L'incubo rosso

di rainicornsan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte uno. ***
Capitolo 2: *** Parte due. ***
Capitolo 3: *** Parte tre. ***



Capitolo 1
*** Parte uno. ***


~l’incubo rosso~

parte uno

 

A nessuno piace morire, sceriffo, ma chi ha paura muore un po’ tante volte, mentre chi non ha paura, muore una volta sola.

 

 

April ormai non correva più.

Si limitava a vagare rassegnata per le stanze, sentendosi comunque diventare sempre più folle per la paura.

I soffitti erano bassi.

Ovunque ristagnava odore di fogna e di chiuso, la sporcizia invadeva gli angoli delle camere.

Quel posto era enorme, non sapeva come ambientarsi e come ci fosse arrivata.

Il senso dell’orientamento lo aveva perso già da un pezzo.

Aveva rinunciato a ricordarsi di quella brandina arrugginita o di quella finestrella che lasciava intravedere il grande disco pallido e inespressivo della luna.

Tutto si replicava.

April iniziò a pensare di essere in un bunker.

Magari della Seconda Guerra Mondiale, sì.

Probabilmente nell’area dell’ospedale.

In alcuni corridoi trovava sui muri ampi schizzi rosati; ormai il sangue dei pazienti operati doveva essere scomparso.

Di tanto in tanto sentiva il lento strascichio del suo corpo, oppure il suo respiro roco dai condotti dell’aria.

April rabbrividiva.

Sentiva tutti i peli presenti sul proprio corpo drizzarsi per la paura.

Correva, correva.

A volte inciampava.

Si rialzava, e continuava a correre, senza fiato.

April non sapeva da quanto era lì.

Erano giorni, ore o minuti che era lì?

Pazza, pazza, pazza!
April ridacchiò internamente, sentendo i propri nervi collassare.

Era troppo.

Sapeva che la seguiva, l’aveva sempre saputo.

La luna si rifletteva sull’acqua che sgocciolava con piccoli pigri ticchettii sul pavimento di cemento,

e lui continuava ad aspettare April negli angoli, sorridendo nella sua camicia di forza.

Erano giorni, ore o minuti che era lì?

April non sentiva più il tempo scorrere né prendeva come riferimento la luna, che non si era mai spostata.

Sentiva solo lui che la chiamava: “Igrushka...

Igrushka…

Igrushka…”.

Centinaia e centinaia di volte.

April non capiva come mai non la chiamasse con il suo nome.

Ma ormai, non le importava più di niente.

Si sentiva rassegnata, rassegnata nella sua pazzia.

A volte le veniva voglia di correre.

E, per Dio, April correva.

Ma, di tanto in tanto, inciampava.

Rimaneva lì, stesa a terra, per un bel po’ di tempo, avvertendo una mano muschiata accarezzarle la caviglia scoperta.

E, quando si rialzava, continuava a camminare.

La sua gola era così arida…

April provò a cercare un lavandino che funzionasse, ma l’acqua che ne usciva era talmente ferrosa da essere rossa.

“Igrushka…”.

Lui era lì, rannicchiato sotto al lavandino, che le mostrava i denti piccoli e grigi, brillanti come scarafaggi.

April provò a cercare un tubo che perdesse.

Ne aveva visti tanti, ma adesso non li trovava più.

Lui la guardava, dondolando i piedi seduto sui bordi stretti delle grate.

Canticchiava qualcosa, ma April sentiva solo ‘Igrushka’.

 

 

Dopo forse due giorni, April si sentiva delirare.

Lo stomaco le si era gonfiato.

La sua mente era diventata come una pagina bianca.

Tutta da riscrivere.

E la sua gola… Faceva così male.

 

 

April si avvicinò ad un muro.

Lo sfiorò con il palmo della mano, sorridendo piano.

Era così ruvido.

Appoggiò tutte le dita.

E iniziò a grattare.

Le unghie si consumavano piano.

April grattò.

