in casa davanti al focolare.
“Il clima freddo rinvigorisce le membra;” le aveva detto lo Jarl alla prima udienza, con un sorriso sprezzante, “freddo, come una placca d’acciaio ben temprato. Inutile parlarne con una come te, comunque. Sei qui per entrare a far parte di quel branco di esaltati meglio conosciuti con il nome di maghi, vero? Una scelta da rimpiangere ben presto, te lo assicuro. Hanno raso al suolo questa città, quello che ne rimane è la prova lampante della loro noncuranza. Faresti meglio a spendere le tue energie mettendoti al servizio della gente, e non tentando di far saltare in aria i resti di lunghi sacrifici e dedizione”.
Non si sarebbe aspettata di certo un consenso, ma era rimasta perplessa quando l’attendente, un elfo oscuro in cui vedeva un possibile alleato, le aveva rivolto un’occhiataccia a dimostrazione di quanta simpatia nutrisse per gli adepti delle arti magiche.
“No, non conosco nessuno al Collegio di Winterhold, che gli Déi me ne scampino! Cosa ti fa credere che m’intrattenga con loro, le mie origini dunmer? Be’, non siamo tutti uguali. Sei venuta a sbatterci in faccia il tuo talento?  Allora, lascia che sia lo Jarl a metterti alla prova. Se non vedi l’ora di morire, meglio in battaglia e in nome di Korir, non per uno stupido errore di calcolo nel lanciare sfere incandescenti”.
Dorisa aveva piegato il capo, accettando i rimbrotti con rassegnazione. Quella sera, però, si sentiva avvampare da un entusiasmo contagioso, e non era la brezza gelida a darle la sferza alle gambe.
Si precipitò alla taverna, tornando improvvisamente bambina. Schiacciò  la schiena contro la porta, che non voleva saperne di chiudersi: nulla l’avrebbe distolta dall’incontro, da giorni non attendeva altro.
“Sam!” Esclamò, al settimo cielo. “Morivo dalla voglia di vederti. Sai, ho accennato a Mastro Tolfdir del bastone, quello da riparare. Be’, ha detto che posso lavorarci su, anche se ti toccherà fornirmi la materia prima per compiere l’incantesimo.”
“Quanta fretta,” sorrise, riscaldandole le mani gelide con le proprie, “ti ho già detto che ci vuole tempo, tempo ragazza! Sono appena tornato da un lungo viaggio e ho portato tutto l’armamentario, ma... non vorrai mica passare subito ai dettagli noiosi, quando possiamo trascorrere le poche ore a nostra disposizione con una bella ballata e un delizioso idromele?”
“Prima il dovere, poi il piacere...” Sbuffò Dorise, interdetta.
“Non è la mia filosofia,” Sam Guevenne scoppiò a ridere. “Io penso che dovere e piacere s’intendano benissimo, in un connubio perfetto. Posso offrirti un boccale, stasera? Brindiamo al successo del nostro progetto, alla magia, in barba allo Jarl e ai suoi seguaci biliosi!”
Non amava bere: Morrowind vantava un’antica tradizione di liquori e distillati, da far invidia alla controparte Nord; eppure preferiva utilizzare le erbe per creare nuove miscele di tè, anziché lasciarle morire tra i fermenti di un liquido alcolico.
Avrebbe rifiutato la bevanda, se non fosse stata una richiesta di Sam: si fidava di lui, da quando era giunta a Winterhold la sua compagnia l’aveva risollevata da fallimenti, solitudine e momenti bui. Era nata una strana alchimia tra loro; entrambi erano stranieri, eccentrici e un po’ fuori luogo nel contesto sobrio e stagnante di Winterhold.
“Te lo devo come favore a titolo personale, non per altro. Ho sempre rifiutato, Sam; e avrei continuato a farlo se non fosse che mi hai portato il bastone, aiutandomi così negli studi. Sono davvero curiosa di vederlo, è davvero bello come dici?”
Più di quanto immagini, pensò, pregustando sulle labbra l’innocenza dell’involontaria allusione. L’istinto gli suggeriva ben altro, non avrebbe però mandato all’aria ore ed ore di attenta pianificazione. Aveva atteso a lungo la persona adatta, per mettere in moto la girandola degli eventi.
“Sì, un manufatto elegante, cesellato da mani sapienti ed innamorate della propria arte. Un sogno, aggiungerei. Bevi, Dorisa; godiamoci il momento. Non so quando riuscirò a tornare, quindi fallo per me, per la nostra amicizia...”
“Amicizia...” Ripetè lei, ingollando il primo boccale.
“Ecco, ora sì che si ragiona!” Sogghigno Sam, dandole una pacca sulla spalla. “Buono, eh? Hai mai bevuto un liquore così prima d’ora?”
“In realtà sono astemia.” Tossicchiò un attimo prima di rispondergli. Bruciava da matti in gola, benché il sapore fosse delicato, dolce, di spezie e frutti di bosco. Intuiva che fosse un azzardo osare, volerne ancor di più. Era il sapore del liquore ad accompagnare quello dei suoi desideri reconditi.
“Sam, io...”
“No, non dire nulla. Scommetto che vuoi berne ancora un po’, è tutto tuo, ragazza.”
Si fidava di lui, ormai il dado era tratto. Al primo sorso le labbra della dunmer si arricciarono, in un lampante disgusto. Poi cadde in uno strano torpore,  abbassò le palpebre e cinse il mago in un abbraccio affettuoso, delicato.
“Sam, portami via. Non andare! Per te... farei qualsiasi cosa. Questa città è un buco, e lo Jarl è solo uno gradino più in alto rispetto ai suoi zotici abitanti. Voglio andare, partire per l’avventura...”
“Avventura? È ciò che avrai, bellezza.” Parole smorzate dietro una fila di denti aguzzi, bramosi di assaporare la sua carne.
 
“Ah, finalmente ti sei svegliata: Dibella ha deciso di privarti della quiete del sonno; meglio così, comunque. Hai molte spiegazioni da fornire, e tanto più da sistemare! Come hai osato profanare il tempio della Dea? Tu, dissacratrice! Ti sei presentata nel migliore dei modi, sembravi una di noi mentre danzavi con indosso un abito d’organza. Poi hai mutato atteggiamento, disseminando il caos. Avanti, ripara agli errori commessi!”
“Co... cosa? Organza, farfalle... cos’è successo?”
Si guardò intorno: davanti a sé aveva una sacerdotessa dall’aria arcigna, nonostante predicasse di solito bellezza e perdono. Avvertì improvvisamente un sentimento di solitudine e spaurimento, sebbene la nota predominante in tutto quel pastrocchio fosse l’assenza di Sam.
“No, io non dovrei essere qui, ma a Winterhold col mio amico. E poi non sono solita indossare abiti discinti, anche se... ah!”
Si coprì il petto con le mani, per nascondere la profonda scollatura. La sacerdotessa scosse la testa, in quel momento non rappresentava il lato più puro della compassione.
“So solo che ti ho trovata qui, sembravi una scimmia del deserto A’likr mentre tentavi di arrampicarti sulle statue per abbracciarle. Quanto abbiamo dovuto tollerare, io e le mie consorelle! Per fortuna, tutto è finito com’è iniziato, ed io ti sono stata accanto in attesa del risveglio.”
“Ti sbagli, non è possibile! Non sono quel tipo di persona...”
“Sarà, purtroppo è andata così. Puoi dimostrare il contrario aiutandomi a pulire il tempio, osservandoti all’opera sarò in grado di comprendere anch’io, fino in fondo...”
A Dorisa non restò altro che ubbidire, maledicendosi per aver accettato di bere il liquore in un eccesso di fiducia. Dunque, Sam l’aveva abbandonata a se stessa, o forse l’aveva accompagnata nel famoso viaggio assecondando ogni sorta di stranezza.
Basta poco, quindi, per sottrarsi ad ogni reticenza, a trasformarsi in ciò che non si è. Un attimo di distrazione e... puff! Tutto va in fumo. Oh, maledetto sia il Principe dei Daedra artefice di questo disastro, se ad esso bisogna imputare la mia rovina. Mehrunes Dagon, Molag Bal, Namira, Sangui...
Si piegò in  due dal dolore, se per la nausea o una fitta al cuore, questo non riuscì a stabilirlo. Con la reputazione a pezzi e la paura di essere additata come poco di buono cosa le restava, se non raccogliere i cocci di una brillante carriera al Collegio di Winterhold?
Ciò che non si può ricostruire va ricreato dal principio, ecco cosa farò! Rimedierò a tutti i guai che ho combinato, in questo modo riuscirò a rintracciare Sam e a dirgli quanto lo detesto per avermi raggirata, facendo leva sulla mia buona fede...
“Oh, mi sbagliavo sul tuo conto, e sei davvero dispiaciuta per l’accaduto. Tutti commettono degli errori, prima o poi, di proposito o involontariamente. Non ti condannerò più del dovuto, dopotutto, anch’io sono qui per rinnegare i peccati commessi in passato. Farneticavi nell’ubriachezza, di più non posso dirti: parlavi del tuo matrimonio, di una dote in bestiame e gioielli, del viaggio di nozze e delle meraviglie nascoste nel luogo in cui converrai a nozze col tuo sposo. Capisco, a volte abbandonare la vita da avventuriero può condurre a... risoluzioni azzardate, sii fedele alla decisione presa, e vedrai che dall’unione con la persona amata ne verrà solo bene.”
“Aspetta, io non intendo sposarmi.”
“Non mentire a te stessa.” La sacerdotessa posò un dito sulle labbra, con fare complice. “Intanto, segui la strada davanti a te. Quando si perde il controllo mentale è la verità sopita nel cuore ad emergere a galla. Scopri il sentiero nascosto, e rivela ciò che provi al tuo amico. Ah, ha lasciato questo biglietto; forse ti potrà tornare utile”.
 
Credevo di conoscere me stessa, invece la natura dei miei pensieri mi è totalmente oscura. A volte, la vita si trasforma in un cavallo imbizzarrito che sfugge alle redini della razionalità: è stupido pretendere di contare ogni singolo battito del cuore, o di mettere a nota i moti dell’anima come si fa con gli ingredienti di un filtro guaritore. No, non basta un rimedio immediato per sistemare le cose. Ho imparato bene la lezione. In realtà, quando sei solo, qualsiasi parola gentile è la benvenuta... dovrei valutare a peso d’oro la mia fiducia, o seguire i consigli di chi conosco da tempo. Credevo di aver impostato le mie giornate sullo studio, sulla morigeratezza ed ore ed ore passate a ripetere la stessa formula magica... intanto, una tempesta di cenere s’è appena abbattuta sulla mia vita.
E l’ha resa... ridicola.
M’è toccato uccidere un gigante per salvare una capra. Una capra! Forse è lei la principessa della storia, e non io. Oppure, io sono la capra e lei è più saggia di me... oh, non ci capisco più niente.
Per fortuna è finita bene: Ennis di Rorikstead mi ha ringraziata, nonostante sostenesse di non dovermi nulla, perché io stessa avrei rubato la bestia per venderla al gigante.
“Ti sbagli. Questa storia è troppo assurda per essere vera. Non farei mai una cosa del genere!”
Eppure è accaduto. Accaduto...
Al peggio non c’è mai fine, dicono. Almeno questo è vero: pare che nell’intera buffonata io abbia coinvolto anche una cara amica, Ysolda di Whiterun. Sostiene di avermi concesso un credito su un acquisto speciale, cedendo a numerose insistenze dopo averla impietosita con un racconto ancor più inverosimile.
“Perché non me l’hai mai detto?” Cinguettava. “Un bosco favoloso, Masser che tinteggiava d’argento le foglie degli alberi e voi due, mano nella mano, mentre vi dichiaravate eterno amore. Oh, non chiedo di conoscere tutti i tuoi segreti, Dorisa! Magari  aspettavi il momento giusto per farmi una sorpresa. Non si può negare l’amore a due anime destinate a condividere carne, sangue e respiri. Che Mara vi benedica!”
Non so se ho bisogno dell’aiuto di Mara, ben venga se può illuminare il buio di questo scherzo di cattivo gusto.
Un matrimonio... se tutto ciò fosse vero! Sarebbe meno imbarazzante della realtà. C’è solo il silenzio a colmare le lacune tra un pezzo mancante e l’altro. Da bambina,nonna mi raccontava sempre delle fiabe stupende. Il dispettoso mago Telvanni, la principessa di Mournhold, il guerriero Redoran... personaggi dal carattere ben definito, in cui avresti voluto immedesimarti totalmente. Invece, in questa fiaba perversa esistono solo paradossi, e si succedono l’uno dopo l’altro.
Cosa mi aspetta a Witchmist Grove? Forse mi toccherà affrontare la strega cattiva...
 
