Hypnotic

di Eleonoruccia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 0 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Non ho mai pensato a me stessa come una scrittrice, sebbene i libri abbiano sempre fatto parte di me.
Amo leggere, pagina dopo pagina divoro avidamente la storia dei protagonisiti dei miei romanzi preferiti, ed ogni volta scopro qualosa di più su di me. Questa è la mia prima storia, mi scuso se per alcuni di voi potrà sembrare noiosa, o banale, ma spero di poter suscitare in qualche lettore un briciolo di interesse e curiosità per poter andare avanti in questo percorso appena iniziato, per crescere insieme a questo racconto e, perchè no, insieme a voi.
Spero di leggere al più presto qualche opinione in merito, perché, si sa, il confronto è sempre un'opportunità di perfezionamento!



 


PROLOGO


 
Sei mesi fa, non avrei scommesso un centesimo di trovarmi qui, dove sono adesso.
Ora di punta. New York Times, il tacchettio di donne in carriera nelle loro Louboutin  risuona sul marmo della sede di uno dei più affermati quotidiani di Manhattan. Osservo il via vai di uomini d’affari con la ventiquattrore.
Sconosciuti nel posto giusto e al momento giusto, ognuno con un’idea precisa di dove andare.
Mi guardo in torno. Nessuno indossa un paio di converse, a parte me. Osservo i miei Levi’s consumati, il mio maglioncino color lavanda. Dio come mi sento inadeguata. Decido di non rimuginarci troppo su, del resto, ormai è tardi per i ripensamenti.
Sfilo dalla tracolla la mia barretta energetica, nel tragitto da Poughkeepsie a New York ero così agitata che ho dimenticato il lunch box a casa. Riesco quasi a sentire il tono di disapprovazione di mia madre: ‘oggigiorno è importante trovare il tempo per un buon piatto di spaghetti, in questo mondo dai ritmi frenetici’. Ma di tempo, stavolta, io non ne ho. Quindi dovrò accontentarmi della mia barretta da consumare in fretta, e correre verso gli ascensori.
Decimo. Nono. Ottavo. È incredibile come i secondi scorrano così lentamente quando sei in ritardo. Settimo. Sesto. Guardo gli altri ascensori, incerta su quale arriverà prima, poi mi concentro sul mio. Quinto. Quarto. Mi ritrovo a divagare sulla fugacità del tempo, quando le porte davanti a me si aprono, così metto da parte le mie fantasticherie sulla relatività e faccio un passo in avanti.
Qui dentro è talmente pieno di gente da rendere l’aria soffocante. Accanto a me c’è una signora sulla cinquantina, perfettamente  pettinata. Un uomo con dei folti baffi grigi e un completo gessato. Una signora anziana e un po’ tarchiata, sovrastata da una pila di pratiche da portare a chissà quale ufficio. Cerco di sbirciare la destinazione ma tutto ciò che riesco a leggere è ‘ente…’. C’è persino il fattorino di quel ristorante carinissimo che ho intravisto prima all’angolo della strada.
Man mano che saliamo, l’ambiente si svuota sempre più. Tiro un sospiro di sollievo. Non ho mai amato gli spazi angusti. Non che la redazione di una testata giornalistica così importante avesse degli ascensori angusti, intendiamoci, ma la gente a volte sa essere terribilmente ingombrante.
“Paris”.
“Prego?”. I miei pensieri erano appena stati interrotti da una voce maschile dietro di me.
“Mi stavo riferendo al profumo. Lei indossa YSL. Paris”.
Mi giro, visibilmente scocciata da quell’intrusione da parte di uno sconosciuto nell’ascensore del NY Times, a pochi minuti da un importante colloquio che, forse, avrebbe potuto cambiare la mia vita per sempre.
“Una nota molto delicata. Credo che il profumo di una donna dica tutto di lei. Il profumo è il fratello del respiro, per citare Yves Sain Laurent, appunto. Ma sa, l’ho osservata, non credo che le si addica più di tanto”.
“E’ il profumo di mia madre” ribatto semplicemente. Mi maledico per l’incapacità di articolare una risposta più pungente.
“La prossima volta spero di sentire il suo, allora”. L’uomo non tenta nemmeno di reprimere il sorrisetto sfacciato che affiora sulle sue labbra. Quanto è irritante.
Rimango lì, senza parole, mentre esce dall’ascensore con quell’aria arrogante, arrabbiata con me stessa per la modestia inopportuna del mio atteggiamento. Avrei dovuto replicare qualcosa di intelligente e altrettanto strafottente, ma si sa, ‘le parole giuste al momento giusto possono creare effetti importanti e positivi. Sfortunatamente, le parole possono anche confonderci e limitarci con la stessa facilità con cui possono renderci più capaci’. E’ accaduto tutto in pochi minuti, così stabilisco di non dar troppo peso all’accaduto e di concentrarmi piuttosto sul mio colloquio.
 
