How To Connect With Anyone

di polutropaul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


NoteLunghissime: Ehilà! Mi ripresento dopo anni (Seriamente, non pubblico più niente da due anni? Ho una fanfiction in sospeso… Aiuto!!) con una fanfiction che è più che altro un esperimento. Ebbene, settimana scorsa mi sono imbattuta in questo video di SoulPancake che, uhm, penso faccia più che altro esperimenti sociali e balle varie. Forse sto abusando del termine “esperimenti sociali” ma se conoscete un termine migliore cambierò subito, giuro xD In ogni caso, c’erano questi sconosciuti – e non – che si fissavano per quattro minuti senza distogliere per un secondo gli occhi (dovevano guardarsi anche con esplosioni nucleari o mammut ballanti alle spalle, per dire) e alla fine dicevano cose estremamente cicci e carine e coccolose e penso di essere morta di diabete e non so per quale arcano motivo mi siano venuti in mente John e Sherlock, giuro… ma eccoci qua. Non vi tedio oltre. Questo è il prologo: non ho la minima idea di quanto durerà questa long – la mia prima seria long! – e se la continuerò per sempre o la abbandonerò come tutti i miei precedenti lavori. Dipende dai miei risultati con l’aoristo greco (Ah! L’aoristo…) e varie altre cose come ispirazione, amici, vita privata, pubblica, sociale. Non ci crede nessuno, d’accordo. Ci ho provato. Buona lettura! Recensite, fatemi notare tutti, tutti, tutti gli errori e se avete consigli ovviamente li accetterò. Good night, babies!
Disclaimer: Ovviamente nessuno di loro mi appartiene. Sherlock e amicccci sono stati creati da Arthur Conan Doyle, Steven Moffat e Mark Gatiss. Io punto solo a rendere tutto un po’ più fluff e un po’ più gay. 
 

How To Connect With Anyone


 
John Watson è un fotoreporter-di-guerra-ora-non-più-in-guerra a causa di una grave ferita alla spalla, affetto da sindrome post-traumatica e da una zoppia – psicosomatica, stando agli appunti di Elsa – alla gamba sinistra che non gli permette di fare praticamente nulla. Ha un lavoro part time in un negozio di macchine fotografiche, una relazione poco seria con il suo capo e, il resto del tempo, un posto da cameraman in una rivista privata: esperimenti sociali su youtube, reportage sulla migrazione degli gnu, ricette di cucina e sporadici articoli di attualità dai quali ovviamente viene tenuto lontano. Vive in uno squallidissimo appartamentino in un altrettanto squallido vicolo di Londra e quando non è al lavoro passa ore intere seduto sulla sua scrivania a tentare di scrivere qualcosa di decente sul suo blog; “Parlare di ciò che ti è accaduto e che ti accade” gli ripete come un mantra la sua psicanalista “Potrebbe seriamente aiutarti, John”. “Non mi succede nulla” è la risposta di rito. D’altro canto, senza considerare Sarah, la sua ragazza – o quasi –, non ha nessuno. Sua sorella Harry è dall’altra parte dell’Inghilterra in riabilitazione per il suo alcoolismo – come se lei, proprio lei, avesse un qualsiasi buon motivo per esserlo – con la sua ex moglie Clara, nonché infermiera del centro in cui alloggia. Non ha sue notizie da prima del congedo; l’unico suo ricordo è uno smartphone riciclato e scheggiato in più punti. I suoi amici sono rimasti tutti in Afghanistan - chi è sopravvissuto, si intende; il camion su cui stava scrivendo un articolo sulla condizione disumana dei bambini afghani era stato preda di un imboscata ed era saltato in aria; chi era riuscito a scappare, come lui, era stato inseguito da una raffica di pallottole. I sopravvissuti si potevano contare sulle dita di una mano. Forse.
 
