Lontana Menegroth

di Silvar tales
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Neldoreth ***
Capitolo 2: *** Eryn Galen ***
Capitolo 3: *** Bosco Tetro ***
Capitolo 4: *** Gundabad ***
Capitolo 5: *** Cabeduin Meduilin ***
Capitolo 6: *** Cúranthaim ***
Capitolo 7: *** Eryn Lasgalen ***



Capitolo 1
*** Neldoreth ***


Neldoreth








Dicevano che non vi era altra uscita da Menegroth se non il ponte di pietra che solcava il fiume, e il ponte era sorvegliato notte e giorno, nessuno vi passava senza che le sentinelle lo vedessero.
Dunque com’era possibile che il figlio di Oropher, un ragazzino da poco venuto alla luce del mondo, riuscisse a scappare, ogni volta? E ogni volta, gli esploratori elfici lo riportavano al cospetto del padre, dopo che l’avevano colto a girovagare tra i boschi, fuori dalle mura della propria casa.
In realtà, le sue non erano vere e proprie fughe. Egli amava la luce della luna e delle stelle, più di ogni altra luce gialla e calda che brillava nelle viscere delle gallerie, né i numerosi lucernari che bucavano il soffitto dell’osservatorio sotterraneo lo saziavano: egli voleva avere tutta quanta la volta del cielo notturno sopra di sé.
Per cui molte notti era uscito all’esterno, nella foresta, senza che nessuno se ne accorgesse, perché poi faceva sempre ritorno. Oropher comprendeva un tale bisogno: gli Eldar erano nati sotto le Stelle, e tutti loro provavano attrazione per esse, ma non poteva comunque lasciare che suo figlio girovagasse da solo per la foresta. Oropherion era ancora giovanissimo, e anche se all’interno della Cintura di Melian nessun’Oscurità poteva penetrare, lupi e altre creature selvagge erano sufficienti a metterlo in pericolo.
Un giorno, mentre Oropherion era immerso nello studio, giunse da lui Re Thingol. Il suo sguardo era saggio e gentile, e portava nel cuore una profonda calma, un’aura di luce e serenità che si spandeva intorno ai luoghi dove egli camminava.
«Così, hai trovato il passaggio per i Colli di Pietra, attraverso la sala delle fucine. Neanch’io sapevo della sua esistenza, all’inizio, quando i Naugrim costruirono questo rifugio. Arroccarsi sotto terra senza pensare a come uscirne è oltremodo stupido, e pericoloso.
Ma non ti proibirò di usarlo, non lo chiuderò, né metterò una guarnigione a sorvegliarlo. Ti chiederò soltanto di fare più attenzione, figlio di Oropher. Questo luogo deve rimanere celato agli occhi dei malvagi».
Così, rincuorato dall’indulgenza e dalla benevolenza di Thingol, il giovane Eldar tornò ancora una volta nella foresta, quando la luna era nera per metà. All’esterno, ovunque vi era silenzio: i rumori metallici delle fucine più non erano, l’aria tiepida delle gallerie più non era: vi erano il vento, i versi delle bestie, e l’aria fredda della notte.
Un sentiero dimenticato, mangiato dagli arbusti del sottobosco, correva verso Est, seguendo il ruscello che, uscendo dai cunicoli delle fucine, balzava fuori e serpeggiava tra gli alberi sempreverdi. Pareva un sentiero usato dai cacciatori soltanto, che non portava da nessuna parte, solo a una vecchia radura piena di sassi ricoperti da un muschio verdissimo. Oropherion vi giunse come ogni volta, beandosi dello spazio che le chiome degli alberi lasciavano libero al cielo. Si sedette sul masso più alto, e piegò la testa all’insù, allacciando le braccia attorno alle ginocchia per non perdere l’equilibrio.
Un lontano chiarore ancora doveva abbandonare il cielo, a Ovest, laddove il sole in agonia si era già nascosto dietro la linea dell’orizzonte. I suoi occhi azzurri, affamati di stelle, le osservavano come se fossero parte di esse.
Una strofa di un antico racconto sulla Creazione diceva che gli occhi degli Eldar erano astri caduti, poiché durante i Primi Giorni delle Lunghe Notti non vi era differenza tra i bagliori che essi emettevano e i bagliori che la luna e gli astri emettevano. Il cielo era unito alla terra da un buio profondo e al contempo da innumerevoli bianche luci.

«Chi sei tu, che guardi le stelle?»
Il giovane sobbalzò. Era forse la voce della foresta che gli parlava? Non vi era anima viva nella radura, se ne accertò guardandosi attorno, preso da spavento. Non scese dal masso, poiché rimanere in alto lo faceva sentire al sicuro.
«Chi sei? Vattene, se non vuoi dirmi il tuo nome!» disse di nuovo la voce, accompagnata da uno scalpiccìo di zoccoli tra i cespugli del sottobosco.
Una fanciulla elfica uscì dalle fronde nere, delicata come un’ombra. Una fanciulla dai capelli dorati, lunghi fino alle scapole. Nelle falde della veste grigiastra aveva della biada, e con lei uscirono dal bosco anche due cervi, un maschio dalle imponenti corna, e una femmina, esile ed elegante, così come lo era la giovane. Oropherion trovò che fosse più bella di qualsiasi creatura avesse mai veduto.
«Stai spaventando i miei cervi, vattene via», lo rimbeccò nuovamente lei.
«Non mi sembrano affatto spaventati», si difese il giovane. Il cervo maschio infatti lo scrutava con interesse, allargando le narici e muovendo nervosamente le orecchie.
«Hai ragione», fu costretta ad ammettere la fanciulla, «ora si sono incuriositi».
«Vivi a Menegroth? Non ti ho mai veduta…» Oropherion ricordò troppo tardi le raccomandazioni di Thingol, e subito avrebbe voluto tapparsi la bocca. Una mente astuta avrebbe subito compreso, dalle sue parole avventate, che nelle vicinanze vi era un ingresso per la nascosta Città delle Mille Gallerie. Ma in quella creatura non vi era ombra di malizia.
Gli aveva sorriso, poi aveva scosso la testa e si era piegata per porre a terra il fieno che portava in grembo.
La cerva si mise a brucare, mentre il cervo attese, paziente e ancora diffidente dell'intruso seduto sul masso.
«I Monti Azzurri sono la mia casa», disse la giovane.
«Anche la mia».
Ella spalancò gli occhi per la sorpresa, e in quell’attimo Oropherion si rese conto di quanto fosse acerba: forse neppure cento anni le avevano solcato il viso.
«La mia famiglia marciava verso le caverne di Finrod, ma mi sono perduta lungo la via, e nessuno tornerà mai più indietro a prendermi. Sono rimasta sola, nella foresta».
Egli stentava a credere che quanto ella raccontava corrispondesse a verità, poiché non vedeva ombra di paura o smarrimento sul suo viso.
«Non mi hai ancora detto il tuo nome, tu che guardavi le stelle».
«Oropher è mio padre. Thranduil è il mio nome». Ella gli sorrise di nuovo, con un candore e una spontaneità che non lasciavano alcun posto alla menzogna. Thranduil sentiva, nel suo cuore, di potersi fidare. «Vivi da sola nella foresta, non hai paura?»
La giovane piegò la testa in segno di rispetto. «Melian protegge questi confini. Non ho paura degli alberi né dei cervi». Il giovane Eldar sorrise, pensando alle eccessive premure che il padre gli dedicava, mentre questa fanciulla, più giovane di lui, non temeva i rumori della notte, non temeva di essere sperduta in un luogo che non conosceva.
Scese dal masso per venirle più appresso, e nei suoi occhi azzurri trovò una grande forza. «Qual è il tuo nome?»
Ella distolse lo sguardo, e parve rattristarsi, come se pensieri nefasti le avessero rabbuiato la mente.
«Io so perché la mia famiglia non torna indietro a cercarmi, né lo farà mai. Io non possiedo il dono della voce, per questo vengo disprezzata».
«Cosa vuoi dire?» Thranduil le sollevò il mento con più delicatezza possibile, di modo che lo guardasse negli occhi. Le stelle si riflettevano nei suoi occhi, e per un attimo fu come nei racconti, come se cielo e terra fossero divenuti una sola cosa.
«Non vi è grazia né beltà nella mia voce».
«Nei tuoi occhi vedo entrambe».
Si chinò a baciarle la bocca.



*





Thranduil fece in seguito ritorno da lei tutte le notti nelle quali riusciva a eludere la sorveglianza del padre. Un mese era passato, e ancora non sapeva il suo nome: lei sviava ogni volta che provava a chiederglielo, per cui Oropherion cominciò a chiamarla Ithilglîn, ed ella rideva ogni volta che lo faceva.
Rimanevano spesso ore intere sdraiati sul tappeto di aghi rossi che ricopriva il sottobosco, a rimirare le lontane stelle e a raccontarsi l'uno con l'altra storie perdute e vecchie leggende. I racconti che conosceva l’uno, l’altra li ignorava e viceversa.
Così era come se avessero condiviso un passato comune, infine entrambi venivano a sapere le stesse storie con cui erano cresciuti.
«Ithilglîn, non ho fatto parola di te con nessuno, ma forse, se lo facessi, ti potrei far entrare a Menegroth. Eppure sento che sarebbe come estirpare un fiore di montagna e metterlo su una corona: morrebbe. Tu appartieni alla foresta, Ithilglîn». La guardava negli occhi, mentre le diceva queste parole.
Ithilglîn non gli rispose, si limitò a giocare con i suoi capelli biondi, come volesse celare un momento d’imbarazzo. Si levò in piedi e Thranduil la seguì, confuso. La prese per le spalle, con grazia, e la voltò verso di sé.
Portò una mano a sfiorarle il ventre e le baciò la fronte pallida.
«Ithilglîn, se noi...»
Ma lei lo interruppe, scosse energicamente la testa per poi guardarlo con un barlume di malinconia.
«Non è ancora giunto il tempo. Prima, lasciamo che l’Onda passi, e che ci sommerga. Il nostro amore maturerà su lidi sicuri, lontano dal mare».
Thranduil non capì appieno ciò che ella intendeva, ma avvertiva un’ombra minacciare il loro nido. La strinse a sé, illudendosi di poterla spazzare via.
E i due cervi rimasero ad osservarli, silenti e immobili.







Notte in Neldoreth

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Capitolo 2
*** Eryn Galen ***


Eryn Galen








L’Onda era passata, le terre ad Ovest più non erano.
Alcuni degli Alti Sindar, tra cui Oropher e la sua progenie, si erano stabiliti nel lontano Est. Thranduil aveva sposato Filigod sui Monti Azzurri, agli arbori della Seconda Era. Ora Boscoverde era divenuta la loro casa, e dopo la morte di Re Oropher, avvenuta durante la disastrosa Guerra dell’Anello, Thranduil era divenuto Signore del Reame Boscoso, e Filigod era la sua Regina.
Ella sedeva sul trono accanto al suo, di modo che fossero alla medesima altezza e che l’uno non prevaricasse sull’altro, poiché Thranduil teneva in gran conto il suo giudizio. Filigod portava una corona adornata di fiori di campo e ginepri durante i mesi caldi, e decorata con edera grigia e bacche rosse quando l’inverno cadeva.
Benché Filigod fosse il suo vero nome, in pochi la conoscevano come tale, oltre i confini del Bosco era conosciuta come dama Ithilglîn.
Per la sua dama, Thranduil Oropherion eresse le Sale della Luna: erano ampie radure sotterranee, nelle quali crescevano gruppi di abeti rossi, che alti si allungavano in cerca del sole. Sopra le radure vi era infatti il cielo aperto, ma tutt’attorno ad esse si chiudevano le scure rupi della montagna. Innumerevoli capillari del fiume Selva zampillavano nelle Sale, dando forma a cascatelle e a limpidissimi stagni che si raccoglievano in naturali bacini di pietra granitica. Una famiglia di cervi albini viveva lì, ed essi rispondevano alla loro Signora.

Thranduil entrò nottetempo nelle Sale della Luna, in silenzio, rispettoso della pace che in quell’antro regnava. Trovò Filigod nuda, seduta in armonia tra i ciuffi d’erba ed i cuscini di muschio, in uno spazio cinto da una corona di pini. Aveva la pelle bagnata, e i capelli le scendevano zuppi e disordinati lungo la schiena. I cervi le erano intorno, come fossero sue sentinelle.
Thranduil prese un telo da un pancale di pietra, e si piegò per avvolgerlo intorno alle sue spalle. Lo stagno nel quale ella si rifletteva era pieno fino all’orlo di stelle. Le si sedette accanto, ed entrambi si misero a rimirare le luci baluginose incastonate sotto il vetro dell’acqua.
Nei loro sguardi vi era un’ombra di malinconia.
Thranduil si sporse a baciarle i capelli, e chiuse gli occhi mentre lo faceva.
«Ho sentito alcune guardie bisbigliare malignità su di te. Lamentavano il fatto di aver abbandonato le vecchie caverne di tuo padre, erano nostalgici e arrabbiati. Dicevano che avremmo dovuto combattere l’Ombra che corrompe Amon Lanc, non fuggire da essa. Dicevano che hai perso di vista il mondo di fuori, che sei dimentico di vivere nella Terra di Mezzo, e che vuoi rifugiarti in un sogno senza tempo.
Avrei voluto punirli, ma sono rimasta in silenzio. Le malelingue non hanno veduto ciò che tu hai veduto. Sono in pochi a conoscere le sofferenze che il loro Re ha dovuto passare».
Thranduil rimase in silenzio per qualche minuto, pensieroso e assente. Continuava a rimirare l’acqua, con il fianco sinistro del viso ancora poggiato contro la chioma dell’amata, come un bambino che cerca conforto nel seno della madre. Infine parlò:
«Non m’importa di ciò che pensano o dicono. Io agirò per il bene della mia gente, sempre, e mai più vorrò vederla soffrire come nell’Era appena trascorsa. Per mantenerla al sicuro farò tutto quanto in mio potere, anche chiudere per sempre le porte del mio Regno e celarlo agli occhi del Mondo, anche scavare fin nelle profondità della terra per trovare un antro sicuro, in attesa che l’Oscurità passi oltre.
Tutto quanto sarà in mio potere, io lo farò.
L’unica approvazione di cui mi importa, è la tua. Se tu non sarai d’accordo con me, allora saprò di dover fare un passo indietro».
Filigod volse la testa ad incontrare gli occhi del Re, e si guardarono per un lungo istante, senza aver bisogno di dire alcunché.
La cerva più anziana uscì dalle fronde, e gli altri cervi si fecero da parte al suo passaggio. Si recò in riva allo stagno, allargò le esili zampe anteriori e piegò il collo per abbeverarsi. Quando ebbe saziato la sua sete, alzò la testa, drizzò le orecchie e scosse il capo, bramendo nervosa.
Tra non molto avrebbe partorito.

Quella notte, Thranduil si destò tra le coperte del suo letto quando ancora mancavano ore prima dell’arrivo dell’alba. Filigod dormiva ancora, con il capo poggiato sul suo petto nudo.
Non volendo turbarle il sonno, le scostò con delicatezza la testa, di modo che la reclinasse sul cuscino. Dunque si levò in piedi e indossò una leggera veste di seta.
Giunse a una balconata poco distante, la quale si affacciava su una limpida pozza. Esili colonne si ergevano dall’acqua come le intrecciate radici di un salice, e andavano a sorreggere un baldacchino di pietra, dal quale scendevano grossi giunchi d’edera.
In quel luogo di pace, i suoi pensieri erano oscuri e tormentati. L’Ombra che minacciava Boscoverde stava calando anche sulla sua mente. Ricordava giorni lontani, giorni di luce e splendore trascorsi nelle maestose caverne di Menegroth e di Nargothrond, antri gioiosi e imperiosi, pieni di saggezza, di canti, di libri.
Ma poi era giunta l’Onda vorace, e tutto quanto aveva soffocato. Le caverne di Thingol erano divenute tane per murene, e le foreste di Neldoreth macchie di nodose, enormi alghe, ancorate agli abissi.
Quando accadde, Thranduil si trovava in alto, in piedi su una delle tante torri di vedetta degli Ered Luin.
Vide il muro d’acqua avvicinarsi, crescere all’orizzonte, e infine sommergere ogni cosa. I capelli non smettevano di danzargli attorno al viso, mentre il feroce vento gli estirpava a forza le lacrime dagli occhi. Allora fu costretto a piangere, anche se non provava dolore: solo una fortissima e incolmabile nostalgia.
Nessuno di loro voleva ammetterlo, ma tutti gli Eldar approdati nella Terra di Mezzo erano invero degli esuli, orfani di una terra che più non esisteva, come lo erano Thranduil e Elrond Mezzelfo, oppure ancora ancorati al remoto ricordo di una Valinor perduta, come lo era Galadriel.

È noto che gli Eldar tra i più vecchi non percepissero lo scorrere del tempo alla stessa maniera degli uomini mortali e degli elfi più giovani, per cui, quando lo vennero a cercare, il sole era già alto nel cielo di fuori, ed egli ancora pensava a ciò che, in un’altra Era, aveva perduto.
«Mio Signore, chiedono udienza».