Entro in un anticamera dagli interni scuri, in cui spicca un divano di pelle bianca. Mi siedo, aspettando pazientemente che qualcuno mi dica cosa fare. Non sono molto pratica di incontri di lavoro, e la mia aria tesa è ben visibile. Cerco di rilassarmi, ma mi risulta quasi impossibile.
Dal fondo della sala, mi viene incontro una ragazza; dev’essere molto giovane ma, nonostante la sua età, dimostra una grande professionalità nel suo tailleur nero e nelle immancabili Loubuotin. Mi scruta. Ecco di nuovo quella sensazione di inadeguatezza che mi fa avvampare. Le gote dovevano essere di un rossore inopportuno. ‘Ci siamo’ mi ripeto facendomi forza.
“Miss Evans. Mrs Carter la sta aspettando”.
Mi dirigo verso la porta bianca dalla quale era comparsa poco prima l’assistente, e la oltrepasso,  in direzione quello che sarebbe stato, da quel momento, il mio futuro.

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Capitolo 2
*** Capitolo 0 ***


CAPITOLO 0
 
 
 
 
Dicembre. La neve mi ricorda il mio ottavo compleanno. Mio padre portò me e mio fratello ad Aspen per le vacanze di Natale. Fu il compleanno più bello che io ricordi.
 
Dicembre. Attorno a me visi tutti uguali camminano per le vie di Greenwich Village, stessi edifici, stesse facciate, stessi colori.  Sono estraneo tra gli estranei, e questo mi dà sollievo.
 Nascosta, una vecchia porta rossa attira la mia attenzione. È stupefacente il suo contrasto con il bianco della neve. Rimango lì, incerto se entrare in quella che sembra essere una vecchia libreria, o passare oltre.
L’atmosfera familiare che ispira quel posto è una calamita per un’anima tormentata come me.
Decido di entrare. Un forte odore di legno m’investe, riportandomi alla mente immagini felici, e la malinconia di un passato ormai lontano.
La solitudine di quel luogo ha un che di mistico ed io, viaggiatore platonico tra gli istinti più oscuri della psiche, ne sono irrimediabilmente affascinato.
Come l’Egìde Teseo alla ricerca del Minotauro, procedo nel labirinto di antichi scaffali polverosi. Ma non c’è il filo di Arianna ad indicarmi la retta via, e mi ritrovo solo a combattere i miei mostri, sperando di non raggiungere il punto di non ritorno.
 