John lancia di malavoglia il giornale sul divano e accende la televisione. Danno un assurdo programma su vampiri teenagers – di nuovo – e qualche poliziesco: la squadra risolve il crimine in dieci minuti ma c’è una sparatoria con conseguente interrogatorio che li costringe a correre per acciuffare il cattivone di turno; il restante, interminabile episodio si basa sui litigi di due membri, amore platonico da otto stagioni e qualche sporadico bacio per allentare la tensione. Lei se ne andrà dal gruppo sussurrandogli un “ti amo”, facendo tirare il tanto atteso respiro di sollievo alle casalinghe che si saranno stufate di guardare una qualsiasi telenovela. Le scazzottate del bar sotto casa sono sempre più appassionanti. Di sicuro meno scontate.
Il cellulare squilla che lui sta ancora finendo il suo tè. Odia la gente che gli scrive messaggi di mattina.
Odia la gente che gli scrive, in generale e, forse, odia semplicemente la gente; forse, non l’ha ancora deciso. Sbuffa e accende il display.
John, ti dispiacerebbe arrivare un po’ prima?
Abbiamo un problema con il servizio. Mike
Mike Stanford, suo amico dai tempi delle scampagnate in campagna con le prime macchine fotografiche semiprofessionali ed ora redattore della rivista in cui lavora, è stata la prima persona che John ha visto dopo la guerra. Non sa se sia più la pena che prova lui verso Mike, per la sua mediocrità e mancanza di ambizioni – non che lui ne abbia, per l’amor di dio, ha visto fin troppo per poter solo pensare di desiderare ancora qualcosa – o quella che Mike prova per lui. Forse è per questo che l’ha assunto. In fondo, è un buon amico.
Il cielo terso minaccia pioggia, come al solito, e l’unica cosa a cui John riesce a pensare è che la metropolitana sarà uno stagno e che irrimediabilmente la sua gamba finirà per risentirne. In più, odia quel genere di servizi. “Esperimenti sociali”, ovvero “vediamo quanta gente stupida guarderà questo video commuovendosi e pensando che se comprerà una copia della nostra rivista o quel vestito che stiamo sponsorizzando sarà felice come gli attori – attori, non sconosciuti come vogliono far credere – presenti”. Cosa ci trovi poi la gente nel rendersi ridicola davanti ad un green screen giusto per avere un minimo di visibilità in più, quello proprio non riesce a capirlo. Comunque, anche se l’idea di ributtarsi a letto e crearsi un bozzolo di coperte fino alla fine dei suoi giorni non sembri così malaccio, John non ha assolutamente voglia – e neanche la possibilità, a dire il vero – di perdere l’unico lavoro che gli frutti davvero qualcosa; quindi indossa i primi pantaloni vagamente accettabili buttati alla rinfusa sul divano, un maglione sformato natalizio ed esce di casa, pronto ad affrontare il problema di Mike che, giusto per rovinargli un po’ la giornata, comprenderà orsi polari, zombie e, se sarà fortunato, magari anche un’invasione aliena.
“Come sarebbe a dire che manca un modello?” Sbraita John. Sì, decisamente peggio dell’invasione aliena. “Non puoi sostituirlo tu? O Mary, o Rachel, o chiunque altro! Diamine, non mi sembra di essere l’unico in questo fottuto posto!”
“John, ascolta. Non dovrai fare altro che fissare un uomo per quattro minuti. Fissarlo, ok? Senza distogliere lo sguardo, senza muoverti, senza aprire bocca. Non ti sto chiedendo di posare nudo per una rivista porno, chiaro?” John sembra preferire quell’opzione e Mike invece, Mike sembra davvero disperato. “Non possiamo rimandare. I modelli sono pagati. Steven è malato e abbiamo delle categorie e ti prego, sai che avrei cercato qualcun altro se ne avessi avuto modo…”
“Spero almeno sia figa, la modella” La risata di John si spegne improvvisamente, mentre la faccia di Mike e di chiunque altro li stia ascoltando diventa più rossa. Si sente qualche colpo di tosse. “John, non sarà una ragazza.”
Fantastico. La giornata si prospetta sempre più interessante. E dovrà seriamente parlarne con Mike, perché questa storia della sua apparente omosessualità gli sta sfuggendo di mano: andiamo, fa abbondante sesso con Sarah, che a quanto si ricorda è una ragazza – ne è certo, davvero – quindi cos’altro potrebbe ancora fare per convincere i colleghi e gli amici? Recitare la parte del ragazzino alle prese con la prima cotta per il compagno di banco non è contemplato nella sua lista, per quanto ne sa.
“Non sono gay” Dove sono finiti gli orsi polari e gli zombie?
“No John” Si sente qualche risatina tra gli ascoltatori – avvoltoi, quelli sono avvoltoi – “Ovviamente no, ma sono solo quattro minuti…”
John grugnisce in risposta e si allontana, pensando di affogare i suoi dispiaceri in una seduta di trucco e parrucco su quella poltrona che, fino al giorno prima, ha guardato con malcelato disprezzo; i soggetti che ha ripreso lui fino a poco prima non potevano neanche permettersi della terra da spalmarsi in faccia e quel cerone non è di sicuro tra i più economici.
Alla fine sembra più giovane almeno di dieci anni.
Il maglione, però, si rifiuta di cambiarlo: ha accettato di diventare una bambola e di stare dall’altra parte della telecamera.
Qualche condizione deve mettercela anche lui.
 
