Una vita da sconosciuta di se stessa

di LizzieGold
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


                                                                                  1.

Alzo lo sguardo verso la finestra, distogliendolo rapidamente dal cuscino che stavo fissando senza un motivo valido. I raggi del sole entrano timidi dalla serranda semi abbassata e accarezzano la mia piccola scrivania di legno scuro.

Il sole delle tre di pomeriggio mi infonde sempre serenità, sicurezza, mi avvolge nel suo caldo abbraccio come mamma lupa con i suoi cuccioli.

Sartre diceva nella sua Nausée che alle tre è sempre troppo tardi o troppo presto per far qualcosa, io gli rispondo che in realtà qualcosa si può fare: restare rannicchiati per immergersi nella pioggia dorata del sole pomeridiano, fare una passeggiata inseguendo la tranquillità che riempie ogni angolo della cittadina in cui vivi, vagare per il parco sotto casa tua riscaldata da questa luce abbagliante e confortante allo stesso tempo. Tutto questo rigorosamente in solitudine e con le cuffie nelle orecchie, accompagnati da una musica da voi ritenuta rilassante, o semplicemente dai vostri brani preferiti.

Stando a queste mie teorie degne di un fattone, mi alzo dal letto, barcollo un po’ a causa delle gambe ancora indolenzite, afferro le cuffiette, le inserisco nell’ iPod nano grigio e avvio la mia playlist. Mi dirigo verso la cucina e trovo mia madre che sta inserendo i piatti sporchi nella lavastoviglie.
-Io esco, ci vediamo più tardi.
-Dove vai a quest’ora? Non hai da studiare? A che ora torni?
Ecco, ci risiamo con l’interrogatorio.
-Ho bisogno di stare un po’ da sola con me stessa, ho bisogno di riflettere e quindi voglio farmi una passeggiata. Non so a che ora torno.
-Va bene, Leopardi. Ricordati però che tua sorella vuole che l’aiuti a rimettere in ordine la sua libreria. Insomma, cerca di non fare molto tardi. Diglielo al tuo cervello.
-Ma è lui che decide di darmi o meno le risposte giuste, mica io.

Le faccio l’occhiolino, le do un bacio sulla guancia e scompaio dietro la porta d’ingresso.

La strada è sgombra come sospettavo, ogni tanto passa una macchina che mi distoglie dai pensieri ma il sole mi riporta alla “realtà”, la mia realtà. Comincio a vagare con la mente mentre No Quarter dei Led Zeppelin mi ronza nelle orecchie.

La mia realtà è fatta principalmente di fantasia. Non è necessariamente la fantasia vissuta da draghi, elfi, folletti, incantesimi, maghi, streghe, oggetti volanti, finestre su altri mondi. No, è fatta di quotidianità.
“Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” diceva il buon caro Shakespeare in A Midsummer Night’s Dream, e io gli rispondo che se fosse davvero così adesso la mia vita sarebbe perfetta.

Da quando mamma e papà si sono separati, il mio diritto a sognare mi è stato strappato senza pietà dalla sopravvivenza, dal prendere decisioni affrettate, dall’agire nell’immediato non solo per me stessa ma anche per mia madre e per mia sorella. Adesso ho ricominciato a prendere un po’ di fiato. Ci siamo rifatte una vita, mamma ha il suo nuovo compagno, mia sorella è all’ultimo anno di liceo e io vado all’università. Vado, si fa per dire. Sono solo iscritta e non frequento, non do esami, non studio. Sono perennemente bloccata in uno stato di incertezza. Voglio tornare indietro, agli anni della mia adolescenza, ma voglio anche realizzare i miei sogni, raggiungere i miei obiettivi.
Come biasimarmi, sono dovuta crescere troppo in fretta. Ho vissuto tutta la mia adolescenza in un limbo, molto spesso sacrificando la spensieratezza per dare più importanza a quello che succedeva dietro il sipario. Ho dovuto affrontare problemi più grandi di me stessa, soprattutto ho dovuto affrontare persone più grandi di me.

E quindi… Torniamo al mio “Sola e pensosa i più deserti campi”. Ah, Petrarca…
Vi chiederete: ma quali sono i suoi sogni?
I miei sogni sono fatti di quotidianità, dicevo. Ebbene, nei miei sogni trovate soprattutto amore. No, non l’amore passionale, né quello sdolcinato, né quello materno. Ma quello che molti chiamano affetto. L’affetto, per me, è una forma d’amore che va oltre tutte le altre. I greci lo chiamavano Agape.
Agape. Una carezza, una gentilezza, un bacio sulla guancia, un abbraccio.
Quante volte sono stata abbracciata ma non ho mai sentito il calore dell’affetto.

