Pride and Prejudice

di Rory Lannister
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***




L'immaginazione delle donne è molto rapida: balza in un attimo dall'ammirazione all'amore, dall'amore al matrimonio. 

Fitzwilliam Darcy, Orgoglio e Pregiudizio.

 
 
 
 
Matrimonio equivaleva a fiducia.
Per questo, se qualcuno le avesse predetto che avrebbe sposato l’uomo più potente, ricco e ambizioso di Westeros, gli avrebbe riso in volto e avrebbe continuato per la sua strada scuotendo il capo. Soprattutto perché il suddetto uomo poteva congelare con uno sguardo e non sorrideva mai.
Aurora Redwyne amava ridere per dei giochi di parole che potevano comprendere soltanto lei e sua sorella maggiore, Olenna, e per lei fidarsi era ancora più difficoltoso che avanzare sul ciglio di un burrone nella più cupa delle notti.
Se proprio suo padre avesse ritenuto di dover cercarle marito, pratica che la giovane trovava del tutto medievale, avrebbe fatto in modo di dirottare la proposta su un uomo come Luthor Tyrell. Di bell’aspetto, cortese, facoltoso, ma incredibilmente sciocco così da non doversi preoccupare di combattere una guerra d’arguzia.
Olenna era stata accorta nella propria decisione, sebbene crudele nei confronti della loro povera sorella maggiore, Viola, che all’età di ventisette anni aveva ben poche speranze di sposare un buon partito.
Aurora era la più giovane delle figlie di Mr. Runceford, imprenditore della più importante azienda vinicola del paese, e di sua moglie, Mrs. Scarlett Rowan, che era stata famosa per l’arte di fabbricare cappelli per signore.
Diciotto anni, alta e longilinea, dai grandi occhi chiari e i capelli simili a foglie di vite autunnale, Aurora non possedeva la straordinaria bellezza di Olenna né la sua naturale eleganza, ma entrambe avevano la lingua tagliente e la particolare propensione ad ottenere tutto ciò che desideravano. Viola era sempre stata un gradino sotto di loro, con le sue labbra petulanti e gli occhi anonimi sin troppo acquosi.
Non poteva compatire Mr. Luthor per aver pregato ceduto al fascino della mezzana e aver spezzato il loro fidanzamento ad un passo dalle nozze.
Si sarebbero sposati il mese dopo in una sontuosa cerimonia nel Gran Tempio di Baelor. Solo il meglio per i banchieri di Westeros.
Olenna aveva già l’abito da sposa, una mirabile riproduzione di quello che avrebbe potuto indossare una principessa delle fiabe, ed era alle prese con i mille e più inviti personalizzati.
Questo non aveva fatto altro che infiammare l’indignazione di Viola e rendere più crudeli le sue maledizioni a danno della minore che, dal canto suo, rispondeva con una sonora risata e un pigro cenno con la mano destra, alla quale brillava l’anello di fidanzamento, - mostrandolo con un orgoglio che Aurora trovava quasi di cattivo gusto.
Erano ad Approdo del Re, al noioso e vetusto palazzo di Jaehaerys, sedicesimo Presidente della dinastia Targaryen e di sua moglie Shaera, che mostrava un’avvenenza invidiabile per una donna della sua età, appunto per allestire il matrimonio alla perfezione ed Aurora incominciava ad odiare quel luogo stantio e il puzzo di putrefazione che saliva dal Fondo delle Pulci, il quartiere più degradato nei pressi del porto.
Soltanto nei giardini del circolo degli eletti, nella parte orientale alle spalle della magione si poteva respirare aria pulita e il canto degli usignoli conciliava la serenità dell’animo.
Aurora amava la pigra calma dei pomeriggi d’Estate, quando si accomodava sul cornicione delle sue stanze e osservava il Mare del Tramonto brillare come uno zaffiro in un gioco di luci e ombre che nessun altro oceano poteva offrire.
Il circolo degli eletti era, in realtà, un mero gioco mentale di potente e contrappesi.
Le sette famiglie più benestanti del paese si sfidavano ad ogni generazione per avere il titolo del Presidente. I Targaryen erano rimasti imbattuti per più di venti mandati e oramai era divenuta una carica ereditaria sebbene non fosse stata mutata la costituzione liberale ideata dai primi eroi di Westeros.
Per un’altra famiglia entrare in quel circolo era un grande onore. Significava ottenere rispetto, cariche e denaro.
Olenna incominciò a fischiettare un motivetto allegro sottovoce, mai volgare neanche con tutto il sarcasmo che le inacidiva il cuore, mentre entrambe ricamavano accomodate sul ciglio di una fontana di marmo che ritraeva un drago, il simbolo dei Targaryen, che, al posto di fiamme, sputava acqua zampillante.
Aurora sollevò lo sguardo azzurrino dalla sua orrenda riproduzione di un unicorno. Il disegno era un’arte che non le competeva affatto. Sapeva cantare discretamente, ma eccelleva solo nella danza. Avrebbe potuto ballare per ore senza stancarsi.
