La fenice

di 0gattomiao
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Questa storia partecipa al concorso Fantasy tatoo indotto da Yuko chan. Ho affrettato il finale, creandone uno che non centra nulla, inseguito a dei problemi “tecnici” (i pc capricciosi che cancellano capitoli sono l'incubo di molti) e ho intenzione di proseguirla (aggiungendo molte delle parti mancati) e di aggiustare gli stravolgimenti che sono stati necessari per riuscire a consegnare in tempo.

 

LA FENICE


 

       

 


1.

 

Il re sedeva sulla piattaforma più alta, torreggiando sul lungo tavolo dinnanzi a lui sui cui lati si allungavano ministri e generali. Davanti a ciascuno di loro la tradizionale tazza di ivis, liquore forte e pregiato, era vuota. Prima di iniziare un importante convegno, la tradizione imponeva ai nobili l'obbligo di svuotare l'intera ciotola in un unico sorso e a stomaco vuoto. Molti inservienti sospettavano fosse, più che un onore, una strategia assunta dai precedenti regnanti per rendere gli oppositori instabili e manipolabili. E la dinastia degli Owain durava da più di seicento anni, un primato di tutto rispetto tra i vari regni - superiore a quello dello stesso Supremo- tanto che lo stesso regno ne aveva assunto il nome.

Il nero e il rosso si ricamavano sulle sontuose toghe indossate dal re, accentuando il rosso insolito della sua chioma raccolta in un acconciatura regale di trecce annodate sul capo. La calma tagliente con cui affrontava efficiente la corte era guidata da un'impetuosa volontà. Come ora.

"Vi prego, maestà, considerate lasciarlo qui. Il Magnifico richiede la presenza di tutti, tutti, i re. Anche Dore e Sufra. Questi avvenimenti non sono mai un bene" supplicò l'anziano ministro Azir. Erano a suo carico tutte le terre coltivabili dei picchi e le conseguenti tasse. Era tra i primi ad aver usufruito e aver avuto contatto diretto con le migliorie dei cambiamenti ispirati un anno prima. E la fonte ispiratrice sedeva, annoiata, alla sinistra del re. Giovane, con modi fragili e languidi, il giovane dai lunghi capelli neri sedeva accanto al re del nord e lasciava intendere come tutto ciò non lo riguardasse neanche un po'. Sfacciato, trascurava l'etichetta e la decenza sedendo scomposto, appoggiato alla parete finemente decorata che dietro di lui celava il corridoio utilizzato dai regnanti per entrare nella sala. Solo il trono finemente decorato possedeva uno schienale, per aiutare il monarca a portare il peso del regno. Da tutti gli altri ci si aspettava la necessaria educazione inculcata fin dalla nascita a posa e modi eleganti, la schiena eretta senza artificio simbolo di cultura e nobili natali. L'anno prima, quando la presenza del giovane seguiva il re più strettamente della sua ombra l'indignazione era dilagata a corte. Tali modali erano intollerabili, ancor di più verso la persona che il giovane dava sfoggio di rispettare di meno: il re.

I nobili, i più fidati consiglieri, persino l'exregis, madre del re, avevano, futilmente, cercato di trarlo in ragione. Un simile degradato non poteva dilagare tra loro. E consiglio dopo consiglio il giovane si era stravaccato in un angolo. Imperturbabile, lo sguardo colorato di un cielo in primavera vagamente interessato sugli astanti, come un dio e la distanza tra il suo trono e il mondo terrestre. Irritato rispondeva di malavoglia ai quesiti posti dal sovrano, quando quest'ultimo gli chiedeva consiglio su una o un'altra faccenda. E per il disgusto dei molti, sotto la guida di quelle risposte secche e stizzite, il regno era fiorito. Con un paio di insolite innovazioni il raccolto dei picchi inospitali e aridi era raddoppiato, per la prima volta dalla fondazione del regno esso ne aveva abbastanza da mantenersi durante l'inverno e addirittura farne un commercio con la vicina Calomora; nuove tecniche di formazione sul campo avevano posto fine ad anni di schermaglie sul confine delle vicine regioni. Nella corte sussurri giravano su colui a cui spettava il merito, sussurri inquieti le cui correnti avevano raggiunto le corti oltre il confine.