Mio padre mi abbracciava spesso, ma non mi ha mai dimostrato affetto. Dice che ama le sue figlie, ma come può amarci se non ha mai amato la mamma? Si dice che i figli siano il frutto dell’amore dei genitori, ma come possiamo esserlo se i nostri genitori non si sono mai amati?
Sono una mela marcia caduta da un albero senza linfa.

Mi squilla il cellulare. Mi arrabbio perché ha disturbato il mio momento d’intimità con me stessa. E’ mia sorella. Sicuramente vorrà che torni a casa per “aiutarla” a riordinare i suoi libri. Lascio squillare e torno al mio castello mentale.
Altre quattro chiamate e io mi ritrovo stesa su una panchina di marmo nel bel mezzo del parco del quartiere, con i raggi del sole che mi coprono tutto il corpo e lasciano all’ombra dei pini la testa.
Mamma non deve averle detto che sono uscita,  deve essersene dimenticata.
La richiamo. Risponde.
-Dove cazzo tenevi il cellulare?
Strilla. La voce spezzata dai singhiozzi. Quasi riesco a percepire le lacrime che le scendono lungo le guance.
-Se mi stai facendo uno scherzo di cattivo gusto è meglio se la smetti, capito?
Le urlo forte perché mi fa preoccupare, e non sarebbe la prima volta che me lo fa.
Non risponde. Impallidisco e sento che il sangue non circola più nelle mie vene. Ho perfino un senso di nausea.
-Cos’è successo? Ti prego, rispondimi!
Ma lei continua a singhiozzare. Non sapendo come calmarla, le dico:
-Se sei a casa aspettami là. Arrivo immediatamente.

Riattacco senza ascoltare la sua risposta che probabilmente non sarebbe comunque arrivata e sfreccio verso casa senza badare a “How to save a life” in sottofondo nella mia cuffietta destra.
Attraverso la strada senza accertarmi che passi una macchina e mi stiri e arrivo a destinazione.

Rimango a bocca asciutta. Davanti al portone c’è un’ambulanza e una volante della polizia. E tre poliziotti che tengono fermo un uomo con le manette.

Mio padre.

