In un universo parallelo... di Zury Watson (/viewuser.php?uid=245032)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La vita reale ***
Capitolo 2: *** Questione di parallelismi ***
Capitolo 3: *** Social ***
Capitolo 4: *** Pressure Point ***
Capitolo 5: *** Emme ***
Capitolo 6: *** Colpa del cuore ***
Capitolo 7: *** Un computer, una connessione a internet e una webcam ***
Capitolo 1 *** La vita reale ***
1. La
vita reale
Nella
vita reale, quella in cui ogni mattina mi sveglio, faccio colazione,
sbuffo quando il bagno è occupato e devo assolutamente
muovermi; quella in cui arrivo alla macchina e impreco a bassa voce
perché è rimasta incastrata tra SUV-mostri,
quella in cui il lavoro che faccio non rispecchia esattamente i miei
desideri; ecco, in questa vita sono soltanto una ragazza un
po’ troppo incline alla bontà,
dall’umore volubile, caratterizzata da momenti di
profondissima malinconia e di incontenibile gioia; una ragazza di
discutibile bellezza, che ha trovato nei suoi occhiali da vista un
dettaglio interessante, single inizialmente per scelta, poi per
condizione e ormai un po’ anche per abitudine forse; una
ragazza fin troppo timida, che arrossisce troppo, che si fida troppo
facilmente delle persone ma che ha un sesto senso quasi
infallibile per le menzogne e per la scorrettezza; una ragazza che
quando si arrabbia è una furia, che ha perso la dolcezza di
un tempo, che ha smesso di cercare l’amore puro che si
delinea ogni notte nei suoi sogni, ma che non riesce a smettere di
sognare, mai. Una ragazza che ama leggere e scrivere.
Scrivere. È proprio questo il mio sogno nel cassetto, un
cassetto mezzo aperto perché non vorrei mai che il sogno
finisse per morire asfissiato mentre io mi affanno nel tentativo di
sembrare credibile nei tanti lavoretti che svolgo nell’attesa
di poter far decollare il sogno.
Nella vita reale mi si vede spesso con un libro in mano, immersa in una
storia fin sopra ai capelli; mi si sente parlare di Londra come quella
misteriosa città che mi ha rubato un pezzo di cuore,
città che rivisiterei molto volentieri mille e mille volte;
nella vita reale mi si sente parlare dei miei autori preferiti e dei
miei personaggi preferiti, cose che trovo molto più
interessanti delle chiacchiere da sala d’attesa, anche se ho
sempre la sensazione di essere l’unica a pensarla
così; nella vita di tutti i giorni vorrei saper parlare e
scrivere in modo perfetto l’inglese… Ci sto
lavorando tra un impegno e l’altro, anche se mi distraggo
facilmente e molto facilmente mi faccio assorbire dalle molte storie
che leggo. Tra gli altri, un autore ed i suoi personaggi continuano a
riecheggiarmi nella mente, tornano sempre in qualche modo a catturare
la mia attenzione: parlo di Arthur Conan Doyle e di Sherlock Holmes e
John Watson.
Nella vita reale mi piacerebbe condividere i miei pensieri con altri
appassionati, ma alla fine mi dedico ad un monologo appuntato sul mio
diario.
La mia vita reale è fatta anche di musica e cinema: non
potrei fare a meno di un buon libro, una playlist per ogni occasione e
un buon film da guardare quando non leggo o quando semplicemente ne ho
voglia.
Nella vita reale solitamente guardo con particolare attenzione i film
tratti dai libri – indipendentemente dal fatto che io li
abbia già letti oppure no, e nel secondo caso il cinema si
rivela un’ottima occasione per impelagarmi in una nuova trama
– e per questo motivo non mi sono fatta certo mancare le
trasposizioni cinematografiche e televisive dedicate al personaggio di
Sherlock Holmes. Ho apprezzato moltissimo i due film diretti da Guy
Ritchie e ho amato la versione della BBC dopo l’iniziale
disapprovazione, al punto che se mi chiedessero di scegliere
l’uno o l’altro mi fionderei sulla terza opzione,
ovvero: entrambi o uccidetemi.
Nella vita reale ho un account Twitter che uso per esercitarmi a essere
sintetica nell’esposizione (cosa che non mi riesce affatto
bene) e per farmi i cinguettii dei miei vip preferiti. Nella vita reale
seguo Mark Gatiss, ad esempio, e una volta ho anche trovato il coraggio
di scrivergli. Di solito però mi limito ai retweet.
Non c’è nulla di interessante, a quanto pare,
nella mia vita reale.
Nella vita reale…
Ma in un universo parallelo… Oh, in un universo parallelo la
mia vita è decisamente diversa.
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Capitolo 2 *** Questione di parallelismi ***
2. Questione di
parallelismi
Anziché
giocare alle deduzioni più o meno in solitaria sul mio
profilo Facebook, in un universo parallelo ho un blog in cui scrivo, in
italiano e in inglese, le dettagliatissime deduzioni cui arrivo
analizzando i fatti. Fatti che possono riguardare qualsiasi cosa, ma
che prevalentemente – ispirandomi al metodo deduttivo di
Sherlock – restano nell’ambito degli avventurosi
intrecci che coinvolgono il dottor Watson e il suo amico Sherlock
Holmes. Ultimamente, ad esempio, il blog è pieno zeppo di
ragionamenti che mettono insieme gli episodi delle tre stagioni di
Sherlock BBC con gli indizi disseminati da Gatiss e compagnia bella su
Twitter.
In questo universo parallelo, naturalmente, non sono l’ultima
blogger arrivata, né il mio metodo è strettamente
legato all’attività della serie tv della BBC. Da
amante di Conan Doyle quale sono, ho deciso di avviare il blog per dar
voce alla mia ammirazione per la brillantissima mente del noto
investigatore privato e per la genialità del suo creatore,
subito dopo aver letto tutti i racconti e i romanzi a disposizione.
