I trentesimi Hunger Games

di Felix_Felicis00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo e regolamento ***
Capitolo 2: *** La mietitura - parte I ***
Capitolo 3: *** La mietitura - parte II ***
Capitolo 4: *** La mietitura - parte III ***
Capitolo 5: *** La mietitura - parte IV ***
Capitolo 6: *** Verso Capitol City ***
Capitolo 7: *** Riflessioni ***
Capitolo 8: *** Addestramento e alleanze ***
Capitolo 9: *** Desideri e speranze ***
Capitolo 10: *** Le interviste ***
Capitolo 11: *** Il bagno di sangue ***
Capitolo 12: *** L'arena ***
Capitolo 13: *** Prendere decisioni ***
Capitolo 14: *** Pianificazioni ***
Capitolo 15: *** Lo scontro ***
Capitolo 16: *** Ricordi ***



Capitolo 1
*** Prologo e regolamento ***


I TRENTESIMI HUNGER GAMES
PROLOGO E REGOLAMENTO


Tutto era pronto ormai.
Le telecamere erano state inviate ai distretti, con gli accompagnatori e la troupe televisiva.
I nomi, scritti su foglietti di carta, erano nelle bocce.
Le piazze erano state abbellite da stendardi colorati.
I ragazzi dai dodici ai diciotto anni erano stati radunati all’interno di zone delimitate da funi e contrassegnate a seconda dell’età, i più grandi davanti e i più piccoli dietro.
Ogni cosa era preparata, i trentesimi Hunger Games stavano, finalmente, per iniziare.

A Capitol City, l’Anfiteatro cittadino era stracolmo di gente, nella tribuna sopraelevata, riservata agli ospiti di prestigio, c’erano il Presidente Johnatan Clark e il Capo Stratega David Wood. Sul palco c'era Ray Carter, l’uomo che conduceva le interviste da quando gli Hunger Games erano iniziati, era pronto a commentare i tributi. Quell’anno i suoi capelli erano di un accesso verde, che faceva a pugni con il viola del suo completo. Sul viso c’era il suo solito sorriso smagliante e la felicità e l’emozione di quel momento la esprimevano anche i suoi occhi azzurri.
Nei distretti, i sindaci si avvicinarono ai microfoni, per tenere il loro solito discorso.
- Che i trentesimi Hunger Games abbiano inizio. E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore – disse Ray


SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti!
Piccola premessa: ho già due storie in corso, di cui una interattiva (sì, sono pazza), perciò gli aggiornamenti non saranno regolari, affatto.
Credo che tutti voi sappiate cosa sia un’interattiva, visto che ne girano tante, sia su questo, ma anche su altri fandom, comunque lo dico nel caso in cui qualcuno non lo sappia: i personaggi sono inventati da voi secondo i punti che io vi richiedo e io li collocherò nella storia, inventando la trama.
Se vi sembrerò severa nei punti che seguono, vi prego di non odiarmi, non sono cattiva, ma devo essere un po’ rigida, perché ho già un’interattiva e sono stata fin troppo buona e ho avuto un sacco di casini per questo, calcolate che alla fine mi sono messa a inventarmi cose dei personaggi perché le loro schede erano “spoglie” e gli autori che li avevano creati non davano segni di vita. Quindi non odiatemi <3
Ecco alcune cose che voglio dirvi:
  1. Non voglio storie d’amore tra tributi, siamo in un’arena e secondo me i tributi dovrebbero pensare di più a salvarsi e sopravvivere, che all’amore. Questo non vuol dire che vieto le situazioni sentimentali FUORI dall’arena, cioè i tributi possono avere un fidanzato/a che sia nel loro distretto, basta che non sia un tributo.
  2. Le morti le deciderò io, voi potrete decidere solo quante persone moriranno il primo giorno.
  3. Potete creare al massimo due tributi a testa, ma se non riceverò 24 tributi, potrei chiedervi di comprarene un altro
  4. Riguardo alle alleanze avete tre opzioni:
       a)  Fate entrare il vostro tributo a far parte del classico gruppo dei favoriti
       b)  Lo fate alleare con un altro tributo creato da voi
       c)  Vi mettete d’accordo con un altro autore/autrice per fare alleare i vostri tributi                                                                                 Altrimenti mi scrivete solo se vorreste che si alleasse con qualcuno o no e poi sarò io a scegliere con chi si alleerà. NON è detto che rispetti tutte le vostre richieste riguardo alle alleanze.
  5. La scheda me la dovrete mandare per MESSAGGIO PRIVATO, non per recensione, prima però dovete scrivermi una recensione con scritto quale/i tributi volete creare e mi manderete la scheda non prima di ricevere la mia risposta. 
  6. Voglio schede dettagliate e non “spoglie”, se lo saranno vi scriverò di riempirle e se non otterrò risposta entro due giorni, eliminerò il tributo. 
  7. Avete due settimane per mandarmi i tributi, se non li riceverò, prima vi contatterò e se non riceverò risposta li creerò io e li farò morire nel bagno di sangue, spero di non dover arrivare a questo.
  8. Il numero degli Hunger Games (trentesimi) l'ho scelto a caso... XD

Ecco la scheda che dovete mandarmi per messaggio privato (i punti con l’asterisco sono facoltativi):
NOME:
COGNOME:
ETA’:
DISTRETTO:
VOLONTARIO (se sì scrivete il perché):
SITUAZIONE SENTIMENTALE (single, fidanzato/a, sposato/a):
DESCRIZIONE FISICA:
DESCRIZIONE CARATTERIALE (dettagliata, per favore):
FAMIGLIA (componenti, età, stato sociale, rapporto con essa, qualche riga su di loro):
AMICI e NEMICI (scrivete anche il rapporto che ha con loro, se ha nemici scrivete il perché lo sono):
STORIA DEL PERSONAGGIO:
COSA AMA:
COSA ODIA:
COSA TEME (scrivete anche eventuali fobie):
ABILITA’:
DEBOLEZZE:
ALLEANZE (vedete punto quattro):
INTERVISTA (di cosa parla durante l’intervista)*:
SALUTI (come si comporta durante i saluti, cosa dice, eccetera):
CORNUCOPIA (tattiche scelte):
ADDESTRAMENTO (su cosa si allena):
RAPPORTI CON STILISTA E MENTORE:
ALTRO (curiosità, comportamento durante la mietitura, sul treno, durante la sfilata, eccetera...)*:      


DISTRETTO MASCHIO FEMMINA
1 OCCUPATO OCCUPATO
2 OCCUPATO OCCUPATO
3 OCCUPATO OCCUPATO
4 OCCUPATO OCCUPATO
5 OCCUPATO OCCUPATO
6 OCCUPATO OCCUPATO
7 OCCUPATO OCCUPATO
8 OCCUPATO OCCUPATO
9 OCCUPATO OCCUPATO
10 OCCUPATO OCCUPATO
11 OCCUPATO OCCUPATO
12 OCCUPATO OCCUPATO
   
.
Spero di aver detto tutto! Ah, sì, se c'è qualcuno che si offre per farmi da BETA mi farebbe un favore, non faccio moltissimi errori, però una vista dall'esterno a volte può servire. Proponetevi nella recensione, se vi va! Grazie.

Un bacione e a presto (spero),
Felix

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Capitolo 2
*** La mietitura - parte I ***


LA MIETITURA – parte I

DISTRETTO 12 - carbone

Joey Anderson odiava il distretto dodici. Proprio non riusciva a sopportarlo: gli abitanti erano sempre con una’aria moscia e triste, non erano mai allegri. Inoltre non c’era mai un volontario, mai! I tributi che estraeva finivano sempre con il morire nel bagno di sangue, o comunque non molto più tardi. Nonostante questo fece un sorriso alla gente del dodici, quando si avvicinò alle bocce di vetro. Camminava piuttosto lentamente, forse aveva paura di cadere come l’anno precedente, ma chi non sarebbe caduto con quei tacchi? A Joey comunque piacevano e poi bisognava essere alla moda a Capitol City.

- Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore! – disse con la sua voce stridula e fastidiosa, continuò il discorso raccontando di quando fosse felice di essere lì, anche se tutti sapevano che desiderava essere spostata a un distretto migliore.
- Prima le signore! – esclamò
Si avvicinò alla boccia contenente i nomi delle ragazze e tuffò la mano tra le migliaia di striscioline di carta, ne scelse uno a caso e il pubblico trattenne il fiato.
- Shanti Koyle – disse
Il mentore del distretto, un uomo basso e muscoloso, dai capelli castano scuro e occhi neri, rabbrividì. “Tutti ma non lei” pensò. Purtroppo non poteva far niente per cambiare le cose. Una ragazza alta e abbastanza formosa, con dei lunghi capelli neri legati in uno chignon laterale uscì dalla fila delle diciassettenni. Il suo sguardo trasmetteva fierezza, anche se suoi occhi verdi chiaro lasciavano trasparire un leggero timore. Sul palco cercò di sorridere al mentore, suo padre, anche se lui aveva lo sguardo perso nel vuoto. Joey la scrutò e il suo sguardo si fermò sulla catenella che portava al collo: aveva un ciondolo con scritto “always myself”. L’accompagnatrice sperò che le telecamere non la inquadrassero.
- Facciamo un bell’applauso al nostro nuovo tributo –
Nessuno applaudì, ma Joey non sembrò accorgersene e si avvicinò alla boccia dei ragazzi, prese una strisciolina di carta e lesse:
- Jim White –
Nessuno si fece avanti, allora la donna rilesse un’altra volta il nome e a quel punto un bambino di dodici anni avanzò lentamente, il pubblico lo guardò silenzioso, finché qualcuno urlò:
- Mi offro volontario! Mi offro volontario come tributo! –
Un ragazzo di diciotto anni avanzò velocemente verso il palco, quasi correndo, con i capelli color cenere mossi dal vento. Joey non riusciva a crederci: mai aveva visto un volontario nel distretto dodici!
- Come ti chiami? – gli chiese
- Blake, Blake Dawnson – rispose lui distrattamente, mentre con gli occhi nocciola cercava il ragazzino per cui si era offerto volontario
- Perché ti sei offerto volontario? – gli domandò sorridente, forse il primo sorriso sincero di tutta la giornata
- Solo perché non trovo giusto che dei dodicenni debbano partecipare a questi giochi –
Il sorriso sparì dal viso della capitolina, quell’anno le erano capitati due tributi ribelli. I due ragazzi si avvicinarono e si strinsero la mano. Shanti lo guardò attentamente e rimase colpita dalla voglia color marrone chiaro che aveva sulla fronte e dall’orecchino sull’orecchio sinistro. Dopo l’inno di Panem, vengono scortati dai Pacificatori nel Palazzo di Giustizia.

***


Shanti camminava su e giù per la stanza dove i tributi avevano la possibilità di salutare i propri parenti, prima di partire, forse per sempre. Non poteva credere di essere stata estratta, la sua famiglia era abbastanza ricca, visto che suo padre aveva vinto i quindicesimi Hunger Games, quindi non aveva molte nomine. Eppure era successo, doveva rassegnarsi all’idea e cercare di dimostrarsi forte. Riuscì a non piangere quando sua mamma, sua sorella maggiore e la sua unica amica Scarlett vennero a salutarla. Le abbracciò e promise loro che avrebbe cercato di vincere.


***


Blake si chiuse dentro la stanza, tanto nessuno sarebbe venuto a salutarlo. Tutta la sua famiglia era morta quando aveva solo sei anni, uccisa dai Pacificatori, e di amici non ne aveva. Era solo e, anche se non l’aveva detto, era per questo che si era offerto per gli Hunger Games: credeva di essere solo un peso, a nessuno importava di lui, mentre era sicuro che quel dodicenne avesse una famiglia e comunque era troppo giovane per morire.



DISTRETTO 11- agricoltura


Chanel Morgan, orribile nel suo vestito fucsia e con una tremenda parrucca verde, estrasse un biglietto dalla boccia contenente i nomi femminili con noncuranza. A lei infondo non importava niente dei tributi, le interessava solo lo stipendio che prendeva, così da potersi comprare tutto ciò che desiderava e inoltre amava apparire in televisione. Rimase infatti a fissare le telecamere un po’ più del dovuto e fu un colpo di tosse di un mentore a spingerla a leggere il nome scritto sulla striscia di carta.

- Alexandra Green –
Una ragazza abbastanza alta, con gli occhi marroni e i capelli neri, uscì dalla fila delle quindicenni e, con passo deciso, raggiunse la capitolina sul palco. Chanel non la degnò nemmeno di uno sguardo e prese subito un biglietto dalla boccia dei ragazzi; senza tante cerimonie disse:
- Matthew White –
Alexandra fu scossa da un brivido. “Non lui, non è possibile, non lui!” pensò. Come poteva lottare nell’arena contro un suo amico? Era già abbastanza difficile essere estratta, ma se poi doveva addirittura combattere contro di lui… Solo uno usciva vivo dagli Hunger Games, questo significava che almeno uno dei due sarebbe morto.
Sembrava che il ragazzo alto, muscoloso, con i capelli neri lunghi fino alle spalle e gli occhi marroni, che uscì dalla fila dei sedicenni, stesse pensando le stesse cose di Alexandra. Una volta sul palco la guardò, cercando di rassicurarla, anche se con scarsi risultati. Dagli sguardi che si scambiarono durante la stretta di mano, tutti capirono che non erano semplici compagni di distretto, ma amici, infatti avrebbero voluto abbracciarsi e confortarsi a vicenda.
Chanel li presentò velocemente al pubblico e poi entrò nel palazzo di giustizia, senza nemmeno curarsi di accompagnare i tributi, che vennero scortati dai Pacificatori fino alle stanze dove avrebbero salutato i loro cari.

***


Quando Samantha e Jacob, i genitori di Alexandra la vennero a salutare, lei li abbracciò subito.

- Tornerò, lo giuro – disse tra le lacrime, che cercava di fermare, per dimostrare di essere forte
I genitori erano davvero scossi: quel giorno, infatti, non avevano solo perso Alexandra, ma anche Matthew, che consideravano come un figlio, da quando praticamente viveva a casa loro. Infatti all’età di tredici anni il ragazzo perse la sua famiglia, uccisa dai Pacificatori, e venne accolto dalla ragazza in una giornata di pioggia. Da quel giorno passa a casa dei Green per mangiare e dormire, si può quindi dire che viva con loro.
Anche la migliore amica di Alexandra, Emily, la venne a trovare. Le due rimasero abbracciate per tutta la durata dei saluti, nessuna delle due poteva credere di stare per perdere la persona con cui era solita confidarsi, alla quale raccontava tutti i segreti.

***


Matthew stava camminando su e giù per la stanza, quando il suo migliore amico, Trevor, entrò a salutarlo. Si abbracciarono subito, senza dire niente, troppo scossi per farlo. Quando il tempo stava per scadere Matthew disse:

- Tornerò, fratello –
Non aggiunsero altro, né un “ciao”, nemmeno un “addio”, solo un altro abbraccio, forse l’ultimo, per far capire all’altro quanto fosse importante.

DISTRETTO 10 – allevamento


Diane Wright era conosciuta per essere l’accompagnatrice più critica tra tutte, giudicava sempre i tributi che estraeva in ogni cosa: nell’aspetto fisico, nel nome e persino nell’andatura che avevano nel camminare verso il palco. Per questo suo lato critico era odiata da tutti gli abitanti del distretto dieci, ma nemmeno a Capitol City era considerata particolarmente simpatica: trovava sempre il pelo nell’uovo in tutto! Quando Felicity Morrison arrivò sul palco la squadrò dall’alto in basso: era piuttosto bassa, aveva lunghi capelli biondo cenere e gli occhi erano di un colore che andava dal verde al marrone. Diane fece una smorfia alla vista dei vestiti che erano tutto tranne che carini ed eleganti e preferì dirigersi subito alla boccia dei nomi dei ragazzi. Estrasse una strisciolina di carta e lesse un nome, che però venne coperto da un urlo:

- Mi offro volontario, mi offro volontario come tributo! –
Un ragazzo alto, con la carnagione chiara, capelli castani e occhi nocciola, abbastanza muscoloso uscì dalla fila dei diciassettenni, con aria noncurante. Mentre camminava verso il palco, una ragazza dai capelli rossi e mossi, piccola e minuta, lo seguiva con lo sguardo, scuotendo la testa.
- Come ti chiami? – gli chiese Diane, guardando con aria scettica i suoi vestiti trasandati e i suoi capelli un po’ troppo lunghi
- Jack –
- E? –
- Jack e basta, mi chiamo Jack –
- Okay ragazzo, ma qual è il tuo cognome? – chiese la capitolina spazientita
- Non lo conosco – rispose lui tranquillamente
- È uno scherzo? –
- No, nessuno scherzo signorina Wright. Jack non conosce davvero il suo nome, vive in un orfanatrofio, i suoi genitori sono morti negli Hunger Games, ma non sappiamo bene chi siano – rispose il sindaco
Diane non disse più niente, anche se continuò a borbottare qualcosa come: “Non è possibile, non si può non avere un cognome, ma guarda un po’!”
I due ragazzi si strinsero la mano e Jack lanciò a Felicity un sorriso di sfida, che lei ricambiò, non voleva che quel ragazzo pensasse, che tutti pensassero, che lei fosse debole. Felicity non si riteneva debole, affatto.

***


Felicity stava piangendo tra le braccia della madre, Sarah, nonché la sua migliore amica, a lei infatti confidava tutti segreti. Il padre di Felicity, Jake Morrison, era stato ucciso dieci anni prima da un assassino che non era ancora stato trovato. La madre si era risposata con Mark Sanders e avevano avuto tre gemelle, che ora avevano solo sei anni: Micol, Samantha e Marie. Per lei erano molto importanti e voleva loro un mondo di bene.

- Vincerò, lo farò per voi – disse tra le lacrime, dopo aver abbracciato la madre e le sorelle
A Felicity non piaceva particolarmente Mark, anzi si poteva benissimo dire che l’odiasse, ma sapeva che se lei fosse morta, sarebbe toccato a lui occuparsi della sua famiglia e sarebbe stato suo compito consolare Sarah e le gemelle, perciò si rivolse a lui con un tono che non lasciava spazio a proteste:
- Se non dovessi tornare, toccherà a te prenderti cura di loro e sappi che se non lo farai mi vendicherò da morta! –
- Non ti preoccupare, Felicity – le rispose cercando di rassicurarla
Dopo la sua famiglia entrò a salutare la ragazza Samuel Jones, il suo fidanzato. Non appena la vide l’abbracciò forte.
- Felicity, io. . . Vinci, non posso stare senza di te. Promettimi che ci proverai –
- Lo prometto –
- Ti amo –
- Ti amo anch’io -  gli rispose cercando di trattenere le lacrime
Il ragazzo la baciò, cercando di trasmetterle tutto quello che le voleva dire e che in quei pochi minuti di tempo non avrebbe fatto in tempo a riferirle. Quando anche lui se ne andò si asciugò le lacrime e riacquistò il suo solito sguardo determinato: non si sarebbe mostrata debole alle telecamere.

***


L’unica persona a salutare Jack fu Jacqueline, che appena entrò nella stanza urlò:

- Perché accidenti l’hai fatto? –
- Era una scommessa, ricordi? Una nostra scommessa, su chi dei due era più coraggioso –
- Sì, ma non dovevi fare questo. Potresti morire, Jack –
- Non morirò, non ti lascerò sola in questo schifo – le disse e lo sguardo della ragazza si addolcì un po’ e lo abbracciò
- Se per ricevere un tuo abbraccio devo iscrivermi agli Hunger Games, credo proprio che lo farò più spesso –
- Stupido – disse lei, tirandogli una gomitata nelle costole, ma non spostandosi dal suo abbraccio
- Guarda che se morirò e questa sarà l’ultima parola che mi hai detto te ne pentirai! –
- Tornerai, vero? –
- Certo, tornerò –
Quando il tempo per stare insieme finì, lui le lasciò un bacio sulla guancia e le sorrise rassicurandola. Pensò che forse avrebbe potuto dirle che provava qualcosa per lei, ma non ne era sicuro nemmeno lui e poi perché dirle una cosa del genere prima di andare incontro a una possibile morte? Meglio aspettare, se fosse tornato gliel’avrebbe detto.


SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti ^.^
Ecco qui la prima parte della mietitura, ho deciso di dividerla in quattro parti, così, anche mettendo i saluti di entrambi i tributi, non esce un capitolo troppo lungo.
Per quanto riguarda i tributi, spero di averli descritti bene, se trovate qualcosa che non va ditemelo pure, ci tengo che i personaggi risultino come li volevate voi.
Le accompagnatrici che conoscerete saranno per la maggior parte, se non tutte, antipatiche, ma adoro scrivere di loro.
Parlando dei capitoli futuri, non ho ancora deciso bene cosa fare, credo che farò un capitolo sul treno, uno su sfilata e allenamento insieme, uno sulle interviste e poi l'arena, ma non ne sono sicura.
Riguardo l'arena dichiaro aperte le votazioni su quanti morti ci saranno il primo giorno: voi scrivete un numero di morti nella recensione e poi io ne farò una media. Le votazioni chiuderanno dopo le mietiture, credo.
Chiedo ai creatori che hanno prenotato i tributi dei distretti 7-8-9 di mandarmi al più presto le schede, ovviamente non quelle che mi sono già arrivate.
Okay, ho finito, giuro! Ringrazio solo la mia BETA, La_Sniffa_Libri che mi ha corretto il capitolo! <3
Se vi va lasciatemi una recensione <3
A presto! Un bacione,
Felix
p.s. Sono l'unica a pensare che Jack e Jacqueline siano altamente shippabili? Peccato che lui stia andando in un'arena in cui ha una possibilità su ventiquattro di sopravvivere, mi sento sadica! p.p.s. Se volete potete mandarmi il prestavolto dei vostri tributi, qui vi lascio quello di Felicity Morrison, distretto 10: http://data3.whicdn.com/images/96874460/large.jpg

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Capitolo 3
*** La mietitura - parte II ***


La mietitura – parte II

DISTRETTO 9 – grano


Estelle Harrison era probabilmente l’accompagnatrice, se non la donna, più stupida che si fosse mai vista. Faceva sempre battutine idiote che non facevano ridere nessuno, era ingenua e la sua risata era fastidiosissima. Persino le altre accompagnatrici non la sopportavano.

- April Joyce. Forza, cara, vieni sul palco! Vogliamo vederti tutti! –
Una ragazza piuttosto bassa e magra, con lunghi capelli biondi e mossi e un paio di bellissimi occhi azzurri, un po’ all’infuori, uscì dalla fila delle quindicenni.
- Dove sei, April? – chiese Estelle, anche se la ragazza aveva ormai raggiunto il palco – Oh, ma sei qui! – disse, per poi ridere istericamente.
- Come ti senti, cara? – chiese dopo
- Un po’ nervosa e agitata, ma immagino sia normale, no? Insomma, sono appena stata estratta per gli Hunger Games. E lei invece come sta? –
- Io? Ehm, io sto bene! –
- Com’è fare l’accompagnatrice? Deve essere emozionante! –
- Oh sì, lo è certo. Però ora credo che devo finire il mio lavoro, avremo modo di chiacchierare sul treno – le rispose sorridente
A Estelle non le era mai capitato di vedere un tributo così sorridente ed estroverso, doveva essere il suo giorno fortunato perché lei sarebbe andata sicuramente d’accordo con una ragazza come April.
“Deve essere molto forte, per essere così tranquilla. Oppure è solo ottimista”
April, in realtà, non aveva nessuna abilità segreta ed era sì ottimista, ma sapeva che sarebbe morta, preferiva però sorridere e cercare di stare serena per tranquillizzare la sua famiglia e i suoi amici.
Estelle si avvicinò alla boccia contenente migliaia di striscioline di carta e ne pescò una. Portò il microfono vicino alla bocca e dopo un attimo di silenzio lesse:
- Jake Sander –
Un ragazzo con dei profondi occhi marrone scuro, con i capelli castani tenuti perfettamente ordinati, alto e magro, uscì dalla fila dei sedicenni e s’incamminò verso il palco con aria preoccupata.
L’accompagnatrice lo accolse con un sorriso e gli chiese:
- Come ti chiami giovanotto? –
- Ehm. . .Jake Sander, ma ha appena letto il mio nome –
- Oh già, hai ragione! Che sbadata! –
La capitolina scoppiò a ridere, mentre il ragazzo fece un sorriso tirato e poi cercò con gli occhi i suoi fratelli tra il pubblico. Avevano sempre superato tutto insieme: la morte dei loro genitori l’anno prima e la conseguente caduta in povertà, la lotta contro la fame e il continuo nascondersi in baracche disabitate per non essere rinchiusi in orfanatrofio. Ora che avevano finalmente ottenuto il consenso del sindaco di vivere da soli, era stato estratto per gli Hunger Games e stavolta non ci sarebbero stati i suoi fratelli con lui.
Dopo la stretta di mano e l’inno di Panem, i tributi vennero scortati all’interno, fino alle salette dove salutare, forse per l’ultima volta, i propri cari.

***

La famiglia di April era composta da cinque persone serie e disciplinate, con una visione malinconica della vita; e poi c’era lei, che era considerata la pecora nera della famiglia, il suo carattere non aveva niente a che fare con il loro. Nel distretto veniva addirittura considerata un po’ matta e spesso la sua famiglia era finita nei guai per colpa sua, visto che invece di lavorare preferiva gironzolare e bighellonare, causando così la rabbia dei Pacificatori. La sua famiglia nonostante questo le voleva molto bene e i cinque furono i primi ad andare a salutarla. Lei li accolse con un sorriso e la prima cosa che di fece fu raccontar loro una barzelletta.

- April, è questo che vuoi dirci prima di partire? Una barzelletta? – chiese sua mamma Clarity, un po’ stupita
- Volevo farvi ridere un’ultima volta, prima di morire. . . – rispose lei con un tono triste che non le apparteneva
Lakeisha, sua sorella di dodici anni, scoppiò a piangere, sotto lo sguardo confuso di Mary, di soli quattro anni. April si avvicinò alle due e disse:
- Ascoltatemi, se un giorno verrete estratte cercate di vedere gli Hunger Games come un reality popolare e divertentissimo, così affronterete i giochi più serenamente –
- Farai così anche tu? – chiese Mary
- Certamente – rispose sorridendo e si rivolse a tutti – Non preoccupatevi per me, la terra continuerà a girare anche quando io non ci sarò più –
- Provaci, April. Ti vogliamo bene – le disse suo padre, Ivan
- Vi voglio bene anch’io –
La sua famiglia uscì e rimase solo Maurene, sua sorella maggiore, di diciannove anni, nonché la preferita di April. Le due si abbracciarono e poi la più giovane disse:
- Spero che ce la farai a diventare una poetessa, proprio come sogni. Sei bravissima, ricordatelo. Ti voglio bene, Maurene –
- Grazie, April. Ti voglio tanto bene anch’io –

***

I primi ad andare a salutare Jake furono i suoi fratelli: Micheal di diciannove anni, le gemelle Roxanna e July di quattordici anni e Sheela di undici anni. Lui li abbracciò tutti, uno per uno, cercando di mantenere un’espressione indifferente per nascondere la paura che invece lo tormentava. Sheela però riuscì a leggergli la paura negli occhi e allora gli disse:

- Promettimi che cercherai di vincere –
- Lo prometto, Sheela. Vi voglio bene, ragazzi –
Dopo di loro toccò al suo amico Claus andare a trovarlo, dopo averlo abbracciato disse:
- Alec e Marcus non verranno. Marcus è troppo malato, non è nemmeno venuto alla mietitura e Alec sta ancora male per la morte dei suoi genitori –
- Certo, capisco. Me li saluterai? –
- Ovviamente, Jake. Tornerai? –
- E come? Io non voglio uccidere nessuno –
- Lo so, ma non puoi lasciare soli i tuoi fratelli e nemmeno noi, siamo tuoi amici! –
- Ci proverò, Claus. Ti voglio bene –
- Anche io, Jake –


DISTRETTO 8 – tessuti

Becca Collins era l’accompagnatrice più sbrigativa di tutte: non sopportava perdere tempo in inutili cerimonie e le sue mietiture erano quelle più brevi di tutte. Appena finito il discorso del sindaco si avvicinò al microfono e disse:

- Felici Hunger Games e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore! Bene, passiamo subito alle mietiture! –
Si avvicinò alla boccia contenente i nomi delle ragazze e, senza nemmeno  mischiare, prese una strisciolina di carta e scelse tra vite, amicizie, amori, sogni e desideri.
- Reylen  Sheed –
Una ragazza abbastanza magra, con il corpo non particolarmente muscoloso e scarno uscì dalla fila delle diciassettenni e si diresse verso il palco con aria sicura. Il viso era pallido, spigoloso e con i lineamenti accentuati, i capelli castani erano legati in una crocchia, gli occhi erano verdi e leggermente allungati, mentre le labbra erano sottili e rosee.  Una volta sul palco mantenne uno sguardo fiero, senza tentennamenti, cercando di mostrarsi forte e indifferente. Becca la squadrò dall’alto e in basso con aria critica, ma senza far trapassare nessun pensiero e poi chiese:
- C’è qualche volontario? –
Nessuno alzò la mano e allora l’accompagnatrice si diresse alla boccia dei ragazzi con una scrollata di spalle. Il ragazzo scelto fu:
-  Vegas Ghellow –
Un urlo di una ragazza si levò dalle file del pubblico e un ragazzo alto e muscoloso, con i ricci capelli castano scuro tenuti legati, uscì dalla fila dei diciottenni con passo piuttosto sicuro. I suoi occhi color nocciola risaltavano sulla pelle pallida del suo viso e trasmettevano più determinazione e speranza che disperazione. Quando arrivò sul palco le telecamere si fermarono un attimo ad inquadrare una cicatrice che aveva sul braccio sinistro. Nessun volontario nemmeno per lui, ma Becca non si disperò: i tributi quell’anno sembravano piuttosto determinati a vincere e anche se così non fosse stato non le sarebbe importato più di tanto.
Prima di stringere la mano a Reylen, gli occhi di Vegas vagarono sul pubblico e si fermarono sulla ragazza che prima aveva urlato, ma lei non lo stava guardando, infatti teneva la testa tra le mani: stava piangendo. Si girò verso la sua compagna di distretto e le fece un sorriso tirato, mostrando il suo incisivo scheggiato, e poi le allungò la mano. Lei lo osservò un attimo e poi ricambiò la stretta.
- Forza ragazzi, non abbiamo tempo da perdere! Non possiamo stare qui tutto il giorno! Entrate nel Palazzo di Giustizia, forza! – disse Becca, prima di salutare il pubblico con un cenno di mano ed entrare nell’edificio, seguita dai tributi.

***


Reylen stava seduta su una sedia di velluto e si torturava le dita per la tensione. Rifletteva su quanto stupidi fossero gli Hunger Games: buttare in un’arena ventiquattro ragazzini, di cui la maggior parte deboli e malnutriti, a uccidersi a vicenda. Odiava Capitol City con tutta se stessa. Forse solo ora che si trovava in questa situazione riusciva a capire sua madre, il perché se ne era andata lasciandola sola.

“Che cosa stai pensando, Reylen? Tu la odi, lei ti ha lasciato sola, anche se avevi solo dieci anni. È colpa sua se hai vissuto un anno da ladra e da senzatetto!”
Sospirò e osservò il paesaggio dalla finestra, non che fosse bello: c’erano solo strade trafficate, nessun grande prato o fiume o lago, nemmeno un piccolo bosco. Era un paesaggio urbano, niente di che, ma era sempre il suo distretto e poteva essere l’ultima volta che lo avrebbe visto. Qualcuno entrò nella stanza e lei rivolse lo sguardo alla porta: Marcus e suo figlio diciannovenne, Theodore.
- Reylen, io. . . – iniziò Marcus
- Non ho voglia di vedervi, sono ancora arrabbiata con te, lo sai. Tu mi hai mentito per tutti questi anni: sapevi che mia madre era viva e non me l’hai detto! – disse lei alzando la voce
- Alla fine te l’ho detto, Sibileen mi aveva chiesto di fartelo sapere solo quando tu saresti stata pronta! –
- Quindi ero pronta per imparare a costruire bombe, a usare armi da fuoco e a fare combattimenti corpo a corpo. Ero pronta per sfuggire all’orfanatrofio, per sopportare l’abbandono di mia madre, per vivere e crescere da sola, ma non ero pronta a sapere che mia madre fosse ancora viva? –
- Io credo che. . . –
- Non m’interessa, ora andatevene, voglio stare sola! –
- Va bene. Ti voglio bene, Reylen, puoi farcela! –
Lei non rispose, ma Marcus uscì comunque, seguito da Theodore, che era stato in silenzio per tutto il tempo. Poco dopo, però, il ragazzo tornò nella stanza, questa volta da solo.
- Cosa fai qui? – chiese lei, fredda
- Volevo salutarti e augurarti buona fortuna –
- Grazie, Ted –
- Sei in gamba, Reylen, puoi vincere, lo so! –
Lei fece una smorfia: non ci credeva.
- Confida nelle tue capacità e sfrutta ciò che hai imparato –
- Lo farò –
- Tempo scaduto – disse un Pacificatore
- Ciao, Reylen –
- Ciao, Ted –

***

Vegas accolse i suoi genitori e la sua sorellina Coralyn, di soli cinque anni, con un sorriso. Sua madre, Meredith, una bella donna, nonostante i suoi quarantasei anni, lo abbracciò all’istante, piangendo.