"No. Che posto può essere più sicuro, per lui, se non al mio fianco? O dubitate che sia in grado di frenare l'interesse di quegli avvoltoi?" Il re guardò una per una le facce contrariate, sfidandole a opporsi a lui. "Inoltre l'incontro col Magnifico Regis prevede strettamente solo i re e i pochi funzionari necessari. Nessuno saprà o vedrà nulla di lui. Qui si conclude la riunione. Lasceremo la corte la prossima luna."

In un basso mormorio i funzionari si dispersero a gruppi, lasciandoli soli. "Ridicolo," sbuffò il giovane, raddrizzandosi "spendere due interi cicli lunari viaggiando per un inutile raduno di culi coronati che non concluderà nulla. Ognuno sperpererà ricchezze ed energie, tornandosene a casa un po' più povero, stanco e meschino, con pace e alleanze appena avviate e già pianificano disgrazie altrui per proprio tornaconto. Buttando il proprio tempo nella latrina. Vacci da solo, io voglio cibo commestibile e un letto caldo."

"Al letto provvederei io" disse allusivo, avvicinandolo a sé. "Ti manterrei bollente."

L'aria frivola svanì, le linee leggiadre del volto si irrigidirono impassibili e con disgusto allontanò lo sguardo dal re. Ogni divertimento sparì anche per il sovrano, che col braccio lo avvicinò e lo avvolse nella sua pelliccia, pesante e morbida.

"Il mio tesoro. Più la tua arguzia da frutti più desidero legarti a me." Gli scostò una una lunga ciocca dalla fronte, baciandogliela. Rimase scoperta al centro, poco più in alto delle sottili sopracciglia, la prova della sua divinità: una singola goccia di sangue cremisi, versata da Glide per farlo nascere. Il tocco lieve delle labbra del re gli sfiorò il simbolo. Il ragazzo mantenne lo sguardo fisso sulla sala vuota e tacque.

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


2.

 

I vagoni e le tende rifugiavano i viaggiatori dai venti gelidi notturni che falciavano i picchi. Avrebbero raggiunto le valli sottostanti, più calde, solo una settimana più tardi. Da dentro il suo vagone osservava l'oscurità ricordando un viaggio simile. Era passato un anno, un intero anno. Con sua sorpresa non era ancora impazzito. L'interno del suo vagone, trasportato di giorno da ben trenta uomini, era ripieno di tutte le comodità possibili in uno sforzo da parte del bastardo di rendergli meno gravoso il viaggio. C'era persino uno specchio, inchiodato alle assi levigate. Prese una manciata di capelli, liberi dalla solita treccia, fluenti tra le sue dita pallide ed eleganti, scorrevano sulla schiena scoperta fino a quasi toccare i piedi nudi, solleticandogli le caviglie. Il bastardo non gli permetteva tagliarli, affermando di amare alla follia quella cascata nera. In quello è fin troppo simile a Glide, pensò amaro. Tornò a guardare lo specchio. Erano davvero troppo lunghi, per lui, segno tangibile di tutti i giorni trascorsi. Si voltò nuovamente verso la piccola finestra appannata, cogliendo con la coda dell'occhio un accenno di colore sulla pallida schiena. Mancavano pochi giorni prima tutto si ripetesse nuovamente, come la prima volta. Si irrigidì, afferrò la cosa più vicina – una teiera finemente lavorata – e la scagliò contro il riflesso, frantumando lo specchio. Urla allarmate, la porta nel retro del vagone si spalancò, irruppero le sue guardie personali. Rubi squadrò l'ambiente ristretto, la spada in mano.

"Tutto bene, duca?" chiese incerto, scorgendo i frammenti dello specchio.

"Fuori di qui!" furioso si strinse nella pelliccia più vicina, coprendo il busto nudo. Tra le sue guardie era ben conosciuta la sua preferenza a denudarsi nei suoi alloggi privati e l'intolleranza verso abiti troppo pesanti o costrittivi. Confusi distolsero imbarazzati lo sguardo dalla pelle candida. Il solo accenno di interesse per il corpo nudo del duca era una sentenza di morte senza possibilità di appello. Il re sembrava considerarlo più sacro del tempio di Miràa. A disagio i soldati, guidati da Rubi, si inchinarono e chiusero la porta. Lui sentì Rubi ordinare a qualcuno di chiamare il re.