*





«Cosa ti porta, Sire Celeborn, alle soglie della nostra Casa?» domandò Filigod dall’alto del suo seggio di legno, con tono fermo e imperativo. Quando sedeva sul trono, diventava più simile al Re suo marito, la sua consueta dolcezza pareva scomparire e diveniva seria e solenne.
«Dama Ithilglîn, sono lieto di vedere che state bene», principiò Celeborn con un lieve inchino. Il suo sguardo e il suo modo di fare erano austeri, e al suo confronto Thranduil pareva diventare piccolo e volgare, come una lucerna messa di fronte alla luce del sole.
«Che cosa vuoi, mio Signore?» Intervenne il Re del Bosco, tuttavia non invitando l’ospite a sedersi, e non mostrandogli alcuna forma di reverenza. Rimase comodo sul suo regale scranno, con le gambe accavallate, più sdraiato che seduto, lo scettro di legno di quercia ben stretto in pugno.
«Dato che non mi offri alcuna accoglienza, capisco che il tuo animo non è bendisposto nei miei confronti, dunque sarò breve:
Quando spostasti la casa di tuo padre così a Nord, non credevo che smettessi anche di sorvegliare le tue terre a Sud. Metà del tuo regno è privo di protezione, ora, l’Ombra di Dol Guldur si allunga, come sotto la luce calante di un repentino tramonto. E tu, fuggi da essa?
Quando l’Ombra arriverà anche qui, cosa farai, rifonderai la tua casa ancora, e ancora, sempre più a Ovest, fin quando non arriverai al mare, e allora, quando l’Ombra giungerà a nerire la spiaggia, cosa farai? Salperai per Valinor anzitempo, assieme a tutto quanto il tuo popolo?
Tu devi contrastare quest’Ombra, Thranduil figlio di Oropher. È un bene che tu abbia scavato le gallerie più a Nord, di modo che la tua gente rimanga al sicuro, ma ciò non sarà per sempre, se non manderai assiduamente le tue lance a sorvegliare il meridione. Noi non abbiamo le forze per pattugliare anche i tuoi confini, oltre che i nostri. Se l’Ombra non sarà tenuta a bada dai Signori di Eryn Galen, temo che Lothlórien non potrà fermarla quando essa si spanderà sino alle radici dei suoi alberi.
Dunque questa è la mia richiesta: che i tuoi soldati badino ancora ai confini meridionali di Boscoverde, che non abbandonino Dol Guldur a sé stessa. Poiché ben sai che, in un campo non coltivato, la gramigna cresce incolta e indisturbata, e diventa difficile da estirpare».
Thranduil e Filigod erano rimasti in silenzio, in ossequiosa attesa che Celeborn terminasse di avanzare le sue richieste, che infine si erano rivelate essere più accusatorie che impetrose. Per questo, quando Thranduil infine prese parola, il suo tono era risentito.
«Ti sei dimenticato di rivolgerti anche a dama Ithilglîn, oltre che a me. Ella è la Signora di Eryn Galen quanto lo sono io.
Io ti rispetto molto, mio Signore Celeborn, ma non capisco con quale diritto avanzi queste richieste. Noi siamo Re e Regina di Boscoverde il Grande, e noi soltanto abbiamo il diritto di decidere cosa fare dei nostri soldati».
Celeborn non demorse, offeso dall’indifferenza e dal disinteresse che Thranduil gli stava mostrando. Dunque i Silvani di Boscoverde erano divenuti per davvero burberi e ancorati alla loro dimora, come non esistesse altro luogo di fuori di essa.
«E un Re e una Regina non dovrebbero forse prendersi cura del loro Reame?»
«Non osare…»
Quando il Signore del Bosco si levò in piedi, il movimento delle sue ampie vesti fece come un moto di vento; brandiva lo scettro come se brandisse una spada, e con essa volesse trucidare tutti i presenti.
«Celeborn, hai parlato anche troppo qui, al nostro cospetto, con la presunzione di darci ordini. Questo è il nostro Reame, e io ti dico che nessun soldato lascerà questo luogo, finché mio figlio non sarà nato».
Filigod sussultò. Mise una mano sul proprio ventre gravido e abbassò gli occhi, intimidita dall’ira del Re. Sentiva molti occhi su di sé: la notizia della sua gravidanza ancora non era stata annunciata, e solo pochi fidati ne erano al corrente.
Celeborn rimase un momento interdetto, colto alla sprovvista. Infine decise di fare un passo indietro, addolcì la voce e piegò la testa, come volesse scusarsi per essere stato troppo aggressivo.
«Dunque attendi che tuo figlio nasca, poi aiutaci a sorvegliare i confini che tu solo dovresti sorvegliare.
Quest’ultima preghiera io vi rivolgo, miei Signori di Eryn Galen, assieme all’augurio che il vostro erede possa nascere maschio. Ci rivedremo».
Dopo un secco inchino, voltò loro le spalle, e Thranduil fece cenno a due guardie di accompagnarlo verso l’uscita.
Lo guardò andarsene, assieme al suo seguito. I suoi occhi erano di pietra, la mascella serrata, la sua mano stringeva lo scettro come volesse ridurlo in pezzi.
Ma poi si ricordò di Filigod, e si pentì per aver parlato senza prima scremare le parole, e per averla esposta in modo così brutale.
Deciso a porgerle le sue scuse, le si inginocchiò di fronte, come se al suo cospetto non fosse altro che un umile emissario, e le baciò la pancia.
«Io mi auguro invece che nasca femmina, di modo che possa ereditare la tua bellezza, mia Signora».

Scoppiò un fragoroso applauso, come mai si era udito e come mai più, in quelle sale, si sarebbe udito.







Re e Regina di Eryn Galen

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Capitolo 3
*** Bosco Tetro ***


Bosco Tetro








Gli uomini che vivevano presso i confini di Boscoverde avevano preso a chiamarlo Bosco Atro, e così ormai lo chiamavano anche gli Elfi di Imladris, e i Nani dei Colli Ferrosi, e tutte le genti che vivevano limitrofe. La Foresta si era imbrunita, i lupi erano diventati cattivi e pericolosi, i cervi inquieti e sospettosi: gli alberi cominciavano ad ammalarsi, e le liane, le edere e i rovi prolificavano, corrodendo i loro tronchi e mordicchiando le loro radici.
Ma nessuno dimenticava il tempo in cui Eryn Galen era un grande cupola dorata. Il tempo in cui la notte, un viaggiatore discreto e solitario, se faceva silenzio e avanzava rispettoso, e se era molto fortunato, poteva scorgere la Dama della Luna, vestita del colore remoto delle stelle, ritta in piedi su un'altura come uno spettro nel buio, oppure errante nel folto della Selva: un fruscio di vesti argentate che scivolava tra gli alberi come fosse il lucido manto di una cerva in fuga.
Ora non più. Ora le sue vesti si sarebbero lacerate se ella avesse camminato fuori dal sentiero, poiché il sottobosco era divenuto un intrico di rovi.
I giorni in cui i signori di Eryn Galen camminavano attraverso Boscoverde erano ormai trascorsi. Thranduil si era chiuso nella sua roccaforte sotterranea, e creature malvagie ora bazzicavano per la Foresta, di notte come di giorno. La Via Silvana, nata da poco, fu abbandonata, poiché nessun comune pellegrino o mercante si recava più a Est di Bosco Atro passandovi attraverso. Di rado veniva battuta dalle pattuglie di Re Thranduil, le quali divenivano sempre più sparute.
Gli Elfi Silvani erano divenuti indifferenti.

Dopo la nascita di Legolas, Filigod e Thranduil si concessero più momenti di intimità, e spesso si permettevano di abbandonare la Sala del Trono per passare del tempo nelle ampie camere regali.
A Filigod piaceva avere Legolas accanto, adagiato nella sua culla di quercia bianca, e a Legolas piaceva guardare i propri genitori. Thranduil spesso faceva accomodare la sua dama davanti a uno specchio, poi le pettinava i capelli, e a volte la pettinava per un'ora senza interrompersi, non perché avesse bisogno di districarli o acconciarli in forme eleganti, ma perché gli piaceva immergere le mani e il pettine in osso tra le sue ciocche bionde, gli piaceva sentire il suo profumo, gli piaceva sentirla ridere quando le solleticava il collo e le orecchie. Quando Filigod rideva, anche Legolas rideva, e Thranduil sorrideva soltanto, ed erano quelli i momenti in cui il cuore gli doleva per la troppa gioia.
«Dovresti andare a parlare con Thrór. La tua fiera bellezza riuscirebbe persino a commuovere il duro animo di un Nano. Posseggono Gemme Bianche, Filigod, Gemme di Lasgalen, una sola di esse incastonata nell'albero più alto della Foresta potrebbe far brillare tutta quanta Eryn Galen di una nuova luce. Pura luce stellare, la luce che pure un tempo si rifletteva nei tuoi occhi, sotto il cielo notturno delle perdute terre occidentali.
Tu devi sapere, che io vedrei bene quella luce splendere attorno al tuo collo».
«È un dono, ciò di cui vai parlando?» Chiese lei, volgendosi a guardarlo.
«Un dono che un Re vorrebbe offrire alla sua Regina, ch'ella gliene ha già dati tanti».
E mentre diceva queste parole, le toccò la pancia, e al tempo stesso volse lo sguardo verso Legolas, che si era addormentato in serenità.
Ed ella sorrise, radiosa.

In questi tempi in cui la decadenza di Eryn Galen era al principio, un giorno, uno dei cervi di dama Ithilglîn, giovane e inesperto del mondo, fuggì dalle Sale della Luna attraverso il tracciato di uno dei tanti torrenti sotterranei. Ella se ne avvide due notti dopo, e subito si disperò, poiché la bestia era l'ultima di una nobile stirpe di Cervi Bianchi delle Grotte, creature nate all'interno della Cintura di Melian, e da Yavanna stessa concepite. La femmina-madre oramai era vecchia, e non avrebbe avuto altre gestazioni.
Non appena seppe della fuga, Filigod tornò di corsa nella camera che condivideva con il Re suo marito, e indossò in fretta una veste d'argento con un corpetto di cuoio chiaro, ornato da ricami bianchi. Era un abito da viaggio, non particolarmente appariscente né elegante, consono a muoversi con agio tra le insidie del sottobosco.
Thranduil si destò, scostò da una parte le sontuose lenzuola di seta che lo coprivano e si levò dal letto.
«Dove stai andando, mia Filigod? Così equipaggiata, come dovessi intraprendere un lungo viaggio?»
«Nella foresta. L'ultimo figlio della cerva è fuggito dalle Sale della Luna, devo ritrovarlo, a tutti i costi».
A sentire quelle parole, Thranduil venne verso di lei, e la prese per le spalle, con garbo, anche se avrebbe voluto usare tutte le forze di cui disponeva pur di trattenerla. Quando parlò, la sua voce suonava incrinata dalla paura.
«Non puoi, la foresta è colma di insidie, e inganni, e pericoli! Non posso permetterlo, Filigod». Preso da angoscia, le toccò la pancia, nella quale il loro secondo figlio cresceva.
Percepiva il calore della vita anche attraverso la pelle e la stoffa, e tempo qualche mese sarebbe nato un bambino, il secondogenito del Reame Boscoso.
«In gioventù a lungo ho vagato in solitudine per le selve, più avventata e più ingenua di quanto lo sono ora. Questo è il mio regno, e la tenebra non mi spaventa: stanotte è luna piena, e le stelle brillano in cielo. Oh mio Thranduil, dimentichi i giorni in cui insieme miravamo le stelle? Soli e indifesi, poco più che bambini eravamo, eppure il mondo di fuori non ci atterriva. Perché invecchiando, ora, la paura ci frena?»
«Perché questi luoghi non hanno nome di Doriath. Perché nessuna Maia protegge i confini di questa Foresta. Perché i giorni che tu rimembri furono possibili in tempi e luoghi che ora giacciono entrambi sul fondo del mare».
Il suo sguardo era divenuto duro e severo, e dentro i suoi occhi Filigod leggeva un’immane nostalgia e una tetra rassegnazione, una luce oramai divenuta opaca. Si liberò dalla sua stretta, e rispose con fierezza: «comunque il cervo deve fare ritorno. Andrò».
Thranduil capì che non c’era modo di andare contro la sua volontà, e costringerla con la forza a restare era un affronto alla sua fierezza, alla sua intelligenza e alla sua indipendenza. Egli amava la moglie e i loro figli più di qualsiasi altra cosa, ma nessuno di essi gli apparteneva.
«Lascia almeno che ti accompagni».
«Non potresti, la creatura risponde solo al mio richiamo, se tu sei al mio fianco essa non verrà. Sai che li spaventi», concluse, concedendosi un breve sorriso allusivo.
Così, vinto dalla forza interiore e dall’orgoglio che Filigod agitava come suo stendardo, Thranduil la lasciò andare da sola. Ma poco dopo, preso dai rimorsi e dal dubbio, uscì anch’egli nella foresta, equipaggiato alla leggera ma armato di arco e spada, con l’intento di seguirla senza che ella se ne accorgesse, e di vegliare su di lei.
Ma troppo a lungo aveva rimuginato, e troppo tardi aveva preso la sua decisione: nell’intrico della selva, non riuscì più a trovarla.



*





Filigod si era recata dapprima verso Nord, seguendo per un tratto il sentiero, poi lo aveva abbandonato e si era addentrata nel folto del bosco, laddove gli alberi crescevano così fitti che la trama dei loro rami intrecciati copriva il cielo alla vista. Ma non vi era pericolo che ella si smarrisse, poiché nessuno più di lei sapeva muoversi con maggior destrezza in Eryn Galen, neppure Re Thranduil era a conoscenza di tutte le grotte, le radure, gli speroni di roccia che invece dama Ithilglîn ben conosceva.
Mentre entrava sempre più nelle contorte viscere di Bosco Atro, cercava di acuire i sensi, e per più di una volta si illuse di aver udito scalpiccio di zoccoli, o di aver fiutato un odore familiare, o ancora di aver intravisto un bianco bagliore, in lontananza, comparire per poi nuovamente scomparire tra il colonnato degli alberi. Ma nulla di tutto ciò era reale, era solo ciò che Filigod desiderava udire, odorare, vedere. Il desiderio di ritrovare la bestia era tale che le sue percezioni la ingannavano.
Alla cintola aveva appeso un ciuffo di peli castani appartenuti alla vecchia cerva, nella speranza che il suo odore lo attirasse; ma il cervo bianco rimaneva nascosto, e trovarlo affidandosi alla ragione e non alla sorte era impossibile, si rese conto Filigod, mentre cercava di non lasciarsi andare alle lacrime. Esso era una creatura talmente leggiadra e sfuggevole che non lasciava alcuna traccia del suo passaggio, se non una sottile striscia odorosa che Filigod non riusciva a fiutare.
E così, presa da rabbia e disperazione, iniziò a maledire il nobile figlio di Neldoreth, ma dentro di sé sapeva di odiarlo a torto. Esso aveva voluto uscire dalle caverne ed esplorare il mondo di fuori, proprio come in giovinezza aveva fatto Thranduil. E se Thranduil non avesse mai disobbedito a suo padre, se non fosse mai uscito da Menegroth, non si sarebbero mai incontrati, non si sarebbero mai amati, e Legolas mai avrebbe visto la luce del mondo.
Una civetta, appollaiata proprio sopra la sua testa, stridette, e le sue strida risuonarono assieme al vento, nel profondo silenzio della notte. Filigod sorrise, cercando di darsi conforto: la foresta continuava ad esserle amica: un tronco cavo era la sua casa, il grido della civetta era la sua voce, il soffio del vento il suo respiro.
Chiuse un momento gli occhi, e lasciò che il vento giocasse liberamente con i suoi capelli, con le maniche del vestito, e con le foglie e con i rami e con le piume arruffate della civetta.
Quando li riaprì, lontano davanti a sé, circondato da una bruna corona di vegetazione, un piccolo cervo bianco la fissava.



*





Thranduil aveva tentato di intuire la strada da Filigod intrapresa, ma fu presto conscio del fatto che la sua era una ricerca cieca e disordinata. Non vi era un luogo preciso dove il cervo potesse essere andato, e nemmeno Filigod poteva avere un'idea precisa di dove cercarlo. Ogni cosa era affidata al caso.
Perlomeno, la Foresta pareva quieta e sgombra da ombre malvagie, il Re fu lieto di notare, dopo essersi inerpicato su un'altura, un cocuzzolo ricoperto di rovi e simili arbusti spinosi che spiccava come una bugna scura tra le chiare chiome delle querce.
Sì, vi era quiete in Bosco Atro: il vento odorava di neve, e gli uccelli della notte cantavano in allegrezza. Il cielo era limpido come acqua di fonte: lontano, a Nord-Ovest, spiccava la tetra cima di Monte Gundabad, mentre a Nord-Est si ergeva il fiero picco di Erebor. A Sud, miglia e miglia distante, lo scoglio tenebroso di Amon Lanc si innalzava là dove gli alberi cambiavano colore, e divenivano cupi e deformi.
Thranduil aguzzò la vista, come se si aspettasse di poter scorgere un guizzo bianco balzare via, sotto i suoi occhi. Ma tutto rimase com'era prima, e Thranduil capì di non poterla raggiungere. Era stato uno stolto solo per aver pensato di poterlo fare.
Mesto, decise di far ritorno alle Caverne, pregando che Filigod si affrettasse a tornare alle porte del Reame Nascosto. Aveva un'immensa fiducia in lei, ella era scaltra, e giudiziosa, e sapeva meglio di chiunque altro come muoversi e orientarsi tra i meandri di una Grande Foresta.
Tuttavia ella aveva un grande difetto: con troppa facilità dimenticava di non vivere più nel remoto Doriath, ma in una selva volgare e corrotta, che più non era la culla di Melian, ma il fetido nido di Ungoliant.



*





Il cervo bianco guizzava tra gli alberi come una trota scivolava via tra i flutti argentati. Filigod gli veniva dietro, mantenendosi sempre a una certa distanza per non incalzarlo troppo. Il cervo a tratti si fermava, e la guardava, ed allora Filigod rimaneva immobile, sperando che tornasse da lei di sua volontà. Ma la bestia tornava a correre via, seppur ogni volta tornasse a fermarsi sempre più vicino.
Filigod oramai era sicura che l'avrebbe preso, l'avrebbe nuovamente addomesticato e condotto nelle Sale della Luna, dove la sua purezza sarebbe stata preservata.
Il vestito le si era strappato in molti punti, poiché aveva dovuto avventurarsi tra i rovi nel tentativo di ricalcare la traiettoria della bestia. Sentì il bambino dentro di sé fare una giravolta, dopo l'ennesima corsa forsennata. Lo accarezzò attraverso la pelle tirata, e per la prima volta nella sua lunga vita ebbe voglia di cantare. Eppure rimase in silenzio, il cervo era a pochi metri, e rimaneva immobile, anche se ella continuava ad avvicinarsi, lentamente, e con cautela.
Alla sua destra vi era la luce: gli alberi divenivano radi, e una ripida e lunga scarpata balzava sulla piana sottostante: una delle tante balconate da cui si poteva dominare Bosco Atro. Filigod si era recata spesso in quel luogo, quando ancora Eryn Galen era in pace. I Silvani lo chiamavano Cabeduin-meduilin, il Salto dell'Ultimo Canto. Si era sempre chiesta il perché.
Benché avrebbe voluto soffermarsi a rimirare il paesaggio, in memoria dei tempi passati, il cervo dispettoso la richiamava nel folto della foresta, e ancora restava immobile.
Filigod stava per volgersi di nuovo all'inseguimento, quando, disgraziatamente, vide ciò che non doveva vedere. Vide qualcosa che non aveva mai veduto: in un sol punto, le chiome degli alberi siti oltre il salto della balconata si scrollavano, come mosse da un forte vento. Era come se una creatura orrenda e affamata vi stesse passando in mezzo, senza alcun ritegno. Per un momento la curiosità prevalse, e il cervo saltò fuori dalla sua mente. Uscì dal rifugio degli alberi e si affacciò sulla scarpata, anche se in tal modo si rendeva vulnerabile, ma doveva sapere. Gli alberi smisero di dimenarsi, e Filigod vide un branco di creature orribili e deformi uscire dal folto della selva per un tratto, in cui un torrente aveva scavato una radura. Poi scomparvero di nuovo alla vista, ma dove esse passavano le chiome degli alberi dondolavano, come volessero scrollarsele di dosso. E Filigod intuì, che gli orridi Orchi stavano inseguendo qualcosa.
«Thranduil...»
E fu allora che lo vide camminare nella radura, seguendo ignaro il corso del torrente. Era lontano dai suoi occhi, ma anche da quella distanza lo riconosceva. Era diretto a casa, verso il Reame Nascosto, del tutto inconsapevole di essere seguito. Filigod aveva avvistato gli Orchi poiché ella si trovava in alto, ed essi muovendosi saltando sui rami alti degli alberi ne scuotevano le sommità, ma altrimenti erano oltremodo cauti e silenziosi, ed era impossibile accorgersi della loro presenza da basso.
Non vi era tempo di pensare a null'altro, la scorribanda di Orchi seguiva il Re degli Elfi Silvani per un solo motivo: scoprire dov'erano site le Celate Porte del suo Regno.
Filigod guardò per un'ultima volta il cervo bianco, così vicino che ancora pochi passi e l'avrebbe raggiunto.
Tentando di reprimere le lacrime, si gettò in corsa giù dalla scarpata, e il cervo scomparve per sempre nella Foresta, in direzione opposta.