Le unghie si spezzavano.

Ormai non ne rimanevano.

Lui era lì.

Lo sentiva, accucciato ai suoi piedi.

April ignorò la sensazione nera e turbinosa che la faceva prendere dal panico.

Grattò, grattò e grattò.

La prima pelle veniva via.

Un lieve pizzicore iniziò a prenderle la prima pelle.

April grattò.

Sentiva che lui approvava.

Si appoggiava al muro, sotto alle sue mani in movimento, e rideva sbavando, contento.
April piangeva.

La pelle stava venendo via.

Quel muro era come una grattugia.

Una grattugia, sì.

Una grattugia per April!

April rise, divertita.

Rise tanto che si dovette fermare.

Infine guardò il muro.

Il sangue sgocciolava, le sue dita erano a pezzi.

Finalmente, avrebbe avuto qualcosa da bere.

Con un lieve singhiozzo, accostò la bocca alla parete, e

 

 

 

April si svegliò con un grido.

Si sentiva fredda, freddissima.

E ricoperta di sudore. Ansimò per alcuni minuti, cercando di calmarsi.

“Santo cielo, santo cielo!”.

Cercò, con colpi secchi e febbrili delle mani, l’interruttore.

La luce si accese.

April guardò il soffitto, respirando più piano.

Fantastica, normalissima luce neon.

Non c’era il riverbero della luna ovunque.

Non c’erano macchie d’ombra nella sua stanza.

Aprì la finestra, quasi dimenticandosi del sogno.

Il sole illuminava tutto.

Le strade, la sua stanza.

Tutto era luminosissimo.

Sospirò contenta, girandosi per prendere il suo telefono.

Lo trovò sul comodino, e sbloccò lo schermo.

Cancellò le notifiche di Twitter e di Facebook (sul serio, ma tutta quella gente non faceva altro che scrivere status e tweet per tutto il giorno?), ma una parola le venne in mente.

I... Igrushka?
Poteva darsi. Cos’era?

Un brivido freddo le attraversò la schiena come se fosse stata una scarica di corrente.

Tutto l’incubo le tornò alla mente.

Non sentiva più tanto la voglia di cercare cosa fosse ‘igrushka’, ma lo cercò su Google lo stesso.

Mentre lo scriveva, iniziarono ad apparire dei risultati: ‘igrushka film’, ‘igrushka pierre richard’.

Dubitava che quella cosa l’avesse ossessionata solo con il nome di un film.

Quando vide comparire ‘igrushka significato’, cliccò.

Dal russo, ‘giocattolo’, ‘giocattolino’.

April spalancò la bocca.

Accidenti, era davvero inquietante.

Grazie a Dio, era solo un incubo.

 

 

 

 

 

 

 

 

L’angelo dell’autrice

Oh, la la.

Salve!

Inizio con il dire che è la prima storia che scrivo nella sezione ‘horror’, quindi abbiate pietà, ma se c’è qualcosa che non va, ditelo pure.

Ho messo la storia nelle arancioni, ma se c’è qualcuno che pensa che il fatto delle mani e del sangue sia troppo cruento, me lo dica pure.

Beh, io non so che dire oltre a ‘spero che vi piaccia’.

Well, me ne vado.

Un saluto <3

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Capitolo 2
*** Parte due. ***


~l’incubo rosso~

parte due

La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso.

 

April chiuse gli occhi, rannicchiandosi di più nel letto, contenta del calore.

Quando li riaprì, convinta di osservare la propria camera, si ritrovò in un immenso spazio bianco.

Tutto era bianco.

Non c’era niente a parte lei.

Guardò il pavimento, e vide che non indossava più i suoi calzini pelosi da letto, ma delle scarpe consumate.

Erano anfibi, ora che guardava meglio.

Si accorse di non essere in più in pigiama, ma di avere un paio di pantaloni larghi, a stampe militari, rovinati.