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
Cosa diamine ci fa qui?
Mamma.
E’ il primo pensiero che mi viene in mente. Ecco uno dei motivi per cui sono dovuta crescere in fretta. Lui, il mio papà, che con noi metteva una maschera e con la mamma un’altra. Dottor Jekyll e Mister Hyde. Per lui la mamma non era una donna, ma una proprietà, un oggetto, una schiavetta. Doveva vestirsi in un certo modo, doveva avere i capelli in ordine e di un colore rassicurante, doveva star buona a casa a fargli da cameriera. Peccato che mamma non ha mai voluto essere tutto ciò. Così è diventata una puttana. Vestita con abitini e gonne sul ginocchio, i capelli ribelli e tinti di rosso, dipendente di un’azienda importante del paese in cui vivevamo.
La mia mamma.
Mi avvicino alla volante e incrocio lo sguardo di mio padre. Rinsavisce appena mi vede arrivare.
-Tesoro, io… Sai com’è… LEI… Quella puttana di tua madre… Io vi adoro, bambina mia, adoro te e tua sorella… Lo sai… Lo giuro!
Senza pensarci gli vado incontro, e annebbiata dalla collera, gli sferro un calco fortissimo nei testicoli e comincio a picchiarlo violentemente. Ringrazio il cielo che è legato con le manette. Mi fanno male le nocche per quanto sono profondi i pugni sul suo petto, e poi, diciamocelo, sono fragile.
Lui piagnucola.
-Che cazzo le hai fatto?? Se l’hai ammazzata giuro che ti faccio fuori con queste mani, bastardo maschilista di merda!
E avrei potuto mettere in atto il patricidio se solo un poliziotto non mi avesse preso i polsi e mi avesse allontanato con uno strattone.
-Signorina, dobbiamo portare via suo padre…
-Fate in modo che non mi sia data alcuna possibilità per farlo fuori, per l’amor di Dio!
-Tesoro…
-Sparisci dalla mia vita, merda!
E corro angosciata verso la porta di casa, aperta, senza guardare mio padre supplicante che scompare nell’auto, scortato da un paio di agenti.
-Mamma!
-Siamo qui!
La voce triste di mia sorella. Mamma è sdraiata sul divano, esanime, e mia sorella sta parlando con un infermiere che tiene in mano un defibrillatore e conta, aiutato da un collega.
Diamine, la stanno rianimando! Noto il viso di mia madre. E’ pieno di sangue, e riesco ad intravedere due profondi tagli sulla guancia sinistra. Poi un importante ematoma sulla fronte. Il braccio destro penzoloni, sembra spezzato. E per terra una spranga di ferro, con alcuni chiodi che sporgono.
Dio, quanto vorrei quel pezzo di merda sotto le mie mani in questo stesso istante!
Mi avvicino sgomenta a mia sorella, il viso bagnato, che continua a singhiozzare. Sta aspettando che l’abbracci. E così faccio. La stringo forte a me nonostante lei sia più alta di me.
-Dovevamo denunciarlo prima che succedesse… Perché non l’abbiamo fatto prima?
Non so cosa risponderle, perché ha ragione. A denti stretti sussurro:
-E’ uno stalker di merda. Un assassino di merda. Deve crepare di stenti in una cella d’isolamento!
Mi sciolgo anch’io nonostante cerchi di evitare che mi scendano le lacrime. Quando sto male non riesco a fare a meno di piangere. Non piango mai per capriccio, io, ma per rabbia. Odio piangere, perché mi fa sembrare e sentire vulnerabile.
-Siamo riusciti a rianimarla, ma dobbiamo portarla in ospedale, dato che potrebbe aver subito lesioni interne. Se potete darci un recapito telefonico?
Guardo l’infermiere incerta. Gli do il mio numero di cellulare, e poi, pensandoci meglio, quello del compagno di mia madre.
-Il compagno di mia madre è stato avvisato?
-No, signorina, ma se vuole possiamo farlo subito noi.
Guardo mia sorella, che annuisce. Noi non riusciremmo a spiccicare una parola, siamo troppo scosse.
L’infermiere digita il numero e appena gli rispondono comincia a spiegare la situazione con un’apparente freddezza. Conclusa la chiamata, si rivolge verso di noi e ci dice:
-Ha detto che voi due dovete rimanere qui finché non farà ritorno a casa.
Annuiamo, anche se vorremmo essere con la mamma. Ci spiega che sarà trasportata in terapia intensiva e se abbiamo bisogno di qualcosa ci penserà il nostro patrigno.
Portano una barella e ci adagiano sopra la nostra mamma. Facciamo in tempo solo a darle un bacio su ciascuna mano, piangendo. Poi vediamo la barella scomparire dietro la porta di casa e l’ambulanza che parte. Ci fermiamo entrambe abbracciate sulla soglia a guardare allontanarsi l’ambulanza che trasporta la nostra cara mamma, mezza morta.
-Adesso ti siedi e mi racconti tutto per filo e per segno.

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.
 
