Crossed lives

di AnyaTheThief
(/viewuser.php?uid=30800)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo bonus - Iris ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1



Si trovava in una stanza a lei molto familiare. Una camera da letto, un grande, grandissimo letto, con un baldacchino azzurro. Tutta la stanza era adornata da quadri, un grande arazzo, decorazioni sulle pareti che parevano scolpite dal più abile degli artisti. Una grossa specchiera incorniciata d'oro riflesse la sua immagine quando vi passò davanti.

Si vide sfilare con un bel vestito turchese di stoffa pregiata, i capelli le lasciavano scoperta la nuca, in un'elaborata pettinatura adornata di spilloni e perle, come quelle che spiccavano attorno al suo collo e che ciondolavano dalle sue orecchie.

E in braccio teneva un bambino. Il bambino più bello che avesse mai visto. La sua faccina rotonda le sorrideva spensierata, mentre agitava la manina in direzione del suo viso. Era suo figlio. Una certezza che nessuno avrebbe potuto toglierle: era suo figlio.

Si sarebbe dovuta sentire felice in quel momento, ma una grande ansia le saliva dallo stomaco, facendole bruciare il petto. Guardò fuori dalla finestra e vide due uomini a guardia del portone d'ingresso, due soldati. Si sentì d'improvviso impotente: non aveva alcuna via di fuga. Deglutì, sbattendo le ciglia un paio di volte per ricacciare le lacrime, poi un vagito richiamò la sua attenzione.

“Ehi...” sussurrò al bimbo, carezzandogli il viso in maniera giocosa. Ma poi tornò a guardare dalla finestra. Altri tre uomini stavano arrivando a cavallo, tre uomini che conosceva bene. Ma non avrebbero dovuto essere soltanto tre; cercò con lo sguardo un quarto uomo, invano.

I loro mantelli azzurri contrastavano con i vestiti in pelle scura che indossavano sotto, e i cappelli dalla tesa larga le impedivano di vedere in viso due di loro, ma non ce n'era alcun bisogno, sapeva benissimo chi fossero.

Li osservò scendere dal cavallo ed iniziare a discutere con i due soldati alla porta. Il suo sguardo rimbalzava da una fazione all'altra angosciato, finché sentì che il tono della discussione iniziava a scaldarsi: quando uno degli uomini col mantello azzurro tirò fuori una spada, scostò la tenda per impedirsi di continuare a guardare.

Strinse a sé il bambino, chiudendo gli occhi. Non voleva più restare lì, quello non era il suo posto, non erano i suoi vestiti, non era la sua camera. Non apparteneva a quel mondo, e non le piaceva la sensazione che stava provando in quel momento.

Poi udì dei passi pesanti al di fuori della sua porta, ed il suo istinto le gridò di fare qualcosa per bloccare l'ingresso. Ma per quanto si guardasse attorno in cerca di idee, le sue gambe erano bloccate e non rispondevano più ai suoi ordini.

La porta si spalancò con un rumore sordo che la fece sussultare. Strinse il neonato a sé, proteggendolo con il suo corpo, quando vide l'uomo che tanto temeva, scortato da mezza dozzina di guardie come quelle che sorvegliavano l'ingresso. Era biondo e l'unico occhio azzurro visibile sembrava una pietra preziosa incastonata su un viso segnato dai tratti spigolosi. L'altro occhio era coperto da una benda nera la cui vista le provocò un moto di soddisfazione.

Le sorrise viscidamente: avrebbe voluto pregarlo, scongiurarlo, di non fare del male al bambino, avrebbe voluto gettarsi ai suoi piedi e piangere, urlare.
Ma niente di tutto questo le riuscì, le parole le restavano incastrate in gola in una rassegnazione terrificante. Si sentiva nuda di fronte a quella persona, vestita soltanto del suo orgoglio.

“Vostra Maestà” disse l'uomo, accennando un inchino ipocrita in sua direzione.

Lei strinse le labbra per costringersi a non piangere, per mantenere quel poco di dignità che le era rimasta. Era una Regina. Sentì di dover affrontare tutto questo come tale, con grazia e compostezza. Ma era anche poco più di una ragazzina dopotutto, e la sua forza di volontà non riuscì a fermare quelle poche lacrime che le rigarono le guance al pensiero di suo figlio, del suo adorato bambino. Era quello che la preoccupava più di tutto, anche se sapeva di essere lei stessa in grandissimo pericolo.

Quando l'uomo biondo si fece da parte per farla passare attraverso le porte della camera, lei alzò il mento dandosi l'aria che le si addiceva, regale, un po' altezzosa. E a passo deciso uscì dalla stanza.

 

 

 

Il tonfo sordo della porta che si richiudeva fece svegliare Viktoria di colpo. Sussultò, e si rese conto di trovarsi in un bagno di sudore. Scostò subito le coperte, agitata, alla ricerca di qualcosa, ma quando non la trovò, parve calmarsi. Trasse un lungo sospiro mentre chiudeva gli occhi, e si asciugò la fronte cercando di tranquillizzarsi.

Si guardò attorno: era di nuovo nella sua stanza, per fortuna. Non c'era nessun bambino lì. Riconobbe le foto alle pareti, la sua libreria, la scrivania ordinata. Ma mano a mano che tornava alla realtà, si rendeva conto che qualcosa non andava. Finché poi non sentì una voce familiare che urlava il suo nome.

“Vicky! Vicky, muoviti!”

Eva la chiamava, evidentemente in panico. Ancora non aveva capito cosa fosse successo, ma saltò giù dal letto, dimenticò del tutto quanto fosse vogliosa di farsi una bella doccia calda, e si infilò le pantofole, schizzando fuori dalla stanza in camicia da notte.

Vide sua sorella sorreggere la nonna per un braccio, accompagnandola dalla sua stanza verso il salotto, e subito capì. Come aveva fatto a non sentire? Quel sogno sembrava così reale che le aveva fatto perdere la concezione della realtà stessa... Una sirena iniziò a suonare per strada, forte e chiara.

Ancora perplessa, scosse il capo per ricacciare il pensiero dell'ansia e del suo bambino... Lei non aveva nessun bambino, non aveva nemmeno un marito. Corse verso Eva, aiutandola a sorreggere la nonna. Nel momento in cui la raggiunse, in lontananza si udì una forte esplosione, che fece urlare tutte e tre, ed abbassarono istintivamente la testa coprendosela con le mani.

“Dov'è papà?” domandò Viktoria, cercando di fare aumentare il passo all'anziana nonna. Eva non rispose.

Il rifugio antiaereo era a pochi passi da casa loro, ma ogni volta a Viktoria sembrava una strada lunghissima. Con la nonna sottobraccio, poi, pareva un viaggio infinito. Di solito il padre la prendeva tra le sue braccia forti e correvano molto più velocemente. Ma la sera precedente non era tornato dal lavoro: spesso faceva molto tardi, e Viktoria in quel momento non riusciva nemmeno a capire quante ore o minuti fossero passati da quando si era addormentata.

Il cielo fuori era scuro, nell'aria si respirava tensione, ancora poche persone correvano per le strade, e si rese conto in quel momento che con la sua lentezza ad uscire dalla stanza aveva messo in pericolo tutta la sua famiglia.

“Andiamo, nonna!” cercò di esortare l'anziana donna, che a fatica posava un piccolo passo dietro l'altro, trascinata dalle nipoti. Viktoria vide una lunga colonna di fumo nero che saliva in cielo, a est. Sentì ronzare un aereo sopra di loro, e poi udì un fischio. Un'altra bomba esplose, anch'essa in lontananza per fortuna, ma non poté fare a meno di chiudere gli occhi e ripensare a quell'uomo del suo sogno.

Allungarono di nuovo il passo, fino a raggiungere finalmente le porte del bunker sotterraneo, nel quale si infilarono poco prima che venisse chiuso. Sapeva che quello era uno dei più sicuro di Vienna, ma era anche rischioso perché quando chiudevano le porte non venivano più riaperte per nessuno. Non sarebbe stato un problema così grande, dopotutto ce n'erano altri nei dintorni facilmente raggiungibili in uno o due minuti di corsa, ma con la nonna tutto si complicava. Era stata perciò una fortuna che fossero riuscite ad arrivarci sane e salve.

Guardò i soliti volti che ben conosceva dei suoi vicini di casa. Ogni tanto c'era qualcuno di nuovo, qualcuno che magari passava di lì quando iniziavano a bombardare.

“Ma dov'è papà?” domandò di nuovo alla sorella, mentre facevano sedere la nonna su una delle due lunghe panche che correvano per tutta la lunghezza del tunnel.

“Non è tornato. Vedrai che sta bene.” cercò di rassicurarla Eva, con quella sua sicurezza da sorella maggiore che spesso ostentava, e che Viktoria non riusciva mai a capire se fosse sincera o soltanto una facciata. Si sedette, guardando nel vuoto e giocherellando nervosamente con la camicia da notte. Non le piaceva mostrarsi agli sconosciuti in quel modo, ma dopotutto non era certo l'unica a non essere vestita propriamente. Sua sorella aveva saggiamente afferrato la propria vestaglia e anche la nonna era ben coperta. Si guardò attorno, preoccupata. Sperò quasi di trovare tra quei volti quello del padre, ma sapeva che era impossibile.