Sta aspettando ormai da mezz’ora seduto su una seggiola da regista nell’angolo più buio che ha trovato sul set: il modello non è ancora arrivato nello studio; sente Mike parlare al telefono con quello che deduce essere un poliziotto – polizia, davvero? È un modello, è un uomo e ha persino problemi con la polizia? – e dice qualcosa che dovrebbe essere un “Non fa niente, quando finisce digli di venire” ma che suona più come un “Se non muove quel culo è la volta buona che gli spacco i denti” e John ride, ride di gusto: quella giornata non sta andando male solo a lui e sì, è immorale, ma ne è quasi contento. Maledetti stronzi, loro e i loro inutili servizi su bacini, bacetti e sguardi innamorati. E John non è gay, non lo è per niente, quindi che se li sognino, quelli: John non bacerà uno sconosciuto.
Sta aiutando il nuovo cameraman a inquadrare nel modo giusto i due attori sul set – una coppia sposata e un bimbetto che continua a strillare e a parlottare senza curarsi nemmeno un secondo del mondo circostante – quando viene distratto da due persone che urlano nella stanza accanto. Molly ha appena buttato una tazza di caffè fumante per terra e sta sbraitando contro un uomo che non ha mai visto prima; è di spalle, ma nota subito la differenza di altezza tra lui e la segretaria e la massa informe che si trova al posto dei capelli: la sola vista di quelli gli provoca un’ansia e un’irritazione considerevoli che non capisce davvero da cosa siano causati.
Nel frattempo sul set è finita la scena e stanno preparando altre due sedie: dalle cartelline appese ad ognuna realizza che è il suo turno. Si siede e chiude gli occhi: hanno tutti smesso di urlare.
Non si accorge nemmeno dell’uomo – alto, una massa informe al posto dei capelli – che si è seduto davanti a lui e lo fissa, l’aria concentrata e leggermente divertita, come se volesse dedurre la sua vita con qualche sguardo. È il brivido che gli provoca la sua voce calda e baritonale che lo costringe ad aprire gli occhi.
“Afghanistan o Iraq?”

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Capitolo 2
*** 1. ***


Note: rieccomi, con mesi e mesi di ritardo... ma non è colpa mia, giuro: se ne avete ancora la possibilità, non scegliete il liceo classico. Non cedete alle sue lusinghe, alle sue promesse... dietro a quel lato da scuola interessante e appassionante si celano perfetti e aoristi greci. Anyway, spero mi perdonerete, miei carissimi quattro lettori: questo capitolo è leeeeggermente più lungo del precedente; speriamo sia anche gradito... Ah, e tanto per mettere le cose in chiaro: di secondo nome mi chiamo Disorganizzazione; non so quando riuscirò a scrivere e pubblicare il terzo capitolo.
Ultimissima nota, prima di lasciarvi (logggggiuro) alla lettura: i fotoreporter, è vero, non sono soldati. Piccola licenza...