-E’ stato come rivivere un incubo.
Mia sorella è seduta sul divano, nel punto esatto in cui un attimo prima era stesa nostra madre. Continua a singhiozzare senza sosta. Dev’essere stato davvero tremendo assistere a quello che è successo.
-Ero in camera, mi stavo riposando e ad un certo punto ho sentito bussare alla porta. Il portone del palazzo è rotto, quindi è riuscito ad entrare con facilità.
Se ci penso, qualche minuto prima ero uscita proprio da lì e l’avevo spalancato. Mi vengono i brividi.
 -La stava quasi per buttare giù. E credo che l’avrebbe fatto davvero se non avessi aperto io. Mamma era in bagno perché ho sentito lo scarico del water. Papà era arrabbiatissimo alla porta. Io non volevo aprire perché avevo paura che mi avrebbe picchiato. Mi ha urlato “Tesoro, non ho intenzione di farti del male”. E per un momento ho pensato che fosse venuto davvero con questa intenzione; mi sono fidata e una volta aperto si è fiondato dentro l’appartamento alla ricerca di mamma.
Si blocca, la voce rotta da un singhiozzo inarrestabile e rumoroso. La stringo forte a me, senza proferire parola. Riprende con la voce strozzata dal pianto.
-Era veramente una furia. Ha scaraventato la mamma nella vasca da bagno, poi ha preso la sbarra della tendina e ha cominciato a colpirla.
Sbarro di colpo gli occhi. Quel viscido bastardo! Come ha potuto fare una cosa del genere?! E’ completamente impazzito.
-Ero bloccata dal terrore. Mamma urlava a squarciagola di fermarsi, ma più urlava più lui la colpiva più forte.
-Come hanno fatto ad arrivare qui la polizia e l’ambulanza?- le chiedo.
-I vicini hanno sentito le urla. L’ambulanza l’hanno chiamata gli agenti.
Non sapevo cosa fare. Non avevo il coraggio di entrare in bagno. Anzi, non avevo intenzione di staccarmi dal divano.
-…L’ha trascinata fino in cucina tirandola per i capelli… Dove mi trovavo io… E colpiva, colpiva… Oh, è stato… E’ stato orribile…
Affonda la testa tra le mani e riprende a singhiozzare ancora più vigorosamente di prima.
Avevo assistito personalmente a scene di violenza da parte di mio padre nei confronti di mia madre, ma non così raccapriccianti. Cavoli, ha preso la sbarra della doccia! Ancora non ci posso credere. Mia sorella non si era mai trovata ad affrontare una cosa del genere, perché era troppo piccola per potersene ricordare e si è sempre trovata fuori dalla portata. Ma questo è stato troppo per me, figuriamoci per lei. Ha superato gli standard.
-Perché ce l’ha ancora con lei?- mi chiede tutto ad un tratto.
Faccio spallucce. E chi lo sa?
Intanto sentiamo che la chiave nella toppa gira e fa scattare la serratura. Dev’essere tornato Luca. Ed eccolo che entra sconvolto. Gli andiamo incontro, scioccate e singhiozzanti. Lui ci abbraccia entrambe in una stretta affettuosa.
-Doriana, piccolina, sei stata molto coraggiosa. Hai mantenuto il sangue freddo nonostante tutto. Tua madre sarà fiera di te.
-L’ho imparato da Valeria.
Mia sorella mi accusa sempre di essere insensibile. Sentirle dire che ha imparato da me ed essere tenace mi fa sorridere e mi rende orgogliosa.
-Come sta?- chiedo per riportare tutto alla dura realtà.
Intanto ci sediamo sul divano.
-In coma farmacologico. Ha un braccio, un’anca e qualche costola fratturati. Ha sbattuto forte la testa ma i medici hanno assicurato che non c’è niente di grave. Si riprenderà presto, vedrete.
Tiriamo un sospiro di sollievo. Abbraccio Dori e le accarezzo la testolina. Luca non vuole parlare dell’accaduto, sembra vada di fretta. Dev’essere molto sconcertato anche lui.
-Comunque sono venuto per prendere un po’ di roba per Claudia e credo che dormirò in ospedale a farle compagnia. Ce la fate a dormire da sole?
Non è la prima volta che lo facciamo. Lo rassicuriamo. Mi guarda diffidente.
-Luca, non ti preoccupare: so badare a me stessa.
-Chiuderemo col chiavistello.- Dori incalza. -Stai sereno, io e Vale cercheremo di blindarci il più possibile!
Sorride, ma è seriamente preoccupato.
-Volete che chiami Annalisa? Potrei far venire qui Federica per farvi compagnia.- Annalisa e Federica sono rispettivamente la sorella e la nipote di Luca. Siamo molto affezionate a loro, o almeno lo eravamo prima che le cose precipitassero. Ma questa è un’altra storia.
-Davvero, staremo bene. Buona serata e manda un bacio da parte nostra alla mamma.
-Va bene. Buona serata anche a voi, piccole.
Luca si alza dal divano, ci dà un bacio sulla guancia e ci stringe forte, come per infonderci sicurezza. Poi va verso la porta e scompare dalla nostra vista.
Siamo sole al mondo.
 
-Vale?
Dori mi chiama dalla camera di mamma e Luca. Ho già capito cosa mi vuole chiedere: di dormire con lei nel lettone. A dirla tutta, anch’io preferirei così, ma non vorrei spaventare la mia sorellina a causa dei miei problemi che so che ricompariranno.
-No, Dori, non se ne parla. Se proprio vuoi stare tranquilla, dormi con la lucina accesa.  Sai che ho paura di farti del male.
Entro nella camera e lei si è già infilata le lenzuola fin sopra i capelli.
-Io non ho paura di te. Dove sono le pillole che ti ha dato il medico? Continui a prenderle, vero?
-Sì, ma ha diminuito la dose, e ho paura che ritornino più di prima dopo quello che è successo oggi.
E’ tutto il giorno che mi gira forte la testa e sento suoni metallici nei timpani. Di solito comincia tutto così. Ho paura di perdere il controllo di fronte a mia sorella. E per oggi credo che basti, ha già dovuto sopportare troppo.
-Dai, non ti succederà niente. Non puoi rinchiuderti come Frankenstein nella tua stanza, a chiave! Devi affrontare il mondo.
-Sì, ma non sono nelle giuste condizioni per tornare a vivere.
-Tu hai vissuto troppo e sei invecchiata troppo presto. È questo il tuo problema. Adesso vieni a letto, così dormi e non ci pensi.
Ah, per lei è sempre stato tutto facile. Perché a lei ho sempre dovuto pensarci io. È venuta su spensierata e positiva, beata lei. Ma poi penso che è pur sempre mia sorella e ha dovuto soffrire anche lei per tutti i cambiamenti nella nostra vita.
-Ho bisogno di qualcuno, altrimenti impazzisco. Potrei essere stata colpita anch’io, chi lo sa…
E prima che possa riprendere a piangere, mi stendo al suo fianco e l’abbraccio, mentre Morfeo ci trascina tra le sue braccia.
 