“Di nuovo quel sogno?”

Un'altra bomba fece sobbalzare tutti, questa volta un po' più vicina, ma Viktoria non fece finta di non aver sentito la domanda della sorella.

“Cosa?” domandò, per farsela ripetere. Era un sollievo poterne parlare con qualcuno.

“Ho detto: di nuovo quel sogno?” domandò nuovamente, sporgendosi verso di lei, per avere una visuale migliore al di là della nonna seduta tra di loro. L'anziana donna sembrava non starci molto con la testa, come se fosse altrove. Sorrideva al nulla, persa con lo sguardo nel soffitto del rifugio.

Viktoria annuì.

“Ma questa volta... La porta si è aperta.”

Eva strabuzzò gli occhi. E' da quando erano bambine che Viktoria le raccontava quel sogno. Si svegliava sempre nel cuore della notte madida di sudore, terrorizzata; a volte capitava una volta al mese, a volte una volta a settimana. E' capitato anche che non lo rifacesse per anni, e poi all'improvviso... Ma da quel che può ricordare, non era mai capitato che la porta si aprisse. Si svegliava sempre nel momento in cui sentiva i passi nel corridoio, e non appena i battenti si smuovevano, il sogno terminava.

“E chi c'era?”

Di nuovo una bomba fischiò ed esplose, ma questa volta molto più lontana della precedente. Viktoria si limitò ad ignorarla, come se fosse completamente abituata.

“Un uomo... Un uomo biondo!” vide che la donna seduta di fianco a sua sorella la guardava con aria stranita, quindi abbasso la voce. “Mi faceva uscire dalla stanza... E non lo so, era tutto molto strano. Avevo paura di quell'uomo.” spiegò, passandosi una mano tra i capelli biondi sciolti sulle spalle. “Avevo paura per il mio bambino.” lo disse così seria che, per quanto assurda potesse suonare quella frase, la sorella non rise.

“Era...?” fece per chiedere, ma lei la anticipò.

“No. Non era l'uomo che cercavo.”

Restarono in silenzio per un po'. Viktoria guardò una donna in fondo al bunker che stringeva a sé un piccolo di cinque o sei mesi che piangeva singhiozzando e urlando. Un fortissimo istinto materno la fece quasi alzare dal suo posto per andare ad aiutare quella madre. Riabbassò lo sguardo preoccupata.

“Secondo me l'hai...” iniziò la sorella.

“Non dire che l'ho...” la interruppe subito Viktoria, parlandole sopra.

“Letto in un libro.” dissero all'unisono, la prima scettica, la seconda irritata.

“Non posso averlo letto in un libro, lo sogno da ancora prima che imparassi a leggere!” glielo aveva spiegato centinaia di volte.

“Mamma ci leggeva un sacco di libri...” insistette la sorella.

“... ma nessuno di questo genere.”

La conversazione cadde assieme ad un'altra bomba, sempre più lontana dal loro rifugio. Il pensiero della madre faceva sempre venire il magone ad entrambe. Quando saltava fuori per caso in un discorso, questo poi puntualmente si interrompeva in maniera brusca.

Non si sentirono più altre esplosioni, e la sirena smise di suonare dopo una mezzora abbondante. Tutti si avviarono verso le porte del rifugio: finalmente potevano tornare alle loro case. Aiutarono la nonna ad alzarsi e anche loro si misero in coda per uscire.

“Signorina.” Viktoria non sentì la voce dell'uomo dietro di lei, o quantomeno non pensò che si stesse rivolgendo proprio a lei.

“Stai bene, nonna?” domandò all'anziana, che annuì sorridendo, sempre inconsapevole di ciò che fosse successo attorno a lei.

“Signorina.” questa volta la ragazza si voltò. Riconobbe il signore che abitava al primo piano del loro palazzo: stava indicando la sua schiena. “Ha un po' di sangue sulla schiena.”

Viktoria andò a toccarsi la nuca, sgombra dei lunghi capelli che aveva scostato poco prima sul davanti. Si guardò la mano macchiata di alcune tracce rosso scuro. Eva la aiutò a scostarsi i capelli, e poi la rassicurò.

“Non è niente, devi aver grattato il tuo neo per sbaglio.”

Viktoria si sfregò la mano cercando di pulirsela, poi ringraziò l'uomo con un sorriso. Quel piccolo difetto in una posizione così fastidiosa le dava spesso noia, soprattutto quando si spazzolava i capelli, quindi non se ne preoccupò più di tanto. Erano altri i suoi pensieri in questo momento. Anche il sogno ormai le sembrava lontano ed offuscato e nonostante avesse subito un profondo cambiamento da tutte le altre volte, non le interessava poi più di tanto.

Voleva solo sapere se suo padre stesse bene.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Come dopo ogni bombardamento, la vita era tornata alla normalità. Per quanto normale tutto ciò potesse essere; Viktoria era cresciuta con alti valori morali, e non poteva sopportare gli orrori che la guerra stava portando nel suo Paese e in tutta l'Europa. La gente sui vagoni ammassata come bestie, lei l'aveva vista: quando andava ancora a scuola, passava davanti alla stazione e li vedeva camminare a testa bassa, spinti dai soldati, malmenati se solo si fermavano o osavano parlare.

Avrebbe voluto fare qualcosa per quelle persone, ma tristemente conosceva bene la pena per chi si ribellava al regime.

Ma non abbassava la testa. Mai. Guardava quelle scene orribili coraggiosamente, affrontando con se stessa una grande sfida. Ed era in quei momenti che si sentiva impotente come nel suo sogno, ma in quel caso essere da un'altra parte non avrebbe risolto nulla, perché con o senza di lei i maltrattamenti e gli abusi sugli ebrei sarebbero continuati.

Vedeva anche suo padre soffrire quando camminavano per le strade e si imbattevano in certe scene, ma lui si voltava dall'altra parte e cercava di intavolare una conversazione frivola per distrarla. Non era più una bambina. Un giorno glielo aveva detto, e lui aveva risposto, commosso:

“Non è questo il mondo in cui vorrei che vivessi.”

E lei, fermamente, aveva replicato: “Ma è il mondo in cui viviamo, e non possiamo fare finta di essere altrove. La mamma non lo ha fatto.”

Lesse nello sguardo di suo padre una sincera preoccupazione e vide l'ansia che lo assaliva. L'argomento era quasi tabù. Sapeva cosa avrebbe voluto risponderle, ma forse aveva capito da solo che per quanto somigliasse a sua madre, non avrebbe mai avuto il coraggio di comportarsi come aveva fatto lei, anche se avrebbe voluto.

Ma quel giorno tacque e insieme assistettero all'arresto di una famiglia di ebrei, che vennero portati via a insulti e calci. Insieme provarono pietà, rabbia e compassione, e insieme sopportarono l'impotenza.

 

Non era passata nemmeno un'ora da quando le sirene avevano smesso di suonare. Viktoria ed Eva avevano rimesso la nonna a letto, e poi si erano sedute assieme in salotto ad aspettare, in silenzio, sotto una coperta pesante, finché con grande sollievo non avevano sentito la porta aprirsi.

L'episodio era stato dimenticato. Non era la prima volta che il signor Haas tardava al lavoro. Si era precipitato a casa appena aveva potuto uscire dal rifugio in tutta sicurezza.

Il padre delle due ragazze gestiva una produzione di scarpe, ma le cose non andavano molto bene; tutte le aziende stavano chiudendo per venire trasformate in fabbriche di armi, e anche la sua amata attività era a rischio. Inoltre molti dei suoi operai erano stati costretti a licenziarsi per via delle leggi razziali; erano brave persone, ma non sapeva cosa ne era stato di loro e questo lo rimpiangeva moltissimo. Uno dei punti di forza della sua azienda consisteva nel fatto che tra lui e i dipendenti intercorreva un buonissimo rapporto: spesso si erano trovati ad ospitare a cena alcuni di loro.

Molte volte aveva parlato alle ragazze di quanto fosse bravo quello lì ad usare quel tale macchinario, o quanto fosse veloce l'altro a fare lo smistamento, e di quanto gli mancasse quell'ebreo che lo faceva tanto ridere con le sue barzellette.

Le ragazze lo consolavano, gli dicevano “vedrai che non si è fatto prendere, era uno in gamba, vedrai che è riuscito a nascondersi da qualche parte...”, ma nemmeno loro ci credevano veramente. Si scambiavano di nascosto degli sguardi scettici e preoccupati. Lui sorrideva, prendendole per mano. “Le mie belle ragazze... Come farei senza di voi...”