Ovvio, pensò, sono al di sopra di tutti, ma solo per concessione del bastardo, per un suo capriccio.

La porta si spalancò di nuovo, il bastardo gli invase lo spazio a grandi passi. Steso sul letto, il giovane si ritrasse ancora di più nelle pellicce. L'uomo alzò un sopracciglio alla vista dei frammenti scheggiati e della teiera in mezzo a loro. Si tolse il pesante mantello, lasciandolo scivolare a terra – tanto avrebbe passato lì la notte, lo sapevano entrambi. "Qualcosa non va?"

"Non voglio vedere più nessuno specchio" ringhiò.

"Perché mai? Sei bellissimo, è irresistibile ammirarti." Si sedette sul bordo del letto.

Una risata amara scosse il giovane, simile a un singhiozzo, cessò bruscamente e lo guardò, odio misto di disperazione: "Lo sai! Sai il perché! Non fingere ignoranza, bastardo!"

"Andrà tutto bene, durerà solo un'ora. Neanche il tempo di accorgertene e sarà finita."

Gli rise in faccia, un suono stridulo e spezzato. "Non sarà finita! Lo farai ancora e ancora, ogni tre lune! Lasciami andare! LASCIAMI ANDARE!" pianse, scostandosi frenetico, cercando di colpire l'uomo che si chinava su di lui. Gli catturò i polsi, schivando un pugno e permettendo che l'altro lo colpisse al petto. Lento e inesorabile calando su di lui, portandogli i polsi sopra la testa, premendoli contro il materasso e portandosi sopra il corpo sottile coperto dalle pellicce scure. Le scostò, premendo i pantaloni freddi dal gelo esterno al vagone contro l'interno delle gambe, allargandogliele. Impietoso soffocò i singhiozzi con lunghi, lenti baci. Strato dopo strato rimase nudo su di lui, senza mai lasciarlo, dominandolo completamente tra un gesto e l'altro.

Fu una lunga notte.

Al mattino uscì, lasciandolo addormentato, un fagotto stremato.

Le guardie che proteggevano il duca tutti giorni e le notti si erano distanziate di qualche metro dalle sottili pareti del vagone, che lasciavano poco all'immaginazione. I primi raggi si riflettevano dorati sui picchi. La neve raggiungeva ancora i polpacci, il viaggio era appena cominciato e il gelido morso bianco non li avrebbe abbandonati fino a valle. Molto prima di allora, in un paio di giorni, si sarebbe ripetuto il rituale, il bellissimo volto stravolto dall'agonia. Non lo avrebbe potuto baciare, non quando tutto richiedeva una precisione estrema senza margine d'errore. Con un cenno ai soldati si allontanò nel campo che si stava svegliando.

***

Le guardie a volte non comprendevano se il re amasse o odiasse troppo il duca, tra i gemiti soffusi di alcune notti e le urla straziate che attraversavano le pareti ogni tanto, come in quel momento.

Il distintivo vagone dorato era rimasto indietro alla comitiva già accampata nella spaziosa radura più avanti. Circondato dal terzo battaglione stava al centro esatto, un centinaio di metri dal soldato più vicino esclusa la decina di uomini, guardie scelte, intorno al vagone stesso. Solo un paio di fedelissimi, presenti anche la prima volta l'anno prima, quella notte, erano all'interno.

Jook tratteneva le gambe, inginocchiato su esse, Rubi tratteneva il braccio destro tra le ginocchia e premeva tutto il suo peso sulla spalla. Il re, dalla parte opposta della schiena, faceva lo stesso. E tra di loro mani di un grigio verdastro maneggiavano un lungo ago argenteo. Erano innaturalmente lisce, come pietra levigata, innaturali e prive di calore umano. Un polso era stretto da un bracciale di perle azzurre, con un'unica perla rossa allacciata a un filo di altre perle blu al cui capo un'altra perla rossa collegava alla collana che stringeva il collo del duca. La pallida schiena era scoperta fin sotto le anche, la lucente tunica verde e dorata scostata assieme ai lunghi capelli, lasciando completamente libero il dorso. L'ago, meno lungo di un braccio, toccò di nuovo con la punta acuminata il disegno sbiadito, semi trasparente, che sotto i loro occhi stava svanendo. La schiena si inarcò, un nuovo urlo tormentato si innalzò dal collo scattato verso l'alto, gli occhi dello stesso azzurro delle perle sgranati, rivoli di lacrime sbalzate dal brusco movimento. Linee di colore si diffusero nella pelle, le urla più strozzate man mano che tutta la superficie del disegno era riempita.