Mi sveglio di soprassalto. Vedo davanti a me una figura scura, che trascina una donna che urla ai suoi piedi e la implora di metterla giù. Mio padre.
-Strega! Ti sei scopata mezzo paese, perfino il tuo capo, per arrivare a lavorare in quella merda di palazzo! Non ti bastavano i soldi che ti davo io per comprarti i tuoi sporchi vestiti da troia? L’avevo detto che dovevo rasarti quei capelli da mignotta! Cos’ altro vuoi fare, oltre ad avermi negato la mia virilità? Ma non scapperai facilmente. Sei una mia proprietà. Tu resti qui!
-Marcello, ti prego… Le bambine… Oddio, Valeria…
Comincio ad urlare forte contro mio padre di lasciarla andare. Ma lui non mi ascolta. Fa finta che io non esista. Mi guardo intorno e non vedo Doriana. Almeno lei non vede quello che sta succedendo.
Inizia a picchiarla forte, le dà calci sull’addome, ceffoni pesanti, pugni sulla schiena, e mia madre tenta di proteggersi a malapena con le sue braccia, si mette le mani sulla testa si rannicchia sul pavimento per ripararsi dai colpi, strilla e piange.
Urlo ancora più forte. Non mi sentono. Perché non mi sentono?
Mi gira tanto la testa. Tante martellate nel cervello. Mi viene quasi da vomitare. Non posso intervenire, e lui intanto sta picchiando la mamma.
-Vale!- sento in lontananza la voce di Doriana. Forse ascolteranno lei che ha la voce più squillante della mia.
-Dori, guarda cosa le sta facendo, guarda! Chiama qualcuno! Guarda cosa le fa!
-Vale, smettila! Basta!- la voce si fa più vicina. Ma la mia testa rimbomba. Ho la vista appannata…
Mi sento il viso bagnato e la gola che mi brucia. Sto perfino sudando freddo.
-Basta, calmati!
Mi sento afferrare le braccia e stritolare il corpo. Ho dolore dappertutto. Guardo verso i miei genitori, ma sono scomparsi. Davanti a me la vista si annebbia e min sento svenire. Ho il fiato corto e mi sento soffocare.
-Tranquilla, sta’ tranquilla. Rasserenati. Va tutto bene, è tutto passato.
Dori mi sta cullando tra le sue braccia. Siamo in camera di mamma e Luca. Pensavo fossimo nel corridoio della nostra vecchia casa, la prima, quella della mia infanzia.
-Non li hai visti anche tu? Hai visto cosa stava facendo alla mamma?
-Vale, no. Era un’allucinazione, soltanto una delle tue brutte allucinazioni.
-Non è vero, li ho visti! E tu pure!
-No, no. Rilassati, è il tuo passato che ogni tanto ritorna a farti visita. Adesso sei qui, nel presente. Ed è tutto passato. Adesso riprendi fiato e torna a dormire, ok?
Un paio di minuti e torno del tutto alla realtà. Dannazione, sono tornate! Come sospettavo. Rido.
Dori s’incazza:
-Cosa cazzo ti ridi?! Mi hai fatto prendere un colpo!
E’ seria. Beh, io l’avevo avvertita. Di colpo mi intristisco.
Perché devo far vivere le brutture della mia vita piena di ombre a mia sorella che ha avuto una vita ricca di luce? Non è giusto nei suoi confronti.
-Non piangere di nuovo. Su, è stata una giornata dura per tutti.
Sono così ingiusta. In fondo è lei che ha rischiato grosso oggi pomeriggio. Annuisco e mi calmo. Faccio un respiro profondo e mi stendo, chiudendo gli occhi.
-Adesso addormentati, miss Lunatica.