Lo sguardo innocente che sua sorella maggiore le rivolse le fece aggrottare le folte sopracciglia scure. Non era da Olenna comportarsi a quel modo. Le rivolse un sorriso arguto e fece un cenno col capo verso la villa. Seguì la traiettoria e incrociò l’alta figura di un ragazzo che faceva tremare di terrore anche molti uomini temprati da innumerevoli battaglie politiche.
Tywin Lannister si ergeva come un leone su una rupe, intendo ad osservare il mondo dall’alto del suo rango e della sua considerevole arguzia.
Era maestoso come un Re e capace come soltanto un guida poteva essere. Con quegli occhi verdi screziati d’oro e i corti ricci dorati, poi, non era da meno ad Aerys, primogenito e possibile erede alla presidenza, con la sua avvenenza Valyriana.
Il tipo di uomo che Aurora non avrebbe mai voluto sposare.
Si stava allenando a tiro con l’arco, l’attività preferita dei giovani rampolli, con Aerys e Steffon Baratheon, suo cugino da parte materna.
Inutile aggiungere che il leone li stava sconfiggendo a più riprese.
Anche da quella distanza poteva notare le spalle scolpite, fasciate da un camiciola candida, scattare mentre tendeva la corda, la presa sicura come quella di un veterano di guerra.
Non li avevano presentati. I Redwyne erano ricchi, sì, ma non aristocratici. S’erano affermati piuttosto recentemente nel variegato panorama dell’Altopiano, però il loro nome era già pronunciato con rispetto grazie alle abilità di suo padre. Olenna sarebbe stata la prima nella loro famiglia a sposare un uomo di antica nobiltà.
I Tyrell possedevano la più grande e antica banca della nazione. Fortunatamente sua sorella aveva una sfacciata predilezione per i conti se era implicato un bel mucchio di dragoni d’oro.  
« Adesso ti sei dai alla miniere?» sibilò la più giovane abbandonando il disegno sul tavolino con un cenno di irritazione. Era disgustoso. Poteva benissimo bruciarlo. L’unicorno sembrava più un palafreno in sovrappeso che un glorioso essere mitologico.
Olenna lo notò e nascose un sorriso a denti stretti. Aurora adorava sua sorella, davvero, ma in quel momento avrebbe voluto gettarle un calice di vino in pieno volto. Era certa di essere arrossita, e non solo per il disegno.
« Oh mia cara, potrei porti la stessa questione,» cinguettò allusiva. L’aveva notata la sera scorsa quando erano state presentate al Presidente e a sua moglie. Ogni nuovo ospite riceva un posto al tavolo d’onore per una sera. Ad Aurora era toccato quello di fronte al giovane erede della fortuna giuridica di Casterly Rock. Non l’aveva degnata di uno sguardo per tutta la sera, ma Aurora l’aveva fissato di sottecchi. Troppo, a giudicar l’occhiata sorniona che Olenna le stava rivolgendo.
« Non si può negare che sia affascinante,» replicò diplomatica celando il rossore degli zigomi dietro una coppa di vino.
I Lannister erano degli avvocati strabilianti. Avrebbero saputo come fare assolvere un criminale colto in fragrante. Non si ponevano interrogati e non si facevano scrupoli. Inoltre nelle loro terre regnavano le miniere d’oro. La loro villa era stata costruita secoli e secoli prima proprio su una di esse.
Tywin aveva sconfitto i suoi avversari nel mentre. Il Targaryen, quel viziato che all’età di vent’anni non faceva altro che vagare sotto le gonne delle cameriere, non sembrava averla presa molto bene.
« Scommettiamo, sorellina?»
Mai, mai scommettere con Olenna Redwyne. Avrebbe sempre trovato il modo di sconfiggere il proprio avversario e ottenere ciò che desiderava.
Aurora si concesse un lungo sospiro e un altro sorso di vino prima di rispondere. Non voleva darle la soddisfazione di negare per timore, ma non gradiva quello sguardo da predatrice. Sarebbe ben presto finita in un guaio più grande di lei.
« Giochiamo a carte scoperte, Lenna,» esclamò seria, allontanando per un attimo l’immagine del leone della Rocca dalla sua mente. Non avrebbe per nulla giovato alla sua sanità mentale rimuginare troppo su un uomo irraggiungibile. Olenna storse il naso sottile e delicato e le labbra si piegarono in un accenno di disgusto che per un attimo la fece sorridere.
Sua sorella detestava quel nomignolo ragion per cui Viola adorava usarlo.
« Se entro la fine del torneo farai capitolare il leone, il diadema è tuo,» le propose con quel ghigno malandrino così inadatto per una signorina dell’alta società e così tanto suo da non sembrare per nulla fuoriposto.
Aurora considerò l’idea per qualche istante. Il diadema era ciò che di più bello e caro esisteva a quel mondo per lei. Era il monile che sua madre aveva amato di più. E Olenna l’avrebbe ceduto a patto di un gioco di seduzione.
Era una sfida pressoché impossibile, la ragazza lo sapeva bene. Con qualunque altro uomo non avrebbe avuto poi troppi problemi. Olenna le aveva insegnato qualche trucco e aveva scoperto che uno sguardo languido valeva più di mille preghiere.