Le stelle splendevano limpide, incuranti dei tormenti mortali. Dorisa cercava di nascondere l’inquietudine dietro una falsa sicurezza, avanzando silenziosa tra i cespugli.
Tolfdir le aveva prestato un pugnale incantato, ormai la sua vita ruotava attorno a mezze verità e segreti inconfessati: gli aveva chiesto un aiuto per tirarsi fuori dai pericoli durante un viaggio molto rischioso, e lui le aveva lasciato l’arma senza chiedere altre spiegazioni.
Una strana carica elettrica aleggiava nell’aria, l’abitante del capanno sghembo le avrebbe dato di certo filo da torcere. Si sarebbe servita del pugnale solo in casi estremi, preferiva difendersi con la magia quando poteva, la considerava il mezzo più efficace.
Un coniglio le tagliò la strada, ed ebbe la cattiva idea di dirigersi verso l’abbaino.
Non ebbe neanche il tempo di elaborare la mossa sbagliata, ché subito fu trafitto da un artiglio acuminato, una via di mezzo tra il fendente di un falco e squame lucide.
“Oh, finalmente. Avevo un certo languorino!” La cosa trascinò la preda nel suo nascondiglio, un cacciatore con l’allodola impigliata nella rete. Dorisa voltò il capo, disgustata.
“Mh. Eppure questo odore mi è nuovo.  Per caso sei tu, o mio principe? Ti ho atteso a lungo!”
“Ehm... no, non sono Sam. Sono una sua... amica.”
“Ah, perciò non veniva più a farmi visita!” Lamentò l’essere, gracchiando. “Me l’hai rubato! Ti è bastato toglierti i vestiti e mostrarti nuda, il trucco funziona sempre perché non sa resistere.”
“Non farei mai una cosa del genere!” Quante volte aveva ripetuto quella frase? “Sono una persona rispettabile, e vengo a riprendere un anello.”
Un’ombra si profilò contro il legno roso dall’umidità, rivelando una figura curva, in preda ad un’ossessione secolare.
“L’anello, eh? Te lo darò solo ad una condizione, devi ammettere che sono bella... più bella di te.”
La strega uscì allo scoperto, e assieme a lei un ghigno annerito dalla carie. Sembrava un incrocio tra una donna invecchiata molto male ed una specie di arpia.
“Consegnami il gioiello e facciamola breve, niente scherzi...”
“Davvero?” La creatura emise un urlo penetrante, acuto. Dorisa fu sbalzata indietro da una potente folata di vento, e scoraggiata ad avvicinarsi a causa dell’alito pestilenziale che l’accompagnava. Le umiliazioni si sommavano l’una con l’altra, quando sarebbe cessato il delirio?
“Va bene, spiegami cos’è successo e magari potrei considerare la cosa.”
“Piccola smorfiosa,” rise la hagraven, con il tono di una matrona inviperita, “tu e il mio giovane amante avevate appena litigato. Ambivi a legarti a lui, per sempre, e ne reclamavi le attenzioni solo perché ti ha concesso un bacio, a cui aveva infuso la pallida caligine dell’aspettativa. Solo le fiamme dell’Oblivion sono infinite; in tal modo ha risposto e tu, piccata, lo hai gettato a terra... a pochi passi dalla mia dimora. Cosa cerchi, eterno amore, la comunione d’intelletti? Ah, no. Prende una donna, ne fa un’ancella – per lui è una Rosa, ed essa sboccerà allorquando tu sarai pronta a donarti, ad esser solo sua. Ho osato troppo, nel tentativo di rendermi simile all’Eletto mi sono spinta oltre le barriere dell’inammissibile, e il sacrificio ha avuto il suo prezzo. Ai suoi occhi sono detestabile!  Carni morbide, sguardi innocenti, totale sottomissione... cerca queste doti, ed io le ho perse tutte, tutte. Non ti avrà mai, perché ora troverai la morte!”
“Tu vai farneticando!” Era ormai stanca, e si preparava a renderla inoffensiva con una raffica di cristalli acuminati; e se non fosse bastato, ci sarebbe stata una tormenta gelida a ghiacciare ciò che ormai giaceva freddo, inerte, nella gabbia d’ossa che custodiva la sua anima.
La strega si trascinò macilenta, opponeva resistenza perché obbligata a farlo per rancore, mostrando all’avversaria l’ultimo barlume rimastole di amor proprio. Poi cadde a terra e le gambe, le braccia, divennero un tutt’uno con i rami scheletriti ed il legno decomposto della casa abbandonata.
Dorisa tastò il collo lungo, il volto dal naso a becco, contratto e spaurito durante l’ultimo respiro; poi scorse la prova lampante della sua ossessione all’anulare della mano destra.
Lì, a memoria di un’immensa devozione.
“Moira... allora questo era il tuo nome. Mi dispiace, ti chiedo scusa. Mi dispiace tanto.”
Prese con sé l’anello, e in quel momento i gufi intonarono un canto cupo, i lupi uggiolarono da lontano. La natura aveva ripreso il suo corso.
 
Ysolda accettò malvolentieri il piccolo gioiello: ormai lo considerava un dono fatto all’amica, un simbolo di buon auspicio per il futuro. La salutò indicandole la sede dello sposalizio: Morvunskar.
Conosceva già quel luogo: poco tempo prima aveva aiutato Onmund a riavere un cimelio di famiglia in cambio di un bastone incantato. I maghi dissidenti avevano difeso il santuario con tutte le loro forze, e la dunmer faticò non poco a raggiungere i recessi del forte. Avrebbe rischiato la pelle, se non avesse portato delle pozioni decisive per la sua salvezza, durante lo scontro con un anacoreta.
La buona volontà aveva vinto contro la spietatezza ed il terrore: l’antico negromante non si sarebbe posto molti scrupoli a fare a pezzi il suo corpo, per studiare gli effetti di chissà quale incantesimo. A darle man forte in battaglia, forse, era stata proprio l’avversione che l’elfa oscura provava verso i profanatori di tombe.
Un allegro chiacchiericcio la invitava a varcare una macchia argentea sospesa a mezz’aria, una sorta di portale dimensionale tra due mondi: indietreggiò d’un passo per timore di finire vittima d’un inganno, poi si fece forza e dimenticò ogni indecisione, ogni tentennamento.
Nel bosco illuminato da un lucore iridescente, alimentato dal riflesso delle lune sulle foglie umide, la natura e i convenuti esultavano festosi. Al centro della radura, dove gli alberi non crescevano e si piegavano al patto con l’entità lì sovrana, Sam l’attendeva mentre a tavola s’indugiava in ogni sorta di baccanale.
“Credevo di averti già persa, mia cara.” Ognuno smise di masticare, di bere, di parlare. Anche il vento tra le fronde delle querce cessò di spirare, nell’attimo in cui le si avvicinò.
L’elfa oscura notò la stranezza e chinò il capo, ignorando l’angoscia che la trapassava come un ferro arroventato.
“Mi hai lasciata sola. Ti sei divertito alle mie spalle, ora mi saluti da amico. Non ti perdonerò per ciò che hai fatto, mai.”
“Suvvia!” Odiava il modo in cui la stava sminuendo. Con un sorriso candido, suadente. “Era solo uno scherzo, da anni non mi divertivo così tanto. Adesso sono qui per rimediare, vivremo sempre insieme”.
Quel maledetto bastardo sapeva toccarla nei punti giusti, conosceva le parole adatte e l’effetto da esse sortito, per far sì che s’arrendesse.
Lo guardò sprezzante, con il volto imbrattato di fango e lacrime; i segni della vergogna.
“Avevi voglia di spassartela, eh? Lurido demone, egoista. Hai assecondato soltanto il capriccio di un istante, e nient’altro. Io... ho fatto tanto per essere accettata a Skyrim; lavorato, studiato,  per ottenere il rispetto altrui. Mi hai usata, mentre io... non aspettavo altro che tornassi a Winterhold, Sam. Per sperare che t’accorgessi di me, anche se non ho nulla di speciale. Hai smosso le fondamenta noiose del mio presente, avevo trovato qualcuno che mi rendesse felice, immensamente felice... mi hai ingannata.”
“Dove vuoi arrivare?” Il piano gli stava sfuggendo di mano: avrebbe dovuto rimandarla al Collegio, lasciarle il Dono e liquidarla con sciocchezze da quattro soldi. Fanne buon uso, non crederti un’eroina solo perché hai la bacchetta magica, impiegalo con saggezza... saggezza, bah.
Invece, stava appena facendo i conti con le brutte conseguenze. Troppo credulona, troppo coinvolta...
“Sam, io ti amavo. E sono stata talmente idiota da pensare che prima o poi m’avresti sposata veramente. Manda via questa gente, non voglio soffrire più di quanto non lo stia già facendo...”
“Vieni con me, allora.” L’aveva detto. A meravigliarlo, però,  era il fatto che lo pensasse sul serio. “Mi sono divertito alle tue spalle, è vero. Sono stato egoista, è vero anche questo. Posso rimettere le cose a posto, comunque. Una seratina insieme, un viaggetto un po’ più lungo. Ti accontenterò, vedrai, sono l’uomo della tua vita.”
“No, non fai al caso mio.” Le strinse la mano, di nuovo, e il sangue ribollì come vino speziato. Si preparava ad opporre una futile, flebile resistenza.
“Vieni a ballare.” Più che un invito, quello le sembrò un ordine indiscutibile.
“Nessuno mi ha mai insegnato.”
Fu letteralmente trascinata tra la tavola e l’altare: non vedeva e sentiva nulla, il suo volto aderiva alla lunga tunica di Sam, le narici fremevano per la fragranza di mele, mosto; per il profumo intenso di resina.
“Be’, non hai cambiato idea?” Rise lui, cingendole la schiena con le braccia. “Sei riuscita a sorprendermi, nessuno aveva detto di amarmi in modo così... goffo.”
“Goffo?” Dorisa gli affondò le unghie nella schiena, in una piccola vendetta personale. “Secondo me non sai nemmeno che significa. Ti credi un principe, ma sei un giullare. Anzi, sei davvero un demone. Avrei tutti i motivi per scappare via.”
“Non ti biasimerò se vorrai farlo, ma perderesti il tuo premio.”
Una rosa.
Delicata, splendente. I petali di metallo smaltato danzano anch’essi alla luce notturna.
Una cosa del genere non è di questo mondo. Tu... tu chi sei?
“Sono tutto ciò che hai detto. Un giullare, un demone, un principe. E pure un maledetto bastardo. Sì, non preoccuparti, è assolutamente normale. Posso leggere il pensiero.”
“Ma cosa?”
Ciò che toccò con le mai fu un metallo liscio, caldo, una seconda pelle. Era avvenuto un cambiamento, non a livello caratteriale – il modo in cui la stava baciando era lo stesso. La sua lingua, le sue labbra... erano diverse, dietro le spalle avvertiva la stretta possente di una tagliola.
Aprì gli occhi, e si ritrovò di fronte un volto scuro e tatuato, la sintesi di ogni epiteto scaturitole dalla mente nei momenti peggiori dell’improbabile pellegrinaggio, tra la rabbia e l’isteria. Un corpo forte e muscoloso, tenuto a bada dall’armatura daedrica.
“Tu sei... tu sei!”
“Chiamami zio Sanguine, è meglio. Attenta a farlo mentre ce la intendiamo nella camera di una locanda, comunque... ti imbarazzerebbe non poco! ”
Dorisa s’accasciò contro il petto della divinità, mentre lui aveva cominciato ad accarezzarle i capelli dolcemente. Quindi, Sam non era mai esistito: i mesi felici trascorsi con lui, le umiliazioni ed il disprezzo subìti a causa di quella notte di follia altro non erano che un tentativo del dissoluto principe oscuro per misurare la sua forza di volontà.
“Ehm... dai, non farla tragica. Pensa ai lati positivi della faccenda: ti sembrerà di stare a Morrowind, be’... a Morrowind prima dell’eruzione della Montagna Rossa. Una bella stanza con vista su un oceano di lava, abiti leggeri che non pizzicano sulla pelle e nessun problema con le pulci. Se lo desideri puoi rimanere qui, a giocare alla verginella felice nel bosco delle meraviglie... ehi, non guardarmi in quel modo. Sei diventata una principessa, e adesso hai di fronte il tuo principe...  purtroppo, non proprio quello che t’aspettavi.”
Improvvisamente le mancò persino la forza di piangere. Perché Sanguine aveva scelto proprio lei, perché?
“Il tuo cuore non conosce malizia.”
Le sfiorò le guance, dirigendo lo sguardo verso quegli occhi temibili, che la studiavano però con intensa curiosità.
Non sarebbe stato lo stesso, mai.
“Tieni il tuo regalo, non ne ho bisogno. Non ho bisogno nemmeno del tuo conforto, ti riserverò il trattamento che meriti, un’allucinazione non può farmi del male. Ero ubriaca, sì... lo sono tuttora. Lasciami andare, voglio andare via”.
Eppure era tiepido, inebriante; un vino dal carattere acidulo e corposo. Si sforzava a non berlo e al contempo ne bramava ancora, ma la risoluzione migliore per non sviluppare una dipendenza era fuggire, fuggire lontano.
Sanguine raccolse la Rosa sottraendola al dolce manto d’erba. Svanirono le musiche, i canti goderecci, i fiumi d’idromele e gli invitati a festa. Rimase solo ed accigliato nel boschetto da lui creato.
“Non rinuncio con tanta facilità alla mia ancella, soprattutto se è un’adorabile bugiarda.” Rise, non dandosi per vinto.
Una brutta sbornia si smaltisce solo col tempo, avrebbe lasciato che Dorisa venisse a patti con la propria.