- Mamma, va tutto bene –
- Come fai a dire che va tutto bene? Stai per andare agli Hunger Games, te ne rendi conto? –
- Lo so, ma non sono spaventato. Io credo di potercela fare e se vincessi potremmo diventare ricchi, non sarebbe bello? – poi si rivolse alla sorella - Coralyn ti potrò portare in piazza non più solo a guardare le vetrine, ma anche a comprare qualcosa! –
- Vegas, non m’importa niente dei soldi, voglio solo che tu torni a casa sano e salvo – rispose la madre
- Ci proverò –
Sua sorella lo abbracciò e poi fu il turno di suo padre, che, a testa bassa, gli disse:
- Mi dispiace di non esserti stato vicino, di non averti rivolto la parola per mesi e di non averti aiutato anche se ne avevi bisogno. Ho sbagliato, spero che mi perdonerai. Tu e Amens siete una coppia bellissima e non importa se siete giovani, sono sicuro che sarai un ottimo padre –
Vegas lo abbracciò forte: gli era mancato tanto suo padre.
- Sono fiero di te, Vegas. Ti voglio tanto bene –
- Te ne voglio tanto anch’io –
Il tempo finì presto e, dopo la sua famiglia, fu il turno di Amens, la sua fidanzata, di andare a salutarlo. Appena lo vide corse ad abbracciarlo in lacrime, lui la strinse forte, accarezzandole dolcemente la schiena per calmarla.
- Ehi, piccola, non piangere. Sono ancora qui, non sono morto, okay? –
- Tornerai? –
- Certo, non ti lascerò sola, anzi non vi lascerò soli – le rispose accarezzandole dolcemente il ventre.
- Ti amo –
- Ti amo anch’io – disse prima di baciarla
- Ascoltami, Amens: prendi questo, è un anello d’oro, me l’ha regalato mio nonno prima di morire, è l’unica cosa di valore che appartiene alla mia famiglia. Se io dovessi morire, lo venderai, così guadagnerai qualche soldo e potrai crescere nostro figlio –
- Io. . . –
- Non dire niente. Vieni qui – disse lui abbracciandola.

DISTRETTO 7 - legname

Stephan Robinson adorava il distretto sette: era pulito, c’era sempre un buon odore di pino e i tributi erano per la maggior parte forti, visto che erano falegnami. Gli piaceva fare l’accompagnatore e preferiva farlo in un distretto di medio livello, come il sette, che in uno come il due, quelli dei favoriti. Lì i tributi erano sempre uguali: belli, forti e determinati a vincere, non c’era mai niente di nuovo, dopo un po’ ci si annoiava e Stephan odiava la noia.

- Allison Thomas – disse prima di sorridere
Il mentore del distretto trasalì: sua figlia. Non era vero, non poteva essere vero.
Una ragazza alta, magra, ma con le curve al posto giusto, uscì dalla fila delle sedicenni con aria preoccupata, ma allo stesso tempo determinata. La pelle era chiara, le labbra erano rosee e carnose, mentre il naso era a patata. Si passò una mano tra i lisci capelli rossi, mentre con gli occhi color smeraldo osservava suo padre, che la fissava con sguardo vacuo. Raggiunse il palco e Stephan le sorrise, poi chiese al pubblico:
- Ci sono volontari? –
Nessuno alzò la mano e l’accompagnatore scrollò le spalle: non ci sperava e poi la ragazza non sembrava troppo debole. Allison strinse i pugni fino a far diventare le nocche bianche per trattenersi dall’urlare a tutti la sua rabbia e il suo odio verso Capitol City, odio che era aumentato dalla morte della sua amica Jane.
Stephan pescò una strisciolina di carta dalla boccia dei nomi maschili e poi si portò il microfono vicino alla bocca e disse:
- Mark Roberts –
Si udì l’urlo di una donna, ma nessuno veniva verso il palco. Stephan rilesse il nome, ma ancora niente, finché qualche ragazzo spinse un bambino di appena tredici anni fuori dalla massa. Era mingherlino, basso, con i capelli castani ben pettinati, i suoi occhi erano verdi; indossava abiti vecchi, che gli stavano più grandi di almeno due taglie e aveva un’aria scioccata sul volto. Non si muoveva, restava semplicemente lì, tra il gruppo di maschi e quello delle femmine, immobile. Il pubblico era in silenzio, si sentiva solo una donna piangere debolmente in lontananza. L’accompagnatore sbuffò: questa situazione si stava dilungando per troppo tempo, così disse:
- Forza ragazzino, vieni sul palco! –
Allison lo trucidò con lo sguardo, ma Stephan non se ne accorse. Mark cominciò a camminare piano verso il palco, mentre calde lacrime gli rigavano il viso. Nessun volontario nemmeno per lui. Quando arrivò il turno di stringersi la mano, la ragazza lo abbracciò, facendo commuovere il pubblico di Capitol City, ma lei non lo faceva di certo per questo, anzi.

***

Le prime persone ad andare a salutare Allison furono sua madre Kate e sua sorella Alexis, di soli sei anni. Era una bambina molto dolce e timida, i suoi capelli erano rossi come quelli di sua sorella ed erano legati in due treccine, ma gli occhi erano nocciola e ad Allison ricordavano quelli di un cerbiatto. Le abbracciò subito cercando di non piangere e di mostrarsi forte.

- Papà non c’è, lo stanno intervistando, credo - disse sua madre
- Okay, lo vedrò sul treno, non c’è problema –
- Allie. . . –iniziò Kate
- Va tutto bene, tornerò, ce la posso fare. Mi sono allenata –
- Cosa hai fatto? – chiese sua madre un po’ stupita
- Dopo la morte di Jane negli Hunger Games, io, James e Mary abbiamo deciso che non doveva morire nessun altro di noi e ci siamo allenati un po’. So che non sarò mai al livello dei favoriti, ma io ci proverò –
Kate annuì e abbracciò di nuovo la figlia.
- Ti voglio bene – disse Alexis
- Anche io, piccolina. A tutte e due –
- Ti voglio bene anche io, Allie – disse la madre
La ragazza le abbracciò un’altra volta e poi il tempo finì. Dopo la famiglia, toccò a James, il suo ragazzo, andare a salutarla. Lei lo abbracciò subito, lasciando cadere le lacrime che aveva trattenuto per tutto quel tempo, mentre lui le accarezzava dolcemente la schiena.
- Ce la farai, okay? Lo so. Tieni: è il foglio con scritto le varie strategie che avevamo preparato –
- Grazie. James, ti devo chiedere una cosa: se io dovessi morire, prometti che allenerai mia sorella, che le insegnerai come usare qualche arma? Non voglio che debba toccare anche a lei, ma nel caso succedesse, ho bisogno di sapere che lei potrebbe avere una possibilità –
- Lo farò, Allie –
- Ti amo –
- Ti amo anche io –
Dopo James fu il turno di Mary, la sua migliore amica. Le due si abbracciarono a lungo, poi Allison disse:
- Vincerò, per Jane. Mi vendicherò della sua morte –
L’amica non rispose e l’abbracciò ancora. Poi le passò una scatolina, la ragazza la guardò sorpresa, poi l’aprì. Dentro c’era un braccialetto con scritto “Allison”.
- Grazie – disse la ragazza
- L’avevo preso per il tuo compleanno, ma ora puoi usarlo come portafortuna –
- Non dovevi comprarmelo, ti sarà costato un occhio della testa! –
- Non ti preoccupare. Ti voglio bene –
- Anch’io, Mary –

***

Mark ricevette la visita solo della sua famiglia, non aveva amici molto stretti nel distretto, era troppo timido e introverso per averne. Per questo non aveva avuto nessuno disposto ad offrirsi per lui, la maggior parte delle persone del distretto nove non sapeva nemmeno che lui esistesse. Era piccolo e perciò qualcuno di buon cuore avrebbe potuto farlo, ma in quel caso si parlava di vita o di morte e nessuno sarebbe disposto a rischiare così tanto per una persona che nemmeno si conosce. Nessuno. Sua madre, Helen, pianse per tutto il tempo, abbracciando forte suo figlio. Suo padre, Josh, era disperato, credeva fosse tutta colpa sua.

- Mark, perdonami. Se io avessi trovato un lavoro migliore, con uno stipendio più elevato, ora tu non saresti qui! Non avresti mai dovuto prendere le tessere e. . . –
- Papà, non è colpa tua, è colpa solo di Capitol City. Vi voglio bene, non dimenticatevi di me –
- Non potremmo mai farlo – rispose sua madre tra i singhiozzi
- Christine – disse rivolgendosi a sua sorella, di un anno più piccola di lui - se verrai estratta anche tu, un giorno, abbi coraggio e non avere paura -
Abbracciò uno per uno ciascun membro della famiglia e quando il tempo finì e loro se ne dovettero andare pianse tutte le sue lacrime. Era stato estratto, era tutto vero.



SPAZIO AUTRICE!
Ciao a tutti <3
Ho varie cose da dire che divido in punti, perché mi piace così u.u
  • Scusate il ritardo, ma giuro che non è colpa mia, non del tutto almeno. La ragazza che aveva prenotato i tributi maschi del sette e dell'otto è scomparsa nel nulla, infatti ho postato un capitolo avviso per chiedere se ci fosse qualcuno disponibile a crearli. Il ragazzo dell'otto mi è arrivato, ma chi aveva prenotato quello del sette è scomparso e l'ho creato io. Non vi preoccupate, morirà il primo giorno.  
  • Due persone hanno rinunciato a creare il loro tributo e un’altra persona non ha risposto ai due messaggi che le avevo mandato per chiederle se avesse ancora intenzione di mandarmi il personaggio che aveva prenotato. Perciò mi mancano ben due tributi (visto che il maschio del tre lo crea mia sorella), quindi se c’è qualcuno che mi riesce a mandare le schede IN FRETTA me lo potrebbe scrivere per recensione?       I tributi che mi mancano sono le femmine del distretto tre (PRENOTATA) e del distretto sei (PRENOTATA).
  • CHI NON MI HA ANCORA MANDATO LE SCHEDE ME LE MANDI VELOCEMENTE! Sì, sto urlando, così magari vi metto fretta. Davvero, altrimenti sono costretta a fare come ho fatto al punto sopra :(
  • Ho paura di aver descritto i vostri tributi in modo completamente sbagliato, specialmente Reylen (che credo di aver fatto troppo aggressiva) e April (che credo di aver fatto troppo superficiale). Ho riscritto le loro parti centomila volte, ma meglio di così non mi escono :( Sempre parlando di Reylen so che non si capisce molto della sua storia, ma è quello che volevo, perché dandovi alcune informazioni vi avrei detto troppo, scoprirete tutto pian piano (quindi anche chi sono Marcus e Theodore e che cosa sono per lei).
  •  La media dei morti del primo giorno è per ora 6,8 quindi sette morti. Le votazioni sono ancora aperte :)
Okay, ho finito gli annunci da dare, spero di non essermene dimenticato nessuno XD Scusate per lo spazio autrice così lungo!
Volevo ringraziare quelle benedette dieci persone che hanno recensito lo scorso capitolo <3 E la mia BETA <3
Se vi va lasciatemi una recensione, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Un bacione,
Felix

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Capitolo 4
*** La mietitura - parte III ***


La mietitura – parte III    

DISTRETTO 6 – trasporti


Serena Thompson odiava il distretto sei: era pieno di fabbriche ed era terribilmente inquinato, non era uno di quei distretti di cui potevi ammirare il paesaggio. E poi le persone: quanto odiava le persone di quel distretto! Tutte stanche, tristi, depresse e la maggior parte era drogata di morfamina.


- Buongiorno a tutti abitanti del distretto sei! Vi vedo un po' giù di morale, per fortuna oggi c'è la mietitura, che vi rallegrerà sicuramente la giornata! –

Nessun commento, niente di niente. Come poteva lei, così energica e allegra, essere l'accompagnatrice di un distretto così smorto e triste? Sospirò e poi si avvicinò alla boccia dei nomi femminili. Scrutò i biglietti e poi ne prese uno, sperando di aver scelto un possibile vincitore. Forse, se il suo distretto avesse vinto, l'avrebbero spostata in un altro migliore.

- Kaya Patel. -

Una ragazza uscì lentamente dalla fila delle diciassettenni. La sua pelle non era chiara come la maggior parte delle persone del suo distretto, ma era di un colore che a Serena ricordava la cannella, solo leggermente più chiara. I suoi capelli erano di un nero molto scuro ed erano raccolti in moltissime treccine, che le davano un'aria ancora più esotica. Quando raggiunse il palco, la capitolina pensò che non potesse essere una di quelle persone che assumeva morfamina, perché il suo aspetto era sano e probabilmente non apparteneva nemmeno a una famiglia troppo povera, poiché il suo corpo non era malnutrito.

- C'è qualche volontario? - chiese Serena e, come si aspettava, nessuna mano alzata.

Sorrise incoraggiante alla ragazza, che invece teneva lo sguardo fisso verso il pubblico, sicuramente verso i suoi cari.

- Vuoi dire qualcosa, Kaya? -

- Solo che cercherò di fare il possibile per tornare a casa dalla mia famiglia. -

- Certo, speriamo tutti che ce la farai! Sei emozionata? -

- “Emozionata” non è esattamente la parola che userei per descrivere come mi sento adesso... Credo che "ansiosa" sia l'aggettivo più giusto - rispose la ragazza mordendosi la lingua per non aggiungere altro.

"Sì, ansiosa è molto meglio di arrabbiata e di schifata da tutto questo. Agli sponsor piace sicuramente di più un tributo ansioso che uno che detesta gli Hunger Games e la capitale" pensò Kaya.

- Perfetto! Anche noi siamo molto ansiosi di conoscerti! - esclamò Serena, con un tono che diceva tutto il contrario.

Subito dopo pescò il biglietto con il nome del ragazzo e si avvicinò al microfono.

 - Jace Eaton. -

Un ragazzo alto, piuttosto muscoloso, con i capelli castani e ricci e gli occhi azzurro ghiaccio, uscì dalla fila dei sedicenni e si diresse verso il palco con passo abbastanza sicuro. Quando nessuno alzò la mano per offrirsi volontario, Jace sorrise.

- Sono contento di scoprire che tutti voi che vi siete sempre vantati di essere più ricchi, più belli e più popolari di me, siete solo dei codardi! Se volevate davvero essere migliori di me, dovevate offrirvi volontari, invece non l’avete fatto. Quando io tornerò vincitore, ognuno, qui al distretto, saprà il mio nome. Tutte le ragazze sbaveranno per me, ma Ashley, non ti preoccupare, ci sei solo tu nel mio cuore! –

La capitolina pensò che fosse un po’ stupido preoccuparsi della propria popolarità quando stai per andare in un’arena dove hai una possibilità su ventiquattro di vivere, ma, dopotutto, ognuno affrontava questa situazione come voleva.

***

Se c’era una cosa che Kaya amava davvero, era sicuramente la sua famiglia, avrebbe fatto di tutto per loro. Aveva persino lasciato gli studi per aiutare in casa. Non riusciva a credere di stare per partire per gli Hunger Games, sarebbe potuta non ritornare, e non rivedere più i suoi cari. Strinse tra le mani la collana che suo padre le aveva appena regalato: la catenina era di spago e il ciondolo era il totem dell’orso, inciso nel legno. Serviva per darle coraggio, così aveva detto, ma non funzionava. Osservò la porta da cui i suoi genitori e i suoi fratelli, tre femmine e due maschi, erano appena usciti. E se non li avesse più visti? Come avrebbe fatto? Sospirò, quando ad un certo punto la porta si aprì. Nella stanza entrò un ragazzo: Dan Latier, nonché colui per cui aveva una cotta.

“Che diavolo ci fa lui qui?” si chiese.

- Ciao – disse lui imbarazzato – Ehm... come stai? No, okay, non era la cosa giusta da dire. Mi dispiace, non te lo meritavi, Kaya, non tu. –

- Dan, non è per essere scortese, ma perché sei qui? Cioè, mi fa piacere la tua visita, ma noi non ci siamo mai rivolti la parola prima! –

- Sì, hai ragione, ma la figlia del sindaco, Margareth Collins, la conosci? –

- Sì, purtroppo. –

- Beh, ecco, lei mi ha detto che tu hai una cotta per me. . . –

Kaya arrossì e cominciò a balbettare frasi sconnesse, ma il ragazzo la interruppe:

- Senti, devi tornare, okay? Fallo per la tua famiglia e. . . per me. –

Detto questo le sorrise dolcemente e lei ricambiò, poi le lasciò un bacio sulla guancia e uscì.

***

 - Ti tireremo fuori da lì, figliolo! –

- Mamma, questo non è possibile e lo sai bene! –

- Ma abbiamo i soldi, potremmo pagare. . . –

- No, i soldi non serviranno a niente, non questa volta! E anche se siamo importanti qui il distretto, non significa che lo siamo a Capitol City. Non contiamo niente per loro, nessuno conta per loro, altrimenti perché credi che mandino ad uccidere ventitré ragazzi ogni anno? –

Sua madre non rispose e si asciugò le lacrime con un fazzoletto di stoffa, mentre il suo nuovo marito si guardava intorno distrattamente, Jace si rivolse a lui:

- Se io non dovessi tornare, tu ti occuperai di mia madre e dei miei due fratelli, hai capito? –

- Non sei nessuno per darmi ordini! – rispose lui, ma all’occhiataccia del ragazzo annuì debolmente.

Dopo la sua famiglia, toccò alla sua fidanzata, Ashley Fairchild, andare a trovarlo. Lei piangeva e lui la strinse forte a sé, accarezzandole la schiena. Quando si calmò, la baciò dolcemente e poi le disse:
 
- Tornerò, te lo prometto! -

- Ti amo, Jace. –

- Ti amo anch’io, Ashley, non dimenticarlo mai! –


DISTRETTO 5 – elettricità


Hariette Marshall finì il suo discorso piangendo come sempre, riusciva a commuoversi per ogni cosa e quando uno dei suoi tributi moriva - cosa non poco frequente – era famosa per le sue lacrime davanti alle telecamere e per i suoi lunghissimi discorsi in onore del caduto, come se lo conoscesse davvero. Era tutta scena, naturalmente. Dopo essersi asciugata le lacrime, si avvicinò alla boccia delle ragazze e pescò un bigliettino, lo aprì, ma non parlò per qualche secondo, per aumentare le tensione e poi disse:


- Alexia Black. –


Una ragazza abbastanza alta, con occhi azzurri e lunghi capelli rossi portati in una coda, si avvicinò lentamente verso il palco. Sul suo viso si poteva leggere la sorpresa e la paura di stare andando contro la morte. Hariette le porse il microfono con un sorriso incoraggiante.


- Quanti anni hai, cara? –


- Diciassette – rispose lei con voce tremolante


Vedendo che la ragazza non sembrava in vena di parlare, Hariette preferì dirigersi verso l’altra boccia e pescare un nome, prima di leggerlo lanciò un’occhiata ad Alexia e notò che stava facendo di tutto per trattenere le lacrime.

Il nome fu coperto da un urlo:

- Mi offro volontario! Mi offro volontario come tributo! –


Un ragazzo alto, con i capelli castani, gli occhi verdi, magro, ma piuttosto muscoloso, uscì dalla fila dei diciassettenni con passo spedito e sguardo sicuro. Hariette sorrise e gli portò il microfono alla bocca, non appena lui la raggiunse sul palco.


- Come ti chiami? –


- Nigel Collins. –


- E perché ti sei offerto volontario? –


- Per vendicare la morte del mio migliore amico, Peter, e della mia fidanzata, Ashley. Sono entrambi stati uccisi negli Hunger  Games!  – rispose lui, stringendo i pugni.


La capitolina fece finta di asciugarsi le lacrime, probabilmente non si era nemmeno accorta della nota di odio verso Capitol City che esprimevano le parole del ragazzo. Alexia però sì, per questo osservava il suo compagno di distretto con interesse, ma si riscosse quando Hariette le chiese:


- E tu, mia cara, hai un fidanzato? –


- Sì, si chiama Matthias e spero di vincere per tornare da lui e dalla mia famiglia! –


L’accompagnatrice si asciugò nuovamente le lacrime, che di vero non avevano niente, poi i tributi si strinsero la mano ed entrarono nel palazzo
di giustizia.


***

La prima persona ad andare a trovare Alexia fu suo fratello Josh, l’unico membro rimasto della sua famiglia, infatti i loro genitori morirono in un incendio quando la ragazza aveva solo tredici anni. Appena entrò, la abbracciò forte, mentre lei cercava di non piangere e di mostrarsi forte.


- Josh, se io non dovessi tornare. . . –


- Tu tornerai! –


- Io ci proverò, ma se non dovesse succedere, si prenderanno cura di te i genitori di Matthias, come hanno sempre fatto dalla morte dei nostri genitori. –


- Lo so, viviamo con loro da quel giorno, ma tu promettimi che vincerai! –


- Ci proverò Josh. Farò il possibile per tornare da voi! –


Dopo suo fratello, fu il turno del suo fidanzato, ma con lui non riuscì a resistere e pianse, urlò, si sfogò. Aveva già sofferto abbastanza, non si meritava anche questo.


- Alexia, andrà tutto bene! Sei forte, ce la farai. –


- Ti amo, Matthias! –


- Ti amo anch’io. –


Un altro bacio, un altro abbraccio, ma, nonostante nessuno dei due lo volesse, il momento di separarsi arrivò e appena Matthias lasciò la stanza ad Alexia sembrò di sentire il suo cuore spezzarsi. Anche i genitori del ragazzo la vennero a trovare, la consideravano un po’come una figlia, visto che viveva con loro da tanto tempo. La abbracciarono forte e cercarono di consolarla, perché nonostante lei provasse a mostrarsi forte, si vedeva quanto fosse distrutta.


***

La famiglia di Nigel era molto numerosa, infatti i Pacificatori protestarono un po’, prima di farli entrare tutti e sei. Sua madre Lysandra fu la prima a correre verso di lui e abbracciarlo, seguita subito dal padre, Charles.


- Perché l’hai fatto? – gli chiese bruscamente suo fratello maggiore, Frank


- Lo sai il perché. –


- Credo che tu abbia sbagliato, loro non vorrebbero questo! Non vorrebbero che tu morissi! –


- Non sai cosa vorrebbero loro, tu non li conoscevi! –


- Lo so, ma… –


- Devi capirmi Frank. Loro erano tutto per me e Capitol City me li ha portati via. –


- Hai ragione e poi la vita è tua. A presto, Nigel – gli disse prima di dargli una pacca su una spalla.


Sua sorella Marlene, di diciannove anni, lo abbracciò, mentre le lacrime gli rigavano il volto.


- Grazie, Lene, grazie di tutto. Tu sei stata l’unica in grado di consolarmi e di capirmi dopo la loro morte.  Ti voglio bene!-


- Ti voglio bene anch’io. –


Sua sorella Megan, di undici anni, lo abbracciò forte e poi gli disse:


- Torna, altrimenti mi mancherai troppo! –


- Certo, Meg, tornerò –


Il più piccolo di tutta la famiglia, Fredric, di dieci anni, si limitò ad avvicinarsi a lui con uno sguardo triste, Nigel gli scompigliò i capelli e gli sorrise.


- Non fare arrabbiare troppo mamma e papà, piccola peste! –


- Non prometto niente! – rispose lui con un sorriso furbo.


Nigel lo abbracciò, poi si rivolse a tutti e disse:


- Non importa se io morirò, l’importante è che nessuno di voi muoia. Non prendete altre tessere, mi raccomando! -


Nessuno poté replicare perché il tempo finì e la sua famiglia dovette uscire dalla stanza, lasciando Nigel solo.



DISTRETTO 4 – pesca


L’odore di salsedine, il fresco venticello, la vista sul mare, il rumore delle onde, le persone abbronzate e sicuramente più allegre di quelle degli altri distretti, come poteva Mark Johnson non amare il distretto quattro? Si sistemò la cravatta azzurra e sorrise al pubblico.


- Buongiorno a voi, abitanti del distretto 4! Come state oggi? –


Un boato si sollevò dal pubblico e Mark sorrise: la maggior parte dei ragazzi di quel distretto erano contenti di partecipare agli Hunger Games e spesso c’erano persino dei volontari.


- Perfetto. Anche io sono felicissimo di essere qui! Cominciamo la mietitura. –


Si avvicinò alla boccia con i nomi femminili e ne scelse uno, dopo aver mescolato un po’.


- Elaine Claythorne. –


Un ragazza piuttosto bassa e robusta uscì dalla fila delle quattordicenni. Aveva i capelli rossi e ondulati, che le arrivavano fino a metà schiena e che le contornavano il viso pallido, sul quale spiccavano due grandi occhi color nocciola. Pareva tranquilla e sicura di sé, non sembrava un tributo di cui temere, ma nemmeno uno da sottovalutare.  Quando raggiunse il palco, Mark le sorrise e poi si rivolse al pubblico:


- Ci sono volontari? –


Nessuno alzò la mano e il capitolino scrollò le spalle.


- Vuoi dire qualcosa, Elaine? –


- Farò il possibile per tornare a casa: so che per salvarmi dovrò uccidere e non mi farò scrupoli inutili! –


Un altro dei soliti tributi favoriti, Mark ne vedeva ogni anno. Si diresse all’altra boccia e il nome del ragazzo estratto fu presto dimenticato da tutti, ci fu infatti un volontario: era un ragazzo alto, con i capelli castani e degli occhi verdi, la sua pelle, contrariamente a quella degli altri abitanti del distretto, non era così abbronzata. Aveva un sorriso di sfida sul volto, sembrava molto determinato.


- Come ti chiami? –


- Michael Waves e ho diciotto anni. –


- Come mai ti sei offerto volontario? –


- Per la gloria, ovviamente. Voglio vincere e portare onore al mio distretto. –


“Certo, come no. Non sarei qui se mio padre non mi avesse obbligato ad offrirmi!”
pensò il ragazzo.


- Quest’anno abbiamo due ragazzi molto determinati! Chissà se uno di loro sarà il vincitore dei trentesimi Hunger Games? Ovviamente io spero di sì. Facciamo un bell’applauso ai nostri tributi! -


Il pubblicò obbedì e i ragazzi si strinsero la mano e poi furono scortati all’interno del Palazzo di Giustizia.


***

Elaine guardò la sua famiglia uscire dalla stanza, era toccato più a lei consolare loro, che il contrario, specialmente i suoi fratelli: Alyss, Clarisse e Adam. Non era spaventata, sapeva che era destinata a questo e si era anche allenata, come la maggior parte dei ragazzi del suo distretto. Era piccola, questo era vero, ma era sicuramente più forte e preparata degli altri tributi, anche se più grandi di lei. Gli unici di cui si sarebbe dovuta preoccupare erano il resto dei favoriti, ma di solito erano tutto muscoli e niente cervello e non sarebbero stati difficili da battere. A questo, comunque, ci avrebbe pensato dopo.


- Elaine. . . –


Un ragazzo entrò nella stanza, con un sorriso indeciso sul volto: Alexander, il suo migliore amico e, da qualche mese, il ragazzo per cui aveva una cotta.


- Ciao, Alex. –


- Stai bene? –


- Sì, perché non dovrei? – ribatté lei


- Stai per andare agli Hunger Games. Potresti morire, potresti non tornare più! –


- Io vincerò e tornerò. – gli disse con tono sicuro


- Me lo prometti? –


- Promesso. –


Il ragazzo la strinse in un forte abbraccio e non la lasciò andare finché il tempo non finì. Prima di uscire le disse:


- Ti voglio bene. –


- Anch’io, Alex! – rispose con un tono più dolce di quello che aveva usato fino ad ora.



***

- Sono molto fiero di te, Michael! Hai ascoltato i miei consigli e se continuerai a farlo anche quando saremo a Capitol City, uscirai da quell’arena come vincitore! Lo sai che io sarò tuo mentore e anche tua sorella Sky! –


- Già. . .non vedo l’ora. – rispose il ragazzo con un tono che diceva tutto il contrario.


- Anch’io sono molto fiera di te, figliolo. Se tu vincerai i giochi, la nostra famiglia sarà ancora più conosciuta nel distretto e potrò vincere nuovamente le elezioni come sindaco! – esclamò sua madre, Pearl.


Michael guardò sua sorella Sky, ma lei scostò lo sguardo tenendo la testa bassa. Quando però i loro genitori uscirono sorridenti dalla stanza, lei rimase e gli chiese:


- Ti ha obbligato papà a offrirti? –


- Certo, come ha fatto con tutti, no? –


- Senti, nostra sorella Coral non ce l’ha fatta, ma questo non vuol dire che tu non possa riuscirci. Ti darò una mano, farò il possibile per tirarti
fuori! –


- Grazie, anche se sai meglio di me che questo non cambierà le cose. –


- Non voglio il peso di un altro fratello sulla coscienza. –


- Anche se io morissi, non sarà colpa tua, okay? –


- Torna, per favore. –


- Farò il possibile! -


SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti!
Ecco qui il nuovo capitolo, spero che vi piaccia e di aver caratterizzato bene i vostri personaggi. Il prossimo è l'ultima mietitura, finalmente! Spero di aggiornare presto, anche se voi lo sapete meglio di me che maggio è un mese infernale per la scuola.
Ringrazio tantissimo la mia BETA, La_Sniffa_Libri e le meravigliose otto persone che hanno recensito lo scorso capitolo. In particolar modo Bolide Everdeen, che mi ha dato un prezioso consiglio sulla punteggiatura e la ladra di libri, alla quale devo ancora rispondere, perché ha deciso di seguire la mia storia anche se non partecipa! *_*
Fatemi sapere se vi è piaciuto!
Un bacione e a presto,
Felix

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Capitolo 5
*** La mietitura - parte IV ***


La mietitura – parte IV

DISTRETTO 3 – tecnologie

Kira Lewis guardò il pubblico del distretto tre con sguardo torvo. Aveva appena finito il suo discorso, ma non c’era stato nemmeno un accenno di applauso. Sbuffò e si diresse verso la boccia delle ragazze camminando su un paio di tacchi altissimi, tanto che la maggior parte della gente si chiedeva come facesse a stare ancora in piedi. Prese un bigliettino a caso, senza nemmeno mischiare i foglietti e, dopo aver raggiunto il microfono, lesse:

- Kathleen Vince. –
Una ragazza non molto alta e dalla corporatura esile, bionda, con i capelli lunghi fino a metà schiena, gli occhi azzurro chiaro e la pelle molto chiara, quasi diafana, uscì dalla fila delle diciassettenni e si diresse lentamente verso il palco. Kira la degnò appena di uno sguardo e poi chiese se ci fossero volontari, ma, come previsto, nessuno alzò la mano. Le telecamere inquadrarono per un momento la ragazza, che stava stingendo fortissimo il ciondolo della collana che portava al collo. Le nocche della sua mano erano ormai diventate bianche e gli occhi erano lucidi di lacrime, ma non piangeva, non doveva piangere.
- Chi te l’ha regalata quella collana? –
- Il mio fidanzato, Jonathan. È il mio portafortuna. –
- Lo sai che non funzionano quasi mai, vero? E dire che sei del distretto in cui i ragazzi dovrebbero essere intelligenti! – le disse l’accompagnatrice con aria di superiorità e con voce stridula.
- È molto di più di questo per me: ha un valore affettivo e mi basta averla con me per farmi forza! In ogni caso, sono sicura di essere molto più intelligente di te! –
- Che arrogante! – borbottò Kira.
Si diresse all’altra boccia ripeté le stesse identiche azioni di prima, senza nemmeno creare un po’ di suspense, non che alla gente del distretto importasse, tutti non vedevano l’ora che questa tortura finisse. Anche se non finiva mai, si ripeteva ogni anno, di continuo.
- Riven Cole. –
Sul pubblico piombò il silenzio, rotto solo dall’urlo di una donna e poi dai suoi singhiozzi. L’accompagnatrice si guardò in giro sorpresa: sarebbe potuto cadere un petalo da un fiore che lo avrebbe sentito. Un ragazzo abbastanza alto, con un fisico longilineo uscì dalla fila dei sedicenni e si avvicinò lentamente verso il palco. Sul viso dai tratti delicati spiccavano due occhi azzurri, mentre i capelli erano castano chiaro, corti e con qualche ciuffo un po’ ribelle.
- Bene, Riven. Vuoi dire qualcosa? – chiese Kira con tono fastidioso ed esageratamente alto.
- Non potrebbe abbassare la voce per favore? Parla in maniera troppo stridula e sono iper-sensibile agli stimoli sensoriali uditivi – rispose il ragazzo in maniera seria e composta.
La capitolina dopo un attimo di silenzi, scoppiò a ridere. Riven la guardò perplesso e poi ribatté:
- Perché si è truccata come un panda? -
Kira gli lanciò un’occhiataccia e non rispose, fece solo un cenno e i due ragazzi si strinsero la mano.
“Ma che problemi ha quel ragazzo? Non è che è un ritardato mentale? Ci mancherebbe solo questo! Per essere promossa ad un altro distretto, serve che ci sia qualche vincitore in questo, ma se si va avanti così!”.