Nonostante io sia nient’altro che un mucchio di lettere sullo
schermo di un numero imprecisato di persone sparse nel mondo, qualcosa
in ciò che scrivo attira ogni giorno l’attenzione
e l’interesse di molti. Tutto è naturalmente molto
gratificante, ma non è per i consensi che continuo a
lavorare al mio blog: il motore del sistema è il mio
irrefrenabile bisogno di cercare, ragionare, comprendere, mettere
insieme tasselli e scrivere indipendentemente da tutto il resto.
Come i binari di una ferrovia, in un universo parallelo sono
l’identica copia di me stessa, una gemella che vive in un
altrove e che in questo altrove è riuscita ad esprimere
tutto ciò che nella vita reale io non ho il coraggio di fare.
Questione di parallelismi.
In questo universo parallelo, quando mi sveglio al mattino per andare a
svolgere un lavoro che non mi appartiene quanto vorrei, che non
è ciò che vorrei, e sbuffo perché il
bagno è occupato e il tempo è mio nemico, e mi
capita di bestemmiare perché qualcuno ha avuto la brillante
idea di non lasciarmi quasi neanche lo spazio per entrare nella mia
auto, riesco a non arrabbiarmi quanto dovrei perché so che
una volta rientrata a casa potrò accendere il pc, collegarmi
al blog e immergermi finalmente nelle cose che amo.
La differenza tra le due me parallele è piccola, ma di
fondamentale importanza.
Una delle due, più precisamente l’altra, ha
trovato una valida ragione per affrontare con positività
anche le giornate più nere e questa ragione le consente di
non prendersela troppo quando qualcosa non va come pianificato.
Nell’universo parallelo sono una persona sicura di
ciò che ha, di ciò che vuole e di ciò
che è disposta a fare per conquistare le sue mete. Sono
ciò che potenzialmente potrei essere nella mia vita reale.
Sono il binario ad alta tecnologia, quello accuratamente costruito da
persone competenti, quello ottimizzato nelle sue funzioni. E sono
appena rientrata a casa. E sto per accendere il computer.
“Ciao Zury Watson. Benvenuto”.
L’unica cosa che mi secca è che Windows dovrebbe
imparare a distinguere tra uomo e donna se proprio vuole parlare in
italiano, ma è una seccatura sopportabile tutto sommato.
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Capitolo 3 *** Social ***
3. Social
Prima
di prendere posto davanti a schermo e tastiera ho bisogno di
riscaldarmi le mani. Sono sempre così fredde che a volte
penso di essere una specie di mezzo vampiro uscito male. Se non ci sto
attenta, qualche giorno di questi mi ritroverò senza dita e
addio blog. Appiccicata al termosifone trovo un po’ di
sollievo prima che le dita diventino rosse e inizino a bruciare per il
contrasto tra il gelo che le avvolge e il calore che tenta di
rimpiazzarlo: è il modo migliore per scatenare i geloni, ma
non posso fare a meno di riscaldarle almeno un po’ prima di
mettermi alla tastiera.
Passano non più di dieci minuti e la voglia di fare un giro
su Twitter alla ricerca di informazioni in merito alla quarta stagione
vince sulla piacevole sensazione di tepore che ha appena iniziato a
farsi strada. Così mi siedo e avvio il browser. Ci vuole un
attimo per aprire il mio profilo sul social network. Ignoro le
notifiche per il momento, sposto il cursore in alto a destra e faccio
una lieve pressione sui tasti magici:
M A R
K G A T I S S.
Mi
mordo il labbro mentre il browser carica il profilo…
Avrà lasciato qualche altro indizio oggi oppure
dovrò basare nuovi ragionamenti sul materiale già
a disposizione? Non che il materiale manchi – la terza
stagione è strapiena di piccoli indizi utili a metter su
teorie abbastanza convincenti – ma è pur sempre
una grande emozione leggere informazioni direttamente dalla fonte.
È un modo bellissimo di coinvolgere tutto il fandom, di
farci giocare ai piccoli detective: ogni volta che ognuno di noi prova
a dare la propria teoria, automaticamente veste i panni di Sherlock
Holmes. Perciò la delusione è inevitabile quando
Mark opta per il silenzio stampa, come oggi.
Non mi resta altro da fare che dare un’occhiata alle
notifiche e poi avviare il mio spazio personale. Molti dei miei followers seguono anche il blog, perciò tra le notifiche trovo sempre qualche
breve domanda in merito ai miei programmi anche se chiunque
può inviarmi email della lunghezza che preferisce
direttamente dal blog. Dato che ho sempre risposto a tutti, maleducati
e criticoni compresi, non mi tiro indietro neanche stavolta e con
gentilezza mi dedico ai messaggi ricevuti. Poi, senza soffermarmi oltre
sul social network ma lasciando comunque la scheda aperta, accedo al
blog e mi preparo alla lettura dei messaggi.
Non credo che mi abituerò mai a tutti i complimenti e alle
domande che piovono ogni giorno, ma ormai è diventata una
piacevolissima abitudine accedere e leggere il tutto. Sostanzialmente
trascorro più tempo a leggere e rispondere che a trascrivere
le mie idee, le intuizioni, i ragionamenti e i possibili collegamenti
tra episodi e indizi forniti. La trovo una cosa molto appagante,
soprattutto perché chi mi segue sa che non mi collego ad
orari fissi e prestabiliti eppure mi scrive ugualmente e attende con
pazienza che io risponda. In fin dei conti sanno che
risponderò, in italiano o inglese che sia.