 
***
 
 
“Ovviamente, miss Evans, si aspetti di cominciare dalle basi”.
Lo sguardo di Mrs Carter era tutt’altro che gentile. Doveva essere stata molto avvenente, e lo era tutt’ora nei panni di una donna cinquantenne in carriera.
I lineamenti duri tradiscono un’altrettanta ostinazione caratteriale, la sua bellezza, nordica, mi intimidisce un po’.
Scorre rapidamente il mio portfolio, ma sono sicura che abbia abbastanza esperienza perché le basti un’occhiata veloce alle mie foto per capire il potenziale che ho da offrire. O almeno, me lo auguro.
“Mi aspetto di trovarla puntuale a Central Park, per il servizio sulla mostra canina, domattina”.
La guardo smarrita, incerta su cosa ribattere, ma lei non me ne dà nemmeno il tempo.
“Edith, la mia assistente, le fornirà tutti i dettagli” conclude Mrs Carter, chiudendo distrattamente l’album che avevo con me. “E’ tutto. Per ora.” Aggiunge, ed io capisco che la discussione si è conclusa lì.
Quella che dev’essere Edith, l’assistente che mi aveva accompagnata prima da Mrs Carter, si materializza accanto a me, facendomi cenno di uscire, ed io, meccanicamente, seguo la direzione del suo sguardo, verso la porta.
Sono stanca, la pressione che Mrs Carter mi aveva messo addosso aveva fatto sì che mi sarei sentita meglio se avessi combattuto una guerra.
“Io… non sono sicura di aver capito bene… ha detto qualcosa a proposito di una mostra, qualcosa a proposito di.. cani..”. il mio sguardo supplicante incrocia quello di Edith, senza impietosirla minimamente.
“La politica dell’azienda impone ritmi di un certo livello” risponde Edith, “farai bene ad abituartene”.
Esco dal New York Times alle cinque del pomeriggio. Ormai sono sicura di aver perso l’ultimo treno per Poughkeepsie, quindi non mi rimane che cercare un bed&breakfast in zona e, magari, cominciare a valutare l’idea di affittare un monolocale in centro.
Dopo una giornata così estenuante, realizzo di essere molto affamata, quindi prendo un caffè e una ciambella allo Starbucks più vicino.
 Ok, magari la mostra canina non sarà l’occasione della mia vita, ma fare foto è da sempre la mia passione, e se questo è il modo migliore che ho per affermarmi nel mondo del photojournalism ben venga.
Mi congratulo con me stessa per il mio ottimismo.
Non so bene da dove cominciare. Cioè, a Poughkeepsie ho un bastardino ad aspettarmi, ma non sono mai stata ad una mostra canina. Il solo pensiero che il mio primo servizio sia un fiasco totale mi mette un’ansia tale che avrei preferito fotografare la nuova collezione di Victoria’s Secrets, sebbene in materia di moda sia piuttosto negata.
È ormai buio quando raggiungo il B&B all’angolo tra la Quinta e la Settantatreesima. Esausta, mi sdraio sul letto, e mi addormento. Sognando cani a tre teste e centinaia di Mrs Carter che mio osservano con disappunto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


 
CAPITOLO 1
 
 
 
 
 
“Un ultimo scatto. Così.” Alle tre del pomeriggio poso finalmente la mia Nikon nella custodia, per l’ultima volta quel giorno. Esausta. Non credevo che per un semplice trafiletto di cinque righe in fondo al quotidiano avrei faticato così tanto. Avevo immaginato un clima molto sobrio, e invece la mostra si era rivelata un evento di Haute Couture cinofila. E sì, ero riuscita a sentirmi inadeguata anche in quella situazione, in cui anche i cani sembravano snob.
Amo gli animali, molto più degli uomini ad essere onesta, ma quel Chihuahua ha quasi tentato di staccarmi un arto quando ho tentato di fargli un primo piano.
La padrona, una certa Mrs. Robins dai capelli cotonati color platino e una manicure rosa shocking che avrebbe fatto invidia a Barbie in persona, se fosse esistita, è inorridita quando ho tentato di rassicurare il cane con Pilù, il pupazzetto che avevo comprato per l’occasione dall’ambulante all’angolo di Wiker Park. Così ho abbandonato l’idea di fare l’animatrice per cani e mi sono limitata a fare ciò per cui sono stata assunta: Foto a quegli adorabili, piccoli, assassini isterici. ‘Non essere cattiva’.  Lily, la mia vocina buona, interviene a riportarmi sulla retta via.
 