Chi non muore si rivede, è proprio il caso di dirlo.
Mi dispiace per la lunga assenza, credo che delle scuse non siano troppo fuori luogo. :( Se state seguendo le mie storie, abbiate fede! Ho intenzione di completarle e ho interrotto la scrittura per cause di forza maggiore, anche se nel frattempo mi sono venute in mente tante nuove idee. Sorpresa, finalmente sto giocando anch’io a Skyrim. E non appena ho finito la quest di Sanguine, ho pensato: “Cavolo, devo scrivere una storia!”
Quello che avete letto è il risultato. :) Sono in vena di cose divertenti, quindi ho scritto queste pagine col massimo disimpegno. Spero che vi faccia piacere leggere qualcosa che non sia cupo o troppo contorto, almeno da parte mia. The Emerald Tower, A Slaughter of Hearts ed All About Second Chances saranno portate avanti contemporaneamente, anche se cercherò di finire prima le storie dalla trama più breve.
Questo racconto, invece, si concluderà col prossimo capitolo. Avevo programmato di scrivere una one-shot, ma come al solito sono prolissa. A presto! :)

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Strange encounters ***


“Dorisa, qualcuno è venuto a farti visita. Ritieniti... fortunata”. L’entusiasmo di Brelyna lasciava trasparire una visita importante, o una gradevole sorpresa. Dopo l’esperienza delirante nel bosco incantato aveva cominciato a chiudersi nella sua stanza e ad uscire solo quando non poteva farne a meno. Brelyna le rivolse un’occhiata perplessa, decisamente interdetta dal quel comportamento insolito: era diventata la sua migliore amica, dopo un primo incontro burrascoso. Aveva alle spalle una lunga genìa di blasonati maghi Telvanni, perciò si era arrogata il diritto di giudicare Dorisa – e la sua famiglia orfana da anni della Gilda dei Maghi – dei poveri disperati scesi a patti con la fazione avversaria. Eppure, si sentiva incredibilmente a disagio quando riceveva le lettere dei parenti: era seguita, aiutata, consigliata ad intraprendere una strada piuttosto che un’altra, anche per questioni insignificanti. Quelle missive erano un incubo, e si risolveva ad aprirle solo con l’umore dalla parte giusta. Il padre era il più pedante fra tutti: coglieva sempre l’occasione per ricordarle di stringere amicizie di spicco e di pagare i giusti omaggi all’Arcimago, soprattutto di notte.
In realtà, Brelyna non era né presuntuosa né saccente: cercava un’amica che condividesse con lei le piccole disavventure quotidiane, si sentiva insicura ed impacciata nei rapporti sociali. Tutto era cominciato con un incontro non proprio casuale nell’atrio degli apprendisti: Brelyna si era avvicinata, col proposito di chiederle una mano a provare un nuovo incantesimo. Dorisa aveva finto di non notare che la stesse aspettando di proposito per il gusto della compagnia, e accettò con qualche riserva.
Parlando del più e del meno scoprirono di andare d’accordo su molte cose, finendo così a scambiarsi confidenze e a scherzare sulla vita al Collegio.
Purtroppo, l’avrebbe tenuta all’oscuro su ogni dettaglio che riguardasse la vera identità di Sam.
“Ho promesso di aiutarti con gli incantesimi a distanza, sono libera da impegni per oggi. Ci dev’essere un malinteso, di solito nessuno chiede di me.”
Il volto di Brelyna si tramutò in un tizzone ardente.
“Siamo amiche, Dorisa. Perché non ne hai mai parlato? Mi ha mandata a chiamarti, e non sono riuscita a rifiutare, ad opporgli resistenza. Ha un sorriso deciso, soave”.
Un soffio gelido le paralizzò il corpo, il cuore rimbombava in petto come un tamburo da guerra, accompagnato da uno sgradevole presentimento che le impediva di ragionare coerentemente.
No, è tornato, è qui. Maledetta freccia al ginocchio!
 “Mandalo via, le apparenze ingannano. Non è il tipo di persona con cui vorresti intrattenerti, quel bretone indisponente!”
“Credo che tu l’abbia scambiato per qualcun’altro,” insisté la maga Telvanni, dura a cedere, “viene da Solstheim, su richiesta di tuo padre. Mephala concede grazie all’improvviso, ogni tanto i nostri vecchi tormentatori ci fanno delle belle sorprese. Io non mi tirerei indietro, sai. È molto... carino.”
“Mph. Andrò a vedere di chi si tratta”.
Non avrebbe faticato ad indovinare: il maestro della lussuria, con una scusa e un nuovo travestimento per attirare la sua cuiriosità. Più un gentile sollecito a non lasciarsi distrarre da insulse bagattelle mortali.
“Dorisa Vanim,” Sanguine le baciò la mano, chinandosi con grazia, “ti porgo le mie scuse. Mi merito tanta indifferenza, ho urtato la tua sensibilità. Due mesi... due mesi sono trascorsi da quella sera, e non mi hai invocato nemmeno una volta. Tu sola hai il sangue, le doti, le qualità che cerco: tentare altrove è inammissibile. Perché non vieni con me? Ogni sera verrò qui a reclamarti, se non accetti. Dunque sei talmente empia da rifiutare il mio amore? Ti voglio, incondizionatamente”.
L’elfa guardò in cagnesco il presunto conterraneo: un guerriero dunmer dalle spalle larghe e il torace muscoloso, i capelli color piombo tirati indietro e ben pettinati. Pulito, elegante, attraente.
Un gran bel partito, se fosse stato vero.
“Ti ho già detto che non volevo più vederti per il resto dei miei giorni. Va’ via!”
“Eppure, non mi hai mai visto in questa forma.”
Una parte di Sanguine sopravviveva sempre nelle sue numerose incarnazioni: prima in Sam, dal viso candido, i capelli castani ed il sorriso birbante. Poi in questo elfo oscuro, un’immagine molto più fedele all’originale, e per certi versi più rassicurante.
“Sei sicuro che rendendoti appetibile io possa cambiare idea... mi ero innamorata di Sam, e l’hai capito benissimo. Anziché sparire per sempre e fingere di non tornare, evitando il danno a priori, hai preferito mettere il dito nella piaga per fare in modo che m’affezionassi... tutto per i tuoi loschi piani. La gente indulge ancora nei bagordi, nelle notti di passione, ma ha dimenticato il tuo nome. E senza una sacerdotessa che t’adori, senza un popolo che s’inchini a rivolgerti preghiere e offerte, ti sentiresti abbandonato, sminuito. Un dio muore quando è rinnegato dai comuni mortali...  questo è il tuo punto debole, caro zio Sanguine. Senza Tamriel non sei nessuno”.
“Hai colto nel segno.”  Anziché scoraggiarlo, se possibile, l’aveva reso ancora più ardito nel suo intento. Si sfregava il mento con il pollice e l’indice, pensieroso, in procinto di esternare chissà quale risposta. Invece, preferì avvicinarsi a lei ed abbracciarla, farle sentire il calore del suo corpo. “Sei più bisbetica di quanto immaginassi, per questo mi piaci. Diamine, avremo l’eternità per baccagliare, ed io avrò l’eternità per domarti e farti stare in silenzio. Ti mancherebbe la forza per controbattere, te lo assicuro.”
Dorisa nascose le guance sotto il lungo collo della tunica, per mascherare l’imbarazzo. Se in quel momento fosse stato Sam – Sam il mortale e non il principe Sanguine – a punzecchiarla con battute di dubbio gusto, molto probabilmente avrebbe reagito allo stesso modo, sperando che prima o poi si fosse deciso ad indossare l’amuleto di Mara. E allora sì, lei avrebbe tirato fuori il suo e, con fare evasivo, gli avrebbe fatto notare la coincidenza. Nelle dolci fantasticherie quotidiane, in un sogno ad occhi aperti, sarebbe andata così. Dopo il matrimonio avrebbero acquistato una casa a Winterhold, messo su un negozio e venduto ingredienti e ricette ai maghi di passaggio.
Un sogno dolce e tenero, e sarebbe rimasto tale.
“Sei una creatura infernale, un demone spregevole. Azura ha la mia fedeltà, la mia devozione. Io... non ti devo niente, se non ore di sconforto e lacrime nei momenti di solitudine. Cerchi i mortali e ti diverti a sobillare le pulsioni latenti. Ci sono donne che sarebbero onorate di entrare in commercio con te, io non voglio, io non...”
Il dolore sembrò ravvivarsi all’improvviso. Il nobile guerriero – Sanguine sotto mentite spoglie – le afferrò il viso e prese a baciarle la fronte, gli occhi, prima che da essi sgorgasse un fiotto di lacrime.
“Stupida, non capisci. Io ero Sam. Hai sempre parlato con me, riso per me. Vai un po’ oltre chi è chi, quello non conta. Invece, se il tuo problema parte dal naso... be’, non posso farci nulla. I miei vizi sono noti a tutti,  a quanto pare mi si perdonano facilmente le altre debolezze, ma non la puzza di vino e tabacco.”
L’incanto stava funzionando alla perfezione: razionalmente si sentiva raggirata, ma le emozioni la spronavano a non rinchiudersi in banali pregiudizi.
“Ci siamo quasi,” le sussurrò all’orecchio, lambendole il contorno con la punta della lingua, “mi sono dimenticato di dirti che non tutte possono servirmi come ancelle. Bisogna che esse siano anime semplici... e innamorate. Tu mi ami, Dorisa? Ti prometto soltanto ciò che posso offrire, e nient’altro. L’unica forma di amore concepita da Sanguine, quella che m’appartiene”.