Non fece questo nel tentativo di proteggere Thranduil, che egli era forte e risoluto, ma fece questo per il meraviglioso Regno che Thranduil aveva costruito, per le Sale della Luna, per suo figlio che, ancora in fasce, dormiva sereno nella loro camera, per la sua gente che abitava in pace e gaiezza in quei luminosi cunicoli; fece questo poiché a tutti i costi, la segretezza di quel rifugio che assieme, Re e Regina avevano costruito, come una bellissima sintesi del loro amore e dei loro ricordi, doveva rimanere inviolata.
Ora gli Orchi non davano più la caccia al Re, ma alla Regina di Bosco Atro. Filigod aveva fatto in modo che essi la seguissero, fingendo di essersi trovata per caso sulla loro traiettoria. E come aveva previsto, gli Orchi avevano ritenuto che la moglie del Re fosse una preda più preziosa: poiché sottovalutavano la sua forza d'animo, ritenevano di poter ottenere dalla sua stessa bocca l'ubicazione delle Porte Nascoste, assieme a tante altre vitali informazioni da portare in dono al loro capobranco.
Filigod scivolava via tra gli alberi come una cerva ferita, la veste ormai lacera, le braccia e le gambe sanguinolente, piene di graffi e lividi. Costrinse le proprie gambe a correre più forte, ma oramai era allo stremo. Inciampò e cadde a terra, in un mare di rovi e ortiche.
Subito si rialzò, non curante di puntellarsi con i palmi nudi sulle spine e sulle foglie urticanti, ma a nulla valse, poiché subito gli Orchi le furono addosso.
Scesero dalla sommità degli alberi come fossero ragni, urlando parole volgari nel loro linguaggio sguaiato, e ridendo, e ghignando, e mirando con lussuria il suo corpo seminudo.
Filigod cadde in ginocchio e pianse.



*





Nelle caserme del Reame Boscoso vi era un gran trambusto. Una pattuglia aveva da poco fatto ritorno alle Caverne, e subito Re Thranduil aveva interpellato Eredion, il comandante che ne era a capo.
«Oramai è l'alba, avete visto la vostra Regina?»
«Dove avremmo dovuto vederla, mio Signore? Siamo tornati or ora dalla foresta...»
«Ella era in Bosco Atro, è uscita questa notte, inseguiva un Cervo Bianco. Non avete sue notizie? Non l'avete forse vista?»
Il silenzio cadde sui presenti come una crosta di ghiaccio, e Thranduil capì che Eredion aveva altro da riferire. Vedeva chiaramente nei suoi occhi ch'egli aveva paura della sua ira, e l'angoscia gli afferrò il cuore.
«Mio Signore, se dama Ithilglîn è sola là fuori dobbiamo subito mandare una guarnigione a cercarla».
«Perché dici questo?»
Fu allora che Eredion cadde in ginocchio davanti al suo cospetto, gli occhi velati di terrore e di lacrime.
«Perdono, perdono mio Signore... Io non sapevo, non potevo sapere che la Regina era uscita da questi confini, altrimenti li avrei fermati a costo della mia stessa vita, e della vita di tutti quanti i miei soldati.
Abbiamo avvistato una scorribanda di Orchi, bestie provenienti probabilmente dal lontano Monte Gundabad. Erano una sessantina, e noi eravamo nettamente inferiori di numero, per questo ho lasciato che attraversassero la Foresta, ho ritenuto fosse più saggio osservarli da lontano, per assicurarmi che non si avvicinassero alle Porte Nascoste, poi mi sono precipitato qua con il proposito di tornare con più forze a disposizione, e cacciarli in un sol colpo. Ahimè, ahimè... Ho commesso un tremendo sbaglio... Perdono, Signore...» E così si gettò ai piedi del Re, piangendo e umiliandosi di fronte ai suoi stessi sottoposti.
Ma Thranduil quasi non udii i suoi piagnistei, poiché un'unica orrenda verità ingombrava la sua mente.
Ordinò che Eredion e coloro che lo avevano seguito venissero rinchiusi nelle segrete, in attesa di giudizio.
Poi organizzò una corposa spedizione che percorresse in celerità e discrezione ogni angolo di Bosco Atro, e lui stesso uscì nella selva, quando oramai il sole era prossimo a sorgere. La sua speranza era che gli Orchi, i quali era risaputo avevano in odio la luce del sole, si fossero rifugiati in qualche grotta o anfratto, ma pareva invece che questi avessero corso speditamente sino a Gundabad, poiché non li scovarono da nessuna parte.
«Mio Re, se hanno lasciato queste contrade è per un solo motivo», iniziò Feren, capitano delle guardie e maggior confidente di Thranduil, avvicinandoglisi e poggiando una mano sulla sua spalla. Il Re smise di cercare a terra con gli occhi, di cercare segni nelle zolle smosse dal passo selvaggio degli Orchi, di cercare lembi del suo vestito, sangue, impronte, qualsiasi cosa che lo aiutasse a capire, che confermasse o smentisse i suoi peggiori presagi.
Ma non vi era nulla, nulla in assoluto. Solo le parole che Feren stava per dirgli.
Alzò lo sguardo e lo guardò negli occhi, ed egli parlò: «hanno già ottenuto ciò per cui sono venuti».
E seppe ch'egli diceva la verità.
«Dunque preparati in fretta», ordinò, «ci recheremo a Gundabad».








Inseguendo il Cervo

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Capitolo 4
*** Gundabad ***


Gundabad








Due giorni dopo Re Thranduil aveva valicato le porte rosse di Gundabad, con al seguito cento lame elfiche.
Aveva fatto il passo con la coscienza di aver varcato un punto di non ritorno: anche se ancora non erano usciti allo scoperto, Thranduil ben sapeva che tutt'attorno, le alture rocciose che lo circondavano a destra e a sinistra, erano gremite di arcieri.
Spronò il suo cavallo a proseguire per il sentiero, un ripido ciottolato che si inerpicava all'interno del monte malvagio. La salita era dolce ma impegnativa, poiché il sentiero non si ripiegava in serpentine, come consuetamente avrebbe fatto un'agevole via di montagna, ma proseguiva dritto, senza alcuna curva, e pareva terminare contro una diga artificiale sormontata da quattro grigie torri.
«Le Porte del Nord», disse Thranduil fra sé, mirando intimidito i bastioni cui si stavano avvicinando. Il modo in cui erano stati costruiti ricordava l'architettura númenoreana, se non fosse che in cima alle torri svettava la bandiera rossa e nera degli Orchi di Angmar, e i merli e le feritoie erano ornati da fetide punte di ferro.
«Come, mio Signore?»
«Feren, rimanimi affianco».
Feren piegò la testa, in segno di intesa, e portò il proprio destriero fianco contro fianco con quello del suo Re.
«Signore, non senti un odore come di fumo? Mira sulle creste rocciose: i pochi alberi che v’erano sono ridotti a neri stecchi».
«Un incendio, per certo opera delle malefiche bestie di cui questi luoghi sono infestati, le quali tanto hanno in odio tutto ciò che la Sacra Ivon ha in amore».
«Se fu un incendio, allora fu assai vasto».
«Non darti pensiero, e fa’ silenzio ora. Siamo quasi giunti».
Thranduil fermò il cavallo ai piedi delle grigie mura, e attese. Un corvo gracchiò, e il suo verso roco rimbombò per tutta quanta la tetra valle. Una manciata di sassolini scivolò giù dal fianco del pendio destro: Thranduil volse di scatto la testa verso quella fonte di rumore, e quasi stava per dare segnale agli arcieri, credendo che gli Orchi si fossero finalmente rivelati.
Per buona sorte si accorse in tempo di aver avuto un abbaglio, e nessuna freccia venne erroneamente scoccata. Si impose dunque di rimanere freddo e lucido, perché sapeva che perdere padronanza di sé avrebbe portato solo altre disgrazie. Ma era impossibile trovare concilio tra i pensieri che si scornavano nel suo cuore: da una parte, bramava immensamente che gli Orchi gli mostrassero Filigod; dall'altra, temeva che, se avesse urlato alle silenti mura una simile richiesta, essi avrebbero appeso il suo cadavere fuori dalle feritoie.
Ma questo terribile dilemma si risolse da sé pochi istanti dopo, quando sui bastioni iniziarono ad ammassarsi centinaia di Orchi, e alle finestre e alle feritoie si accalcarono Goblin e Orchetti arcieri, e ognuno di essi urlava come fossero un branco di cani in agonia. Infine giunse sul torrione più imponente un grosso Orco, raccapricciante da vedersi come ogni altra creatura del suo stesso lignaggio. Non era equipaggiato con i rozzi artefatti della sua razza, ma portava spadone e armatura di nobile fattura, alcuni manufatti elfici e altri che parevano dúnedain.
«Non occorre che parli elfo, sappiamo perché sei qui», iniziò così a dire il grande Orco, che evidentemente comandava su tutti gli altri, e la sua voce era tonante e spaventosa quasi più del suo aspetto.
«Liberatela», disse Thranduil, e la voce gli uscì così flebile e poco convinta che non era sicuro di essere stato udito. Tuttavia non osò dire altro, poiché qualsiasi cosa gli venisse in mente gli pareva essere la più sbagliata di tutte.
«Liberatela, tu mi chiedi. Tu. Chi sei tu, Thranduil, per credere di dare ordini a me, a Curzmar, che sta a guardia del corridoio di Gundabad e regna su questi luoghi? Tuttavia te la mostrerò, elfo insolente, e vedrai con i tuoi stessi occhi se ancora vale la pena riaverla indietro».
Thranduil scese da cavallo, e gli pareva di non saper più camminare. Vide Curzmar scomparire, e riapparire poco dopo in un coro di risa malvagie. Trascinava con sé Filigod, e la teneva davanti al proprio corpo alla stregua di uno scudo. Ella era nuda, e ferita, e al posto dei suoi lunghi capelli ora vi era una corta chioma ispida, eppure era viva.
«Adesso voglio vederti supplicare, elfo. Voglio vederti sporcare le tue preziose vesti nel fango, e piegarti dinnanzi a Curzmar di Gundabad. Voglio che getti la tua corona ai miei piedi, e che mi riveli l’ubicazione delle porte per il reame nascosto. Se costei vale così tanto per te, voglio in cambio qualcosa che valga il doppio almeno».
Ogni Elfo del Reame Boscoso, ogni Uomo di Esgaroth, ogni Nano di Erebor, anche il più umile di essi, chiunque avesse mai veduto il Signore di Bosco Atro, o ne avesse almeno sentito parlare, sapeva di lui una sola cosa con certezza: quanto grande fosse il suo orgoglio. Ma coloro che gli erano più vicino sapevano anche che l’orgoglio del Re Silvano diventava un nulla, messo affianco all’amore ch’egli provava per Filigod, Luce di Luna.
Thranduil era la guida di tutti i Nandor che gli stavano alle spalle, nonché loro Re. Eppure si mise in ginocchio, e le sue vesti si lordarono; gettò via la sua corona, e divenne il più basso di tutti.
«A te, Curzmar di Gundabad, io consegno questa corona. Essa non è solamente un frivolo manufatto in oro bianco, essa rappresenta il diritto a governare su Bosco Atro. Ti prego, invero non posseggo nulla che valga anche un solo suo capello, ma dimmi ciò che vuoi, e io te lo darò».
L'Orco sembrò quasi commosso da cotanta devozione, ma ciò non poteva essere, poiché le corrotte creature di Morgoth erano incapaci di provare compassione verso il prossimo, e solamente erano abili a fingere e schernire.
«Calmati, elfo», disse Curzmar, «se risponderai bene, la tua regina avrà salva la vita. Infatti non mi porta a nulla ucciderla. Parla dunque: dove si trovano i cancelli del tuo regno?»
«A nulla ti porta, fuorché all’insensata malvagità insita nella tua stessa natura, infido abominio», disse Feren, pieno d'odio, tuttavia curandosi di tenere bassa la voce. Ma Thranduil neppure lo udì, e si affrettò dunque a rispondere:
«Ascolta: vi è un sentiero che prende abbrivo dai Cancelli della foresta, ma esso è ingannatore e facile sarà perdere la via, oltre che il senno, se lo seguirai senza averne confidenza. Esiste una via più sicura, e solamente i Silvani ne sono a conoscenza. A un tratto dell’Antica Via, ove i Monti della Notte si deprimono in una sella, vedrai una stele di pietra nera adornata con incisioni naniche, un segno di riconoscimento che io feci fare per i Naugrim di Dor Lindon, i quali mi aiutarono a scavare le Caverne e le Grandi Sale del mio Regno. Se a quel punto ti addentrerai nella selva, verso Nord, incontrerai un’altra stele identica alla prima, ed essa segna l’inizio del cammino che ti condurrà alle sorgive del Ruscello Incantato, il quale va a confluire nel Fiume Selva. Attraversa il Fiume nel punto della confluenza, e ancora prosegui verso Nord: incontrerai una radura di mirtilli, e un masso forcuto al centro di essa. Dietro il masso, se aguzzi gli occhi, scorgerai un sentiero non più largo di tre spanne, nascosto tra l’erba alta. Esso proseguirà verso Nord per un miglio, e infine giungerà alle Porte».
«Saprò se hai detto la verità, Thranduil. Conosco fin troppo bene con quale facilità il tuo spregevole popolo ostenta la menzogna».
«Non ti ho detto alcuna menzogna! Credi forse che rischierei la vita di mia moglie e di mio figlio?»
«Io davvero non credo che rischieresti la vita di tuo figlio, per questo dubito che tu abbia detto la verità. Si dice che tu già abbia un figlio, oltre quello che cresce nella pancia di questa selvaggia», sputò Curzmar con disprezzo, e strattonò Filigod afferrandole in un pugno i corti capelli, e stringendola a sé con violenza.
«È la verità, questa che ti ho appena descritto è la strada per giungere al mio Regno, e se vuoi te la ripeterò ancora, e ancora, e ancora una terza, una quarta, una quinta volta, e ogni volta dirò uguale: la stele, il ruscello, la radura di mirtilli, poi il masso forcuto. Sempre guardando il Nord».
L'Orco guardiano di Gundabad sembrò infine credergli, e tuttavia Thranduil non gli aveva mentito.
«Dunque, cos’altro sei pronto ad offrirmi perché io te la renda?»
«Già ti ho offerto questa corona, assieme all’ubicazione del mio Reame: non solo regnerai sul Corridoio per il Nord, ma su tutta quanta la vastità di Bosco Tetro. C’è forse qualcosa di più prezioso che potrei offrirti?»
«È vero, mi hai rivelato dove sono site le porte nascoste, sempre se ciò che hai detto corrisponde a verità. Ma non sono uno stupido: dopo che ti avrò ridato tua moglie, sarai tu a condurmi là, e prima che io entri farai in modo che tutti i tuoi soldati escano, e davanti a loro mi eleggerai re».
«Così farò», rispose Thranduil, abbassando il capo, seppure gli fu difficile distogliere lo sguardo dalla sua amata, ancora avvinta nelle putride membra dell’Orco. «Te lo giuro. Ora liberala, te ne prego».
«Ancora non mi fido, elfo. Vedo che i tuoi sono ancora armati e in allerta, ordina che gettino lontano gli archi e le spade».
«Questa sarebbe una richiesta ragionevole, o Curzmar di Gundabad, se anche i tuoi abbassassero le loro armi, ma io vedo che ancora molte balestre sono puntate su di noi, e molte frecce aspettano solo un tuo cenno perché siano scoccate».
«Questa è una richiesta ragionevole, o Thranduil lo stolto, poiché questa è la mia casa e tu sei un invasore, e poiché la vita di costei, e del figlio che costei porta in grembo, sono ancora nelle mie mani. Dunque fa’ ciò che ti ho detto, presto!» lo incalzò Curzmar, e strinse ancora più forte il pugno sulla nuca di Filigod. Ella era immobile, vinta dalla rassegnazione, ma anche se l’Orco le teneva il capo costretto verso l’alto, si sforzava comunque di volgere gli occhi in basso, e tenerli fissi su Thranduil.
Il Re Silvano si piegò nuovamente al volere del malvagio, e fece cenno a Feren che tutti gettassero via le armi. Mentre egli stesso si sbarazzava delle spade, dell’arco e dei pugnali che portava seco, solo allora si accorse che le mani gli tremavano, e neppure con la forza riusciva a fermarle.
D'un tratto, senza alcun preavviso, un vento anomalo si levò, e i neri stendardi degli Orchi vennero scossi con tale violenza che alcuni di essi volarono via. Un rumore come di grosse ali che si dimenavano si udì provenire, in apparenza, da dietro il fortilizio; poi, così come era arrivato, il vento cessò di colpo.
«Cos’era?» sussurrò Feren, rivolgendosi preoccupato al suo Re, «forse è che le bestie sono riuscite a ridurre in catene una delle nobilissime creature di Aran Einior?»
«No», rispose Thranduil, «questo non può essere».
«Dunque sarò io a regnare su Bosco Atro, elfo? Scaverò fossati da qui sino Colle Stregato, costruiremo un grande muro, e vi saranno sentinelle su di esso, notte e giorno, così che nessuno possa più passare da Est a Ovest e viceversa senza che noi lo permettiamo. Saresti pronto a sacrificare la tua gente, e la libertà di tutta la feccia che ancora vive ignava e godereccia in queste regioni, solo per riavere indietro questa che tu chiami regina, che invero somiglia più a una sporca serva?» Curzmar ghignò, e tutti quanti gli Orchi risero con versi gutturali e sguaiati. Allora Curzmar rise anch'esso, e ancora disse: «ma chi mai chiamò nobili e benevoli gli elfi dell’Ovest? Chi mai li chiamò saggi, integerrimi, incorrotti? Essi non sono altro che meschini ed egoisti. E voi, voi piccoli elfi dei boschi, che ancora sottostate a questo traditore, perché non vi ribellate? Perché non impugnate le armi che avete appena gettato via e non lo dilaniate di frecce? O siete così stolti da voler morire perché il vostro nobile re abbia di nuovo spasso per i suoi lombi?»
Altre risa malevole si levarono dalle schiere degli Orchi, come una fragorosa ondata di fango. Thranduil si accorse che Feren era traboccante d’ira, i polsi gli tremavano e guardava con desiderio il proprio arco, abbandonato a pochi metri di distanza. Quanto avrebbe voluto difendere l’onore del suo Signore, che le parole dell’Orco erano talmente ingiuriose e sprezzanti da non potersi sopportare; ma non poteva fare nulla, nessuno di loro poteva, dovevano rimanere acquattati, piegati dinnanzi a un verme vestito in oro e argento, e fingere di asservirlo.
«Dunque questo è il patto, elfo. Io, Curzmar, regnerò su Bosco Atro, e possederò tutto ciò che tu sino ad oggi hai posseduto, tranne questa tua regina».
«Siamo d’accordo: Bosco Atro e tutto quanto il mio Reame, in cambio della sua vita, e della vita di mio figlio. Solamente questo ti chiedo».
«Siamo d’accordo dunque», ripeté l’Orco, e la sua faccia era sfigurata da un orrendo ghigno. Ma fu allora che, invece di lasciare la presa sui capelli di Filigod, la costrinse a piegarsi sulle ginocchia, e alzò la lama, ed ella non cercò nemmeno di dimenarsi, poiché già sapeva, avendo udito i discorsi che gli Orchi avevano fatto alle sue spalle, i quali non erano potuti giungere alle orecchie di Thranduil.
Thranduil venne colto da vertigine, tanto che tentò di alzarsi in piedi ma subito ricadde in avanti, e tutt’attorno il mondo fu silenziato.
Ed ella gridò, prima che il pugnale affondasse nel suo addome:

«Ahimè Thranduil, volevi la mia salvezza, ma sei stato la mia condanna. Non ci rivedremo più!»