Viktoria senza dubbio era la più bella delle due. Aggraziata nei modi e nel portamento, il viso a forma di cuore era incorniciato da una lunga chioma bionda che le ricadeva morbida e leggermente ondulata sulle spalle, ma di solito la teneva raccolta per far risaltare quel collo lungo e fine che le dava un'aria ancor più elegante. Gli occhi azzurri e grandi sembravano quelli di una bambola, ma erano decisamente più espressivi, così come la bocca piccola e carnosa che spesso storceva quando qualcosa non le andava a genio. Senza dubbio era intelligente e prendeva sul serio i suoi studi, ma non le dispiaceva mai concedersi delle pause; anche suo padre la incoraggiava a prendersi tutto il tempo necessario. Era ancora molto giovane, e comunque molte ragazze erano indietro con gli studi per via di tutto ciò che stava succedendo.

Eva aveva soltanto un paio d'anni in più, ma il tempo era stato più crudele con lei. Oggettivamente era una bella ragazza, quasi quanto la sorella, ma la sua era una bellezza diversa, più rude. Un paio di solchi ai lati della bocca le mettevano in evidenza gli zigomi quando sorrideva. Anche lei bionda, più alta di Viktoria ma anche leggermente più magra.

A differenza della sorella, aveva imparato ad abbassare la testa di fronte ad alcune situazioni: non era forte, non voleva vedere e non voleva sapere. Spesso spegneva la radio e la televisione se qualcuno la accendeva mentre si cenava. Abbassava la testa per strada quando vedeva i tedeschi; abbassava la testa al lavoro, sulla sua macchina da scrivere; anche quando andava ancora a scuola, abbassava sempre la testa quando non voleva farsi notare. Soltanto in casa, in una sorta di redenzione, osava sfidare gli eventi e si comportava naturalmente.

Il signor Haas era molto orgoglioso delle sue figlie, non faceva che ripetere loro quanto fossero belle e brave. All'inizio aveva pensato di mandarle a stare da suo fratello, in montagna, per farle vivere più al sicuro dai bombardamenti. Ma loro si erano rifiutate. “Non potremmo mai lasciarti qui.”

L'argomento tabù era una motivazione in più per non separarsi, ma ovviamente la diedero come sottintesa. Non potevano lasciarlo solo ad affrontare il lutto.

Eva era sicuramente più apprensiva della sorella che, a volte, non ci arrivava proprio ad alcune cose basilari come aiutare la nonna a tagliare la carne, o non ascoltare davanti al padre le canzoni che ascoltava sempre la mamma. Lo faceva con un'ingenuità che non le si poteva rimproverare, perché tutti sapevano che teneva alla famiglia esattamente tanto quanto la sorella maggiore.

Anche per via di questo suo aspetto non si era resa conto delle stranezze degli ultimi tempi. Era stata Eva a parlargliene.

“Hai visto la faccia di papà quando è tornato oggi? Sembrava proprio giù, chissà cos'è successo al lavoro... Dovremmo chiederglielo?”

Viktoria cadeva dalle nuvole.

“Avanti, hai notato che torna sempre più tardi? E poi è così smunto... Spero non si stia ammalando.”

“Io credo che stia bene. Sarà solo un po' stanco.” aveva glissato Viktoria sollevando le spalle. Eva ci era rimasta un po' male, aveva cercato supporto nella sorella per indagare, ma si era di nuovo trovata di fronte ad un muro di ingenuità.

Non passarono che un paio di giorni, prima che i suoi sospetti si rivelarono fondati.

 

Viktoria si svegliò di nuovo nel cuore della notte. Vivido nella sua mente il ricordo del suo bambino, i tre uomini a cavallo, l'uomo biondo che le sorrideva; ma dopo di quello, nient'altro: era arrivato di nuovo ad un punto morto. Si alzò dal letto cercando di non fare rumore: aveva bisogno di rinfrescarsi il viso sudato. Quando uscì dalla stanza per andare in bagno, però, sentì dei lamenti provenienti dalla camera del padre.

Lo trovò nel letto che si agitava irrequieto. La febbre alta lo aveva reso bollente e forti brividi lo scuotevano tutto, facendogli sudare freddo. Tossiva forte, senza nemmeno accorgersene.

Rimase in quelle condizioni per due giorni pieni. Il dottore disse loro di non preoccuparsi, che si sarebbe rimesso entro una settimana, ma le due ragazze non poterono fare a meno di restare al suo capezzale per tutto il tempo, almeno finché la febbre non iniziò a calare. Fortunatamente il suo socio in affari poteva cavarsela da solo per qualche tempo, così la fabbrica non dovette chiudere.

All'alba del terzo giorno si risvegliò finalmente in uno stato cosciente, nonostante fosse evidente che forti dolori ancora gli pervadevano tutto il corpo. Viktoria era seduta semi addormentata sulla poltrona, ma si fiondò subito accanto al letto quando lo vide aprire gli occhi.

“Papà!” esclamò sorridente. “Stai meglio?” gli posò una mano sulla fronte, e sentì che scottava molto meno della sera precedente, anche se ancora era scosso da colpi di tosse continui. “Il dottore ha detto che è broncopolmonite. Ma hai preso tutti gli antibiotici, ed ora starai meglio.” lo rassicura, accarezzandogli il viso.

“Da... quanto tempo sono a letto?” domandò con voce rauca e stanca.

“Due giorni. Ma stai tranquillo, passerà presto. Il signor Pohl è venuto a farti visita e dice che va tutto bene giù in fabbrica.”

Viktoria non si accorse che suo padre aveva smesso di ascoltarla subito dopo che aveva risposto alla sua domanda. Sbarrò gli occhi incredulo, e restò a fissarla come se fosse un alieno, ma la ragazza era così concentrata a rimboccargli le coperte che non se ne accorse nemmeno.

“Due... Due giorni?” ripeté, con aria sconvolta. Questa volta Viktoria si rese conto che qualcosa non andava e lo guardò confusa. “Due... Due... Oh, Dio.” il signor Haas si coprì il viso con le mani, in un gesto disperato.

“Cosa...?” fece per chiedere la ragazza, ma subito lui la interruppe.

“Devo andare.” dichiarò poi.

“N-No, non puoi...” non ebbe tempo di reclamare, che si trovò subito a doverlo bloccare mentre tentava di uscire dal letto.

“Devo andare, lasciami andare, tesoro!” sembrava più determinato che mai, ma un calo di pressione dovuto anche al fatto che era stato a letto sdraiato per tutto quel tempo lo rimise subito al suo posto, facilitando il lavoro della figlia. Gli si girarono gli occhi all'indietro, e ricadde sul letto come una marionetta a cui sono stati tagliati i fili.

“Papà! Ma cosa fai?” Viktoria lo scosse per le spalle, finché non riaprì gli occhi, confuso.

“Cos--?”

“Devi stare a letto, non puoi alzarti per nessun motivo!”

Il signor Haas si guardò attorno un po' confuso, rinvenendo immediatamente dal leggero svenimento, poi si soffermò con lo sguardo sulla sua figlia minore.

“Vicky.” annunciò molto seriamente. “Ho bisogno che tu faccia una cosa per me.”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Viktoria camminava a passo spedito. Forse troppo spedito. Rallentò bruscamente, quando si rese conto che avrebbe potuto dare troppo nell'occhio in quella maniera.
Qualsiasi rumore le pareva amplificato: il calpestio dei suoi stivaletti, il frullare delle ali di alcuni piccioni che si alzavano in volo al suo passaggio, il chiacchiericcio delle donne che uscivano dalle fabbriche, persino lo sventolare del suo vestito.

Si era messa il più scuro che avesse, accollato, lungo, i capelli raccolti in una crocchia dall'aria anonima. Era così che doveva apparire, anonima e sicura. Ma non aveva mai dovuto fare nulla del genere.

“Eva non potrebbe mai farlo.” le aveva detto il padre, al suo reclamo, “non vedi come abbassa sempre la testa? Sarebbe troppo sospetta.”

E come dargli torto? Era assolutamente vero, sua sorella non era per nulla adatta a questo tipo di “missione”, se così si poteva chiamare.

Invece Viktoria procedeva come sempre a testa alta, ignorando i tedeschi che se ne stavano di solito appostati ai lati delle strade, pronti ad attaccare briga; ma per quanto la ragazza fosse attraente ed appetibile ai loro occhi, senza un filo di trucco sembrava così giovane da farli desistere dall'approcciarla anche solo per un semplice controllo.

E cosa avrebbero avuto da controllare, dopotutto? Non portava con sé nient'altro che un banale cestino di vimini coperto da un tovagliolo blu, ma si poteva facilmente intuire cosa contenesse: il collo di una bottiglia di vino faceva capolino da sotto il panno.

Sorrise quando vide venirle incontro un operaio della fabbrica di suo padre che spesso era andato a cena a casa loro assieme a sua moglie, un'adorabile ragazza dal buffo accento italiano. Sapeva cosa doveva fare.

“Carissima Viktoria.” la salutò l'uomo, allargando le braccia con aria gioviale.

“Salve, signor Leitner!” esclamò, fingendosi sorpresa. Le riuscì piuttosto bene, a dire il vero. Suo padre l'aveva messa al corrente dell'eventualità che avrebbe potuto incontrare alcuni suoi operai; dopotutto era orario di chiusura. Ma era inevitabile: non sarebbe potuta uscire troppo tardi, perché stava quasi per fare buio, e i tedeschi diventavano più sospettosi quando vedevano qualcuno girare di notte.