Le nocche del re erano sbiancate nello sforzo ti trattenerlo immobile, nelle pause ansimanti poteva sentire il mormorio turbato dei soldati all'esterno. Se gli avesse premuto in bocca delle garze le urla si sarebbero attutite, limitando le strane voci che già giravano a palazzo. Di sicuro alcune spie si erano infiltrate tra i servitori e sapevano delle strane "crisi" che avvenivano ogni tre lune. Ma poteva davvero negargli quell'unico sfogo?

"Ti prego, basta" supplicò rauco "Ridammela, ti prego, non scapperò, lo giuro, non lo farò. Per favore, ridammela, basta, lo giuro, giuro, non scapperò, ti pregAAAAAAA!" l'ago riprese a tracciare i colori nella pelle. Lo pregò, supplicò, minacciò, finché l'ultima goccia fu incisa: il bracciale esplose spargendo la miriade di perle che lentamente presero a svanire, e non gli rimasero che frasi sconnesse sussurrate tra lacrime secche.

"Fuori." sussurrò il re. Rubi e Jook se ne andarono, dando l'ordine ai soldati di richiamare gli uomini e sollevare il vagone, riprendendo la marcia.

Sollevò la figura accasciata dal giaciglio scomposto di coperte e la pose delicatamente sul letto, facendo attenzione a lasciare scoperta la pelle sensibile. Gli raccolse i capelli, intrecciandoli nella solita treccia semplice, una copia di quelle più piccole intrecciate dalla sua chioma, annodare in un fascio sulla nuca per enfatizzare i movimenti a cascata scarlatta. La punta si allungava comunque sotto le natiche, tagliando il tatuaggio a metà. Lieve percorse l'immagine con un polpastrello. L'alato occupava l'intera schiena, il profilo del capo iniziava sulla spalla sinistra e la coda curvava sul fianco destro. Chiamarlo uccello sviliva l'idea del suo vero essere, perché nessun uccello del genere aveva mai solcato i cieli terrestri. E per quanto vivida e magnifica fosse l'immagine, sapeva che era solo una pallida ombra dell'essere che rappresentava. Il capo, il collo allungato e il petto erano del blu cangiante dei mari e degli oceani dell'oltremondo; l'ala era l'intreccio di sfumature azzurrine, celesti, grige e un bianco perlaceo, e dove iniziavano le penne remiganti – necessarie per il volo- queste diventavano protagoniste scendendo come lingue di fuoco capovolte e brillando di tutti i colori mai assunti da una fiamma; la coda -assieme all'ala- dominava l'insieme: come un manto partiva dal dorso e si diramava in combinazioni colorate che cambiavano col movimento e i raggi del sole, una foresta vivente sulla pelle. Le dita passarono sul blu. Acqua. Si soffermarono sul grigio perla. Aria. Continuarono sui colori sanguigni, arancioni e bluastri. Fuoco. Terminarono sul verde. Terra. Tracciandone i contorni finì sul fianco del giovane incosciente, tentennò un attimo e poi fece scivolare la mano di sotto. Gli avvolse il sesso, accarezzandolo, convincendolo a prendere vita. Lo massaggiò fino a sentire un basso gemito, seguito da un sospiro. Un occhio si era aperto e lo guardava con odio e disperazione. Si avvicinò, succhiando il lobo dell'orecchio vicino. La palpebra si abbassò. "Di' il mio nome" sussurrò. Il ragazzo nascose il volto tra le pellicce, soffocando i sospiri. Strinse con più forza le parti delicate. Guadagnò un gemito. "Il mio nome." "Dalach" mugugnò sensuale. Una breve esclamazione sospirata e si accasciò, addormentato. Ritrasse la mano, il frutto del proprio lavoro colava dalle dita. Si portò alla bocca l'umidità che gli sporcava la mano, assaggiandola. Un pensiero, l'immagine di un fantastico essere sfrecciante libero nel cielo, gli apparve davanti agli occhi. "Mio." Masticò quella parola con rabbia, prima di dirigersi deciso verso il suo cavallo felpato e precedere l'arrivo del terzo battaglione al campo.