Scomparve la pietra imbiancata sotto gli stivali di pelle, si dissolse il velo di neve sulle spalle, il sole pallido a far luce sul colonnato. Ecco, invece, un camino invitante; un soppalco di legno scolpito, l’odore di zuppa in un calderone che prometteva un pranzo gustoso.
L’elfa oscura si guardò intorno, sorpresa, rassicurata. La casetta era umile, ma accogliente, proprio come l’aveva desiderata. Per il momento ignorava la presenza del principe daedrico, e la mano che si posava sul nastro che le raccoglieva i capelli.
“Ti piace?” Dorisa osservò il liuto, adagiato accanto alla credenza, e immaginò le sue dita sullo strumento. Sanguine sorrise, godendosi la vista dei lunghi capelli sulle spalle. “Qui avverrà la tua iniziazione: un’esperienza un po’ particolare, sono sicuro che poi ti piacerà. Entrambi i sessi ti chiederanno d’invocarmi, di favorirli nei loro giochi appassionati, perché io sarò con te, e tu una parte di me. Dolcezza, hai svolto il servizio superando le aspettative, finalmente riceverai la Rosa in cambio di... un altro fiore. Sei ancora in tempo per tornare indietro, non è detto però che io mi lasci convincere. Nel tuo caso non accetto rifiuti.”
“Perché hai insistito tanto?”
“Hm...” Era in grado di leggerle la mente, e lei non poteva fare altrettanto. Si voltò per guardarlo negli occhi, non identificò nessun altro sentimento fuorché la passione che gli illuminava le iridi, tinte di rosso cupo; torbide quanto un vino d’annata.
“Dimmi la verità...”
“Ho ascoltato le tue richieste, e ritengo d’essere l’unico in grado di soddisfarle. Riuscirò a soddisfarti anche in altri modi... smettila di fare la ritrosa e dai un bacio a zietto. Non castighiamoci ancora, di sicuro non vedi l’ora.”
“No, non così...” Dorisa doveva venire a capo della situazione, comprendere perché Sanguine l’avesse cercata, inseguita, irretita, sedotta fino allo sfinimento. Gli posò l’indice sul labbro, lui sembrava divertito. Tenerlo sulle spine avrebbe solo rimandato la verità, e intendeva scoprirla al più presto.
“Hai ragione,” sorrise la maga, con fare lezioso, “perché non mi è mai saltato in mente di invocarti prima d’ora? Da quando ti conosco, tutto è cambiato. Sei tanto paziente con me...” gli allentò i lacci della casacca, e il principe emise un sospiro compiaciuto, “...ho ricambiato le tue premure con l’irriconoscenza. Se dev’essere, voglio vederti nella tua vera forma, non ho paura.”
“Tesoro, sapevo che il tuo talento sarebbe venuto fuori, prima o poi.”
Una foresta di fiamme l’avvolse, senza bruciarla. Si sentì tuttavia al sicuro, mentre un volto cornuto e un corpo possente, tatuato, emersero dal fuoco dell’Oblivion, premendo contro la sua figura flessuosa e morbida.
“Non immagini il fastidio che dà quell’armatura, cara.” Ridacchiò, sollevando con insolenza la toga con cui veniva raffigurato, leggera e buona solo a coprirgli i lombi. “Non ti offenderò, spero, mettendomi a mio agio.”
“Tanto non servirà ancora a lungo.” Commentò, incredula per tanta sfacciataggine.
“Ti ho già detto che mi piaci da morire, se potessi morire?” Finirono a terra, su un tappeto pacchiano, ricavato da una pelle d’orso: Sanguine armeggiava coi lacci del corsetto, le aveva già sfilato la tunica in un gesto veloce, sapiente.
Dorisa gli spettinò i capelli, così come avrebbe desiderato fare con Sam, poi sfiorò incuriosita le corna, soffermandosi ad esplorare la parte di lui più insolita per un’elfa.
Il principe oscuro sogghignava, osservando le sue reazioni mentre l’accarezzava. Le sarebbe rimasto fedele? Non ne aveva la certezza. Nutriva dei sentimenti contrastanti: cominciava ad abituarsi a lui, ad amarlo sul serio. Per certi versi era mortale, quasi quanto lei.
“Sono onorato, mia cara.” Sentenziò, in risposta ad una frase non ancora espressa a voce. Il contatto con la sua pelle d’arenaria aumentava ogni percezione, stava perdendo la cognizione della realtà e desiderava appartenergli, condividere con lui una gioia infinita.
“Padrone...” Gli gettò le braccia al collo, in un momentaneo abbandono. Sentiva la propria nudità contro la sua: non era affatto crudele, anzi, le baciava le labbra sussurrandole frasi  in una lingua sconosciuta.
Ti sto dando ciò che desideri.
Improvvisamente, uno scalpello affilato incise dei solchi nella carne – doveva essere un pugnale, il dolore si mischiava al piacere ed era insopportabile. Dorisa urlò, e si coprì il volto con l’avambraccio: dove la pelle bruciava e i muscoli dolevano, comparvero delle linee sofisticate, seducenti. Un intreccio di petali, foglie e fiori che avrebbero testimoniato a tutti il suo legame col dio: il marchio di Sanguine.
“Fermati!” Si dibatteva, mentre i tralci di rosa mettevano le radici sul suo corpo. “Non così. Lasciami andare, non voglio, non...”
Mentre la consolava leccandole la fronte cadde in una sorta d’ipnosi: riviveva una scena a cui non aveva dato troppa importanza. Si era imbattuta in un drago, un drago, ed era riuscita a sopravvivere alla furia con il fuoco.
 La bestia le aveva lacerato un braccio ed una gamba.  Il respiro si era fatto affannoso, sporadico. Le stringeva il busto con gli artigli; un pugnale – un pugnale! – era l’ultimo brandello di speranza rimasto, mentre confidava di avere abbastanza tempo per lanciare l’ultima scarica elettrica...
Un colpo al cuore, e poi l’incantesimo che l’aveva pietrificato, reso inoffensivo quanto uno spaventapasseri.
Pietrificato, non incenerito: eppure, un potere nuovo era entrato in lei, aveva risanato le ferite. Era il drago, l’anima del drago.
Tornò al Collegio senza dire una parola. A lei sembrava normale, più che normale.
L’immagine svanì, e subito fu rimpiazzata da una proiezione immaginaria di se stessa: sicura, fiera. La pelle ricoperta di tatuaggi, le rose di Sanguine, di fronte ad un altare eretto in una zona remota di Skyrim.
Ovunque andasse, in qualunque taverna soggiornasse, uomini e donne le chiedevano di intercedere per loro.
 “Parlagli di me, ti ascolterà”.
La gente di Tamriel aveva riscoperto il piacere nella notte:  acerrimi nemici gettavano le armi per indulgere nel desiderio. La timida servetta con l’uomo di ventura, il commerciante onesto e devoto agli Otto Déi con l’infame meretrice, una giovane altmer col proprio aguzzino Thalmor.
Al suo passaggio un cozzare di boccali, un tripudio di profumi, cibi prelibati, canti orgiastici.
“Lei, il Sangue di Drago. E Sanguine, sua guida e protettore!”
Aveva compreso, sì – ora le era tutto chiaro!
“No, non farò ciò che chiedi. Lo scambio è iniquo, non mi piegherò... mai e poi mai!”
“Troppo tardi,” il principe daedrico le rinfacciò le proteste con un sorriso sornione, “non amo lasciare a metà quello che inizio. Quindi, non mi pianterai in asso proprio sul più bello: accetta il marchio, accoglimi con te, in te...”
I vetri s’infransero, le mura di quella docile illusione crollarono e tutt’a un tratto fu libera, libera. Cosa poteva essere? Forse un tuono, una bufera di neve, invece... era la sua voce. Aveva pronunciato delle sillabe ignote, tutte le energie si riversarono contro il principe della dissolutezza, che fu sbalzato via proprio quando stava per avere la meglio.
“Mm. Hai un bel caratterino, ragazza.”
“Io... io, cosa ho fatto? Ah.”
Sanguine si rialzò in piedi, scrollandosi la polvere da dosso in un gesto stizzito. Dorisa si coprì gli occhi, imbarazzata. Mentre erano distesi sul tappeto non era riuscita a scorgere la sua virilità, ora completamente esposta.
“Non giocare alla damina innocente, brutta imbrogliona. Cosa ti aspettavi, una lista della spesa? La storia dell’ape e dei fiori? Desideravi maggiore... chiarezza? No, non ti ho ingannata. Se intendi ridefinire i termini dell’accordo, invece...” e curvò le spalle, frustrato, “mi toccherà farlo, dato che adesso conosci il tuo... potere ”.
“Ho superato delle prove, molto probabilmente rischierò la vita...” ipotizzava, inginocchiata a terra, “non farai altrimenti”.
“Vuoi che ti accompagni ad ammazzare un paio di draghi? Affare fatt...”
“No.” Dorisa scosse il capo, amareggiata. “No. Vivrai da comune mortale le stesse umiliazioni che ho subito, e dovrai dimostrare affetto oltre ogni forma di interesse e vanagloria, se mi desideri come ancella. Non mi congiungerò a te senza un pegno d’amore. Quando riceverò il dono, seguirò la strada presagita. Dovrai dimostrare di amarmi col cuore. Amarmi, capisci?”
Amarmi. Facile a dirsi, aveva ben altri piani mentre la guardava chinarsi da dietro, a raccogliere i vestiti. L’eccitazione gli inondava il basso ventre, chissà se la piccola dunmer era al corrente di quale effetto devastante avesse su di lui.
Doveva essere dolce, carina. Spietata e temibile coi nemici, uno zuccherino col suo amato zietto. Invece... è un maledetto mostro! L’immagine fatta e finita di Azura. Anch’io avrò la mia campionessa, un’eroina che farà la storia. E per ricevere onori e libagioni sarei disposto a tutto, persino ad accondiscendere a una cosa così... degradante. Non mi lascerò sfuggire una preda tanto appetitosa, no. È da secoli che attendo un’occasione simile!
 