Quando avevo otto anni, i miei compagni di scuola avevano incominciato a etichettarmi come Quella ragazzina strana. Questo perché avevo cominciato a parlare con Lily e Savannah, la voce della mia coscienza l’una, e quella della spietata schiettezza che a volte s’impossessava di me, l’altra. Nella mia fantasia, la prima era un angioletto biondo vestito di azzurro e con candide ali bianche, responsabile della mia affabilità e dell’immagine dolce che mi aveva sempre portata ad essere quella ragazzina amabile che tutti adoravano; Savannah invece era tutt’altro che celestiale. Una ragazzina indisponente dai capelli rosso fuoco e lo stile punk che inneggiava all’anticonformismo e al sarcasmo pungente e provocatorio che rendeva la mia lingua tanto tagliente quanto acuta, a dispetto di Lily.
Così, all’età di dodici anni, mi dissero che ero ormai troppo cresciuta per avere degli amici immaginari e, mio malgrado, tacqui l’esistenza di quelle due creaturine.
A distanza di anni, ancora oggi mi ritrovo a combattere con la vocina di quei due esserini, veterani della semplicità della mia primissima giovinezza. Segno della mia grande maturità, non c’è che dire.
 
E’ insolitamente caldo, per essere un pomeriggio di metà dicembre qui a New York City, e questo tepore mi offre un senso di calma e soddisfazione dopo la lunga ed estenuante mattinata di lavoro. E’ allora che lo vedo. Un raggio di sole illumina i suoi occhi cerulei, ed io mi perdo in quel mare azzurro. Dura solo una frazione di secondo, il tempo di realizzare che quell’adone biondo con indosso un paio di Jeckerson slavati e la t-shirt Tommy Hilfiger, che sta sorseggiando una Diet Coke seduto vicino al resto della mia attrezzatura è lo stesso individuo arrogante che ieri mi ha fatto fare la figura dell’imbranata nell’ascensore.
Seccatamente, mi dirigo verso il mio armamentario. Onestamente, avrei volentieri fatto a meno di questa vicinanza, ma, giacché costretta, mi armo della mia miglior faccia lavata e, sicura di me, comincio a smontare il cavalletto, pronta a rispondere a qualsiasi eventuale battutina.
Studio l’uomo con la coda dell’occhio. Più che un uomo, lo definirei un ragazzo. Dal suo aspetto, non gli darei più di trent’anni, anzi, sicuramente anche meno. Eppure ieri mi era parso così maturo. O forse ero io a sentirmi una ragazzina.
Lui intercetta il mio sguardo. Arrossisco, colpevole di essere stata scoperta a osservarlo. Sento il suo sguardo scrutarmi dentro, ma dev’essere stata solo un’impressione perché i suoi occhi immediatamente passano oltre, come se non mi avesse riconosciuto.
Un misto di risentimento e irritazione mi pervade. Non saprei neanche io il motivo; in fondo è stato un semplice scambio di battute, durato per altro pochi minuti, ma mi sento attratta da quello sconosciuto come una falena è attirata dalla luce. E la sua indifferenza solletica quella punta di orgoglio quanto basta per farmi sentire una completa idiota a causa della consapevolezza dell’importanza eccessiva che sto attribuendo a Mr. Presunzione.
In fretta raccolgo la mia roba, e mi avvio verso la fermata della metro, giusto in tempo per evitare un acquazzone. 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
 
 
 
 
“Un frappè al cioccolato”.
Il senso di euforia della mia prima settimana di lavoro mi ha ormai abbandonata e  mi ritrovo a bussare alla porta di Sarah, la mia migliore amica, esausta alle sette di sera di venerdì pomeriggio con un misero frappè in mano: la mia cena, quella cena che mia madre – tipica mamma di famiglia - avrebbe tanto disapprovato.
 