Curzmar scaraventò il suo corpo fuori dai bastioni, ed esso cadde su un monticello di pietrisco, poco distante dai piedi di Thranduil. Tuttavia parve quasi non fare rumore, ma Filigod cadde lieve e silenziosa, come una verde foglia che abbandona l'albero anzitempo, o piuttosto come un passero colpito da un dardo, che cadendo tiene le ali aperte, e pare che invece di morire compia un ultimo volo.
A quel punto, i Silvani ripresero all'istante in mano le armi, e frecce vennero scoccate da ambo le parti. Ma Thranduil non sentiva i rumori della battaglia; si trascinò a fatica sul cumulo di pietre ove Filigod giaceva, inciampando e cadendo tra i ciottoli, e scivolando sull'infida ghiaia. Quando vi giunse, cadde carponi e la prese tra le braccia. Il suo corpo era nero di polvere e rosso di sangue, nulla rimaneva del candore della sua pelle, o della viva luce che la sua chioma emanava.
Thranduil la guardò per un lunghissimo momento, continuando a stringerla, immaginando che dietro le sue palpebre chiuse si specchiassero ancora le Stelle dell'Ovest. Il dolore che provava era tale da soffocarlo, e renderlo cieco e sordo, e incapace di muovere gli arti.
«Liberate le bestie! Liberate i dominatori del cielo! Liberateli!» comandò l'Orco Menzognero alla sua marmaglia. Poco dopo, di nuovo si udì il rumore di mastodontiche ali che si aprivano e si chiudevano, e un tremendo ruggito rimbombò nella valle.
Thranduil era abbandonato a sé stesso e non percepiva il pericolo, benché tutt'attorno la battaglia infuriasse, e già i suoi soldati cominciavano a cadere. Ma se ogni possibilità di dialogo era stata vanificata, tutti loro sapevano bene che resistere era inutile, poiché cento Elfi intrappolati in una conca nulla potevano contro un'intera armata di Orchi e Goblin, asserragliati dentro dei fortilizi. Tuttavia Thranduil era stato risparmiato dalla prima pioggia di dardi poiché si trovava a ridosso della muraglia, nascosto alla vista di chi vi stava sopra. Di nuovo strinse Filigod tra le braccia, e le mani e le labbra gli tremavano senza sosta.
«I Draghi mio Re! Dobbiamo tentare la fuga!»
«Thranduil! Thranduil! Alzati o morrai!»
Fu Feren, con l’aiuto di due suoi compagni, a strapparlo via da Filigod.
«No, no, lei non può cadere qui… questo luogo non può essere la sua tomba… devo riportarla a casa…» e così andava dicendo, Thranduil delirante, mentre Feren suo salvatore con la forza lo trascinava lontano dalle fiamme.
«Vinci il dolore, Thranduil, e ricordati del figlio che ancora non hai perduto!»
Trovarono riparo dietro un grande masso spiovente, e Thranduil si accasciò a terra, con la schiena poggiata contro la pietra, e gli occhi fissi nel vuoto. Le sue guance erano bagnate, e boccheggiava, come incapace di respirare.
Il terreno si oscurò per un momento, come se una nube velocissima fosse passata sopra le loro teste. Ma una nube non era: Thranduil alzò gli occhi al cielo, e sembrò solo in quell’attimo accorgersi di quale rovina incombeva su di loro. Volse lo sguardo verso coloro che l’avevano seguito, e che ancora gli erano fedeli, e colse la paura nei loro occhi, la medesima paura di un navigante che, solo in mezzo al grande mare nero, vede spegnersi le stelle. Nessuno di loro aveva mai visto Thranduil così inerme, e senza la sua forte guida erano come senza speranza: perduti.
«Dunque era questo ciò che tenevano celato nelle bocche di Gundabad. Siam perduti», disperò una giovane voce, che Thranduil non riconobbe.
«Feren, le mie spade», disse, e sorse in piedi. A vedere quella ripresa, gli occhi dei Nandor presero nuova luce, e assieme al loro Re anch'essi imbracciarono le armi.
Thranduil uscì allo scoperto, e vide che le possibilità di salvezza erano ben poche. Due abominevoli Serpenti solcavano il cielo, e gli Orchi colpivano dall’alto con le frecce. Ora, le schiere del maligno si erano palesate anche sulle Porte meridionali, e mai sarebbero riusciti a passarvi oltre senza cadere sotto i colpi di innumerevoli dardi.
Allorché Thranduil iniziava a disperare, e vedeva la morte venirgli incontro; eppure, una tenue luce di speranza venne appiccata proprio dalle stesse bestie che i malvagi abomini di Morgoth credevano di domare: mosso da un forte odio suscitato dal ricordo delle catene, il più giovane dei due Draghi si disinteressò degli Eldar e si abbatté invece sui bastioni grigi, seminando terrore e distruzione tra le fila degli Orchi, i quali corsero a ripararsi nel ventre della montagna. I Silvani presero vantaggio di quell’insperato smarrimento per correre verso i Cancelli meridionali, ma lì ancora molti arcieri, incalzati e frustrati da un secondo generale di Gundabad, rimanevano a presidiarli. Il passo era chiuso.
In quel mentre, quando ancora erano indecisi sul da farsi, planò davanti a loro Ssivekad, il Grande Verme del Nord, e il terreno tremò sotto le sue possenti zampe. Anche se esso era un Drago dei Ghiacci e non faceva parte degli Urulóki, quasi li eguagliava in possanza, ed era uno dei pochi della sua razza a covare il fuoco nello stomaco, sebbene potesse scatenarlo solamente poche volte nell’arco di un mese, poiché il fuoco, una volta consumato, impiegava molto tempo ad impastarsi nel suo ventre. La sua arma più letale erano invero le zanne e gli artigli, e la velocità con cui si muoveva, pari a quella di un’anguilla che guizzava nei fossi.
Thranduil sollevò in alto le spade e chiamò a sfida il Drago, mentre tutti insieme i suoi arcieri tendevano gli archi. Ssivekad teneva la pancia ben protetta, e sibilava nella sua lingua parole che il Re elfico non riusciva a discernere. Non potendo più usare il potere del fuoco, il Serpente sbatté le ali con tutta quanta la sua forza.
Thranduil barcollò all’indietro, e la bestia ne prese vantaggio, avventandosi su di lui. Sopraffatto dalla forza con cui Ssivekad gli piombò addosso, Thranduil perse una delle due spade, e Feren, vedendolo soccombere, ordinò agli arcieri di abbattere sulla bestia tutte le frecce che avevano incoccato; poi estrasse egli stesso la spada, e accorse in aiuto del suo Re, mentre i Silvani attaccavano dalla distanza.
Thranduil fronteggiò Ssivekad di muso, ma la sua lama non riusciva a penetrare sotto le sue scaglie bianche, né poteva recidere i suoi artigli, o scheggiare le sue zanne. Fu uno scontro lungo e logorante, poiché il malvagio Ssivekad godeva nel vedere il Re elfico esaurire poco a poco le sue forze. E quando Thranduil cominciò a non essere più in grado di schivare gli attacchi del Drago, fu allora che il Drago smise di giocare, e si apprestò ad ucciderlo. Ma in quell’attimo, lesto Feren scivolò sotto il suo ventre, e con tutta quanta la sua forza vi conficcò la spada. Ssivekad emise un terribile lamento e rimase immobile, tramortito dal troppo dolore. Eppure la spada non era penetrata in profondità, e grattando furiosamente con gli artigli la bestia riuscì ad estrarla dal proprio addome. Thranduil colse il momento propizio: veloce imbracciò l’arco e incoccò una freccia, e pur non essendo mai stato particolarmente abile a tirare, riuscì a colpire l’occhio del Drago, dando così il tempo a Feren di mettersi in salvo.
«Meriti questa sorte! Altro non sei che uno schiavo di Morgoth, meriti questa sorte, e meriti le catene! Ora muori!» così parlando, Thranduil si apprestò a finirlo.
Ma il furioso Ssivekad, ferito e cieco da un occhio, prese il volo, dispiegò le grandi ali e caricò in avanti. E, nel sollevarsi da terra, accidentalmente colpì con le grosse zampe posteriori il volto di Thranduil. Gli affilatissimi artigli affondarono senza alcuno sforzo nelle sue carni, e per la forza con cui vi si conficcarono Thranduil venne trascinato appresso al Drago per diversi metri. Infine, quando Ssivekad si sollevò, egli rovinò a terra urlando di dolore.
«Elfo inssolente ssì, ora ssaprai cosa ssi prova a guardare il mondo a metà», così parlò il Drago nella sua lingua incomprensibile, mentre accecato dal furore si dirigeva verso i Cancelli meridionali, deciso ad abbattere la sua vendetta sugli Orchi che l’avevano tenuto a lungo prigioniero. Il fratello rispose all’eco del suo furibondo richiamo, e la sua voce proveniva da lontano, oltre il valico settentrionale di Gundabad, dove avevano inizio le desolate contrade di Angmar.
In molti credettero che il Signore del Reame Boscoso fosse di già perito, ma Thranduil sopravvisse, seppur con il volto sfregiato da una gravissima ferita. Raccolse le ultime forze per fuggire oltre i Cancelli meridionali, sui quali si erano avventati i due Fratelli Alati, e i quali stavano facendo strazio degli Orchi.
Ssivekad cadde nell’assalto, colpito dalle infide macchine da guerra, ma il Serpente minore riuscì a fuggire verso Nord, oltre i Monti Grigi.
Dei cento guerrieri elfici che avevano seguito Thranduil oltre le Porte di Gundabad, solamente venti sopravvissero. Gli altri caddero anch’essi sotto la pioggia di dardi, mentre tentavano di attraversare i Cancelli. Tuttavia, se i Serpenti non avessero deciso di rivoltarsi contro i loro stessi padroni, non vi sarebbe stata alcuna speranza di salvezza, per nessuno di loro. Le creature che gli Orchi avevano pensato di poter usare come arma invero si erano rivelate la loro rovina.

Non appena furono al sicuro, celati nell’ombra delle propaggini di Bosco Atro, smisero di correre. Feren fece la conta di quanti Silvani erano sopravvissuti, e vide che erano ben pochi.
«Oggi è giorno di grande dolore», sospirò amareggiato, non potendo trattenere le lacrime.
Thranduil si aggirava nel sottobosco come se stesse sognando: toccava la corteccia degli alberi come se fosse la prima volta che li vedeva, e attorno a sé vedeva solo una densa tenebra, poiché le forze lo stavano abbandonando, e la sua vista andava scurendo. Il suo volto era una maschera di sangue, la guancia sinistra era scarnificata e l’occhio sinistro divenuto cieco. Pareva un prodigio che, in un tale stato, egli avesse trovato la forza di correre lontano da Gundabad.
D’un tratto sentì come se la sua ora fosse infine giunta, e crollò in ginocchio, la destra che ancora artigliava il tronco di un albero, in un estremo tentativo di rimanere ritto.
«Feren, Legolas…» mormorò, prima di cadere.

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Capitolo 5
*** Cabeduin Meduilin ***


Cabeduin Meduilin








Thranduil marciava avanti e indietro, davanti ai cinque guerrieri di Eredion schierati, e ad Eredion stesso inginocchiato al suo cospetto. Brandiva la spada e la impugnava con tale rabbia e vigore che l'elsa avrebbe potuto crepare nella forza del suo pugno. La metà sinistra del suo viso era celata dietro soffici bende di lino: la ferita era sì in via di guarigione, ma sarebbe rimasta per sempre un'orrenda cicatrice a sfregiare la beltà del suo volto. Tuttavia già era gran cosa ch'egli fosse sopravvissuto, poiché oltre ad essere affilatissimo l'artiglio del Drago era fetido, e incrostato di lerciume.
Così pendolando come un'anima che non riusciva a darsi pace, iniziò a parlare con tali aspre parole: «tu come lo puniresti, il tradimento? Ti potrei considerare alla stregua di un cospiratore, in combutta con Curzmar il Menzognero per massacrare la mia famiglia», disse, e seppur si sforzasse di mantenere la sua consueta calma, era palese a tutti che la sua voce era sì calma, ma screpolata poiché tesa al limite, e sul punto di rompersi.
«Hai lasciato che quella scorribanda di assassini attraversasse liberamente il nostro Regno, entrasse impunemente nei nostri confini, e non hai fatto nulla, nulla. Nulla tranne correre come un codardo a rifugiarti dietro le Porte. La tua negligenza ha portato la rovina su di noi, per questi giorni e per i giorni che seguiranno. Dunque dimmi, tu come lo puniresti, un tradimento di tale portata?»
«Vi supplico, mio Signore Thranduil, ho agito credendo di far bene. Non volevo condurre a morte certa tutti quanti i miei soldati. Non potevo sapere, non potevo sapere...» e così rispose Eredion, cominciando a piangere e a scuotere la testa inquieto. Ma ben presto la sua inquietudine si tramutò in disperazione, quando negli occhi impietosi del suo Sovrano iniziò a scorgere la sua sorte.
«Hai condotto a morte certa la mia Regina. La tua Regina! La madre di mio figlio! La madre del tuo principe!» Urlò Thranduil, e la calma gli sfuggì di mano. Eredion portò le braccia a coprire il volto, e si ritrasse, come se un forte vento gli soffiasse contro.
«No, non gettatemi addosso il peso di questo orribile delitto... Io non sapevo, io non potevo sapere...!»
«Basta, silenzio, non lagnarti più». Thranduil impose il silenzio alzando una mano, e al suo comando ognuno smise di parlare. Gli unici rumori che si udivano nelle echeggianti Aule del Trono erano lo scrosciare dei torrentelli e i singhiozzi che Eredion non riusciva più a trattenere in gola. Feren, in piedi accanto al suo Re, era rigido e pareva non respirasse neppure, tant'era muto e immobile.
«Non hai più motivo di lagnarti, ora, poiché già ho deciso. Pagherai con la vita la tua negligenza. Tu e tu solo, i soldati che ti seguivano obbedivano ai tuoi scellerati comandi e non hanno le tue colpe, tuttavia non li vorrò più nel mio Regno. Voi altri sarete per sempre banditi dal Reame Boscoso, e tu Eredion verrai messo a morte, ora. Così ho deciso». Emessa la sentenza, dalla folla dei presenti si levò un mormorio concitato, ed essi si agitarono come cime di abeti scossi dal vento. Eredion oramai rassegnato al suo destino piegò la testa e più non parlò.
Feren prese Thranduil di petto e parlò veloce, pur cercando di mantenere il consueto decoro che si frappone tra un capitano e il suo Re.
«Mio Signore, riconsidera questa tua decisione, te ne prego. Da quando furono fondate, queste Sale mai hanno visto il sangue. Sei logoro di rabbia e di dolore, e ciò ti porta fuori strada. Questo disgraziato non è innocente ma non ha le colpe che gli hai addossato. Concedigli l'esilio, te ne prego!»
Ma a nulla valsero i tentativi del leale Feren, poiché Thranduil, per orgoglio, mai sarebbe tornato sui propri passi dopo aver esposto davanti a tutti la sua volontà, con tale sferzante decisione. Esisteva una e una sola persona che mai avrebbe potuto fargli volgere indietro il capo, la quale era Filigod Luce di Luna, ma Filigod Luce di Luna oramai era ceneri e ossa nere disperse nella grigia conca di Gundabad.
«Così ho deciso», disse di nuovo Thranduil, ricalcando con durezza le sue parole. E Feren seppe di non poter fare altro per Eredion, seppur non si pentisse di aver tentato di salvargli la vita dall'inconsulta ira del Re.
Thranduil fece cenno alle guardie, e prese congedo prima che venisse eseguita la sua volontà, e non poté sentire Eredion maledirlo assieme alla sua Casa e ai figli che aveva e che avrebbe avuto, prima che la gola gli si riempisse di sangue.

La notte, il Re dei Silvani varcò le Porte Blu e uscì in Bosco Atro. Il cielo era coperto a macchie da sporadiche nubi, e su ogni cosa cadeva un nevischio bagnato. La mattina, le foglie degli alberi erano incrostate da una bianca patina di brina, che alle volte rimaneva fin verso mezzodì. Da Nord, i venti recavano un gelido messaggio: l'autunno giungeva al termine.
Accadde che Thranduil, così vagando per la foresta in cerca di quella pace che oramai aveva perduto, per beffa della sorte capitò sulla via di Filigod, la via che tanto aveva cercato la notte in cui la portarono via. Nel fitto del roveto, vi trovò intrappolati lembi della sua veste d'argento, e notò che alcuni rami erano spezzati. Così seguendo questa traccia, giunse su un ampio balcone erboso, sgombro da alberi. Thranduil conosceva quel luogo: Cabeduin-meduilin veniva chiamato nella Lingua dei Sindarin, anche se egli ignorava chi fosse stato il primo a nomarlo in quel modo.
Si affacciò sul pendio, immaginando che anche Filigod vi si fosse attardata, e lasciò che la vista spaziasse, libera dall'impedimento degli alberi. Nella landa, le chiome dei sempreverdi erano vagamente spruzzate di neve, mentre le nude famiglie di latifogli bucavano il tetto fronzuto della selva come nugoli di spine nere.
Non era molto distante dal cocuzzolo di rovi sul quale si era arrampicato nove notti addietro, nella speranza di scorgerla. Lo poteva vedere ergersi un poco sopra il livello delle chiome, a Sud-Est.
Vide anche il luccichio del Ruscello Incantato, il quale si snodava tra gli alberi e a volte sfociava in radure erbose, talune ampie talune anguste. Ricordò di averne seguito il corso, praticando quella stessa via che poi aveva rivelato all'Orco Menzognero di Gundabad, con la lingua resa sciolta dalla paura. Se solo avesse alzato gli occhi, avrebbe potuto vederla, in piedi sulla rupe, con gli occhi colmi di angoscia e il cuore lacerato dal dilemma. O avrebbe potuto vedere, alle sue spalle, gli Orchi che gli venivano dietro.
Di un tratto, ogni cosa fu chiara, e le ultime parole che Filigod aveva gridato presero senso. E ciò fu peggio della morte stessa, che Thranduil si sentì stritolare il cuore come se una mano possente ne stesse spremendo ogni goccia di sangue, e affossò in un nero pantano di colpe, dal quale non riuscì più ad uscire per molto, molto tempo.