***

Durante il resto del viaggio il ragazzo non esalò una parola.

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


3.

Ignatio era il funzionario del Magnifico. Uno dei tanti. A ventisei anni si era conquistato un'elevata posizione sociale coltivando attentamente la propria cultura e le relazioni sociali. Impettito attendeva di poter accogliere uno degli ultimi arrivati al Congresso dei re, il sovrano di una delle regioni nordiche: re Dalach Islwyn Owain. In questa importante occasione il Magnifico aveva deciso di tenere sotto controllo tutti i regnanti radunandoli nella propria residenza estiva, il Palazzo Primavera, allontanandoli così dal grosso delle loro forze militari. Ovviamente l'invito non era stato posto in quel modo. Il corteo superò i grandi cancelli dorati e lui si inchinò profondamente alla figura in testa, un uomo alto, imponente e con una fiammeggiante chioma rossa. E così era questo il giovane re che in un anno aveva compiuto miracoli per il suo regno? Rimanendo chinato ed evitando di guardarlo negli occhi intonò: "Grande re del possente Nord, sua maestà il Magnifico Regis vi accoglie con gioia in questo che è il vostro primo Congresso e con generosità vi invita a disporre dell'intera area sud-est del Palazzo Primavera augurandosi che vi ponga a vostro agio in questo clima così differente. Per la comodità di tutti i regnanti in viaggio si darà via agli incontri una settimana dopo l'arrivo dell'ultimo sovrano." "Chi manca all'appello?" "Re Oghe delle Distese Erbose e la Regina Nevra delle Isole Legate, vostra maestà." Entrambi regni minori ma influenti sul commercio tra i regni maggiori, calcolò il re. Con un cenno ordinò: "Fammi strada".

Gli ampi alloggi erano più che sufficienti per il centinaio di persone al seguito, per lo più funzionari, un paio di ministri, le loro famiglie, generali e servitori. Una portantina finemente lavorata seguì il re nelle sue stanze, le tendine fermamente chiuse. Ignatio concluse i convenevoli e si avviò per i corridoi chiusi all'interno del palazzo. Quella portantina continuava a tornargli in mente. Si era documentato su tutti i re partecipanti, Dalach Islwyn Owain incluso. Era salito al trono cinque anni prima, a ventitré anni, dopo la morte del padre ucciso da una valanga durante una battuta di caccia. Al momento non aveva eredi e nessun matrimonio era in vista all'orizzonte. Le cose non erano cambiate dopo la morte del precedente re, il potere era solo passato ad altre mani. Fino a qualche luna prima, quando voci erano iniziate a circolare nelle diverse corti, anche in quella del Magnifico, sussurrando della crescente ricchezza nel nord. Quell'anno nessuno da Owain aveva intavolato le annuali trattative per l'acquisizione di granaglie, anzi, avevano sparso la voce che ne avevano da vendere. Questa follia aveva creato sgomento per settimane, molti avevano ipotizzato nell'ombra che fosse una tattica per abbassare il prezzo medio dei sacchi e inseguito comprarne. Parecchie spie avevano tenuto d'occhio i vari granai reali, ma la richiesta non era mai arrivata. Il che aveva infastidito parecchio gli altri regnanti, specialmente la fazione sud che disponeva di raccolti abbondanti e necessitava delle gemme delle prospere miniere nordiche. A tale fazione apparteneva lo stesso Magnifico. E di tutto questo l'unica informazione certa era che il re, durante la stagione della semina, aveva incontrato di persona gruppi di contadini. E ora quella portantina dorata, senza alcuno spiraglio. Una concubina? La futura regina? Si diresse verso le proprie stanze, scribacchio con precisione poche frasi. Quel pomeriggio, passando per caso davanti agli alloggi del re di Robeu, un biglietto fu consegnato a una delle dame di compagnia della regina Milla.

***

Il ragazzo sbuffò, lanciando un'occhiataccia alla dama accanto a lui. "Mi annoio. Voglio andare via. Quanto ancora dobbiamo aspettare prima di tornare indietro? Sono passate settimane!"