Io e Sarah siamo molto diverse, ma la nostra diversità non ha impedito che diventassimo amiche fin da subito. Lei una bionda esuberante dagli occhi verdi e una fisicità prorompente, richiama molto una bellezza californiana, la sua abbronzatura contrasta molto con la mia carnagione alabastrina.
Ci siamo conosciute il primo giorno di università, ed è stato amore a prima vista. Ovviamente, amore in senso lato. Tra noi è nata immediatamente una forte intesa, che con gli anni si è trasformata in profonda amicizia. Così, dopo l’università, abbiamo entrambe deciso di trasferirci a New York. Ho da poco trovato un piccolo appartamento a Greenwich Village, nulla a che vedere con l’attico di Sarah che affaccia su Central Park, ma ne sono molto orgogliosa.
 
Vengo immediatamente investita dalla vivacità della mia migliore amica.
Mi chiedo come faccia a essere così dinamica dopo una settimana di lavoro.
La osservo correre avanti e indietro per tutto l’appartamento, alla ricerca frenetica di qualcosa e la vedo, un paio di minuti dopo, riemergere dietro una pila di scatoloni con un paio di decolleté argentate fra le mani.
“Per la serata al Loft” è la sua risposta al mio sguardo interrogativo. “Dobbiamo festeggiare la nostra prima settimana a New York”.
Magari si sarebbe aspettata una reazione molto più entusiasta da parte mia, ma il fatto è che non sono una ragazza modaiola, e gli eventi mondani non mi esaltano tanto quanto eccitano Sarah.
“Oh, andiamo Lexie, lasciati andare per una volta! Siamo due ragazze poco più che ventenni, giovani e carine, e siamo qui, a NYC, insieme, con un nuovo lavoro, una nuova vita, e nuove avventure che aspettano solo noi. Non ti elettrizza l’idea?”.
Adoro l’entusiasmo che accende l’animo di Sarah in ogni occasione. Riesce ad infondermi la sicurezza che spesso mi manca ed a incoraggiare a nuove esperienze. E’ stimolante.
Non faccio in tempo a ribattere che vengo trascinata nella camera di Sarah. Il letto è invaso da una marea di vestiti.
“Sono indecisa su cosa mettere, come al solito un sacco di abiti e mai niente da indossare!”. Non riesco proprio a cogliere il punto di vista di Sarah, io li trovo tutti stupendi.
“Che ne pensi di questo?” dico, prendendo dalla pila un tubino blu con delle frange, che a mio avviso è molto glamour. La sua espressione scocciata dice tutto.
“L’ho messo l’altra sera al party a casa di Thomas”. Per Sarah è inconcepibile indossare più di una volta nella stessa stagione uno stesso indumento. Ma la sua attenzione si sposta a un tratto su di me.
“Tu non puoi venire al Loft vestita in questo modo!” sbotta in una manifestazione di orrore. Il suo disappunto mi infastidisce. Ok, so benissimo di non essere una Fashion Victim, ma il mio look non mi sembra poi così disastroso. Ma Sarah è la mia migliore amica, perciò metto da parte l’infelice battutina che mi era stata sagacemente suggerita da Savannah e decido di fare buon viso a cattivo gioco, tacendo.
“So esattamente cosa ci vuole per te”. Il tono con cui scandisce la parola ‘esattamente’ mi preoccupa un po’ ma so che quando si mette in testa qualcosa, è praticamente impossibile farla desistere. Poco dopo mi ritrovo sommersa di capi firmati, e la straziante consapevolezza che non sarei uscita da quella stanza senza aver abbandonato i miei comodi jeans.
 