Il mio ultimo ragionamento deve aver acceso l’entusiasmo di
molti visto il numero di messaggi in posta… Oppure ha
scatenato la loro rabbia. Occorre che io prenda un profondo respiro
prima di verificare se le reazioni sono state positive o negative. Mi
rendo perfettamente conto che facendo alcuni collegamenti è
come se tenessi in mano una bomba pronta ad esplodere, ma non mi piace
escludere nulla nel processo di analisi, perciò anche
ciò che sembra completamente assurdo va preso in
considerazione.
Il primo messaggio promette bene.
È una ragazza italiana che mi ringrazia per la compagnia che
le tengo nell’attesa della quarta stagione e si complimenta
per il modo in cui metto in relazione dettagli spesso passati
inosservati. Anche lei adora Conan Doyle. Rispondere a messaggi come
questo è decisamente piacevole e semplice sebbene mi senta
sempre strana… Persone come questa ragazza mi fanno sentire
importante anche se non lo sono affatto ed è…
strano, appunto.
Poi abbiamo due conversazioni precedentemente iniziate. Entrambe molto
piacevoli, devo ammetterlo, per via della competenza dei miei
interlocutori: amo confrontarmi con chi si occupa di Sherlock come lo
faccio io e mi piace riuscire a catturare l’attenzione di
molti fan attraverso il mio blog. Uno di loro l’ha definito
“il ritrovo di tutti gli amanti delle avventure al
221B”. Mi piace da morire.
Una critica. La cosa che mi dispiace di più è
quando ricevo offese più che critiche, che potrebbero invece
essere costruttive, spunto per migliorare l’organizzazione e
il contenuto. Ma comunque ci sta anche questo.
Tra gli altri, uno in particolare attira la mia attenzione. Il nickname
del mittente mi suggerisce che è un ragazzo, o un uomo,
insomma una persona di sesso maschile; che è appassionato di
Arthur Conan Doyle e che non è italiano.
Un insolito brivido mi percorre la schiena e sono più che
certa che non sia colpa del freddo.
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Capitolo 4 *** Pressure Point ***
4. Pressure Point
Se
dovessi seguire soltanto la mia impazienza, leggerei, anzi no,
divorerei il messaggio con così tanta foga che poi dovrei
rileggerlo per comprenderne davvero il senso. Quindi mi distraggo
fissando lo sguardo sulla prima parola, un semplice
“Hi”. Il guaio della parola scritta, semplicemente
scritta e non descritta, è che non facilmente le si
può attribuire il tono più adatto. Dietro a quel
saluto potrebbe esserci una punta di entusiasmo, solo
cordialità, un pizzico di distaccata educazione o
un’educata dichiarazione di guerra. Potrebbe esserci
qualunque cosa e non scoprirò cosa esattamente se non mi
deciderò a leggerne il seguito. Non so cosa mi prenda a
volte, se sia quel sesto senso di cui tanti parlano, quella specie di
presentimento, oppure soltanto la mia fervida fantasia, ma sta di fatto
che in certe situazioni mi capita di avvertire qualcosa di diverso.
Ricevo tonnellate… beh no, non tonnellate, ma decine
sì, quindi ricevo decine di messaggi e perché
proprio oggi e proprio con questo qui io stia provando questa strana
sensazione resta un mistero. Non mi piace tanto avere a che fare con
cose su cui ragionare è praticamente inutile,
perciò tutto ciò che devo fare adesso
è evitare di fissarmi su questa cosa e andare avanti nella
lettura come ho fatto fino a poco fa e come continuerò a
fare dopo.
Mi stiracchio per bene e inizio a leggere. Dai termini che utilizza,
termini che sembrano essere stati scelti con cura forse per farmi una
buona impressione, – un’accuratezza che io
personalmente riserverei ad uno scritto destinato a qualcuno che
ritengo importante, sia esso un personaggio di rilievo o anche il mio
migliore amico o una persona che mi piace – credo che sia un
inglese. O comunque suppongo che l’inglese e non
l’americano sia la lingua che usa per dialogare con me.
C’è una certa raffinatezza nel testo,
completamente privo di neologismi e di quel tanto detestato slang
approdato anche nella mia terra d’origine e applicato di
conseguenza alla mia lingua madre. Parla al maschile, il che conferma
le mie ipotesi formulate sulla base del nickname, e non mi
dà l’idea di essere un ragazzino sotto i
vent’anni d’età. Il saluto
all’incipit si è rivelato decisamente cordiale:
sebbene il testo sia completamente privo di emoticon riesco a intuirne
il tono. È una persona avvezza alla scrittura e quasi
sicuramente anche alla lettura. Di certo ha letto più di una
volta il Canone visto come commenta e conferma le mie deduzioni che
sembra lo abbiano colpito molto, così dice. Mi sento un
po’ in imbarazzo. Non è la prima volta che mi
imbatto in lettori che scrivono bene e conoscono altrettanto bene le
storie scritte da Conan Doyle, ma il modo di fare di questo ragazzo o
uomo che sia ha un che di pericolosamente affascinante. È
uno che sa vendersi e vuole conquistare la mia simpatia, forse la mia
fiducia. Dopo aver manifestato una certa cordialità si
esibisce in una prima dose di complimenti al mio
“lavoro”; poi mette in mostra le sue conoscenze in
merito agli argomenti di discussione, senza scostarsi dalle mie
deduzioni ma confermandole ulteriormente apportando dettagli che avevo
tralasciato nei miei articoli dandoli di fatto per scontati; e infine
ecco la seconda pillola di complimenti, mai esagerati, per nulla
sdolcinati, semplicemente sinceri ma non privi di un certo trasporto.
Non mi stupirei se nella prossima conversazione mi rivelasse di essere
uno scrittore. Sì, perché ci sarà
sicuramente un prosieguo visto che è lui ad augurarselo con
una certa faccia tosta che lo rende ancora più intrigante.