“Afghanistan o Iraq?”

John apre gli occhi, piano. Il destro, poi il sinistro, con tutta la calma di cui riesce a disporre. Fissa l’uomo davanti a sé per qualche secondo – molto alto, una massa informe di capelli a coprirgli mezzo viso, incredibilmente irritante e sexy – poi distoglie lo sguardo, imbarazzato. Con l’aria confusa, come se avessero appena tentato di spiegargli la teoria della relatività usando delle carote e dei carciofi, balbetta la prima cosa che gli viene in mente: “Scusi, come?” E, ovviamente, è stupida. Tremendamente stupida, e banale quanto basta. L’altro si accorge di tutto – della sua confusione, curiosità e voglia di sapere di più, forse anche di quel misto di irritazione e riverenza che pare provare per lui – e ridacchia, vincitore.

“Dico, è evidente che sia stato in guerra, quindi: Afghanistan o Iraq?” Spiccica quelle parole ad una velocità che John non esita a pensare sovrumana, neanche stesse ripassando mentalmente la lista della spesa, mentre ha appena dedotto – dedotto? – l’unica cosa che gli sia successa di appassionante in trent’anni di vita; John non non è uno di quei congedati che amano semplicemente mostrare le proprie ferite al primo pirla di turno come coccarde, magari accompagnate da un sussurro e da una ben pensata lacrimuccia, il fatto che sia evidentemente zoppo non è altro che un problema quindi no, decisamente non ne va fiero e quella è una chiarissima uscita da stronzo, stronzo e arrogante ed è maledettamente geniale.

“Posso sapere che… come lo sa?”

Di nuovo stupido. Dio, così stupido. John Watson, fotoreporter di professione e decerebrato nel resto del tempo.

Un’altra risata sulla faccia strafottente, poi un nuovo fiume di parole: “La sua stampella è appoggiata alla sedia. Mi sono permesso di osservarla: spero sappia che è psicosomatico, perché la sua psicologa lo sa quindi la smetta di farsi spillare soldi che potrebbe usare per comprarsi un maglione per conto proprio invece che usare quell’obrobrio che le ha per forza regalato la sua ragazza; oggi la sua ferita le fa particolarmente male, immagino per il tempo. Le sue mani e i suoi polsi sono più scuri del resto del braccio; lo stesso vale per l’abbronzatura sul suo collo, che non supera la linea della maglietta. Il suo taglio di capelli e il suo comportamento sono un’ulteriore conferma: taglio militare, comportamento militare, abbronzatura militare, ferita militare. Data la sua professione, dubito fosse un soldato: forse un fotoreporter, al massimo un giornalista. Potrei controllare subito. Quindi, la domanda che segue è a dir poco elementare” e qui si ferma un attimo, riprendendo fiato e assottigliando gli occhi in uno sguardo di finta sfida “Afghanistan o Iraq?”

“Straordinario” e non si rende neanche conto di averlo detto “voglio dire, questa cosa che fa. È… grandiosa, davvero, impressionante. Un po’ arrogante, forse, decisamente poco fine - le avrei spaccato la faccia più volte. Ma impressionante” cerca di darsi un tono, inspira e tossicchia, distogliendo lo sguardo da quella bocca e quegli occhi che, immancabilmente, era tornato a fissare.

“Lo pensa davvero?” Non è sicuro. Gli ha appena spiattellato in faccia la sua condizione e non è sicuro. John non sa se ridere o darsela a gambe.

“Cosa? Cioè, sì, Dio, non – ha appena descritto la mia vita attraverso un solo sguardo quindi sì” tossisce, di nuovo “lo penso davvero. Ma glielo diranno spesso, suppongo”

“No, decisamente” e ora è lui ad abbassare lo sguardo con imbarazzo – no, con vergogna.