“Oh-mio-Dio”. Sarah è entusiasta come un bimbo in un negozio di caramelle. La ragazza di fronte allo specchio mi fissa con i suoi occhi blu intensi, leggermente truccati. Non mi somiglia per niente, eppure sono io.  I capelli castani raccolti in una coda alta, un accenno di fard sulle mie gote già rosee, del gloss sulle labbra. Faccio un giro su me stessa. Devo ammetterlo, Sarah ha gusti impeccabili in fatto di moda, ma del resto questa è stata sempre la sua grande passione. Indosso un abito rosso cremisi, che cade morbido fin quasi alle ginocchia, appena ripreso da una cintura dorata sui fianchi, che riprende l’oro dei laccetti che si stringono al collo lungo e lasciano scoperte le mie esili spalle. Infilo un paio di decolleté nere e spruzzo due gocce di profumo. Dior. Il mio profumo. L’unica mia personalissima nota glam. Sono pronta.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3




Ipnotico. Ipnotico è l’odore delle foglie bagnate di rugiada. Ipnotico è il silenzio che segue un temporale. Ipnotico è l’accenno di due respiri che si sfiorano dopo essersi a lungo cercati, scontratisi per poi perdersi di nuovo. 

Ipnotico. Non c’è forma che possa descrivere meglio ciò che disperatamente inseguo. Ostinato tormento dell’anima mia, persa nel mare nero delle mie più torbide sfumature.

Decido di non pensarci. Spirito illuso e disilluso nel giro di pochi effimeri istanti che sembrano eterni.
Infilo la giacca di pelle, incurante, incrocio il mio sguardo allo specchio; due occhi azzurri scrutano la mia immagine estranea. ‘Estranea’. Sembra ridicolo pensare al mio riflesso come qualcosa che non mi appartenga, eppure la mia immagine serafica non rivela i miei demoni interiori. Mi concedo solo quest’attimo di riflessione, infilo la mano nella tasca in cui il mio cellulare vibra insistentemente. Sullo schermo lampeggia il nome di Chase. Chase Fitzroy Carter. Il mio gemello. Il mio migliore amico. La quintessenza della mia anima, che piuttosto che palesarsi, si nasconde dietro una facciata di strafottente freddezza. 
Ecco, Chase è esattamente l’opposto. Solare e egocentrico, abile con le parole quasi quanto me, ma non esita a mostrare il suo lato solare che lo rende amabile in qualsiasi contesto. Persino da mia madre: Mrs. Carter.
 
***



E’ una notte insolitamente calda per essere dicembre, quando Lexie Evans e Sarah Clarks escono dal taxi che le ha condotte al Loft, sulla 5th Avenue, uno dei locali più In della città. 
Il clima mite ricorda a Lexie il primo giorno di lavoro, quando in un pomeriggio di dicembre i suoi occhi hanno incontrato di nuovo lo sguardo di quell’angelo biondo che, forse, avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
 