*





«Mio Re, dama Suilannen dice che vostro figlio di nuovo non mangia».
Non appena Thranduil aveva fatto ritorno alle Porte, subito una delle sue guardie più fidate gli era corsa incontro, e con aria grave gli aveva detto queste parole.
«Ditele che arriverò tra poco, e che d'ora innanzi me ne prenderò cura io. Ora, vai».
«Sì mio Signore», asserì la giovane guardia, intimorita dalla freddezza del suo Sovrano. Thranduil a malincuore sapeva che, in futuro, sarebbe stato più temuto e forse meno amato, soprattutto da coloro che non lo conoscevano a fondo, da coloro che non avevano vissuto assieme a lui il massacro di Dagorlad, e il massacro di Gundabad. Il sangue del povero Eredion ancora non era venuto via del tutto dal pavimento della Grande Sala, il legno lo aveva assorbito nelle sue venuzze, e vi sarebbe sempre rimasto un vago alone rossastro.

Entrando nelle Sale della Luna Thranduil venne colto da un forte malessere, e si sentì alla stregua di un forestiero. Più di ogni altro luogo dopo Neldoreth, quello era il Rifugio di Filigod, anzi di più: Neldoreth era stata il suo Rifugio, le Sale furono i suoi dominii. E Filigod era l'assoluta Signora di tutto ciò che guizzava, volava, scalpicciava in quel luogo. C'era da stupirsi che, sebbene Filigod fosse morta, le cose continuavano a guizzare, a volare, a scalpicciare senza il suo accordo.
A un primo sguardo, Thranduil non vide la vecchia Cerva, e pensò fosse andata a morire in un anfratto nascosto, giacché oramai il suo tempo era terminato. Le sue figlie rimanevano appresso all'acqua, quiete ma vigili: i loro occhi rossastri seguivano ogni suo movimento clandestino. La neve aveva cominciato a posarsi copiosa, ove il terreno non era coperto dalle rientranze delle pareti rocciose.
Thranduil avanzò tra gli abeti rossi e i radi arbusti profumati, e si addentrò più all'interno, ove il terreno diveniva un materasso di muschio alto e colorato. Perso tra i suoi pensieri, giunse alle Grotte Bianche, laddove confluivano tutti i ruscelli che irroravano quei luoghi, sin quelli che zampillavano lungo le pareti delle Grandi Sale, tutti venivano a sfociare in quella bocca buia, e nessuno sapeva in quale punto sarebbero poi sboccati all'esterno, seguendo quel budello troppo stretto perché chiunque potesse avventurarcisi. Con tutta probabilità, era traverso quella breccia che il Cervo Bianco era fuggito. Thranduil entrò appena sotto la volta di roccia, e vide con meraviglia che la vecchia cerva non era affatto morta. Così accovacciata in un angolo riparato, a ridosso della parete, Thranduil non vide subito cosa nascondeva tra le zampe, ma quando si avvicinò, curioso di sapere, vide un cerbiatto, nato da poco, e il suo manto non era bianco ma di un tenue marrone, del medesimo colore delle foglie autunnali.
Thranduil non poté dire se quell'animale fosse figlio della cerva, partorito assieme al fratello perduto, o se fosse capitato lì attraverso il medesimo passaggio che l'altro aveva usato per uscire. Ma, guardando le sue grosse zampe, intuì che sarebbe diventato un animale imponente, e che non era comune. E decise di tenerlo per sé.



*





Dama Suilannen accolse il Re sulla soglia delle sue camere. Ella era un Sindar di antico lignaggio, e pure aveva vissuto alla corte di Thingol nelle Ere addietro, e nelle sue caverne aveva appreso l'arte di alleviare i dolori, e guarire alcuni tra i malanni e le ferite meno gravi. Aveva aiutato Filigod a dare alla luce Legolas, e non fu un semplice compito poiché il suo fu un parto lungo e difficile; tuttavia, pur non essendo abile come levatrice, Suilannen riuscì ad esserle di grande aiuto, e Thranduil le sarebbe sempre stato grato per questo. Ma quella notte le si mostrò tutt'altro che grato: benché ella si fosse presa cura di Legolas nei giorni in cui egli giaceva incosciente, la congedò in fretta e con parole brusche. Suilannen poteva comprendere i motivi di quella scortesia, e nel suo cuore non se n'ebbe a male.
Thranduil si chiuse la pesante porta di quercia alle spalle, e si sentì nella sua camera così isolata come in un rifugio. Ma nemmeno in quel rifugio poteva trovare la sua pace, poiché vi era invero un grande vuoto, scavato nella metà del suo letto.
Si avvicinò alla culla bianca di Legolas, che ancora a quell'ora della notte aveva gli occhi vispi e il viso corrucciato. Lo guardò per un lungo momento mettersi le dita in bocca e lamentarsi, poi lo sollevò e lo prese in braccio. Prese il bricco di ceramica pieno di latte che Suilannen aveva lasciato, e portò il beccuccio, toppato da una pezzuola, alla bocca del figlio. Era ancora tiepido.
Si sedette sul letto e tenne Legolas tra le sue braccia, con la testa leggermente sollevata. Forse avrebbe dovuto cantargli una canzone, un buon padre l'avrebbe fatto, ma ne conosceva solamente di tristi, o le altre le aveva dimenticate, per cui accantonò l'idea.
Legolas succhiava qualche sorso, poi voltava la testa e si perdeva a guardarsi attorno, e solo dopo alcuni minuti tornava a mangiare. Era come se il latte di asina lo ripugnasse, e Thranduil poteva capirlo, poiché da quando era venuto al mondo non aveva conosciuto altro sapore che quello del latte e del seno di Filigod.
«Come vorrei che anche nei tuoi ricordi vi fossero le luci e le volte di Menegroth. A Menegroth nessun cibo ti avrebbe ripugnato, nulla ti avrebbe ripugnato, al di fuori del pensiero che quei luoghi un giorno potessero svanire. Menegroth era la Luce del nostro popolo».
Thranduil si soffermò un momento a pensare come dovesse apparire una luce sotto l'acqua.
Quando Legolas, a tentoni, ebbe finito il bricco per metà, voltò la testa e più non volle mangiare.
Dunque Thranduil cessò di insistere, si levò in piedi e tenne il figlio poggiato contro il proprio torace. Ciondolò da un piede all'altro per conciliargli il sonno, e lo strinse forte a sé.
«Stavano inseguendo me», disse, e pianse, in silenzio.



*





Nei giorni che seguirono, Re Thranduil ordinò che il trono gemellare, costruito apposta perché i due sovrani sedessero alla medesima altezza, venisse distrutto. Fece questo poiché, egli diceva, vi era una e una sola Regina di Eryn Galen, e mai ve ne sarebbe stata un'altra per i tempi in avvenire.
Bosco Atro si chiuse su sé stesso, ingobbendosi e incupendosi, e il suo Signore fece uguale.
Thranduil non era vendicativo per sua natura, e perciò non cercava la vendetta; di contro, divenne ancora più attaccato alle cose che gli erano rimaste: suo figlio, il suo popolo, la sua Casa. Ritenne che il modo migliore per tenerle al sicuro fosse chiudersi dentro, aspettando che fuori l'Ombra passasse oltre. Ma l'Ombra più gravosa non avrebbe mai più potuto lasciare Thranduil, poiché essa era nei suoi ricordi.
Egli continuò a volgere i suoi sforzi e le sue attenzioni sempre più all'interno che all'esterno del suo Regno, e all'interno diveniva bellissimo, ricolmo di ricchezze e di luci, e le Sale della Luna parevano davvero una remota radura di Doriath, per qualche strano artifizio andata ad incastonarsi lì, nel cuore delle Caverne di Thranduil.
Ma, fuori, il mondo marciva e decadeva, e la Selva crebbe contorta e gibbosa, senza custode né padrone.

Il perduto Cervo Bianco venne ribattezzato Dregol-aras, ma così come accade per molti nomi, con il passare degli anni i Nandor lo storpiarono, presero a pronunciarlo più speditamente e meno accuratamente, ed esso divenne Dregolas.
Dregolas fu per molti secoli nulla più che un'ombra, e si apprestava ad entrare nel coro di favole e leggende che aureolava Bosco Atro. Ma, passati che furono nove secoli, Dregolas ricomparve come un fantasma nella foresta. Lo scorse una sentinella, di notte, una notte in cui la luna era tonda e il cielo sereno. Un Cervo Bianco, e bianche erano le sue corna e persino gli zoccoli; e gli occhi, vigili, non rossi ma color del ghiaccio.
«Ecco», disse Lagorhen la sentinella, ai suoi compagni di vedetta, «ecco, la nostra Regina è tornata! Ed ella sempre guarderà sui nostri confini, e mai aveva smesso di guardarvi! Ella È in Eryn Galen!» E i loro cuori si illuminarono di una fugace speranza, poiché da molto non sentivano chiamare Bosco Atro con il suo antico nome, e sperarono che, un giorno, ancora avrebbero potuto chiamarlo così com'era stato battezzato.
E questa, insieme ad altre cose liete ma cupe al momento stesso, iniziarono a pensare i Silvani di Thranduil, che dama Ithilglîn, così legata alle Selve di questo mondo, vi si fosse legata come presa da un amore mortale, e che il suo spirito si fosse annidato in Bosco Atro, ed esso continuava ad aleggiare tra gli alberi solenni e il soffocante intreccio dei rami cadenti.
Chi si avventurava per i sentieri della foresta percepiva la sua presenza, ora divenuta severa e dolente; percepiva i suoi occhi e il suo respiro e la sua pelle toccando la corteccia degli alberi, e credeva di ascoltare nel vento il suo lamento. Anche se non poteva sapere chi stesse osservando, il viandante sentiva che in Bosco Atro qualcuno lo osservava, osservava i suoi passi e i suoi movimenti clandestini, e odorava la sua paura, e talune rarissime volte lo sfidava ponendoglisi di fronte e fuggendo con un guizzo dalle sue frecce.



***





«Tu conosci un sacco di storie, non è vero?»
«Molte, e poche adatte a un bambino», rispose divertito Thranduil, mentre cercava di stare al passo col figlio. Legolas moriva di contentezza, ogni volta che il Re suo padre decideva di portarlo a spasso per Bosco Atro. L'autunno era calato assieme alle foglie, e Legolas aveva compiuto sei anni, abbastanza per iniziare ad imbracciare un arco. E il suo piccolo ed elegante arco in legno di betulla, costruito apposta per la sua statura e sufficientemente flessibile per l'esile forza del suo braccio, lo portava sempre con sé, assieme a una faretra ricolma di frecce dalla morbida punta di cotone.
Thranduil aveva deciso di portarlo nella foresta almeno tre volte al mese, da quando il leale Feren aveva soverchiato un suo tentativo di fuga. Quella volta, Thranduil l'aveva rimproverato a lungo e assai duramente, ma quando Legolas era scoppiato in lacrime, si era ricordato della sua gioventù trascorsa a Menegroth, e di quante volte avesse sognato le stelle del mondo di fuori, un mondo che, a causa delle eccessive premure che il padre gli dedicava, gli era precluso, e non vi era altro modo per lui di conoscerlo se non scappare.
«Ma io non sono un bambino come gli altri bambini, io sono un principe. Se tu sei il re, io che sono tuo figlio sono un principe», disse, e tese l'arco e vi incoccò una freccia, ma quando la rilasciò, questa invece che schizzare in avanti fece una giravolta all'indietro, e cadde malamente per terra.
«Che tu sia mio figlio non ho alcun dubbio, ma si è mai visto un principe che non sa tirare con l'arco?» Disse Thranduil, e ridendo raccolse la freccia e la ripose nella piccola faretra di cuoio che Legolas portava sulle spalle.
«Ad ogni modo, stasera se lo vorrai, ti racconterò di Coracero il Muschioso, uno tra i più vecchi Pastori di Alberi che vagò dai boschi dell'Oriente sino alle selve dell'Occidente, e andava in cerca... Legolas?»
Il piccolo Elfo era corso via tra gli alberi, e già Thranduil non lo vedeva più. Fece qualche passo verso il punto dove l'aveva visto scomparire, ma ancora non lo vide, e lo colse un moto di angoscia.
Lo chiamò di nuovo, ma nessuno rispose, se non un lontano eco svanito. Un merlo uscì dalle frasche con un velocissimo battito d'ali, e volò via verso la luce del tramonto. La luce, rossa e gialla, filtrava traverso i tronchi bianchi dei faggi, e dorava nell'aria un placido pulviscolo volatile.
Thranduil mise una mano davanti agli occhi, e tentò di vedere davanti a sé, controluce.
Lo chiamò una terza volta, senza ricevere risposta. Lo cercò ancora, senza trovarlo. E allora iniziò ad avere pensieri tenebrosi, iniziò a chiedersi dove l'avesse perso: un attimo prima l'aveva sott'occhio, un attimo prima gli parlava, e ora non c'era più. Che la luce lo avesse ingannato?
Proprio in quel mentre, Legolas sbucò fuori da un grosso cespuglio di bacche.
«Volevo solo farti uno scherzo...» disse, strisciando i piedi per terra, e distogliendo lo sguardo dagli occhi penetranti del padre. Aveva ben capito che ora era arrabbiato, e Legolas aveva sempre avuto paura dei suoi rimproveri.
«Mai più, se non vuoi passare i giorni successivi a studiare dentro la fortezza, come dovrebbe essere, invece che qua fuori a perdere tempo con l'arco».
Legolas abbassò lo sguardo a terra e non disse più niente. Thranduil lo conosceva e sapeva che stava cercando di trattenere le lacrime. Non voleva rovinargli la giornata solo perché per un momento aveva avuto paura, perciò decise a suo modo di scusarsi.
«Su, rimettiamoci in ordine. Hai un nido al posto dei capelli». Legolas tirò su col naso e rise, e Thranduil si piegò sulle ginocchia per raggiungerlo meglio. I suoi capelli biondi, tagliati alle spalle, erano pieni di foglie e spini, la treccia si era sfatta e le sue guance piene erano nere di polvere.
Lo ripulì alla meno peggio, spazzando via la polvere dal viso e dai vestiti. «Fermo, pazienta», gli disse tenendolo per i fianchi, mentre gli districava i capelli e li liberava dalle foglie e dagli sterpi.
Gli sciolse la treccia piena di pennacchi scappati dalla trama, e con pazienza e con cura la disfece e la fece di nuovo. Quand'ebbe finito, gli lasciò un bacio sulla guancia, benché Legolas scalpitasse per correre via.
«Volpe! Volpe!»
«Quale volpe? Io non ho visto niente», disse Thranduil trattenendo un sorriso, mentre guardava il figlio correre avanti, pur stando sempre alla portata dei suoi occhi. Corse avanti, e così, rivolto di spalle, con la luce contro e l'arco in mano, sembrava quasi essere già cresciuto.








Sui Passi di Filigod

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Capitolo 6
*** Cúranthaim ***


Cúranthaim








Il corno delle vedette suonò per tre volte tre suoni lunghi e melodiosi. I Silvani che dimoravano sui grandi faggi d'intorno alla Fortezza si sporsero dall'alto dei rami e allungarono il collo verso il basso, mentre alcuni scesero sulla strada. Un manipolo di soldati capitanati da Feren accorse alle Porte Blu, e per ultimo arrivò il Re, sprovvisto di corona e vestito con i colori della foresta, con spallacci di cuoio e scaglie verdi e oro di stoffa spessa. Due sottilissime trecce gli giravano attorno la testa per poi unirsi in una sola, sulla nuca. Sulle spalle portava un arco corto di nobilissima fattura, realizzato in legno scuro con incisioni dorate che correvano da un'estremità all'altra, e a giudicare dal suo aspetto intonso era stato usato rarissime volte, e mai in battaglia.
«Salute al Principe di Bosco Atro!» Gridò Lagorhen, la vedetta, che più di tutti vedeva lontano.
Dopo pochi attimi, un cavallo dal manto d'argento giunse al galoppo dal ramo settentrionale della Via, e dall'alto dei grandi faggi si levarono gioiose acclamazioni. La bestia fermò la sua corsa sul ponte di pietra, a pochi passi dal Re, e Legolas Verdefoglia ne scese con un veloce balzo.
Teneva alta la testa, e benché le sue vesti fossero provate da un viaggio non agevole, era vispo e fiero d'aspetto.
«Padre», lo salutò piegando la testa in segno di rispetto, ma nonostante si sforzasse di rimanere composto i suoi occhi brillavano di contentezza nel rivedere la sua Casa.
«Non appena ho saputo, mi sono affrettato verso le Porte. Legolas». Pronunciò il suo nome con orgoglio, e aprì le braccia come per accoglierlo una seconda volta alla vita.
«Padre», ripeté l'Elfo, di nuovo piegando la testa ma stavolta sfoggiando un ampio sorriso. «Ho forse interrotto qualcosa?» Domandò, notando le vesti per nulla eleganti che Thranduil indossava.
«Una memorabile battuta di caccia. Inseguivamo un cinghiale maschio grosso due volte un lupo, stavamo quasi per braccarlo quando sfortunatamente giunse l'araldo ad interromperci con la lieta notizia» disse, sorridendo di sbieco, e Legolas rise.
«Un vero peccato, avrei volentieri mangiato una fetta di quel cinghiale per cena».
«Se è questo che desideri, sarai accontentato! Le nostre cantine sono ricolme di ogni bene, e di carne di cinghiale ne abbiamo in abbondanza. Vieni, le Porte della Fortezza paiono spalancarsi di propria volontà al tuo passaggio. Da troppo tempo il loro Principe più non le varca».