Sopra, una maglietta d’un verdastro sbiadito macchiata di sangue e di terra, e un camice sporco, color panna, adorno di qualche baffo di sangue in qua e in là.

Come un medico militare.

Si sentì tremare istintivamente: era esattamente il modo in cui era vestita la notte prima, solo che se n’era accorta solo in quel momento.

Le mani bruciavano, adesso.

April le guardò, e quasi non si stupì di trovarle incrostate di sangue, maciullate sulle punte delle dita.

In quel momento, avvertì un rumore fastidioso.

Un sibilo acuto.

L’universo che la conteneva si illuminò intensamente di un colore violaceo.

Solo un istante, e poi tornò normale.

Ma il suo mostro era lì.

Tremò piano.

Era lì, a circa un metro da lei, rannicchiato a terra nei suoi stracci sudici, che la guardava con quella faccia piccola e scarna e gli occhi grandi e bianchi.

“Igrushka…”.

April si trattenne dallo sbuffare; se non fosse stata terrorizzata, avrebbe trovato quella parola senza senso divertente.

Si ricordò improvvisamente del suo significato.

In quell’istante, lo vide in una maniera strana.

Come se, fra di loro, ci fosse stato lo schermo di una vecchia televisione in bianco e nero.

Le interferenze duravano anche qualche secondo, ma quando riusciva a vedere nitidamente la sua faccia, stava ancora sorridendo.

Lo vide ridacchiare, mentre tutto diventava di nuovo di quello strano color prugna. Un po’ di interferenze.

Bianco, grigio, viola. Veloce.

Bianco (veloce), grigio (fulmineo), viola.

Grigio-viola, grigio-viola.

Viola.

Tante stelle esplosero in cielo.

April le vedeva muoversi, percepiva i loro moti.

Poteva pensare alle incandescenti linee circolari intorno a loro.

Le disegnava nella sua mente.

E lui rideva ancora.

Interferenza.

In piedi, sulle sue gambe sottili, sporche e glabre.

Interferenza.

Davanti a lei, un braccio proteso verso il suo bacino.

April provò un moto di panico, ma in quel momento tutto mutò.

Era stesa su un letto.

Morbido, ma freddo e con le coperte consumate.

Con gli occhi aperti, vide il soffitto a meno di mezzo metro sopra la sua testa.

Era di un bianco sporco, lo stesso colore che continuava ad essere scendendo con lo sguardo.

Doveva essere sulla cima di un letto a castello.

E infine, qualcosa fra le sue braccia.

Un bambino. Un piccolo, morbido e sbavante neonato.

April era in vestaglia e il ventre le faceva male.

Non aveva più le dita sanguinanti.

Sentiva, muovendo la testa sul cuscino, una cascata di capelli profumati.

Sguardo con la coda dell’occhio: castani.

Un castano dolce.

Un bel colore.

Sentiva il corpo pulito e caldo, arrendevole.

Una sensazione di pizzicore le attraversò la schiena.

Notò solo in quel momento un altro letto a castello, alla sua sinistra.

Non c’era nessuno al suo fianco.

Si divincolò un po’, alzandosi sugli avambracci.

Nel letto di sotto, a sinistra, una donna la fissava.

Era magra, dalla pelle sporca e con i capelli grigi, arruffati e lunghissimi.

Gli occhi erano spalancati su di lei.

Erano enormi e chiarissimi, come quelli di…
Di chi? Non ricordava.

Il sorriso era sdentato.

Era una vecchia pazza, e quello era un manicomio.

Ma perché lei era lì, allora?

Lei non era pazza, né suo figlio.

All’improvviso, la vecchia calciò via le coperte.

Era nuda.

Alzò la gamba destra di scatto.

Più veloce di un fulmine e più lunga di un chilometro.

Il bambino svanì, esplodendo in uno spruzzo di sangue.

La riga rossa finì, liquida e scura, sulla sua vestaglia, su alcune ciocche di capelli, sul muro.

Una linea dritta, scarlatta, calda.