***

Molte persone passarono a salutare Kathleen: i suoi genitori, Albert e Melanie, il suo fidanzato e i suoi più cari amici, Sonya, Marlene e Kevin. Con tutti cercò di non piangere, di mostrarsi forte, perché lei non doveva assolutamente farsi vedere debole.

Proveniva da una famiglia benestante, non aveva mai dovuto prendere tessere, ma era successo: era stata estratta. Sarebbe dovuta andare nell’arena e per uscirne avrebbe dovuto uccidere. Uccidere un essere umano. Lei, una ragazza dolce e gentile, un’assassina. Perché era questo che succedeva: o si diventava assassini o vittime, non c’era altra scelta!
Strinse ancora più forte il ciondolo della collana che portava al collo, una semplice goccia di vetro. Farlo le metteva forza e sicurezza e non le importava se forse, come aveva detto Kira, era una cosa stupida. Aveva un valore molto forte per lei e quando sarebbe arrivata a Capitol City, quella sarebbe stata l’unica cosa che le avrebbe ricordato il suo distretto, la sua famiglia, i suoi amici e Jonathan. Se sarebbe morta non li avrebbe più rivisti, come avrebbe fatto? Aveva paura di questo, davvero tanta paura. Doveva vincere, altrimenti non sarebbe tornata a casa.

***

La famiglia di Riven si precipitò subito dentro la stanza usata per i saluti e sua madre, Leyna, lo strinse immediatemnete in un abbraccio e scoppiò a piangere, sorretta dal marito, Cypehr. Il fratellino di otto anni,  Milo, li guardò per un po’ da lontano, poi si avvicinò e cercò di attirare l’attenzione del fratello tirandolo per la manica della maglietta, alla fine decise di stringergli le gambe, senza sapere bene cosa fare. Riven non era un ragazzo normale, infatti soffriva della sindrome di Asperger, quindi aveva una sviluppata capacità di elaborare informazioni, ma difficoltà nel gestire l’empatia e le relazioni sociali.

- Ti vogliamo tanto bene, non dimenticarlo mai! – disse il padre, cercando di trattenere le lacrime.
Quando i genitori e Milo si allontanarono un po’ da Riven, suo nonno, Francis, lo accarezzò dolcemente sulla testa e i due rimasero a lungo a fissarsi in silenzio. Avevano un rapporto speciale, condividevano, infatti, la stessa passione: smontare e rimontare qualsiasi oggetto dotato di meccanismo, specialmente orologi. Il ragazzo tese la mano al nonno, che la prese attirandolo a sé, per poi stringerlo in un abbraccio.
- Ti voglio dare una cosa. Vorrei che la portasti con te nell’arena. È un portafortuna speciale. –
Francis tirò fuori dalla tasca un vecchio orologio, il primo modello che aveva insegnato a smontare e rimontare al nipote, che lo accettò subito, stupito. Non appena uscirono, entrò nella stanza una ragazza di nome Clareen Vegas, sua amica e compagna di classe. Era praticamente l’unica persona, all’infuori della sua famiglia, a capire le sue difficoltà, a passare del tempo con lui, a proteggerlo da chi si divertiva a prenderlo in giro e ad aiutarlo nelle interazioni sociali. Per lui era infatti molto difficile comunicare con gli altri, perché non riusciva a capire le persone, le loro emozioni e le varie sfaccettature del loro comportamento e del loro carattere. Era stata proprio lei a regalargli un foglio con disegnata una sorta di “Tabella dell’umore” per aiutarlo a capire se una persona in questione fosse arrabbiata, triste, felice, annoiata, eccetera.
- Ciao, Riven – gli disse sorridendo.
- Ciao. –
- Sono venuta per salutarti, ho pensato che ti avrebbe potuto fare piacere. . . Immagino che sia difficile, ma non buttarti giù e dai il meglio di te! –
- Perché dovrei buttarmi per terra? – chiese il ragazzo confuso, non capendo quello che Clareen voleva dire. Infatti per lui era difficile capire le frasi idiomatiche e le espressioni letterali.
- Non intendevo dire questo. Comunque ce la puoi fare, puoi tornare a casa! –
Lo strinse a sé frettolosamente e gli augurò buona fortuna, poi uscì dalla stanza con un sorriso debole.


DISTRETTO 2 – armi e Pacificatori

Sharon Thomas amava il distretto 2: i ragazzi erano sempre pronti ad offrirsi volontari e spesso vincevano anche i giochi, o comunque duravano molto. Compativa davvero molto le accompagnatrici dei distretti più poveri, lei era felicissima dove si trovava e non avrebbe cambiato il suo lavoro per nulla al mondo, tranne forse per un paio di quelle scarpe che andavano di moda tra i ricchi di Capitol City e che lei non poteva permettersi. Sorrise e iniziò a parlare:

- Buongiorno a tutti voi! Come state oggi? Pronti per la mietitura? –
Un boato si levò dal pubblico e il sorriso di Sharon si allargò ancora di più.
- Perfetto! Allora iniziamo subito. Felici Hunger Games e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore! –
Si diresse alla boccia delle ragazze e pescò un bigliettino senza nemmeno mischiare: ci sarebbe stata comunque una volontaria.
- Isabelle Hadlington. -
Tutte le mani che erano scattate in aria, si riabbassarono non appena sentirono il nome pronunciato dalla capitolina. Sharon rimase stupita e osservò con la bocca spalancata la ragazza che stava venendo verso il palco. Era piuttosto bassa e magra, ma sembrava abbastanza muscolosa. I suoi capelli erano mori e legati in una coda alta, gli occhi erano scuri e il volto era pallido.
- Ci sono volontari? – chiese la capitolina quasi con timore.
Nessuno alzò la mano: quella doveva essere la prima volta che nel distretto 2 non ci fossero volontari.
- Quanti anni hai, Isabelle? –
- Quindici – rispose a denti stretti la ragazza
- Vuoi dire qualcosa? –
- No. –
- Oh. . .ehm. . .okay, va bene. –
Sharon si chiese come mai non ci fossero stati volontari, era davvero molto strano. Si diresse all’altra boccia e stavolta tutto andò come doveva essere: molte mani si sollevarono e Sharon scelse un ragazzo con un fisico robusto e allenato. La sua pelle era abbronzata, i capelli erano ricci e biondi e gli occhi erano azzurri.
- Come ti chiami? – gli chiese sorridendo
- Mi chiamo Merian Oleg e ho diciotto anni. –
- Bene e perché ti sei offerto volontario? –
- Perché so di poter vincere, mi sono allenato per anni e credo fortemente nelle mie capacità. Inoltre, a causa di alcune divergenze con i miei genitori, non ho più una casa e quando vincerò ne avrò una migliore! –
- Sembri molto sicuro di te e determinato! Non vediamo l’ora di vederti nell’arena! Vero? –
Il pubblico applaudì clamorosamente, i tributi si strinsero la mano e poi entrarono nel Palazzo di Giustizia.

***

Isabelle rimase sola nella stanza dei saluti e sapeva che nessuno sarebbe venuto a trovarla. La madre era morta subito dopo il parto e il padre la odiava, sentimento del tutto ricambiato dalla ragazza, che era stata costretta fin dall’età degli otto anni ad allenarsi per gli Hunger Games e a soli dieci anni era stata ammessa nell’Accademia di addestramento. La sua vita era stata fin da subito finalizzata a questo e, se non sarebbe stata estratta, si sarebbe dovuta offrire, prima o poi. Ovviamente avrebbe preferito farlo a diciotto anni, ma lei sapeva che avrebbe vinto lo stesso, anche se ne aveva solo quindici. Era spietata, sadica e forte, non avrebbe avuto problemi all’interno dell’arena.

Cosa le importava se non aveva vissuto la vita di una normale ragazzina della sua età? Cosa le importava se non aveva amici e se nessuno si era offerto per lei? Cosa le importava se non aveva l’affetto di una famiglia? Niente, assolutamente niente. Era indipendente e non le serviva nessuno, bastava solo lei. Non le servivano amici, genitori e un fidanzato. O almeno era questo che continuava a ripetersi.
Lei doveva solo vincere, tornare a casa e dimostrare a tutti che lei non era solo una ragazzina. E ce l’avrebbe fatta. Doveva farcela, altrimenti non sarebbe servito a niente aver sacrificato la sua vita.

***

- Ciao, Merian – disse sua madre, Glenelle, non appena entrò nella stanza.

Lui le fece appena un cenno e poi tornò a osservare il paesaggio fuori dalla finestra.
- Non dovevi offrirti volontario, potresti morire! – sussurrò la donna, quasi impaurita dalla reazione che avrebbe potuto avere.
 - Ti importa davvero? Mi avete cacciato di casa e adesso vieni a dirmi che potrei morire? – chiese con rabbia.
- L’ha voluto tuo padre. . .io. . .beh. . . –
- Non morirò. Io riuscirò a vincere, te lo giuro – la rassicurò, vedendola in difficoltà.
Dopo la madre, entrò a salutarlo la fidanzata, la loro storia durava da un anno, nonostante i frequenti tradimenti da parte di Merian, mentre Jeria era innamorata e sopportava pazientemente. Era stata lei la causa della cacciata di casa del ragazzo, infatti era rimasta incinta per errore e anche se aveva risolto tutto abortendo, i genitori di Merian non lo avevano perdonato.
- Ehi. –
- Ciao, Jeria. –
- Quindi parti per. . .i giochi – disse con voce tremante.
- Guarda che “Hunger Games” non è una parolaccia, lo puoi dire. –
- Lo so. È solo che. . . –
- Hai paura che non torni? Ti sei davvero affezionata a me? Credevo che stessimo insieme più per una questione di reputazione, che per un sentimento vero! –
- Infatti è così! – esclamò lei, forse un po’ troppo forte.
- Come fai ad essere così sicuro di vincere? Come fai a non mostrare nemmeno un filo di tristezza, nemmeno un po’ di paura? –
- Non sono come te! Io vincerò, lo so. Sono allenato, sono forte, sono pronto! –
Jeria annuì debolmente, fece per uscire, ma poi si voltò nuovamente e si avvicinò al fidanzato. Si sollevò in punta di piedi, appoggiò le mani sulle sue spalle e lo baciò dolcemente.
- Buona fortuna – sussurrò non appena si separarono.
- Non ne ho bisogno – ribatté lui, facendola sorridere.


DISTRETTO 1 – beni di lusso

Helena Wilson amava con tutta se stessa il distretto 1, non solo perché c’erano sempre dei volontari e perché la gente era allegra e partecipava alla mietitura con voglia, ma anche perché si producevano cose davvero meravigliose: mobili pregiati, gioielli preziosi, vestiti alla moda, una vera delizia per gli amanti dello shopping come lei! Ora stava osservando le ragazze che avevano alzato la mano per offrirsi volontarie per sceglierne una. Come ogni anno, erano davvero tante e non era certo un compito facile trovare quella che avrebbe potuto vincere. Alla fine ne scelse una davvero alta, all’incirca due metri, con una corporatura molto massiccia e palestrata, fin troppo essendo una ragazza. Aveva i capelli biondo cenere, ricci e raccolti un una crocchia bassa, che però lasciava libera la frangetta. Il naso era molto lungo e aveva una grossa gobba, mentre i suoi occhi erano grandi e cerulei e quello sinistro era di vetro. I denti erano molto bianchi, ma decisamente sporgenti, aveva anche una grossa cicatrice che andava dall’occhio di vetro alla narice sinistra. Helena non aveva certamente scelto una bella ragazza, cosa che di solito accumunava le ragazza dell’uno, ma da lontano non era facile vedere bene. Sperava che fosse almeno un abile combattente.

- Come ti chiami, cara? –
- Non mi chiami “cara”! Comunque Cornelia Banks. –
- Oh, scusami. Quanti anni hai, Cornelia? –
- Diciotto. –
- E perché ti sei offerta volontaria? –
- Perché ritengo che gli Hunger Games siano l’opportunità che mi consentirò di mostrare a tutta Panem il mio potenziale ed è anche un’ottima occasione per rappresentare il distretto 1. –
“Quante bugie che bisogna dire per attirare sponsor! La cosa buffa è che qualcuno ci crede davvero a queste fandonie propagandistiche che Capitol City ci inculca nella testa!” pensò la ragazza.
- Fantastico! Sono sicura che il tuo distretto sia fiero di te! – esclamò la Helena, prima di dirigersi all’altra boccia.
Tra i molti volontari ne scelse uno alto e dalla corporatura massiccia, ma sicuramente più carino di Cornelia, la capitolina sapeva, infatti, che per i distretti favoriti anche l’aspetto fisico contava. Aveva i capelli biondi e leggermente scompigliati, il suo viso era dai tratti spigolosi, il naso era affilato, la labbra carnose e gli occhi erano di un colore grigio–azzurro.
- Mi chiamo Alvin Lorcan Theroux e ho diciassette anni – si presentò.
- Perché ti sei offerto volontario? – chiese curiosa l’accompagnatrice.
- Per riscattare il nome della mia famiglia. Infatti molti qui al distretto disprezzano e parlano male dei Theroux a causa di mio padre, ma io ho intenzione di dimostrare a tutti che si sbagliano! Io vincerò! –
- Sono curiosa Alvin, cosa ha fatto di tanto grave tuo padre da infangare il nome della tua famiglia? –
- Lui non si è offerto volontario per gli Hunger Games quando i suoi due fratelli minori furono estratti – spiegò il ragazzo con la voce incrinata.
- Oh, capisco. Spero che riuscirai a vincere e a conquistare il tuo obiettivo! –

***

Le uniche due persone che andarono a salutare Cornelia furono la sorellina, Annette, di tredici anni, e la madre, Evelyn. Il padre era morto quando la ragazza aveva solo cinque anni e non aveva nemmeno mai conosciuto la secondogenita, poiché quando morì la moglie era incinta. Annette corse subito ad abbracciarla e la sorella le accarezzò debolmente la testa.

- Devi tornare, Cornelia. Se tu morissi io come farei? –
- Vincerò, vedrai! – la rassicurò.
- Me lo prometti? –
- Promesso. –
- Ti voglio bene! – esclamò la sorellina tra le lacrime, prima di abbracciarla ancora.
Cornelia le voleva bene, anche se non riusciva a dimostrarglielo. Sapeva di non essere esattamente una buona sorella, dopotutto era un assassina, anche se non avevano le prove per dimostrarlo. Non era successo solo una volta, ma ben tre volte. Non le importava, anzi: uccidere era diventato il suo primo sfogo, il senso della sua esistenza. Amava torturare la propria vittima prima di finirla, adorava vederla morire lentamente e dolorosamente. Non era così prima, l’avevano cambiata e quindi se lo meritavano!
- Cornelia. . . – mormorò sua madre, ma la ragazza non la degnò nemmeno di uno sguardo e presto il tempo finì.

***

Il fratellino di Alvin, Lowell, di soli dieci anni, fu il primo a precipitarsi nella stanza piangendo. Il ragazzo lo abbraccia subito forte e per un po’ rimangono così, poi si china alla sua altezza e gli asciuga le lacrime.

- Non piangere, non devi essere triste. –
- Mi prometti che tornerai a casa sano e salvo? –
- Promesso. – rispose dolcemente Alvin, prima di abbracciarlo nuovamente.
- Vedrai che andrà tutto bene e presto sarò di nuovo a casa con te! –
Mentre diceva queste parole, il padre, Caleb, entrò nella stanza, ma rimase in un angolo imbarazzato, mentre i fratelli finirono di salutarsi.
- Ora vai, Lowell, ci vediamo presto. –
- Ti voglio bene! –
- Anche io! –
Quando Alvin rimase solo con il padre, si voltò, dandogli le spalle. Con il padre aveva infatti un rapporto altalenante, visto che lo accusava della partenza della madre, Elith, che se ne era andata siccome non riusciva più a sopportare gli sguardi di accusa e i pettegolezzi sulla loro famiglia. Ad un certo punto sentì due braccia circondargli il busto e una testa poggiarsi sulla sua spalla, inizialmente rimase rigido, ma poi si rilassò e si lasciò abbracciare dal padre. Poco dopo un Pacificatore aprì la porta e mise fine ai saluti. Caleb si allontanò dal figlio, ma, prima di uscire,  mormorò tra le lacrime:
- Ti voglio bene, Alvin, torna a casa! –
Il ragazzo non rispose, ma una lacrima gli rigò il viso. La asciugò in fretta e la sostituì con uno sguardo determinato.


CAPITOL CITY

Il Capo Stratega, David Wood, lasciò l’Anfiteatro cittadino, dove l’intervistatore, Ray Carter, stava ancora commentando i vari tributi. Era davvero una persona buffa e stramba quell’uomo, fin troppo allegra per i suoi gusti. Lui preferiva di gran lunga le cose sobrie, ma di classe. Era convinto che per stupire le persone non servisse niente di complicato e sopra le righe, bastava qualcosa di semplice, ma speciale. Credeva profondamente nel modo di dire “il troppo stroppia”. Forse era questo che lo distingueva da tutti gli altri capitolini, ma a nessuno importava più di tanto, finché riuscisse a creare una fantastica edizione degli Hunger Games e in questo era davvero bravo.
Sorrise guardando l’ologramma della sua arena, fra poco tutti l’avrebbero vista. Avrebbe lasciato tutti a bocca aperta, anzi no: all’inizio tutti si sarebbero chiesti: “È tutto qui?”. Ma solo lui sapeva quanti segreti nascondeva quell’arena: era la sua migliore creazione.
Per i tributi non sarebbe stata certo una facile edizione, affatto.
- Che i trentesimi Hunger Games abbiano inizio e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore! – sussurrò.



SPAZIO AUTRICE 


Ciao a tutti!
So che ho fatto un ritardo incredibile: è un mese che non aggiorno! Scusatemi davvero tanto, ma maggio per la scuola è davvero un mese infernale!
Finalmente è arrivato l’ultimo capitolo sulle mietiture, EVVIVA! :)
Ho pensato che fosse un’idea carina mettere anche un paragrafo dedicato al Capo Stratega, spero che non vi sia dispiaciuta questa cosa.
Prima che inizino i capitoli veri e propri, nel senso che questi erano più di presentazione, vi consiglio di rileggervi le mietiture, così magari riuscite a ricordarvi meglio i personaggi.
Vi ricordo che questo è l’ultimo capitolo in cui potete votare per i morti durante il primo giorno, per ora la media si aggira sul sette. Se qualcuno che non ha ancora votato, volesse farlo, può tranquillamente, anche chi non ha tributi nella storia.
Vi lascio una piccola scaletta su i capitoli che ci saranno prima dell’arena, ma vi avviso che potrebbe essere soggetta a variazioni.
·    cap. 5: Treno (quattro pov) + staff preparatori/incontro con lo stilista (due pov). Per un totale di sei pov, tutti di distretti diversi.
·    cap. 6: Sfilata e la prima sera, quindi eventuali chiacchiere con l’altro tributo o con il mentore, pensieri personali, eccetera. Ci saranno sei pov, che saranno per gli altri distretti che non sono apparsi nel capitolo 5.
·    cap. 7: addestramento (tutti e tre i giori). Anche qui sei pov.
·    cap. 8: sessione privata e preparazione alle interviste, sempre sei pov. Quindi a questo punto tutti i tributi avranno avuto un loro pov.
·    cap. 9: interviste. Non ho ben deciso chi avrà il punto di vista, ma penso il Capo Stratega.
·    cap. 10: ARENA!!
So che ci vorrà un bel po’ prima della parte che interessa a tutti, ma vorrei farvi conoscere bene i tributi.
Per rinfrescarvi la memoria vi lascio una lista dei tributi e per chi ce l’ha vi lascio il prestavolto :)

DISTRETTO 1
Cornelia Banks
Alvin Lorcan Theroux
DISTRETTO 2
Isabelle Hadlington
Merian Oleg
DISTRETTO 3
Kathleen Vince
Riven Cole
DISTRETTO 4
Elaine Claythorne
Michael Waves
DISTRETTO 5
Alexia Black
Nigel Collins
DISTRETTO 6
Kaya Patel
Jace Eaton
DISTRETTO 7
Allison Thomas
Mark Roberts
DISTRETTO 8
Reylen Sheed
Vegas Ghellow
DISTRETTO 9
April Joyce
Jake Sander

DISTRETTO 10

Felicity Morrison
Jack . . . (senza cognome)
DISTRETTO 11
Alexandra Green
Matthew White
DISTRETTO 12
Shanti Koyle
Blake Dawnson

WOW! Ho imparato ad inserire i link nelle parole! u.u
Ora vi lascio!
Un bacione e a presto,
Felix
p.s. Buone vacanze!





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Capitolo 6
*** Verso Capitol City ***


Verso Capitol City

Alexandra Green – distretto 11

Piangeva ancora quando Matthew entrò nella sua stanza. Indossava abiti nuovi, probabilmente si era già lavato e cambiato, e pareva tranquillo. Alexandra invece aveva le guance rigate dalle lacrime, i capelli fuoriposto e i vestiti spiegazzati, ma non le importava più di tanto. Osservò per un attimo l’amico, fermo davanti alla porta, e poi gli chiese bruscamente:


- Come fai? –


- A fare cosa? –


- A startene così rilassato! Hai capito cosa sta succedendo? Lo sai dove stiamo andando? –


Matthew sospirò, si avvicinò al letto e si sedette affianco a lei, prendendole le mani.


- Ale, calmati. So bene cosa sta succedendo e sicuramente non sono tranquillo e rilassato, ma piangere non servirà a nulla! –


In risposta la ragazza cominciò a piangere ancora più forte e allora lui la strinse in un abbraccio. Amava i suoi abbracci perché la facevano sentire al sicuro e a casa. 


- Io non ci riesco. Sto per andare agli Hunger Games e soprattutto con te! Almeno uno di noi due non tornerà a casa! –


- Lo so e per questo mi assicurerò che sia tu a vincere. –


- Non puoi! –


- Sei la mia migliore amica e te lo meriti più di qualunque altra persona al mondo. Mi hai accolto in casa tua anche se non mi conoscevi e mi hai trattato come un fratello! Non puoi morire, non lo sopporterei! –


- Matthew. . . –


- Non dire niente. –


Come poteva non dire niente? Lui era una delle persone a cui teneva di più al mondo e vincere significava perderlo. Sapeva che probabilmente nessuno dei due avrebbe vinto: non erano allenati, né tantomeno forti come i favoriti. Doveva trovare un modo per assicurarsi che lui avrebbe avuto una possibilità.


- Un’alleanza! – esclamò


- Come? – chiese lui confuso.


- Dobbiamo stringere un’alleanza: noi e qualcun altro. Pensaci: se uno dei due morisse, almeno l’altro avrebbe qualcuno che lo aiuti, almeno fino ad un certo punto. . . –


- È una buona idea, ma come facciamo ad essere sicuri di poterci fidare? –


- Analizzeremo bene ogni singolo tributo: troveremo i suoi punti forza e quelli di debolezza, osserveremo come si comporta, con chi parla, su cosa si allena. . . –


- Sembra una missione di spionaggio! –


Alexandra rise e poi mormorò:


- Ti voglio bene, Matthew, tanto! –


- Anche io – rispose lui, prima di abbracciarla nuovamente.


Si lasciò cullare dolcemente dal ragazzo, non pensando a cosa li aspettava, ai pericoli che avrebbero corso, agli Hunger Games, all’arena, alle alleanze. Almeno per adesso non voleva preoccuparsene, voleva solo stare tra le braccia del suo migliore amico, senza pensare. Voleva sentirsi ancora una volta al sicuro e protetta, come se niente le potesse fare del male. Purtroppo per lei non era così, anche se non ci pensava i giochi stavano per iniziare e lei, in cuor suo, sapeva bene che c’erano poche possibilità che tornasse a casa e, anche se questo fosse successo, non sarebbe di certo stata felice, non senza Matthew.





Riven Cole – distretto 3


Lui, la sua compagna di distretto, il mentore e l’accompagnatrice stavano cenando attorno a un grande tavolo imbandito nel vagone ristorante. Riven era nervoso e si sentiva in ansia a causa dell’improvviso cambiamento che aveva sconvolto la sua routine quotidiana. C’era troppo casino in quella stanza, per i suoi gusti: la capitolina che parlava con la sua voce acuta, il mentore che cercava in tutti i modi di iniziare una conversazione con i ragazzi e Kathleen che, con le lacrime agli occhi, rispondeva timidamente alle domande dell’uomo. Il ragazzo non riusciva a stare tranquillo, doveva estraniarsi dalla situazione, per cercare di calmarsi. Iniziò così a ciucciarsi la manica della maglietta: era un vizio che aveva, ma lo rilassava quando si sentiva a disagio, o teso o confuso per qualcosa. Questo però non gli bastò per tranquillizzarsi, provò allora a concentrarsi sul ritmico rumore del treno, fissando, contemporaneamente, il meccanismo del suo orologio, regalatogli dal nonno. Assorto nei suoi pensieri perse così la concezione di quello che gli stava accadendo intorno e non si accorse, perciò, dei tentativi del mentore di parlare con lui e di riportarlo alla realtà. Solo dopo una decina di minuti alzò lo sguardo dal suo orologio e, a quel punto, notò l’uomo chiamarlo.


- Oh. . .ehm. . .diceva? – chiese il ragazzo, dopo essersi tolto la manica ciucciata dalla bocca.


- Ti volevo chiedere se avessi qualche domanda a farmi, qualche consiglio da chiedermi. –


- Io. . .come si chiama, lei? –


- John Marshall – si presentò per la seconda volta il mentore.


- Oh sì, mi ricordo! Ha vinto la quindicesima edizione con la tattica delle trappole! Avrà intrappolato almeno cinque tributi nelle sue buche e poi li ha uccisi con una freccia, non è vero? –


- Oh. . .ehm. . .sì. Ma come fai a ricordarlo, sono passati quindici anni! –


Riven non rispose e tolse dalla tasca un foglietto spiegazzato, lo consultò per un paio di minuti e poi esclamò:


- Lei è confuso! L’ho capito grazie a questa tabella delle emozioni. –


- Non capisco come tu possa ricordarti di me. . .avevi solo un anno! – spiegò John


- Diciamo che io ho una profonda ossessione per gli Hunger Games: ho visto la maggior parte delle edizione e memorizzato i tributi e le loro tecniche di combattimento, le diverse arene con le loro caratteristiche, ricordo punti di forza e punti di debolezza di ogni ragazzo che ha partecipato hai giochi, Conosco persino la maggior parte delle tecniche che gli Strateghi hanno utilizzato per sbarazzarsi di un tributo, ma soprattutto ricordo i vincitori e le strategie che li hanno portati alla sopravvivenza! –


Tutti i presenti lo guardavano a bocca aperta: nessuno aveva mai conosciuto una persona così fissata con gli Hunger Games.


- Questo è sicuramente un punto a tuo favore, Riven. Potrai sfruttare le tue conoscenze per adottare strategie utili e scartare quelle che con altri non hanno funzionato, oppure migliorarle. Se hai anche capito il modo di pensare degli Strateghi allora sei a cavallo! –


- In realtà, sono seduto su una sedia – disse il ragazzo confuso.


- È un modo di dire – provò a spiegare il mentore, ma l’espressione di Riven non cambiò.


- Non importa – fece allora. – Andate pure a letto ora, domani sarà una lunga giornata! –





Blake Dawnson – distretto 12


Blake stava affacciato ad un finestrino, osservando i paesaggi che cambiavano velocemente ai suoi occhi. Aveva un’espressione impassibile stampata sul volto, come se niente gli importasse, come se niente potesse ferirlo. Si era offerto volontario per un dodicenne e non aveva rimpianti: probabilmente quel ragazzino aveva una famiglia,degli amici, qualcuno che gli voleva bene, mentre lui non aveva  nessuno, era solo. Tanti lo avrebbero identificato come un eroe, come una persona coraggiosa, ma lui si sentiva un codardo. Un codardo che preferiva morire, piuttosto che combattere contro i suoi dolori. Era esattamente come i suoi genitori, che si erano lasciati vincere dalla morfamina ed erano poi stati uccisi dai Pacificatori. Nemmeno lui sapeva il motivo, probabilmente era perché non lavoravano più: la droga aveva annebbiato la loro realtà e avevano cambiato completamente il modo di vivere. Era un codardo come loro, che non avevano avuto il coraggio di affrontare i problemi ed erano morti, lasciandolo solo. Si era sempre sentito arrabbiato con loro, ma aveva capito che l’unica persona che doveva odiare era se stesso perché non era stato in grado di riprendersi e per due anni era persino finito in depressione, ora ne era uscito, ma stava ancora attraversando un periodo difficile. A riscuoterlo dai suoi pensieri fu la voce timida di una ragazza:


- Ciao. –


Era la sua compagna di distretto. Prima di parlare rimase un attimo ad osservarla: aveva sciolto lo chignon laterale che portava e ora i lunghi capelli neri le ricadevano morbidi sulle spalle, gli occhi verdi lo scrutavano dubbiosi e con le mani si stava torturando il bordo della leggera vestaglia azzurra che indossava.


- Ciao – rispose accennando un sorriso, per poi rigirarsi verso il finestrino.


Shanti si avvicinò a lui e si mise anche lei a guardare i paesaggi.


- Allora il mentore è tuo padre. . . – fece ad un certo punto il ragazzo. – Sei fortunata, di sicuro sceglierà te. –


- Io. . . –


- Non ti preoccupare, non è colpa tua. –


- Blake, sono sicura che farà il possibile per aiutare entrambi! –


- Già, ma solo uno può vincere. Tu sei sua figlia e che ti piaccia o no io sono un tuo avversario. –


Lei aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse.


- Non volevo essere duro, mi dispiace – si scusò il ragazzo passandosi una mano tra i capelli.


- Tranquillo, non importa. –


- Credi che sarà così difficile? I giochi intendo. –


- Non credo. Insomma, al momento sei spinto dalla voglia di tornare a casa, ma se riesci a sopravvivere allora arriva la parte peggiore. Capita ancora che mio padre a volte si svegli durante la notte in preda agli incubi: i sensi di colpa non finiscono mai. Anche se vinci, ogni anno devi rivivere i tuoi incubi facendo il mentore, ogni anno rischi di vedere due ragazzini morire e magari li conoscevi anche! Non è facile. . . –


- Forse allora è meglio morire, no? –


- Questo non te lo so dire, ma di certo non mi arrenderò. Anche se non dovessi tornare a casa, voglio morire lottando! –


- Cambierebbe davvero qualcosa? Insomma, in ogni caso accontenteresti Capitol City. –


- Sì, è vero, ma io voglio morire rimanendo me stessa, non una pedina dei loro giochi! –





Vegas Ghellow – distretto 8


Vegas osservò il tavolo imbandito per la colazione, c’era davvero tantissima roba. Immediatamente gli venne da pensare a sua madre che sempre sacrificava un po’ del suo cibo per lasciarlo al marito e ai figli. Gli sarebbe piaciuto diventare un padre così buono, paziente e dolce, ma prima doveva vincere, solo così sarebbe potuto tornare dalla sua fidanzata e dal bimbo che portava in grembo. Non riusciva nemmeno a pensare all’idea che forse non lo avrebbe mai visto nascere. Nonostante fosse stata una cosa imprevista, era davvero felice e non voleva che Capitol City gli negasse anche di crescere il suo figlio. Si accomodò al tavolo, dove il mentore e l’accompagnatrice stavano già mangiando. All’appello mancava solo Reylen, ma il ragazzo non si stupì: aveva passato la maggior parte del tempo nella sua stanza ed era uscita solo per i pasti o per comunicazioni importanti, sarebbe arrivata a minuti ed infatti così fu.