Meditava seduta a letto, di fronte un libro e con l’alambicco di mastro Tolfdir sul tavolo delle pozioni. Dimenticava spesso l’occorrente da distillazione in giro, e quando poteva, Dorisa era sempre lieta di dargli una mano e seguirlo nelle faccende quotidiane. Stava vivendo una tregua, seppur piacevole: aveva comprato una piccola abitazione a Winterhold, ma la casa era ancora spoglia di arredi e richiedeva una pulizia a fondo. Presto o tardi, Dorisa avrebbe ingaggiato qualcuno per darle una mano a sistemare le cose, anche se conosceva già qualcuno a cui affibbiare il lavoro di manovalanza.
Aveva preso un cane per fare la guardia all’abitazione: il fedele compagno l’accoglieva sempre scodinzolando, quando tornava a casa – la sua futura casa – per accertarsi che stesse bene.
Quelle notti, comunque, erano state più fredde del solito. Col permesso dell’Arcimago e di Mirabelle aveva portato il segugio con sé; ma aveva notato un certo astio da parte di Ancano, il consigliere Thalmor, che disapprovava del tutto la presenza di animale domestico tra le mura del Collegio.
“Non preoccuparti,” gli diceva, arruffandogli il pelo e rivivendo con amarezza quel momento... i capelli di Sanguine, la loro consistenza, “prima o poi andremo via da qui. Non mi piace quello che sta succedendo ultimamente, quell’altmer pensa di essere il padrone, ci tratta alla stregua di un branco di marionette”.
Si sentiva a disagio, osservata. Non era Ancano, però, ad alimentare l’inquietudine. Sembrava che qualcuno stesse aspettando nell’ombra il momento propizio per rivelarsi: aveva il marchio di Sanguine impresso dentro di lei, sebbene non fosse ancora pronta ad accettare un roseto purpureo sulla pelle.
Il segugio si portò sulle zampe, e vagò per la stanza innervosito, annusando qui e lì. Anche Dorisa stette all’erta, rintanandosi verso la spalliera del letto.
“Dimmi, amico mio. Cos’è che senti?” L’aveva addestrato bene. Per fortuna, era capace di fiutare odore di zolfo e Daedra a leghe di distanza, per non parlare di quanto fossero sensibili gli altri sensi.
“Calmo, calmo. Va tutto bene.” Dorisa balzò giù dal letto, chiuse il libro e s’avventurò al di là di quelle pareti sicure, confortanti.
Udì uno scalpiccio leggero, passi piccoli e concitati. La porta fu sollevata leggermente dalla maniglia, per non far cigolare i cardini, poi accompagnata affinché non sbattesse. Una figura incappucciata si dirigeva verso i barili e le casse di legno accatastate all’angolo del portico. Saltellando felice, al settimo cielo.
Brelyna! L’elfa oscura si rassegnò a seguire l’amica, distanziandola appena.
Un gridolino smorzato la spaventò a morte, facendola sobbalzare. Sembrava, però, che Brelyna non fosse in pericolo, e neanche molto sorpresa di fronte alla figura sconosciuta, avvolta nelle tenebre.
“Mi dispiace,” sussurrò l’elfa, carezzevole, “detesto tutto questo, sai quanto sono prevenuti sulla nostra relazione. Vorrei trascorrere più tempo insieme a te, dimmi... come vanno le cose lì?”
“Un tedio immane,” fece di rimando la voce cavernosa, mentre un’unghia affilata giocherellava sui suoi seni morbidi, “ho accettato di venire qui non di buon grado, poiché il mio Signore me l’ha ordinato. Poi ho trovato te. Luce dei miei occhi! Splendente cristallo! A quanto pare, nessuna novità. Tutto procede come al solito, anche se ormai varcare il portale tra i due mondi  è soltanto una scusa per incontrarti.”
“Ricordo la prima volta,” pareva che pronunciasse i versi di una poesia, “non stavi esultando di gioia, temevi che le andassi a spifferare tutto – in realtà, non intendevo danneggiarti. Ho faticato a convincermi dell’accaduto: tutto ciò è impossibile... ma un legame tra il tuo popolo e gli abitanti di questo regno è sempre esistito. Sai, le prime volte ero sconcertata: mi aiutavi a progredire in Evocazione senza chiedere nulla in cambio. Sono solo un diversivo – mi dicevo – e in tutto questo vi è un secondo fine. Invece... mai un patto si è rivelato così dolce e tenero. Ricordo quando hai rivelato il prezzo delle lezioni di magia, un semplice bacio, il primo di una lunga serie. Adesso continui ad ammorbarmi coi soliti discorsi sulla famiglia numerosa, sei più tradizionalista di mio nonno! Rallegrati, sono onorata di potermi unire al Comandante della Guardia di un potente principe...”
“Ti amo, Brelyna.”
Un dremora grande e grosso, armato di tutto punto, sconfitto da una fanciulla indifesa. Gongolava con aria infantile, tra le braccia dell’innamorata. Come spia non valeva un soldo, però il principe avrebbe approvato un capovolgimento delle parti tanto inaspettato.
“Avrai il mio cuore di pietra, la mia spada affilata, spargerò sul tuo florido corpo il sangue del nemico al culmine della passione, considerami tuo servo, incatenami...”
“Ah ehm.” Il compagno peloso ringhiava, pronto a mordere. Lei si sentiva semplicemente di troppo. “Dunque eri tu a tenermi il fiato sul collo. A quanto pare, ti sei perso per strada...”
Il dremora non sguainò la spada: strinse a sé l’amata in un gesto protettivo, nascondendola alla vista della compagna.
“Sì, è me che dovrai affrontare, se non accetti il tuo destino... e le volontà del mio Signore. Attende di essere evocato, tanta pazienza giungerà a termine, è bene tenerlo a mente.”
“Vyndak, caro.” La schiena del demone s’inarcò, quando Brelyna posò una mano sul cinturone. “Dorisa sa bene cosa fare, non si sente ancora pronta. Di’ al tuo Sovrano che un’immensa felicità, per esser tale, necessita tempo e preparativi. Sta sistemando le cose, presto potrà accorrere da lei.”
“Hph.” Vyndak sbuffò, indispettito. “Così sia. Tornerò a palazzo e farò rapporto. Non vedo l’ora di gustare le tue tortine di bacche, saranno... deliziose”.
Dorisa sgranò gli occhi, allibita. Quei due si comportavano come se fossero già marito e moglie. Anche il cane s’era accovacciato a terra, insonnolito.
“Fai buon viaggio, caro. Ti aspetto domani sera!”
Svanì in una nube di fumo giallo e rosso, recuperando quel poco di serietà rimastagli. Brelyna agitava la mano, alquanto amareggiata.
“Mi devi spiegare un paio di cose... da quando va avanti questa storia?”
“Mesi, ormai.” Replicò con candore l’altra dunmer. “Dopo il tuo ritorno a Winterhold, solo allora ha cominciato a manifestarsi. All’inizio m’incuteva paura, poi... be’, hai ben presente. Non c’è bisogno che mi riassumi l’intera vicenda, so tutto.”
“Oh, perfetto. Mal comune, mezzo gaudio.”
“Ha ragione, comunque,” Brelyna strinse le braccia al petto, rimproverandola, “risolvi la questione aperta quanto prima. I Daedra non amano essere contraddetti, soprattutto se nutrono una profonda sete d’ambizione”.
“Non tireresti le somme tanto in fretta, se non ci fosse il tuo bel Vyndak a ronzarti attorno.”
“Mm.” Brelyna s’accigliò, se desiderava partire alla volta di un indefinito regno daedrico in compagnia dell’amante, perché non farlo e basta? “Non voglio che il principe se la prenda con lui. Verrà redarguito, nel peggiore dei casi declassato, frustato per secoli...”
“Calma, calma. Invocherò Sanguine e sistemerò tutto. Sono stanca di queste baggianate. Se ci sarà qualcuno da biasimare, sarò io, io soltanto. Non c’entri nulla in questa storia, Brelyna. Per quanto riguarda la vostra... relazione, invece, non hai nulla da temere. Il tuo segreto è al sicuro, e anche il mio.”
“Sapevo che avresti capito!” Esultò, giungendo le mani al petto.
Qualcosa mi dice che sono stata doppiamente incastrata, pensò Dorisa. Neanche in un romanzo cavalleresco avrebbe trovato tanti colpi di scena.

 

Come promesso, eccomi di ritorno. :) Sì, ho diviso la storia in ulteriori capitoli per rendervi più agevole la lettura, ma abbassate quella frusta e mostratemi un po’ di pietà. L’ho finita, è completa! Sto revisionando tutte le parti per benino prima di mettere online il resto, se è possibile cerco di snellire qualche frase. Ho provato ad usare un linguaggio più irriverente, ad alternare le parti tipicamente fantasy con quelle comiche. La trama è un miscuglio di generi, ma spero che vi possa piacere lo stesso.
Una nota molto importante, che anticipo adesso ed approfondirò dopo: per descrivere i Daedra, ho preso come riferimento le divinità greche, che mi sembravano simili per contesto, carattere e comportamenti. Essendo il principe del peccato e della dissolutezza, ho associato Sanguine a Dioniso. Non me ne vogliate a male, però. ;)
A dopo. :)


