~l’incubo
rosso~
parte
due
La
mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte
migliore di me stesso.
April
chiuse gli occhi, rannicchiandosi di più nel
letto, contenta del calore.
Quando
li riaprì, convinta di osservare la propria
camera, si ritrovò in un immenso
spazio
bianco.
Tutto
era bianco.
Non
c’era niente a parte lei.
Guardò
il pavimento, e vide che non indossava più i suoi calzini
pelosi da letto, ma
delle scarpe consumate.
Erano
anfibi, ora che guardava meglio.
Si
accorse di non essere in più in pigiama, ma di avere un paio
di pantaloni
larghi, a stampe militari, rovinati.
Sopra,
una maglietta d’un verdastro sbiadito macchiata di sangue e
di terra, e un camice
sporco, color panna, adorno di qualche baffo di sangue in qua e in
là.
Come
un medico militare.
Si
sentì tremare istintivamente: era esattamente il modo in cui
era vestita la
notte prima, solo che se n’era accorta solo in quel momento.
Le
mani bruciavano, adesso.
April
le guardò, e quasi non si stupì di trovarle
incrostate di sangue, maciullate
sulle punte delle dita.
In
quel momento, avvertì un rumore fastidioso.
Un
sibilo acuto.
L’universo
che la conteneva si illuminò intensamente di un colore
violaceo.
Solo
un istante, e poi tornò normale.
Ma
il suo mostro era lì.
Tremò
piano.
Era
lì, a circa un metro da lei, rannicchiato a terra nei suoi
stracci sudici, che
la guardava con quella faccia piccola e scarna e gli occhi grandi e
bianchi.
“Igrushka…”.
April
si trattenne dallo sbuffare; se non fosse stata terrorizzata, avrebbe
trovato
quella parola senza senso divertente.
Si
ricordò improvvisamente del suo significato.
In
quell’istante, lo vide in una maniera strana.
Come
se, fra di loro, ci fosse stato lo schermo di una vecchia televisione
in bianco
e nero.
Le
interferenze duravano anche qualche secondo, ma quando riusciva a
vedere
nitidamente la sua faccia, stava ancora sorridendo.
Lo
vide ridacchiare, mentre tutto diventava di nuovo di quello strano
color
prugna. Un po’ di interferenze.
Bianco,
grigio, viola. Veloce.
Bianco
(veloce), grigio (fulmineo), viola.
Grigio-viola,
grigio-viola.
Viola.
Tante
stelle esplosero in cielo.
April
le vedeva muoversi, percepiva i loro moti.
Poteva
pensare alle incandescenti linee
circolari intorno a loro.
Le
disegnava nella sua mente.
E
lui rideva ancora.
Interferenza.
In
piedi, sulle sue gambe sottili, sporche e glabre.
Interferenza.
Davanti
a lei, un braccio proteso verso il suo bacino.
April
provò un moto di panico, ma in quel momento tutto
mutò.
Era
stesa su un letto.
Morbido,
ma freddo e con le coperte consumate.
Con
gli occhi aperti, vide il soffitto a meno di mezzo metro sopra la sua
testa.
Era
di un bianco sporco, lo stesso colore che continuava ad essere
scendendo con lo
sguardo.
Doveva
essere sulla cima di un letto a castello.
E
infine, qualcosa fra le sue braccia.
Un
bambino. Un piccolo, morbido e sbavante neonato.
April
era in vestaglia e il ventre le faceva male.
Non
aveva più le dita sanguinanti.
Sentiva,
muovendo la testa sul cuscino, una cascata di capelli profumati.
Sguardo
con la coda dell’occhio: castani.
Un
castano dolce.
Un
bel colore.
Sentiva
il corpo pulito e caldo, arrendevole.
Una
sensazione di pizzicore le attraversò la schiena.
Notò
solo in quel momento un altro letto a castello, alla sua sinistra.
Non
c’era nessuno al suo fianco.
Si
divincolò un po’, alzandosi sugli avambracci.