Era di Tywin Lannister che si stava discutendo, però, e Tywin Lannister non era un uomo. Era una chimera. Una stella che sembrava vicina ma che in realtà era lontana anni luce.
« E se non riuscissi?» domandò tentando di rimanere sul vago, come se fosse stata una richiesta banale.
Olenna, la tigre bianca dagli artigli affilati come lame, sorrise come se stesse disquisendo di un’amenità e sventolò la mancina portandosi poi un boccolo castano scuro dietro l’orecchio.
« Sarebbe meglio non scoprirlo ora,» consigliò sporgendosi verso di lei e baciandole la gota prima di congedarsi. Olenna si lasciava dietro una scia di narcisi, fiera e decisa come una Regina in tutto fuorché il nome. Un giorno l’avrebbe avuto, Aurora ne era più che certa.
La fanciulla sospirò e terminò con un sorso la sua coppa di vino.
Osservò per un attimo il calice d’oro intarsiato con ghirigori di tralicci e acini d’uva. Era una di quelle che suo padre amava mostrare ai ricevimenti quando ospitano persone illustri.
Un’idea malandrina le attraversò la mente e afferrò la brocca per versarne il contenuto.
Voleva rischiare, la Regina della quiete.
Si issò in piedi e avanzò verso la magione, la coppa tra le dita e una determinazione che la stupiva. Non era mai stata una codarda. Viola era quella che si celava dietro alle parole come se fossero scudi e, quando si rendeva conto che avrebbe fallito, fuggiva nella sua tana di tasso, attenendo tempi migliori. Però non poteva negare che quel giovane leone la intimoriva.
Il fruscio della lunga veste, di un verde chiaro che lasciava la schiena scoperta e si stringeva in vita per mostrare i fianchi gentili, sembrava suggerirle di continuare per la villa e non volgersi verso il cortile degli scontri.
Aerys s’era congedato, probabilmente per non mostrare quanto gli fosse bruciata la sconfitta, e il giovane Steffon aveva ingaggiato un altro scontro con un uomo alto e dai profondi occhi azzurri. Barristan Selmy, il più abile delle guardie presidenziali.
Tywin, invece, si stava lavando le mani, il volto glabro e la nuca circondata dai ricci biondi. Dell’acqua gli era finita sulla camiciola aperta sul petto a mostrarne la consistenza muscolosa ma non troppo accentuata. Sembrava il Guerriero in forma umana e Aurora deglutì a vuoto nel notarlo.
Avanzò con tutta la grazia e la calma che la sua istruttrice di buone maniere le aveva insegnato, esponendo un mento alto e uno sguardo sereno, ma il cuore le batteva come un tamburo da guerra e il respiro era corto. Sperò che gli zigomi non fossero imporporati e che le dita che stringevano il calice non tremassero troppo.
Fece finta che fosse uno scontro casuale, il loro, una semplice mancanza di attenzione di una signorina che osservava il cielo troppo assorta per vedere ad un palmo dal naso. La sua spalla arrivava a malapena sopra il gomito del giovane e quindi il vino gli sporcò la camicia all’altezza dell’addome.
Si bloccò e si maledisse nello stesso momento. Doveva essere ammattita. Neanche Olenna avrebbe osato tanto.
Tywin Lannister chinò lo sguardo verso di lei e poi verso la sua camicia irrimediabilmente rovinata.
La trafisse con la più gelida delle occhiate e per un attimo ebbe paura di lui come se fosse stato un vero leone e lei una sciocca gazzella che aveva segnato il suo destino osando entrare nella sua tana.
Il suo cuore mancò un battito e si portò il calice al petto, tentando di non macchiare anche il suo vestito. Viola l’avrebbe uccisa. Era uno dei suoi.
Una terzogenita non aveva vestiti propri. Indossava quelli vecchi e stretti delle sue sorelle maggiori.
« Miss,» esclamò incolore il leone. Non tentava neanche di essere cortese e per quello si ritrovò a stimarlo. Tywin non aveva bisogno di vincere le proprie battaglie prostrandosi e tessendo lodi fasulle. Tywin otteneva ciò che desiderava con i mezzi che la natura gli aveva affidato, un intelletto straordinario e un’ottima capacità di utilizzarlo.
« Mi spiace. Non stavo guardando, signore,» si scusò con tutto il dispiacere che riuscì a racimolare senza sembrare troppo ridicola. La sua voce sembrava un tintinnio di campane, ma era abbastanza stabile al contrario del battito impazzito al centro del petto florido. Il gelo non si infranse, ma perlomeno non l’avrebbe uccisa.
« Non importa. È solo vino.»
Mera frase di circostanza. 
Sapeva che l’aveva fatto di proposito. Glielo leggeva negli occhi, che erano chiari come il mare e ugualmente cristallini, e Aurora non avrebbe potuto mentire, non a lui. Tywin era sin troppo  intelligente.
Che uomo detestabile.
Tentò di congedarsi in una riverenza col capo. Non sapeva cosa altro aggiungere a quella patetica scena. La sera scorsa non l’aveva degnata di uno sguardo e in quel momento la fissava come se fosse stata polvere sotto i suoi stivali a gamba alta neri come il suo cuore. Non si sarebbe mai fatta trattare in quel modo, neanche per il diadema di sua madre.