- Allora ragazzi, ho già parlato privatamente con voi delle vostre abilità e, come vi ho già consigliato, durante l’addestramento concentratevi sulle vostre debolezze oppure sulle cose da migliorare, non fate vedere troppo le cose in cui siete bravi. Essendo il distretto 8 un distretto urbano, vi consiglio di fare un salto anche dove vi insegnano a sopravvivere: accendere un fuoco, riconoscere piante commestibili o no, queste cose insomma – disse il mentore.


Vegas lanciò un’occhiata a Reylen, che era molto concentrata. Si chiese quali fossero le sue abilità, poteva sembrare debole, ma secondo lui non era da sottovalutare: aveva uno sguardo determinato in volto.


- Parlando delle alleanze, secondo me potreste essere una buona accoppiata, ma ovviamente sta a voi decidere. È meglio se non entrate a fare parte del classico gruppo dei favoriti: sarebbero capaci di prendervi e usarvi per quello che gli servite e poi colpirvi alle spalle quando non hanno più bisogno di voi. Stare da soli è sconsigliato, trovatevi almeno un alleato, qualcuno di cui vi potete fidare. C’è una cosa che è davvero la più importante: gli sponsor. La vostra vita nell’arena dipende molto anche da loro: potrebbe capitare che vi troviate in una zona senz’acqua e a quel punto se piacete a loro non avrete problemi, altrimenti. . . –


Era un ragazzo allegro e divertente, era socievole e non faticava a farsi degli amici, ma questo sarebbe piaciuto agli sponsor? Oppure avrebbero preferito un ragazzo misterioso? O il classico arrogante pieno di sé? Non gli era mai importato del giudizio altrui, ma stavolta in ballo c’era la sua vita.


- Come possiamo piacergli? – chiese.


- Dovete comportarvi come vogliono loro e non è difficile capire questo, il problema è farlo. Dovrete essere disposti a rinunciare ai vostri principi e al vostro vero carattere. –


- Non voglio diventare qualcuno modellato da Capitol City! – protestò Reylen.


- Allora devi sperare che tu piaccia loro così come sei – disse il mentore.


Come poteva essere sicuro che agli sponsor lui piacesse? Non voleva cambiare, ma voleva tornare a casa. Sarebbe stata una dura scelta.





Felicity Morrison – distretto 10

Felicity si stava mordendo le labbra per non lamentarsi con il suo staff preparatori che le stava facendo una pulizia completa, ma anche piuttosto dolorosa. Il mentore le aveva consigliato di stare in silenzio e lasciar fare ai capitolini il loro lavoro e, sebbene odiasse essere comandata, aveva deciso di ascoltarlo. Quando era entrata nella stanza l’avevano guardata male e non li biasimava per questo: lei non si occupava del suo corpo o di apparire bella, sia perché aveva altre cose a cui pensare, sia perché non le interessava. Nei distretti la gente non aveva la possibilità di lavarsi molto spesso, ma lei non lo faceva praticamente mai, lo riteneva solo una perdita dio tempo. Un sorriso involontario le spuntò sul viso al pensiero della madre, Sarah, che spesso la riprendeva per questo suo essere ribelle. Lei era la sua migliore amica, la sua confidente e la sua consigliatrice e anche se era passato meno di un giorno le mancava già tantissimo. Si chiese che cosa stesse facendo ora la sua famiglia. Chissà se avevano mangiato e se si erano messi al lavoro nella loro fattoria, oppure non erano nemmeno usciti di casa? E Samuel, il suo fidanzato? Aveva fatto scendere le lacrime che aveva trattenuto per tutta la durata dei saluti per farle forza? E le sue sorelle avevano capito quello che stava per affrontare? Probabilmente no, erano troppo piccole, ancora lontane dall’affrontare la dura realtà, ma presto sarebbe giunto anche il loro momento. Avrebbe tanto voluto essere lì con la sua famiglia, le mancava tanto. Sentiva la forte necessità di un abbraccio, uno di quegli abbracci che ti fanno sentire al sicuro e a casa, ma aveva la sensazione che qui a Capitol City non ne avrebbe ricevuto nessuno così.

- Ecco fatto! – esclamò una capitolina dalla voce acuta.


Felicity la osservò per un attimo, era bassa e grassoccia, i capelli erano corti e rosso fuoco e aveva tatuaggi strani su tutto il corpo. Si chiese perché i capitolini si conciassero in quel modo. Forse quella donna era anche carina, ma era completamente modificata da tinte, ricostruzioni, piercing e tatuaggi, non riusciva a trovare niente di naturale in lei.


- Ora cosa devo fare? –


- Tra poco ti raggiungerà lo stilista e parlerà con te del vestito della sfilata! Sono sicura che sarai bellissima! – spiegò la stessa donna di prima.


La ragazza sperava solo che non fosse niente né di troppo elegante, né di troppo trasparente, non voleva di certo andare in giro mezza nuda. Si sentiva strana a dover dipendere così tanto dalle decisioni di altri, nel suo distretto, nonostante tutto, era libera. Ripensò ai pomeriggi passati a cavalcare il suo cavallo, Lyra, nelle valli del distretto. In quei momenti si sentiva davvero libera, priva di obblighi e doveri, si sentiva felice e si chiese se avrebbe mai potuto riprovare sensazioni così un giorno. Aveva infatti l’orrenda sensazione che nemmeno se avesse vinto sarebbe stata felice.






SPAZIO AUTRICE

Ciao a tutti!
So di essere davvero in ritardo, ma questo primo mese di vacanza è stato piuttosto intenso e non avevo nemmeno molta ispirazione su questo capitolo. Inoltre è appena finito il CRE e io sono stata animatrice ed è praticamente come un lavoro, insomma ho avuto tempo di scrivere solo il sabato e la domenica, visto che la sera ero stanca morta e ci sono anche i compiti, gli amici, eccetera. In ogni caso mi scuso per il ritardo!
Vi avevo detto che ci sarebbero stati sei pov, invece ce ne sono solo cinque, perché non sapevo bene cosa scrivere, questo vorrà dire che ci sarà un capitolo con sette pov. Spero che vi sia piaciuto e spero di aver sviluppato bene i vostri personaggi.
Come sempre ho delle comunicazioni varie:
  • le votazioni per il numero di morti del primo giorno sono ufficialmente chiuse. Ho fatto la media, non ricordo il numero preciso, ma comunque arrotondato è sette.
  • ho già scelto quali saranno le persone che ci lasceranno il primo giorno e vi giuro che è stato molto difficile decidere perché nonostante la storia sia iniziata da poco mi sono affezionata a loro, non voglio nemmeno immaginare quanto sarà difficile scrivere delle loro morti. Chi ho scelto? Non ve lo dirò certo ora! Muahahahahah!
  • ho deciso anche le alleanze, alcune si formeranno prima dell’arena, altre invece durante i giochi, non dovrete aspettare molto per conoscerne alcune. Ho cercato di ascoltare le vostre preferenze, ma un po’ ho agito come meglio credevo che fosse.
  • il prossimo capitolo sarà sulla sfilata e sulla prima notte a Capitol, spero di pubblicarlo presto!
  • sabato parto per Marsa Alam (*_*) e non credo riuscirò a scrivere un capitolo in una settimana, quindi forse dovrete aspettare un po’ di più :(
  • ho creato un profilo per EFP su facebook, chiedetemi l’amicizia, mi chiamo Felix Felicis EFP

Come sempre ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e vi chiedo di lasciarmi un commento per sapere cosa pensate di questo!
Un bacione,
Felix
p.s. Spero che stiate passando delle belle vacanze!

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Capitolo 7
*** Riflessioni ***


 Riflessioni


Kathleen Vince – distretto 3

La ragazza si guardò allo specchio con occhio critico: indossava un abito completamente grigio, aderente e che le arrivava appena sotto il sedere, aveva delle spalline e una profonda scollatura a cuore. Si sentiva a disagio e in imbarazzo e non capiva cosa c’entrasse quell’abito con il suo distretto. Producevano macchine tecnologiche e quindi ci poteva stare il colore grigio, ma il resto non aveva senso. La sua stilista, Margaret, la raggiunse e notò con orrore che in mano aveva uno strano copricapo. Glielo posizionò sulla testa e poi la guardò raggiante e sorridente. Era una specie di lampadina gigante che si accendeva e si spegneva continuamente. Non si era mai sentita così ridicola in vita sua.

- Sei bellissima! – esclamò la capitolina.


Kathleen non poté fare a meno di arrossire, nonostante sapesse benissimo che non era vero. I complimenti la facevano imbarazzare e le capitava spesso di diventare tutta rossa.


- Grazie – rispose, con un timido sorriso.


Diede un’ultima occhiata al suo viso nello specchio: era lievemente truccata e i capelli biondi erano sciolti. Sapeva che vestita così non avrebbe attirato molti sguardi, avrebbe dovuto fare qualcosa per gli sponsor, la sua unica possibilità di uscire dall’arena. Si diresse con la stilista dove i tributi aspettavano che la cerimonia iniziasse. Riven era già sul carro, vestito anche lui di grigio, ma intesta non aveva nessuna lampadina, bensì l’ingranaggio di qualche macchina, doveva essere fatto di qualche materiale leggerlo, probabilmente polistirolo. Salì anche lei sul carro, torturandosi le mani per l’agitazione. Che impressione avrebbe dato ai capitolini? L’avrebbero almeno considerata di uno sguardo? Molte domande le passavano per la testa, ma non riusciva a rispondere a nessuna. La musica di apertura iniziò e il carro del distretto 1 partì e fu accolto da un potente boato, dopotutto erano i favoriti. Presto toccò anche a loro, attraversarono le porte che davano sulle strade bordate di gente e incominciarono il giro. Quando passavano la gente applaudiva e li osservava, Kathleen cercava di sorridere, ma si sentiva in imbarazzo. Provò allora un vecchio trucco: immaginò al posto dei capitolini i suoi amici e tutto fu più facile. Stavano per arrivare all’Anfiteatro cittadino, quando la ragazza non poté fare a meno di notare che le persone li guardavano a bocca aperta, o meglio, guardavano Riven a bocca aperta. Si girò verso il compagno e vide che si stava spogliando del vestito, gli lanciò uno sguardo confuso e lui disse:


- La stoffa mi da fastidio! –


Poi si sedette e cominciò ad osservare il suo orologio in silenzio. La folla cominciò a protestare e ad urlare dei “bu!”. Kathleen sapeva dei suoi problemi e quel ragazzo un po’ le faceva tenerezza. Si accomodò quindi accanto a lui, dopo essersi liberata del fastidioso copricapo e si mise a fargli qualche domanda sulla meccanica. Alla ragazza non importava del parere degli altri, o delle ramanzine che le avrebbero fatto dopo, capiva Riven e voleva stargli vicino.



Elaine Claythorne – distretto 4

Elaine sbuffò. Ogni anno gli stilisti del distretto 4 vestivano i tributi allo stesso modo! Vestivano per modo di dire, visto che erano praticamente nudi, escluse le parti intime che erano coperte da stracci marroni. Sopra aveva una rete da pesca, decorata da qualche conchiglia e qualche alga. Allo stesso modo era vestito Michael, il suo compagno. Fortunatamente il suo stilista le aveva concesso di tenere gli orecchini a forma di conchiglia che le regalò sua nonna, altrimenti lo avrebbe già preso a calci. Odiava le persone che giudicano solo dall’aspetto esteriore, ma gli sponsor avrebbero badato anche a questo e lei non voleva – non poteva – sembrare banale. Quando il carro uscì iniziò a sorridere, a salutare tutti, a mandare baci, a fare occhiolini. Si sentiva importante ad essere così acclamata! Dopotutto anche se i vestiti erano quello che erano, non avrebbero infangato la fama del distretto 4, gli sponsor avrebbero fatto a gara per scommettere su di loro, ne era convinta. Di certo non come i poveri sfigati del tre che, con quegli aggeggi in testa, facevano solo ridere!

- Sorridi un po’, Michael! – lo ammonì, pentendosene subito dopo vista l’occhiataccia che ricevette.


I ragazzi più grandi le mettevano un po’ di soggezione, sapeva che era una paura stupida, ma non riusciva proprio a liberarsene. Certo che con quell’espressione faceva fare brutta figura anche a lei! Fortunatamente, la sua faccia annoiata poteva facilmente passare per una determinata e quindi non se ne curò più di tanto. Dovette trattenere una risata quando sul carro davanti a lei i due ragazzi si sedettero e il maschio era perfino mezzo nudo!


“Poveri sfigati, non avranno nemmeno una possibilità!” pensò.


Non avevano capito che in gioco c’era il loro onore, la loro fama, la vittoria? No, pensavano a salvarsi la pelle e basta, ma così non ci sarebbero certo riusciti e, inoltre, nessuno si sarebbe ricordato di loro. Però di lei dovevano ricordarsene, Elaine Claythorne non poteva essere un tributo qualsiasi.


Il presidente Jonathan Clark iniziò il suo discorso di benvenuto ufficiale da un balcone della sua residenza. Come tradizione, durante le sue parole, le telecamere si soffermarono a inquadrare il viso di ciascun ragazzo.


- Un caro benvenuto a Capitol City, carissimi tributi. Spero che passiate un bel soggiorno qui. Tra poco inizieranno gli Hunger Games e sono davvero curioso di vedere come ve la caverete! –


- Sicuramente meglio di altri - sussurrò la ragazza, così piano da non essere sentita nemmeno da Micheal.


Un sorriso sadico e determinato le si aprì sul volto quando le telecamere la inquadrarono.



Jace Eaton – distretto 6


- E che la buona sorte possa essere sempre a vostro favore! – terminò il presidente.


L’inno nazionale partì, i carri fecero un ultimo giro nell’Anfiteatro cittadino e poi scomparvero nel Centro di Addestramento. Non appena individuò il suo stilista, Jace gli lanciò un’occhiataccia: odiava il vestito che gli aveva fatto indossare. Portava una maglietta e dei pantaloni neri e in vita, come fosse una specie di salvagente, c’era una ruota. Inoltre, sulla fronte c’era fissato un faro illuminato. Lui e Kaya, la sua compagna di distretto, erano solamente ridicoli. Non avevano attirato l’attenzione di nessuno sponsor, poteva scommetterci e la colpa era solo dei loro stilisti! Non poteva di certo essere colpa sua: lui sapeva come attirare l’attenzione! Al distretto lo conoscevano tutti, aveva un sacco di amici ed era molto popolare.


- Gli sponsor non ci hanno nemmeno degnato di un sguardo – si lamentò con Kaya, la compagna di distretto.


- Ci saranno altre occasioni – rispose lei pazientemente, anche se era chiaro che fosse nervosa.


- Pensavo che gli Hunger Games potessero aumentare la mia popolarità, ma se andiamo avanti così! -


- Possibile che tu non pensi ad altro se non alla tua fama? In gioco c’è la nostra vita! – sbottò arrabbiata.


- Lo so benissimo, ma so anche che ho poche possibilità di sopravvivere e non voglio morire senza che nessuno si ricordi il mio nome! Non voglio essere dimenticato! –


- Sono sicura che la tua famiglia e i tuoi amici non si scorderanno di te – disse la ragazza con un tono più dolce.


Jace abbassò lo sguardo. Davvero sarebbe per sempre rimasto nei loro cuori? Lui non ne era convinto: suo padre era morto e sua madre si era risposata con un uomo, con cui lui non andava affatto d’accordo, inoltre considerava la madre frivola e superficiale. C’erano i suoi fratelli, ma erano piccoli, avrebbero fatto in fretta a dimenticarsi di lui. I suoi amici stavano con lui perché era ricco e popolare, a chi davvero importava di lui?


- Non ne sono così sicuro – rispose in un sussurro.


- Ci sarà qualcuno che ti vuole bene, che ti è sempre stato vicino! –


Due visi passarono in testa al ragazzo: Ashely, la sua fidanzata e Megan, la sua migliore amica. Loro erano le persone più importanti della sua vita, le uniche a cui davvero importasse di lui. Annuì debolmente.

- Allora pensa a loro e fregatene degli sponsor, della popolarità e di tutto il resto. Cerca di vincere per loro! –


Non sapeva perché Kaya gli stesse parlando così, non si erano mai rivolti la parola prima di allora e probabilmente diceva queste cose per convincere se stessa più che lui, ma non poteva negare che ora si sentisse meglio.



Isabelle Hadlington – distretto 2


Una volta terminata la cena, Isabelle e Merian si alzarono da tavola e, mentre il ragazzo rimase a parlare con il mentore, lei si diresse verso la sua camera. Si buttò sul letto, ma pochi istanti dopo dovette rialzarsi perché sentì qualcuno bussare alla porta. Andò ad aprire e si trovò davanti il suo mentore.


- Posso entrare? – le chiese.


La ragazza annuì e lo lasciò passare. L’uomo si sedette sul bordo del letto, mentre lei rimase in piedi a scrutarlo con aria interrogativa.


- Isabelle, credo che dovremmo parlare della tua strategia nei giochi – le disse il mentore durante la cena. – Merian cercherà un’alleanza con il resto del gruppo dei favoriti, ma non credo sia il caso che lo faccia anche tu. –


- Che cosa intendi dire? – chiese sospettosa.


- Hai solo quattordici anni. . . –


- Ne ho quindici! –


- È la stessa cosa, sei piccola, non sei certo in grado di affrontare gli Hunger Games da favorita! –


- Secondo te perché nessuno si è offerto al mio posto? Tutti mi temono e mi odiano al distretto, sono la più forte dell’Accademia! – urlò la ragazza, arrabbiata.


- Ascolta, Isabelle, sono sicuro che te la cavi, ma un’alleanza con i favoriti potrebbe essere pericolosa per te – le spiegò, cercando di calmarla.


- E cosa suggerisci? Sentiamo! –


- Penso che tu debba adottare la strategia di una ragazzina impaurita: è la tua unica possibilità per salvarti. Devi solo fare finta di non sapere nemmeno cosa sia un’arma e quando un tributo ti si avvicina lo devi guardare spaventata, nel sessanta percento dei casi se ne andrà e a quel punto potrai attaccarlo! -


- Mi stai sottovalutando! – protestò.


- È solo un consiglio, ma credo davvero che tu dovresti ascoltarmi. –


- Non farò mai una cosa del genere! –


Il mentore sospirò sconfitto e le chiese:


-  Cosa vorresti fare, allora? –


- Voglio allearmi con il resto dei favoriti, combattere, uccidere e vincere! –


- Isabelle, ne sei davvero certa ? C’è la tua vita in ballo! – provò a convincerla ancora il mentore.


- Non solo quella, c’è la fama, la gloria, l’onore! –


- Quindi sei sicura della tua scelta? –


- Sicurissima! –  

Il mentore se ne andò con un sospiro, lasciandola sola. Odiava che le persone  la credessero incapace di un'impresa simile! Lei era forte e non era affatto piccola come la definivano. Lei avrebbe vinto quei giochi, ad ogni costo.



Reylen Sheed – distretto 8


- Ciao – disse una voce che la fece sobbalzare.


Si voltò e vide il suo compagno di distretto guardarla con un sorriso, lei gli fece un cenno di saluto e poi tornò a guardare la città affacciata al balcone.


- Posso venire? – chiese il ragazzo.


Reylen scrollò le spalle senza guardarlo e lui si avvicinò.


- C’è davvero un bel panorama! –


- Già. –


- Allora ce l’hai la voce, stavo cominciando a pensare che fossi muta! –


La ragazza gli rivolse un’occhiataccia che lo fece ammutolire.


- Arriva al punto: che cosa vuoi da me? –


- Io. . .Beh, il nostro mentore ha detto che saremmo una bella accoppiata per un’alleanza e volevo chiederti che cosa ne pensi – spiegò il ragazzo con un filo di voce, forse temendo la sua reazione.


Lei annuì appena e rimase in silenzio a meditare sulle parole di Vegas. Sapeva che un’alleanza le sarebbe servita, aveva già poche possibilità e stare da sola non faceva che diminuirle, ma non sapeva se fidarsi del compagno.


- Non saprei, tu che dici? –


- Dico che di una persona con cui mi voglio alleare dovrei fidarmi e per fidarmi dovrei conoscerla meglio. –


Il suo ragionamento era giusto, non poteva negarlo, ma non le andava certo di parlare di sé con la prima persona che passava.


- Facciamo che comincio io e poi, solo se ti va, mi dici qualcosa di te – disse lui, come se le l’avesse letta nel pensiero.


- Okay. –


- Chiedimi quello che vuoi sapere – fece lui scrollando le spalle.


- Come ti sei fatto quella cicatrice sul braccio sinistro? –


- Sei attenta ai particolari e diretta, mi piaci. Quando avevo quattordici anni ero vittima di bullismo, questa me l’ha procurata un ragazzino di nome Ben Palmer, perché si era invaghito di Amens, la ragazza che avevo a quel tempo e che ho anche ora. Avevo sempre sopportato tutto in silenzio, ma un giorno mi sono arrabbiato ed è scoppiata una rissa. A tutti però racconto che mi sono tagliato picchiando un Pacificatore che aveva picchiato mia madre. –


- Ho capito. E come è finito lo scontro? –


- Io ho ricevuto questa cicatrice e un dente scheggiato, mentre lui un occhio nero e un braccio rotto. Alla fine però ho vinto io! –


- Amens è la ragazza che è incinta, vero? –


- Come lo sai? –


- Le voci corrono nel distretto e questo nome non è molto comune, quindi. . . –


- Sì, è incinta. Spero solo di vedere mio figlio. . . –


La ragazza rimase in silenzio, le dispiaceva, certo, ma dopotutto anche lei voleva tornare a casa.


- Si è fatto tardi, ci vediamo domani. –


- Domani inizia l’addestramento. . .potremmo allenarci insieme! –


- Ci penserò, ora devo andare. –


- Buonanotte, Reylen! –


- Buonanotte, Vegas. –



Alexia Black – distretto 5


Riusciva a vedere solo fuoco, rosso e vivido. L’odore di fumo le ostacolava la respirazione e incominciò a tossire forte. Cercò di uscire da lì, non poteva stare in quella stanza, sarebbe morta. Non riusciva a muoversi, sembrava che le sue gambe si fossero trasformate in piombo. Con difficoltà si sollevò da terra e uscì dalla stanza ritrovandosi in salotto, sdraiato sul pavimento c’era il suo fidanzato Matthias. Si gettò accanto a lui piangendo, ma non c’era più niente da fare. Il fuoco era sempre più intenso e non riusciva a vedere niente. Sentì la voce di suo fratello chiamarla in lontananza urlando di dolore, ma poi smise anche quella. Le fiamme l’avevano circondata, urlò, mentre il fumo e le lacrime non le permettevano più di vedere. Il fuoco era sempre più vicino, pochi centimetri e l’avrebbe toccata. Faceva caldo, tanto, e aveva paura. Sarebbe morta, lo sapeva. Le fiamme la raggiunsero e. . .


Si svegliò urlando, madida di sudore e con le guance rigate dalle lacrime. Era l’ennesima volta che faceva quell’incubo, ogni volta cambiava leggermente ma in sostanza era quello. I suoi genitori erano morti in un incendio quando lei aveva tredici anni. La casa prese fuoco e gli unici sopravvissuti furono lei e suo fratello, Josh. Si trasferirono allora da Matthias, quello che divenne poi il suo fidanzato. Temeva il fuoco più di ogni altra cosa al mondo, era la sua paura più grande. Si alzò e bevve un bicchiere d’acqua e cercò di calmarsi. Rimase seduta sul bordo del letto finché il suo battito non tornò regolare e poi si sdraiò, cercando di riprendere sonno, anche se non era facile. Sentì qualcuno bussare e mormorò un “avanti” non molto convinto. La porta si aprì, mostrando Nigel, il suo compagno di distretto, in pigiama e dall’aria preoccupata.


- Va tutto bene? Ho sentito un urlo. –


- Tutto bene, era solo un incubo. – rispose lei, accennando un sorriso.


- Ah, capisco. Allora posso andare? –si assicurò.


- Sì, tranquillo. –


- Buonanotte, Alexia. –


- Notte! –


Lei e Nigel avevano già stretto un’alleanza su consiglio del mentore, ma, sempre secondo lui, dovevano cercare anche qualcun altro. Lui sembrava simpatico, per quel poco che si erano parlati, e qualcuno di cui potersi fidare. Era quel tipo di persona che guardi e pensi “lui è una persona sincera e leale”. Si vedeva chiaramente e non poteva non essere contenta di questo. Se lei fosse morta, sarebbe stata contenta se avesse vinto lui, era sicuramente meglio di quei favoriti che pensavano solo alla fama e alla gloria, non li capiva affatto. Ora però doveva smettere di pensare e riaddormentarsi, il giorno seguente sarebbe iniziato l’addestramento e aveva bisogno di energie. Così appoggiò la testa sul cuscino sperando di non sognare incendi o morti.





SPAZIO AUTRICE

Ciao a tutti!

So che è un mese che non aggiorno, ma sono stata una settimana in Egitto, una in Molise e per di più sono davvero indietro con i compiti delle vacanze :(
Comunque ecco qui un nuovo capitolo, spero sinceramente che vi sia piaciuto e che abbia rappresentato bene i vostri personaggi.
Il prossimo capitolo sarà sull’addestramento e avrà sette pov. Vi avviso già da ora che non so quando potrò aggiornare, perché come ho detto prima sono davvero indietro con i compiti. Spero prima che inizi la scuola, ma non garantisco nulla.
Come sempre ringrazio chi ha recensito :)
Un bacione,
Felix
p.s. Nel mio profilo ci sono i link al gruppo facebook dell’interattiva e al mio profilo facebook per EFP, se vi va passate :-*

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Capitolo 8
*** Addestramento e alleanze ***


Addestramento e alleanze

Matthew White – distretto 11

Erano le dieci e qualche minuto, lui e Alexandra erano appena entrati nella grande sala dove si sarebbe svolto l’addestramento. Non ancora tutti i tributi erano arrivati, ma ce ne era già qualcuno disposto in cerchio. Si misero anche loro in posizione, aspettando i loro compagni. La ragazza gli lanciò uno sguardo teso e preoccupato, ma lui cercò di tranquillizzarla con un mezzo sorriso. Quando tutti arrivarono il capo istruttore, una donna, spiegò il programma di addestramento e le regole  che avrebbero dovuto rispettare, poi diede il via agli allenamenti.
- Cosa facciamo, Matt? – chiese tesa Alexandra prendendolo per mano.
- Direi di cominciare ad allenarci, ma tieni gli occhi aperti in cerca di un possibile alleato. Era il tuo piano, ti ricordo! – rispose lui.
- Giusto. Dividiamoci, avremo più possibilità – suggerì.
- Okay, io vado nella sezione dei nodi e delle trappole, tu? –
- Coltelli. –
- Perfetto, a dopo – le disse con un sorriso incoraggiante, prima di dirigersi alla postazione prescelta.
Una volta arrivato, l’istruttore iniziò a mostrargli come fare qualche nodo semplice, mentre il ragazzo del 5, vicino a lui, era già passato a trappole e intrecci complicati.
- Sei bravo. . . – si complimentò, lasciando la frase in sospeso, non ricordando il suo nome.
- Nigel – rispose l’altro con un sorriso. – Comunque grazie, ma sono in vantaggio, visto che sapevo fare qualcosa già da prima. -
- Capisco, io di nodi invece non mi intendo! – ammise Matthew, lanciando un’occhiata scoraggiata al suo lavoro.
- Perché questo dovevi farlo passare da sopra, non da sotto! – gli mostrò il ragazzo del 5, sistemando l’intreccio.
- Oh, ecco! Grazie mille, Nigel! –
- Figurati! –
- Senti, se posso chiedertelo: tu hai già qualcuno con cui allearti? – chiese Matthew insicuro.
- Sì, con la ragazza del mio distretto, Alexia. E tu? –
- Idem, con Alexandra, ma stiamo cercando qualcun altro. . . – confessò.
- Sarebbe una proposta? –
- Se ti va. . . –
- Dovrei parlarne con Alexia, però senza di lei non se ne fa nulla! –
- D’accordo! – fece Matthew con un sorriso.
Nigel si alzò e il ragazzo lo osservò da lontano mentre parlava con la sua compagna di distretto e si rallegrò quando la vide annuire: la caccia agli alleati non era andata affatto male. Era sicuro che ad Alexandra i due sarebbero andati più che bene!


Merian Oleg – distretto 2

Era seduto a tavola nella mensa, dove era stato servito il pranzo. Con lui c’erano i tributi dell’1, quelli del 4 e la sua compagna di distretto. Non c’era stato bisogno di parlare molto per creare un’alleanza tra loro, era una tradizione che i loro distretti si alleassero, avevano persino un nome: i Favoriti. Si erano semplicemente osservati un po’ da lontano, assicurandosi che tutti avessero delle abilità e poi il gruppo si era formato da sé.
Doveva ammettere che all’inizio dubitava di alcuni componenti della alleanza: Isabelle, del suo distretto, e Elaine, del 4. Avevano rispettivamente quindici e quattordici anni, ma si era dovuto ricredere nel vederle allenarsi. L’altra femmina del gruppo era Cornelia, dell’1, che non si poteva assolutamente definire “bella”, ma nemmeno “carina” o “accettabile”. Era alta più di due metri, il naso aveva una grossa gobba ed era molto lungo e aveva anche un occhio di vetro. Era, però, forte nella lotta corpo a corpo, abilissima con  la spada e niente male con l’arco ed era questo ciò che contava, dopotutto. Con il ragazzo dell’1, Alvin, non aveva parlato, era un tipo solitario e taciturno, sempre sulle sue, ma lo aveva visto combattere con un  istruttore e doveva ammettere che era davvero bravo. Michael, invece, era un ragazzo allegro e un asso col tridente. Poteva dunque affermare che, quell’anno i tributi avrebbero dovuto cominciare ad aver paura dei Favoriti.
- Allora, qual è la strategia? – chiese Elaine, quasi intimorita.
- Uccidere, ovviamente – rispose Cornelia con un’occhiataccia.
- Okay, ma come lo facciamo? – insistette la ragazza del 4.
- Ma come vuoi che si faccia? – fece, alzando la voce, l’altra.
“Certo che è decisamente irritabile” pensò Merian.
- Credo che Elaine intendesse con che strategia – intervenne Michael a difendere la compagna di distretto. – E penso anche che sia giusto discuterne! –
- Sentite, quello che conta è uccidere e vincere, il resto lo improvviseremo! – sbuffò Cornelia.
- Ragazzi, basta! Mi state davvero stufando! Non ho voglia di passere il pranzo a litigare per una sciocchezza del genere! – brontolò Merian.
- Non credo sia proprio una sciocchezza, visto che in palio c’è la vittoria e, come conseguenza, la nostra vita! - ribatté Isabelle.
Merian la guardò male, odiava quando qualcuno lo contraddiceva e odiava ancora di più che le cose si protraevano per troppo tempo! Stavano solo sprecando tempo per discutere di cose superflue.
- Okay, ma allora facciamolo in fretta, non mi va di discutere! –
- Che ne dite della solita tecnica di procurarci delle armi e attaccare alla Cornucopia e, quando tutti se ne sono andati, prendere le provviste rimaste e poi pensare con calma a dove andare? –
- E se qualcuno ci attaccasse? – chiese Michael.
- Nessuno attacca i Favoriti – rispose Cornelia, che sembrava scocciata dalla domanda e Merian le diede mentalmente ragione, il suo era un dubbio stupido.
- Giusto, comunque mi sembra una buona idea, Elaine. Tu, Alvin, che non hai ancora parlato, cosa ne pensi? – domandò ancora il ragazzo.
- Per me va bene – rispose l’interpellato.
- Perfetto, visto come abbiamo risolto in fretta? Ora perdonatemi, ma vado a prendermi una fetta di torta. –
Detto questo, Merian se ne andò, lasciando i cinque ragazzi da soli a discutere. A lui non andava proprio di passare così il suo pranzo.


Kaya Patel – distretto 6


Kaya non immaginava che trovare un alleato fosse così difficile: dovevi trovare qualcuno di cui poterti fidare e farlo mentre cercavi di allenarti. Era, a dir poco, una grande impresa. Per di più le sembrava che tutti si fossero già trovati un compagno o più di uno e questo complicava la situazione. I Favoriti si erano formati già dal giorno precedente e, sebbene sembrasse ci fossero delle tensioni da loro, incutevano abbastanza paura.