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Sanguine's Dragonborn ***


Accese un fuoco nell’orticello ancora incolto, tra la stalla e la casa ancora da arredare. Aspettò che le fiamme acquisissero vigore, alimentate dall’olio che penetrava nelle crepe dei ciocchi di legna. Sbattè le palpebre, assonnata: sperava che nessuno si fosse accorto di lei.
Accanto al fuoco sonnecchiava il fedele segugio, dopo aver rosicchiato ciò che rimaneva di una coscia di montone.
“Accorri, principe della dissolutezza, io ti invoco.” Avrebbe preferito insultarlo, piuttosto che invitarlo a varcare il confine tra i due regni. “Ascolta la voce di chi reclama il tuo ardore, la tua persuasione, la tua... emh, sapienza?”
“Be’, hai qualcosa in contrario?” Ribatté una voce mielosa a lei nota. “Ci sono astuzie che s’apprendono solo in un bordello. Dovresti visitarne uno, mia cara, le signore della notte potrebbero prendersi una pausa ed insegnarti qualche segreto. Ne usciresti arricchita, anche se preferisco essere io il tuo maestro...”
“Ah. Eccoti.” Dorisa abbozzò la parodia di un inchino, di mala grazia. “Onorata, mio Signore...”
“Già, come no.” Gli orli della tunica leggera ondeggiavano sospinti dalla brezza di mare, e pareva insensibile al freddo pungente di quella notte senza neve. “Avanti, son tutto orecchi. Hai stabilito queste... prove, mia cara? Facciamola breve, comincio seriamente a stancarmi.”
“Padrone...” Esitò la dunmer, abbassando il capo e mettendosi a sedere su una pelle d’alce.
“Dov’è finita la nostra confidenza, dolcezza? Prima eri tanto premurosa, mi chiamavi zietto, Sanguine mio adora...”
Non ebbe il tempo di finire che il cane balzò in piedi, per avventarsi contro di lui. Era stato distratto da una buona cena, dal caldo invitante del fuoco, adesso era pronto a svolgere il suo compito e a colpire.
“Sanguine... via.” Intimò Dorisa.
“Ah, bocconcino. Osi prenderti gioco di me? Come se bastasse un ammasso di pelo a tenermi alla larga...”
“Sanguine... via. A cuccia.”
Il cane abbassò le orecchie, leccò la mano della padrona e sgattaiolò via, ubbidendo al comando.
“Sanguine...” Biascicò il principe daedrico, esterrefatto. “Hai dato il mio nome ad un cane!”
“Meriti di peggio.” Sbottò Dorisa, attizzando le fiamme con un rametto secco.
“Hai tutte le ragioni di questo mondo mortale per odiarmi a tal punto.” Spiegò lui, posando il capo cornuto sulle sue ginocchia. “E da mortale mi comporterò, solo per un giorno, se lo ritieni necessario.  Mi dimostrerò all’altezza. Sottovaluti le mie capacità solo perché non sono violento come Mehrunes Dagon, Boetiah e Molag Bal? Puah. Ad agitare un mazza ferrata e a giocare al tiro al bersaglio con un pugnale ci vuole poco. Hai visto, piuttosto, qual è il mio potere? Di fronte agli istinti, alle promesse dell’intimità, ogni resistenza è annichilita. Persino la tua amica bacchettona non ha esitato a gettarsi fra braccia di Vyndak, ho preso due piccioni con una fava. Ero stanco di sentire continui piagnistei su quanto fosse solo, triste, senza la donna giusta che lo riempisse di sdolcinatezze... per non parlare, appunto, di come l’abbia spuntata con te. Dimmi se non sono un genio.”
Dorisa evitò i suoi occhi scuri, gli abissi di un oceano illuminati dai raggi tenui di Secunda. Era attratta da lui, pur essendo uno dei Daedra possedeva delle qualità desiderabili: senso dell’umorismo, ironia. Non si poneva limiti di giudizio, per lui non esisteva né il bene né il male, semplicemente un filo sottile ad unire due anime in vena di nuove sfide.
“Nel caso te lo stessi chiedendo, la risposta è sì, mia cara. Di solito scelgo un campione e lo incarico di svolgere un servizio in mia vece, ma gioco al burlone solo con le donne che amo.”
“Non mi impietosisci.” Sentenziò la dunmer, rimestando cenere e carbone.
“Oh, certo. Preferisci vendicarti, piuttosto”.
Detestava contemplare i lineamenti di Sam su quel volto demoniaco, ma il mago bretone era vissuto per una brevissima frazione di tempo, nell’arco dell’esistenza di Sanguine. Occhi umani e labbra carnose tornarono a tormentarla, aveva mantenuto la parola rinunciando ai suoi poteri.
“Ho dovuto spartire la collana per necessità, dovrai andare alla ricerca di quel che manca.” Spiegò. “Il rubino è finito nella stalla, sotto cumuli di fieno. La catena d’oro, invece, l’ho affidata in pegno alla vecchia Hulda, che mi ha venduto i mobili: dovrai convincerla a riaverla indietro. Una perla l’ho persa sul monte Anthor, l’altra... non ricordo. Di sicuro dove non potrai mai mettere le mani.”
“Mi alleggerisco il lavoro, allora!” Sanguine, tornato ad essere Sam, si congedò con una stretta di mano e un delicato schiocco sulle guance bluastre.
Perché lo trovava adorabile? In fin dei conti le aveva mentito solo a causa dello scherzo, nei suoi atteggiamenti e a parole era sincero. Non voleva ammettere a se stessa di essersi invaghita di un’entità che, poco tempo prima, avrebbe rifuggito. A Morrowind venerare i Daedra non era considerata una scelleratezza, soprattutto dopo il vuoto venutosi a creare dopo la morte di Sotha Sil ed Almalexia, la caduta di Vivec. La fine del Tribunale aveva risvegliato le paure e riesumato gli interrogativi su ciò che emanava sacralità divina.
In una pozza di lacrime affondavano le radici della speranza. Avrebbe ritrovato la forza per risorgere abbattendo poco a poco le barricate, rinunciando alle catene dei propri limiti. Astrazione, felicità, catarsi: si sarebbe impadronita di un corpo nuovo, di una nuova anima, bevendo a piene mani da una sorgente incontaminata, laddove le acque non ristagnavano per il sangue dei morti, cullando gli scheletri dei caduti.
Il sonno eterno, la prigione mentale di un individuo castigato dai propri demoni.
Questo demone, però, le stava offrendo un’occasione di riscatto.
Al di là del caos, prima di un nuovo inizio.
 
“Puah, che schifo. Salvare capra e cavoli è un lavoro sporco, ma questo è sicuramente peggio.”
La stalla versava in condizioni pietose, prima aveva dovuto spazzare via il fieno, poi liberare il pavimento dal cumulo di letame rimasto a marcire da giorni. In tutto questo, era stato intralciato dai fastidiosi inquilini, che si divertivano a rendere le cose più difficili gettandosi a capofitto tra i monticelli d’erba e continuando a disseminare il pavimento di escrementi.
“Via, via... da brave!” In un battito di mani avrebbe trasformato quel putiferio in una reggia, se fosse stato Sanguine. Invece, gli toccava ricorrere al lavoro manuale. Non poteva rischiare di far saltare tutto in aria e di bruciare le simpatiche bestiole. Doveva spalare, spalare ancora.
Persino pecore e mucche congiuravano contro di lui.
“Vi ha istruite bene, quella sfacciatella.” Per trovare il rubino era costretto a muoversi con una lentezza estenuante. Dopo esser riuscito a liberare i corridoi tra i recinti del bestiame, aveva scoperto suo malgrado che la gemma doveva esser finita sotto gli zoccoli dei maledetti ruminanti.
“L’odio è reciproco, sappiatelo.” Era riuscito a calmare pecore e capre, recalcitranti a subire l’invasione, con un semplice incantesimo. Con sommo disgusto, e indossando un paio di guanti da contadino, rastrellava la sporcizia con le dita. Ogni volta che ripeteva l’operazione, ne usciva sempre più nauseato.
“Spero che nessuna di voi abbia ingoiato la pietra, altrimenti sarò costretto a squartarvi il ventre, una per una.” Con passo baldanzoso, il principe daedrico scansò i recinti più piccoli, per dirigersi verso quello al lato opposto dell’entrata, dove l’attendeva il signore della stalla.
Il toro si mostrò mansueto e disinteressato fino a quando Sam violò i suoi spazi: attese che la staccionata fosse aperta, prima di montare alla carica.
“Bello, non ti conviene. Ho testa e corna più dure delle tue!” Lo vide all’angolo del recinto, dietro una pila di sterco. Non ci pensò due volte: storcendo il naso allungò il braccio per raccogliere il rubino oltre l’immonda sozzura e scappò via, sbattendo le porte di quell’inferno muggente e serrandole con una sbarra di legno.
“Non mi venissero a dire che la vita bucolica mette allegria, preferisco fare il bagno in un fiume di lava, piuttosto.”
Andò a pulire la gemma alla vasca pubblica, dove le lavandaie sciacquavano i panni e i bambini erano mandati a prender l’acqua. Al suo passaggio, uomini e donne si ritraevano nauseati.
Erano le voci di paese, comunque, a diffondersi più in fretta del lezzo: in men che non si dica, le abitanti di Winterhold sgombrarono la fontana e si ritirarono nei cortili, per risparmiare al puzzolente straniero un’ulteriore umiliazione.
Non che gli dispiacesse, in fin dei conti... sebbene un carovaniere Khajiit sembrasse un signore, a confronto.
Bussò alla porta della casa a due piani, ma nessuno venne ad aprirgli. All’interno trovò Dorisa, indaffarata a spostare la mobilia prima di sistemare libri e vestiti.
“Ho bisogno di lavarmi.” Sbottò, oltrepassando la soglia.
“Non qui, non ora. Chiedi ad Hulda, è lei che ha ancora la tinozza.”
Cominciava seriamente a dubitare di poter sopravvivere a quel pandemonio, senza la regalità di un principe Daedra. Percorse di nuovo le strade di Winterhold, attorno a lui passi affrettati, sguardi di compatimento.
I colpi risuonarono più forti di quanto intendesse. Ci mancava solo che scardinasse via la porta, dopo aver passato l’intera notte e l’alba di un nuovo giorno a combattere contro gli animali nella stalla.
“Chi è?” Gracchiò una voce dietro le tavole di legno.
“Sono il promesso sposo di Dorisa.” Dichiarò Sam, senza pudore. “Vengo a prendere le sue cose.”
“Ah, bene bene!” Si ritrovò di fronte un’anziana donna, coi capelli raccolti in un fazzoletto di lana e le fattezze del viso alterate da una biliosità perenne. “Allora, sei venuto a risolvere anche il mio... problema.”
“Cosa vi angustia a tal punto, signora?” Domandò, con falsa gentilezza.
“Vedi, la tua amichetta aveva promesso di aiutarmi a riordinare casa, dopo aver portato via quello che le interessava,” ghignò, alludendo a qualche accordo lasciato in sospeso,  “gli scaffali strabordano di stoviglie e libri, nel corso degli anni ho accumulato tante, troppe cose. Metto in vendita la roba inutile, tra le varie cianfrusaglie. Quando sarò morta di certo non potrò portarmela nella tomba.”
“Non penso faccia la differenza, siccome vivete sepolta viva in questo ciarpame...”
“Cos’hai detto?” Tuonò la vecchia.
“Niente, parlavo tra me e me.”
Hulda era gelosa della sua polvere, delle stanze popolate da mobili, utensili e lenzuola che si era divertita a collezionare. Ovviamente, non permise a Sam di venirle incontro, prima di un bagno.
“La tinozza è in cantina, ha scelto bene quella sbruffoncella... il migliore abete, verniciato a modo per durare! Non esiste più la manodopera di un tempo, hai notato quant’è scadente il legno usato oggigiorno?”
Sam annuiva in silenzio, e una parte di sé rimpiangeva amaramente l’infelice impresa. Non era per nulla divertente.
Mentre si spogliava sotto il portico, nel giardino retrostante, aveva notato l’ombra di Hulda che sbirciava di tanto in tanto, scostando i lembi delle tende ricamate. Se avesse sollevato la questione, avrebbe giustificato le indesiderate attenzioni con la solita scusa del lavoratore a cottimo da sorvegliare in ogni momento della giornata, affinché rigasse dritto.
L’arzilla signora tirò fuori l’ardore anche nelle faccende di casa: gli ordinò di raschiar via l’umidità dalle pareti e di passare l’intonaco laddove s’era scrostato.  Sam fissò alcuni quadri al muro e riparò quelli con le cornici cadenti; s’arrampicò su una scala per otturare i buchi del tetto; tagliò l’erba del giardino e seguì le indicazioni dell’indisponente padrona nel riordinare la dispensa.
Quando si ritenne soddisfatta, passò in rassegna il risultato di mezza giornata di lavoro con occhi sognanti: Sam la seguiva, torcendo il panno di lino come avrebbe voluto fare col suo collo.
“Dorisa mi ha chiesto di ritirare un gioiello,” azzardò, in un ultimo sorriso accondiscendente, “penso che i patti siano stati rispettati.”
“Oh, certo! Che sbadata, quasi dimenticavo...” La vecchia Hulda tirò fuori la catena d’oro, e Sam fu lesto a strappargliela di mano. “Torna quando vuoi. C’è sempre tanto lavoro da fare, e mi raccomando, la tinozza! È triste separarmene; dopotutto, poteva esserti utile per un bel bagno ristoratore, in previsione delle pulizie di primavera”.
Finse di non aver recepito il messaggio, salutò educatamente e s’allontanò trascinando l’amaro bottino.
Bussò ancora alla porta di Dorisa, stavolta senza riguardo. Venne ad aprire, indossando solo la camicia di cotone e delle braghe di camoscio.
“Sei crudele,” fu l’unico pensiero sensato che riuscì a formulare nell’ira, “tieni la tua vasca! Non ho mai infierito sui miei schiavi, è stata una giornata da incubo...”
“Getti la spugna, allora?” Si muoveva qui e lì come una danzatrice. Sam strinse i pugni, Sanguine stava avendo la meglio: l’avrebbe resa meno baldanzosa con una giusta punizione. Nuda, legata e completamente alla sua mercé.
“Vado a prendere la perla,” sibilò, scaraventando sul tavolo un piccolo astuccio. “ecco il resto. Mi sono piegato al gioco.”
E aveva rispettato le regole: Dorisa cedé all’isteria, il volto si deformò in una smorfia di disappunto. Non poteva lasciare che Sanguine avesse la meglio su di lei, seppur mortale. Si era premurata di inscenare, e di render più gravose, le stesse condizioni dello scherzo.  Il drago sarebbe stato meno comprensivo.
Non vincerai. Pensava, indossando l’armatura in fretta e furia. Ti distanzierò, arriverò sul monte Anthor per vanificare la scalata e recuperare la perla. Un mortale avrebbe impiegato giorni a svolgere quelle incombenze, cosa ti spinge ad insistere?
Aveva scorto la delusione, l’arrendevolezza nei suoi occhi. Solo una finzione, un principe dei Daedra non sarebbe mai stato capace di provare sentimenti così umani.
A meno che non fosse stata lei stessa a negarli.
 