Nelle sue stanze, le più arieggiate della Fortezza, Legolas trovò ristoro in un bagno caldo, e in una prima colazione ricca e abbondante servita a fianco di un braciere, dai cui mozziconi rossi e neri si gonfiavano e si diffondevano nell'ambiente i profumi agrodolci della foresta: profumo di pino, di resina, di muschio, e ancora di funghi e frutti di bosco. Ad aspettarlo sul letto vi erano piegate delle belle vesti da poco sfilatesi dalle svelte mani delle tessitrici elfiche. Non erano di eccessivo pregio, ma erano comunque comode e nobiliari al tempo stesso.
In quel mentre che Legolas ebbe finito di rifocillarsi, ed era indaffarato ad acconciare i capelli com'era sua maniera, il Re in persona bussò alla sua porta, ed entrò prima di ricevere permesso. Aveva dismesso gli abiti da caccia, e la corona era tornata a pesare sul suo capo.
«Tenti di viziarmi, padre».
«Non dire sciocchezze, sei appena tornato. Dammene il tempo», rispose prontamente Thranduil, con un sorriso ironico sulle labbra.
«Quando sarò là fuori, nelle contrade selvagge, miglia e miglia distante dall'ultimo focolare accogliente, non avrò pronta acqua calda per lavare via lo sporco del viaggio, e non troverò queste leccornie ad aspettarmi per colazione».
«Ma ora sei qui, e questa è la tua casa. Dimmi, intendi forse ripartire subito?»
«No, padre. Intendo ripartire, sì, ma non subito!»
«Lascia, continuo io», disse Thranduil, e venutogli appresso si mise a concludere le trecce che Legolas aveva iniziato da solo. Un grande peso era volato via dal suo cuore: erano sessant'anni e poco più che non vedeva suo figlio, non era pronto a dirgli di nuovo addio dopo pochi giorni.
«Non hai forse già affrontato i disagi che dici, in questi anni?»
«Talvolta sì, talvolta no. Talune volte sono stato ospite di Alti Signori, il più delle volte trovavo appoggio e ristoro presso la Casa di Elrond Mezzelfo».
«Dunque il mio nome apre ancora molte porte, lieto a saperlo. Mi è stato detto. Mi è stato anche detto che, in questi ultimi anni, ti eri affiliato a uno Stregone».
«A uno Stregone, e al più nobile dei Raminghi Dúnedain».
«Dunque l'hai conosciuto, Aragorn? E questo Stregone di cui parli, non è forse Mithrandir?»
«E chi altri potrebbe essere? Ma ora basta domande, ti prego. Ti dirò tutto per filo e per segno, stasera. Ora ho un gran bisogno di dormire».
Thranduil decise allora di non insistere, sebbene rare volte avesse visto Legolas provato dalla stanchezza; poteva solo immaginare quante notti insonni dovessero gravare sulle sue spalle, per averlo ridotto in una spossatezza tale da impedirgli di conversare. Gli annodò la treccia all'estremità, perché non si sbrogliasse, poi si congedò.
«Come vuoi. Ma stasera mi aspetto che sarai tu a venire da me, e non il contrario», disse, con tono ora più severo e meno dolce.
Legolas non fece null'altro che piegare il capo.

La sera, il Principe di Bosco Atro si presentò a cena puntuale. Alla lunga tavola vi sedevano il Re a capo, poi i suoi maggiori confidenti, tra cui Feren, Suilannen, e altri importanti veterani di guerra.
Ma tra loro Legolas notò una fanciulla che mai aveva visto, dai gonfi capelli castani, finissima e sottile di collo e di profilo, e con la timidezza radicata negli occhi grigi.
«Non ti ho mai incontrata prima d'oggi», le si rivolse Legolas, pensando che fosse inopportuno, da parte di un principe, ignorare chi sedesse al proprio desco. La giovane subito si imporporì sulle guance e aprì la bocca ma, prima che potesse dire alcunché, Thranduil la precedette. Poggiò le posate e, preso un gran sospiro, disse, tenendo gli occhi fissi sul proprio piatto: «Legolas, è Lomewen, figlia di Lendêr, il tale che le siede affianco. Almeno ti ricorderai di lui, e di tutte le volte che ha provato a insegnarti come estrarre il veleno dalle zanne dei ragni. O devo supporre che durante le tue impegnate peregrinazioni tu abbia anche preso un brutto colpo in testa? Suvvia non iniziare a farmi fare brutte figure».
I commensali risero di buon gusto, tranne Lendêr che era diventato di ghiaccio, e sempre si comportava a quel modo quando si discuteva della figlia, in qualunque modo se ne discutesse.
Legolas ammutolì; ricordava che, da bambino, temeva più i rimproveri di Lendêr che quelli del padre. Lendêr aveva grande conoscenza delle piante e delle erbe buone e cattive, e nessuno più di lui aveva dimestichezza con i ragni che infestavano Bosco Atro, dunque il suo sapere era prezioso, ma ciononostante il suo carattere era pessimo, e non esisteva precettore che fosse più severo e meno paziente.
La giovane chiamata Lomewen si affrettò a dire, con un gran sorriso: «non hai alcuna colpa, ero solo una bambina quando lasciasti il Reame. È naturale che non ti ricordi di me». Il suo candore la palesava per ciò che era: una giovanissima Eldar con qualche goccia di sangue Sindar nelle vene, tuttavia inesperta del mondo, e da poco aveva aperto gli occhi su di esso, e mai era uscita dai confini di Bosco Atro. La malignità del mondo di fuori non aveva ancora adombrato la sua mente, per lei esistevano solo gli splendori della fortezza di Re Thranduil.
Legolas le sorrise cortese, poi andò a sedersi a fianco del padre e più non le parlò.
Durante il banchetto si prese a discutere animatamente di cose futili e serissime al contempo: chi discorreva della cattiva annata del vino, chi dell'aggravarsi della malattia che ammorbava la foresta, un male che sembrava essere stato debellato sessanta anni prima ma che ora era ricomparso a Dol Guldur, un'Ombra che pareva di gran lunga più tenace ed infestante di quella precedente. E ancora ci si dilettava con i racconti delle ultime battute di caccia, e con i resoconti di come gli ultimi bimbi nati imparassero ad usare l'arco e le frecce con celerità, e al contempo si mormorava il nome di Sauron e del ritorno dei Tempi Oscuri.

Finito che ebbero di cenare, Thranduil prese il figlio in disparte e lo invitò a passeggiare.
Uscirono nella foresta e presero a raccontarsi ciò che avevano di nuovo da dire, in quegli anni in cui erano stati lontani. Thranduil invero aveva ben poco da raccontare: chiuso nella sua fortezza, il mondo era rimasto pressappoco uguale, e sessant'anni davvero erano un nulla perché qualcosa, nel suo Regno, potesse cambiare alle radici.
Legolas gli raccontò dei suoi viaggi, di come aveva visto gli Orchi brulicare come formiche per gli Ered Mithrin e per le contrade di Rhûn, più svelti, più temerari e più disciplinati, ora che il loro Signore aveva fatto ritorno e tutti i loro generali non erano più canaglie slegate che agivano e razziavano per loro conto, ma ora essi rispondevano primariamente a Sauron, colui che era il loro padrone e creatore. E molte altre cose gli disse, assai poche liete e per la maggior parte infauste. Gli narrò di Gollum, una strisciante creatura maligna corrotta dall'Unico, e di come avesse passato gli ultimi otto anni a tentare di braccarla, assieme al fiuto del Ramingo e alla saggezza dello Stregone.
Thranduil non disse nulla a riguardo, forse perché questo Gollum gli pareva una faccenda di assai minore importanza rispetto al resto. Ciò che ingombrava la sua mente era il ritorno del Maligno, la ricostruzione della Torre Nera, e gli Orchi che là nel suo ventre venivano incubati.
Il Re si fermò su un balcone roccioso, e volse lo sguardo a Est. Da quella posizione elevata dominava una buona porzione di Foresta, tuttavia non riusciva a scorgerne la fine, e nemmeno vedeva il profilo della Montagna Solitaria, poiché ad Oriente, oltre il mare di abeti scuri, il cielo cambiava colore e volgeva al grigio. Era in arrivo il brutto tempo, e forse le nuvole avrebbero recato con sé le prime nevischiate autunnali.
«Questa che ci circonda è un'Ombra indelebile oramai. Io combattei sulle Piane di Gorgoroth, e a costo di molte vite vidi infine Sauron soccombere. Non molto tempo dopo eccolo annidarsi in Amon Lanc, e infettare la mia Foresta. Come tu sai i Saggi posero rimedio alla cosa, scacciando ancora una volta il Maligno, o così mi dissero, che Sauron si era rintanato in un anfratto remoto, ripudiato dagli Stregoni, ed era debole come un singhiozzo e spaventato sin dalla sua stessa ombra.
Ed ora, eccolo che rinasce nella sua antica dimora di ferro e fango. Non vi è alcun rimedio possibile contro di esso. Non è qualcosa che si possa combattere e sconfiggere. A tal punto si è radicato nel nostro mondo, che oramai ne è connaturato. Esso è tutto ciò che è di male al mondo. Riusciresti forse a togliere il male dal cuore degli Uomini? O riusciresti forse a far sì che la pioggia non muti in neve, l'inverno?» Le parole del Re erano meste, e prive di speranza, e laddove la speranza aveva lasciato un vuoto la rassegnazione, la sfiducia e la diffidenza erano andate a colmarlo.
«No, non vi riuscirei», rispose prontamente Legolas, «ma riuscirei ad accendere un fuoco, a trovare un riparo o a cucire una veste con le pelli degli animali. Noi dobbiamo combattere il male così come di consueto combattiamo il gelo. Forse non possiamo debellarlo, ma possiamo e dobbiamo difenderci da esso, se vogliamo sopravvivere».
Thranduil rimase un poco in silenzio, poi scese dallo sperone e riprese a calcare il sentiero, con Legolas al suo fianco. Le foglie secche scricchiolavano sotto i loro piedi.
«Sei diventato saggio, Legolas. Ma sono l'entusiasmo e la speranza della tua giovinezza a dettarti in cuore tali pensieri. Prego che tu possa averne ancora, di speranza, per i tempi che verranno. Ma prego anche che essa non ti porti alla rovina».



*





L'autunno era una stagione molto amata dai Silvani, e non era un caso che proprio nella stagione delle vendemmie vi fossero più feste che in un anno intero. Le cantine si riempivano di cibo e di vini, e in vista dell'inverno venivano cumulate generose provviste di ogni sorta: castagne e funghi essiccati, marmellate di ogni tipo, miele e frutti di bosco secchi, farine, carne e pesce affumicati, burri e formaggi, e molte altre delizie provenienti dalla foresta stessa, da Esgaroth o addirittura dai Regni del Sud.
Per festeggiare il ritorno del Principe, il Re aveva ordinato una festa più grande del solito: vi erano più pietanze, più suonatori, e più tavoli che ospitassero più persone. La musica fluiva dolce e abbondante tra i commensali, così come il vino. I tavoli erano disposti in modo da formare un enorme rettangolo, e al centro vi erano i musicanti, ed essi si destreggiavano con arpe, liuti, flauti e sonagli, e le loro melodie parevano provenire dalle stelle tant'erano chiare e armoniose.
Thranduil sedeva a un capo della Sala, sul seggio più elevato, e suo figlio Legolas sedeva al capo opposto. Entrambi indossavano splendidi abiti, preziose stoffe d'argento ricamate con foglie rosse e dorate. Thranduil portava sulla testa la grande corona di foglie e bacche rosse, mentre un sottile diadema bianco cingeva il capo di Legolas.
Quella sera i pensieri e i discorsi furono lieti soltanto, e non si fece parola di Sauron nemmeno per prenderlo in burla. Eppure, benché il Re dei Silvani apparisse felice e partecipe della gaiezza generale, in verità era distante, e i suoi pensieri erano cupi.
Il calice riserbato alle prelibatezze del Dorwinion era piccolo, ma sempre vuoto. Thranduil si accorse di aver esagerato con il vino solo quando il servitore dovette andare a riempire nuovamente la caraffa, e nemmeno si era a metà della cena.
«Vostro figlio sembra più radioso che mai, mio Re», disse Feren, mentre si deliziava con un buon fagiano all'aceto.
«Radioso, sì, lo sembra. Pronto ad ereditare il peso della mia corona intendi».
«Non lo intendo, anzi mi auguro tu possa regnare ancora a lungo su Bosco Atro, almeno fin quando esso non tornerà a chiamarsi Boscoverde il Grande».
Thranduil si accigliò e abbassò gli occhi sul proprio piatto, pieno di pensieri.
«Invero mio buon Feren, io ti dico che Legolas non intende ereditare la mia corona, non intende ereditare proprio nulla del mio Regno. Non ne ha mai fatto parola, ma io l'ho compreso da tempo».
Legolas era rimasto seduto per tutta la cena al fianco di una giovane dai lunghi capelli dorati, una ragazza che Thranduil mai aveva visto prima, ma che Legolas sembrava conoscere. I due avevano riso e parlato per tutto il banchetto, con le guance arrossate dal calore dei focolari e con un soave e spiritoso motivo ad accompagnare i loro discorsi. A un certo punto, lei gli aveva detto qualcosa all'orecchio, poi con fare lezioso era corsa via. Legolas era scoppiato a ridere e subito le era corso dietro, e con tale foga si era alzato da tavola che la sua sedia si era rovesciata.
Thranduil lo guardò andarsene con un sentimento di malinconia che gli pesava sul cuore, del quale non riusciva a capacitarsi.
«Dimmi Feren, conosci quella ragazza? La giovane che è uscita or ora con mio figlio».
«Se non vado errando dovrebbe chiamarsi Amren, ed è figlia di Calener il Cacciatore».
«Se dovessero innamorarsi, o avere un figlio, dimmi sarebbe una buona compagna per Legolas?»
«Vi è sangue Sindar nelle sue vene, se è questo che vi state chiedendo mio Re».
«No, non è questo che mi chiedevo», rispose il Re, e tuttavia non disse altro, e si concentrò a finire il proprio fagiano.
Quand'ebbe pulito il piatto, colto da noia prese a vagare con lo sguardo per la sala e per i tavoli, e i suoi occhi caddero su Lomewen, e anch'ella aveva riso e scherzato per tutta la serata, come si confaceva alla sua gioventù. Pensò che era bella, assoluta da pensieri malvagi viveva in un mondo fatto di sola luce, come un bambino che ancora non conosce nulla all'infuori dei suoi giochi di fantasia. Ed ella era giocosa, con il riso sempre sulle labbra, e l'ingenuità a colorarle le gote di rosso.
«Principe Legolas non ha raccontato quasi nulla dei suoi viaggi. Spero almeno l'abbia fatto con voi». Feren ruppe di nuovo il silenzio, e d'altro canto a Thranduil non dispiacque assecondare almeno per un altro po' la sua insaziabile voglia di chiacchiere.
«È pieno di segreti, il ragazzo. Noi padri crediamo che i nostri figli ci raccontino filo per segno tutto ciò che accade loro, quando in realtà nessun figlio, nemmeno il più devoto e amorevole, lo fa».
«Ma quando si trovano nei guai lo fanno».
«Solo perché vi sono costretti».
Thranduil riempì nuovamente la sua coppa, e mentre beveva prese a giocherellare con la forchetta, rigirandosela tra le dita della mano destra; ma questa gli cadde a terra, e finì sotto il tavolo. Subito Feren, mosso da cortesia, si chinò e fece per raccoglierla, ma Thranduil lo fermò.
«Non è necessario, ho finito di mangiare».
«Ma... Mancano ancora due portate!»
«E sono certo che le gusterai a fondo», ribatté bruscamente il Re, e senza aggiungere altro si alzò da tavola e si congedò dalla chiassosa sala del banchetto, lasciando l'ampio mantello abbandonato sullo scranno.

La Sala delle feste era stata scavata in una delle parti più alte delle Gallerie, dove molti condotti sbucavano all'esterno e l'aria non era così pesante come nei sotterranei. I corridoi non erano aperti e sospesi come quelli che traversavano i livelli inferiori, ma stretti e rettangolari, chiusi di sopra e di fianco e sempre illuminati da bellissime luci che brillavano racchiuse in crisalidi di vetro. Ogni tanto i muri erano interrotti da angusti pulpiti di pietra che si sporgevano su Bosco Atro, e questi talvolta venivano utilizzati dai giovani Elfi che volevano scambiarsi intime parole di amore e di affetto, lontano dalle orecchie dei festaioli.
Così Thranduil andava percorrendo uno di questi corridoi, desideroso di rifugiarsi nella quiete imperitura delle Cúranthaim, quando senza preavviso vide la giovane Lomewen venirgli incontro, che leggiadra e radiosa pareva impaziente di tornare ad occupare il proprio posto al tavolo della festa.
Non appena lo vide, la ragazza ritirò il sorriso dalle labbra e chinò le testa, seriosa. «Sire Thranduil», lo salutò con soggezione, senza guardarlo negli occhi. Le sue guance erano diventate rosse.
Fece per passare oltre, ma Thranduil la prese per un braccio e le impedì di andarsene. «Aspetta, Lomewen».
Con forza le prese il viso tra le mani e la baciò; la sua bocca e le sue guance erano bollenti come braci. Dalla gola della giovane sfuggì un singhiozzo di sorpresa. Il Re la spinse in un angolo buio, in un'appendice del corridoio che non portava da nessuna parte, e pertanto non era illuminata, né vi passava alcuno. La cinse per la vita e, con l'aiuto della debole luce che penetrava dal camminamento principale, la guardò negli occhi, perché se vi avesse trovato paura o disgusto l'avrebbe lasciata in pace, ma vi trovò solo un pallore di insicurezza, e sulle sue belle labbra un piccolo sorriso.
E allora di nuovo la baciò, si slacciò le vesti del minimo necessario e le alzò la gonna sino alla vita, scoprendo le sue cosce calde e morbide. La condusse ancora più nel profondo del vicolo cieco, ove il buio quasi copriva ogni cosa, e lì la possedette.



*





Nelle Sale della Luna vi era quiete sempiterna.
Anche se il mondo di fuori si fosse sgretolato, lì, nelle Aule di Cúran, non sarebbe giunto neppure l'odore delle ceneri.
Due mesi erano ormai trascorsi da quando Legolas aveva fatto ritorno al Reame, e ancora egli non aveva fatto visita a quello che, nella sua fanciullezza, era stato il luogo da lui più amato, un luogo dove le storie che il padre gli raccontava divenivano reali.
Quella notte vi fece ritorno, e trovò ogni cosa immutata, uguale in ogni ruga dei tronchi e in ogni balzo dei ruscelli a come l'aveva lasciata sessant'anni addietro: laggiù, il tempo non pareva essere trascorso. Carezzò la corteccia rossa di un abete come fosse un suo vecchio amico, e prese a intonare le parole di una vecchia filastrocca. Parlava dell'arrivo dell'autunno e delle lontane arene ghiacciate oltre Forlindon e oltre Forodwaith, là dove pochissime genti osavano avventurarsi. Tra queste, vi fu Rinwe dei Ghiacci, un antico Sindar che...


Quando il vento da Nord spirava,
E l'autunno rosse faceva le foglie,
Rinwe dei Ghiacci a Nord andava,
E del Lindon lasciava le soglie.