Prima che potesse fare anche un solo passo, però, una mano grande e callosa, abituata alle lunghe sessioni di allenamento, le strinse il polso sottile non senza una certa delicatezza. Aurora non avrebbe mai potuto immaginarlo gentile.
La mano era gelida e umida per l’acqua che ancora gli scuriva i capelli dorati. Una sensazione di vuoto sotto i piedi su ciò che avvertì mentre si perdeva in quel mare verde che erano gli occhi del giovane.
« Vi divertite a gettare vino contro tutti, Miss Aurora, o sono l’unico?» chiese sottovoce, il tono baritonale ancora più marcato in un accenno di sarcasmo. Un altro uomo avrebbe sorriso, ma Tywin non sorrideva mai. Le risate gli rammentavano i signori che si beffavano di suo padre, taluni asserivano.
Aurora schiuse le labbra vermiglie, appena tumide, ma si affrettò a riprendere il controllo di se stessa.
« Avete scoperto il mio passatempo preferito, Mr. Tywin,» replicò spavalda mostrandogli il più luminoso dei suoi sorrisi, prima di girare sui tacchi, facendolo frusciare lo strascico del vestito. Tywin sciolse la presa, divertito, e Aurora avanzò verso la villa gustandosi il vino di Arbor.
Era certa che le stesse osservando la schiena e i capelli scuri che battevano contro di essa arrivando sino al fondo.
Allora non le era poi così indifferente.

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Capitolo 2
*** II ***


II

Un leone non s’interessava della morale del volgo.
Un leone si ergeva vigoroso e inattaccabile nella sua Rocca splendente.
Un leone non trascorreva il proprio prezioso tempo rimuginando su quanta attenzione dovesse esercitare per non calpestare un papavero vermiglio.
Prendeva ciò che desiderava e non si curava d’altro che dei propri interessi.
Per questo Tywin, che era il leone più maestoso dalla morte di suo nonno Gerold, si stava maledicendo da ore.
Quella dannata Redwyne aveva intaccato la fredda corazza della sua mente, aprendo una breccia pericolosa, aggiungendosi alle preoccupazioni circa la sua nobile casata e la progressiva decadenza che suo padre, una fiera senza artigli, le stava arrecando.
La sera prima il disgustoso commento di Aerys sulle sorelle di Arbor l’aveva portato ad osservarle.
La maggiore aveva gli occhi acquosi e le labbra petulanti. Appariva come una vite secca e spoglia da vent’anni se confrontata con la fulgida avvenenza della mezzana dal sorriso predatore che gli riportava alla mente Genna.
Colei che, però, Tywin aveva guardato con più insistenza era la minore.
Era stato attento come sempre a celarsi dietro il calice di vino annacquato, come Aerys non mancava mai di sottolineare derisorio, l’indice puntato sulle labbra carnose, il capo rivolto all’erede, e la coda dell’occhio smeraldino verso la fanciulla.
Aurora Redwyne.
Aerys l’aveva considerata più della maggiore, ma non tanto quanto avrebbe meritato.
La sua avvenenza era discreta, delicata come lo stelo di un fiore, un alone di luce che brillava nella nebbia. Un uomo più appassionato di lui si sarebbe facilmente potuto innamorare di quegli occhi azzurri che sembravano urlare di non dimenticarsi di loro.
Sapevano come esprimersi, quegli occhi, come mostrarsi senza difese e proprio per quel motivo, al meglio delle proprie forze.
Tywin li aveva notati quella mattina.
La camiciola macchiata di rosso, - rosso Lannister, rosso puro-, era l’unico testimone di quel dialogo silenzioso.
Aveva notato il timore, celato abilmente dalla fermezza delle spalle esili e strette e delle dita affusolate, cedere il passo alla rabbia dettata da quell’atteggiamento distaccato e gelido che il giovane manteneva con la maggior parte dei suoi interlocutori, per giungere, infine, a un senso di sfida che l’aveva turbato.
Quella fanciulla era la creatura più inconsueta che avesse mai incontrato.
Per alcuni inconsueto equivaleva a pericoloso, ma non per Tywin Lannister.
Il leone della Rocca, alle soglie della maturità che avrebbe rappresentato un confine per tutta Westeros, trovava quegli occhi cangianti meramente ammalianti. 
La ragazza che li possedeva ancora di più.
In un gesto d’irritazione si tolse la camiciola e la gettò a terra, vicino alla gamba bombata del tavolo di mogano.
Dopo aver salutato con un cenno il giovane Steffon, era tornato nelle sue camere all’ultimo piano della magione, nella zona riservata alla nobiltà più antica. Erano ariose e il Sole le illuminava senza riscaldarle più del necessario.
Si passò la mancina sugli occhi gelidi e si accomodò sulla poltrona dinanzi al camino spento.
Regnava l’Estate a Westeros, sebbene l’Inverno fosse sempre in agguato, come amavano rammentare gli Stark.