“Ho saputo di tuo padre. Come sta ora?” domandò l'uomo con aria affranta.

“Molto meglio. Tornerà presto.” lo rassicurò lei.
Mentre la loro conversazione dai toni poco impegnativi proseguiva, Viktoria non mancò di tenere d'occhio la situazione attorno a loro: contò una decina di operai con la divisa della fabbrica di suo padre passare nella stessa via, prima di congedarsi dal suo interlocutore. Era certa che non ne avrebbe incontrati più avanzando verso la fabbrica.

“Ma dove vai a quest'ora?” domandò il signor Leitner.

“Ah, come se non bastasse mio padre...! Anche la nostra vecchia zia si è ammalata. Le sto portando un paio di cose da mangiare...” spiegò con naturalezza, accennando al cestino e sollevando persino il tovagliolo per mostrargli che il cestino conteneva un paio di mele, della frutta secca, del pane e del formaggio, oltre alla bottiglia di vino.

“Bene, allora ti lascio alla tua visita. Ti accompagnerei, sai, ma poi Letizia si preoccupa se torno tardi!”

“Non si preoccupi, me la cavo benissimo! Arrivederci, porti i miei saluti a sua moglie.” lo salutò con calma, senza accennare al minimo segnale di impazienza, altro errore che invece Eva avrebbe commesso. Suo padre le aveva imposto di parlare proprio con quell'uomo, tra tutti i suoi operai, per il semplice fatto che conosceva bene sia lui che sua moglie e sapeva che Letizia si preoccupava sempre troppo per il marito, e che lui si preoccupava sempre troppo di farla stare in ansia. Così non si sarebbe mai offerto di accompagnarla.

Viktoria allungò leggermente il passo. Una leggera impazienza guidata più che altro dalla curiosità, trapelava in quel momento dalle sue movenze. Ma per fortuna non c'era nessun soldato in vista.

La fabbrica di suo padre non era molto grande, ma grande abbastanza per ospitare una decina di operai e due dirigenti, oltre a tre macchinari molto imponenti, che le incutevano sempre un po' di timore. Dall'esterno appariva come un edificio un po' cupo, grigio, con molte finestre che davano sulla strada. Era giunta la parte difficile.

Si guardò attorno centinaia di volte, fino a quando fu sicura al cento per cento che nessuno le stesse prestando attenzione. In quella zona un po' periferica per fortuna non molta gente passeggiava a quell'ora, e di solito comunque non c'erano molti tedeschi in giro. L'ultimo gruppo lo aveva visto 500 metri più indietro.

Infilò la chiave nel portone con movimenti attenti, rapidi e sicuri, come se lo avesse già fatto un milione di volte prima, e la fece girare. Si richiuse la porta alle spalle, controllando di nuovo che nessuno l'avesse vista.

La luce penetrava ancora dalle finestre, quindi anche se le lampade erano spente poteva vedere piuttosto chiaramente. Con passo un po' titubante attraversò la grande sala con i macchinari spenti, guardandosi attorno come se uno di essi avesse potuto prendere vita ed assalirla da un momento all'altro. Entrò nell'ufficio di suo padre e richiuse la porta.
Non era per niente sicura di ciò che stava facendo, ma pensò che se fosse stato pericoloso suo padre non le avrebbe mai affidato un compito del genere. Gli occhi rimbalzarono veloci da una parte all'altra della stanza, poi si bloccarono sul tappeto. Quel tappeto dava l'impressione di essere stato calpestato qualche centinaia di volte di troppo; era liso in alcuni punti, aveva una macchia di inchiostro blu su un angolo ed era scolorito in qualche sua parte.

Ma eccola lì, infine, pronta a scoprire un grande segreto. Ripensò a tutte le volte in quei mesi in cui era andata a trovare suo padre al lavoro, ed era stato sempre sotto i suoi occhi... Ma d'altronde non avrebbe mai e poi mai immaginare una cosa del genere.

Era sua madre l'eroina. Quella che non poteva tollerare le ingiustizie. Suo padre era quello che si voltava dall'altra parte, e poi si sfogava in casa contro la radio. Viktoria era un buon compromesso tra i due. Eva era come il padre. O almeno così aveva pensato fino a quel momento.

Camminò avanti e indietro per qualche secondo attorno al tappeto, poi provò a calpestarlo. Nonostante fosse così consumato, faceva ancora il suo lavoro: nessuno avrebbe mai immaginato di star passeggiando sul coperchio in legno di una botola ben celata.

Guardò verso la finestra, ma le tende lasciavano passare giusto quel poco di luce che bastava per permetterle di vedere, senza che gli altri da fuori potessero scorgerla.

Si mise a carponi e scostò il tappeto. Era proprio lì. Per qualche assurdo motivo si immaginava di non trovarcela, e invece esisteva davvero. Senza ulteriori tentennamenti – ormai la sua curiosità aveva prevalso su tutto il resto – infilò le dita nell'anello di metallo e tirò forte.

Si alzò un po' di polvere, ma Viktoria vide una paio di scalini e quando si sporse si rese conto che altri si susseguivano. Per precauzione prese con sé una lampada ad olio dalla scrivania e l'accese: sembrava molto più buio laggiù, tanto che anche con la lampada i suoi occhi fecero fatica ad abituarsi. Scese non più di dieci scalini, prima di riuscire a darsi un'occhiata attorno. Erano così irregolari che non guardava nient'altro se non i suoi piedi per paura di inciampare. L'ambiente era umido, c'era un forte odore di cantina, probabilmente perché era quello lo scopo al quale era adibita quella stanza prima che suo padre comprasse lo stabile.

Era stata avvertita anche di questa possibilità. Apparentemente, infatti, la stanza era vuota. E anche piuttosto spoglia, pensò. Gli unici mobili consistevano in un letto disfatto a ridosso del muro, uno scaffale con pochi libri, un tavolino ed una sedia. Sul tavolo erano sparsi alcuni fogli, un pennino, inchiostro, una matita e molti pezzi di carboncino. Vide che un po' di luce penetrava da una sottile fessura appena sotto il soffitto. una finestrella che dava sul cortile interno dello stabile, ma che restava sempre deserto tranne che all'ora di pranzo durante le belle giornate. Notò un'altra porta accanto allo scaffale.

La curiosità era tanta, moltissima, ma seguì il consiglio di suo padre ed appoggiò il cesto sul gradino più basso. Aspettò qualche istante. Non riusciva a capire se quel posto le infondesse un'estrema tristezza, una leggera inquietudine o una sensazione di calore, nonostante fosse decisamente più fresco del piano superiore.

A malincuore, si voltò e fece per risalire le scale.

“Aspetti, la prego!” una voce la fece sussultare e voltare di scatto, mentre tendeva la lampada davanti a sé quasi come fosse un'arma.

Un uomo uscì dall'oscurità. In un angolo dove prima non c'era nessuno, era comparso un ragazzo con le mani aperte in segno di resa ed un sorriso rassicurante.

“Mi perdoni.” esordì. “Penso che mi possa capire se le dico che mi sono preso un bello spavento quando l'ho sentita entrare.” continuò, avanzando verso di lei.

Viktoria restava immobile sul terzo gradino della scala, ma non aveva paura. Anzi, era sempre più curiosa di poterlo vedere meglio in viso. Doveva essere di qualche anno più grande di lei, ma forse le condizioni di vita avevano influito negativamente sul suo aspetto, invecchiandolo più velocemente del dovuto. I capelli castani le parvero insoliti: sembravano più lunghi sul davanti, ma guardando meglio si rese conto che un nastro riusciva appena a contenerli in una piccola coda. Portava la barba e i baffi incolti ma non troppo lunghi, quel tanto da far pensare a Viktoria che avesse comunque la possibilità di radersi, di tanto in tanto. Sulla camicia bianca spiccavano due bretelle scure e sulla sua manica, cucita alla buona, una stella gialla a sette punte.

Quando l'uomo le fu abbastanza vicino da poterla vedere chiaramente, rimase impietrito per qualche istante. Poi le sorrise di nuovo e fece qualcosa che a Viktoria sarebbe potuta sembrare l'azione più strampalata, ma che invece le infuse una calma innaturale: appoggiando un piede sul secondo gradino ed il ginocchio opposto sul primo, senza mai distogliere lo sguardo dal suo volto, le prese la mano destra e la baciò.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Per qualche istante a Viktoria il gesto di quell'uomo era parso del tutto naturale. Soltanto in seguito si rese conto di cosa fosse successo, e lo stupore iniziò ad insinuarsi nella sua mente. Come gli era venuto in mente di baciarle la mano in quel modo? Non conosceva nemmeno il suo nome. E perché la guardava così insistentemente?

Suo padre non le aveva detto niente di tutto ciò, avrebbe soltanto dovuto appoggiare il cesto ed andarsene, non era previsto che lui uscisse e si mettesse a fare cose strampalate.