A Nord andava e trovava altre doglie,
Che il viaggio era lungo e poco sicuro,
Ma là ritornava tutte le volte,
Là dove il sole per mesi era scuro.

Quando l'inverno giunse maturo,
Nessuno nel Lindon lo vide tornare,
Pensaron' si fosse perduto nel nero,
E più nessuno osò domandare.

Ma i propri occhi aveva perduto,
Rinwe soltanto nell'ammirare,
Nel cielo freddo di stelle intessuto,
I colori dell'Aurora Boreale.




«Era una vecchia storia. Te la raccontai così come la ricordavo, quando mia madre a sua volta la cantava a me. Ma temo di non aver riportato fedelmente ogni sua parola».
Legolas sobbalzò: non si era accorto che suo padre era entrato nelle Sale, e tuttavia egli sapeva essere silenzioso come una lince nel passo.
«Padre, non mi ero accorto… perdonami», gli si rivolse Legolas con rispetto, per poi ribattere audace: «che sia vecchia o infedele non importa, poiché parla di luoghi remoti rimane una bella storia».
Re Thranduil alzò lo sguardo nel cielo, dove la luna brillava tonda e libera da foschie; ed essa brillava anche giù, in basso, nell'acqua limpida di fonte. Un tenue spirito di vento si intrufolava dalle aperture sul soffitto, per poi incanalarsi nel Passaggio di Nimrynd, delle Grotte Bianche. Seppur non spirasse forte, era vento d'inverno che soffiava da Nord, da oltre i picchi degli Ered Mithrin, e pertanto recava con sé un freddo tenace.
«Queste Sale sono ciò che rimane nella mia mente delle Foreste che furono ad Ovest, e se vi entri in silenzio e con il cuore aperto riportano alla mente luoghi remoti, luoghi che per disgrazia o per fortuna tu non ebbi modo di conoscere. E forse questo è un bene, perché ora non li puoi rimpiangere».
«Sbagli. Avrei voluto condividere con te i radiosi ricordi delle terre d'occidente, le stesse che vivono nelle parole di tanti racconti sempiterni».
Legolas fece qualche passo nella radura, ascoltando il fruscio e lo scricchiolio degli abeti che dondolavano al vento, e il sommesso gorgogliare dei ruscelli, come se in quei suoni volesse distinguervi delle voci.
«È in questo luogo che sei stato concepito», disse d'improvviso Thranduil, e subito Legolas si volse a guardarlo, serio in volto. Thranduil rifuggì il suo sguardo e si sedette su una panca di pietra grigia, sotto le ampie braccia di un larice, con una mano invitando Legolas a fare lo stesso. I suoi piedi quasi erano lambiti dalle acque dello stagno, che placide si tendevano fino a solleticare le radici del grande albero.
«Padre», cominciò Legolas, sedendosi al suo fianco, «so che ti reca molto dolore parlare di lei, ma non immagini quanto ne ha recato a me, in tutti questi anni, il restarne all'oscuro. Parlamene, ti prego, e per te sarà solo un momento, per me invece i giorni da qui in avanti saranno un poco più sereni».
Il vento si fece più forte, e il Passaggio di Nimrynd prese ad ululare.
Thranduil abbassò lo sguardo a terra, e i capelli caddero a nascondergli il viso. E questo fu un bene, perché Legolas non riuscì a vedere le lacrime che lo solcavano. Ma dopo alcuni minuti tornò padrone di sé, alzò il capo e sul suo volto non vi era più traccia di lacrime, ma al loro posto vi erano forza e consapevolezza.
Raccontò a Legolas ogni cosa, cosa accadde filo e per segno in quei tre nefasti giorni; gli narrò dei sensi di colpa che da allora lo tormentavano, e ancora si diede la colpa più volte, quasi invocando il perdono del figlio, perché, disse, se non avesse avuto così tanta paura di perdere Filigod, ella sarebbe ancora in vita. Perché, disse, era ingiusto ch'egli avesse trascorso due Ere in sua compagnia, e Legolas nemmeno un anno. Perché, ancora disse, gli aveva negato una sorella o un fratello, oltre che una madre.
«Ti prego, ora basta», invocò Legolas piangendo, «più non attribuirti colpe che non hai! Se le cose furono come dici, mia madre andò incontro al suo destino, e lo fece per proteggere le cose che amava. Non esiste un modo migliore per andare incontro alla fine. Qualunque cosa tu avessi fatto non avresti potuto cambiare gli avvenimenti del mondo. È folle e arrogante anche solo pensarlo!»

Infine, anche i singulti di Legolas si azzittirono. Il Principe prese un profondo respiro, e volse lo sguardo verso l'alto, verso la volta del cielo invernale, lasciando che il vento gli tagliasse le guance pallide.
Dopo un lungo periodo di silenzio, Thranduil ad un tratto gli venne più appresso, chiudendo le loro figure in un semicerchio. Ora, un ampio sorriso attraversava il suo bel volto.
«Su, asciuga quelle lacrime. Mi sovvengono alla mente cose ormai passate, ma sempre liete da rimembrare. Devi sapere che mio padre, all'inizio, tentava di preservarci. Quando gli presentai tua madre, sui monti del Lindon, lui ci alloggiò in appartamenti distinti, l'uno posto di fronte all'altro, e benché non fossero distanti a volo d'uccello in mezzo ad essi vi era una profonda valle. Puoi immaginarti quale tormento, vederla ogni mattina e ogni notte dalla mia finestra, alzarsi, pettinarsi, lavarsi, ridere e scherzare con i giovani Elfi che vivevano là con lei, senza poterla toccare. Ci era concesso solo un giardino, un angusto seppur incantevole spazio verde, dove potevamo passeggiare assieme una o due volte al giorno. Ora non ti dico le cose che accadevano, in quel giardino.
Mio padre continuava a rimandare le mie nozze, e noi due continuavamo a desiderare con tutte le nostre forze un letto che appartenesse a entrambi. Eravamo stanchi di fare tutto di nascosto, eravamo stanchi di stare assieme sull'erba o tra i rami degli alberi, eravamo stanchi di dire menzogne e architettare sotterfugi, benché tutto ciò ci donasse un certo brivido.
Quello che nessuno di noi due capiva, era che mio padre voleva semplicemente insegnarci un po' di pazienza. Sapeva che né io né Filigod avevamo saputo aspettare, ma non ci biasimava né ci disprezzava per questo, solamente cercava di farci capire che di pazienza e di ponderatezza un Re non dispone mai a sufficienza.
Pochi anni dopo celebrò le nostre nozze, e credimi se ti dico che nessuno, quel giorno, fu più felice di lui».
Thranduil terminò così il suo piccolo racconto, e guardò il figlio con benevolenza, sorridendo indulgente nel vedere le guance un poco arrossate di Legolas, segno che alcune allusioni erano state colte.
«Ebbene, si direbbe che io sia nato troppo tardi. Come avrei voluto conoscere tutti quanti, tuo padre, mia madre. Ma non importa, li sento vivere nelle tue parole, e ciò mi basta. Grazie, padre».
«Sono io a dirti grazie, perché ora so che lei continua a vivere in te, figlio mio. Ero triste, ma ora non lo sono più, perché mi rendo conto che siamo sempre stati in tre».








Il Ritorno del Principe

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Capitolo 7
*** Eryn Lasgalen ***


Eryn Lasgalen








Dei camminamenti e delle passerelle di legno che si sfilavano come liane tra gli alti faggi centenari non rimanevano che carboni e assi nere abbandonati sul terreno arso. Mozziconi ancora fumanti, ciò che rimaneva dei rami e delle piattaforme arboricole, sibilavano e scoppiettavano, minacciosi ormai quanto i lamenti di una bestia in agonia.
Il Re dei Silvani si aggirava tra ciò che restava del suo Regno: sul suo volto era dipinto un profondo dolore, assieme a un barlume di consunta serenità. Ad ogni passo sollevava uno sbuffo di ceneri, che turbinavano per un po' presso il suolo per poi tornare a posarsi a terra. La cenere pioveva anche dall'alto, dalle chiome dei faggi divorate dalle fiamme, tant'è pareva che cadesse una grigia neve insalubre. Dove il terreno non era cosparso di cenere, vi erano delle grosse pozzanghere di fango, residui di una pioggia breve e intensa.
Morte e guerra infine li avevano raggiunti. Alcuni Orchi avevano camminato di albero in albero, veloci e silenziosi come ladruncoli, ma la maggior parte dell'armata aveva forzato l'intricato sottobosco, fendendo e calpestando senza alcun riguardo edere, liane e rovi, bruciando ciò che non riuscivano ad abbattere con il ferro. Finché erano giunti alle porte di Re Thranduil, dando inizio all'assedio della Fortezza. Tuttavia, essa era rimasta inviolata, e al suo interno i Silvani che non potevano combattere avevano trovato un sicuro rifugio. La battaglia si era consumata all'esterno, sotto le fronde degli alberi. Dovunque zampillavano focolai appiccati dai malvagi servi di Mordor, in ogni dove sibilavano frecce infuocate, e ben presto divampò un grande incendio. Ma infine, dopo gravi perdite, i Nandor prevalsero, e lentamente le fiamme morirono, soffocate da una pioggia provvidenziale.
Thranduil, che aveva guidato la resistenza combattendo davanti a tutti gli altri, ora guardava i cadaveri dei suoi soldati come se cercasse di scrutare attraverso una coltre nebbiosa: essi giacevano indegnamente assieme ai corpi degli Orchi che avevano abbattuto a costo della loro vita. Alcuni erano carbonizzati, altri mutilati, altri ancora trafitti da lance e frecce, e il medesimo destino era stato riservato sia agli Elfi che ai loro nemici.
La pioggia ora si era quietata, lasciando il posto ad un grigio vento gonfio di polvere.
«È finita, dunque». Una voce che ben conosceva lo colse alle spalle. Feren il Leale, provato dalla carneficina ma ancora vigile, con il volto sporco di polvere e i capelli in disordine, guardava il suo Re con fierezza, tenendo alta la testa, e nonostante le gravi perdite subite vi era una luce nei suoi occhi, una luce che Thranduil non vedeva da tempo immemore. «Lo senti, mio Signore?»
«Che cosa, mio buon Feren?» Domandò Thranduil con stanchezza, non dando troppa importanza alle sue parole. Nel frattempo distolse lo sguardo, e cercò di riconoscere il volto di un Silvano che riposava riverso tra cespi di grosse felci. Il suo era un viso giovane, apparteneva forse ai nati del Lungo Inverno: un breve periodo aveva passato su questo mondo, e non certo il più luminoso.
Feren ispirò a fondo, benché l'aria fosse ruvida e malsana. Saltò su un masso e guardò verso Ovest, benché gli alberi impedissero alla sua vista di spaziare.
«Il rumore del mare», disse soltanto. Allorché Thranduil venne colto da paura e vertigine, laddove vi sarebbe dovuto essere soltanto serenità e desiderio. Non sentiva il rumore del mare, ma il boato del crollo di un'Era, il rumore delle pietre che cozzavano l'una sull'altra, che si ergevano sino al cielo per costruirne una nuova.
«Sì, è finita dunque».



*





Aprile era ormai iniziato, eppure quella mattina le chiome degli alberi erano incrostate di una patina ghiacciata. Thranduil del Reame Boscoso e Celeborn di Lothlórien si incontrarono in un'ampia radura, nel cuore della foresta. La piana era attraversata da numerosi allegri rigagnoli, le piante di mirtillo crescevano ove il terreno non era interrotto da grosse lastre naturali di pietra, ricoperte di muschio rosso e verde. Solitari pini nani spuntavano timidamente qua e là, ma quando si infittivano troppo i Silvani li trapiantavano in altri luoghi, mantenendo il prato sgombro da alberi.
Sire Celeborn giunse a piedi nel luogo d'incontro, assieme ad alcuni guerrieri che più si erano distinti nel conflitto appena trascorso. Oltre a questi vi erano Rúmil fratello di Haldir, i comandanti delle sentinelle del Nimrodel e dell'Argentaroggia, e infine il capo degli Arcieri Esploratori del confine orientale. Erano una ventina in tutto, e tutti quanti combattenti, venuti a testimoniare il loro coraggio nell'aver difeso i confini della loro terra dal morbo nero dell'Est.
Sire Thranduil giunse invece sul dorso di una puledra, il cui manto era del colore delle ghiande. Le forti zampe dai possenti zoccoli facevano di lei una nobile bestia, altera nel passo e intelligente nello sguardo. Berut era il suo nome, e il Re la cavalcava con la fierezza ritrovata di ciò che era stato un tempo: il Signore di Eryn Galen. Feren il Leale camminava al suo fianco, e assieme a lui vi erano Lendêr, Suilannen, Lagorhen il capo-vedetta, il giovane capitano delle guardie, e pochi altri Elfi che erano avvezzi condividere il desco con il loro Re.
«Benincontrato, mio Signore, in questo felice giorno!»
«Salute a te, Sire Celeborn. Il viaggio è stato agevole? Ho portato otri del nostro miglior vino per rinfrancarti».
«Non c'è niente che più mi rinfranchi ora di queste fronde verdi e di queste nuove gemme, e quale gioia incontrarci in amicizia! Voglio chiamarti amico, con sincerità. Lasciamoci alle spalle ogni dissapore, salutiamo insieme, concordemente, questa rinascita».
«Amico lo sei sempre stato, Celeborn», sorrise Thranduil, e fece cenno di disporre cibo e bevande su un semicerchio di vecchi ceppi d'abete.
«Faren», disse, e un esploratore dagli occhi foschi e dai corti capelli neri si fece avanti. Portava un arco a tracolla, e un grigio corno pendeva dalla sua cintola, assieme a un grappolo di fischietti, di molte misure e vari materiali. I suoi vestiti erano logori, intessuti di mille aghi di pino rossi verdi e neri. Non era giunto nella radura assieme a Thranduil, eppure era improvvisamente comparso tra loro senza che nessuno l'avesse visto arrivare. Si pose in mezzo ai due Re senza inchinarsi e senza mostrare reverenza, e iniziò a parlare con voce ruvida e sguardo truce: «anche se i segni della malattia sono ancora visibili, e sempre lo saranno, Bosco Atro sta lentamente guarendo. I vecchi alberi avvizziti cadono e muoiono, lasciando posto ai giovani virgulti. I cervi della foresta hanno fatto ritorno nella Radura Orientale e nelle zone attorno Amon Lanc, così come le altre bestie che si erano incattivite, volpi, tordi, civette, orsi e mufloni: esse non sono più ostili né a noi né alla Foresta, lasciano che gli alberi crescano invece che rosicchiarne le radici, e scavano tane ai loro piedi, poiché li sentono come rifugio e non più come minaccia.
In molte cavità di tronchi malati vi erano nidi immondi, un nauseante brulicare di vermi e insetti, ma ora i ragni malvagi giacciono come intorpiditi dal gelo, a zampe all'aria, in agonia.
L'aria del sottobosco diventa ogni giorno più leggera, liane ed edere infestanti si sfilacciano verso il terreno, e non corrodono più gli alberi giovani, mentre contribuiscono a soffocare quelli irrimediabilmente malati. La Foresta non è più così cupa, in molte parti ora i raggi del sole si fanno strada fino al terreno. Presto questi luoghi saranno risanati, parola mia».
«Ci porti buone notizie, ti ringrazio», disse Thranduil, permettendo all'esploratore di congedarsi. Egli si inchinò brevemente, poi si dileguò ratto nel folto della Foresta: pareva non aspettasse altro.
«Faren non fa parte del mio Regno. Egli vive nel bosco, in solitudine, e conosce queste terre meglio di tutti i miei esploratori. A Ovest è in rapporti di amicizia con i Beorniani, a Sud con gli sparuti uomini delle Terre Brune, ma a Nord diffida degli Uomini del Lago, poiché a suo dire essi sono più affini all'acqua e al commercio che non agli alberi. È difficile mettersi in contatto con lui, poiché si muove come una scura ombra e cammina sui rami degli alberi senza fare rumore, e conosce inoltre tane, anfratti e nascondigli che molti ignorano. Il Nero Cacciatore, è così che molti lo chiamano, e spesso egli viene scambiato per un uomo ramingo. Ma egli fa parte dei Silvani, e credimi se ti dico che spesso ci ha aiutati a nostra insaputa, soffiando avvertimenti e bonificando covi malvagi». Mentre parlava, Thranduil versò da bere per sé e per il Signore di Lothlórien.
«Ci sono stati molti Neri Cacciatori nel conflitto appena trascorso, Thranduil figlio di Oropher. Uomini e donne che hanno combattuto contro l'oscurità, senza che nessuno sapesse i loro nomi», rispose Celeborn, accettando volentieri il calice che Thranduil gli offriva. Gli Elfi erano soliti festeggiare la fine di un anno e l'inizio di un altro con musiche e canti, ma quel giorno la gioia che essi provavano era sobria e bisognosa di rispetto e silenzio. I Silvani a seguito dei loro Signori stavano ritti in piedi come sentinelle, la maggior parte di loro; alcuni invece si aggiravano per i confini della radura, toccando con mano i rami gonfi di gemme, e le fronde cariche di tenere foglie.
«Ci ho riflettuto a lungo, Celeborn, e ho infine preso la decisione di ritirarmi definitivamente a Nord. In realtà è da molto che la mia gente ha abbandonato il meridione del bosco, per mio volere, non lo nego. Resta il fatto che mi è impossibile controllare il Meridione senza creare un nuovo avamposto, e ormai è troppo tardi per questo. Presto anche noi inizieremo a lasciare la Terra di Mezzo, e io sono spossato. Preferisco preservare la mia casa, piuttosto che crearne una nuova. Con la tua approvazione, quindi, lascio a te i territori a Sud dei Monti della Notte», disse Thranduil, e fissò con insistenza Celeborn, quasi che temesse un suo rifiuto.
«La tua è davvero un'offerta generosa, Thranduil, ma penso di accontentarmi degli alberi a Sud di Corto Bosco, là dove la pianura mangia la Foresta a Est e Ovest, e la fa più stretta che in ogni altro punto. Quello, se vorrai, sarà il mio dominio, e lo chiamerò semplicemente Est Lothlórien. Infatti anche io non sento il bisogno di creare nuove dimore e affondare più in basso le mie radici, giacché il Mare chiama tutti noi. Penso invece che sia giusto lasciare che gli Uomini di Beorn occupino la terra di nessuno, ciò che rimane tra i Monti e lo Stretto, e che ne dispongano come meglio credano: essi hanno infatti sofferto troppo, e guadagnato troppo poco dalle loro sofferenze. Dimmi dunque, sei d'accordo?» Chiese Celeborn.
«Se questo è il tuo volere, così sia», rispose Thranduil, «è probabile infine che gli Uomini dei Boschi governeranno su queste terre più a lungo di tutti noi».
Giunse infine il tramonto, e con esso il momento che tutti i Silvani avevano intimamente atteso: il nome di Bosco Atro venne obliato, Thranduil e Celeborn ribattezzarono la Foresta con il nome di Eryn Lasgalen, il Bosco di Foglieverdi. Un nome che tempo addietro Thranduil e Filigod avevano dato al loro primogenito, instillando in lui quell'esile scintilla di speranza per un futuro ora divenuto realtà.