April gridò.

La vecchia la guardava.

Il letto scomparve, ed April cadde sulle sue ginocchia.

Per poco non se le spaccò.

Il pavimento era fatto da pietroni di almeno un metro quadrato.

Le orecchie le fischiarono quando alzò gli occhi, e si accorse di essere sulla cima di un castello.

Le mura medievali circondavano un passaggio esterno.

Tutta roccia.

Si affacciò, ma non vide altro che il cielo viola.

Non c’era la base del castello.
Solo l’universo viola, e le sue stelle.

Giravano, giravano, giravano.

Una piccola cascatella di suoni armoniosi, e sul pavimento era comparso qualcosa.

Un piatto.

Tondo e bianco.

In mezzo c’era un sasso striato, rosso.

Rosso esattamente come il sangue di suo figlio.

C’era pure un coltello.

April si avvicinò, gattonando, e lo prese.

Lo accostò al sasso, sicura che non tagliasse.

Spinse verso il basso, e il sasso si aprì in due, perfetto come un panetto di burro.

April sussultò.

Si sentiva girare la testa.

Un impulso feroce le riempì le membra.

Tagliare, tagliare, tagliare.

April tagliò, tagliò, tagliò.

I suoi movimenti erano convulsi, adesso.

Stava accoltellando il piatto.

Il sasso spruzzava goccioline rosse.

Sangue.

April si allontanò, sentendo la vertigine che le aveva invaso la testa andarsene.

Era cosparsa dal sangue, immersa.

Qualcosa le toccò la caviglia.

Lanciò un grido.

Basta, basta, basta.

Ma era solo il suo mostro.

Le si accoccolò sul piede, abbracciandole la caviglia.

Sorrise, e del sangue filtrò dai suoi denti, colandogli sul mento raggrinzito.

Suo figlio.

April gridò, gridò mille volte.

Spinse con un gesto secco il mostro a terra, lontano da lei.

Indietreggiò contro le mura.

Si stava avvicinando di nuovo.

“Igrushka!” sembrava un richiamo disperato, un guaito.

Adesso era completamente coperto di sangue.

Presa dalla paura, salì sulle mura.

Non bastò.

Lui era lì di fianco.

April guardò di sotto.

Solo l’universo.

Viola. Stelle.

Vuoto.

Aprì le braccia, e si lasciò cadere.

Interferenza.

Mentre volava, il cielo si tinse di rosso.

 

Suo figlio...

 

 

 

 

 

 

L’angelo dell’autrice

Ladies and gentlemen, ci tengo a precisare che questo capitolo non potrebbe avere la mia firma sopra più di nient’altro al mondo, poiché buona parte di ciò che ho scritto in questo capitolo viene da un mio incubo.

Ci tengo anche a precisare che non sono April.

Benché faccia sempre sogni strani, ho fatto solo un incubo molto inquietante (per l’appunto, questo da cui ho tratto ispirazione) e mi chiamo Michela. ((Piacere, comunque.)).

 

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Capitolo 3
*** Parte tre. ***


~l’incubo rosso~

parte tre

La paura è sempre inclinata a veder le cose più brutte di quel che sono.

 

 

April aveva sempre avuto paura del buio.

Adesso, da una settimana a quella parte, aveva anche paura di rimanere da sola in casa e di addormentarsi.

Un giorno aveva provato a non dormire, ma era crollata, intorno alle tre di notte, ripiombando nei suoi inusuali incubi.

La mattina camminava come immersa in uno stato onirico, sentendosi addosso uno sguardo persistente. Passava la giornata nel panico, sentendosi lo sguardo del suo mostro addosso, ovunque.

A scuola, a casa, per strada.

Anche quel venerdì sera, April pensò di non dormire, di chiedere aiuto, di gettarsi dalla finestra. Qualunque cosa che facesse smettere quella cosa di invadere i suoi sogni.