Uno dei miei punti deboli, il mio punto critico come lo chiamerebbe
Charles Augustus Magnussen, è il coinvolgimento emotivo che
le parole, se inanellate ad arte una dietro l’altra, sanno
scatenare in me. Perdo la testa per una persona che sa usare le parole.
Decido di rileggere il messaggio prima di rispondere: mi piace dare la
giusta rilevanza a ciò che mi viene detto. Ho
così modo di notare che non è nuovo nel mio blog
– oppure se lo è deve esserselo spulciato per bene
– perché ha tirato in ballo una cosa che ho
scritto più di un mese fa, ne sono abbastanza
sicura… Ma tanto per averne la certezza, vado a controllare.
Siccome ho paura che per un bug o chissà quale altra
disgrazia tutto il blog salti, tengo tutti gli articoli in un file
apposito sul pc. In questo modo è semplice risalire
all’argomento che mi serve. Apro il file, clicco su Cerca,
inserisco un paio di parole chiave e… Bingo! Eccolo qui,
davanti ai miei occhi, con data e tutto. L’ho scritto e
pubblicato un mese e una settimana fa, giorno più, giorno
meno.
Resto per qualche minuto a fissare lo schermo prima di iniziare a
rispondere al messaggio. Mantengo un tono gentile ma non troppo
espansivo. Ringrazio ed esprimo la mia contentezza
nell’interagire con lettori che non si limitano alle versioni
televisive ma approfondiscono direttamente alla fonte. Poi concludo.
“Scrivimi pure quando vuoi, è piacevole leggerti.
Un abbraccio”.
Il fatto che non si sia firmato nel messaggio, come molti altri lettori
invece fanno, non fa che incuriosirmi. Perciò è
meglio che mi dedichi agli altri messaggi in sospeso e poi volga
l’attenzione altrove, magari alla dispensa…
Qualcosa mi dice che mi toccherà uscire di nuovo per fare la
spesa.
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Capitolo 5 *** Emme ***
5. Emme
Squilla
il telefono.
L’ennesimo starnuto. Al prossimo sputerò un
polmone, me lo sento.
“Brondo?”. Dall’altra parte una risata
nemmeno troppo trattenuta. So perché,
chiunque sia, sta ridendo e lo farei anche io al posto suo: ho una voce
che farebbe sbellicare pure i polli. Non
semplicemente voce da naso tappato con consonanti sbagliate in ogni
dove, ma
anche bassa da fare schifo. Sembro una vecchia stregaccia malefica.
“Scusa, sono un idiota”, dice, ancora con la risata
attaccata alle corde vocali.
Manuele. Ci mancava solo lui.
“Sono d’accordo”, commento.
Fa una battuta su quanto sia tenace il mio sarcasmo. “Ti
salverà dai batteri
cattivi”, dice e un sorriso me lo strappa, ma non gli regalo
la soddisfazione
di rendersene conto. Poi mi chiede come sto.
“Distesa. Del letto”.
Ride. Fa una battuta dall’aria vagamente sconcia, sconcia con
eleganza.
“Si sente la tua mancanza al lavoro, signorina”,
dice.
Brontolo che le sue smancerie non mi guariranno
dall’influenza che mi costringe
a letto da ormai tre giorni. Mi chiede, stavolta in tono serio, se ho
bisogno
di qualcosa, se sono a posto con la spesa e con le medicine, se
può essermi
utile in qualche modo. Lo ringrazio sinceramente e lo informo che
è tutto a
posto.
“La bia vicida di casa è bolto
preburosa”, dico e poi sbuffo per come le parole
escono dalla mia bocca. “Grazie della telefodata”,
aggiungo sperando così di
sfuggire a quella tortura.
Lui capisce, e mi lascia sola con le mie lamentele raffreddate.
Sono tre giorni che non mi muovo da questo dannato letto. Sono tre
giorni che
non aggiorno il blog e la cosa mi irrita da morire. D’altra
parte non sono
comunque in grado di ragionare su nulla al momento,
tant’è che carta e penna
sono rimaste intatte sul comodino… Come ho potuto anche solo
pensare di
mettermi a scrivere in questo stato? Almeno, però, la febbre
è scesa. Forse
riesco ad alzarmi per prendere il pc… Non lo
terrò acceso per molto, promesso!
Mi colpisco con grande debolezza sulla fronte con il palmo della mano:
ora scendo pure a compromessi
con me stessa, mi faccio promesse che so che non manterrò e
mi auto analizzo
manco fossi una psicologa.
Ho il viso in fiamme e il resto del corpo ghiacciato. Mi tiro su le
coperte e
affondo la testa nel cuscino.
Tre
giorni più tardi, 7:30 AM
Dire che sono di fretta
è un eufemismo, ma non me la sento
di tornare al lavoro senza prima passare di qui. Per un attimo ho
creduto che
ci avrei lasciato le penne, invece era soltanto una brutta influenza.
In ogni
caso non gliel’avrei data vinta, di qualunque cosa si fosse
trattato,
non prima di aver visto la quarta stagione di Sherlock.
È spaventoso
il numero dei vostri messaggi in casella e già mi vedo
trascorrerci un mucchio di tempo prima di riuscire a rispondere a tutti
– cenerò davanti
al computer, non importa. Ve lo devo, con tutto l’affetto che
mi dimostrate con
una costanza che forse io non riuscirei ad avere.
Un
bacio, Zury.
Traduco in inglese e posto entrambe le versioni.
Spengo in fretta il pc, afferro tutto ciò che mi serve, mi
avvolgo in una
sciarpa più lunga di quanto io sia alta e più
calda di un termosifone e mi
fiondo fuori di casa.