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Capitolo 4
*** 4. ***


4. Io non ho mai chiesto niente a nessuno. Ho sempre voluto fare quello che mi diceva il cuore. Ma non potevo dire di no alla giustizia. Mi trovo nello sgabuzzino di casa mia, circondata da spazzatura ferma lì da settimane. Carta di giornale appallottolata e stropicciata, cartoni bucati e sporchi della vernice con cui abbiamo ristrutturato l'appartamento, libri di scuola impolverati, vecchie cornici inutilizzate e spaccate... Ed eccolo lì, il ferro da stiro. Penso che il vecchio metodo potrebbe andare bene anche stavolta, e stavolta non c'è nessuno qui a fermarmi... Nessuno. Non c'è mai stato nessuno che mi ha seguito nelle mie scelte, nelle mie partenze o nelle mie cadute, nessuno che mi abbia mai detto cosa era giusto o sbagliato da fare, l'ho sempre dovuto capire da sola, nessuno che mi abbia detto: " Posso aiutarti nonostante tutto". Nessuno, nemmeno mia madre. Lei c'è sempre stata nel momento in cui mi volevo liberare da questa vita in salita. Nel momento meno opportuno. Ora non è qui, ironia del caso, e posso finalmente fare quello che veramente voglio, con il filo del ferro da stiro. Tiro su col naso, ma queste sono lacrime liberatorie, e non mi importa più niente, mi avvicino il filo alla gola, lo attorciglio intorno al collo e comincio a tirare sempre più forte, più forte, più è stretto e più rido...

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.
La porta si spalanca improvvisamente. Faccio un balzo all’indietro, e sento il sangue raggelarsi.
Dori entra ansimando, mentre io ho ancora il cappio stretto intorno al collo che mi preme contro la giugulare che continua a pulsare, e il sudore che mi impregna i capelli. Lascio la presa e abbasso lo sguardo. Non ho il coraggio di guardarla in faccia, dritto negli occhi, ma già non lo faccio di solito, figuriamoci in questo genere di situazioni.
Dori non mi ha mai beccata. Beh, prima o poi dovrà avere qualche shock anche lei, no?
Non riesce a parlare. Sento perfettamente cosa sta pensando: le mancano le parole perché non sa cosa pensare. Si è sempre aspettata che la facessi finita da un giorno all’altro, a volte lo dice per scherzare, ma un conto è la teoria, un conto è la pratica. E’ il colpo di scena della tragedia, l’apice del climax.
-Io… Tu… Non puoi farlo veramente. Vale, davvero, no.
-Non ho niente da perdere.
-Se dici così, vuol dire che non ti frega niente di noi. Di me, di mamma, di Luca. Sei la solita egoista. Pensi sempre e solo a te stessa. Non capisci che se noi non esterniamo le nostre preoccupazioni, i nostri dubbi, le nostre ansie, le nostre paure, non significa che non ne abbiamo. Vorrei dirti che soffri di vittimismo, ma peggiorerei solo le cose perché voglio soltanto che tu resti viva! Hai solo vent’anni, ne hai altri settanta davanti!
-Ma è come se ne avessi già vissuti cento.

Proprio non riesce a capire. Se io vado via, avranno un peso in meno. Io detengo tutto il nostro passato, è un fardello oneroso da trascinare. E’ talmente pesante che mi schiaccia. In realtà io sono già morta per quante volte questo peso mi ha massacrato. Sono morta dentro, che motivo c’è di vivere fuori?
Dori fa un respiro profondo tanto che, anche se è a qualche passo da me,i capelli che mi nascondono il viso scavato e arido si muovono. Non capirò mai la sua estrema pazienza.

-Io so che hai visto cose che una bambina non dovrebbe mai vedere e sentito cose che non dovrebbe mai sentire, ma ti prego, ti si concede la possibilità di ricominciare da capo e tu cosa fai? La sprechi perché sei convinta che sarà così anche in futuro? Il passato non si può cancellare ma da esso si può imparare e ricominciare a vivere. Vuoi parlare di nostro padre, dato che è colpa sua se sei in queste condizioni? Comincia a vedere il positivo: sta cominciando a pagare in carcere. Mamma è da una settimana in ospedale, ma già si vedono i miglioramenti. E ti assicuro che l’amore che Luca prova per lei ha ripagato e continua a ripagare tutti i danni che nostro padre le ha fatto. Luca ti ha dato la possibilità di ricominciare una vita come figura paterna, perché non la cogli? Ricordati che i legami di sangue non sono tutto, a volte il sangue si può rivelare amaro, l’antidoto è l’affetto di un’altra persona, un amore incondizionato che ti ridona fiducia nell’esistenza.

Quando sento parlare così mia sorella mi domando perché la sottovaluti così tanto. A volte mi chiedo se la sua impresa sia stata stare al passo con la mia crescita frettolosa.

-Hai ragione. E’ solo che io ho un brutto vizio, quello di pensare troppo.
-Esatto. Troppi film.
-Anche troppi libri.