Aurora Redwyne era l’Autunno, la quiete che faceva da scudo alla tempesta, mite e allo stesso tempo dispettosa come una brezza improvvisa tra le fronde delle querce.
Sbuffò, irritato dai suoi stessi pensieri. Non era da lui perdersi in tali divagazioni involontarie e non desiderate.
La mente del leone era sempre concentrata sul proprio obiettivo. Avrebbe dovuto impiegare il suo tempo in qualcosa di più costruttivo della ragazza di Arbor se voleva arrivare al soglio presidenziale. Le elezioni erano vicine e le alleanze ancora da formarsi.
Gerion scelse quel momento per irrompere nella stanza, gote paffute e arrossate per la corsa, scintillanti occhi di giada e sorriso candido che preannunciava un futuro da incantatore.
Era il fratello in cui si rivedeva di più per l’arguzia. Kevan era fedele e capace, ma non avrebbe mai preso l’iniziativa, e Tygett aveva un carattere troppo iroso e aguzzo per poter essere considerato una guida.
Gerion gli posò le mani sulle ginocchia fasciate dalle braghe color della notte e attese che gli riservasse attenzione. Tywin chinò lo sguardo e s’immerse in quello più chiaro e soddisfatto del minore.
« Non sei ancora pronto per il ricevimento,» osservò incredulo sapendo quanto tenesse alla puntualità. Incrociò le braccia al petto magro mentre Tywin sollevava le sopracciglia come per domandargli la ragione del suo interessamento. Notò che era vestito di tutto punto, un se stesso in miniatura. Sarebbe diventato un ottimo giurista.
« Riferisci a nostra madre che vi raggiungerò tra pochi istanti,» lo congedò categorico prima di dirigersi verso la cassapanca di noce ai piedi del letto a baldacchino cremisi e oro, i colori della sua Casa. Gerion sbuffò irritato da tanta freddezza, ma obbedì.
Si concesse un breve bagno caldo per lavare via la polvere e per sciogliere la tensione sui muscoli contratti dall’allenamento.
L’acqua, però, non eliminò la macchia di vino che era penetrata oltre le vesti sino in fondo come un colpo allo stomaco.
Dirigendosi verso la Sala Grande, dove i Targaryen tenevano i loro fastosi ricevimenti da quasi trecento anni, osservò che era uno dei pochi ad essersi attardato. Tutti gli altri nobili erano smaniosi di compiacere il Presidente e la sua famiglia per ricevere onorificenze e incarichi. Persino l’antica aristocrazia era pronta a prostrarsi come se avesse dinanzi a sé una divinità.
Tywin detestava quelle pecore belanti. Le trovava riprovevoli e non degne dei loro titoli. Scontrandosi tra loro, s’indebolivano e i Targaryen potevano regnare incontrastati. Avrebbe posto fine a quelle lotte intestine, li avrebbe piegati al suo volere e ben presto avrebbe avuto solo il cielo sopra di sé, mai più un drago. Se avessero unito le forze, le menti focalizzate su un unico obiettivo, avrebbero potuto ribaltare le loro sorti. Da sconfitti a vincitori. Da servi a padroni. Da vassalli a signori.
Il paggio lo annunciò con garbo e il Presidente gli rivolse uno sguardo cordiale sollevando il calice in sua direzione. Tywin rispose con un cenno di rispetto col capo.
Jaehaerys aveva gli occhi di ametista, scuri e profondi, e i capelli più bianchi che dorati. Era un uomo invecchiato prima del tempo, dalle mani tremanti ma dalla mente attiva. Ciò era più di quanto Aerys avrebbe mai potuto possedere.
Il ragazzo, che Tywin disprezzava con più ardore di quanto riservasse a tutti gli altri ed era costretto a tollerare per il quieto vivere, sedeva dinanzi ad una giovane donna dalla treccia d’ebano, ubriaco come un taverniere.
Steffon, imbarazzato da quegli atteggiamenti irrispettosi e disgustosi, cercava di cambiare ogni parola del cugino, ma ogni tentativo era vano poiché Aerys aveva davvero una fantasia illimitata quando si trattava di far sentire una donna a disagio.
Distolse lo sguardo da quell’ennesima follia per rivolgerlo al tavolo circolare più vicino a quello presidenziale, dove sedeva la sua famiglia. Il posto d’onore al fianco di suo padre, quello riservato alla donna che Tywin più amava, era vuoto. Sua madre, la bella e arguta Jeyne Marbrand, non era in sala. Avrebbe riconosciuto ovunque il timido odore di lavanda e i suoi capelli ramati con qualche striatura d’argento.
Per un attimo fu tentato di congedarsi anche lui, ma poi la vide. O, per meglio dire, la sentì.
Aurora Redwyne aveva la risata tonante di chi era abituato a risplendere nonostante le sue condizioni. Un papavero in un campo di rose. Unica e preziosa.
Stava disquisendo con Mr. Luthor Tyrell, il fidanzato di sua sorella, l’immancabile coppa di vino tra le dita. Da quella distanza e con la musica dei violini sopra di loro, non poteva captare ciò che si stavano raccontando.