Giunse sulla montagna mentre la bruma della sera soccombeva alla quiete mendace della notte. I resti del macabro sacrificio giacevano scomposti, la neve accoglieva le ossa dei caduti come una madre che stillava lacrime di sangue. Percorse il perimetro del santuario in rovina e si diresse verso le macerie della torre, ultimo lascito delle razze mortali e baluardo sicuro.
Sanguine avrebbe soggiogato la belva, costringendola ad inchinarsi di fronte a lui. Sam, invece, impugnava l’arma e barcollava, coi nervi a fior di pelle e le vene che pulsavano come stelle gemelle.
All’improvviso apparve una fiamma, un fantasma; fendeva la nebbia azzurrina e si dirigeva verso di lui.
Era Dorisa: brandiva una torcia, lo colpì con un tagliente sdegno.
“Credevi che me ne sarei stata a casa con le mani in mano, a vederti cantare vittoria?” Ruggì, mentre la luce soffusa accarezzava il corpo formoso, i fianchi sinuosi e il volto ovale, dalle guance delicate.
“Dorisa... non sono venuto a sfidarti o a vederti morire. Fatti da parte, o andiamo via da qui.”
“Hm. A quanto pare, senza le corna non vali molto. Avevo ragione.”
Rinunciando ai poteri di Daedra aveva perso la facoltà di anticipare le sue mosse, di carpire le sue emozioni. La dunmer si chinò avanti, piegandosi ad arco, quasi era affondata nella neve: la terra tremava, pezzi di roccia crollavano dalla sommità delle rovine, il cielo si era eclissato dietro una membrana squamosa.
Sorse dal fogliame, dai picchi rugosi incrostati di muschio. Spalancò le ali ed emise il suo grido di battaglia, per castigare chiunque avesse osato violare il nido.
“Dimmi dov’è la perla.” Sbraitò Sam.
“No.”
“Dimmi...” Non terminò la frase: Dorisa si era gettata contro la fiera, tempestandola di gemme infuocate. Sam digrignò i denti, maledì l’elfa e la sua testardaggine.
Il drago le vomitò addosso una tempesta di ghiaccio: si difendeva con uno scudo magico, che assorbiva parte dell’energia spirituale dell’incantesimo. Ben presto si sarebbe ritrovata a riparare presso la torre, nella speranza di recuperare tempo e terreno.
Sfoderò la spada daedrica, privo di qualsiasi altra cognizione, se non quella di adamante ed oricalco in un moto involontario. Aggirò la creatura alata e la colpì alle spalle: alla vista del sangue denso che gli bagnava il torace fu invogliato ad insistere.
“Sei solo un mortale, cosa pensi di fare?” Dorisa lo osservava da lontano, mentre sfogava tutto il suo rancore. Con una scrollata d’ali il drago lo gettò a terra, ma Sam fu lesto a balzare in piedi e a studiare un nuovo attacco, attirandolo verso di sé.
S’aggrappò alla coda lunga, dentata: risalì fino in groppa e prese a stordirlo con una raffica di scariche elettriche. Il drago subì l’affronto fino a quando non riuscì ad afferrarlo per il busto e a scaraventarlo via. Sam cadde di schiena e si rialzò lentamente, zoppicando.
Perché aveva deciso di rimanere, di aiutarla a recuperare le forze quando avrebbe potuto abbandonare il campo e divertirsi ad assistere alla sua disfatta? Perché la stava difendendo?
La creatura gli aveva graffiato il petto e la spalla, riducendo la tunica a brandelli. Berché il mago opponesse resistenza, parando i colpi con la spada e servendosi delle lame di ghiaccio per fiaccare l’avversario, era arrivato allo stremo delle forze. E rinunciava a riprendere la sua forma immortale, solo per rispettare il patto. Quello stupido patto...
“È colpa mia. È solo colpa mia...” Dorisa evocò un pugnale immateriale e, cogliendo l’attimo opportuno, lo colpì al fianco. Le membra ferite crepitarono sotto il fendente incantato, e il drago ricambiò con uno sguardo feroce e una zampata, infilzando gli artigli oltre le lamine d’acciaio lucido.
L’elfa urlò, in preda ad una sofferenza insopportabile, per poco non le aveva staccato un braccio: con la spalla e la mano destra ormai inutilizzabili, avrebbe dovuto contare solo sugli incantesimi... e la forza di volontà.
“Ti odio... e odio me stessa, oltre ogni altra cosa al mondo!”
Sgomento, sensi di colpa, passioni represse e bandite da ogni forma di ripensamento. Uno scatto, poi un altro, senza ponderare quale organo lacerare, per il puro gusto della vendetta. Era stata lei a disturbare la creatura, ad aizzarla contro il Bretone. Lei, a nascondere la perla nella torre in rovina, dentro un baule malandato. E a lei spettava porre rimedio.
La bestia la intrappolò tra le sue grinfie, inamovibile; poi sbalzò l’elfa oscura verso una sporgenza rocciosa, in un’ultima, gloriosa resistenza.
Sam riprese i sensi, soccorso dall’alleata Vaermina. In un battito di ciglia, la signora dei sogni gli indicò una stele tra le sterpaglie, poco distante da lui: la futura eroina, il Sangue di Drago, giaceva contro una lastra di pietra in una posa scomposta; un rivolo di sangue caldo le umettava il volto mischiandosi alla massa di capelli neri.
Sarai tu a decidere, dolcezza, non appena ti risveglierai. Accoglimi o rinchiudimi per sempre nell’Oblivion, mia pudica ancella!
Disegnò dei simboli daedrici nel vuoto, creando attorno a sé un campo di forza: si dissolsero in globi di luce, in fiamme argentate che gli entrarono in corpo, risanando le ferite.
La sua pelle divenne lava solidificata, gli occhi scuri rivaleggiavano con le profondità della terra.
Sanguine si ergeva fiero, oltre il cerchio magico. Pregustava il sapore di carne e sangue sulla lama, sensibile all’unica seduzione in grado di saziare la sua fame: il piacere nel dolore, la sottomissione nella violenza.
L’empio dragone indietreggiò, superato in astuzia. Si agitava furente, affondava le fauci nel metallo daedrico e ruggiva invano, tenendo alla larga il combattente oscuro con le uniche armi in grado di prolungargli l’esistenza.
Una gabbia acuminata gli infilzò le squame, esalò l’ultimo respiro implorando pietà: supplicò il principe di non prendere la sua anima, di favorire l’ascesa verso l’infinito.
“Non sarò io ad accordarti il permesso.” Sentenziò Sanguine, gettando la spada su una poltiglia di viscere ed acqua.
Fu quindi dolore, perdizione, infelicità eterna: udì l’ultimo singhiozzo della belva e un ticchettio di maglie, temendo che fosse tardi, troppo tardi per strapparla al volere di Arkay.
Invece, le braccia della dunmer furono scosse da uno spasmo, la bocca si spalancò ingoiando l’aura impalpabile che inceneriva il drago. Lo accolse con lei: semmai avessero raggiunto la redenzione, sarebbe stata appannaggio di entrambi.
Lungi, però, dall’essere al sicuro con lui: le insinuò la lingua nerastra tra le labbra; indugiò in quel contatto profondo, appagante, mentre era ancora addormentata. Non il sangue di drago, ma quello di Dorisa ai lati della bocca... gli provocava una fitta lancinante di piacere.
“Finalmente avremo tutto il tempo del Mundus, mia cara...” Sussurrò, caricandosela sulle spalle e cercando di non farle del male. L’orizzonte si tingeva dei colori della luce, giallo grano, verde intenso come le foglie umide appena nate. Tuttavia, in quel ciclico rinnovamento di voci e clamori, nell’incessante mutamento mortale, Sanguine piantava il seme dell’imprevisto.
 