“Incantato. Ben Keller, al suo servizio.”

Ma da dove era uscito? Viktoria era stata presa completamente alla sprovvista, sopraffatta dal comportamento del ragazzo che ora la fissava con un sorrisone soddisfatto. Lei ancora non era riuscita a ritrarre la mano che le aveva baciato poco fa, e restava ferma in quella buffa posizione, la bocca socchiusa dallo stupore, gli occhi sbarrati.

“Il suo nome...? Se posso sapere...?” la esortò lui, con un tono un po' beffardo.

“Ah-ehm... Viktoria.” rispose infine, ritraendo la mano che portò a massaggiarsi la nuca, imbarazzata. “Haas.” aggiunse. “Viktoria Haas.” ripeté poi con un po' più di convinzione.

“Lei è come un angelo... Sceso dalle scale!” rise l'uomo. A Viktoria parve come se l'influenza di quel posto tetro e sporco non avesse intaccato il suo carattere, anche se non lo conosceva prima di allora. Arrossì violentemente. Nessuno le aveva mai detto qualcosa del genere, e lui parve accorgersi del suo imbarazzo. “Per il cibo, intendo.” si affrettò ad aggiungere, indicando il cesto appoggiato sul gradino.

“Oh...” fece lei. Dovrebbe sentirsi sollevata: un uomo che nemmeno conosce le aveva rivolto un complimento così azzardato, e poi lo aveva ritratto a riprova del fatto che non era un maniaco. Ma in realtà rimase un po' delusa, e quella sensazione di disagio che l'avrebbe afflitta normalmente in una tale situazione... Beh, non c'era. Non che si sentisse del tutto a suo agio; la presenza di quell'uomo la faceva sembrare goffa ed impacciata, tanto che non le venne nemmeno in mente di accennare alla malattia improvvisa di suo padre, finché lui non glielo chiese esplicitamente.

“Immagino che Paul... Il signor Haas...”

“Oh, sì. E' mio padre.” si affrettò ad intervenire così precipitevolmente che non ebbe tempo di ragionare sul fatto che quel Ben aveva chiamato suo padre per nome. “Lui... Si è ammalato.” aggiunse poi, torcendosi leggermente le mani.

“Si è ammalato?” domandò il ragazzo, allarmato. “Ma cosa...? Io non ne avevo...”

“No, no.” lo interruppe di nuovo. “Non si preoccupi, starà bene.” lo vide calmarsi, ma per un attimo aveva letto il terrore sul suo viso, e in fondo poteva capirlo. Suo padre era la ragione se ancora sopravviveva.

Qualcosa improvvisamente attirò l'attenzione di Viktoria. Si rese conto che la luce alle sue spalle era decisamente diminuita d'intensità, e sussultò.

“Devo andare ora!” il sole stava tramontando, e aveva promesso a suo padre che sarebbe tornata il più in fretta possibile. Inoltre i controlli aumentavano dopo una certa ora, e anche se non aveva da temere non voleva attirare l'attenzione dei soldati.

“La rivedrò?” domandò lui speranzoso, una volta compreso che la ragazza già stava scappando su per le scale. Lei si voltò per un brevissimo momento e annuì.

“Domani. Stessa ora. Arrivederci.” si congedò frettolosamente.

Con un tonfo la botola si richiuse sopra la sua testa ancora sollevata ad ammirare il più possibile la deliziosa creatura con cui aveva appena parlato.

Camminò a tentoni nel buio per raggiungere la lampada sul tavolino, che accese a fiamma bassa. Si sedette, avvicinò a sé un foglio e la scatoletta di cartone col carboncino ed iniziò a disegnare la forma di un volto.

 

Viktoria non ebbe spiacevoli incontri sul suo percorso. Se l'avessero fermata probabilmente sarebbe di sicuro sembrata sospetta: era ancora rossa in volto, e si sentiva come se stesse fluttuando su una nuvola. Suo padre non gli aveva detto molto di quell'uomo, solo che gli doveva un favore e che lo proteggerà finché potrà. Che favore gli aveva fatto? Non riusciva a crederci. Suo padre alla fine non era poi tanto diverso da sua madre, forse soltanto più furbo e taciturno. Non aveva rivelato a nessuno quel segreto per mesi e mesi... Ed ora soltanto lei lo sapeva.

Giunta nei pressi di casa sua, allungò il passo fino a quasi mettersi a correre per raggiungere il suo condominio. Salì le scale rapidamente e non appena aprì la porta di casa, suo padre la chiamò, ansioso.

“Vicky? Sei tu?”

“Sì, sono tornata.” annunciò lei, con un sorriso spontaneo. Quello era troppo, non doveva far trapelare i suoi pensieri. Strinse le labbra e si sforzò di restare seria. Si tolse gli stivaletti all'ingresso e poi si fiondò in camera di suo padre. Lo trovò seduto, in trepidante attesa.

“E' andato tutto bene? Ti ha vista qualcuno? Ti hanno fatto delle domande?”

“Tutto bene, papà, stai tranquillo.” lo rassicurò.

“E... Lui...?”

Viktoria annuì, un po' incerta se raccontare la verità.

“L'ho conosciuto.” dichiarò dopo un momento di esitazione. Ma suo padre non pareva per niente preoccupato.

“E' una brava persona. Ben...” fece per dire, ma improvvisamente sentirono la porta di casa aprirsi di nuovo.

“Ciao a tutti!” la voce di Eva risuonò dall'atrio.

Viktoria guardò il padre interrogativa, sperando che continuasse la frase, ma invece tacque improvvisamente. Certo, Eva non doveva sapere. Nessuno doveva sapere. Ma lei era brava a mantenere i segreti, la migliore.

Ben Keller. Ben Keller. Più si ripeteva quel nome, più un senso di impazienza la pervadeva. Voleva rivederlo. Voleva parlargli di nuovo. Voleva sapere tutta la sua storia. Quella sensazione di rischio, di proibito, di misterioso, le dava una scossa di adrenalina così eccitante che si rese conto che fino a quel giorno non si era mai sentita tanto viva. Finalmente aveva qualcosa per cui lottare, finalmente era abbastanza matura da potersi schierare e combattere per i suoi ideali.

Quella notte si addormentò avvolta da un soffice tepore al pensiero che l'indomani avrebbe avuto di nuovo nelle sue mani una missione così importante.

 

Era di nuovo lei. La Regina. Ma... Era tutto così diverso dal solito.

Innanzitutto i suoi vestiti. Non indossava più quel bel corsetto e l'ampia gonna, e tutti i gioielli che l'adornavano mentre dalla sua stanza osservava i soldati dalla finestra. Portava un lungo camicione bianco, anonimo e troppo leggero: lì faceva davvero freddo.

Sentì in petto un'angoscia tremenda quando si rese conto di non riuscire a vedere il bambino da nessuna parte. Respirò affannosamente, guardandosi attorno. Quel luogo era orribile; una cella buia e scura, che emanava freddo e umidità da tutte le parti, e nemmeno un letto in cui stendersi, soltanto un giaciglio di paglia. Paglia? Lei era la Regina, come era possibile che le riservassero un tale trattamento? Cosa aveva fatto di tanto orribile?

Mentre si pettinava con le mani i lunghi capelli sciolti in un gesto nervoso, le venne una grande paura immotivata di perderli. Perché quella sensazione?

Le sembrò di impazzire per un attimo, ma proprio quando si stava per mettere a piangere, udì un rumore di passi avvicinarsi e subito si ricompose. Sentì di non dover mostrare la propria debolezza, soprattutto se dietro quella porta fosse comparso di nuovo quell'uomo biondo.

Sollevò il capo in un gesto superbo, come se ancora potesse permettersi di ostentare sicurezza, poi la porta si aprì. Vide una guardia che faceva entrare una donna. Una bellissima donna dai capelli castani lunghi e ben curati: le ispirò molta fiducia, ma le fece provare anche una tristezza infinita. Sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe vista.

Quando la guardia richiuse la porta, la donna si precipitò ai suoi piedi. In ginocchio di fronte a lei pianse singhiozzando e stringendole le mani, ma lei non si scompose. Le accarezzò il capo.

“Devi essere forte, Constance.” le ripeteva con voce tremula. “Devi essere forte.”

Di nascosto versò una lacrima ed attese che la donna si calmasse.

“Che ne sarà del mio bambino?” domandò con un fil di voce.

Constance scosse il capo. “Non lo so.” dichiarò con aria disperata e il viso completamente bagnato.

Lasciò passare ancora qualche istante, durante il quale fissò negli occhi quella che per lei probabilmente era stata la più cara amica.

“E che ne sarà di lui...?” chiese infine.

Ma non voleva sapere la risposta a quella domanda.

Poi si svegliò.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Al mattino, dopo un riposo tormentato, Viktoria si svegliò con ancora più dubbi di prima. Cos'era successo al suo sogno ricorrente? Perché era cambiato così all'improvviso? Da una parte si sentiva come sollevata: forse le sarebbe stato tutto più chiaro, anche se al momento le sembrava più confuso di prima. Quella storia la coinvolgeva come se stesse guardando da anni ed anni la stessa pagina di un libro senza sapere come sarebbe andato a finire, ma finalmente era riuscita a voltarla.