Diede un’occhiata in giro e poi notò i due dell’8 alla postazione di riconoscimento di piante, frutti e bacche commestibili. Le sembravano persone di cui potersi fidare, ma li aveva anche visti allenarsi e se la cavavano. Si avvicinò a loro un po’ timorosa e li salutò:
- Ciao. –
- Ehi, ciao. . .Kaya? – rispose il ragazzo con un ampio sorriso. Le pareva si chiamasse Vergas, Vigas o qualcosa del genere. Invece la ragazza le lanciò un’occhiata tra il dubbioso e l’incuriosito.
- Sì, sono Kaya, del distretto 6 – confermò mostrando il quadrato di stoffa, attaccato al petto.
- Io sono Vegas e lei è Reylen! –
“Vegas, ecco com’era il suo nome!” pensò, accennando un sorriso.
- Ehm. . .voi siete alleati? – chiese timidamente.
- Noi. . . – fece per rispondere lui, ma la sua compagna di distretto lo interruppe:
- Non credo che ti debba interessare – ribatté fredda. - E tu, Vegas, ricordati che sono tutti tuoi avversari qui dentro. Fossi in te non andrei in giro a raccontare i fatti miei! – lo riprese con un’occhiataccia.
- Io. . .mi dispiace. Ero solo curiosa perché stavo cercando qualcuno con cui allearmi, ma ho afferrato il concetto, non vi disturberò a lungo – le rispose, prima di voltarsi e allontanarsi dalla coppia.
Ma chi si credeva di essere quell’arrogante? Era stata fin troppo brava a non risponderle a tono, ma non aveva intenzione di crearsi nemici ancora prima di entrare nell’arena.
Si stava dirigendo verso la postazione della spada, quando qualcuno la prese per un braccio e la fece voltare. Si trovò davanti una ragazza dai capelli castani legati in una crocchia, gli occhi di un colore verde chiaro e leggermente allungati, con il viso magro, un po’ spigoloso e dai lineamenti accentuati.
- Ehm, Kaya, sono venuta per scusarmi. So che non avrei dovuto reagire così, ma vedi. . .per me non è affatto facile fidarmi delle persone e quindi. . . Io e Vegas ne abbiamo parlato e se ti va puoi allenarti con  noi! – disse Reylen con un sorriso timido e insicuro.
Kaya la scrutò per un attimo, cercando una traccia nei suoi occhi che la stesse prendendo in giro, ma poi sorrise sinceramente e le disse:
- Ti capisco, non è facile fidarsi di qualcuno con cui parli per la prima volta. –
- Già, soprattutto se ti sei fidata troppe volte delle persone sbagliate – concordò l’altra, parlando forse più a se stessa che alla ragazza.
- Allora, alleate? – chiese poi Reylen con uno sguardo speranzoso, porgendole una mano.
- Alleate – le rispose stringendogliela.


Jake Sander – distretto 9


- Per me va bene, ma non senza Riven – gli rispose Kathleen, quando le propose un’alleanza. Jake lanciò un occhiata al ragazzo citato dalla ragazza del 3. In questo momento stava cercando di prendere in mano una spada, ma, essendo troppo pesante per lui, lo trascinò per terra e si rimise in piedi goffamente.

- Sei sicura? – le chiese con uno sguardo dubbioso. –Insomma, guardalo: non ha speranze! –
- Non dire così, Jake! Lui ha dei problemi e non posso abbandonarlo! –  ribatté Kathleen.
Non è che odiava Riven, o qualcosa del genere. Era a conoscenza dei suoi problemi, ma lui voleva solo tornare a casa dai suoi fratelli, semplicemente sapeva che stringere un’alleanza con lui avrebbe potuto comportare dei rallentamenti. Era da egoisti desiderare di tornare a casa?
- Arriverà il momento in cui dovrai scegliere tra la sua vita e la tua, a quel punto cosa farai? Ti sacrificherai per lui? –
- Non sto dicendo che morirò per salvarlo, ma solo che cercherò di aiutarlo finché posso – si spiegò, esasperata da quelle domande.
- È un tuo avversario, che ti piaccia o no! – provò a farla ragionare lui.
- Non è una vera battaglia se si hanno armi impari. Non voglio vincere in questo modo! –
- Non si tratta di una semplice vittoria. –
- Lo so e lui merita di uscire da lì tanto quanto ce lo meritiamo noi! – affermò lei decisa con un tono che non ammetteva repliche.
- Hai davvero un cuore d’oro e ti ammiro per questo. Non voglio che tu pensa che io sia un egoista, sono solo. . . –
- Spaventato, lo so. Lo siamo tutti. Ti capisco, davvero, ma Riven ha delle capacità, te lo assicuro: sa molto più di tutti noi messi insieme sugli Hunger Games, sa a memoria quasi tutte le edizioni dei giochi, conosce molte strategie vincenti e persino il modo di pensare degli strateghi. Potrebbe esserci utile tutto questo! Inoltre ha anche una grande memoria e conosce alla perfezione il funzionamento di oggetti meccanici, sono abilità da non sottovalutare!– lo rassicurò con un sorriso.
- Grazie, Kathleen. Va bene, Riven starà con noi! –
- Perfetto! – esclamò lei. – Ora vado a comunicarglielo, sarà contento! –


Jack  - distretto 10


Aveva passato i due giorni precedenti, oltre ad allenarsi, a osservare le varie alleanze che si erano create e i tributi. Cercava qualcuno con cui stringere un’alleanza, ma non poteva essere qualcuno qualsiasi: doveva essere abbastanza preparato, intelligente e non troppo arrogante. Non amava i gruppi troppo numerosi, in quelli era facile che qualcuno ti voltasse le spalle. Alla fine, dopo varie analisi, era arrivato alla conclusione che il tributo più giusto con cui allearsi fosse la ragazza del 7, Allison Thomas: per ora non aveva compagni, era abbastanza preparata fisicamente, non gli sembrava una sciocca e, inoltre, era la figlia del mentore, cosa positiva.

Ora Allison si stava alleando con i coltelli, la osservò un po’ da lontano: aveva una mira niente male. Le si avvicinò con un ghigno sul volto, appoggiò le mani sui suoi fianchi, inclinandola leggermente, e le sussurrò ad un orecchio con voce suadente:
- Ti devi piegare più verso destra se vuoi centrare il bersaglio, dolcezza. –
Lei non sobbalzò nemmeno e con voce calma e fredda rispose:
- Ti conviene togliermi le mani da dosso prima che te le amputi, dolcezza. –
- Aggressiva! – fece lui staccandosi da lei e scoppiando a ridere.
- Sei brava, distretto 7 – aggiunse poi, sempre con un ghigno stampato sul volto.
- Ho un nome. -
- Allison, lo so. – ribatté lui senza scomporsi. – Ho una proposta per te, che ti interesserà di sicuro! –
La ragazza smise di lanciare coltelli e si voltò verso Jack con un sopracciglio alzato e le mani sui fianchi.-
- Come fai ad esserne certo? –
- Lasciami dirti la mia idea: io e te saremo alleati nell’arena! – rispose lui indicando prima se stesso, poi Allison.
- Perché dovrei accettare? –
- Non hai ancora qualcuno con cui allearti e poi, ammettilo, non vedi l’ora di dormire accanto a me! –
- Ma per favore! Ho un fidanzato – ribatté. – E non perdo certo tempo con qualcuno che, in ogni caso, non rivedrò mai più – aggiunse poi con tono più serio.
- Stavo scherzando sulla seconda parte. Dovremmo davvero allearci: te la cavi con le armi e anche io, se non ci credi posso darti una dimostrazione, ma penso che tu mi abbia già visto allenarmi, visto che si può dire che ti abbia pedinato nelle ultime ore.  –
- Non so se fidarmi di te. . . –
- Imparerai a farlo, non sono così male come sembro, te lo assicuro! –  promise lui, portandosi la mano destra al cuore e facendo sorridere la ragazza. – Senti, nessuno qui si fida di nessuno, siamo tutti avversari, ma sia io che te abbiamo bisogno di un alleato e, almeno che tu voglia entrare a far parte di un gruppo di tre o più persone, ti sono rimaste poche scelte e una di queste è il dodicenne del tuo distretto! –
Allison rimase per un attimo in silenzio, meditando sulle parole del ragazzo e poi gli domandò:
- Te la cavi nel corpo a corpo? –
- Piuttosto bene direi! – rispose lui, un po’ sorpreso dalla domanda.
- Okay, allora è fatta. Siamo alleati! -
- Fantastico! – esclamò - Cerca di sopravvivere almeno nel bagno di sangue – aggiunse facendole l’occhiolino.
- Non sottovalutarmi, Jack! – rispose lei ridendo.


Mark Thompson – distretto 7


La mattinata del terzo giorno di addestramento si era conclusa, nel pomeriggio avrebbero iniziato a chiamare per le sessioni private, e lui, come aveva previsto, non aveva trovato nessuno con cui stringere alleanze. Se lo aspettava, dopotutto. Chi avrebbe voluto un piccolo e gracile dodicenne come compagno? Nessuno. Non aveva speranze, non sarebbe mai tornato a casa, ne era sicuro. Lo avrebbero ucciso, non sarebbe durato nemmeno un giorno.

Si chiedeva solo se sarebbe mancato almeno a qualcuno oltre ai suoi genitori. C’era qualcuno nel distretto che gli voleva bene? Non ne era sicuro. Non era molto conosciuto, non usciva quasi mai di casa, non aveva amici e parlava poco anche con i suoi compagni di classe.
Fra qualche anno tutti si sarebbero dimenticati di lui.
Aveva paura di soffrire, non voleva sentire dolore. Sperava che avrebbero avuto pietà di lui e che gli avrebbero riservato almeno una morte veloce e indolore. Se fosse finito nelle mani dei Favoriti questo non sarebbe sicuramente successo, lo avrebbero fatto soffrire. Loro volevano dimostrare la loro forza e la loro superiorità, anche se, lo sapevano bene anche loro, contro un ragazzino era una lotta impari.
C’era un modo per non soffrire? Per morire in fretta? Sì, ma era da codardi. Lui però non era certo coraggioso, altrimenti a questi pensieri non ci sarebbe nemmeno arrivato. Aveva paura, sì, non lo negava. Forse in quel modo sarebbe stato tutto più veloce, non se ne sarebbe nemmeno accorto e forse non era nemmeno così da codardi: fare quel passo richiedeva un grande coraggio, che forse lui non aveva nemmeno per questo.
“È l’unico modo” si disse e prese un sospiro, prima di entrare nella mensa e prendere un  posto a tavola da solo, isolato dagli altri.





SPAZIO AUTRICE


Ciao a tutti!

So che è passato un mese dall’ultimo aggiornamento, ma stavolta vi avevo avvisati. La scuola è incominciata e, nonostante siamo solo alla seconda settimana, compiti e cose da studiare non mancano, anzi. Comunque eccomi qui con il nuovo capitolo!
Che dire? So che nei POV non sono molto sviluppati i pensieri dei personaggi (tranne in quello di Mark), ma dovete perdonarmi, questo capitolo serviva per far stringere le alleanze e quindi è risultato più dialogato, che con riflessioni. Ma non preoccupatevi, approfondirò i pensieri di questi personaggi più avanti.
Per tutti quelli che ritengono Allison e Jack una coppia shippabile, vi sbagliate di grosso perché lei è fidanzata con James e lui è cotto, anche se non lo vuole ammettere, di Jacqueline, quindi rileggetevi le loro mietiture. Diventeranno solo amici, se uno dei due non muore prima! Muahahahah!  
Immagino che sia chiaro a tutti quello che Mark vorrebbe fare. Perdonatemi, ma è il mio cucciolo e non mi va di riservargli una morte dolorosa, quindi credo che sceglierò questa opzione.
Finalmente avete scoperto le alleanze, anche se non tutte! Non preoccupatevi se il nome  del vostro personaggio non appare in questo capitolo, al 99% ha un alleato anche lui. Quindi vi scrivo le alleanze qua sotto, anche con i personaggi che non sono comparsi. Solo due persone non avranno un’alleanza: Mark Thompson (7) e Jace Eaton (6), poi nell’arena probabilmente ci sarà qualcuno che lascerà l’alleanza, ma basta, sto spoilerando troppo!

FAVORITI:
Cornelia Banks (1), Alvin Lorcan Theroux (1), Merian Oleg (2), Isabelle Hadlington (2), Michael Waves (4), Elaine Claythorne (4).
***
Alexia Black (5), Nigel Collins (5), Alexandra Green (11), Matthew White (11)
***
Kaya Patel (6), Reyeln Sheed (8), Vegas Ghellow (8)
***
Allison Thomas (7), Jack –senzacognome- (10)
***
April Joyce (9), Felicity Morrison (10)
***
Shanti Koyle (12), Blake Dawnson (12)
***
Kathleen Vince (3), Riven Cole (3), Jake Sander (9)

Prossimo capitolo sessioni private e preparazione per le interviste, ci saranno sette POV dei tributi che non ne hanno mai avuto uno. Spero di aggiornare presto, ma non garantisco nulla!
Per finire perdonatemi gli errori, ma ho letto velocissimamente e ho gli occhi che si incrociano! Sono davvero stanca!
Quindi ora vi saluto, sperando di non aver dimenticato niente!
Un bacione,
Felix
p.s. Grazie mille per le recensioni, vi adoro <3 perdonatemi se non vi rispondo, ma sappiate che le leggo tutte <3

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Capitolo 9
*** Desideri e speranze ***



Desideri e speranze

Alvin Lorcan Theroux – distretto 1


Alvin stava aspettando di essere chiamato dagli strateghi per la sessione privata. Sarebbe stato il primo e doveva fare buona impressione se voleva che si ricordassero di lui.
Strinse tra le mani il suo portafortuna: era un medaglione che sua madre, Elith, e suo padre, Caleb, avevano creato insieme, erano infatti due orafi. All’interno dell’involucro d’oro c’erano quattro gemme , una per ogni membro della famiglia, una ametista per la madre, un topazio per il padre, un rubino per Alvin e un topazio per il fratellino, Lowell.
Al pensiero di Elith, dovette stringere i pugni per evitare che una lacrima gli rigasse il viso. La madre li aveva infatti lasciati e si era trasferita a Capitol City, quando non si era più sentita in grado di reggere il peso delle malelingue. La famiglia Theroux era infatti soggetta alle prese in giro e alle risate di scherno dell’intero distretto, poiché Caleb, al tempo della sua mietitura, non si era offerto volontario per nessuno dei due fratelli minori che erano stati estratti. Da allora l’immagine della famiglia era stata macchiata e lui soprannominato “il codardo”. Alla donna questo all’inizio non importava, ma dopo anni di pettegolezzi contro di loro, decise, malgrado li amasse, di andarsene. Erano questi i due motivi per cui Alvin si era offerto volontario: riscattare il nome della famiglia e rendere orgogliosa la madre, così che forse sarebbe tornata a casa.
Fu chiamato ed entrò nella stanza dove, sul fondo, c’erano gli strateghi, che guardavano scettici. Alvin prese un respiro profondo, si fece coraggio  e iniziò la dimostrazione chiamando tre istruttori per combattere contro di loro. Erano alti e muscolosi, ma il ragazzo non si spaventò. Cominciò a sferrare una serie di pugni al primo, colpendolo ripetutamente sull’addome, mentre quello cercava inutilmente di difendersi. Alvin riuscì a colpirlo sul viso e un fiotto di sangue gli sgorgò dal naso, approfittando della distrazione, lo colpì ancora una volta in faccia e poi lo buttò a terra. Il secondo era più forte, ma lento nei movimenti e il ragazzo si sbarazzò di lui in poco tempo e venendo colpito solo un paio di volte. Con il terzo fu più difficile: era veloce, ma non abbastanza. Alvin gli tirò un calcio, colpendolo alla coscia, ma l’uomo gli sferrò un pugno sulla guancia, facendogli voltare la testa di lato. Il ragazzo attaccò nuovamente colpendolo sul mento e facendogli perdere leggermente l’equilibrio. Approfittando di questo gli rifilò un calcio in pancia e poi un pugno sulla guancia e l’uomo cadde a terra.
Gli strateghi lo fissarono sorpresi, ma poi lo congedarono senza tante cerimonie e il ragazzo se ne andò con un sorriso soddisfatto sul volto.


Allison Thomas – distretto 7

Allison entrò nella stanza riservata alle sessioni private un po’ titubante. Attorno a lei c’era ogni arma possibile e immaginabile, c’erano anche bersagli e manichini che si potevano colpire. Lanciò un’occhiata agli strateghi, che la stavano guardando con un ghigno. Suo padre l’aveva avvertita che l’avrebbero osservata più degli altri, in quanto figlia di un mentore e  avrebbero voluto vedere cosa era in grado di fare. L’avrebbero senz’altro paragonata al padre e sarebbero stati più severi con lei. Anche se questo non glielo aveva detto, lei sapeva che non l’avrebbero fatta uscire facilmente dall’arena: era raro vedere due vincitori della stessa famiglia.
Allison, però, non era spaventata: lei ci avrebbe messo tutta se stessa per uscire da lì e per tornare a casa.
Quando Jane, una sua carissima amica, morì nei ventottesimi Hunger Games, lei, la sua migliore amica e il suo fidanzato iniziarono ad allenarsi di nascosto in caso uno di loro fosse stato estratto. Si erano infatti promessi che nessun altro dei loro cari avrebbe perso la vita in quei giochi. Rimpiangeva di non avere avuto prima quell’idea, forse Jane, allenata, sarebbe potuta tornare a casa. Ora però lei era lì, allenata e pronta a vendicare la morte della sua amica.  
Ricambiò il ghigno degli strateghi con uno sguardo determinato, poi afferrò qualche coltello dalla lama appuntita e, da una decina di metri di distanza, lo scagliò verso il bersaglio, colpendolo esattamente nel centro. Ne lanciò uno verso un manichino e lo trafisse dove ci sarebbe dovuto essere il cuore, poi colpì uno sulla testa e infine in mezzo alla gola. Constatò che questo era ancora troppo poco e allora si bendò con uno straccio nero trovato nella stanza, ora non poteva vedere niente, ma aveva memorizzato dove fosse il manichino. Prese un respiro e, dopo qualche attimo, tirò cinque coltelli.
Si tolse la benda ansiosa e non poté fare a meno di sorridere ammirando il risultato: aveva creato una “A” sulla pancia del manichino. Lo voltò verso gli strateghi e notò che qualcuno stava sorridendo. La congedarono e uscì dalla stanza: sapeva di averli sorpresi.
Non voleva sembrare arrogante, ma voleva solo dimostrar loro che non si sarebbero sbarazzati facilmente di lei, che avrebbe combattuto e che era coraggiosa, proprio come suo padre.  


Cornelia Banks – distretto 1

Cornelia era in salotto con il compagno di distretto, i mentori, gli stilisti e l’accompagnatrice. Erano tutti sul divano in attesa che mostrassero alla televisione i punteggi delle sessioni private.
Alvin si stava torturando le mani, probabilmente era agitato. Lei, invece, era tranquilla, non le importava del suo punteggio, né di tutte le cose prima dell’arena. Per lei erano tutte sciocchezze che Capitol City faceva solo per mostrare i tributi alla gente e agli sponsor, così da attirare più pubblico e guadagnare più soldi. Ma a nessuno importava veramente di loro. Ognuno sceglieva una persona per cui tifare e se vinceva bene, se no avrebbe sperato di indovinare il vincitore nell’edizione successiva.
A Cornelia non interessava tutto ciò, non le interessava di avere degli sponsor, di piacere alla gente, che qualcuno tifasse per lei. La ragazza voleva solo entrare nell’arena e uccidere. Uccidere legalmente. Quanto le piaceva torturare le sue vittime, vederle implorarla di smettere, vederle piangere, pregare e morire lentamente e dolorosamente. Aveva ucciso tre volte in tutta la sua vita: la prima vittima era stata un ragazzo. Avevano avuto un combattimento non autorizzato nell’accademia, ma finì male e lei perse il suo occhio sinistro, che dovette sostituire con uno di vetro. Avere i segni di una sconfitta sulla faccia le portavano grande rancore e allora lo uccise, ma non riuscì a placarlo nemmeno con la vendetta. Le sue altre due vittime furono due ragazze che erano entrate in competizione con lei. Le autorità del distretto chiusero i casi, ma Cornelia era sicura che ci fosse ancora qualcuno che sospettasse di lei, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo.
La ragazza non aspettava altro che entrare nell’arena e poter uccidere di nuovo. Poco le importava di vivere o morire, lei voleva solo uccidere.
Aveva anche un altro motivo per cui si era offerta volontaria: dimenticare i suoi problemi. Aveva una malattia genetica alle ossa, per questo era alta due metri e sette e aveva una speranza di vita attorno ai trentacinque anni. Inoltre, fin da piccola era infatti sempre stata presa in giro per il suo aspetto, che non rispettava certamente i canoni di bellezza del distretto 1, aveva sviluppato rabbia repressa per anni e, da bambina timida e remissiva, era diventata egoista, sadica, irascibile, crudele e persino folle. L’avevano cambiata. Era solo colpa del mondo crudele in cui viveva.
A riscuoterla dai suoi pensieri fu l’accompagnatrice, Helena Wilson, che le comunicò che stavano trasmettendo i punteggi.

Distretto 1
Alvin Lorcan Theorux: 10
Cornelia Banks: 9
Distretto 2
Merian Oleg: 10
Isabelle Hadlington: 8
Distretto 3
Riven Cole: 2
Kathleen Vince: 3
Distretto 4
Michael Waves: 8
Elaine Claythorne: 9
Distretto 5
Nigel Collins: 4
Alexia Black: 6
Distretto 6
Jace Eaton: 5
Kaya Patel: 7
Distretto 7
Mark Roberts: 2
Allison Thomas: 9
Distretto 8
Vegas Ghellow: 7
Reylen Sheed: 8
Distretto 9
Jake Sander:7
April Joyce: 5
Distretto 10
Jack:9
Felicity Morrison:4
Distretto 11
Matthew White:6
Alexandra Green:5
Distretto 12
Blake Dawnson:7
Shanti Koyle:6



Michal Waves – distretto 4

Michael ed Elaine si erano divisi per la preparazione delle interviste: lui era in camera con la sorella, una dei due mentori, che gli avrebbe insegnato come sedersi, come camminare, persino come sorridere. La sua compagna di distretto, invece, si trovava in salotto con l’altro mentore, ovvero il padre di Michael.
Aveva una famiglia di vincitori e tutti si aspettavano che lui vincesse e ottenesse altra gloria, per questo il padre lo aveva obbligato ad offrirsi volontario, nonostante lui non volesse. Aveva perso una sorella, Coral, e anche una fidanzata, Mary, in quei giochi.
- Allora, Michael, quando starai seduto davanti al pubblico, dovrai cercare di stare diritto e di sorridere sempre, anche se. . . –
- Skye – la interruppe lui – lo so quello che devo fare e non voglio che me lo racconti adesso, visto che potrebbe essere l’ultima volta che parliamo da soli! –
- Non dire così! –
- Non negare la realtà: potrei non uscire da quell’arena. –
- Michael, ho già perso una sorella, non voglio perdere anche te! Non voglio avere un’altra persona sulla coscienza, non resisterei! – - Skye, se morissi, non sarebbe colpa tua – la rassicurò il fratello, mettendole una mano sulla spalla. Lei lo abbracciò e lui la strinse forte a sé.
- Ho paura – confessò lei, con il viso appoggiato sulla spalla del ragazzo.
- Anche io – ammise  - Ma ci proverò, proverò a vincere. Promettimi solo che, se non ci riuscissi, te ne andrai di casa e la smetterai di farti comandare da nostro padre. Non voglio che lui influenzi più le nostre vite. Lui non deciderà più per nessuno. Promettimelo, Skye! – le disse, staccandosi dall’abbraccio.
- Te lo prometto – rispose la ragazza senza esitazioni. – È colpa mia, se mi fossi rifiutata per prima di offrirmi volontaria, forse né tu né Coral lo avreste fatto. Sarei dovuta andarmene e portarvi con me da qualche parte, al sicuro! –
- Non è colpa tua, non voglio che tu abbia sensi di colpa! Io ti voglio bene e te ne voleva anche Coral, nessuno ti ha incolpato della sua morte e, se accadesse, nessuno ti incolperà mai della mia! Le uniche colpe le ha nostro padre, non dimenticarlo! –
- Ti voglio bene, Michael! – disse, mentre le lacrime le bagnavano il volto.
- Anche io, Skye – le rispose, asciugandole con il pollice le guance.


Nigel Collins – distretto 5

La sera seguente ci sarebbero state le interviste e lui non aveva idea di cosa avrebbe parlato, ma soprattutto se ci sarebbe riuscito. Sarebbe riuscito a parlare della sua famiglia senza piangere? No. Sarebbe riuscito a parlare di Ashley, la sua fidanzata che era morta nei giochi senza che le lacrime gli bagnassero il viso? No. E di Peter? Avrebbe parlato di lui, l’amico che aveva perso sempre per colpa degli Hunger Games? No. Come avrebbe potuto? Sarebbe scoppiato in lacrime, lo sapeva.  Era sempre stato una persona emotiva, ma dopo la perdita di due delle persone più importanti della sua vita, aveva perso il sorriso. Raramente lo si vedeva allegro e felice.  
Diceva di essersi offerto volontario per loro, per vendicare le loro morti e per portare un po’ di soldi a casa. Ma ora si chiedeva se fosse davvero quello il motivo. Con una possibilità su ventiquattro di sopravvivere, si domandava se non si fosse offerto per la bassa probabilità di vincere. Forse desiderava smettere di soffrire. Non sarebbe stato così male in fondo.  No, a che cosa diavolo stava pensando? Lui doveva vincere, doveva uscire dall’arena e portare un po’ di soldi alla sua famiglia numerosa.
C’era un problema: per vincere bisognava uccidere. Ne sarebbe stato in grado? No. Il solo pensiero lo faceva rabbrividire, ma avrebbe dovuto farlo. Non voleva avere nessuno sulla coscienza, per questo lo avrebbe fatto solo nei casi di necessità estrema.
Alle interviste avrebbe sorriso, doveva farlo, per la sua famiglia. Desiderava che loro si ricordassero di lui come il ragazzo allegro che era prima. Quello che sorrideva sempre, che pensava positivo, che scherzava e  si divertiva. Non come il ragazzo triste e pensieroso. Voleva dimostrare loro che stava combattendo per tornare a casa, che non si sarebbe arreso facilmente. Per questo non poteva morire subito, doveva dare una speranza alla sua famiglia.
Chissà cosa stavano facendo ora? Magari suo fratello Frank era andato a trovarli con la moglie e stavano mangiando tutti insieme sul grande tavolo in cucina. Sperava che fosse così, non voleva nemmeno immaginare che in questo momento fossero chiusi in casa a piangere e a deprimersi. Non voleva che fossero tristi, non per lui.


Santhi Koyle – distretto 12

Santhi e suo padre, nonché suo mentore, si trovavano in salotto, dove avrebbero dovuto discutere sull’argomento di cui la ragazza avrebbe parlato nell’intervista di come l’avrebbe fatto, ma nessuno dei due aveva ancora aperto bocca. Erano seduti sul divano, a guardarsi semplicemente negli occhi.
- Papà, voglio che tu sappia che qualunque cosa succeda nell’arena non sarà colpa tua – iniziò la ragazza, con voce bassa.
- Santhi, farò il possibile per farti uscire da lì! – disse e poi continuò: - È così difficile vederti qui per me! Ci sono stato anche io e so quello che si prova. So che non è facile, ma sei una ragazza coraggiosa e in gamba, ce la puoi fare.  Solo una cosa: non arrenderti, se ti arrendi è finita! –
- Non mi arrenderò. Se morirò, lo farò combattendo. Se c’è una cosa che non voglio è che Capitol City e gli Hunger Games mi cambino. Voglio rimanere me stessa fino alla fine – disse e indicò la collana che portava al collo con la scritta “Always Myself”. – Voglio che tutti mi ricordino per quello che sono! –
- Non è certo facile rimanere se stessi, né dentro l’arena, né quando ne esci. Cambi, è praticamente impossibile evitarlo. Ogni anno sono costretto a venire qua e fare da mentore a due ragazzini, di cui so che almeno uno non ce la farà. Ogni sera gli incubi mi perseguitano, le facce dei ragazzi che ho ucciso o di quelli che non sono riuscito a salvare mi appaiono in sogno. Non puoi rimanere te stesso, ma puoi evitare di diventare ciò che Capitol City vuole.  -
Santhi annuì, incapace di pronunciare nessuna parola, mentre le lacrime le pulsavano agli angoli degli occhi, chiedendo di uscire. Lei però non voleva piangere, non davanti a suo papà. Doveva essere forte per lui e sembrava che anche l’uomo stesse pensando la stessa cosa, era facile capire che fosse sul punto di scoppiare.
- Promettimi solo che non mi dimenticherete – sussurrò la ragazza, mentre una lacrima le rigava una guancia.
- Mai. Non lo faremo mai, te lo prometto – rispose lui, ormai piangendo.
La figlia lo strinse in un abbraccio che il padre ricambiò. Santhi si ritrovò a cercare di imprimere ogni singola sensazione di quel momento nella memoria.
- Ci proverò, papà. Se non dovessi farcela, ricordati che ti voglio bene! – disse, ancora stretta a lui.
- Anche io, piccola. Anche io! –


April Joyce – distretto 9

Si guardò allo specchio: era davvero stupenda nel suo vestito verde. Era corto davanti e lungo dietro, aveva le spalline e una leggera scollatura. Dopo una giornata con lo staff preparatori, era finalmente pronta per l’intervista. Era agitata, sapeva che l’impressione che avrebbe fatto sarebbe stata molto importante per ottenere sponsor. Aveva ottenuto un misero cinque come punteggio e perciò, se voleva avere qualcuno a sostenerla, doveva fare una bella intervista.
Adesso April desidererebbe tanto avere un po’ della calma e della saggezza che caratterizzava la sua famiglia. Le sue sorelle e i suoi genitori erano infatti persone serie e disciplinate con una visione malinconica della vita, mentre lei era considerata la pecora nera. Era sempre stata una ragazza allegra, sorridente, esuberante ed energica, ma ora era solamente tesa e agitata.
Sarebbe riuscita a parlare senza fare brutte figure? No. Le brutte figure e lei andavano a braccetto. Quanto desiderava in questo momento assomigliare un po’ a sua sorella maggiore, Maurene. Era senza dubbio la sua sorella preferita, era riservata, ma avrebbe fatto di tutto per April. Le mancava così tanto! Desiderava parlarle e farsi consigliare da lei, ma non era lì e forse non l’avrebbe nemmeno più rivista. Solo il pensiero la fece rabbrividire.
Forse avrebbe dovuto stare più vicina alla sua famiglia, aiutarli di più nel lavoro, invece di andarsene in giro a procurarsi guai. Forse non sarebbe nemmeno mancata alla sua famiglia se fosse morta. Era un uragano vivente, ovunque andasse portava disordine e problemi vari. Quante volte si era cacciata nei pasticci con i Pacificatori? Forse sarebbero stati meglio senza di lei. Ma no, a che cosa pensava? Loro le volevano bene, nonostante si arrabbiassero spesso con lei, le erano affezionati e lei pure. Certo, capitava che li incitasse a lasciarsi andare un po’ e a divertirsi di più, ma voleva loro bene e le mancavano, uno per uno. Sperava solo che si sarebbero ricordati di lei, anche dopo la sua morte, che riteneva ormai certa.
Sospirò e poi sorrise allo specchio, ma il suo non era il solito sorriso allegro che aveva, era spento e quasi triste, esattamente come si sentiva lei in questo momento.
“April triste. Suona quasi come una barzelletta!” si disse, prima di entrare nella stanza con gli altri tributi che aspettavano di salire sul palco e essere intervistati.




SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti!
No, non è un miraggio. Ho aggiornato davvero e sì, è passata solo una settimana e mezza. Fatemi un applauso, me lo merito!
Comunque, parlando del capitolo, spero che vi sia piaciuto e di aver rappresentato bene i vostri personaggi. Riguardo ai punteggi ho cercato di dare un voto in base a quello che mi avete scritto in abilità, al loro distretto di provenienza e al loro carattere, spero che siate più o meno d’accordo.
Il prossimo capitolo sarà sulle interviste e ancora non so bene come farlo, ma ci penserò. Spero di aggiornare presto, anche perché il capitolo dopo sarà sull’arena e io non vedo l’ora! A proposito, oggi ho riguardato i tributi che avevo scelto di far morire nel bagno di sangue e mi sono sentita troppo triste perché mi ero affezionata a ciascuno di loro :’(
Ho delle domande per voi e sarei felice se mi rispondeste in una recensione:
  1. Qual è il tuo tributo maschio  preferito (escluso il tuo)?
  2. Qual è il tuo tributo femmina preferito (escluso il tuo)?
  3. Qual è il tuo tributo preferito in assoluto (sempre escluso il tuo)?
  4. Qual è la tua alleanza preferita?
  5. Quali sono i tributi che ti piacciono di meno e che quindi vorresti morissero nel bagno di sangue? (so che è difficile questa)
Probabilmente ogni tanto vi farò ancora delle domande, quindi preparatevi, ma non siete obbligati a rispondere, solo se vi va :)
Okay, ho finito!
Un bacione a tutti,
Felix

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Capitolo 10
*** Le interviste ***


“PICCOLA” PREMESSA INIZIALE: In questo capitolo il punto di vista sarà quello di David Wood, il Capo Stratega. Lui commenterà i vostri tributi, a volte in modo negativo. Non dovete assolutamente offendervi o pensare che non abbia compreso il vostro personaggio, perché quello che c’è scritto non è quello che penso io, ma quello che pensa David. Inoltre  se non l’OC non piace al Capo Stratega non vuol dire che sia tra i primi a morire. Sono io a scegliere le morti, ricordatevelo! Quindi state tranquilli e non arrabbiatevi se ci sono scritte cose che non c’entrano con il personaggio, poiché David non li conosce e pensa di loro solo in base a una prima impressione.

Le interviste

L’Anfiteatro cittadino era stracolmo di gente, il Capo Stratega, David Wood, prese posto nella tribuna riservata agli ospiti di prestigio giusto in tempo prima che lo spettacolo iniziasse. Ray Carter, l’intervistatore, era infatti appena salito sul palcoscenico, vestito di arancione, che faceva a pugni con i suoi capelli di un acceso verde.

- Buonasera a tutti signore e signori e benvenuti a questa meravigliosa serata! Stasera potrete sentire i nostri tributi raccontarvi di loro stessi, dei loro desideri e delle loro paure. Stasera conosceremo ciascuno di loro nel profondo e li saluteremo prima che partano per l’Arena e inizino ufficialmente i trentesimi Hunger Games! – disse l’uomo con il suo classico sorriso sulla faccia.
David sbuffò, come potevano davvero i capitolini pensare di poter conoscere ognuno di quei ragazzi con una semplice intervista? Era impossibile, ma non importava: un pubblico affezionato voleva dire un pubblico che avrebbe seguito con attenzione e dedizione ogni singola giornata nell’Arena. Questo era un punto a suo favore: più gli ascolti sarebbero stati numerosi, più lui avrebbe guadagnato.
Si riprese dai suoi pensieri e portò lo sguardo sul palco, dove la ragazza del primo distretto aveva appena iniziato a parlare con voce tanto sicura da sembrare quasi strafottente.
Tirò fuori il suo taccuino, dove aveva segnato i nomi di tutti i tributi e il loro punteggio alla sessione privata. Cornelia Banks. Era così che si chiamava la giovane.
- Soffro di una malattia genetica alle ossa, è per questo che sono così alta. Inoltre questa mia malformazione mi lascia una speranza di vita attorno ai trentacinque anni – raccontò la ragazza al pubblico con aria annoiata. Un mormorio si levò dalla gente che stava guardando, qualcuno si asciugò persino le lacrime.
Aveva sentito più volte parlare di malattie dai tributi, ma mai nessuno ne aveva parlato in quel modo. A differenza degli altri, lei non stava cercando la pietà e la compassione del pubblico, ma descriveva la sua situazione come se non le importasse, come se la situazione non la toccasse minimamente. Ma era davvero così?
L’intervista terminò e David scrisse accanto al nome della ragazza le parole: arrogante, superficiale e sicura di sé. Disegnò anche una stellina accanto al suo nome, segno che la trovava interessante.
Arrivò poi il turno di Alvin, che si mostrò molto chiuso e scontroso, sulla difensiva. Il pubblico però lo apprezzò molto, tanto che le scommesse su di lui aumentarono del 10%, soprattutto dopo che parlò di suo fratello minore Lowell. Un sorriso spuntò sul volto del ragazzo al pensiero del piccolo e il Capo Stratega si accorse che il suo era un sorriso vero.
- E dimmi, Alvin, che cosa ti aspetti dai giochi? – chiese Ray, che sembrava davvero curioso della risposta. Quanto era bravo a recitare!
- Di vincere. Spero che mia madre possa essere fiera di me, perché eliminerò la parola “codardia” dalla famiglia Theroux una volta per tutte. È una promessa. Ed io mantengo sempre le promesse! – rispose il ragazzo.
Determinato e diffidente.
La quindicenne Isabelle salì sul palco avvolta in uno stretto vestito rosso che la faceva sembrare molto più grande. La gente già l’adorava: era incredibilmente forte per la sua età, era una vera favorita. Salutò il pubblico con un sorriso appena accennato e poi la sua intervista cominciò.
- Cosa ne pensano i tuoi genitori del fatto che tu stia per partecipare ai trentesimi Hunger Games? – domandò l’intervistatore.
- Beh, mia madre è morta durante il parto, non l’ho mai conosciuta purtroppo – disse, guadagnandosi la compassione del pubblico – Mentre mio padre. . .si aspetta molto da me, spera che possa ottenere la gloria che mi merito! – aggiunse, ma non sembrava convinta delle sue parole, nonostante questo riuscì a mantenere la sua aria impassibile.
Orgogliosa e fredda.  
Merian conquistò il pubblicò scherzando con Ray e suscitando quindi le risate della gente. Era chiaramente un favorito, probabilmente credeva davvero che gli Hunger Games fossero un gioco e che fossero addirittura divertenti. In molti lo avrebbero definito “il tributo perfetto”: adorava la capitale e i giochi, era pronto a combattere non per i soldi o per la vita, ma solo per la gloria personale e del proprio distretto. Il tributo che ogni stratega avrebbe voluto, ma non lui. Se tutti i ragazzi fossero stati come Merian non ci sarebbe più gusto, né divertimento. L’unica cosa che scrisse accanto al suo nome fu: favorito.
Si ricordava di Kathleen: era la ragazzina che durante la sfilata si era seduta sul carro accanto al suo compagno di distretto seminudo. Con quel suo gesto aveva sfidato la capitale e gli strateghi stessi. Gli piaceva, ma non era il tipo di tributo che poteva vincere gli Hunger Games. Bastava un solo passo falso ed era certo che Jonathan Clark, il presidente, gli avrebbe ordinato di ucciderla. Fortunatamente per lei si comportò bene, fin troppo: l’aveva quasi annoiato. Però era sicuro che Kathleen non era da sottovalutare.
Diretta e sincera.
Riven lo stupì e non poco. A metà intervista Ray gli chiese se fosse vero che conoscesse tutto degli Hunger Games e quando il ragazzo annuì, David si fece più attento: non aveva mai sentito una cosa del genere e di certo non se l’aspettava da un ragazzo autistico.
- Fammi delle domande, se non ti fidi! – lo sfidò Riven.
- D’accordo – acconsentì l’intervistatore. – Come si chiamava il tributo maschio del distretto 8 della quattordicesima edizione? –
- Paul Dickens – rispose prontamente. – Quella volta vinse Helena Williams, del 2. –
- Incredibile! E che mi dici del Capo Stratega dei decimi Hunger Games? –
-  Marcus Lewis, a quel tempo aveva cinquantasette anni. Si è ritirato dal lavoro circa cinque anni dopo. –
Il pubblico scoppiò in un applauso fortissimo, facendo ancora una volta sobbalzare il povero ragazzo per il rumore.
Interessante e intelligente. Anche per lui disegnò una piccola stella accanto al suo nome.
Con i tributi del quattro rischiò davvero di andarsene dall’Anfiteatro: erano troppo perfetti per i suoi gusti.
Elaine raccontò della sua voglia di vincere, del suo desiderio di gloria e per lei scrisse solamente e con riluttanza: competitiva e ambiziosa.
Michael invece si divertì a scherzare con Ray e a fare battute, ma per quanto il ragazzo si credesse bravo a recitare, non lo aveva ingannato: sapeva che nascondeva qualcosa e David non vedeva l’ora di scoprirlo.
Misterioso e spiritoso (fin troppo).
- E dimmi, Alexia, c’è un ragazzo nel tuo distretto che ti fa battere il cuore? – chiese Ray con quello che doveva essere un sorriso malizioso, ma che sembrava solo una smorfia.
Le guance della ragazza si tinsero di rosso e rispose balbettando:
- Sì, si chiama Matthias ed è il mio fidanzato. –
- E cosa pensano i tuoi genitori di lui? –
Alexia allora raccontò del fatto che i suoi genitori erano morti in un incendio e che lei e suo fratello erano stati accolti dai genitori di quello che poi sarebbe diventato il suo fidanzato. Era certo una storia triste, ma ne aveva sentite di simili fin troppe volte. Quando l’intervista si concluse, David non aveva ancora trovato niente da scrivere accanto al nome della ragazza, era davvero così priva di personalità o era così brava da riuscire a non far trasparire nessun suo sentimento? Lasciò bianco lo spazio accanto al suo nome.
Nigel, invece, lo stupì: raccontò, come la maggior parte dei tributi, della sua famiglia, dei suoi amici, della sua ragazza morta nei giochi, ma non lo faceva per cercare sponsor o l’appoggio del pubblico, i suoi occhi si illuminavano al pensiero dei suoi cari e si riempivano di lacrime quando parlava della sua triste perdita. Era sincero. Era uno dei pochi tributi veri che David aveva visto.
- Cosa faresti se vincessi? –
- Beh, userei i soldi per la mia famiglia, per quella della mia ex-ragazza e per quella dei miei amici. Vorrei aiutare chi ne ha davvero bisogno, chi non ha il denaro per comprarsi nemmeno una fetta di pane. –
Anche stavolta quando parlava era sincero e credeva davvero in quello che stava dicendo, per questo il tributo si guadagnò una stella.
Buono e generoso.    
Kaya Patel fu restia a parlare della sua famiglia e non perché aveva problemi familiari, anzi, sembrava solo che volesse proteggerli. Era un comportamento interessante e da che lui ne aveva memoria, mai applicato da nessun altro. Si soffermò a parlare dei capitolini, del loro modo di vestire, delle loro abitudini e dei loro atteggiamenti. Li giudicava, ma senza essere offensiva: era in grado di rigirare le parole a suo favore, per questi motivi accanto al suo nome scrisse: furba.
Jace Eaton terminò la sua intervista dicendo con un sorriso determinato:
- Sono sicuro di vincere: sono forte e non ho paura, inoltre sono simpatico, perciò non mi sarà difficile ottenere sponsor che mi aiutino! Non vi deluderò, riuscirò a portarmi a casa il titolo di vincitore e la gloria che mi spetta! –
Parlava come un vero favorito, nonostante fosse del distretto 6. Dopo le sue parole, David non poté fare a meno di sorridere: quel ragazzo si stava illudendo da solo.
Ambizioso.
- Non ho paura. So quello che devo affrontare, ma ci sarà mio papà ad aiutarmi e so che farà di tutto per farmi uscire dall’arena. Io mi impegnerò e darò il meglio di me: quando voglio una cosa la ottengo sempre! – dichiarò Allison, la ragazza del 7.
Era la figlia del mentore Paul Thomas e, sebbene lei la considerasse una cosa positiva, per David era solo un punto a suo svantaggio: raramente ci sono due vincitori della stessa famiglia, soprattutto nei distretti poveri.
Si ricordava di lei: era quella che aveva formato una “A” con i coltelli su un manichino, non era una da sottovalutare.
Decisa e fiduciosa.
Per Mark Roberts provò semplicemente pietà: era un gracile ragazzino di appena dodici anni, non riusciva a dire una frase senza balbettare, sarebbe già stato tanto se fosse sopravvissuto per un intero giorno nell’arena. Era senza speranze. Non ascoltò nemmeno le sue parole e si limitò a scrivere accanto al suo nome: spacciato.
Reylen Sheed, la ragazza dell’8, spruzzava odio per Capitol City e per gli Hunger Games da tutti i pori. Evitò le domande sulla città cambiando argomento e concentrandosi su come si immaginasse l’arena o sui giochi, senza mai parlare di sé o della sua famiglia. Non era molto loquace e rispose alle domande a monosillabi o comunque senza giri di parole. Nonostante questo incuriosì David talmente tanto da fargli disegnare una stella accanto al nome della ragazza.
Riservata e intrigante.
Vegas Ghellow lo annoiò parecchio: per metà delle interviste scherzò con Ray e fece battute che facevano ridere il pubblico, ma che facevano solo innervosire David. Poi dichiarò che la sua fidanzata era incinta, che stava per diventare padre e che sperava solo di poter vedere crescere suo figlio. La gente nell’Anfiteatro cominciò a piangere, le scommesse su di lui aumentarono del 20% e alcuni sponsor si affrettarono a parlare con i suoi mentori. Invece David scrisse annoiato un semplice: innamorato accanto al nome del ragazzo. Uno stratega gli disse il nome della fidanzata e lui si appuntò con un sorriso sadico il nome “Amens” accanto al suo giudizio.
Non ascoltò la maggior parte dell’intervista di April Joyce, poiché la ragazza continuava a parlare, parlare e parlare. E lui non ne poteva davvero più. Come se non bastasse, il sorriso sulle sue labbra non era mai sparito, nemmeno un tentennamento. Come poteva prenderla sul serio? Fortunatamente il suo tempo finì e la ragazza se ne andò sorridendo, ovviamente.
Chiacchierona e ottimista.
Era sicuro che si sarebbe dimenticato in fretta di Jake Sander. Non trasmetteva nulla, non parlava di niente che potesse essere ricordato, non era nemmeno odioso, era semplicemente senza personalità. E, come per la ragazza del 5, lo spazio accanto al suo nome rimase bianco. Perché gli erano capitati dei tributi così amorfi?
Felicity Morrison, la ragazza del 10, era chiaramente tesa. Cercava di rispondere alle domande di Ray senza balbettare, ma non le era affatto facile.
- Mio padre è morto quando avevo otto anni, è stato assassinato e non abbiamo ancora scoperto il colpevole. È stata dura all’inizio: mamma ha attraversato un momento di depressione, non avevamo soldi, ma fortunatamente poi mamma ha conosciuto Mark e le cose sono migliorate. Hanno avuto tre gemelle, che io adoro! Hanno sei anni e si chiamano Micol, Samantha e Marie. Spero di poter tornare a casa da loro – raccontò con le lacrime agli occhi.
Speranzosa.
Jack, il ragazzo senza comune del 10, fu uno dei tributi più interessanti. Non parlò molto, rispose solo e brevemente alle domande. David non era nemmeno sicuro che tutte le risposte fossero vere. Il suo non era certo un atteggiamento che gli avrebbe fatto guadagnare sponsor, ma in cambio incuriosiva lui. Nei suoi occhi poteva leggere l’odio che stava provando, la voglia di libertà, il desiderio di urlare contro tutti, ma il ragazzo rimase seduto senza opporsi, come legato da catene invisibili. David non poté fare a meno di disegnare una stellina accanto al suo nome.
Desideroso di libertà.
I nomi di Alexandra e Matthew, dell’11, li scrisse vicini. Le loro interviste furono talmente simili che non poteva non giudicarli insieme. Erano amici del cuore e sembrava che il destino li volesse separare. Storia commovente per gli sponsor e per il pubblico, ma dal suo punto di vista solo irritante. Non si sprecò in giudizi, era troppo alterato per pensare a qualcosa da scrivere accanto ai loro nomi. Tracciò solo una spessa “X” nera che significava morte certa.
Non fu difficile capire che Shanti Koyle odiasse gli Hunger Games e Capitol City. Portava con fierezza una collana con la scritta “Always Myself” che fece sorridere David. Voleva proprio vedere se sarebbe sempre rimasta sé stessa nell’arena. Non poteva pensare di vincere e persino di non cambiare.
Ribelle.
Blake Dawnson raccontò con gli occhi velati di lacrime della sua famiglia:
- I miei genitori sono morti quando avevo sei anni, sono stati uccisi da un Pacificatore a causa della morfamina. –
- Immagino sia stato difficile per te, ragazzo – disse Ray con un sorriso  pieno di compassione.
- Sì, molto. Per due anni ho attraversato un periodo di depressione, ma ora sto meglio. –
David notò come il ragazzo non disse di averla superata o di stare bene, solo di sentirsi meglio. Aveva certo sofferto molto nella sua vita e non si stupì più di tanto del fatto che si fosse offerto volontario.
Sofferente.
Le interviste si conclusero con un discorso di Ray e l’applauso del pubblico e piano piano la gente uscì dall’Anfiteatro. David era un po’ deluso dai tributi quell’anno, nonostante ce ne fossero alcuni che lo avevano colpito. Fortunatamente avrebbe avuto tante occasioni per vendicarsi con loro nell’arena. I Trentesimi Hunger Games stavano per iniziare e lui fremeva dalla voglia di mettersi all’opera.


SPAZIO AUTRICE

Ciao a tutti!
Anche stavolta sono puntuale (due settimane mi sembrano ragionevoli), ma questo capitolo è stato davvero un parto e non ne sono ancora del tutto convinta. Non sapevo bene come rendere il punto di vista di David senza annoiarvi troppo e non avevo intenzione di scrivere ogni intervista perché sarebbe stato troppo ripetitivo e lungo. Spero che l’idea dei giudizi vi sia piaciuta e che non vi abbia stancato.
L’ho già detto nella premessa, ma voglio ripeterlo: vi prego di non offendervi o pensare che non abbia compreso i vostri tributi, quello che ho scritto lo pensa David, non io.
Il prossimo capitolo sarà sull’Arena e non vedo l’ora, ma non so quando potrò aggiornare. Spero fra due settimane, ma visto che riesco a scrivere solo nei weekend e che il prossimo fine settimana sono via (Lucca Comics *_*) non so se riuscirò a pubblicarlo puntale, ma spero di sì.
Le morti, come vi avevo già detto saranno 7 e le ho già decise. Ho una domanda per voi: preferite che vi faccia votare quanti morti ci saranno ogni giorno (come abbiamo fatto per il primo) oppure che decida io? Fatemi sapere.
Vi ringrazio come sempre delle recensioni, a qualcuna sono riuscita a rispondere e spero di terminare al più presto.
Un bacione e al prossimo capitolo,
Felix <3

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Capitolo 11
*** Il bagno di sangue ***


Il bagno di sangue

Mark Thompson – distretto 7

- Trenta secondi al lancio – disse una voce femminile.

Mark fece un mezzo sorriso al suo stilista e poi si posizionò sulla piastra metallica circolare. L’uomo gli fece un cenno di saluto che suonava più come un addio che come un arrivederci. Nemmeno un capitolino riusciva a nascondergli quanto poco credesse in lui, ma non poteva certo biasimarlo, dopotutto lui stava davvero considerando l’idea di uccidersi. Uccidersi.
Lo avrebbe fatto davvero? Ne avrebbe avuto il coraggio? Non aveva altre possibilità. La prospettiva di essere catturato e poi torturato dai Favoriti non lo allettava e lui sapeva che non sarebbe mai uscito da quell’arena vivo.
Il cilindro cominciò a salire lentamente, Mark rimase al buio per una quindicina di secondi, poi la piastra di metallo lo spinse fuori, all’aria aperta. La luce del sole gli abbagliò gli occhi per un attimo, poi ebbe appena il tempo di guardarsi attorno che una voce maschile annunciò:
- Signore e signori, che i trentesimi Hunger Games abbiano inizio! –
Sessanta secondi. Questo era il tempo che aveva per decidere se uscire dal cerchio e farsi saltare in aria o aspettare ed essere ucciso da qualcun altro.
Suonava tutto così strano nella sua testa. Era solo un ragazzino di dodici anni! Avrebbe dovuto preoccuparsi della scuola, degli amici, non di questo!
Quaranta secondi.  
Si guardò in giro e quello che vedeva non era niente di particolare: le ventiquattro pedane erano disposte, a circa dieci metri di distanza l’una dall’altra, in un grande cerchio all’interno di un prato verde e in mezzo a loro c’era la Cornucopia piena di oggetti e armi varie. Non molto lontano c’erano degli alberi, la cui chioma era molto fitta. Era tutto troppo semplice. Era convinto che l’arena fosse molto più pericolosa di quanto sembrasse.
Trenta secondi.
I Favoriti che Mark riusciva a vedere dalla sua postazione si stavano scambiando sguardi che non promettevano nulla di buono. Gli altri tributi invece sembravano occupati a tranquillizzarsi, ad esaminare il posto dove si trovavano, oppure a cercare una via di fuga.
Venti secondi.
Aveva preso la sua decisione: avrebbe fatto quel passo. Non gli importava se lo avessero giudicato un codardo o uno sciocco, lui voleva solo che tutto finisse in fretta.
“Vi voglio bene mamma e papà” pensò. Sperava solo che lo avessero capito e perdonato, nonostante il dolore. In fondo, anche loro lo sapevano che non ce l’avrebbe mai fatta.
Dieci secondi.
Prese un respiro e poi uscì fuori dall’area cerchiata con un balzo.
Il gong d’inizio fu coperto dal rumore dell’esplosione e ci vollero un paio di secondi prima che anche gli altri tributi uscissero dalle loro postazioni.

Michael Waves – distretto 4

Il cronometro si era azzerato: i giochi erano ufficialmente iniziati, ma lui non si era ancora mosso. Perché diavolo non lo aveva ancora fatto? Non era certo l’unico, è vero: molti a causa dell’esplosione, non avevano sentito il gong di inizio o comunque erano rimasti scioccati dall’accaduto. Lui, però, era un favorito e sarebbe già dovuto dirigersi verso la Cornucopia come stavano facendo i suoi alleati.

Tentennò, ma poi iniziò a correre verso la meta, recuperando da terra un paio di coltelli e persino una lancia. Vicino alla Cornucopia c’erano solo loro, gli altri tributi non avevano avuto il coraggio di avvicinarsi. Pensava dunque che bastasse aspettare che tutti si allontanassero e poi accumulare le cose rimaste sparse in giro, ma a quanto pareva i suoi alleati non erano d’accordo. Loro volevano mettersi subito a uccidere. Già, non bastava vincere, dovevano ottenere la gloria! Scosse debolmente la testa, mentre si guardava in giro.
Era tutto un casino: gente che urlava, che scappava, che lottava. Non riusciva a credere che il suo incubo peggiore fosse iniziato.
- Allora, Waves? Hai intenzione di startene lì impalato tutto il giorno? – gli chiese Merian con un’occhiataccia. Lo stava controllando, lo sapeva. Non si fidava di lui e voleva vedere se era davvero un Favorito e anche se lui non lo era, doveva comportarsi da tale se voleva vincere e se non voleva che Merian lo prendesse di mira.
- Certo che no! – rispose cercando di sembrare convincente.
Si allontanò dalla Cornucopia, seguito dal ragazzo del 2. Poco distanti da loro c’erano un ragazzo, che si stava guardando in giro sperduto, quasi non si fosse reso conto di cosa fosse successo, e una ragazza dall’aria preoccupata, che con lo sguardo cercava qualcuno, probabilmente un alleato.
- Ti lascio la ragazza, sarà sicuramente più facile per te – gli disse Merian con tono di sfida. Michael annuì debolmente e si avvicinò alla ragazza con aria minacciosa e facendo ruotare la lancia tra le dita.
- Ti sei persa, bellezza? – le chiese intimidatorio.
Lei lo guardò negli occhi e per un attimo poté leggervi la paura, ma poi il suo sguardo si trasformò in uno determinato. Era la ragazza del 12, Shanti gli pareva si chiamasse.
Lei tirò fuori un coltello, probabilmente sapeva che contro la sua lancia non c’erano possibilità, ma non si voleva arrendere. Fece un passo verso di lei, mentre quella si allontanò tremante. A separarli c’erano circa cinque metri, avrebbe potuto benissimo colpirla, ma sapeva che Merian lo stava tenendo d’occhio e doveva perciò giocare un po’, come qualsiasi Favorito avrebbe fatto.
- Hai per caso paura, bellezza? –
- Ho un nome – ribatté lei. –E no, non ho certo paura. –
Stava mentendo, era chiaro.
- Allora perché ti allontani? – la provocò.
Shanti si morse il labbro inferiore, ma quando lui fece un altro passo verso di lei, rimase ferma. Fu tutto molto veloce: si scaraventò su di lei, facendola cadere a terra, ma la ragazza tremante gli infilzò lo stomaco con il coltello che aveva in mano. Una dolorosa fitta lo colpì, ma non lo fece vedere, continuando a sorridere provocatorio.
- Sei una ribelle ragazzina! Ora la pagherai cara! –
Si sollevò da lei e Shanti strisciò indietro, tendendo stretta la sua arma insanguinata. Lui però riuscì a colpirla alla spalla con un coltello e la ragazza urlò di dolore. Le si avvicinò e estrasse lentamente il coltello, facendola soffrire, poi la colpì al fianco destro, mentre lei continuava ad urlare.
Cercò di fare un sorriso sadico, ma al momento l’unica cosa che voleva fare era vomitare. E scappare via, sì, scappare lontano. Non sopportava di vederla soffrire ancora, quindi la finì con una coltellata al cuore. Il sangue le sporcò la maglietta e lo scoppio di un cannone risuonò per l’arena. Si allontanò velocemente e spaventato dal corpo riverso a terra.
- Bel lavoro – gli disse Merian e lui rispose solamente annuendo. Se avesse parlato, dalla sua bocca sarebbero solo usciti insulti e grida. E forse lacrime dai suoi occhi.
Aveva appena ucciso una persona, cavolo!
Il ragazzo del 2 invece non sembrava preoccuparsi del corpo che giaceva ai suoi piedi. Michel diede un’occhiata al numero che aveva apportato sul petto: 6. Non ricordava nemmeno il suo nome e probabilmente nemmeno Merian sapeva il nome della sua vittima. Ad un certo punto si senti strattonare da dietro, si voltò, ma riuscì a mala pena a vedere un pugno che lo colpiva sullo zigomo, prima di cadere a terra. Davanti a lui c’era il ragazzo del 12, Blake, che lo guardava con odio.
- Sei stato tu ad ucciderla? – gli domandò. Michael si guardò in giro, Merian si era volatilizzato, incredibile!
- Perché? Era la tua fidanzatina per caso? – ribatté cercando di rialzarsi, ma un altro pungo lo colpì nello stomaco, poi un altro e un altro ancora. Non riusciva nemmeno a difendersi. Con orrore vide il ragazzo afferrare la lancia che gli era caduta a terra e puntargliela contro con uno sguardo d’odio.
- Questo è per Shanti, brutto stronzo! – lo sentì urlare, la lancia lo colpì nel punto dove era già stato ferito, urlò, poi tutto divenne improvvisamente buio.

Allison Thomas – distretto 7

Una volta al riparo dagli alberi si buttò a terra con il volto tra le mani. Subito Jack l’affianco, accarezzandole dolcemente la schiena, mentre lei piangeva e singhiozzava.

- Ho-ho ucciso persona! – balbettò tra le lacrime.
- Se non l’avessi fatto, saresti morta tu – replicò lui, provando a consolarla.
- Lo so, ma. . . L’ho uccisa! Lei è morta! Io. . .io sono un assassina! –
- Allie, non conta. Sei una brava persona, lo so io, lo sa tuo padre, lo sa la tua famiglia e lo sanno i tuoi amici. Non permettere che questi giochi di condizionano la vita, non permettere che ti cambino! So che adesso penserai che io non ti posso capire, che non ho provato quello che stai provando tu, ma io so che tuo padre ha passato tutto questo, esattamente come te, e sono sicuro che anche per lui è stato difficile, ma lui è andato avanti: si è sposato, ha costruito una famiglia. . .Quindi non pensare che sia tutto finito, okay? -
- Io. . .grazie, Jack – rispose con un sorriso, tentando di asciugarsi le lacrime.
- Ti va se ora controlliamo quello che abbiamo? – le domandò gentilmente e Allison annuì.
Non le era ancora passato tutto, ma doveva essere forte. Non poteva disperarsi, non adesso. Lei doveva uscire da quell’arena e non c’era tempo per piangersi addosso. Osservò Jack svuotare lo zaino dal suo contenuto e appoggiare il tutto per terra, sull’erba.
- Allora, abbiamo: una bottiglietta d’acqua, qualche galletta di riso e una coperta. Per quanto riguarda le armi: una falce e cinque coltelli discretamente affilati – elencò lui.
- Mmm. . .non siamo messi molto bene – commentò la ragazza, osservando le cose con occhio critico.
- Beh, sempre meglio di niente. Vedremo di procurarci qualcosa! –
- Come fai ad essere così ottimista? –
- Non lo sono, ma non voglio preoccuparmi e farmi prendere dall’ansia – spiegò Jack con un sorriso.
- Ora che si fa? – domandò Allison, ficcandosi i pollici nelle tasche posteriori dei pantaloni.
- Esploriamo un po’ questa arena. Ho il presentimento che questo bosco non sia così tranquillo come sembra. –
I due allora iniziarono a camminare, all0ntanadosi sempre di più dalla Cornucopia. Dopo qualche minuto la ragazza sussurrò:
- Sai come si chiamava? –
Non ebbe bisogno di specificare a chi si riferisse, perché Jack capiva che intendesse la ragazza che aveva ucciso.
- Isabelle Hadlington, distretto 2. –

Cornelia Banks – distretto 1

Finalmente i giochi erano iniziati, ora poteva dar sfogo alla sua rabbia repressa. Uccidere. Poteva farlo adesso.

Aveva già predestinato la sua vittima: la ragazza del 9, April. Era sempre troppo allegra e sorridente e lei odiava le persone così. Non le poteva proprio tollerare, quindi doveva eliminarla.
Individuò la ragazza che stava correndo non molto lontana da dove si trovava, la raggiunse velocemente e la scaraventò a terra. April cadde di faccia con un gemito e lentamente si girò verso il suo aggressore.
- Che. . .che cosa vuoi fare? – balbettò impaurita.
- Adesso non sorridi più, non è vero? – ribatté Cornelia.
- Cosa vuoi dire? Non capisco – rispose stupita la ragazza.
- Lasciala stare, ti prego! – urlò una voce. Era quella di una ragazza che si stava avvicinando a loro, appuntato alla maglietta portava il numero 10.
- Non ti intromettere o farai anche tu una brutta fine! – la ammonì.
- Ti prego, lasciaci andare – la implorò ancora. Stava giocando con la sua pazienza, quell’insulsa ragazzina.
- Sta zitta! – le urlò, prima di tirarle uno schiaffo talmente forte da farla barcollare e
cadere a terra.
- Torniamo a noi, April. –
La ragazza del 9 stava piangendo e tremando, ma di certo non faceva pena a Cornelia, al contrario, la irritava ancora di più.
Le rifilò un paio di calci nello stomaco e poi prese in mano l’accetta che aveva recuperato e con un sorriso sadico si avvicinò a lei e le mise una mano attorno al polso per tenerlo fermo. Con un colpo secco le tagliò il dito mignolo facendola urlare e piangere di dolore. Intravide l’altra ragazza ancora a terra vomitare e il suo sorriso si allargò. Abbandonò l’accetta per terra e afferrò la sua arma preferita: la spada. Le tracciò delicatamente il profilo del viso, senza graffiarla nemmeno, si fermo ad un paio di centimetri dal labbro e premette,  facendole uscire qualche goccia di sangue. Puntò poi la spada alla sua pancia e la infilzò. April urlò più forte che poteva, mentre la sua alleata, sdraiata a pochi metri da loro, singhiozzava rumorosamente cercando di non guardare la scena.
- Ti. . .ti prego. . .basta. . .non. . . – April fu costretta a interrompere la sua frase a metà con un urlo, poiché Cornelia l’aveva colpita nuovamente allo stomaco.
Le sue grida erano fortissime, mentre la ragazza le infilzava ripetutamente la spada in pancia. Qualche minuto dopo, però, le urla cessarono e nell’arena rimbombò il colpo di un cannone.
Cornelia si girò verso l’altra e le disse:
- Che ne dici? Vuoi fare la fine della tua amichetta? –
Felicity non rispose, mantenendo lo sguardo verso il terreno.
- Guardami quando ti parlo! – la sgridò, furiosa. Lei quindi alzò la testa, ma nei suoi occhi non lesse paura, solo determinazione.
- No. . .non mi va di ucciderti adesso, sarebbe troppo facile – decise, dopo averla osservata per un attimo. – Tu ti meriti di peggio di April, poiché hai osato intrometterti. Ora ti lascerò un segno, così tutti sapranno che sei mia. Che solo io potrò ucciderti, come e quando vorrò! –
Detto questo si avvicinò alla ragazza e con la spada le incise una “C” sulla guancia. Il sangue le sgorgò dalla ferita, ma Felicity non fece niente per fermarlo. Cornelia sorrise soddisfatta e poi se ne andò, senza aggiungere una parola.