Nel
letto di sotto, a sinistra, una donna la fissava.
Era
magra, dalla pelle sporca e con i capelli grigi, arruffati e
lunghissimi.
Gli
occhi erano spalancati su di lei.
Erano
enormi e chiarissimi, come quelli di…
Di chi? Non ricordava.
Il
sorriso era sdentato.
Era
una vecchia pazza, e quello era un manicomio.
Ma
perché lei era lì, allora?
Lei
non era pazza, né suo figlio.
All’improvviso,
la vecchia calciò via le coperte.
Era
nuda.
Alzò
la gamba destra di scatto.
Più
veloce di un fulmine e più lunga di un chilometro.
Il
bambino svanì, esplodendo in uno spruzzo di sangue.
La
riga rossa finì, liquida e scura, sulla sua vestaglia, su
alcune ciocche di
capelli, sul muro.
Una
linea dritta, scarlatta, calda.
April
gridò.
La
vecchia la guardava.
Il
letto scomparve, ed April cadde sulle sue ginocchia.
Per
poco non se le spaccò.
Il
pavimento era fatto da pietroni di almeno un metro quadrato.
Le
orecchie le fischiarono quando alzò gli occhi, e si accorse
di essere sulla
cima di un castello.
Le
mura medievali circondavano un passaggio esterno.
Tutta
roccia.
Si
affacciò, ma non vide altro che il cielo viola.
Non
c’era la base del castello.
Solo l’universo viola, e le sue stelle.
Giravano,
giravano, giravano.
Una
piccola cascatella di suoni armoniosi, e sul pavimento era comparso
qualcosa.
Un
piatto.
Tondo
e bianco.
In
mezzo c’era un sasso striato, rosso.
Rosso
esattamente come il sangue di suo figlio.
C’era
pure un coltello.
April
si avvicinò, gattonando, e lo prese.
Lo
accostò al sasso, sicura che non tagliasse.
Spinse
verso il basso, e il sasso si aprì in due, perfetto come un
panetto di burro.
April
sussultò.
Si
sentiva girare la testa.
Un
impulso feroce le riempì le membra.
Tagliare,
tagliare, tagliare.
April
tagliò, tagliò, tagliò.
I
suoi movimenti erano convulsi, adesso.
Stava
accoltellando il piatto.
Il
sasso spruzzava goccioline rosse.
Sangue.
April
si allontanò, sentendo la vertigine che le aveva invaso la
testa andarsene.
Era
cosparsa dal sangue, immersa.
Qualcosa
le toccò la caviglia.
Lanciò
un grido.
Basta,
basta, basta.
Ma
era solo il suo mostro.
Le
si accoccolò sul piede, abbracciandole la caviglia.
Sorrise,
e del sangue filtrò dai suoi denti, colandogli sul mento
raggrinzito.
Suo
figlio.
April
gridò, gridò mille volte.
Spinse
con un gesto secco il mostro a terra, lontano da lei.
Indietreggiò
contro le mura.
Si
stava avvicinando di nuovo.
“Igrushka!”
sembrava un richiamo disperato, un guaito.
Adesso
era completamente coperto di sangue.
Presa
dalla paura, salì sulle mura.
Non
bastò.
Lui
era lì di fianco.
April
guardò di sotto.
Solo
l’universo.
Viola.
Stelle.
Vuoto.
Aprì
le braccia, e si lasciò cadere.
Interferenza.
Mentre
volava, il cielo si tinse di rosso.
Suo
figlio...
L’angelo
dell’autrice
Ladies
and gentlemen, ci tengo a precisare che
questo capitolo non potrebbe avere la mia firma sopra più di
nient’altro al
mondo, poiché buona parte di ciò che ho scritto
in questo capitolo viene da un
mio incubo.
Ci
tengo anche a precisare che non sono April.
Benché
faccia sempre sogni strani, ho fatto solo un incubo
molto inquietante (per
l’appunto, questo da cui ho tratto ispirazione) e mi chiamo
Michela. ((Piacere,
comunque.)).
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