Dori sorride. Le fa sperare nella mia ripresa. Si avvicina, un po’ timorosa, e intanto il filo si è allentato intorno al mio collo. Mi accarezza un braccio, poi mi prende e mi abbraccia piano.  Continuo a non piangere. Ho già versato troppe lacrime, ormai ci ho fatto l’abitudine.

-Vuoi che chiami lo psicologo? Hai bisogno di sfogarti?
-No, ti prometto che proverò da sola, stavolta. Anche perché ripetere sempre le stesse cose non mi serve a niente.

Si gratta la guancia, pensierosa. Apre e chiude la bocca come un pesce rosso.

-Ti servono stimoli. Da quanto non esci più di casa?
-Una settimana?
-No, nel senso… Da quanto non esci a farti una passeggiata in compagnia?
Mi rabbuio.
-Un anno, circa.

Sì, un anno infernale. Non ho più voglia di vedere nessuno. Ho allontanato perfino me stessa. Da quando ho scoperto che non avevo più voglia di studiare mi è crollato il mondo addosso. E così ho iniziato a chiedermi dove avessi sbagliato. Indagavo i ricordi settimana per settimana, mese per mese, anno per anno, fino a che non sono quasi arrivata a sfiorare il mio concepimento. Ogni momento che rivivevo andando indietro nel tempo mi sembrava di compiere le stesse azioni, prendere le stesse decisioni, rifare gli stessi errori, e ogni cosa mi sembrava giusta, ne ero convinta. Così sono andata in crisi. Sono riemerse tutte le emozioni. E’ stato come toccare un cavo elettrico scoperto. E alla fine del percorso di analisi interiore non ho trovato nulla. Per me era tutto regolare, e quindi dov’era l’errore? Ho iniziato ad avere crisi di panico, e lì ci ero già passata in passato. Poi sono cominciate le allucinazioni. Allora mamma ha cominciato a preoccuparsi. Sono tornata dallo psicologo, ma ha fatto spallucce. Avevo già avuto un periodo simile, ma ne ero uscita rigenerata. Mi ha mandato direttamente dallo psichiatra, che mi ha prescritto delle gocce e delle pillole da prendere due volte al giorno a intervalli regolari, ma io sono una che strafa e così ne ho prese più del dovuto. Ho avuto un collasso e sono finita in ospedale. Mi aspettavo che venissero quei pochi amici che mi erano rimasti, ma non è venuto nessuno. Nessuno, e non ho neanche ricevuto una chiamata, un fiore, una lettera, niente. Quando sono tornata a casa la prima notte mi sono trovata sul balcone, pronta a spiccare il volo. Mia madre è uscita fuori in tempo per afferrarmi da una caviglia. Avevo avuto un’altra allucinazione. Quella volta ero in piscina e l’istruttrice voleva che facessi il tuffo a candela.

-Bene, cominciamo con me, poi riprendi i contatti con i tuoi amici.
-Io non ho più amici, non mi è rimasto più nessuno.

 
Alla fine mi sono trascinata con la forza al parco vicino casa. L’orario è sempre lo stesso, tre - tre e mezzo del pomeriggio. Il sole caldo non mi delude e mi copre come se fosse una coperta di pile. Sono stesa sulla panchina, le cuffie nelle orecchie e la musica a palla. Stavolta ho optato per Nina Simone. Mi sento lasciarsi andare i muscoli, la testa che diventa più pesante e rilassata, quando ad un certo punto sento che vicino ai miei piedi, alla punta della panchina, si è seduto qualcuno, o qualcosa; non lo so, sono talmente in coma...

Sta anche giocando con i lacci delle mie scarpe! Sarà un cane randagio?

-Belle le tue Converse! Dove le hai prese? Io le cerco da un sacco!

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.
Sobbalzo. Due occhietti che mi scrutano curiosi da sopra un paio di occhiali da sole. I capelli arruffati che cadono come una tenda sul viso su cui aleggia una smorfia bambinesca.
Una ragazza, forse più piccola di me, a dir poco inquietante, mi fissa costantemente e studia attenta la mia espressione tra il terrore e la sorpresa.

Non rispondo, aspetto che sia lei a darmi delle spiegazioni. D’altronde è stata lei a disturbare la mia ora di quiete.

-Non volevo disturbarti, ma ho visto queste scarpe che cerco da un sacco di tempo e non ho potuto resistere!

Continuo a non rispondere e a fissarla con aria indicativa.

-Piacere, Anita.
Mi porge la mano e io a questo punto rispondo presentandomi e stringendole la mano.