Dopo un’ora di riflessione seduta sul letto, pensò che era ridicolo e che doveva dormire.

Facendosi forza, spense la luce e si infilò sotto le coperte.

Ascoltò il proprio respiro, cercando di rilassarsi e rendendolo più regolare possibile.

Respira, respira.

Non aveva  bevuto del the o del caffè (sostanze eccitanti!) e aveva fatto un lungo bagno profumato (rilassante).

Aveva letto su Internet che aiutava, perciò era piuttosto sicura che non sarebbe successo niente.

Respira, respira.

Respira, respira.

Respira.

April cominciò a vedere delle forme e delle scie di colore indistinte sotto alle palpebre chiuse.

Aveva letto che era normale che succedesse, nella fase REM del sonno.

Se era nella fase REM, allora si stava addormentando!
Pensò che fosse strano che avesse ancora pensieri così razionali, ma era contenta.

Di solito, quando aveva degli incubi, piombava nel sonno come se ce l’avessero…

Spinta dentro.

April sentì un peso sul proprio stomaco.

Si alzò, confusa.

Cosa poteva essere?
Accese, a tantoni, la luce del comodino.

Una piccola creatura rattrappita e raccapricciante la guardava, seduta sulla sua pancia.

Era davvero piccola, quasi pelata e con grandi occhi pallidi che sbucavano fuori dalle orbite, lattiginosi e nebulosi.

“Igrushka.”.

Sorrise, e facendolo si portò un dito alla bocca.

April lo osservò, paralizzata dal terrore, mentre stringeva il pollice fra i denti.

Erano piccoli e grigi, brillanti come dei chicchi di melagrana.

Ne mancava solo uno, sulla gengiva inferiore.

April non l’aveva mai avuto così vicino, e aveva paura.

“Oh, cielo.”.

La voce uscì dalla sua gola come se tante unghie gliela avessero raschiata facendolo.

“April, April, April.”.

Non era stato lui, il tono della voce che l’aveva chiamata assomigliava ad un nitrito.

E difatti, un cavallo entrò nella sua stanza.

Quando aveva lasciato la porta aperta? April non se lo ricordava.

L’animale era nero.

La sua criniera era legata in decine di piccole treccine, che scendevano sul lungo collo scompostamente.

Aveva una sella.

Rossa, rossa in una maniera che le faceva drizzare i peli sulle braccia.

Dove l’aveva visto, quel colore?

April voltò con lentezza il capo verso il mostro, che si tolse il dito dalla bocca.

Ancora rosso.

La mano indicò il cavallo. Più precisamente, la sua sella.

Respira.

Respira.

Respira.

In quel momento, April si svegliò.

Il peso sullo stomaco era ancora lì, il cavallo pure.

Il mostro stava ancora indicando la sella, ma la sua espressione adesso era più aggressiva.

I denti erano scoperti, macchiati del sangue del dito.

Un basso ringhio usciva dalla sua bocca.

April si alzò di scatto, gridando.

Il mostro cadde a terra, ai suoi piedi.

Quando le toccò una caviglia, in qualche modo April non riuscì più ad urlare.

Le sue labbra non si separavano, non importava quanto provasse.

La mano stretta intorno alla sua caviglia la tirò verso il cavallo.

April voleva urlare ‘Basta, basta!’, ma l’unico modo che trovò per esprimersi fu aggrapparsi saldamente alla base del suo letto.

Una forza sovrannaturale la tirava, tradendo quella mano raggrinzita e sporca.

Alla fine non riuscì più a reggersi al mobile.

Quella cosa, in qualche modo, la stava sollevando verso la schiena del cavallo.

April si ritrovò seduta sulla sella.

Panico. Panico. Panico.

Respira, respira.

‘E’ sicuramente una visione. Sto solo delirando.’ pensò April.

Sentiva i peli del cavallo pungerle le gambe e vedeva davanti a sé, dalla finestra spalancata  di fronte all’animale, la luna che illuminava la città, ma doveva essere solo una sua allucinazione.