Nel viaggio di ritorno verso casa, Thranduil ebbe modo di parlare con Lendêr, ed egli gli rivelò il suo desiderio di partire il prima possibile verso Ovest, verso i Porti Grigi, assieme alla moglie e alla figlia. Di nuovo, un sentimento di malinconia colse Thranduil, una malinconia inadeguata a un giorno tanto lieto. Si limitò ad annuire, continuando a guardare dritto davanti a sé, benché fosse raccolto nel suo manto d'argento e le sue spalle fossero leggermente chine. Così, in quella posizione arrendevole, pareva davvero stanco. Stanco di tutte le cose che aveva visto, stanco di tutto gli anni che aveva vissuto, stanco del dolore e stanco delle gioie. Con le mani teneva le redini, ma più per sostenersi che per guidare la sua cavalla: essa conosceva infatti la strada del ritorno, ed era abbastanza intelligente da evitare, senza bisogno di essere guidata, i rami bassi e le insidiose buche del terreno nascoste sotto il muschio.
«Ti farò preparare un carro, che vi aspetti al limitare della foresta. Manderò con voi dei guerrieri e delle provviste», disse infine, e Lendêr piegò rispettosamente la testa, in segno di ringraziamento. Thranduil rimase silenzioso per tutto il resto del viaggio.

Varcarono nuovamente le Porte della Fortezza quando ormai la notte cedeva il passo ai timidi bagliori dell'alba. I rami contorti degli alberi emergevano su un cielo ogni minuto più chiaro, e un'umida striscia di nebbia aleggiava presso il terreno, donando ad ogni cosa la parvenza del sogno. Eryn Lasgalen nasceva avvolto dalle brume, ma presto il sole sarebbe giunto a rivelare tutto il suo rinnovato splendore.
Thranduil lasciò Berut alle cure di Daroch, il mastro stalliere, seppure le stalle non erano ancora state ricostruite dopo il Grande Incendio, e di esse rimanevano solo i basamenti e le colonne di pietra. Il vecchio Daroch mise a riposare la nobile cavalcatura del Re sotto un gazebo di giunchi verdi, colti laddove le fiamme non erano arrivate. Le diede acqua e cibo in abbondanza, e la liberò della sella e dei finimenti. Ma Thranduil non ebbe neppure il tempo di ringraziarlo, giacché si diresse speditamente verso la torretta di guardia interna alla fortezza, là dove alloggiavano i suoi messaggeri ed esploratori. Salì numerose serpeggianti rampe di scale, e più saliva più esse si attorcigliavano su loro stesse, e i gradini si restringevano e divenivano sempre più alti. Le pareti erano intervallate da numerose nicchie nelle quali riposava una tenue luce, ma che servivano anche ad arieggiare quel luogo angusto tramite condotti nascosti.
Una volta raggiunta la cima, l'ambiente diveniva assai più spazioso e luminoso. La sala principale, la più ampia, era rettangolare e sgombra al centro, mentre ai suoi lati vi erano innumerevoli scaffali occupati perlopiù da calami e pergamene. La scala da cui Thranduil era salito sbucava al centro del pavimento, mentre sui quattro lati della stanza vi erano due arcate, nelle pareti Est e Ovest, e due porte, nelle pareti Nord e Sud. Le arcate si aprivano sull'armeria e sulla sala da pranzo, mentre le porte conducevano agli alloggi e a una seconda uscita, la quale sfociava direttamente nella foresta senza passare per le porte principali. Il Re si diresse senza indugio alla sua destra, dove vi erano le dispense e i tavoli adibiti alla consumazione dei pasti. Vi trovò come previsto Rûdûr, il capo esploratore, seduto davanti a una ricca colazione assieme alla sua compagnia. Non appena lo vide entrare, l'Elfo veterano scattò in piedi, e tutti i presenti fecero altrettanto. Ma Thranduil li tranquillizzò con un cenno della mano.
«Sedete e continuate a mangiare, oggi è un giorno di festa, anche se è difficile ricordarlo. Rûdûr, ti prego dimmi, dov'è Amrodil? Quali notizie porta da Gondor?»
Rûdûr indugiò un momento, poi fece un cenno di diniego. «Non è ancora tornato, mio Re. So che doveva essere di ritorno ieri, ma forse si è trattenuto un giorno di più, forse la guerra ha interrotto strade e ponti. Non so dirvi, ma vedrete che presto sarà di ritorno».
Thranduil rimase in silenzio per alcuni secondi, non sapendo come replicare. Infine disse: «capisco. Ma mi aspettavo più celerità e obbedienza da parte del tuo primo messaggero. Avevo ordinato che tornasse qui immediatamente, e so per certo che la guerra è finita. Spero che saprà trovare scuse abbastanza fantasiose, che almeno sappiano farmi ridere».
Il Re prese dunque congedo, anche se subito si pentì di aver rimproverato Rûdûr, con cui era sempre stato in rapporti di amicizia. Tuttavia, la tentazione di prendere egli stesso un cavallo e galoppare verso sud era sempre più forte.

La sera diede al suo maggiordomo il permesso di organizzare un banchetto festoso, per salutare l'inizio dell'anno e la rifioritura del Bosco, nonché per gioire della caduta della Torre Oscura. La chiamarono la Festa di Verdifoglie, e le sale della Fortezza furono addobbate con rami rigogliosi, profumate frasche di pino e ghirlande intrecciate con foglie d'edera e bacche rosse. Si aveva quasi l'illusione che, all'esterno, la Foresta non fosse ridotta a uno scheletro nero ammantato di ceneri e carboni.
Nonostante il banchetto fosse assai invitante, e le musiche tentassero di essere gioiose e spensierate, Thranduil presenziò solo fino alle prime due portate, senza tuttavia mangiare nulla.
Ben presto, si dileguò nei propri alloggi, in silenzio, senza proferire parola con nessuno. Impiegò ore per riuscire ad addormentarsi, e quando finalmente il sonno lo colse, lo colsero anche gli incubi.
Sognò di nuovo le fiamme, la polvere e il turbine della battaglia, ma questa volta non vi era nessun barlume di speranza, nessuna possibilità di vittoria. Le nuvole gravide di cenere e avide di oscurità nerivano il sole, oscuravano le stelle e la luna, soffocavano ogni luce. D'improvviso, un boato assordante squassò la terra. Thranduil alzò una mano a pararsi gli occhi, costringendosi ad alzare la testa e guardare verso l'alto, benché la cenere lo facesse lacrimare.
Un vulcano si ergeva dinnanzi a lui, e dalla sua bocca uscivano accecanti fontane di lava e mostruose colonne di fumo; un lento fiume magmatico scivolava minaccioso lungo i pendii della montagna, e ogni minuto che passava sempre più si avvicinava, divorando la terra e arroventando l'aria. Fu allora che Thranduil si rese conto, con terrore, di non trovarsi dinnanzi alle porte del suo Reame, bensì a Gorgoroth, due Ere addietro. Vedeva a stento gli Ered Lithui emergere dalla spessa cortina di nebbia velenosa, e alle sue spalle i Morgai chiudevano l'altopiano, raccogliendo alla stregua di un catino le bollenti nubi dense di polveri. Thranduil respirava a stento, ma avanzò comunque tra i cadaveri della sua gente confusi tra quelli degli Orchi, annaspò tra il pianto dei morenti e le grida di chi ancora stava combattendo, finché non trovò il corpo di suo padre. I lunghi capelli biondi erano incrostati di sangue, e la faccia riversa nella cenere. Thranduil vi si inginocchiò a fianco e lo voltò, a fatica, dato il peso ormai inutile dell'armatura. Ma non fu il volto di suo padre, quello che vide.

La mattina seguente, Rûdûr si recò di persona negli alloggi del Re. Recava Amrodil con sé, ed entrambi camminavano speditamente. Il messaggero era stravolto, come se avesse corso per miglia e miglia senza concedersi un momento di riposo. Nonostante ciò, continuava ad incedere con urgenza, ansioso di arrivare al cospetto di Thranduil e di liberarsi dal peso delle notizie che recava.
«Signore, sono qua, Amrodil è tornato, aprite subito ve ne prego», disse Rûdûr, una volta che furono dinnanzi alle porte di quercia.
«Dunque? Quali notizie?» Chiese il Re, non appena apparve sulla soglia. Un'ombra di terrore gli oscurò la mente per un momento, ma fu solo un'ombra, come il sogno della notte appena trascorsa era stato un'ombra, come il passato era ormai nulla più che un'ombra. Finalmente, Amrodil parlò:
«Vostro figlio è vivo, mio Re. Ha combattuto con coraggio sui Campi di Cormallen e ne è uscito vittorioso».
«Certo che è vivo», rispose Thranduil dopo qualche momento, «egli è figlio del Bosco, e il Bosco è rinato. Vai ora, Amrodil. Riposa. Ero adirato con te ma ora vedo dal tuo viso che hai fatto il possibile per arrivare in tempo. Non è forse vero?»
«Ma certo mio Signore!» balbettò il messaggero, arrossendo. «Il cavallo ha fatto anche l'impossibile».

Thranduil si richiuse la porta alle spalle.
«Nostro figlio è vivo, è vivo», mormorò, appoggiandosi alla testiera del letto, d'un tratto incapace di reggersi in piedi. Si chiuse le guance tra i denti come dovesse arginare un immenso dolore. Il suo viso era contratto e il suo cuore pareva essersi fermato. Si concesse un attimo per piangere e ridere insieme, per sfogare le poche lacrime che non poteva mostrare quando la corona pesava sul suo capo. Si portò una mano alla gola, e seppur gli sembrasse di soffocare sentì finalmente la tensione sciogliersi.
«Legolas ha vinto dove noi abbiamo fallito. Ha visto la speranza ove noi eravamo ciechi. Legolas è vivo, è vivo».



*





Il giorno seguente Lomewen venne da lui, trafelata. Era avvolta in un mantello di velluto dai colori cangianti, e sotto di esso indossava un'umile veste da viaggio. Entrò nelle stanze reali senza chiedere permesso, e dopo aver attraversato numerose porte trovò Thranduil immerso nelle chiare acque della sua vasca da bagno, ricavata in una buca naturale scavata nella pietra giallastra del pavimento. Quand'egli la vide apparire sulla soglia, la accolse con stupore. La guardò in viso, e notò le guance un poco imporporite e la chioma leggermente in disordine, il suo petto palpitava, come se avesse corso. Lesse nei suoi occhi un insieme di paura, rabbia e risentimento.
«Lomewen, non ti aspettavo», disse allora, issandosi in piedi sulla sponda della vasca. Pigre ondicelle si allungarono sul pavimento, che si guazzò inoltre dell'acqua che gocciolava dai suoi lunghi capelli. «Dammi quel telo, per favore», le chiese con garbo, indicando la pila di asciugamani poggiata sul mobile accanto all'ingresso. Lomewen prese il telo, ma invece che avvicinarsi e porgerglielo lo strinse in pugno, lo alzò sopra la testa e glielo scagliò contro.
Thranduil, anche se preso alla sprovvista, riuscì ad afferrarlo evitando che gli finisse malamente in faccia.
«Grazie tante», disse con ironia, senza però sembrare maggiormente turbato da quel gesto. D'altro canto, Lomewen non sembrava esserne affatto pentita, anzi, insisteva a fissarlo negli occhi con impertinenza. Thranduil sostenne il suo sguardo per qualche secondo, poi si annodò l'asciugamano in vita e si volse altrove, dedicando la propria attenzione allo specchio.
«Credevo fossi prossima a partire. Cosa vi ha trattenuto?»
«Lo sono infatti», rispose Lomewen, «anche se contro la mia volontà».
«Cosa vuoi dire? Forse non desideri vedere il mare, seguire la tua famiglia? Hai solo iniziato a vedere, Lomewen, non hai motivo di essere affezionata a questo luogo», ribatté Thranduil.
Dopo aver frizionato le punte umide dei capelli indossò una veste di seta grigia, lucida come ghiaccio. Sopra di essa mise l'elegante tunica primaverile, e man mano che si abbigliava diveniva sempre più distante.
«Tu verrai? Anche tu attraverserai il grande mare?» Domandò allora la giovane, e il tono con cui pose quella domanda era talmente ingenuo e speranzoso che Thranduil sorrise tra sé del suo candore. Poggiò la corona sul proprio capo, ordinando al contempo i capelli con un pettine. Dunque si voltò nuovamente a guardarla ed ora, con la testa incoronata, appariva lontanissimo, come quando sedeva sul trono.
«Giacché si mormora che il nostro tempo è finito, e giacché il Mare chiama tutti noi, sì, verrò, un giorno».
«Un giorno, ma non ora».
«Non ora, no».
Lomewen allora rifuggì il suo sguardo, così penetrante e assoluto, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si lanciò verso di lui e gli abbracciò disperatamente la vita, cercando conforto nelle sue labbra. Ma Thranduil le donò invece un bacio sulla fronte, e la tenne stretta contro di sé, cercando di arginare il suo pianto nelle proprie vesti.
«Lomewen, tu non hai motivo di legarti a me, né a questa terra. Hai appena iniziato ad aprire gli occhi sul mondo, non hai niente da ricordare, devi solo iniziare a vivere i tuoi ricordi. Segui tuo padre, prendi la nave per le Terre che sono di là. Tu hai avuto il privilegio di iniziare a vivere in un'Era rinnovata, non pretendere né fingere di voler condividere con me il peso e il dolore di tante cose sepolte, ormai, sotto l'acqua e sotto la cenere. Cose che non conosci né mai conoscerai. Questa Foresta è la mia casa da troppo tempo, e non la prima che perderò. Puoi capire perché non ho desiderio di abbandonarla?» Così le parlò, con sincerità, stringendola a sé non più come un amante, ma come un padre.
«Ora va', Lomewen, va'. Lasciami solo. Non ho più nulla da darti, né tu hai nulla da dare a me».



***





Quando l'autunno era ormai morente, il Re di Eryn Lasgalen si incamminò sulla Via Silvana, per l'ultima volta. Attraversò la Foresta, vestita di un caldo manto rosso e dorato, finché non giunse ai margini occidentali. Lì, già da molti anni, vi era un piccolo avamposto della sua gente, costruito con la pietra verde di Erebor e il duro legno delle querce del bosco. Un tempo vi erano uno stalliere, un maniscalco e un manipolo di esploratori silvani, che continuamente mantenevano sicura la via verso Ovest dalle bestie selvagge, la pulivano dagli arbusti e ne ricalcavano il tracciato. Ma ormai non rimaneva più nessuno ad attendere coloro che intraprendevano il Viaggio. La Fortezza del Re era vuota ed echeggiante, non brillava più alcuna luce nelle caverne del Reame Boscoso. Soltanto la luce stellare avrebbe continuato a chiarire le Aule di Cúran, le notti in cui il cielo era sgombro dalle nuvole.
Era con cuore amaro che Thranduil aveva detto addio alle Sale della Luna. Ivi aveva indugiato per lunghe ore, abbandonandosi a pensieri di cose trascorse. Aveva guardato nelle limpide acque dello stagno, ma non vi aveva scorto quello che vi scorgeva in passato: la beltà del cielo di sopra, il solenne specchio notturno che dominava le perdute foreste di Neldoreth, gli occhi di Filigod. Seppe dunque che era giunta l'ora di dire addio.
Decise di prendere con sé il corno di un cervo bianco, che aveva trovato abbandonato nel muschio. Tranciò anche un ramoscello di un abete rosso, e ve lo intrecciò attorno. In cambio, lasciò la propria corona in riva alle acque, sotto le fronde dell'albero più vecchio e maestoso.
Essa non avrebbe avuto più alcun significato, oltre il mare.

«I cavalli sono pronti, Feren?»
«Sì Thranduil, cavalcheranno lesti».
«Di questo non mi importa. Voglio osservare, durante il mio ultimo Viaggio. Ma non voglio voltarmi indietro», disse Thranduil, sorridendo al vecchio amico, e issandosi sul dorso della sua cavalla grigia. Essa era della stirpe di Berut, ed era nobile e fiera come lo era stata la sua capostipite. Legato alla sua sella vi era il corno di cervo che Thranduil aveva preso dalle Sale della Luna, uno dei pochi ricordi che avrebbe conservato.
«Círdan ha lasciato le sponde del Lindon tempo addietro, ma i suoi ultimi naviganti hanno costruito una grigia nave per il Re di Eryn Lasgalen», disse Feren, parlando più a sé stesso che al suo Re. «Ci attenderanno».
Egli spronò dunque il suo destriero, credendo che Thranduil fosse infine pronto a partire. Ma dopo aver fatto pochi metri, il Re si fermò bruscamente, e si voltò un'ultima volta verso i cancelli del bosco.

«Addio, addio bella Foresta. Quanto mi addolora lasciarti in una terra che si oscura e decade, mentre io che sono il tuo Signore vado a trovare la Luce. Addio alle acque del fiume, addio alle grigie montagne, addio alle querce e agli abeti, addio ai faggi che sono stati la nostra casa. Abbiamo camminato per questi luoghi, abbiamo dato un nome agli animali, ai dirupi, ai ruscelli. Abbiamo amato questa terra e in essa abbiamo amato. Ma presto nessuno lo ricorderà più».

Dopo aver pronunciato le ultime frasi di saluto, gli sembrò di scorgere un guizzo luminoso nelle brume del sottobosco. Affilò la vista, colto un momento da curiosità, ma niente più si mosse.
Allora non vi diede altra importanza, e si volse una volta per tutte verso Ovest, spronando la sua puledra verso il sole calante.
Solo allora, un Cervo Bianco incoronato da un maestoso palco di corna avanzò con solennità.
Si fermò sotto i cancelli di Eryn Lasgalen, e lì rimase, seguendolo con lo sguardo.







Addio a Eryn Lasgalen



*



L'Incanto dell'Alba

A serpent lights the ancient sky,
A threat of tainted stars.
Evil stirs and in its wake,
The souls of mortals sway.

Sorrow reigns,
Over fields of red.
Spirits pace,
Through the shadows cast by their graves.

These are days and nights of venom and blood,
Heroes will rise as the anchors fall.
Brave the strife, reclaim every soul
That belongs to the Beauty of Dawn.

Darkness strives to blind the strong
But Faith will guide our swords.
Loyal hearts we'll stand as one
And fight with shields of Hope.

Pride fuels the deadly fire
That devours our tower of gold.
The drums of war will rage and roar
‘Til the sun burns bright once more.

These are days and nights of venom and blood,
Heroes will rise as the anchors fall.
Brave the strife, reclaim every soul,
That belongs to the Beauty of Dawn.



Thranduil e Filigod
© fox king

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