***



Non posso fare a meno di sentirmi in imbarazzo quando, scendendo dallo ‘Yellow Cab’, lo sguardo di molti giovani newyorkesi si posa sulle gambe affusolate che fanno capolino dall’abito rosso cremisi che Sarah mi ha prestato per l’occasione. Lei del resto, non sembra per niente turbata dalle attenzioni che le sono rivolte; è abituata alla reazione degli uomini alla sua sensualità, anzi, al contrario di me, le occhiate di apprezzamento non fanno altro che rafforzare la sua sicurezza. Ed è dietro il suo incedere così sicuro che, piccola nel mio abito da 700 dollari, seguo la mia migliore amica all’interno del locale al momento più glamour di New York.
Se fino a pochi secondi fa mi sentivo impacciata e fuori luogo, adesso non posso che essere grata all’esuberanza di Sarah per aver insistito tanto affinché non indossassi i miei insulsi abiti. Non sarebbero stati adatti a un ambiente come questo.
Luci di tutti i colori illuminano a intermittenza un ampio salone bianco circondato da vetrate che, estendendosi fino al soffitto, mostrano New York illuminata in tutto il suo spettacolo.
Al centro un’enorme pista da ballo, con tutt’attorno divanetti bianchi che ben contrastano con il nero del pavimento e dell’angolo bar.
La musica, troppo alta, mi impedisce di sentire le parole di Sarah mentre, tenendomi per mano, mi guida tra la folla, ad una scala a chiocciola che conduce ad un soppalco.
Lassù, l’ambiente è, se possibile, ancora più bello, con tavolini in cristallo sparsi qua e là e, in fondo, un piccolo cordoncino rosso che separa la sala principale dal privé. 
Da aspirante photojournalist quale sono, la curiosità ha la meglio e non posso fare a meno di sbirciare quali Very Important People vi siano all’interno. 
Per un attimo, il mio cuore manca un colpo. Lui è lì, con una maglia nera e jeans attillati, sembra divertirsi molto in compagnia del suo vasto gruppo di amici. È lo stesso tizio che ho visto quel pomeriggio al parco durante il servizio fotografico, quello che non sembrava riconoscermi, eppure ho la strana sensazione che non sia il ragazzo strafottente e sicuro di sé  che ho incontrato in ascensore. Piantala, Lexie. Ti stai facendo troppe paranoie. La mia dolce Lily mi intima di lasciar perdere  tutte queste fissazioni, ma Savannah, il diavoletto che mi porto dietro da anni, mi suggerisce di approfondire i miei sospetti. Per una volta decido di ignorarla e mi dirigo al tavolo su cui c’è scritto ‘riservato’, dove Sarah agita le braccia per richiamare la mia attenzione. Dopotutto, potrebbe rivelarsi una serata interessante mi dico, e gioisco dentro per questa casuale coincidenza d’incontri.

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Capitolo 6
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
 
 
La settimana a lavoro è stata pesante, anzi, a dirla tutta, la prima esperienza lavorativa si è rivelata completamente diversa da come me la sarei aspettata, e sicuramente meno entusiasmante. I giorni si susseguono in un andirivieni di giri in metro per assolvere le deleghe di Edith, che per lo più consistono nel ritirare il pranzo di Mrs Carter al Sushi all’angolo di Medison Square Park, tra la Quinta e la Ventisettesima, oppure nel passare a fine giornata dall’edicolante per verificare quante copie del Times siano state vendute.
D’accordo, ad essere onesti, ho anche avuto modo di conoscere Brian, un simpatico afroamericano dall’accento meridionale, con il quale intrattenere piacevoli conversazioni sulla politica socioeconomica del Paese mentre ci dirigiamo da Starbucks per i nostri dieci minuti di quella che possiamo definire la nostra pausa pranzo, il ché rende le dieci ore di lavoro molto meno noiose del previsto.
 
Per questo motivo, quella di trascorrere una serata con Sarah mi era sembrata una buona idea quando, proprio nel bel mezzo di una riunione ai piani alti del Times a cui Edith mi aveva concesso di assistere a patto della mia più assoluta invisibilità, il suono del suo sms risuona durante il discorso di Mrs. Carter, invitandomi a casa sua per quella sera. Inutile sottolineare le occhiatacce di tutti i presenti nello studio, e la gomitata di Edith non appena nessuno ci presta più attenzione.
 
Al quarto Long Highland mi sento notevolmente più disinvolta. Provenendo da una piccola cittadina in cui il più grande divertimento consiste nell’intrufolarsi a notte fonda nell’unico pub della zona per scroccare qualche birra al barman ubriaco, una serata in discoteca è quanto di più trasgressivo io abbia fatto finora, figuriamoci poi se la discoteca in questione è un locale alla moda nel centro della movida newyorkese. Insomma, il Top dell’esperienza mondana nella mia breve maturità da poco più che ventenne.
Come se non bastasse, a dieci metri da me, c’è un ragazzo fantastico dagli occhi azzurri che non ha mancato di farmi provare il ‘brivido’ di essere ancora più piccola e provinciale di quanto io già non mi senta in questa grande e alla moda metropoli. Ma l’alcol si sa, fa apparire gli altri più interessanti, quindi mi è facile dimenticare il risentimento più o meno giustificato nei confronti di quell’insolente per focalizzarmi sulla sua mano che proprio in quel momento sta passando con nonchalance tra i capelli.
 