-Cosa stavi facendo?
-Riposando.
-Capisco. Beh, anch’io. Ogni tanto ho bisogno di star sola e quindi mi allontano da casa per stendermi qui al parco nel silenzio più assoluto… E’ vero, il silenzio è d’oro. 
Annuisco seccata. Sai com’è, anch’io volevo restar sola, e ci ero riuscita finché non sei venuta tu a rompermi il cazzo!

Non so come scrollarmela. Allora, con noncuranza, mi rimetto le cuffie nelle orecchie per mandarle il messaggio: non mi rompere i coglioni. Chiaro, no?
A quanto pare no.

-Che ascolti?
Senza permesso mi sfila un auricolare e se lo infila. Sto fumando come un vulcano che sta per eruttare. Ma non erutto perché mi fa pena. Mi sa di persona sola ed emarginata. Per forza, è una rompicoglioni…

-Che bello… Anche a me piacciono! Oddio, adesso li ascolto raramente, quando avevo quindici anni di più…

Cavolo, pensavo ne avesse quindici! Quanti ne avrà? Sedici? Diciassette? Più di diciotto non le do…

-Vai ancora al liceo?
-No, io ho ventidue anni.
-Ma dai, anch’io! Giuro, te ne avrei dati di meno, sui quindici!

Non ci credo… 

Ed ecco l’ennesima persona che mi dà della ragazzina. Va beh, gliene ho dati altrettanto anch’io, ma guarda te il caso…

L’unica paura è che adesso mi chieda dell’università. Proprio non sono in vena di parlarne.

-Lavori o studi? Io studio lettere!

Bene. Trattengo il respiro, sento che sto per sbottare da un momento all’altro ma non lo faccio.

-Studiavo, ma per problemi personali ho sospeso.

-E adesso come passi il tempo?

Questa frase mi ha spiazzato. Non ho mai dovuto spiegarlo a nessuno, tantomeno ne sono consapevole, non me ne sono mai resa veramente conto… Devo cercare di improvvisare ed essere il più dolce possibile.

-Tu come lo passi, oltre a impiegarlo nello studio?
Contrattacco.

-Beh… Aiuto mia madre nelle faccende di casa… Leggo… Ascolto musica, guardo film, seguo serie… Esco con i miei amici…
-Anch’io.

Sì, tutto tranne le faccende di casa e uscire con gli amici. Primo perché mia madre fa tutto e non vuole essere distratta, secondo perché non ho più amici. E questo lei non deve saperlo, se no si attacca a cozza.

-E poi giro per il parco quando ho bisogno di solitudine.

“E allora perché sei venuta a fracassarmi?”, ma muovo concorde la testa e basta.

-Idem.

Silenzio. Mi guarda, scrutandomi come fa dall’inizio. E’ come se penetrasse nel mio cervello e mi leggesse dentro. Mi sento vulnerabile. E’ come se sapesse tutti i miei segreti più privati…

-Mi ricordi una mia amica, sai? Ecco perché mi sono avvicinata.

La questione mi incuriosisce.

-Perché, com’era lei?
-Beh, a dire il vero a cominciare dal carattere schivo per finire con i gusti e le abitudini… Un po’ le somigli. Anche nell’aspetto.

Trasalgo.

-Mi starai scambiando con lei.
-Infatti. Non ho mica detto che sei lei!
-E lei come’era?
-Quando l’ho conosciuta era la persona più dolce e sensibile che avessi mai conosciuto. Era lei che doveva tirarmi fuori le parole di bocca…
-Non si direbbe.
E cazzo, prima o poi dovevo dirglielo!

Ma lei mi guarda con uno sguardo triste, il sorriso che le muore sulle labbra, e con tutta la pacatezza di questo mondo mi risponde:
-Sì. In realtà sono molto fredda e distaccata, ma in te c’è qualcosa di lei che mi ha dato lo slancio per venirti incontro. Pensa, ho fatto una fatica immane per rivolgerti la parola. Non è stato facile, credimi.
-Deve averti fatto molto male questa persona.
-No, in realtà sono io che gliene ho fatto a lei.

Aspetto che continui a raccontare, e invece si alza con gli occhi velati di lacrime, si gira verso di me e mi saluta:
-Si è fatto tardi, devo andare. Mi ha fatto piacere conoscerti, Valeria. Alla prossima, spero.
Mi sorride timidamente.
-Ciao, Anita.

E le sorrido anch’io, mentre si allontana in fretta, con la malinconia nel cuore, lasciandomi sola a crogiolarmi in nuovi dubbi dal sapore amaro.

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