La ridda di visioni, la cacofonia di voci, richiami ed invocazioni, cessò quando aprì gli occhi dopo un lungo sonno. Non immaginava quanto tempo fosse rimasta lì, sul morbido materasso e nella sua nuova abitazione. Qualcuno, mentre era addormentata, aveva montato le tende e lucidato il calderone in rame. Ogni cosa era a suo posto, o almeno, era stata sistemata assecondando i suoi desideri. Accanto al letto trovò un bicchiere di latte tiepido e dei biscotti: ne addentò uno, era vagamente stantio. Chissà da quanto tempo erano lì.
Provò ad alzarsi e ad allungare una gamba, ma fu costretta a muoversi adagio: era letteralmente bardata in una serie di fasciature che le coprivano il petto e il braccio sinistro. Per giunta, era stata lavata, coperta con una camicia da notte e messa a riposo. Pian piano si palesarono i ricordi perduti, raffiorando a galla. Dorisa scese le scale, appoggiandosi al corrimano, e raggiunse l’accogliente calore del caminetto.
“Sam... Sam, sei qui?”
Trasalì, al fischio del vento tra le imposte. Dalle strade di Winterhold proveniva un distante cicaleccio: la vita era lì, tutta all’esterno. In quel momento la casa parve vuota, spettrale.
“Sam... Sanguine? Avanti, non farmi altri scherzi... su, vieni fuori!”
Il silenzio fu accompagnato da un gelido presentimento. L’impertinente collana luccicava contro le venature pallide del noce. Regale, splendente, completa in ogni sua parte.
“Ti prego, non giocare con me...” Pigolò Dorisa, con gli occhi umidi. “Dico sul serio... vieni fuori. Oh, possibile che tu l’abbia fatto? Ti prego...”
Afferrò al volo il mantello, appeso a un grosso chiodo che sporgeva dal muro. Cadde su di lei come le nubi dello Jerall, e si precipitò in strada, sbattendo la porta. Una voce maschile canticchiava il motivetto di una vecchia ballata guerresca.
“Zio... Zietto! Non lasciarmi sola. Dove sei?”
“Ah, finalmente sei sveglia. Che succede?”
Sam stava tagliando la legna da ardere. Aveva trascinato un grosso ceppo nell’orto e sistemato i ciocchi già pronti lungo le mura esterne della casa. Non poteva ignorare che si stesse dando da fare.
“Ti... ti stavo cercando.” Biascicò, affannata.
“Sì... hai dormito per tre giorni,” sorrise il bretone, conficcando l’ascia nel terreno incolto, “nel frattempo, ho pensato di renderti il resto più semplice. Be’... di alleggerirti il lavoro”.
Era la seconda volta che parlava di faccende quotidiane in quei termini. Dorisa abbozzò una risata sommessa, ma presto cominciò a tossire.
“Entra in casa.” Commentò l’altro, secco.
“Hai aggiustato la collana e l’hai lasciata sulla cassettiera. Dimmi la verità, hai capito dov’era nascosta la seconda perla perché le circostanze volgevano a tuo favore. È stato un caso... fortuito.”
“Naah. Avevo già intuito quale fosse il posto in cui non mi era concesso mettere le mani. Non offenderti, come Sangue di Drago sei abbastanza prevedibile.”
Incrociò gli occhi castani del mago, leggermente bistrati di giallo attorno alla pupilla. Seguì gli ordini e il padrone di casa davanti al focolare, come un cucciolo desideroso d’attenzioni sottostava ai comandi e gli si accoccolava in seno.
“Mi hai salvato la vita, mi hai guarita,” smozzicò quelle parole mentre affondava il naso tra le pieghe della tunica di Sam, “se non avessi acquisito il tuo reale aspetto, molto probabilmente sarei morta. Avresti potuto avere la mia anima, perché non l’hai fatto?”
“Preferisco possedere anche il tuo corpo.” Sogghignò, stringendola a sé.
“Vuoi farlo... adesso?”
“Non sono uno schiavista, al contrario di una certa dunmer.” Ammiccò, trascinandola a terra con sé, sul tappeto. “Devi rimetterti in sesto, discernere. Meditare se accettare la Rosa, accettare me. Molti principi daedrici ti faranno la corte, sono solo uno fra quelli. Anche se... io intendo farlo letteralmente.”
“Ho capito solo una cosa...” Sussurrò Dorisa, posandogli un dito sulle labbra. “Ti voglio bene, per ciò che sei. Umano, imperfetto, teatrale e fuori luogo. Qualunque sia il progetto, lo porterò avanti. Caro zio Sanguine, io... sono cotta a puntino.”
Erano secoli che non accadeva in quel modo. Secoli, che non si concedeva il lusso di una Sposa.
Secoli, da quando non veniva interrotto sul più bello.
“Dorisa, cara. Ti ho vista in giardino! Ho portato qualcosa per te.”
Il Sanguine canino abbaiava e faceva le feste alla nuova arrivata, mentre percorreva il vialetto del giardino.
“È Hulda, sarà venuta a farmi visita.”
“Vado io.” Proruppe Sam, levandosi nervoso. Quando socchiuse la porta, l’anziana signora si era sciolta in un breve inchino e mille convenevoli.
“Vi porto la crostata di more, e ho provveduto a scaldare un po’ di erbe per una tisana rinvigorente. Sai, è buona anche fredda... quindi, se prima volete consumare il pranzo e poi gustare qualcosa nel pomeriggio, ho già provveduto per voi...”
Sanguine sgranò gli occhi. La vecchina era un tesoro, ora che aveva recuperato i poteri riusciva a comprendere perché si fosse comportata in quel modo con lui, il suo ruolo all’interno della farsa.
“Mi dispiace,” inclinò il capo, implorando perdono, “se non fosse stata Dorisa a chiedermelo, non ti avrei trattato così male. Ho sempre sperato che, prima o poi, trovasse un bravo ragazzo per marito. Le ho insegnato tante cose... le ricette dei piatti tipici di Winterhold, quello che sapevo sulla flora di Skyrim,  l’ho aiutata in alchimia. Prima che mi ritirassi ero una guaritrice, prestavo soccorso ai viandanti stremati dal gelo implacabile di queste terre, ai navigatori. Ricordo il cataclisma che s’è abbattuto sulla città con sgomento, ma... osservare la felicità rinascere a nuova vita in giovani di belle speranze come voi mi dà la forza. Su, torna da lei. E non dimenticarti della vecchia Hulda, semmai avessi bisogno di qualcosa.”
Accettò i doni con gratitudine e si congedò da lei; quella donna era una santa. Da mortale era una vero disastro, incapace di smascherare una recita quando si riteneva il patrono dei baccanali, delle commedie degli equivoci.
Aveva la sua ancella, solo questo contava.
Cominciava ad apprezzare il lato seducente della sua ritrosia, il suono sommesso del suo respiro mentre sognava il bosco fatato.

 

Ufficialmente, la storia finisce qui. Poi, se siete in vena di smancerie, potete anche passare al capitolo extra (sì, c’è un extra... giusto per dare un senso in più al tutto e assolutamente superfluo). Scrivendo, mi sono resa conto che la coppia Dorisa-Sanguine ricalca il mito di Dioniso ed Arianna, per sommi capi. Può un’elfa, una donna mortale, raggiungere l’Oblivion stringendo un patto con uno dei principi dei Daedra? Secondo me sì. Se è possibile in male, perché non in bene (“bene”... diciamo, qualsiasi alternativa che non preveda punizione, dolore e sofferenza eterna alla Mehrunes Dagon e Molag Bal...)?
Non era assolutamente preventivato che Brelyna finisse con un dremora, ma poi mi sono lasciata trasportare. Credo che il servo somigli al padrone, quindi i dremora al cospetto di Sanguine hanno più o meno lo stesso carattere e attitudine. Partendo dal presupposto che amo aggiungere un pizzico di passione umana anche nella creatura più “cattiva”. Non ho messo OOC proprio perché credo di aver rispettato i personaggi aggiungendo qualcosa in più al loro carattere.
A dopo, se scegliete di leggere l’epilogo extra. :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ritual of roses (Extra) ***


S’inginocchiò ai suoi piedi, abbracciando le gambe muscolose, estasiata dal profumo di olio di rose e sambuca.
Sanguine le posò una corona sui capelli sciolti, un delicato intreccio di tralci d’uva e rose screziate. Dorisa, la sua ancella. Il rito d’iniziazione suggeriva una voluttà proibita, al re della dissolutezza. Concessioni sensuali, fantasie stravaganti serbate sotto una campana di vetro. Di rispettabilità, innocenza, ossequio.
“Accetto di servirti, di seguirti nel tuo regno ed essere parte di te. Sempre e per sempre, o mio Principe e Padrone.”
Sanguine si terse le labbra con la lingua, anticipando il piacere che avrebbe tratto dal suo corpo, dalla sua anima. Strinse una ciotola dorata, una processione di uomini e donne ammaliati da una divinità cornuta, e fece ricadere su di lei l’agognata pioggia di rugiada e petali di rose.
“Amore...” Gemé Dorisa, con la mente altrove.
“Pazienta ancora.” Sussurrò l’altro, col volto dipinto e la mano sulla cintura di seta.
Una cascata di stoffe, un allegro gorgoglio d’acque cristalline, una risata gioiosa.
SI muoveva sopra di lei, delicato, sicuro. Un turbine di carezze, di sospiri; Dorisa sollevò le mani e si soffermò ad ammirare le linee nette dei tatuaggi, le labbra sottili, percorse con le dita il declivio della spina dorsale, il petto muscoloso e picchiettato d’olio.
Il dolore, quel dolore. La consolava in un’inefficace distrazione: piccoli morsi sul collo, sulle punte delle orecchie. Unghie lunghe a sfiorarle i seni, quelle dell’altra mano fin dentro le ossa delle gambe, per raggiungere la morbida piega tra le cosce e le natiche.
“Fa... fa male.” I teneri petali, l’arabesco delicato di rose erano sì olio, ma olio ustionante, esigente.
“Pazienta.” Ripeté l’altro, interrompendo una nenia ormai nota.
Per quanto tempo strinse i denti, resistendo all’incanto che le prosciugava le forze? Svanì in un singhiozzo, nel sospiro rinfrancato che le rivelò la vera natura della cerimonia. Nulla era importante, mentre si arrendeva a Sanguine. Nella solenne conquista di corpo, sangue, anima.
Il principe dei Daedra suggeriva un nuovo divertimento, lei ubbidiva.
“Ti seguirò ovunque, mia cara.” Ripeteva, mettendo in atto una delle tante fantasie.
La corona di fiori era un turacciolo senza utilità, giaceva ai piedi dell’altare tutta malandata.
Quando emerse dal bosco fatato non era più la stessa: aveva un nuovo io, un nuovo scopo.
L’intrico di fiori e foglie sulla pelle irretiva e sgomentava. Ogni volta che si slacciava i gambali e la corazza, qualche bambina incuriosita si soffermava ad osservare la bellezza del marchio sulle mani, sugli avambracci, il ricciolo impertinente che le accarezzava le orecchie e culminava in una rosa stilizzata.
Solo i giovinetti avevano il coraggio di avvicinarsi a lei, senza pretendere alcunché e protetti dall’innocenza dell’età. Invece, locandiere e garzoni si mostravano circospetti, nervosi, sebbene non osassero scacciarla via di proposito.
Temevano la forza del dio, non la sua sacerdotessa, che era la benvenuta in ogni dove. Di giorno, la città fingeva di non notarla e perseverava in una forzata coesistenza. Di notte, paesani e viaggiatori le si presentavano innanzi con umiltà, chiedendole di accogliere le sue preghiere.
Vagheggiava la quiete di casa, l’ozio e le strade dimesse di Winterhold; ma il principe l’aveva spinta a partire, a salutare momentaneamente gli amici al Collegio, a compiere la missione per ambire al titolo di Sangue di Drago.
“Signora...” Bisbigliava un nuovo accolito, tra la marmaglia rissosa della locanda. “Ti raccomando i miei sogni, i piccoli crucci, le notti insonni...”
Dorisa lo invitò a sedersi. Era un giovane appena ventenne, figlio di un pezzo grosso di Riften con la fama di speculatore e tagliagole. Si era invaghito di una giovane sacerdotessa in prova al tempio di Mara, e temeva di essere respinto.
“Parla, è qui ad ascoltarti.” Lo rassicurò la dunmer, alzando lo sguardo a lato, verso l’alto.
Sanguine era lì, sempre con lei, ed annuiva compiaciuto. Soppesava le preghiere in silenzio, posandole una mano sulla spalla. Invisibile a chiunque, ma non a lei.
Attendeva che si coricasse su un guanciale di piume, d’erba. E in quei momenti tornava ad amarla, ad abbracciarla.
“Dopo aver fatto erigere il tempio, e sterminato i draghi, ti porterò con me in un posticino speciale... una deliziosa veranda, su uno sconfinato oceano di lava. Che ne pensi?”
Spesso non rispondeva. Era troppo impegnata ad adorarlo, a smarrirsi nei suoi occhi, a giurargli eterna fedeltà. Come la prima volta, perdeva ogni privilegio e si limitava a contemplarlo.
A rivivere l’inizio di un sogno.

 
Finalmente, siete giunti alla fine! Grazie per aver sopportato i miei sproloqui, le mie lungaggini, i parti malati della mia mente. Mi ha ispirato molto leggere i romanzi di Tanith Lee, in questo periodo. E ascoltare la solita musica: Great God Pan di Endura, Fata Morgana, Telepath dei Samael, Bathory, Die Form, Empyrium. Solo per entrare nella storia. :) Senza contare quanta ispirazione mi abbiano dato la quest di Sanguine e la mia autrice preferita di fan art. <3 Ci si accontenta di poco, è proprio vero.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, che leggeranno, che lasceranno un commento. A presto con le altre storie! 


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3042059