Matthew White – distretto 11

Osservò il corpo di Alexandra essere portato via da un hovercraft con gli occhi lucidi di lacrime, mentre Nigel, il suo alleato, gli stringeva una spalla come per consolarlo. Alexia, invece, non parlava e guardava fisso il pavimento.

Matthew non riusciva a credere che la sua migliore amica fosse morta, colei che lo aveva accolto in casa sua e lo aveva trattato come un fratello. Morta. Non riusciva nemmeno a pensarlo.
L’avevano uccisa e lui non era lì per salvarla. Era colpa sua. Tutta colpa sua. E di Elaine, la ragazza del 4. L’avrebbe pagata cara, sì, lui si sarebbe vendicato perché Alexandra non meritava di morire.
Fortunatamente erano riparati da qualche albero, altrimenti un tributo qualsiasi li avrebbe potuti uccidere e forse non si sarebbe nemmeno opposto. Ma lui doveva combattere, per lei. Doveva vincere e portare soldi alla famiglia dell’amica, che ormai era diventata anche la sua famiglia.
Il corpo della ragazza sparì dalla sua vista e lui non riuscì a trattenere un singhiozzo, la presa dell’alleato si fece più stretta, mentre Alexia sussurrò:
- Mi dispiace. – Non riusciva proprio ad aprire la bocca e ad emettere suoni che non fossero urla o singhiozzi, ma non voleva mostrarsi debole, né a loro, né a nessun altro, perciò si limitò ad annuire debolmente.
- Forse è meglio che ci spostiamo da qui, qualcuno potrebbe vederci – suggerì Nigel con voce insicura, probabilmente cercava di essere comprensivo. Ma Matthew sapeva che il suo dolore era solo temporaneo, si sarebbe presto trasformato in rabbia e allora sarebbero stati guai per la favorita che l’aveva uccisa, che aveva ucciso la sua Alexandra.
- Hai ragione – riuscì a rispondergli. –Andiamo, non sembra nemmeno così spaventoso questo posto.–
- Già, non so perché ma mi ero immaginata draghi sputa fuoco e cose così. . . – aggiunse la ragazza, facendo ridacchiare gli alleati.
I tre ragazzi, allora, si inoltrarono in quello che pareva un semplice bosco dagli alberi fitti.



SPAZIO AUTRICE


Ciao a tutti,

come va? Spero tutto bene <3
Come sapevate due settimane fa sono stata al Lucca Comics e quindi non ho potuto scrivere, di conseguenza sono riuscita ad aggiornare solo oggi, ma vi avevo avvertiti.
Allora, che dire? Siamo entrati nel vivo della storia, nell’arena. Probabilmente sarete rimasti delusi dal fatto che è stato descritto solo il bagno di sangue e dell’arena è stato detto solo che è un bosco, ma ho delle giustificazioni:
  • volevo descrivere bene il bagno di sangue, quindi le varie morti, ecc. e ho preferito concentrarmi su questo;
  • nonostante l’arena fosse stata decisa da tempo (ancora prima che iniziassi la storia), mi sono venuti dei dubbi esistenziali e non mi convinceva più, per questo ne ho progettata una nuova, ma siccome devo ancora disegnarla e decidere tutto nel dettaglio, ho preferito evitare di descriverla per non scrivere cose che magari in futuro avrei cambiato.
Parlando di questo capitolo, spero di aver descritto decentemente le scene di morte, è la prima volta per me e non è stato facile, soprattutto per quella di April. Cornelia infatti ama le morti lente e dolorose e le torture e io non sapevo proprio come descrivere il tutto. Fatemi sapere cosa ne pensate :)
Mark. . .perdonatemi, ma non mi sentivo di far morire il mio cucciolo per mano di qualche tributo assetato di sangue.
Blake si ritrova senza alleata, Allison ha ucciso una persona, Felicity è stata marchiata e Matthew vuole vendetta. . .un inizio non proprio tranquillo, diciamo!
Vi lascio il riepilogo dei morti e faccio le condoglianze ai creatori di questi tributi, sappiate che per me è stato difficile scegliere, ma alla fine solo uno può vincere.
 
Mark Roberts
distretto 7
Shanti Koyle
distretto 12
Jace Eaton
distretto 6
Michael Waves
distretto 4
Isabelle Hadlington
distretto 2
April Joyce
distretto 9
Alexandra Green
distretto 11

In ogni caso spero che il capitolo vi sia piaciuto e perdonatemi per gli errori ma mi si incrociano gli occhi e ho riletto di sfuggita.
Dal prossimo capitolo credo che vi pubblicherò il disegno dell’arena con le posizioni dei vari tributi, ecc.
Va bene, ora vi lascio.
Un bacione,
Felix

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Capitolo 12
*** L'arena ***


L’arena

Kaya Patel (6), Reylen Sheed (8), Vegas Ghellow (8)
Reylen e i suoi alleati, Kaya e Vegas, erano riusciti a sfuggire illesi dalla Cornucopia e si erano addentrati in fretta nel bosco. Gli alberi erano molto fitti e impedivano di vedere oltre, quasi come se gli strateghi avessero voluto nascondere qualcosa. Percorsi un centinaio di metri, si accorsero che le piante davanti a loro non erano più verdi e fitte e che al posto delle foglie, sui rami, c’era uno spesso strato di neve, anche la terra era coperta da un manto bianco. I tre si fermarono immediatamente e, all’unisono si voltarono: il paesaggio dietro di loro non era cambiato.
- Cosa significa? Non riesco a capire – chiese Vegas confuso.
- È come se fossimo in inverno, forse gli strateghi vogliono dividere l’arena per stagioni? – disse Kaya.
- Possibile. Fatto sta che siamo capitati nella stagione peggiore. A parte il freddo, dobbiamo occuparci delle impronte: se camminiamo rimarranno delle tracce! – osservò Reylen, guardandosi in giro con occhio critico.
- Che cosa facciamo, allora? Non possiamo arrampicarci sugli alberi, ci potrebbero comunque vedere! L’unica soluzione è cancellare le impronte dietro di noi – suggerì Vegas.
- Forse potremmo tornare indietro e accamparci – propose Kaya. – Non possiamo stare qui: rischieremmo troppo! –
- Hai ragione, torniamo indietro – disse l’altra ragazza.
I tre si voltarono, ma non appena fecero un passo avanti una barriera di fuoco si elevò dal terreno, i ragazzi fecero un balzo indietro, spaventati.
- Correte! – urlò Vegas
Le ragazze non se lo fecero ripetere due volte e iniziarono a correre più veloci possibili.
Qualche metro più in là, Reylen si accorse però che il fuoco non si era diradato, ma nemmeno spento: era solo una barriera creata per non farli tornare indietro.
- Fermatevi: non c’è nessun incendio! – gridò ai suoi alleati, i quali la ascoltarono subito. – Evidentemente agli strateghi non andava a genio la nostra idea di tornare indietro, ma non vogliono ucciderci, non ancora almeno. –
- Quindi, che si fa? – chiese Kaya con il respiro affannato per la corsa.
- Beh, a questo punto direi di inoltrarci ancora un po’ e poi fermarci per controllare quello che abbiamo negli zaini. –
- Mi sembra una buona idea, Vegas. Andiamo e cerchiamo di cancellare le nostre impronte con dei rametti – disse Reylen.
Vegas e Kaya annuirono e i tre cercarono subito un ramo, per poi iniziare a camminare.
    
Kathleen Vince (3), Riven Cole (3), Jake Sander (9)
- Non so il perché, ma non mi piace questo posto – sussurrò Jake guardandosi intorno; si trovavano in un bosco, ma era diverso rispetto a quello in cui camminavano fino a pochi minuti prima: sugli alberi crescevano fiori colorati e frutti dall’aria gustosa, l’aria profumava e riuscivano a sentire degli uccellini cinguettare.  - È tutto così bello che non può essere vero. Ho come la sensazione che questo posto sia più pericoloso di quanto sembra. –
- Penso che tu abbia ragione. Sarebbe troppo facile se quei frutti fossero commestibili e se non ci fosse niente di pericoloso – lo appoggiò Riven.
- Beh, sono d’accordo con voi, ma non possiamo certo tornare indietro: staranno ancora combattendo – osservò Kathleen. – È pericoloso. –
I due ragazzi annuirono, anche se non troppo convinti. Jake sembrava terrorizzato da quel posto, mentre Riven era ancora scosso a causa del rumore dei numerosi colpi di cannone. Alla Cornucopia, appena scoppiato il gong si era spaventato, perciò si era tappato le orecchie  e seduto sulla sua postazione cercando di calmarsi, incurante del pericolo che lo circondava. Fortunatamente Jake era abbastanza vicino a lui e lo aveva afferrato per un braccio e trascinato via. Gli aveva sicuramente salvato la vita.
- Forse uno di noi dovrebbe arrampicarsi su un albero per cercare di vedere come è fatta l’arena e per scorgere un laghetto o un fiume, insomma un posto dove trovare l’acqua – suggerì Jake.
- Mi sembra un’ottima idea, chi si arrampica? – chiese la ragazza con un tono che lasciava sottintendere che lei non sarebbe stata in grado di farlo.
– Lo faccio io, d’accordo? – disse Jake, dopo aver lanciato un’occhiata a Riven, che ora se ne stava per terra ad osservare un vecchio orologio ed era completamente assorto da questo che probabilmente non sapeva nemmeno di cosa stessero parlando.
Il ragazzo si arrampicò dunque sull’albero più alto di quella zona, con fatica riuscì ad arrivare in cima e cominciò a guardarsi intorno.
- Non si vede molto lontano, ma riesco a vedere qualcosa. Che strano. . . –
- Cosa, Jake? Che c’è di strano? – gli domandò Kathleen con voce preoccupata mentre si metteva sulle punte come a cercare di vedere, anche se da lì era impossibile.
- Sembra che da quella parte ci sia la neve. –
- Neve? –
- Giuro. È tutto bianco e non ci sono foglie sugli alberi! – spiegò il ragazzo. – È tutto così inquietante. –
- Riesci a vedere dell’acqua? – chiese la ragazza cambiando discorso.
- Sì, c’è un laghetto. È un po’ distante da dove siamo noi, però. –
- È nella zona della neve? –
- No, fortunatamente è qui. Ora scendo, vedi di riuscire a far alzare Riven da terra. -
Una decina di minuti dopo i tre ragazzi si misero in cammino, ogni tanto Jake doveva arrampicarsi su un albero per controllare che la direzione fosse quella giusta e a volte Kathleen doveva esortare Riven a camminare perché si fermava a fissare il suo orologio, ma tutto sommato andava tutto bene. Erano ancora vivi.

Allison Thomas (7), Jack (10)
Allison scese dall’albero su cui si era arrampicata con facilità: era abituata a scendere e salire dai rami, dopotutto proveniva dal distretto del legname.
- Non capisco lo scopo di dividere l’arena in due parti diverse! – borbottò Jack, scalciando distrattamente un mucchietto di foglie per terra.
- Credo che siano più di due zone, mi è sembrato di intravedere delle piante verdi da quella parte – rispose Allison indicando con il dito verso destra. – Erano piuttosto lontane. Forse è un’idea stupida, ma credo che abbiano voluto ricreare le stagioni. -
Nel bosco dove si trovavano gli alberi erano spogli e il terreno era ricoperto di foglie colorate che scricchiolavano ad ogni loro passo. C’era una leggera nebbia, ma si riusciva a vedere bene, il vento però soffiava piuttosto forte facendo ondeggiare i rami.
- E quindi noi siamo in autunno? –
La ragazza annuì e Jack sbuffò.
- Sempre meglio che l’inverno, no? – chiese Allison.
- Sì, certo. È solo che trovo tutto così frustrante! – esclamò prima di sedersi a terra, appoggiando la schiena contro il tronco di un albero e passandosi una mano tra i capelli. – Insomma, ti rendi conto? Loro si divertono! Si divertono ad inventare un’arena nuova ogni anno, a pensare a pericoli mortali, agli ibridi e a tutto il resto. Si divertono a vedere ventitré persone all’anno morire. Si divertono, Allie. Come possono farlo? Non hanno ancora capito che siamo persone, persone come loro? –
Jack stava urlando, ma la ragazza non provò nemmeno a zittirlo: aveva ragione e aveva il diritto di sfogarsi.
- Me li immagino, sai? Vestiti eleganti, seduti tutti attorno ad un tavolo su delle comodissime sedie di velluto mentre si grattano la barba e pensano al posto dove far morire altri ventitré ragazzi. Poi ad un certo punto uno di loro si alza ed esclama. “Perché non facciamo le stagioni?”. Tutti applaudono e festeggiano bevendo vino e mangiando aragoste. Nel frattempo le persone nei vari distretti muoiono di fame e lavorano per ore per dare a loro quelle fottute sedie di velluto, i loro pregiati tavoli di legno, il vino e le aragoste! E sai qual è la cosa che mi fa innervosire di più? Che alcuni di noi partecipano a questi giochi con piacere, non vedono l’ora di farlo! Pensano di mettersi in mostra, di ottenere la gloria, la fama, ma in realtà siamo tutti nelle loro mani. Anche se non lo vogliamo, anche chi si ribella, tutti siamo delle pedine dei loro giochi. Possono fare di noi quello che vogliono e noi non ce ne rendiamo nemmeno conto! Ci mettono l’uno contro l’altro, ci richiudono qui dentro e ci fanno uccidere nostri coetanei. I distretti finiscono per odiarsi tra di loro e per dimenticare che il vero nemico è solo Capitol City! Ed è tutto così frustrante perché non possiamo fare niente per cambiarlo. Le mie parole saranno state sicuramente tagliate e probabilmente per quello che ho detto non uscirò mai vivo da qui, ma non m’importa. Forse è meglio morire che tornare in quello schifo di mondo! -
- Jack, hai ragione, hai pienamente ragione, ma ora ti devi calmare: qualcuno potrebbe sentirti. Inoltre si sta facendo tardi e dobbiamo ancora decidere cosa fare questa notte. –
- Scusami, Allie. Mi sono lasciato prendere. Cerchiamo di avvicinarci al laghetto che hai visto, poi decideremo cosa fare – disse prima di sollevarsi da terra e infilarsi lo zaino sulle spalle.
I due ragazzi ripresero il cammino in silenzio. La ragazza ripensava alle parole di Jack e di quanto fossero vere, ma lei non era come lui: Allison doveva tornare a casa, non le importava quanto fosse brutto il mondo, lei aveva la sua famiglia, i suoi amici e il suo ragazzo. Non poteva non tornare.

Alexia Black (5), Nigel Collins, Matthew White (11)
Erano ore che camminavano e faceva caldo, molto caldo. Il sudore grondava dalle loro fronti e bagnava le loro magliette, erano stanchi e assetati. Erano riusciti a recuperare uno zaino dalla Cornucopia, ma conteneva solo una borraccia d’acqua, che non bastava per soddisfare la sete di tre persone, quindi avevano deciso di non berla, almeno per il primo giorno.
- Guardate, ragazzi! Un laghetto! – esclamò Nigel, indicando una distesa d’acqua poco distante da loro. Ai loro occhi sembrava quasi un miraggio!
I tre si misero a correre, Matthew fu il primo a raggiungere il laghetto, si inginocchiò e mise le mani a goccia per prendere un po’ d’acqua. Ne bevette un sorso e poi:
- Fermi, non bevete! – urlò ai suoi compagni, che si erano in procinto di bere. – È salata! –
Alexia guardò prima Matthew e poi il laghetto, non poteva crederci, non voleva crederci.
- Cosa diavolo stai dicendo? – esclamò.
- Esattamente quello che ho detto: quest’acqua è salata. È acqua di mare – ripeté ancora una volta.
La ragazza emesse un gemito frustrato alzandosi in piedi, per poi iniziare a prendere a calci un sassolino.
- Non è possibile! Che senso ha mettere dell’acqua, se poi è salata? – si lamentò, camminando avanti e indietro.
Matthew, ancora seduto la osservava camminare, quasi spaventato dall’idea che potesse prendersela con uno di loro. Nigel, invece, era ancora inginocchiato e osservava il laghetto con aria critica. Poi, incurante dell’avviso del compagno allungò le braccia e fece per prendere un po’ d’acqua. Qualcosa proveniente dal lago, però, lo afferrò per il polso. Era qualcosa di viscido che lo stringeva e lo strattonava forte. Nigel si guardò il polso, strette attorno ad esso c’erano delle dita. Il ragazzo urlò, ma dalla sua gola uscì solamente un verso strozzato. Uno strattone ancora più forte lo fece sollevare da terra e finire in acqua. La creatura lo tirava giù, sempre più giù. Non poteva respirare, ma aveva bisogno di aria. Aprì la bocca, forse per urlare, forse per respirare. L’acqua gli entrò nei polmoni. La testa gli doleva forte. Doveva fare qualcosa, non poteva morire, non adesso. Ripensò ad Ashley, la sua ragazza, e a Peter, il suo migliore amico, entrambi morti per colpa dei giochi. Li avrebbe potuti raggiungere, sarebbe potuto essere felice con loro.
Un colpo di cannone.



SPAZIO AUTRICE
Lo so, lo so, sono pessima. Un mese e mezzo per questo. Un capitolo corto e privo di colpi di scena (escludendo il finale). Dovete perdonarmi, ma la scuola mi stava uccidendo. Non avevo più un attimo libero. Prometto di farmi perdonare pubblicando entro il 10 gennaio altri due capitoli.

Comunque finite le scuse, ora posso iniziare a parlare del capitolo.
Ecco qua l’arena. Come avrete capito è divisa nelle stagioni.
[L’ultimo pov erano nella parte dell’estate, non so se si è capito anche perché ho solamente detto che faceva caldo e che l’acqua era salata (acqua salata? e cosa c’entra con l’estate? Beh, io collego l’estate al mare e quindi… Perdonatemi XD)]
Spero che l’idea vi piaccia :)
Comunque le sorprese non sono finite! Vedrete nei prossimi capitoli.

Cosa ha ucciso Nigel? Eheheheh! Non ve lo dirò certo adesso *risata malvagia*
In realtà non avevo in programma che morisse, ma poi nello scrivere mi è venuta l’ispirazione e... poveretto!

Siamo rimasti quindi a sedici tributi ancora in gioco! Ve l’ho detto che ho già selezionato quattro possibili vincitori? Ovviamente non vi dirò i loro nomi, anche perché con il corso della storia potrei cambiare totalmente idea!

Colgo l’occasione per farvi gli auguri di Natale (anche se è già passato, ops) e quelli del nuovo anno, perché sicuramente non aggiornerò fino all’anno prossimo (che battutaccia, lo so  -.-).

A presto,
Felix    
p.s. Questo spazio autrice fa davvero pena :( 

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Capitolo 13
*** Prendere decisioni ***


Prendere decisioni

Cornelia Banks (1), Alvin Lorcan Theroux (1), Merian Oleg (2) e Elaine Claythorne (4) – Cornucopia, secondo giorno

I quattro favoriti, dopo il bagno di sangue, avevano deciso di rimanere alla Cornucopia per controllare quali armi e provviste erano riusciti ad ottenere e poi, essendo quasi buio, avevano passato la notte lì, alternandosi con i turni di guardia. Il mattino, una volta svegli, mangiarono qualche cracker trovato in uno degli zaini e poi cominciarono a discutere su cosa fare.
- Non capisco nemmeno perché dobbiamo discuterne! – si lamentò Cornelia – È semplice: andiamo in giro per l’arena e, non appena incontriamo un tributo, lo uccidiamo. –
- Ma non possiamo non avere una strategia: dobbiamo decidere come muoverci, come attaccare… - disse nervosamente Elaine, mentre con lo sguardo cerava l’appoggio dei suoi alleati. Era convinta delle sue idee, ma aveva anche paura di mettersi contro l’altra ragazza.
- Io credo che abbia ragione Cornelia, insomma siamo i favoriti! – la appoggiò Merian.
- D’accordo, ma come facciamo con le provviste? – chiese Alvin. - Non possiamo portarci dietro tutto! –
- Uno di noi dovrebbe rimanere qui a controllarle – suggerì Elaine. - Ma forse è meglio appostarci in un altro luogo, possibilmente con dell’acqua vicino. –
- Ma qui siamo al centro dell’arena, è la posizione perfetta! – la contraddisse Cornelia.
- Vero, ma non abbiamo l’acqua – osservò Alvin
- Cosa credi che servano a fare gli sponsor? – domandò ironicamente Merian, prima di sbuffare. – Sentite, non possiamo starcene qui con le mani in mano! Se voi due volete stare qui per controllare le provviste, d’accordo. Nel frattempo io e Cornelia faremo un giro di esplorazione e se troviamo un lago, un ruscello o qualcosa del genere torneremo qui e ci sposteremo – propose Merian. Fortunatamente tutti furono d’accordo e si divisero come deciso. Quando si furono allontanati abbastanza dalla Cornucopia, Cornelia disse al ragazzo che camminava al suo fianco:
- Quei due non sono dei veri favoriti, dovremo sbarazzarci di loro, prima o poi! –
- Sono d’accordo con te, ma intanto teniamoceli buoni: finché i tributi sono ancora così tanti ci serve una mano per farli fuori, poi ci occuperemo di loro. -
- Va bene, ma spero che succeda in fretta perché sto cominciando a non sopportar più le chiacchiere di quell’odiosa gallina! –
Merian rise, subito seguito da Cornelia.
- C’è qualche tributo che desideri particolarmente uccidere? – gli chiese la ragazza.
- Nessuno di particolare, voglio che muoiano tutti, a parte me ovviamente. Sì, insomma, la ragazza del 7 non mi sta molto simpatica e nemmeno quello dell’8, ma se li uccidesse qualcun altro per me non sarebbe un problema. Tu invece? –
- Quella del 10, Felicity. Già per il suo nome la odio. Insomma, che nome è Felicity? E poi si dà troppe arie per i miei gusti. La detesto. Avrà una morte lunga e dolorosa – rispose lei con un sorriso sadico che non prometteva nulla di buono e che mise timore persino a Merian.
I due si inoltrarono nella zona che loro non sapevano ancora fosse l’inverno.

Blake Dawnson (12) – Primavera, secondo giorno
Camminava in un prato fiorito, tenendo stretto tra le mani un coltello, l’unica arma che possedeva. Lo stringeva forte mentre procedeva in silenzio, guardandosi intorno con le orecchie tese. Ogni scricchiolio lo faceva sobbalzare e si girava subito verso la direzione da cui proveniva. Anche se non lo avrebbe mai ammesso aveva paura, terribilmente paura. E quel bosco con fiori colorati dall’odore inebriante e dagli alberi con frutti che parevano succosi gli metteva solo più inquietudine. Ad un certo punto sentì un rumore, come lo spezzarsi di un ramo. Si voltò, ma non c’era nessuno. Rimase fermo immobile, in allerta. Un altro scricchiolio. E poi il rumore dei passi. Erano vicini, sempre più vicini. Che cosa fare? E se fossero stati dei tributi armati fino ai denti? E se fossero stati i favoriti? Non poteva rischiare. Si arrampicò velocemente e il più silenziosamente possibile sopra un albero. Nascosto dalla chioma dell’albero spiò chi si stava avvicinando. Era una ragazza. Non si ricordava di lei, ma era certo che non fosse una del gruppo dei favoriti. Non sembrava particolarmente pericolosa, avrebbe potuto ucciderla facilmente. Si calò di colpo dall’albero, sorprendendola. Lei perse l’equilibrio e cadde per terra, spaventata. I capelli biondo cenere erano legati in una coda alta e i suoi occhi verdi lo scrutavano intimorita. Sulla guancia sinistra c’era del sangue secco e riusciva ad intravedere un taglio non troppo profondo, ma abbastanza perché vi rimanesse una cicatrice. Sul petto era appuntato il numero 10. Era disarmata e debole, sarebbe bastato scagliare il coltello contro di lei per ucciderla e, probabilmente, la ragazza non avrebbe nemmeno combattuto. Sembrava sfinita, forse non aveva mangiato. Era così facile, così facile.
“Fallo. Forza, fallo. Che ci vuole?” si chiese.
Strinse la sua arma ancora più forte, per poi sospirare e abbassare il coltello. Porse la mano alla ragazza per aiutarla ad alzarsi. Lei la guardò timorosa, ma poi l’accettò e si mise in piedi.
- Perché non mi hai colpita? – sussurrò.
- Sei disarmata, sarebbe sleale – rispose semplicemente lui con un sospiro.
- Sono gli Hunger Games. –
- Sei sola? – domandò lui guardandosi in giro per controllare se ci fosse qualche altro tributo in giro.
- Sì, la mia alleata è... morta. –
- Mi dispiace, anche la mia. –
- La ragazza del tuo distretto? Shanti, giusto? –
- Sì. Come ti chiami? –
- Felicity Morrison, distretto 10 – rispose stringendogli la mano.
- Blake Dawnson, distretto 12 – fece lui ricambiando la stretta.
- E ora che si fa? Ognuno per la sua strada, oppure… -
- Beh, potremmo stringere un’alleanza: farebbe comodo ad entrambi – suggerì Blake.
- Sì, mi sembra un’ottima idea. –

David Wood, Capo Stratega - Capitol City, secondo giorno
Il Capo Stretga, David Wood, scrutava l’ologramma della sua arena con occhio critico. Già sapeva che era piaciuta molto al pubblico di Capitol City grazie ai risultati del sondaggio che aveva indetto. Poteva quindi ritenersi contento, ma non lo era affatto in quanto c’era troppa poca azione. Dal giorno precedente non c’era stato nessun morto, nessuno scontro, al contrario si era formata una nuova alleanza. I tributi - esclusa Cornelia: lei metteva un po’ di paura persino a lui -  erano più noiosi di quanto gli fossero sembrati alle interviste e quindi toccava a lui movimentare la situazione.
Merian e Cornelia erano entrati nell’area dell’inverno: sarebbe bastato bloccare qualche strada con tronchi o ghiaccio per fare in modo che arrivassero al luogo dove si trovava l’unica alleanza presente in quella stagione, quella costituita da Reylen, Vegas e Kaya.
- Fate in modo che i Favoriti raggiungano i tributi dell’8 e la ragazza del 6: ci serve un po’ di azione - ordinò ai suoi collaboratori, che si misero subito al lavoro.
- Quanti ne devono morire? - chiese una donna con un orrendo taglio di capelli.
- Non più di due. Cercate di salvare Cornelia, almeno per adesso. Mi piacerebbe vedere qualche altra scena con lei, magari con la ragazza del 10. Ma non preoccupatevi troppo di difenderla, se la sa cavare da sola - rispose lui con un sorriso, divertito da come - nonostante fossero i tributi a combattere - potesse ancora lui decidere chi far morire o meno. Erano tutti sotto il suo potere. Era lui a decidere. Certo, cercava di far in modo che gli scontri andassero per il suo corso, ma se serviva interveniva.
Osservò Kaya alzarsi da terra e fare gesto ai sui alleati di fare silenzio, probabilmente aveva sentito un rumore o delle voci, beh non si sbagliava: poco lontano la coppia di Favoriti si dirigeva verso di loro. I tre si nascosero dietro degli alberi dal tronco abbastanza largo per non essere avvistati, così da coglierli di sorpresa quando gli altri li avrebbero raggiunti.
Entrambe le alleanze erano abbastanza rifornite di armi (coltelli, lance, asce e spade) ed erano entrambe molto forti. Sarebbe stato uno scontro interessante.
- Concentrate le telecamere su questa zona, nelle altre stagioni non sta succedendo nulla di importante - ordinò.
- Dieci secondi allo scontro - annunciò un uomo. - Tre. Due. Uno. È iniziato. Telecamera 3 su Merian. -
- Voglio che telecamera 3 riprenda dall’alto, dobbiamo avere anche una visione generale! - esclamò David.
- Sì, signore - rispose, prima di eseguire gli ordini.
I cinque stavano combattendo valorosamente: erano tutti molto preparati, ma i Favoriti - nonostante fossero di meno - erano più forti. Kaya era già stata ferita a un braccio da Cornelia e stava perdendo molto sangue.
- Signor Wood, il tributo del distretto 6 è caduta. Merian si sta preparando ad attaccare - lo aggiornò una donna anziana, anche se non ce ne era bisogno: lui era attento alla situazione.
- Bene. Primo piano sul ragazzo… Perfetto, ora spostatevi sudi lei. Okay ora ripresa dal basso. -
Merian lanciò una lancia e Kaya venne colpita esattamente al centro del petto: i suoi occhi si spalancarono e la sua bocca si aprì come per urlare, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. I suoi alleati la guardarono con sguardo triste e allo stesso tempo spaventato: ora erano due contro due. I due Favoriti sorridevano, invece, era un sorriso malefico e freddo, il loro.
- Controllo del battito cardiaco - disse.
- Nessun battito, signore. È morta - gli rispose uno degli strateghi.
- Fate partire il colpo di cannone. Non voglio altri morti, altrimenti perderemmo i due tributi dell’8 e li voglio dentro, almeno per un po’. Fate in modo che smettano di combattere. -
- Bufera di neve o Yeti, signore? - chiese l’addetta agli effetti speciali.
- Bufera di neve. Teniamoci gli ibridi per più avanti - rispose lui.
- Perfetto. Tra tre. Due. Uno. È iniziata, signore. -
La neve cominciò a cadere forte sopra le loro teste, impedendogli di vedere e di riconoscere le persone con cui stavano combattendo. Vegas afferrò Reyeln per un polso e cominciarono a correre il più velocemente possibile lontano da loro, lasciando però le provviste, che furono recuperate dai Favoriti. Merian e Cornelia si fermarono, in attesa che la bufera finisse.
- Bel lavoro. Ora devo andare, chiamatemi se succede qualcosa degno di nota. -
David Wood uscì dalla stanza con un sorriso trionfante: era riuscito a dimostrare anche oggi che era lui ad avere il controllo e che i tributi erano solo pedine dei suoi giochi.




SPAZIO AUTRICE
Ciao,
so che l’ultima volta che ho aggiornato è stata talmente tanto tempo fa che probabilmente c’erano ancora i dinosauri e so anche che vi avevo promesso di aggiornare presto. E il capitolo era anche pronto per la data stabilita, ma – sì, c’è un ma – come scrivere l’ultimo pezzo e mi è venuta solo poco tempo fa l’idea di farlo dal punto di vista del Capo Stratega. Poi ho perso la chiavetta dove avevo salvato tutto il lavoro e dunque… eccomi qui solo oggi!
Mi dispiace davvero, sono imperdonabile, spero solo che ci sia qualche anima pia disposta a leggere ancora questa storia.
Comunque, spero di pubblicare il prossimo capitolo entro due settimane.
Un bacione,

Felix

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Capitolo 14
*** Pianificazioni ***


Pianificazioni

Alvin Lorcan Theroux (1) - Cornucopia, notte del secondo giorno
Alvin guardava i suoi alleati dormire tranquillamente: era il suo turno di guardia e doveva assicurarsi che nessuno rubasse loro armi o provviste e che nessuno volesse attaccarli, anche se quest’ultima opzione era assai improbabile. “Chi attaccherebbe i favoriti?” si chiedevano ridendo i suoi compagni, che non avrebbero mai potuto immaginare che proprio uno di loro li avrebbe traditi. Sì, proprio lui: l’innocuo Alvin: quello che non parlava mai troppo, che non si esprimeva, che non metteva troppo timore a nessuno. Il ragazzo stava infatti per abbandonare il suo gruppo di alleati, non prima di aver preso qualche arma e delle provviste per sé, ovviamente.
Era un ragazzo diffidente, non aveva fiducia nelle persone e inoltre era convinto di potercela fare da solo. Voleva vincere, doveva vincere. Alvin aveva il compito che la sua famiglia non fosse così codarda come si pensava al suo distretto, doveva riscattare il suo cognome, che era stato precedentemente infangato dal padre, il quale non si era offerto volontario agli Hunger Games, nonostante i suoi due fratelli più piccoli fossero stati estratti.
Inoltre Alvin doveva impressionare sua madre, farle capire quanto aveva perso lasciandoli. Elith, infatti, si era trasferita a Capitol City poiché non riusciva più a reggere il peso delle malelingue contro la sua famiglia e in particolare contro Caleb, suo marito, che era stato rinominato “il Codardo”.
Era quindi tutta colpa di suo padre se si trovava in quella situazione. Alvin gli voleva bene infondo, ma non riusciva a non attribuirgli la colpa della fuga di sua madre, a cui era molto legato.
Silenziosamente, afferrò uno zaino e lo riempì con del cibo, un sacco a pelo, dei fiammiferi, una borraccia d’acqua e dei coltelli. Prese poi una spada e una lancia e si allontanò velocemente dalla Cornucopia. Avrebbe voluto appiccare un incendio e bruciare così le provviste che rimanevano agli ormai ex alleati per crear loro seri problemi, ma non voleva rischiare di essere scoperto. Doveva camminare in fretta, ma senza fare rumore: non poteva rischiare che uno dei favoriti si svegliasse e lo cogliesse sul fatto. Cornelia e Merian avevano detto che la parte dell’arena che avevano esplorato era coperta di neve, perciò non era certo il luogo giusto dove andare. Si diresse quindi dalla parte opposta che avevano preso i compagni, sperando di trovare un luogo adatto per la sopravvivenza.