Luthor era un bell’uomo, dai riccioli castani e gli occhi ambrati, una lieve peluria a scurirgli le gote. Era un uomo che ispirava più fiducia che rispetto. La sua gentilezza e il suo buon cuore erano ben noti a Westeros. Ciò lo rendeva una preda facile per gli approfittatori.
Aurora gli dava le spalle e la veste color vinaccia la fasciava come una seconda pelle, scoprendole la schiena. Era uno stile diverso da quello a cui era abituato. Nelle sue terre sarebbe stato disdicevole mostrarsi così sfacciatamente a proprio agio con il proprio corpo.
Sulla fanciulla di Arbor diveniva naturale quanto il bianco su una Septa.  
Aveva i capelli raccolti intorno alla nuca e il resto in una treccia che le delimitava il solco tra i seni come una collana. Notò lo sguardo di molti uomini su di lei, meri avvoltoi che osservavano il suo corpo senza tentare di carpire i segreti della sua mente.
Strinse i pugni per un istante, gli occhi dardeggianti e un desiderio folle di portarla via da quella sala, da quegli sguardi languidi, da quelle mani che sembravano zampe di ragni e spire di serpenti. Avanzò verso di lei non appena Luthor si fu congedato con un inchino e un bacio fraterno sulla gota.
Nell’udire i passi cadenzati approcciarsi alle sue spalle, la giovane si volse di scatto, quasi colpendolo al petto con la coppa. Il vino rischiò di cadere sul farsetto, ma fu abile ad evitarlo. Notò un lampo di sorpresa negli occhi azzurrini e le labbra si schiusero come petali di rosa. Le gote non erano imbellettate, ma brillavano di un rossore virgineo che Tywin trovava quasi divertente.
« Sta diventando un’abitudine pericolosa,» esclamò quieto mentre la sorpresa lasciava spazio all’indifferenza ostentata. Si impegnava abbastanza bene a non considerarlo, salvo poi essere smentita dallo sguardo cristallino. L’aveva notato quella mattina, il suo interessamento, e non sapeva spiegarselo. Tywin sapeva di essere affascinante. Aveva l’avvenenza dei Lannister ed era molto simile a suo padre da giovane. Il suo carattere, però, avrebbe fatto fuggire una fanciulla meno determinata della Redwyne.
« Mr. Tywin,» lo salutò con un sorriso e una breve riverenza. Erano dinanzi a tutta Westeros. Avrebbe dovuto mostrarsi meno interessato e sarebbe dovuto arretrare di un passo abbondante, soprattutto perché Genna gli stava rivolgendo uno sguardo interrogativo come per domandargli se la sua sanità mentale fosse ancora integra, « Non dovreste essere accanto ad Aerys Targaryen? Vi riserva sempre un posto d’onore,» accennò col capo verso il tavolo presidenziale. Proprio in quel momento Aerys rise gettando un fiotto di vino sull’avambraccio di Steffon.
Si costrinse a non esibire una smorfia nauseata, ma la fanciulla quasi sussultò quando osservò il gelo nei suoi occhi.
« Troppa poca aria, se comprendete cosa intendo,» soggiunse caustico, per mitigare quel senso di timore che l’aveva scossa. Alle volte sapeva di far tremare chi gli era vicino, ma quella paura rendeva la bella Redwyne una cerbiatta che fuggiva da un cacciatore. Non voleva divenisse così. Non voleva metterla in soggezione.
« Non avrei mai pensato che esistesse dell’umorismo in voi,» annunciò non senza una certa baldanza, ritornando al suo solito tono provocatorio.
« Credete di conoscermi tanto bene?» domandò con voce roca avvicinandosi ancora di più di quanto fosse consentito, osando ciò che nessun uomo meno sicuro di se stesso avrebbe potuto azzardare. Tywin era un leone, però, e non gli importava della morale comune. La fanciulla non sembrò turbata. Da quella distanza poteva notare il cerchio più scuro al limite delle iridi, le piccole imperfezioni delle labbra, l’odore penetrante e ammaliante dei suoi capelli morbidi.
« Non quanto desidererei,» mormorò quasi senza muovere le labbra umide di vino. Non doveva osservarle, si ordinò. Scostò lo sguardo puntandolo verso il tavolo della sua famiglia. Gerion era scomparso, sicuramente alla ricerca di qualche giovane con cui giocare a cyvasse, ma Genna lo stava ancora guardando sebbene stesse discutendo amabilmente con la loro cugina più cara, Joanna.  
« Ballate?»
« In genere sì, ma dovrei posare il calice,» esclamò con falso dispiacere sbattendo le palpebre come se sapesse benissimo l’effetto che i suoi occhi avevano su di lui. La voce le diveniva più calda quando si crucciava come una bambina, un tono che avrebbe fatto divenire più strette le braghe di un uomo meno controllato di lui.
Le prese la coppa con gentilezza e se la portò alle labbra dove poteva percepire erano state quelle di lei. Ne bevve un ampio sorso e poi gliela porse, vuota.
« Adesso non ha più alcuna attrattiva,» suggellò l’atto compiacendosi dell’espressione sconcertata che Aurora aveva assunto. Non sembrava offesa, soltanto incredula per quel suo gesto spontaneo. Forse credeva che fosse troppo impostato per agire di istinto. Era stato ben felice di smentirla a riguardo.