"Duca" tentò di rabbonirlo "solo un'altra luna, le trattative non sono ancora concluse e i vari re hanno molto di cui parlare." "Parlare di cosa? Di quanto sia comodo il trono o di come andare a caccia? Sono stufo di essere rinchiuso qui. Di annoiarmi. Voglio uscire. Fuori, fuori, fuorifuorifuorifuorifuorifuorifuorifuori..." cantilenò il duca. Duca di cosa, poi? Non aveva nemmeno un metro di terra da dichiarare suo. La dama sorrise incoraggiante, rassicurandolo: "Sono certa che il re organizzerà qualcosa per il vostro divertimento, appena finirà la riunione. Rubi stesso gli riferirà i vostri sentimenti riguardo la permanenza in queste stanze, non è vero?" richiamò l'uomo che in un angolo tentava di passare inavvertito. Il duca non degnò di uno sguardo la guardia, balzò in piedi e con decisione si diresse verso una delle porte interne. "Io esco adesso" stabilì. La guardia e la dama si scambiarono un'occhiata preoccupata. "Duca, non potete, il re ha dato ordini precisi. Nessuno deve incontrarvi." "Al diavolo il re." disse, spalancando le porte.

"Permettete almeno alle ancelle di vestirvi in modo adeguato" lo supplicò la donna. "Per favore?"

Il duca gettò uno sguardo alla semplice sottoveste che indossava e cedette. "Se non sono pronto entro il suono della prossima campana uscirò comunque, anche nudo se necessario!" Le ancelle esclamarono sbigottite, affrettandosi a condurlo dietro i paraventi. La dama lanciò un sorriso d'intesa alla guardia che uscì trafelata verso la porta dei giardini. "Affrettati" gli raccomandò.

 

La giornata luminosa esaltava gli alti arbusti ornamentali. Girovagando non aveva scorto nemmeno un albero che superasse i muri di cinta del giardino. Solo gli spessi arbusti isolavano gli stagni a cascatella davanti alla residenza del re di Owain. E, fatta eccezione per le dame di compagnia e dei soldati in lontananza, non c'era nessuno. Il suo umore peggiorò, seduto all'ombra di un porticato osservando il cielo senza nuvole. "Rubi" chiamò la guardia. "Si duca?" "Manda via tutti, voglio stare solo." "Come desiderate" si inchinò la guardia, eseguendo l'ordine e facendo rientrare le dame.

Ignorava il motivo, ma da quando era uscito vecchi ricordi non smettevano di riaffiorare. Si sfiorò la schiena. Era nato dalla codardia, quell'odioso tatuaggio che lo teneva in vita. Tentò di scacciare i ricordi che sorsero prepotenti, portando a galla quella notte, quando tutto era finito e aveva dato via all'orrore.

Da sempre Glide si era opposto ai suoi viaggi nel reame terrestre, ma Glide si opponeva a tutto ciò che era divertente. Quindi, da sempre, Amame aveva scavalcato i suoi ordini. La notte era stata tranquilla, le stelle lucenti si erano riflesse nella sorgente nascosta tra gli alti picchi, in uno dei boschi più isolati, una piccola valle bloccata su tre lati da precipizi invalicabili. Lente volute di vapore si erano alzate invitanti, irresistibili. La quiete regnava, il fruscio lento e costante del vento come coro. Le piume si arruffavano sempre, se immerse in acqua calda per troppo tempo. Amame odiava volare con le piume arruffate, tornando a casa i suoi fratelli l'avrebbero deriso, chiamandolo Pulcino. Lui non era più un pulcino, l'anno prima aveva compiuto il rito del cambio, era grande. Solo i suoi stupidi fratelli non sembravano accorgersene. Specialmente Glide. Lui lo chiamava Pulcino anche senza le piume arruffate. Prese forma umana, appoggiando delicatamente il piumaggio sulla sporgenza di un ramo spezzato a un paio di passi dalla fonte. "Mmm" gemette. Sarebbe dovuto venire più. Molto più spesso, riflette stiracchiandosi. Galleggiò rilassato a pelo d'acqua, osservando il firmamento, la brezza fresca gli accarezzava le parti esposte.

Un fruscio, l'ondeggiare di un ramo. Voltandosi col cuore in gola, colse la fuga rapida di un'ombra. Il mantello era svanito.