Puntuale arrivo sul posto di lavoro e mi becco una raffica di
“Bentornata!” e “Come
stai ora?”, prima di poter iniziare davvero a svolgere i miei
compiti. C’è
anche Manuele e questo riesce a risollevarmi il morale: per quanto sia
incline
a collezionare appuntamenti su appuntamenti, resta comunque una
presenza
piacevole e con lui il tempo sembra scorrere più velocemente.
In una pausa mi imbatto in Deborah, una collega molto attenta al look,
che mi
chiede cosa ci sia tra me e Manuele. Se non altro non si perde in
chiacchiere. Ho la vaga sensazione che lui le piaccia e
che per questo motivo lui non l’abbia ancora mai invitata ad
uscire: se me ne sono accorta
io, figuriamoci lui che c’ha le antenne per queste cose.
“È un collega”, rispondo soltanto.
“Ma ti piace”, dice lei senza punto interrogativo.
“No”. Secco e deciso.
“Secondo me sì”, insiste.
La squadro per una manciata di secondi. “Bel
rossetto”, commento. Magari la
smette.
“Grazie. Uscite insieme?”.
No, non la smette. “Se fosse così lo sapresti,
suppongo”, le rispondo
sollevando solo metà bocca in un sorriso tirato. Deborah
è una pettegola di
prima categoria, riesce a sapere tutto di tutti e puntualmente dispensa
le
informazioni per ottenere qualcosa. Sappiamo tutti qui che se Giada e
Alessio
hanno smesso di frequentarsi è perché lei ha
messo in testa a Giada che Alessio
è inaffidabile soltanto perché ai tempi del liceo
cambiava fidanzate come le
mutande. Sa essere molto convincente quando vuole. Poi, per confermare
il
tutto, è uscita lei con Alessio.
La sua smorfia, in risposta alla mia, è orrenda.
“Quindi non ti dispiace se ci
esco io, vero cara?”.
Puoi risparmiarti il cara, guarda. Le sorrido. “Fai
pure”. E la lascio lì,
continuando per la mia strada. Prendo un tè caldo al limone,
al distributore, e
decido che per una volta posso provare l’ebbrezza di essere
una pettegola anche
io. Cerco Manuele, mi siedo di fianco a lui e gusto la mia bevanda
lasciando
passare una decina di secondi. “So da fonti certe che
qualcuno qui dentro vuole
uscire con te”, dico senza guardarlo, trattenendo un sorriso.
“Tu?”. Scoppia a ridere.
“Ti piacerebbe”. Mi soffio il naso.
“Forse. Deborah?”.
Ero certa che se ne fosse accorto. La pausa volge al termine,
così mi alzo e
annuisco. Lui sospira scuotendo il capo. Forse dovrei dispiacermi per
Deborah.
Non credevo
che rientrare a casa, dopo quasi sei giorni di
clausura forzata, potesse essere così piacevole. La prima
cosa che faccio è
accendere il pc. Intanto mi infilo il pigiama e decido che
mangerò una pizza
che mi farò consegnare a domicilio.
Incredibilmente i messaggi sono aumentati rispetto al mattino. Prendo
un
profondo respiro e inizio a leggere. Fortunatamente molti lettori
semplicemente
mi chiedono che fine io abbia fatto, come sto e perché non
sto più aggiornando
il blog. Quelli meno recenti, invece, mi riportano alle avventure di
Sherlock
Holmes e del dottor Watson. Quanto mi sono mancati!
Continuo a scorrere i messaggi, rispondo a quelli brevi e lascio in
sospeso
quelli più impegnativi, finché mi imbatto in quel
nickname. Il cuore prende a
battermi forte nel petto senza un motivo razionalmente esplicabile. Non
capisco
da dove arrivi il leggero stupore che avverto dal momento che era stato
lui a
manifestare l’intenzione di non terminare la conversazione
con quell’unica
email.
Ma che diavolo mi sta succedendo?
Sono costretta a prendermi una pausa, quindi sospendo la lettura per
entrare
nell’account Twitter e fiondarmi sul profilo di Mark Gatiss:
in sei giorni avrà
pur dato qualche altra indicazione! E mentre carica telefono in
pizzeria
ordinando una bianca con wurstel, patatine e mozzarella.
Scopro che Gatiss ha seminato più di un indizio e questo mi
entusiasma
abbastanza da farmi affrontare l’email con uno spirito
migliore anche se non mi
impedisce di leggerla tutta d’un fiato. La data d'invio
corrisponde a due giorni dopo la mia prima ed unica risposta, ovvero il
giorno stesso in cui mi sono beccata la febbre.
Ti chiedo scusa per aver
ritardato tanto nel risponderti. Prima quasi ti chiedo
di non confinare la nostra conversazione ad un solo botta e risposta e
poi non
trovo il tempo da dedicarti. Se puoi, sorvola sui miei problemi di
tempismo e
accetta la mia massima contentezza nel leggere le parole che mi hai
gentilmente
riservato. Attendo con una certa ansia, che non mi premuro di
nasconderti, le
tue prossime deduzioni.
A presto, M.
Se
non sapessi per certo che Manuele non è a conoscenza del
mio blog, penserei che è un suo scherzo. M… Quale
nome si celerà mai dietro una
emme? E perché firmarsi con quella che potrebbe essere
l'iniziale del suo nome nel secondo messaggio e non nel primo?
Quest'uomo si veste volutamente con un manto di mistero. Sospiro e
decido di non rispondergli ancora: lo farò dopo aver postato
nuove deduzioni.
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Capitolo 6 *** Colpa del cuore ***
6. Colpa del cuore
Per ragioni forse pure
comprensibili, Mark Gatiss e i suoi hanno quasi smesso completamente di
lasciare indizi su Twitter. Il che per me sostanzialmente significa
tornare a lavorare esclusivamente sul materiale già a
disposizione. Che più o meno equivale a lanciarmi da un
aereo con un paracadute bucato. Non tanto perché io non sia
in grado di mettere insieme i puntini, ma più che altro
perché credo di aver già analizzato tutto
l'analizzabile.