« Voi avete un dono nel sistemar disastri, Mr. Tywin,» osservò divertita un istante dopo mentre posava la coppa sul vassoio di un maggiordomo di passaggio e prendeva la sua mano per seguirlo sulla pista da ballo.
I musici suonavano Alysanne, una melodia triste e totalmente inadatta al carattere esuberante della Redwyne.
Una mano nella sua e l’altra sul fianco, la fece volteggiare per tutta la sala.
Aurora sembrava essere nel suo elemento naturale, calma e perfetta come una Regina nel suo regno. Mentre danzava, ci si poteva dimenticare che suo nonno era stato un mercante e che suo padre aveva costruito un impero in vent’anni con un’esigua base finanziaria alle spalle. Mentre danzava diveniva la più nobile donna di Westeros.
Tywin si perse in quei suoi movimenti, negli occhi sereni e in quell’aria da bambina che lo portava a stringerla con più vigore come per proteggerla da una minaccia incombente.
Da quando Joanna era stata promessa ad Aerys non aveva mai stretto un’altra donna, né durante le danze né nel privato. Si concedeva un bacio sulle gote di sua madre e sua sorella, ma nulla di più.  
Joanna era stata l’unica con cui avesse mai creduto di poter avere un futuro. Poi il maiale in velluto nero gliel’aveva portata via per ripicca, poiché Tywin era e sarebbe sempre stato un uomo cento e mille volte migliore di lui. 
Dimenticò quei pensieri inopportuni mentre un sorriso si faceva largo sulle labbra e negli occhi della fanciulla di Arbor.
La canzone era cambiata e le note della Moglie del Dorniano erano molto più allegre e audaci della vecchia ballata medievale.
Aurora si sentiva più a suo agio con quella musica più contemporanea e sembrava quasi volare sul pavimento di marmo bianco e lucido.
« Perché sorridete?» le chiese incuriosito, la mano sul fianco che si faceva più audace e lo stringeva nella sua interezza. La stoffa dell’abito era impalpabile e per un attimo fu come sentire la sua pelle nuda tra le dita. Una sensazione che non sarebbe riuscito a coprire se non avesse avuto la fanciulla dinanzi a sé. Aurora aveva il capo sollevato sui suoi occhi, per sua fortuna. Non voleva che un mero istinto carnale rovinasse quel momento.
« Perché lo considerate alla stregua di un crimine,» replicò dispettosa mentre la mano sulla sua spalla giocava con le stringhe del farsetto in un soffio di fata, « Infrangere le vostre regole può essere gratificante,» soggiunse con voce carezzevole imbronciando le labbra esangui. Era una delle poche donne a non essere truccata e ciò, se possibile, lo attirava ancora di più.
« Per un momento forse,» le concesse con falsa irritazione, solo per rimarcare il concetto che nessuno avrebbe mai dovuto sfidarlo per non incorrere nella sua ira e nella sua giustizia, « Non credo gradireste quello dopo.»
« Sarebbe un piacere del quale non mi priverei per nulla al mondo,» bisbigliò al suo orecchio prima di chinarsi in una riverenza, sorridergli supponente e volgergli le spalle. I passi di Aurora Redwyne erano lenti come quelli di una danza e Tywin aveva tutta l’impressione che sapesse di essere osservata.
Scosse il capo, imponendosi la calma glaciale che lo caratterizzava, e si allontanò dalla pista da ballo e dalla sala che era divenuta davvero soffocante. Ai violini s’erano aggiunti i tamburi e Tywin detestava quel loro tonfo sordo e irregolare. Nessuno avrebbe notato la sua assenza a quell’ora tarda. E avrebbe potuto pensare alle sue alleanze anche il giorno dopo.
La fanciulla Redwyne era tornata al tavolo dei Tyrell e la mezzana le stava dicendo qualcosa all’orecchio. Aurora sorrise e scosse il capo, prendendo poi un’altra coppa di vino.
La baldanza con la quale beveva era intrigante e allo stesso tempo irritante. 
Volse le spalle a quella scena e si incamminò verso le sue camere. I corridoi erano ariosi e quieti, privi di sussurri di serpi e daghe nel buio.
Avrebbe davvero voluto distruggere quell’antro di depravazione e quel ricettacolo di arrampicatori sociali.
Dopo le elezioni, dopo aver ottenuto Westeros, dopo aver riportato i leoni al loro antico splendore.
Non appena aprì la spessa porta di noce un profumo di lavanda gli invase le narici. Profumo di casa che gli rammentava i suoi giorni di bambino.  
« Madre,» esclamò stupito, osservando la donna accomodata sulla poltrona dinanzi al camino. Jeyne Marbrand era bella nonostante i suoi quarant’anni e cinque figli alle spalle. Aveva la pelle d’avorio e in quel momento il pallore di Luna era messo in risalto dall’abito scuro. Sua madre vestiva sempre di vermiglio e d’oro. Non comprendeva perché quella sera avesse scelto un tale funereo colore.