Sconvolto e tremante inseguì il ladro sotto la flebile luce lunare, fino a ritrovarsi disorientato nel cuore della boscaglia, perso e vulnerabile. Scosso da singhiozzi al pensiero delle conseguenze, aveva con voce tremula tentato l'ormai scomparso ladro con promesse disperate. Il respiro affannato di un corpo nel quale non era abituato a stare, la conoscenza che non sarebbe mai riuscito a tornare nel regno dei cieli, erano esperienze che lo stavano distruggendo.

I tremiti sconvolti diventarono veri e propri sconquassi mentre per la prima volta nella sua esistenza scopriva cos'era il freddo gelido degli alti picchi del Nord. Percepiva il mantello allontanarsi, il ladro, portandosi via la sua essenza, ciò che lo rendeva chi era, lo lasciava accasciato lì, senza più forze, troppo debole per fare altro che giacere, sempre più debole.

Mani calde, forti, lo sollevarono da terra. Nel silenzio dell'alba, mezzo morto congelato, fu premuto contro un amplio torace, bollente. Umano. Con la pelle insensibile, senza forze, pianse.

 

Fu portato in un accampamento poco lontano da quello che, come scoprì più tardi, era il re.

"Una simile meraviglia non può essere terrena, perché tale grazia non appartiene al nostro mondo" disse qualcuno.

"Ladro." Un sussurro aspro fu tutto ciò che riuscì a pronunciare. Tutto ciò che la poca forza rimasta gli permise di dire sulla rabbia e l'odio che lo scuotevano nel profondo, per l'enormità dell'affronto subito, mentre l'energia necessaria alla vita gli veniva drenata via. Perché la sua essenza era lì, in quella tenda, nascosta da quell'essere infido che non lo poteva ingannare.

"Ladro." Oh, se solo le parole fossero state pugnali.

Impietoso il suo carnefice lo fissò negli occhi. "Nel reame umano vigono le regole umane. Ti sei addentrato a tuo rischio e pericolo, consapevole. Qui non valgono i tuoi privilegi divini." Amame non riuscì a bloccare un gemito rabbioso. Lo sapeva, l'aveva saputo, per questo aveva scelto gli impenetrabili picchi come sua sede di riposo dalle frustrazioni celesti, l'unico luogo in cui poteva sfuggire dall'attenzione opprimente di Glide.

Non voleva cedere a quello sguardo perspicace, non voleva cedergli quella soddisfazione, ma era sempre più difficile rimanere sveglio, cosciente. Perdeva le forze, la volontà si infiacchiva.

Ormai sul punto di scivolare via, la sua attenzione fu ricatturata dal bastardo.

"Stai morendo." Quell'osservazione era così sciocca da non valere nemmeno l'insulto che avrebbe voluto sputargli in faccia. "Ti propongo un accordo" disse la figura sfuocata davanti a lui. Amameo sentì l'amaro in bocca: oltre al danno la beffa. Che patto si poteva forgiare con lui ridotto allo stremo e il bastardo che gli aveva portato via tutto di fronte a lui? "Nelle mie stanze nel palazzo di Piccone c'è una clessidra d'osso: giura di servirmi per il tempo di un suo giro e, oltre alla vita, potrai avere la libertà." Gli venne da ridere e nel silenzio aspettante si udì il suo gorgoglio strozzato. Piuttosto mi ammazzo da me. Non si sarebbe mai inchinato a quel verme.

"Ti nominerò duca, nessuno, oltre a me, nessuno ti sarà superiore" lo spronò impazziene il verme.

Non voleva accettare, l'idea di servirlo anche solo per un minuto era ripugnate.

Glide l'avrebbe cercato per Cielo e Terra, prima di rassegnarsi. Si sarebbe logorato le possenti ali nella sua futile ricerca. Una parte di sé non riusciva a immaginarlo rassegnato. Avrebbe atteso, per sempre, il suo ritorno nei Cieli. La scelta lo straziava, straziante era il dolore che provava il suo orgoglio all'inchinarsi. Ma voleva vivere.

Annuì, un cenno di pochi millimetri ma sufficiente.

 

Tornò alla realtà. La cara, vecchia, odiosa realtà. Dove un cielo sereno splendeva e lui, senza ali, non poteva solcarlo. 

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