“E cosa le dicono, allora?”

“Fuori dai piedi.”

 E ora sì che John ride. Si piega in due dalle risate, si ferma ansimando e poi riprende a ridere.

Non ricorda di essersi fatto di qualche sostanza ma diavolo, questo ha tutta l’aria di essere un signor viaggio mentale con la V maiuscola e non è più sicuro che la sua invasione aliena sia ancora così lontana.

Perché quello non è umano, nossignore, tutto in lui non è umano: la voce, gli occhi, i capelli, il collo, le labbra…

Il modello sembra confuso, in un primo momento, poi capisce e ride anche lui fino ad avere le lacrime agli occhi.

John continua a guardarlo, senza smettere di ridacchiare.

Non c’è niente di strano, comunque: nessuno dei due si è accorto del silenzio che è calato nella stanza, segno che le riprese stanno per iniziare. Mike si avvicina, stranito da quella così poco usuale situazione: di solito la prima impressione non è quella: di solito la gente scappa, alla meno peggio…

 

“Va bene, Johnny, non vorrei interrompervi ma qui dovremmo iniziare. Non una parola, non un gesto, un movimento” li guarda, serio e professionale “quattro minuti, pensate di potercela fare?


 

Quattro minuti, anche se non sembra, sono un’eternità. Sono una canzone, sono la durata media di un intermezzo pubblicitario in televisione e di un servizio al telegiornale.

 

In quattro minuti, anche se non sembra, si notano un sacco di cose. Si possono memorizzare i dettagli fondamentali di un’immagine in un tempo dieci volte inferiore, si fa forse in tempo persino a notarne altri.

 

Ma per analizzare lui a John non ne basterebbero diecimila, di minuti. Nella sua testa il ticchettio dell’orologio, una corsa contro il tempo per imprimersi nella mente quei lineamenti così arroganti e così maledettamente geniali.

 

 

 

Venti.

 

Gli zigomi pronunciatissimi, così come le sue labbra, rendono il suo viso per niente convenzionale, di una bellezza che non può essere oggettivamente definita tale, ma che, di certo, fa restare senza parole.

 

Tanto, John non ne può dire.

 

 

 

Quaranta.

 

Gli occhi, ora li può osservare meglio, contengono ogni colore conosciuto, forse anche qualcuno tra quelli sconosciuti; sono azzurri, no, verdi, forse un po’ gialli, decisamente blu. Che, si ritrova a pensare, se fosse stato un pittore avrebbe potuto usare quelli come tavolozza e probabilmente avrebbe creato dei capolavori. Ma non è capace di disegnare, purtroppo, non lo è mai stato e, per quanto ne sa, non lo sarà mai; l’unica cosa che gli viene in mente è che sì, dovrebbe chiedergli di fotografarli, quei due pozzi, perché ogni volta che uno dei due sbatte le ciglia e per quel millesimo di secondo non sono più in contatto, si sente improvvisamente male.

 

 

 

Ottanta.

 

Si riscuote – ha dichiarato poco fa di non essere gay e questo è decisamente il modo peggiore per dimostrarlo – ma i suoi occhi rimangono incatenati ai due del modello, che ricambia il favore e penetra nel suo cervello. Probabilmente starà deducendo cosa abbia mangiato la sera della sua maturità, dove, con chi e di che colore fossero i tovaglioli.

 

John non riesce a pensare a niente.

 

 

 

Centoventi.

 

I capelli. Non riesce a definirli, si perde negli incastri e nei giochi di luce di quella massa corvina e spettinatissima che potrebbe essere degna di un Einstein o di un Beethoven, forse; poi pensa che sì, entrambi erano geni e che quindi, ed è assolutamente logico, lo dovrà essere anche lui.

 

 

 

Centosessanta.