Già dalle prime ore del mattino, però, quasi tutti i suoi pensieri erano rivolti a Ben Keller. Lo avrebbe incontrato di nuovo quel giorno alla chiusura della fabbrica e non vedeva l'ora.

Per tutto il giorno girò per casa come una cavalletta, impaziente ed incapace di stare ferma; continuava a chiedere a suo padre se avesse bisogno di qualcosa, e si mise persino a fare una bella torta al cioccolato.

Sua nonna ne andava golosissima e quando Viktoria gliene portò una fetta, le era così grata della bella sorpresa che non riusciva a smettere di ridere.

Alla ragazza tornò in mente com'era sua nonna tanti anni fa, quando lei era ancora una bambina; certo, non era cambiata poi molto, era sempre la dolce vecchietta che ricordava, ma le mancavano le loro lunghe chiacchierate. Da quando la malattia l'aveva colpita, sembrava non capire più quasi nulla di tutto ciò che le accadeva attorno.
Un po' la invidiava, avrebbe voluto anche lei non comprendere la guerra e tutti i suoi orrori, ma purtroppo erano sotto i suoi occhi tutti i giorni.

“E' buona eh, nonna?” domandò, addentandone lei stessa una forchettata.

“Confermo!” esclamò suo padre dalla stanza accanto. Anche lui ne stava gustando una bella fettona: il dottore gli aveva raccomandato di mangiare, perché aveva perso molti sali minerali nei primi due giorni di febbre alta.

Viktoria ridacchiò divertita, e la nonna la imitò annuendo.

“Vicky.” le disse poi, indicandole con la forchetta il comodino accanto al letto che condivideva con Eva. “Guarda nel cassetto.”

Era sorpresa. Di rado la nonna parlava di sua iniziativa, e quando lo faceva non erano che poche parole biascicate e confuse, spesso senza senso. Obbedì alla svelta, per paura che quel momento di lucidità passasse così come era arrivato.

Nel cassetto, assieme ad una Bibbia, vi trovò quella che sembrava una collana con un pesante ciondolo appeso. Guardò la nonna con aria interrogativa, e lei con un gesto la spronò a prendere ciò che aveva trovato. Lo estrasse con riguardo, e lo portò a lei. Era un crocefisso che sembrava d'argento, con cinque pietruzze color ambra incastonate, legato ad una lunga catena.

“Da dove arriva?” domandò curiosa, esaminandolo. “Sembra molto vecchio...” osservò. Non era il genere di cosa che avrebbe indossato la nonna, nemmeno quando era più giovane: era decisamente troppo vistoso e la catenella troppo lunga.

“E' tuo.” disse l'anziana donna, sorridendo innocentemente.

“Mio?” Viktoria non capì cosa intendesse. Glielo stava regalando? O forse era sempre stato suo? Eppure non ricordava di averlo mai visto prima d'allora.

“L'ho conservato.” aggiunse la nonna. “Per te, l'ho conservato.”

Viktoria fu mossa da un moto di pietà. Probabilmente era una delle tante sciocchezze che si metteva in testa ogni tanto. La sua speranza di poter avere una conversazione sensata sfumò, quando la vecchietta ripeté più volte l'ultima frase come un disco rotto, finché Viktoria non la rassicurò.

“Ti ringrazio, nonna. E' bellissimo. Lo terrò sempre con me durante le mie preghiere.”

Anche se non le era chiara la provenienza di quell'oggetto, né il suo valore, non si fece più molte domande al riguardo, anche perché aveva altro a cui pensare. L'ora si stava avvicinando, e Viktoria già trepidava.

Il padre volle rivolgerle ulteriori raccomandazioni, e insieme ad esse anche un'altra precauzione. Era meglio se il cibo lo portasse nascosto: con grande astuzia riuscirono a cucire un doppiofondo ad una vecchia borsa, nel quale riuscirono ad infilare del pane e del formaggio tagliati a fette e incartati. Riempirono poi il vero fondo della borsetta in pelle con trucchi, un paio di fazzoletti di stoffa ed il suo portafoglio. Viktoria di nascosto ci infilò anche una fetta di torta al cioccolato, avvolta in un panno. Se le avessero fatto domande a riguardo, avrebbe semplicemente risposto che anche una donna ha i suoi vizi!

Uscì di casa e ripercorse tutta la strada come aveva fatto il giorno precedente, cercando di non farsi notare da nessuno. Questa volta non si fermò a chiacchierare con il signor Leitner; in una via traversa si fermò fingendo di sistemarsi uno stivaletto quando vide che gli operai stavano uscendo. Non voleva perdere troppo tempo. Chinò la testa e lasciò che i capelli biondi raccolti in due trecce le nascondessero il viso quel poco che bastava per insinuare il dubbio che fosse davvero lei a chi l'avesse vista, e quindi scoraggiarli ad avvicinarsi per conversare. Ma da quella posizione poteva comunque contare le paia di gambe che si alternavano impazienti di tornare alle loro case: ne contò dieci prima di risollevarsi con aria soddisfatta. Si guardò attorno molte volte, e infine entrò nell'edificio.

In un attimo si ritrovò ad aprire la botola nell'ufficio di suo padre. Questa volta non ebbe bisogno di munirsi di alcuna fonte di luce, perché una la stanza era già illuminata fiocamente: la lampada ad olio sul tavolino le permise di inquadrare la figura di Ben che già aspettava il suo arrivo, allertato dai suoi passi.

“Buongiorno.” lo salutò, sentendosi cogliere da un improvviso imbarazzo. Era stata così sicura di se stessa fino a quel momento, ma alla vista di quell'uomo si era completamente congelata. Le sorrise e si alzò in piedi.

“Non vedevo l'ora che arrivasse.” dichiarò Ben, allungandole il fazzoletto blu che il giorno precedente nascondeva il cibo nel cestino: lo aveva ripiegato con cura fino a farne un quadrato. Viktoria lo prese, un po' confusa e lo guardò per un attimo prima di riconoscerlo. Poi capì che il povero uomo doveva essere affamato, quindi avanzò verso il tavolo per potervi appoggiare la borsa.

“Spero che non stia soffrendo troppo.” non appena disse quella frase, volle rimangiarsela. Che cosa stupida da dire, certo che stava soffrendo. Si scambiarono un'occhiata silenziosa, ma lui sorrise di nuovo. Viktoria fece finta di niente ed iniziò a svuotare il contenuto della borsa sul tavolo, un pezzo alla volta.

Ma ciò che vide appoggiato sulla superficie lignea la lasciò di stucco. Smise di fare ciò che stava facendo e prese tra le mani un foglio. Restò per un po' a specchiarsi in quello che era un fantastico ritratto del suo profilo. Era perfetto, ma le dava un'aria molto più regale della sua natura, sembrava quasi un cammeo.

“Sono...?” domandò, senza aspettarsi tuttavia una risposta. “Ma come...? Mi ha vista solo per pochi minuti... Nella penombra...”

“Sono molto fisionomista.” si sentì rispondere, con una scrollata di spalle a minimizzare il tutto.

“Ma allora lei è un artista!” ne dedusse la ragazza, spalancando gli occhi. “Ho indovinato?”

“In un certo senso...” rise lui. Viktoria andò con lo sguardo in cerca di altri lavori, ma ne restò delusa: tutti i fogli sul banco erano ancora bianchi. Tornò a guardare il suo ritratto.

“Le piace?” domandò lui. Lei si limitò ad annuire sorridendo. “E' suo, se lo vuole.” disse Ben, andando a sedersi accanto a lei, che ancora in piedi cercava di guardare il disegno sotto diverse luci.

“Oh, non potrei...!” cercò di dire, anche se avrebbe voluto fortemente tenerlo con sé. Ma voleva comunque mostrarsi educata. “Ci ha messo così tanto impegno...”

“L'ho fatto per lei. E' l'unico modo che ho per ripagarla.”

Si guardarono di nuovo negli occhi per un attimo, entrambi sorrisero sinceramente. Poi Viktoria sussultò.

“Oh, deve essere affamato! Mi scusi.” tornò a svuotare la borsetta e sollevò il doppiofondo, tirando fuori tutto ciò che aveva preparato per lui. Ma Ben non sembrava interessato al cibo che gli appoggiava davanti: sentiva il suo sguardo su di sé, e nonostante la cosa la facesse arrossire ancor di più, non le dispiaceva affatto.

“Ho fatto una torta...” iniziò, allungandogli sul banco il fazzoletto in cui era avvolto il dolce. “Al cioccolato.” aggiunse. Lui non smetteva di sorriderle. D'un tratto le prese la mano e come aveva fatto il giorno precedente gliela baciò.

“Lei è proprio un angelo.”

Viktoria non sapeva come reagire, non sapeva se reagire in qualche modo. Si limitò a fare un sorrisino incerto, giocherellando con una delle sue trecce, lusingata.