« Tywin, chiudi la porta, figlio mio,» ribatté tranquilla e dolce, rivolgendogli quel suo sorriso orgoglioso che gli rinfrancava il cuore e lo rendeva più determinato a perseguire il proprio obiettivo. Le avrebbe dato un altro motivo di fierezza facendola divenire la madre del primo Presidente Lannister.
Il giovane ubbidì e colmò la distanza che lo separava dalla genitrice con poche ed ampie falcate per accomodarsi alla poltrona dinanzi alla sua. Sul tavolino di vetro v’era un bottiglia di idromele e un sacchetto con delle polveri che non riuscì ad identificare.
« Dimmi.»
Jeyne sospirò e gli prese le mani tra le sue, dalle dita affusolate e gelide, come se fosse appena uscita da una tormenta di neve. Tywin le stinse per riscaldarle e notò le occhiaie marchiarle di viola gli zigomi alti, le labbra piegate in una smorfia di dolore, le palpebre abbassate e il petto ansante.
Comprese prima ancora che glielo dicesse.
« Sto morendo, caro,» mormorò senza intercalari, diretta come soltanto lei poteva essere, quasi dispiaciuta della sua stessa schiettezza, « Il Maestro è convinto che non resisterò un altro anno.»
La notizia gli arrivò come un colpo di archibugio al cuore.
Per mesi era stato cieco. Aveva tentato di non guardarla mentre deperiva sempre di più rimanendo elegante e integra come se non stesse accadendo nulla. Jeyne era fatta di granito come lui. Erano uguali, loro due, due anime speculari.
Odiò quel gelo inattaccabile che gli proteggeva l’anima come mai prima di quel momento. Un altro uomo l’avrebbe abbracciata e le avrebbe donato speranza. Avrebbe pianto e si sarebbe inginocchiato al suo cospetto.
Non Tywin Lannister però.
Se sua madre si aspettava una reazione differente, non lo diede a vedere.
Il sorriso brillava ancora negli occhi scuri che solo Tygett aveva ereditato. Un sorriso di madre, accogliente e dolce, come se fosse stato lui a dover essere protetto, le arcuò le labbra rendendola più armoniosa della Fanciulla.
La destra volò verso la gota della genitrice e la carezzò con dolcezza, le dita timorose che temevano di poterla ferire.
« Cosa hai?» domandò in un sussurro appena accennato. Voleva comprendere, il leone. Scoprire quale male stesse minacciando sua madre. Se avesse potuto salvarla come Jon Arryn, il guaritore più abile di Westeros, non avrebbe saputo fare.
« Non lo so. Non riesce a capirlo, quell’inutile falcone. So solo che deperisco ogni giorno di più e non voglio trascorrere i miei ultimi momenti in un talamo assistita da Sorelle del Silenzio. Intendo viverli con i miei figli e intendo vedervi felici,» aggiunse determinata e Tywin seppe che quel dialogo non era mai avvenuto. Era l’unico che avrebbe saputo di quella malattia. Non l’aveva riferito né a suo padre né ai suoi fratelli. Jeyne si stava affidando a lui e Tywin non l’avrebbe mai tradita.
Le baciò le mani per celare le lacrime che gli avevano offuscato gli occhi smeraldini.
Lacrime di rabbia per quel morbo che la stava logorando.
Lacrime di dolore per quella perdita che non avrebbe mai accettato di subire.
Lacrime che dovette negare a se stesso di versare.
Non avrebbero giovato a nessuno dei due e doveva rimanere forte per sua madre.
« Debbo averti sconvolto,» mormorò dolce carezzandogli i ricci dorati. Tywin sollevò lo sguardo smeraldino e l’abbracciò di impulso, non potendo impedire al suo corpo di scattare verso la donna che l’aveva messo al mondo e che era stata insieme guida e confidente, « Il mio Tywin,» sussurrò tra i suoi ricci ricambiando saldamente la presa.
Quando sciolsero all’unisono quel contatto Jeyne gli baciò entrambe le gote magre e lisce prima di issarsi in piedi e sorridergli con affetto.  
« Dove stai andando?»
« Eri chiaramente adirato quando sei entrato. Dimmi, è per qualche fanciulla?» domandò incuriosita giocando con il nastro del sacco, che doveva contenere le sue medicine, un sorriso di materno divertimento ad arricciarle le labbra carnose. 
« Come puoi domandarmi una tale sciocchezza in un’occasione simile?» ribatté irritato da quell’atteggiamento sin troppo sminuente. Sua madre doveva pensare a se stessa, non di certo alla fanciulla che gli aveva occupato la mente.
« La tua felicità mi è molto a cuore, figliolo. E chi meglio di una moglie potrà aiutarti a superare il lutto? Oh sì, è proprio ciò che farò. Ti troverò una buona sposa prima di incontrare lo Straniero,» esclamò briosa come se non avesse appena annunciato la sua morte bensì la più lieta delle condizioni prima di volgergli le spalle e chiudere la porta dietro di sé.
Il dolore era un perpetuo e mortifero climax all’altezza del petto, un morbo che si diffondeva in tutto il corpo. Si portò le mani al volto e si morse le labbra. Non era da lui essere debole, no, ma quella sera il leone pianse come un agnello.

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