Alexia Black (5) e Matthew White - Estate, terzo giorno
Matthew e Alexia erano ancora scossi per il dimezzamento della loro alleanza: prima Alexandra era stata uccisa da Elaine e poi Nigel era morto a causa di esseri misteriosi nel laghetto. I due si erano subito allontanati da lì, sia perché erano troppo spaventati per rimanerci, ma anche perché sarebbe stato inutile, visto che l’acqua era salata e quindi imbevibile. Ancora non avevano compreso il motivo di questa folle idea, ma non potevano farci niente. Fortunatamente avevano una boraccia d’acqua, troppo poca per bastare per tutta la durata del gioco, ma abbastanza per dissetarsi almeno un po’. Inoltre entrambi erano segretamente convinti che nessuno dei due sarebbe durato ancora per molto: avevano solo un coltello a testa, qualche galletta di riso e un panino. Non erano particolarmente forti, al contrario erano deboli e privi di energie.
Nonostante tutto ciò, in Matthew c’era ancora il desiderio di vendetta. Non riusciva a sopportare che la sua migliore amica fosse morta: era come una sorella per lui e, se c’era qualcuno che doveva salvarsi in quell’arena, era lei. Non era giusto che Alexandra fosse morta, non se lo meritava. Voleva vendicare la sua morte, voleva uccidere Elaine. Ne aveva parlato con Alexia, ma gli aveva dato del pazzo: lei era una favorita e loro giravano sempre il gruppo, ma anche se fossero riusciti a isolarla era troppo forte. Matthew però non si voleva arrendere: l’avrebbe vendicata, oppure sarebbe morto provandoci, non se ne sarebbe stato con le mani in mano. Doveva solo architettare un piano abbastanza astuto per ottenere quello che voleva. Non poteva essere così difficile, doveva solo sforzarsi.
- A cosa stai pensando, Matthew? - interruppe il suo flusso di pensieri Alexia, mentre se ne stava seduta per terra, accarezzando distrattamente l’erba verde scuro.
- Lo sai - rispose lui freddamente, senza guardarla negli occhi.
- Io vorrei aiutarti, davvero, ma non è facile. Se tu trovassi un modo per poterlo fare senza troppi rischi, io sarei dalla tua parte. Non voglio però che tu pensi sia necessario farlo, Alexandra non vorrebbe che tu lo facessi. -
- Tu non la conoscevi, non puoi sapere quello che vorrebbe! - sbraitò lui, facendo sobbalzare la ragazza. - E comunque - aggiunse abbassando la voce - Non si tratta di quello che vorrebbe lei, ma di quello che voglio io. -
- D’accordo, Matthew. Non volevo essere invasiva. Pensa a un piano e io ti aiuterò. -
- Grazie, Alexia e scusami se ho urlato, ma lei è, era importante per me - si scusò il ragazzo, abbassando la testa e continuando a pensare a un modo per uccidere Elaine senza troppo rischio.

Jake Sander (9) - Autunno, terzo giorno
Jake si era allontanato da Riven e Kathleen, i suoi alleati, per esplorare un po’ l’arena. Purtroppo, si era perso e dai prati fioriti era giunto a una zona che aveva le caratteristiche tipiche dell’autunno. Era preoccupato perché non sapeva come tornare indietro, aveva camminato talmente tanto che non ricordava più la strada che aveva preso. Ormai era passata un’intera giornata da quando aveva lasciato gli altri due, che probabilmente ora erano addirittura più preoccupanti di lui.
“Che stupido” pensò, scalciando delle foglie a terra. “Non p0tevo tornare indietro prima? No, dovevo andare avanti! Stupido io e stupida la mia curiosità!”
Fortunatamente sembrava non ci fosse nessuno e quindi che non ci fossero pericoli. O almeno così credeva lui. Ad un certo punto, mentre stava ancora camminando verso una meta indefinita, sentì un rumore di passi e dei bisbigli. Afferrò l’unica arma che aveva, un coltello, e si nascose dietro un albero, cercando di scoprire chi fossero gli autori di quei rumori. La paura scorreva nelle sue vene: chi poteva essere? E se fossero stati i favoriti? O comunque tributi armati e pericolosi?
Vide due figure avvicinarsi a lui: un maschio e una femmina. Non ne era sicuro, ma sembravano la ragazza del 7 e quello del 10. Erano senza dubbio tra i più forti nell’arena, non sarebbe mai uscito vivo da uno scontro con loro. Continuò a fissarli, mentre si facevano più vicini. Fortunatamente i due girarono a destra a pochi metri di distanza da lui. Jake tirò un sospiro di sollievo e fu questo a metterlo in pericolo.
- Jack, hai sentito? - bisbigliò la ragazza, guardandosi intorno preoccupata.
- No, non ho sentito niente - rispose lui. Jack, credeva si chiamasse, quello senza cognome.
- C’è qualcuno, ne sono sicura - ribatté l’altra.  
- D’accordo, guardiamoci in giro. -
I due tributi presero dei coltelli e iniziarono a camminare, cercando la fonte del rumore, che Jake sapeva fosse proprio lui. Era terrorizzato, se l’avessero visto non avrebbe avuto scampo. Non poteva fare niente: era disarmato.
Chiuse gli occhi, pregando di non essere trovato, pregando che se ne andassero e che lui potesse andare avanti. Poco dopo, però sentì un fruscio vicino a lui, decisamente troppo vicino. Lo avevano visto, lo sapeva. Il cuore gli batteva forte nel petto, sembrava volesse uscire dalla gabbia toracica. Aprì gli occhi, davanti a lui c’era un ragazzo alto, con la carnagione chiara e i capelli castani lunghi fino alle spalle. Aveva un coltello in mano che puntava dritto verso di lui. Lo stava fissando, sembrava indeciso su cosa fare. Forse non aveva ancora ucciso nessuno dentro l’arena, forse lo avrebbe lasciato andare. Poi però avvicinò l’arma e sussurrò:
- Mi dispiace. - Subito dopo lo colpì.
Jake riuscì a pensare ai suoi fratelli che sarebbero rimasti soli ora che anche lui era morto, sperava solo che Michael sarebbe riuscito a non farli finire in orfanatrofio. Erano una famiglia unita, non potevano dividersi. Pensò anche alla ragazza di cui era innamorato e poi ai suoi genitori, ch presto avrebbe raggiunto. Poi chiuse gli occhi, questa volta per sempre.
Un colpo di cannone risuonò nell’arena, mentre Jack estrasse l’arma insanguinata dal corpo dell’avversario con un sospiro rassegnato.

Felicity Morrison (10) e Blake Dawnson (12) - Primavera, terzo giorno
E anche il terzo giorno nell’arena era ormai giunto al termine. Felicity si infilò nell’unico sacco a pelo che avevano a disposizione, mentre Blake avrebbe fatto il primo turno di guardia. Il cielo è ormai buio quando inizia l’inno che precede il riepilogo delle morti del giorno. Il sigillo di Capitol City illumina lo schermo enorme trasportato da un hovercraft, poi tutto si fa scuro per un istante, poi appare l’immagine di Jake Sander, distretto 9. Felicity lo ricordava vagamente, non ci aveva mai parlato, ma sembrava un ragazzo gentile. Blake fissava un punto indefinito con occhi vuoti, probabilmente stava pensando, forse a Shanti, forse alla sua famiglia, forse non stava semplicemente pensando a niente. Lì dentro era inutile pensare, non serviva a nulla, se non a rattristirsi ancora di più.
- Posso chiederti una cosa? - chiese il ragazzo, spostando lo sguardo su Felicity, che annuì.
- Cos’è quel segno che hai sulla guancia? Sono sicuro che non ce l’avevi prima di entrare nell’arena e non sembra una normale ferita. -
Felicity sbiancò, non le piaceva ricordare quel momento e non sapeva se le andava di parlarne con lui. Blake sembrò leggerla nel pensiero, perché aggiunse subito:
- Non sei obbligata a parlarne, se non ti va. -
- No, cioè… io… è okay - balbettò. - È stata Cornelia Banks, del distretto 1. Lei ha ucciso la mia alleata, April e poi voleva uccidermi, ma ha deciso di risparmiarmi. Mi ha fatto però questo simbolo: è l’iniziale del suo nome. Ha detto che così nessuno mi toccherà e che sarà solo lei ad uccidermi, quando e come vorrà - spiegò Felicity, tenendo gli occhi bassi.
- Perché pensi che Cornelia ti abbia risparmiata? -
- Io… non lo so. Forse vuole dimostrare che è lei che comanda, che mi ha in pungo. -
- Sì, hai ragione. Sei spaventata? -
- Un po’ - confessò. -Insomma, non è facile convivere con l’idea che qualcuno voglia ucciderti. So che, essendo in un’arena, non dovrei preoccuparmi più del normale, ma dovevi vedere come ha ucciso April: è stato terribile. Lei piangeva e urlava e io… io non potevo fare niente! -
- Ti prometto che quando arriverà il momento non sarai sola, io ti aiuterò. -
- Non sei tenuto a farlo, Blake. -
- Lo so, ma Shanti è morta e io non c’ero per difenderla, non voglio che la cosa si ripeti. È bastato una volta. -
- In tal caso, grazie - rispose lei riconoscente, prima di chiudere gli occhi e provare a dormire.


SPAZIO AUTRICE
Eccomi qui con un nuovo capitolo, spero che vi sia piaciuto. Diciamo che può essere considerato un capitolo di passaggio: come reagiranno i favoriti alla fuga di Alvin? Riuscirà Matthew ad escogitare un piano per uccidere Elaine? E Felicity e Cornelia quando si scontreranno? Manterrà Blake la sua promessa? Per sapere le risposte di queste domande dovete aspettare il prossimo capitolo e forse anche quello dopo ancora.
Detto ciò, martedì questa storia compie un anno, perciò sto pensando di organizzare una sorpresa come un capitolo bonus, spero di riuscire a pubblicarlo per il giorno giusto, ma ancora non so bene cosa fare, si accettano suggerimenti.
Ora vi saluto e vado a vedermi Modern Family! *_*
Un bacione,
la vostra Felix <3

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Capitolo 15
*** Lo scontro ***


Lo scontro

Alexia Black (5) e Matthew White (11) – vicino alla Cornucopia, quarto giorno
Matthew aveva pensato e ripensato a un modo per uccidere Elaine e finalmente aveva avuto un’idea. Aveva esposto il suo piano ad Alexia la quale - dopo aver provato nuovamente a dissuaderlo – aveva accettato. Per questo ora erano nascosti dietro gli alberi poco lontani dalla Cornucopia, dove si trovavano i Favoriti. Il piano prevedeva che gli alleati di Elaine si allontanassero da lei, altrimenti non sarebbero mai riusciti nella loro impresa e quindi stavano aspettando lì da ormai un’ora. Non erano così vicini da intendere tutte le loro parole, ma erano riusciti a capire che uno di loro, il ragazzo dell’1, li aveva lasciati e aveva rubato anche alcune loro armi e delle provviste durante la notte e che loro erano molto arrabbiati per questo.
- Matthew, forse è meglio se ce ne andiamo. Non lasceranno mai Elaine da sola, non dopo quello che è successo. Molto probabilmente non si fidano più l’uno dell’altro! – sussurrò Alexia, ma invano, poiché il ragazzo era convinto dalle sue idee e bruciava dal desiderio di vendicarsi, perciò non le rispose.
La ragazza continuava a guardarsi in giro preoccupata e disse ancora:
- Possiamo tornare domani. Se stiamo qui, rischiamo che ci vedano! –
- Aspetta, guarda! – rispose lui, indicando Merian e Cornelia che si allontanavano da Elaine, lasciandola sola.
Matthew sembrava al settimo cielo, mentre Alexia era quasi delusa. I due cominciarono ad avvicinarsi piano e silenziosamente alla ragazza, che dava loro le spalle. Erano ad un paio di metri di distanza, quando lei si girò, ma non sembrava spaventata, né tanto meno sorpresa, anzi, sorrideva.
- Credevate davvero che non ci saremmo accorti di voi? Siete due sciocchi ingenui! – esclamò prima di scoppiare a ridere.
Matthew non ci vide più dalla rabbia, emise un suono che sembrava quasi un ringhio e si scaraventò addosso a lei, brandendo il suo coltello. Elaine si spostò in fretta e lui cadde a terra. Alexia li guardava spaventata, mentre pensava a cosa fare per aiutare l’amico. Merian, che si era nascosto tra gli alberi insieme a Cornelia, nel frattempo li aveva raggiunti, mentre l’alleata stava camminando verso di loro, ma non sembrava che volesse sbrigarsi, forse perché era convinta che gli altri due li avrebbero uccisi in fretta, senza  bisogno di altri aiuti. Anche Alexia la pensava così: non avevano speranze di uscire vivi da quello scontro. Merian sorrise sadicamente, roteando la sua spada tra le mani. Non fece nemmeno a tempo ad urlare che lui l’aveva già colpita. Cadde a terra con un rantolo, riuscì a vedere in maniera sfuocata Matthew guardarla con aria colpevole e dispiaciuta prima che tutto divenne buio ed un colpo di cannone risuonasse nell’arena.
Il ragazzo dell’11 sapeva che era colpa sua, era tutta colpa sua. Alexia era morta e l’unico responsabile era lui. Non gli importava di uscire vivo da quella lotta, l’unica cosa che voleva era che Elaine morisse e che la sua alleata non si facesse male. Uno dei suoi obiettivi, però, non era andato a buon fine e sperava solo di riuscire a portare a termine l’altro. Aveva solo un arma e solo un tiro. Incrociò le dita della mano sinistra, mentre con la destra tirava il suo coltello verso l’avversaria. Poi iniziò a correre, il più veloce possibile. Non sentì nessun grido e nemmeno un colpo di cannone, l’aveva mancata. Qualcosa lo colpì al fianco sinistro, un coltello, o una lancia, non lo sapeva, ma faceva male, tanto male.
Si fermò solo quando fu abbastanza certo di essere al sicuro nascosto dagli alberi. Aveva perso molto sangue e sapeva che non sarebbe riuscito a curarsi la ferita, anche perché nessuno sponsor gli avrebbe mai mandato qualche medicina o delle fasce. Sarebbe morto dissanguato, una fine brutta e dolorosa, che forse meritava, ma non voleva che andasse così. Improvvisamente si ricordò del laghetto in cui Nigel era morto misteriosamente. Quindi si tirò in piedi e si trascinò fino alla meta prefissata. Guardò l’acqua, che in quel momento gli sembrava spaventosa. Poi puntò il suo sguardo in alto, pensò ad Alexandra e ai genitori di lei, che ormai considerava come suoi. Sussurrò uno “scusatemi” e poi si lasciò cadere nel laghetto. Delle creature, che gli sembravano sirene, lo trascinarono giù, sempre più giù. L’acqua gli entrava nei polmoni e lui non riusciva più a respirare. Pochi secondi dopo un colpo di cannone rimbombò nell’arena.

Kathleen Vince (3) e Riven Cole (3) – Primavera, quarto giorno
Da quando Jake era morto, per Kathleen era molto difficile andare avanti. Riven aveva bisogno di essere continuamente controllato, lei era a conoscenza dei suoi problemi, quindi cercava di proteggerlo, ma ora si sentiva sempre più stanca. Non dormiva da tempo: non poteva permettersi che fosse Riven a fare i turni di guardia di notte e quindi toccava sempre a lei. Di giorno non poteva riposare: se lo lasciava solo, rischiava che il ragazzo si allontanasse o che mangiasse uno di quei frutti dall’aria gustosa, ma che Kathleen era convinta fossero velenosi.
Fortunatamente era molto tranquillo: parlava poco e quando lo faceva era solo per discutere sugli Hunger Games, la sua era una fissa quasi inquietante, sapeva ogni dettaglio su tutte le edizioni e conosceva le tecniche degli strateghi; il resto del tempo lo passava in silenzio, assorto in chissà quali pensieri, si fermava a fissare il suo orologio da polso o a guardare nel vuoto.
Kathleen non aveva idea di cosa stesse pensando, forse semplicemente a niente.
Le sarebbe piaciuto non preoccuparsi di nulla, almeno per un po’; invece nella sua testa c’erano continui pensieri rivolti alla sua famiglia, ai suoi amici, al suo fidanzato, Jonathan, alla sua vita, all’arena. Non riusciva – non poteva – smettere di pensare. Si aggrappava ai ricordi, alle immagini dei suoi cari per non lasciarsi andare, per andare avanti. Forse se avesse avuto per qualche minuto la mente libera sarebbe riuscita a dormire, perché il problema in fondo non era Riven: erano in una zona isolata, non vedevano altri tributi dal bagno di sangue, si sarebbe quindi potuta concedere qualche ora di sonno, ma non riusciva. I pensieri che le vorticavano in testa le impedivano di chiudere gli occhi.
Aveva paura, tremendamente paura. Aveva paura di morire, di non tornare a casa. Aveva paura di dover uccidere qualcuno. E aveva anche paura di vincere. Non sapeva se sarebbe mai riuscita a sopravvivere con il pensiero di aver privato qualcuno della propria vita. Gli incubi l’avrebbero perseguitata a vita.
Forse non doveva preoccuparsi di questo, era convinta che non avrebbe mai vinto. L’avrebbero uccisa prima. Non era forte, era solo una ragazza proveniente dal distretto 3. Come avrebbe potuto vincere? Era impossibile. Avrebbe dovuto rilassarsi, dormire un po’, tanto a cosa serviva restare sveglia se poi sarebbe morta comunque?
“No, Kathleen. Non devi pensare così. Devi essere forte e coraggiosa. Ce la puoi fare, puoi tornare a casa”.
Era come se dentro di lei vivessero due anime differenti: una che la spronava a farsi forte e l’altra che le consigliava di arrendersi. Più passava il tempo, però, e più la voce della prima diventava fioca e debole e più dentro di lei risuonava quella che le diceva di lasciarsi andare, di smetterla di pensare. E forse prima o poi l’avrebbe ascoltata.

Cornelia Banks (1) – Primavera, quinto giorno
Era ormai giunta la mattina del quinto giorno nell’arena. Elaine era stata ferita ad un braccio dal ragazzo dell’11, non era nulla di grave, ma la principessina voleva fare la malata e starsene seduta. Merian era quindi rimasto con lei per fare da guardia alle provviste, perciò Cornelia era andata a caccia di tributi.
Questa era l’occasione che tanto aspettava per uccidere la sua preda, Felicity. S’avventurò per un po’ nell’arena in cerca della ragazza. Non aveva idea di dove fosse, perciò si era portata delle provviste e un sacco a pelo nel caso le fosse servito più di un giorno.
Verso sera sentì delle voci poco distanti, una di esse apparteneva a una ragazza. Si avvicinò al luogo da dove provenivano e,  da dietro un albero, riuscì a scorgere due figure sedute vicino a un fuoco. La femmina era proprio la sua vittima, mentre l’altro era il ragazzo del 12, Blake.
Cornelia sorrise vittoriosa e uscì dal suo nascondiglio.
- Bene, bene, bene. Guarda un po’ chi abbiamo qui. Felicity! –
La ragazza trasalì e la guardò spaventata, mentre Blake afferrò la sua lancia e si alzò immediatamente in piedi.
- Oh, cara, ti sei fatta il fidanzatino? – la provocò. – E tu, sei sicuro di volerti mettere in mezzo? Potresti farti male, sai? –
- Non ho paura di te – rispose lui.
- E nemmeno io, Cornelia – aggiunse la ragazza che si era alzata e aveva impugnato un coltello.
- Beh, di certo io non ne ho di voi! – esclamò, prima di scoppiare a ridere. Era una risata priva di allegria, rappresentava solo odio e cattiveria. Voleva ucciderli e non aveva certo paura di farlo. Lei adorava vedere la luce spegnersi negli occhi delle sue vittime, adorava vederle pregare prima di risparmiarle e poi di ucciderle, mettendo così fine alle dolorose torture che praticava su di loro. Uccidere le faceva dimenticare i suoi problemi, le sue debolezze. Non le importava di vincere: soffriva di una malattia che l’avrebbe portata a morire comunque, l’unica cosa che voleva era uccidere.
Cornelia afferrò un coltello e lo lanciò verso Felicity, non riuscì però a vedere se l’avesse colpita, perché cadde a terra, ferita dalla lancia di Blake. L’aveva colpita al centro del petto, di lì a poco sarebbe morta. Per una volta poteva sapere anche lei com’era il dolore, cosa provavano le sue vittime, poteva sentire in prima persona la vita sfuggirle dalle mani. Pensava a questo prima che un colpo di cannone rimbombò nell’arena.
Blake la fissò finché chiuse gli occhi, poi si voltò con un sorriso verso l’alleata, che però giaceva a terra, ferita, con un coltello conficcato nello stomaco.-
- No! – urlò, prima di inginocchiarsi accanto a lei con gli occhi umidi di lacrime. – No, resisti, Felicity. Gli sponsor ci manderanno qualcosa che ti possa curare. Resisti, non lasciarmi! Non anche tu! –
- Blake, sai benissimo che, anche se ne avessimo di sponsor, non avrebbero niente che possa curare questo – sussurrò lei, afferrandogli una mano, mentre con l’altra gli asciugava le lacrime che gli rigavano le guance.
- No, non dire così. Non è vero! – diceva lui, continuando a scuotere la testa.
- Ascoltami: grazie, grazie di tutto. Sei stato un buon amico e un ottimo alleato. Ti auguro di essere il vincitore e di tornare a casa. –
- Ti voglio bene, Felicity – disse, ma lei non riuscì a ricambiare il suo affetto. Era morta.  

SPAZIO AUTRICE
Ehi, ciao!
So di essere in un ritardo tremendo, ma avevo già scritto il capitolo da tempo, il problema è che mi si era cancellato :( Poi non ho più avuto tempo di riscriverlo – causa scuola – fino a ieri! Spero che mi perdoniate e che ci sia ancora qualcuno disposto a leggere questa storia (esclusa mia sorella XD).
Anyway, ho deciso chi sarà il vincitore ... RULLO DI TAMBURI … SQUILLO DI TROMBE … PREPARATEVI SIGNORE E SIGNORI … IL VINCITORE SARA’… no, non ho intenzione di dirvelo XD
Se tutto va bene dovrebbero esserci altri cinque capitolo più l’epilogo, che non so ancora bene come sarà. Idee/consigli/suggerimenti sono ben accetti.
Mancano ancora 10 tributi!! Se il vostro/a/i/e è/sono tra questi: congratulazioni, avete superato la metà!
Vi lascio i nomi dei tributi rimanenti e alcune domande alle quali mi piacerebbe rispondeste con una recensione. Grazie <3

Alvin Lorcan Theroux – distretto 1
Merian Oleg – distretto 2
Kathleen Vince – distretto 3
Riven Cole – distretto 3
Elaine Claythorne – distretto 4
Allison Thomas – distretto 7
Reylen Sheed – distretto 8
Vegas Ghellow – distretto 8
Jack – distretto 10
Blake Dawnson – distretto 12

DOMANDE:

1)    Qual è il vostro tributo maschio preferito? Tributo femmina? E tra i due chi preferite?
2)    Qual è il tributo maschio che meno vi piace? Tributo femmina? E tra i due chi vi piace di meno?
3)    Chi pensate che vincerà?
4)    Qual è l’alleanza che preferite?
5)    Per quale tributo morto vi siete dispiaciuto di più?
6)    Il vostro tributo è ancora in vita? Se sì, chi è? Pensate che potrebbe vincere?

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e di aggiornare presto!
Un bacione,
Felix

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Capitolo 16
*** Ricordi ***


Ecco qui il capitolo per celebrare il compleanno della storia che vi avevo promesso (anche se con un giorno di ritardo)

Ricordi

David Wood adorava il suo lavoro, non per i soldi che guadagnava - anche se gli facevano certamente piacere - ma perché lo faceva sentire bene. Nelle ore che lavorava riusciva a dimenticarsi dei problemi che lo affliggevano e a dimenticarsi della sua triste vita. Lui adorava vedere quei ragazzini soffrire, per lui ogni morte era come una piccola vittoria. Non pensava questo perché era una persona sadica o malata, ma perché loro se lo meritavano. Se Capitol City era giunta a questa soluzione era stata solo colpa loro. I distretti avevano deciso di ribellarsi e ora avevano ottenuto la loro punizione.

Questi suoi pensieri non erano nati dagli insegnamenti che aveva appreso a scuola - o meglio non solo, visto che i professori dovevano  inculcare queste idee in testa ad ogni alunno - bensì da ciò che gli era capitato.
Era piccolo quando le ribellioni erano iniziate, sei anni o forse sette. Era un bambino uguale a tutti gli altri, non tanto diverso da quelli che abitavano nei distretti. Gli piaceva giocare con gli amici, andare al parco, mangiare gelati. Aveva due genitori che gli volevano bene: Caroline e Thomas Wood, non erano particolarmente strambi: forse avevano vestiti dai colori un po’ più sgargianti, ma alla fine erano dei genitori come quelli che vivevano fuori da Capitol City. Erano una famiglia normale, in fondo: Caroline era un medico, Thomas uno stilista non molto conosciuto, mentre David andava solo alle elementari. Quindi perché li avevano uccisi? Perché se l’erano presa con loro? Cosa avevano fatto di male? Queste erano le domande che David si era posto per tanto tempo.
“Non avevano fatto niente di male, David. Nessuno di noi ha fatto qualcosa di sbagliato, ma questa è la guerra e le persone si stanno ribellando per avere più diritti. Non volevano colpire i tuoi genitori in particolare, ma solo la città. Vogliono uccidere noi capitolini perché credono, di poter vincere, di poterci sottomettere, ma, fidati, si sbagliano.” Tanti avevano provato a spiegarglielo, ma lui non riusciva a capirlo, forse perché era solo un bambino, o forse perché non poteva semplicemente accettarlo.
Un giorno stava tornando da scuola, felice di aver preso un bel voto nella verifica di geografia e correva verso casa, pronto a ricevere i complimenti dai suoi genitori. Quando era arrivato, però, ad aspettarlo non c’era ciò che si aspettava: la casa era bruciata e i corpi dei suoi genitori erano avvolti in due sacchi neri, che assomigliavano tanto a quelli della spazzatura. Aveva pianto, urlato, battuto i piedi e i pugni a terra e poi era scappato dalle braccia della sua vicina di casa che aveva provato a calmarlo. Si era rifugiato nella casetta su un albero di un parco e non era uscito fino a sera. A quel punto aveva guardato in alto: il cielo era tempestato di stelle e sembrava che due brillassero più delle altre, o forse era solo la sua fantasia. Comunque fosse, capì che non serviva che si disperasse, non sarebbe cambiato nulla, ma c’erano altri modi che – nonostante non gli avessero riportato indietro la sua famiglia – lo avrebbero aiutato a sentirsi meglio.
Poi era stato spedito in un orfanatrofio, lì si era trovato degli amici e per un po’ il suo desiderio di vendetta scomparve. In particolare strinse un bel rapporto con una sua coetanea di nome Emily. Aveva i capelli biondi e due grandi occhi azzurri, il suo sorriso era luminoso ed era sempre gentile e dolce con lui. Quando entrambi compirono  diciotto anni riuscirono ad uscire da lì e si presero un appartamento in affitto insieme. Si innamorarono presto, anche se David probabilmente era cotto di lei fin dal giorno in cui l’aveva conosciuta. La guerra era giunta praticamente al termine, Capitol City aveva distrutto il distretto 13 e  gli altri erano ormai stanchi. Il desiderio di vendetta di David era scomparso del tutto, anche perché era venuto a sapere che la città stava pensando a delle riforme per tenere più controllati i distretti e per punirli di ciò che avevano fatto.
Una sera David, tornando dal lavoro (aveva intrapreso la carriera di avvocato) si era fermato in una gioielleria ed era entrato per comprare un anello: aveva finalmente preso la decisione di chiedere ad Emily di sposarlo. Aveva passato un paio di ore in quel negozio a discutere con la commessa sul suo acquisto. Era piuttosto perfezionista e attento ai particolari: doveva essere tutto perfetto. Nel tornare a casa chiamò al loro ristorante preferito e prenotò un tavolo per due. Poi si fermò da un fioraio e comprò un bel mazzo di rose rosse. In ufficio aveva già scritto e imparato a memoria il discorso, quindi era tutto pronto. Quando arrivò a casa, però, non c’era nessuno ad aspettarlo, ma David non si preoccupò troppo: probabilmente Emily era stata trattenuta al lavoro. Passata un’ora decise di chiamarla, ma non ottenne alcuna risposta.

Il telefono squillò e David si alzò dal divano, convinto che a chiamare fosse Emily per avvisare che stava arrivando. Sullo schermo però c’era un numero sconosciuto, forse le si era scaricato il telefono e aveva usato quello di una collega.
“Pronto?” rispose.
“Buonasera. Lei è il signor Wood?”chiese una voce maschile, che non conosceva.
“Sì, salve. Con chi sto parlando?”
“Sono un Pacificatore, signore. Mi chiamo Johnson.” Che cosa poteva volere un Pacificatore da lui?
“Posso fare qualcosa per aiutarla, signor Johnson?”
“Lei conosce la signorina Emily Brown?” A sentire il suo nome David si agitò molto. “L’ho contattata perché il suo numero era segnato tra quelli da chiamare in caso di emergenza.”
“Sì, è la mia fidanzata. Perché? Le è capitato qualcosa? Dove si trova? Sta bene?” domandò preoccupato.
“Mi dispiace comunicarle che la signorina Emily Brown è morta, è stata uccisa.”

Per lui fu come se il mondo gli crollasse addosso, per la seconda volta. Adesso però non sarebbe riuscito a rimettere assieme i pezzi.
Più tardi quella sera scoprì che a compiere l’omicidio era stato uno dei pochi ribelli rimasti. Egli era riuscito ad arrivare a Capitol City, ma poi era stato circondato dai Pacificatori e, preso dal panico, aveva preso Emily come ostaggio e le aveva sparato vedendo che gli uomini continuavano ad avanzare, senza considerare la sua minaccia.
Ancora una volta loro era riusciti a potargli via la sua felicità. Lo avevano privato dei genitori, della sua casa e ora dell’amore della sua vita. Era abbastanza.
Un mese dopo riuscì ad entrare tra gli uomini di fiducia del Presidente e quando nacquero gli Hunger Games fu tra i primi a proporsi come Stratega e venne subito scelto; infatti non era difficile vedere il lui il desiderio di vendetta.
Quest’anno era stato promosso come Capo Stratega e quindi poteva controllare tutto.
Non si sentiva in colpa nemmeno un po’. Era giusto che i figli, i nipoti e i pronipoti dei ribelli pagassero. Gli avevano portato via tutto quello che aveva e adesso era arrivato il suo momento di fare lo stesso.
Li odiava. Odiava ogni singolo tributo. Era stata colpa loro. Erano stati loro a farlo soffrire e ora dovevano pagare.


SPAZIO AUTRICE
Ciao a tutti!
So che può sembrare stupido festeggiare il compleanno di una storia, ma io non sono del tutto normale, quindi: TANTI AUGURI A TE, TANTI AUGURI A TE, TANTI AUGURIII STORIAAA, TANTI AUGURI A TEE!
Detto questo ecco qui il capitolo extra che vi avevo promesso. Ora conoscete meglio anche il nostro Capo Stratega, David Wood.
Spero sinceramente che la sua storia vi sia piaciuta e che abbiate apprezzato il capitolo.
Vi lascio!
Un bacione,
Felix
p.s. Spero di aggiornare presto, ma non garantisco nulla.

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