“E la somiglianza con sua madre è disarmante.”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


“Ha detto... Ha forse detto...?” chiese, confusa. Era rimasta attonita a quell'affermazione. Come faceva Ben a conoscere sua madre? Forse suo padre gli aveva semplicemente mostrato delle foto... Forse erano più amici di quanto lei credesse, ma improvvisamente capì perché quel ritratto era così somigliante. Probabilmente non era solo il suo viso quello che ricordava, ma uno che a lui era molto più famigliare. Ecco spiegata anche quell'espressione che poco le si addiceva.

“La signora Marlene era una persona favolosa.”

Nessuno aveva più pronunciato il nome di sua madre da quando era morta, e per Viktoria fu un duro colpo, tanto che senza accorgersene si portò una mano al petto con aria affranta, come per controllare che il cuore non avesse smesso di battere all'improvviso.

“Mi scusi. Mi dispiace.” si affrettò a giustificarsi lui. Si alzò in piedi e la accompagnò verso la sedia dove poco prima sedeva, facendola accomodare. Poi si andò a sedere sul letto. Si portò le mani al capo, facendo passare le dita tra i capelli, e per un po' non disse più nulla. Viktoria lo guardava sempre più imbambolata. Quante sorprese ancora poteva riservarle quel ragazzo? Lo vide sospirare, come se fosse combattuto tra il raccontarle tutto e il tacere.

“Come fa...” iniziò lei, ma all'improvviso sembrò essersi dimenticata il resto della frase. Ben capì lo stesso, e le rispose.

“Non vorrei sconvolgerla, né fare arrabbiare Paul raccontandole questa storia.” mise le mani avanti, in tutti i sensi, ponendosi sulla difensiva.

“Mi dia del tu, la prego. Se è vero che conosceva mia madre, e visto che chiama mio padre per nome... Girarci attorno mi pare assurdo.”

Lui sembrò esitare un attimo, poi asserì: “Bene. Ma la pre-- ti prego...” si corresse. “... Di fare dunque lo stesso con me.”

Viktoria abbassò per un attimo lo sguardo sulla sua stella di David cucita sulla camicia. Un costante promemoria al fatto che lei, ariana, sarebbe dovuta essere superiore. Invece all'idea di dargli del tu le sembrava quasi di mancargli di rispetto, visto che era più grande di lei, ma cercò di abituarsi all'idea per accontentarlo.

“Raccontami. Per favore.” lo pregò con lo sguardo e col tono di voce supplichevole.

Ben, che sembrava aver evitato per un po' di guardarla in faccia, non poté fare a meno di sciogliersi di fronte a quella richiesta, e finalmente parlò.

“Avevo una mia bottega.” iniziò a raccontare, serio. “Era umile. Forse si può ancora vedere ciò che resta dopo che la fecero a pezzi.” accennò un sorrisino sconsolato. “Tua madre comprò un paio di quadri: era una donna molto intelligente e sapeva apprezzare l'arte come pochi.”

Viktoria abbassò lo sguardo. Lei non sapeva quasi nulla di arte: per un attimo si sentì inferiore a quell'immagine mistificata che Ben aveva di sua madre.

“Da allora iniziò a fermarsi spesso a chiacchierare. Parlavamo di qualsiasi cosa, dai dipinti alla musica, a... Alle nostre famiglie.” deglutì a metà frase, distogliendo lo sguardo da Viktoria. In lei si insinuò un dubbio che le iniziò a roderle la mente come un tarlo.

“Mi stai dicendo...?” azzardò. Non poteva essere. Lui era molto più giovane di sua madre, e lei non avrebbe mai tradito suo padre. Erano la coppia più felice che avesse mai conosciuto.

“Sì. Avevo una moglie.” ammise lui, fraintendendo il suo concernimento. Viktoria si sentì stupida per aver pensato una cosa del genere e per poco non sospirò di sollievo, finché non capì cosa intendesse con quella frase al passato.

“Mi dispiace.” mormorò affranta nel vedere che una lacrima esitava nell'angolo del suo occhio destro. “... Davvero.” aggiunse.

“Grazie. Comunque tua madre non la conobbe mai. E io non conobbi mai la sua famiglia, fino a quel giorno...” fece una pausa che a Viktoria sembrò durare un secolo, poi tornò a raccontare. “I tedeschi ci avevano appena invaso, e io stavo smantellando il mio negozio, prima che distruggessero anche tutto ciò che c'era dentro: sapevo che era questione di poco tempo, e mi ero già rassegnato a cercare un nascondiglio. Tua madre aveva fatto di tutto per aiutarmi, aveva persino cercato di donarmi del denaro, che rifiutai.” sospirò, come se in fondo si fosse pentito di non aver accettato quei soldi.

Viktoria pensò che probabilmente sarebbe riuscito a fuggire abbastanza lontano da salvarsi dalle persecuzioni. Ma poi ricordò che allora nessuno immaginava che si sarebbe arrivati a tanto.

“Quel giorno sentii uno sparo provenire dall'angolo della strada, seguito da molte urla, e accorsi subito per vedere cosa stesse succedendo. La situazione non mi fu subito chiara, ma una cosa lo era: tua madre si stava mettendo in una posizione di serio pericolo. Un bambino giaceva in una pozza di sangue sull'asfalto. Avrà avuto sì e no nove anni.” la sua voce rotta gli rendeva difficile continuare, ma deglutì di nuovo e proseguì. “Marlene si era scagliata contro uno dei soldati, era impazzita. Lo prendeva a calci e pugni, dandogli dell'assassino, ripetendo che era solo un bambino, che stava giocando... Che non lo aveva colpito di proposito con la fionda... Sul corpo del piccolo vidi una di queste...” si toccò la spalla sulla quale era cucita la stella gialla, e scosse il capo.

Viktoria allora in un gesto automatico si alzò, ed andò a sedersi di fianco a lui. Gli passò una mano attorno alle spalle in un confortevole abbraccio, aiutandolo a ricacciare le lacrime.

“Penso che tu sappia come era fatta tua madre.” si sforzò di sorriderle. Anche Viktoria lo fece.

“D'un tratto la vidi estrarre la pistola dalla fondina del soldato. Tutti erano attoniti, e l'uomo sollevò le braccia in segno di resa, ma Marlene era furente. Vedevo il fuoco nei suoi occhi, la paura in quelli del tedesco. Avrei voluto che sparasse. Ma ancora di più che sopravvivesse. Corsi a perdifiato, girando nel vicolo a cui lei dava le spalle, sperando di non sentire un altro sparo...”

Viktoria ascoltava col fiato sospeso. Da dove usciva quella storia? Dalla sua immaginazione o da un libro? Non poteva credere che fosse successo realmente. A sua madre!

“La afferrai poco prima che altri soldati accorressero, la pistola le cadde di mano. Nessuno si fece male, ma avevamo dietro di noi almeno tre tedeschi. Corremmo a più non posso, la trascinai per la mano il più lontano possibile finché non fui sicuro di averli seminati, poi ci rifugiammo a casa mia. Attesi la sera per riaccompagnarla a casa. Tu e tua sorella dormivate. Tuo padre scoppiò in lacrime.” sorrise al ricordo, come se fosse stata una scena buffa da vedere, ma Viktoria pensò che più che altro debba essere stato contento che quella storia si fosse risolta per il meglio.

“Mi ringraziò centinaia di volte. Mi disse che mi doveva la vita. Ma io credo... Di aver fatto soltanto ciò che doveva essere fatto.” concluse, con un'umiltà che lasciò Viktoria senza parole.

Ben era un eroe. Come poteva sminuire così la sua azione? Lui aveva salvato la vita di sua madre. Lo guardò con occhi diversi.

“E'...” mugolò, incerta sul cosa dire in un momento come quello. “Io...”

Viktoria sollevò lo sguardo, e si rese conto che Ben la stava osservando. Sul suo viso lesse un'intensa preoccupazione e quasi il rimorso di non aver potuto fare di più per sua madre, e provò l'impulso fortissimo di volerlo rassicurare. Avvicinò il viso al suo, lentamente, e gli posò un bacio sulla guancia.

Lo vide sorpreso da quel gesto, e lei stessa lo era. Ma subito dopo tornò ad essere contrito e perplesso.

Improvvisamente Viktoria balzò in piedi, guardandosi attorno. La luce. Dov'era finita? Non si era resa conto che il sole da un pezzo era calato, lasciandoli nella penombra della lampada sul tavolo.

“Oh Signore... Oh no!” farfugliò, senza sapere bene dove andare o cosa fare. Si sentì afferrare per un polso in una presa dolce ma determinata.

“Cosa succede? Calmati.”

“E' buio!” esclamò la ragazza con gli occhi lucidi. “Come farò ora a tornare a casa?” Viktoria era così agitata che l'uomo faticava a tenerla ferma.

“Abbassa la voce...” sussurrò lui, per invitarla a fare lo stesso. “Ti ha vista qualcuno mentre venivi qui?” domandò, cercando di riportare la questione sul piano pratico.