Il liquore contenuto nel long drink mi rende decisamente più audace di quanto io sia in realtà e, spinta dal coraggio liquido, pochi minuti dopo mi ritrovo, non so come, ad ondeggiare leggermente a ritmo di musica vicino al privé; gli occhi socchiusi e le labbra ammiccanti, animata da una sensualità che io stessa non sapevo assolutamente di possedere.
È allora che intuisco il suo sguardo addosso. Schiudo leggermente gli occhi e incontro i suoi, azzurri e bellissimi come li ricordavo, ma non più freddi e distratti come quella volta al parco. Caspita quanto è figo. Rimprovero Savannah per questa sua riflessione impertinente, ma senza troppa convinzione; in fin dei conti, la sua opinione coincide esattamente con la mia.
Mi propongo mentalmente di non bere più così tanto, non sono abituata a essere dominata dagli ormoni, e devo fare appello a quel che rimane della mia lucidità per mantenere un atteggiamento dignitoso.
Oddio. Eccolo, lo vedo. Viene proprio nella mia direzione. Eccola lì, la buona Lily che immancabilmente mostra il suo lato puro ed emotivo.
Non ti fermare Lexie, il piano funziona, si sta avvicinando. Savannah è molto più schietta e  per nulla ingenua.
Non posso fare  a meno, in mezzo alla dicotomia tra sentimento e ragione, di chiedermi se effettivamente avessi mai pensato a un piano.
Che domanda stupida, Lexie. No. Certo che no. Questa è forse una delle poche cose, se non l’unica, sulla quale Lily e Savannah concordano. Bene, sono spacciata.
Ormai non posso più tornare indietro senza fare la figura dell’insulsa e noiosa fotografa di cani impacciata. Armata della mia alcolica fermezza, accetto l’invito a seguire  la mia ‘preda’ al tavolo degli Snob, come li definisco io.
Inaspettatamente, non mi sento per nulla a disagio come mi è accaduto in ascensore, ma attribuisco questa sicurezza al Long Highland. Scopro così che lo sconosciuto dagli occhi azzurri è brillante e divertente, a volte irriverente, lo ammetto, ma la cosa non mi dispiace. Anzi, mi sento stranamente rilassata al suo fianco, e mi stupisco di quanto sia stata stupida ad agitarmi così tanto per quest’incontro.
 
Complice il rum - o forse il gin, chissà -  trovo i loro discorsi sul primato del Fay sul Woolrich persino divertente, e addirittura azzardo con convinzione un intervento in difesa delle pellicce, facendo sfoggio di tutta la vena animalistica, eredità di mamma Evans. 
Il mio sguardo, è ipnotizzato da quello dello sconosciuto-non-più-sconosciuto dell’ascensore, che si sposta da me a qualcosa alle mie spalle, accendendosi di luce nuova.
Istintivamente mi volto incuriosita e, nell’attimo in cui focalizzo ciò che ho davanti resto pietrificata.
I miei occhi fissano quelli freddi e cerulei di un ragazzo in tutto e per tutto identico allo sconosciuto dell’ascensore che è seduto di fronte a me, ad eccezione dell’espressione impertinente e arrogante. Avverto un brivido di elettricità percorrermi da capo a piedi.
In un istante riacquisto tutta la lucidità che mi sembrava di aver perso fino a pochi secondi prima e, al contempo, esaurisco l’audacia che mi sembrava di aver acquisito. 

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