Quindi,
cerco di guadagnare un po' di tempo in attesa di avere qualcosa di
nuovo da proporre ai miei lettori. Fortunatamente sono proprio loro,
spesso, a stimolarmi con i messaggi che mi scrivono. Con mio grande
piacere, il mio blog non è mai stato un monologo tra me e
me. Nelle ultime settimane, poi, ho parlato delle mie deduzioni molto
di più grazie alla presenza continua di M.
Non conosco praticamente nulla di lui, ma so per certo che è
un tipo che sa il fatto suo. Mi ha dimostrato di conoscere alla
perfezione tanto il Canone quanto le stagioni della serie tv della BBC.
Ciò che più mi piace del parlare con lui
è che ha sempre trovato il modo di non chiudere la
conversazione. Mi era già capitato di scambiare
più di due messaggi con i miei lettori, ma ad un certo punto
la questione si esauriva e non mi arrivavano più messaggi da
quell'utente se non in occasione di un nuovo articolo. Con M. invece
è diverso: non abbiamo mai smesso da quando mi ha scritto la
prima volta.
Questo mi confonde. E mi fa fare cose stupide, come questa...
[...]
A proposito, sai che il mio
inglese è una condizione necessaria agli utenti non italiani
che mi leggono. Che mi dici del tuo inglese invece?
La curiosità
mi ha spinta ad aggiungere una domanda personale che avrei fatto meglio
ad evitare.
Se
c'è una cosa che mi sono ripromessa quando ho avviato il
blog è il divieto assoluto di stringere amicizia con i
lettori. Non perché, come sostengono gli Holmes, i
sentimenti sono un ostacolo, ma semplicemente perché non
voglio che si arrivi a cercare un contatto per cose personali quali
possono essere uno sfogo che nulla ha a che fare con il senso del blog.
Mi conosco e so bene che poi finisco per fare quella che ascolta i guai
di tutti, per questo avevo preso quella decisione. Decisione mantenuta
fino a poco fa...
Il giorno seguente.
Anche se a Manuele ho raccontato di essermi impelagata in un romanzo
che non sono riuscita a mollare prima delle quattro di stanotte, il
reale motivo per cui ho dormito male come non accadeva da tempo,
influenza esclusa, è l'attesa. Non ho fatto altro, per tutta
la notte e per tutto il giorno, che attendere la risposta di M. alla
mia domanda invece di nascondermi in un angolo buio per aver anche solo
pensato di fargliela.
La stessa bugia la utilizzo per declinare gentilmente un invito al
cinema. Non mi piace nemmeno il film che danno, ma conoscendomi non
avrei rifiutato, per evitare di lasciare sola un'amica. Ho imparato
sulla mia pelle, però, che non tutti hanno la stessa premura
e forse, in fin dei conti sono io che sbaglio assecondando sempre gli
altri in onore di un sentimento ideale. In ogni caso non intendo
giustificare me stessa per la vera ragione di tutto questo. So che non
porterà a nulla di buono, perciò è
meglio che torni in me e la smetta immediatamente di comportarmi come
una ragazzina. Sono una blogger che scrive deduzioni, devo tenerlo bene
a mente.
Appena arrivata a casa, invece di avviare il computer come l'istinto
suggerisce, volo in cucina a preparare la cena e mi faccio tenere
compagnia dalla mia playlist preferita.
Faccio tutto tanto lentamente che alla fine riesco a rilassarmi
completamente e decido che per oggi non mi collegherò al
blog. Preparerò invece il prossimo articolo.
Il giorno dopo ancora, ore 21:13 PM
Una cosa che ho sempre trovato
molto interessante nella terza stagione di Sherlock è
Barbarossa, o Redbeard se preferite. Sia Mycroft Holmes che Charles
Augustus Magnussen hanno pronunciato questo nome e in entrambi i casi
abbiamo visto Sherlock esitare. La prima cosa che ho pensato nel
sentire questo nome è stata: che diavolo c'entra adesso
l'imperatore Barbarossa? Sono arrivata a considerare le ipotesi
più insensate di sempre pur di riuscire ad arrivare ad una
conclusione logica. Ovviamente non ho ottenuto risultati soddisfacenti,
ho quindi abbandonato l'idea dell'imperatore e ho atteso il punto
preciso, nell'episodio conclusivo della terza stagione, in cui
finalmente ci viene spiegato chi è davvero Barbarossa. È un
cane, come tutti ormai sappiamo, e più precisamente il cane
di Sherlock Holmes. Da come i due si incontrano di nuovo nel palazzo
mentale di Sherlock e da ciò che quest'ultimo dice si
può comprendere che quando lui era solo un bambino,
Barbarossa era il suo unico amico, l'unico a cui il piccolo Sherlock
volesse bene. Questo implica che, alla morte del cane, Sherlock abbia
sofferto molto dimostrando la vulnerabilità che deriva dal
provare sentimenti per qualsiasi essere vivente, animali compresi. Da
qui l'uscita telefonica di Mycroft, tempisticamente perfetta, capace di
far vacillare Sherlock al matrimonio del suo miglior amico, John Watson.
Dopo aver visto la 3x03
è chiaro il messaggio di Mycroft a suo fratello.
Sulla stessa linea viene a
trovarsi Magnussen che annovera Barbarossa tra i punti critici di
Sherlock Holmes.
Quali conclusioni possiamo
trarre da tutto ciò?
Sono trascorsi anni dalla morte
del cane, eppure Sherlock ha conservato intatto il legame con lui.