Doveva, non c’era altra spiegazione.

Se era un sogno, si doveva svegliare.

April si divincolò dalla stretta delle braccia di quella cosa intorno ai suoi polsi.

Il cavallo si voltò verso di lei, soffiando aria dalla bocca e dalle enormi narici lucide.

Non riusciva ad urlare, ma un suono rumorosissimo si alzò dalla sua gola quando vide il cavallo avvicinarsi alla finestra.

Delle lacrime rigavano il suo volto.

Continuò a dondolarsi.

Il cavallo mise il muso fuori, inspirando litri e litri di frizzante aria notturna.

Quando saltò fuori, April riuscì a cadere a terra.

Sbatté la testa per terra, e tutto divenne nero.

 

 

 

*

 

 

April corse in cucina.

“Mamma!”.

La figura di sua madre era girata verso i fornelli.

“Buongiorno, amorino. Cosa c’è?”.

“Mi devi aiutare.”.

“Dimmi.”.

“E’ da una settimana che faccio questo incubo.

Cioè, non sempre lo stesso, ma c’è sempre questa cosa, tipo un bambino rachitico e inquietante, che mi accompagna in giro per dei posti che fanno paura… Mi chiama ‘giocattolo’ in russo. Ho paura, davvero tanta.”.

“Davvero?”.

“Mamma, sono seria!”.

April aprì il frigo, scocciata per il tono divertito della madre.

Un verso rauco risuonò in tutta la cucina:

Igr.”.

 

April finì di bere il succo di frutta.
Staccò la bocca dalla bottiglia, se pulì le labbra con il dorso di una mano e la rimise, chiusa, nel frigo.

“Eh?”.

“Cosa ‘eh?’?”.

April fece spallucce:

“Non lo so, hai fatto un rumore strano.
E comunque, oggi, quando vai dallo psicologo, chiedigli qualcosa su come far smettere i miei incubi. Davvero, ho provato, ma… Non ci riesco. E sono terrorizzata, davvero.

Vado, che sono in ritardo.”.

 

Shk.”.

 

April stava per uscire dalla cucina, ma si bloccò sulla porta.

“Stai bene?”.

 

Grshk.”.

 

Qualcosa le diceva di correre a scuola.

Un campanellino d’allarme suonò in un angolo del suo cervello, ma April non lo ascoltava mai.

Sua madre si voltò nello stesso momento in cui lo faceva.

La sua faccia era snaturata.

Gli occhi, una volta di un bel verde prato, sottili e luminosi, erano lattei, sporgenti, vacui.

La bocca sorrideva, ma i denti erano più piccoli ed il rossetto molto più rosso del solito. I capelli erano decisamente sfoltiti.

Grshk-a. Igrushk-a. Igrushka. Igrushka.

Igrushka igrushkaigrushka.”.

Del sangue le colò sul mento, mentre April urlava, urlava e urlava, appiattendosi contro la parete e scivolando in basso, nell’abisso della sua mente.

 

 

Respira.

Respira.

Svegliati, dannazione!

 

 

 

 

 

 

 

L’angelo dell’autrice:

Ciao a tutti!
Prima di tutto, specifico che ho messo una cavalla.

La cavalla è il simbolo per eccellenza, per chi non lo sa, dell’incubo.

Questo capitolo è uscito un po’ strano, come volevo.

Spero solo che sia uno strano-piacevole!

Secondo, scusate per il ritardo di due giorni.

Pardon, ma sto avendo un mese un po’ disgraziato.

Questo era, però, l’ultimo aggiornamento, which means che questa storia (molto corta) è finita.

In ogni caso, vorrei ringraziare chi l’ha seguita (PianoDreamer), chi l’ha preferita (Fallen_Angel24), chi l’ha recensita (A r c t i c a  e  a_little_crazy_panda) e anche chi l’ha letta silenziosamente <3

Un saluto, donzelle e donzelli!

 

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