 

Il suo collo – che sta fissando solo perché non ha di meglio da fare, per l’amor del cielo, non è gay – è slanciato e latteo, senza la più piccola imperfezione. La camicia viola attillata è leggermente aperta sul torace – ancora non gay -, pallido ma leggermente sudato.

 

 

 

Centottanta.

 

E infine le labbra. Sono grandi, quasi femminee, molto pronunciate. Non ha neanche un rimasuglio di barba sulle guance, non un accenno di baffi. Sono lì, una macchia di porpora sul bianco incontaminato del suo viso, a creare l’ultimo incastro di quello strano – e bellissimo – scherzo che è la sua figura, in perfetta sintonia con quel poco che ha potuto constatare del suo carattere, poco prima.

 

 

Duecentoquaranta.


 

Uno sbuffo da parte di Mike e il clack della videocamera che si spegne lo riportano improvvisamente alla realtà: con estrema velocità i rumori della sala – sedie che si spostano, risatine e ordini del regista – tornano a toccare le orecchie di John, prima isolate, chiuse in un mondo dove non serve proprio parlare per capirsi. Perché John l’ha capito che quello che ha davanti non sarà un uomo qualsiasi nella sua misera vita: due occhi così non si dimenticano con un battito di ciglia.

 

Ma quel mondo in cui sono stati violentemente rigettati non ha spazio per tutte quelle sfumature, per tutti quei colori, e ne deriva un imbarazzo immotivato ma decisamente palpabile.

 

John abbozza un sorriso.

 

“Allora, dedotto qualcosa di nuovo?”

 

Lui ricambia, un sorriso furbo e un lampo negli occhi.

 

“Non le darà fastidio il violino durante la notte, e neanche i miei orari. E cambiare casa le serve davvero”

 

Di nuovo, come all’inizio del loro dialogo, John è confuso. Se non la smetterà a breve di essere così enigmatico lo prenderà a pugni. Oh sì.

 

Questa volta, comunque, la spiegazione arriva da sé e John evita, con suo enorme sollievo, l’ennesima figura da idiota. “Mike mi ha detto che cerca un coinquilino. Sono nella sua stessa situazione, quindi se volesse…”

 

Cala il silenzio e con con esso cresce l’imbarazzo. Ha passato gli ultimi minuti a fissarlo e a fantasticare – ok, forse non proprio fantasticare ma insomma, è anche inutile negarlo, John è irrimediabilmente attratto da quel tipo – sulla sua faccia da stronzo e ora quello gli chiede di andare a vivere con lui? Non che la prospettiva sia così male, potrebbe essere decisamente meglio di quella topaia in cui abita adesso ma non è possibile, è troppo surreale e certe cose succedono solo nei film, lo sa.

 

“Signor… Signor? Io non so niente di lei…”

 

Mike e le sue idee folli.

 

“Se sapesse qualcosa di più, sarebbe un sì?” poi, vedendo che la sua risposta tarda ad arrivare “Io di lei so quanto basta. So che è stato in guerra, come ho già detto, so che le manca – anche questo sa la sua analista: si fidi, davvero, a minor prezzo potrei fare dieci volte meglio – e so che un po’ di avventura non le farebbe altro che bene. Inoltre, lei vive da solo e il suo appartamento è davvero troppo piccolo. Serve altro?” Detto questo si alza, come se niente fosse, annoda una sciarpa completamente blu al suo collo completamente bianco e alza il bavero della giacca.

 

“Il mio nome è Sherlock Holmes, l’indirizzo 221b, Baker Street. Si presenti domani alle cinque, se le interessa. Puntuale.”

 

John è esterrefatto, il massimo che può fare è balbettare un “sì” come risposta e assumere la sua espressione più becera.

 

Quando lo vede allontanarsi, però, prende tutto il coraggio che trova e urla “John Watson. Fotoreporter. Afghanistan”

 

Non riesce a scorgere il sorriso sul viso del più giovane, che apre la porta con l’aria trionfante di chi ha appena vinto la scommessa più grande della sua vita.


 

 


 

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