Aveva quindi ragione Moriarty, fin dall'inizio:
“Ti brucerò il cuore”
“Mi dispiace, ho saputo da fonti
certe che non ce l'ho”
“Ma sappiamo entrambi che non
è affatto così”
Concludo
segnalando una differenza tra la rivisitazione della BBC e l'opera di
Conan Doyle dove Barbarossa non compare affatto ed è anzi il
Dottor Watson ad avere un cane che porterà con sé
nell'appartamento al 221B di Baker Street.
A
voi ulteriori considerazioni!
Pubblico l'articolo e passo ai messaggi, trovando tra gli altri quello
di M.
Se sia rimasto sorpreso oppure no dalla mia domanda personale non l'ha
dato a vedere. La sua risposta trasuda gentilezza da tutti i pori... o
sono io che di nuovo mi lascio trasportare? Ma come si fa a non restare
incastrati se un tipo così interessante ti rivela anche di
essere un inglese di Londra?
Quando mi rendo conto di avergli raccontato della mia esperienza a
Londra quando avevo appena dodici anni è già
troppo tardi. Pure per il mio cuore.
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Capitolo 7 *** Un computer, una connessione a internet e una webcam ***
7. Un computer, una
connessione a internet e una webcam
Mi sono sempre
chiesta perché alcune risposte, per la precisione quelle
più azzeccate, vengano in mente ogni volta troppo tardi.
Mi sono sempre chiesta perché, a guardarla da lontano,
l'angoscia di un momento sembra spesso esagerata.
Mi sono sentita una stupida per un'intera settimana dopo aver
raccontato ad Emme della mia esperienza londinese.
Mi sono sentita ancora più stupida per aver raccontato
l'episodio a Manuele, in occasione della nostra prima ed unica uscita a
due. Effettivamente non so se mi sono sentita più idiota per
avergli parlato dei fatti miei oppure per aver accettato il suo invito.
Mi sono sempre interrogata sullo scorrere del tempo. Su quale base un
minuto conta sessanta secondi, un'ora sessanta minuti e un giorno
ventiquattro ore? Chi ha definito il concetto di secondo, minuto, ora,
giorno, mese, anno? E come? Qualsiasi siano le risposte ai miei
interrogativi, sono trascorsi tre mesi da quando ho parlato per la
prima volta con Emme.
Mi sono sempre domandata se quando qualcosa accade sia semplicemente
per destino. Se ciò che accade, accade esclusivamente in
base alle nostre scelte. Se il perché di un accadimento sta
da qualche parte tra il destino e le scelte di ognuno.
Poco importano comunque, adesso, le mie domande esistenziali.
Ostento calma mentre trascino me stessa e il mio bagaglio leggero
tentando di non perdermi tra decine e decine di persone e bagagli.
Ho preso un permesso al lavoro e ho avvisato i lettori della mia
assenza a tempo indeterminato.
Trovo un posto a sedere, ma non un reale rimedio alla tensione e
all'attesa. Senza neanche pensarci accendo il portatile e mi collego al
blog con l'intento di ripercorrere le ultime settimane di conversazione
con lui.
Sebbene io stessa fatichi a crederci, sono in aeroporto e stringo tra
le dita un biglietto di sola andata per Londra.
Il messaggio che cerco è esattamente quello che ha dato il
via a quella che considero la più grande avventura della mia
vita.
Eccolo...
[...] Hai mai pensato che tra tutti i
lettori del tuo blog potrebbe esserci qualcuno coinvolto in qualche
modo nella serie? Qualcuno di importante... qualcuno del cast? Che so,
magari Gatiss che in crisi viene a cercare qui ispirazione in compagnia
di Moffat. Magari qualcuno di loro ti ha anche scritto senza che tu lo
sappia. Ci hai mai pensato?
M.
Ricordo di aver riso per cinque minuti buoni prima che il dubbio
riuscisse ad insinuarsi in me.
Il problema più grande di chi ama le storie è che
se gli dai un input poi mica riesci a fermarle le rotelle della loro
fantasia. E da quel preciso momento per le mie rotelle non
c'è stata più pace.
Per quanto continuassi a ripetermi che Emme aveva soltanto
voglia di scherzare o di verificare se e quanto mi fossi montata la
testa, una parte di me iniziava a prendere in considerazione quell'idea
senza etichettarla come assurda, anche se lo era. Lo era?
Brutta bestia il dubbio.
Il vantaggio di un confronto virtuale sta nella virtualità
stessa: avvolta dalla confortante coperta dell'invisibilità
offerta da questo tipo di conversazioni, sono stata capace di dare una
risposta veritiera senza tradire il temporale di emozioni... Dirgli che
secondo me il blog non ha mai raggiunto un tale livello di fama da
attirare l'attenzione di gente famosa ed esprimergli i miei dubbi
riguardo al fatto che qualcuno tra gli autori e gli attori abbia voglia
di prendere in considerazione le deduzioni di una perfetta sconosciuta
che per hobby gioca al detective non è stato affatto
difficile. Il difficile è arrivato quando mi sono accorta,
ovviamente in ritardo, di aver tralasciato completamente la prima parte
del messaggio. Copertura saltata. Complimenti Zury, hai vinto un bel
mongolino d'oro a grandezza naturale.
Ricordo anche la risposta arrivata in tempo reale, cosa che non era mai
successa prima.
E se ti dicessi che io non sono
un semplice ragazzo che ama giocare al detective con te? Se ti dicessi
che sono Mark Gatiss?
M.
Perfino adesso, rileggendo, sento il panico scorrere in ogni parte del
mio corpo. Panico perché non riuscivo più a
capire dove volesse arrivare con quello scherzo. Panico
perché non capivo cosa lo spingesse a dirmi quelle cose.
Panico perché quella fastidiosissima parte di me continuava
a credergli.
La velocità con cui ho digitato la risposta e
l'esagerata pressione sugli innocenti tasti del mio pc non credo che li
dimenticherò mai.
Tanto ovvio quanto lecito il mio:
Ti chiederei di dimostrarmelo.
Temo che le farfalle che hanno cominciato a svolazzarmi nello stomaco
in quel momento abbiano deciso di stabilircisi in via definitiva. Le
sento ancora, veloci, forti e completamente impazzite. La dimostrazione
che ho chiesto è gelosamente custodita in una cartella di
questo computer. Decido di aprirla.
Foto1: Uomo
incredibilmente somigliante a Mark Gatiss, in un'abitazione. Mai vista
prima.
Foto2:
Uomo incredibilmente somigliante a Mark Gatiss sorride al fotografo.
Mai vista prima.
Foto3:
Uomo incredibilmente somigliante a Mark Gatiss, accanto a uomo
incredibilmente somigliante a Ian Hallard. Mai vista prima
Chiudo gli occhi e non riesco a non sorridere se ripenso a come sono
andate le cose. Gli ho detto che non gli credevo e lui, invece di
perdere la pazienza, ha continuato ad arricchire la mia fortunata
cartella.
Foto4: Mark Gatiss,
davanti al solito computer, mi mostra la nostra conversazione.
Foto5:
Mark Gatiss, di spalle. Nel fuoco dell'immagine il messaggio che sta
per inviarmi.
Foto6:
Mark Gatiss con un foglio in mano: Le tue deduzioni hanno quasi colto
nel segno.
Questa sesta foto mi ha quasi ammazzata.
Foto7: Mark Gatiss e Ian
Hallard insieme a Bunsen, il loro cane.
Foto8:
Mark Gatiss, sorride e fa OK con la mano.
Non ci ho dormito per giorni.
Ho affrontato i peggiori mal di stomaco che abbia mai avuto.
Sono stata assalita dai dubbi più atroci e da un'insicurezza
che mi ha mandata completamente in tilt. Insicurezza che lui ha colto
nelle conversazioni successive all'invio delle fotografie.
Ancora adesso non ho ben capito il perché della sua
ostinazione.
Chiudo la cartella e riapro la conversazione.
Ho in mano una carta che ti
convincerà definitivamente. Ti serviranno un computer, una
connessione a internet (e so per certo che hai entrambe le cose) e una
webcam (non ci provare, non ti credo se mi dici che non ce l'hai). Una
videochiamata chiarirà ogni cosa. E poi, con tutte le
fotografie che mi sono fatto scattare, merito o no di poter finalmente
associare un volto alle conversazioni di questi mesi?
Mark
Sono morta e resuscitata non so quante volte leggendo questa email.
Fatto sta che un'ora dopo indossavo una delle mie magliette preferite,
mi ero rifatta il trucco più per distrarmi che per apparire
affascinante, ed ero seduta davanti al computer, connessa ad internet e
con la webcam pronta per essere avviata. Mi tremavano le mani, ero in
anticipo di dodici minuti ed ero così fuori di testa da
scrivergli che potevamo avviare la videochiamata quando voleva.
Chiudo gli occhi e rivivo il momento.
Neanche un minuto dopo, la videochiamata arriva.
Il cuore in gola.
Le mani che tremano.
Le farfalle nello stomaco.
Il panico negli occhi.
Accetto.
I secondi che occorrono al collegamento mi sembrano anni.
Luce intensa che lentamente lascia spazio ad una sagoma. Poi a un volto.
Un uomo.
Maglietta arancione. Auricolari neri sfiorano le spalle e il petto.
Niente barba.
Sorride.
«Hi».
Il vuoto nello stomaco, neanche fossi sulle montagne rosse. È
così che è iniziata.
Sollevo la mano senza riuscire ancora a parlare.
Prendo
un profondo respiro. Spero di non avere la faccia da idiota.
«Somigli
troppo a Mark Gatiss per non essere Mark Gatiss».
Non ho sbagliato sintassi e pronuncia, vero?
Ride.
Ora te lo chiedo. Smettila di sorridermi così
però, ok?
«Scusami, parlare non
è come scrivere».
Continua a sorridere e dice che non devo preoccuparmi di nulla. Va
tutto bene.
La videochiamata più bella della mia vita.
Spengo il pc. È ora di prendere questo aereo.
È ora di scendere da questo aereo.
Deglutisco. I miei piedi vanno da soli verso la meta.
Impazzirò. Crollerò. Morirò.
Mi fermo.
Le farfalle nello stomaco non mi imitano. Peccato.
Ha detto che sarebbe venuto a prendermi e stavolta gli credo. Mi
starà già aspettando.
Accendo il telefono. Ci siamo scambiati i numeri ieri sera. Mi arriva
un sms.
"Lo
so che sei arrivata :) Coraggio!"
Ho la netta sensazione che il mio inarrestabile
sorriso sia dettato da una crisi isterica, la stessa che mi sta facendo
venire voglia di saltellare e correre.
Torno a muovermi.
Cammino veloce. Più veloce. Quasi corro verso di lui.
Eccolo. Lo vedo. È lui. È Mark.
Ho il cuore in gola, nelle tempie, nello stomaco. Ovunque.
Sono
davanti a lui.
«Hi», diciamo
contemporaneamente.
Ridiamo.
Quando
mi chiede come mi sento gli rispondo sincera.
«Felice».
N.d.A.
Ringrazio in anticipo quanti saranno riusciti ad arrivare fino in fondo
a questa storia, la prima che ho deciso di pubblicare qui.
La storia di questo racconto ha radici nella mia ammirazione nei
confronti di Mark Gatiss. Questi sette capitoli non hanno la pretesa di
essere una grande storia, vogliono essere soltanto una storia. Forse un
sogno nel cassetto.
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