Ci pensò un attimo, poi scosse la testa. I soldati che di solito stavano appostati sulla via principale stavano fumando e parlando tra di loro quando è passata ed è quasi sicura che non l'abbiano degnata di uno sguardo.

“So che non ti piacerà. E probabilmente nemmeno a tuo padre...” anticipò Ben. Ma il suo tono era comunque rassicurante. “Penso che dovresti passare la notte qui.”

Inizialmente la ragazza emise una risatina nervosa. Era serio? Lo guardò per un attimo. Era serio. E anche lei iniziò a considerare seriamente l'idea.

Avrebbe destato troppi sospetti a camminare da sola al buio. Per di più le luci del centro venivano spente la notte per rendere difficili gli attacchi aerei. In un viaggio mentale si vedeva già scortata a casa dai tedeschi, suo padre mortificato, e poi i controlli in fabbrica, il nascondiglio che veniva scoperto...
Ma allo stesso tempo non poteva fare una cosa del genere senza il permesso di suo padre, e inoltre sarebbe morto di ansia non vedendola tornare.

Improvvisamente entrambi sollevarono lo sguardo verso la botola: Viktoria quasi urlò per lo spavento.

Un trillo insistente e penetrante che inizialmente li aveva allarmati, la rassicurò: era il telefono dell'ufficio.  

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Perché non ci aveva pensato prima? Avevano un telefono a casa, e c'era un telefono lì in ufficio; suo padre le aveva anche raccomandato di usarlo per qualsiasi evenienza, ma al momento non ci aveva proprio pensato.

Salì rapidamente la scala, sotto lo sguardo pensieroso di Ben, che non osò muoversi dalla sua posizione.

Viktoria raggiunse il telefono e sollevò rapidamente la cornetta, ma un istinto di prudenza le disse di non rispondere subito. Quando però sentì la voce di suo padre, si rassicurò.

“Vicky?”

“Papà! Sono io!” esclamò sollevata.

“Dio, Vicky, mi hai fatto prendere un infarto... E' successo qualcosa?” la ragazza ricacciò le lacrime: la voce di suo padre era piena d'apprensione per lei.

“No, sto bene. Ho solo perso troppo tempo prima di entrare... Sono... Un gruppo di operai si sono accesi delle sigarette e non volevano saperne di andarsene dal portone, non potevo entrare.” mentì spudoratamente. Subito dopo se ne pentì, ma non poteva raccontargli la verità in quel modo, per telefono. Si aggrappò alla cornetta premendosela contro l'orecchio. Non voleva perdersi nemmeno un segnale della reazione di suo padre.

“Vicky, ascolta. Resta lì. Domattina appena sorge il sole torna a casa. Se qualcuno fa domande, dì che mi stavi sistemando la contabilità e ti sei appisolata. Ora spargi sul tavolo alcuni fogli con dei calcoli e lascia il registro dei conti aperto.”

La ragazza annuì, come se lui potesse vederla.

“Sono sicuro che Ben si prenderà cura di te. Buonanotte, piccola.”

“Buonanotte papà.”

Viktoria riagganciò il telefono lentamente. Poi obbedì, fece ciò che il padre le aveva detto di fare e scese di nuovo nel nascondiglio, dove trovò Ben proprio come lo aveva lasciato. Intravide uno scintillio nei suoi occhi.

“Mi dispiace disturbarti in questo modo.” mormorò lei. “E probabilmente sarai affamato, non farti problemi a mangiare di fronte a me.” lo esortò, accennando con un gesto della mano al cibo sul tavolo. Lui scosse il capo, ma poi si trovò ad annuire.

“In realtà sto morendo di fame. Perdonami. Se vuoi dormire usa pure il letto. Io posso arrangiarmi. Lì c'è anche un bagno.” indicò la porta che lei già aveva notato il giorno precedente.

Viktoria sorrise debolmente. Tutta l'intesa che c'era stata tra di loro fino a poco prima aveva lasciato spazio ad un grande imbarazzo nel dover condividere lo stesso spazio fino al giorno seguente. Pensò che la cosa migliore sarebbe stata provare a dormire, in modo da dover evitare di iniziare una nuova conversazione. Ripose gli stivaletti ai piedi del letto e si accoccolò sotto le lenzuola senza dire una parola, dandogli le spalle. In realtà quel posto non era così male. Il cuscino era impregnato del profumo di Ben. Inizialmente lo sentì mangiare, seduto al tavolo, poi iniziò a scribacchiare qualcosa, ma a quel punto il sonno sopraggiunse.

 

La cella era scura ed opprimente. Le sembrava che il tempo scorresse terribilmente lento e sentiva di stare per impazzire. Avrebbe voluto rivedere il suo bambino, voleva sapere se fosse al sicuro. E poi c'era un'altra persona che avrebbe voluto rivedere.

Scattò in piedi quando sentì che qualcuno si avvicinava alla porta. Non poteva vedere nulla da lì dentro, e questo le provocava una forte ansia. Aveva paura che l'uomo biondo tornasse, ma c'era anche qualcun altro che temeva molto; allo stesso tempo avrebbe voluto che la donna chiamata Constance tornasse a confortarla un po', ma sapeva che non sarebbe stato possibile.

Vide entrare una guardia, poi due, e una terza persona si fermò sulla porta. Ma lei non aveva paura. Anzi, sorrise e si sentì più sollevata.

“Vostra Maestà.” disse uno dei tre, il più robusto e scuro di pelle.

“Vorreste seguirci?” domandò l'altro, dagli occhi chiari ed un sorriso enigmatico.

Il ragazzo sulla porta, più giovane degli altri due, le sorrise rassicurante. Senza esitare si diresse verso di lui, seguita dagli altri due. Sentì che comunque non aveva nulla da perdere.

Tutto ciò che successe in seguito fu molto movimentato e lei non riusciva a stare dietro alle immagini che scorrevano rapidamente nella sua testa, come la pellicola di un film che sta per bruciarsi.

Correvano. Ci furono degli spari. L'uomo alto e scuro urlava qualcosa, ma uno dei tre aveva sparato un colpo vicino al suo orecchio e l'unica cosa che riusciva a sentire era un fischio penetrante e le voci ovattate e lontane. Si limitava a correre più che poteva, fuori dalla prigione, poi su un carro e infine fuori dalla città.

Nascosta sotto ad una coperta sbirciò fuori e vide che si stavano allontanando da un posto che era stato la sua casa per molto tempo, ma al quale non seppe dare un nome.

Fu tutto molto veloce e confuso, ma quando il carro si fermò e la fecero scendere, i tre si erano cambiati d'abito e li riconobbe come i mantelli azzurri che aveva visto dalla finestra di camera sua. Tuttavia, ancora qualcosa mancava.

Si guardò attorno, non trovando altro che una distesa boscosa ed un unico sentiero. Ma d'un tratto qualcuno entrò nella sua visuale e finalmente si sentì molto più sollevata. Un quarto uomo dagli abiti civili le sorrideva sotto i baffi, allungandole un fagotto.

Il vagito del suo bambino la fece sorridere e piangere di gioia allo stesso tempo: lo prese in braccio e lo baciò in fronte.

I quattro uomini si inchinarono in reverenza, ma lei non aveva occhi che per suo figlio e per l'uomo con i baffi che, appoggiato a terra su un ginocchio, le stava prendendo la mano per baciarla.

Quando vi posò le labbra, Viktoria si svegliò.

 

Non fu un risveglio brusco come al solito anche se trasalì leggermente. Il suo cuore ebbe un tonfo: era lui.

Quell'uomo del suo sogno era lui, era Ben.

Per un attimo rimase confusa dal luogo in cui si trovava, poi tornò in sé riconoscendo il nascondiglio sotto l'ufficio di suo padre. I suoi occhi vagarono nel buio quasi totale. Non trovò così strano l'aver identificato la persona che aveva aspettato per tutti quegli anni con Ben. Si disse che probabilmente il suo inconscio gli aveva attribuito la faccia di quell'uomo perché ne era profondamente attratta. Non poteva negarlo: avrebbe voluto baciarlo sulle labbra, la sera prima, ma lo conosceva da così poco che pensò che sarebbe stata una mossa troppo insolente.

Finiva dunque così il suo sogno-romanzo? Finalmente aveva trovato la felicità con il suo bambino ed il suo uomo, che ormai aveva intuito essere stato il suo amante.

Da una parte sperava di poter continuare a sognare quell'avventura che, a dirla tutta, la entusiasmava come nessun altro libro che aveva letto. Da un'altra era felice che i protagonisti avessero avuto un lieto fine.

Si girò su un fianco e provò a riaddormentarsi. Non riusciva a vedere Ben nella stanza, ma sentiva il suo respiro profondo e dedusse che si fosse addormentato seduto al tavolo.

“Anne...” lo sentì farfugliare.

Non ne rimase per niente sorpresa: poteva solo immaginare quante ne avesse passate. Ricordò di colpo che le aveva detto di essere stato sposato. La cosa un po' la rattristò, sia per il fatto che aveva perso sua moglie, sia perché per un attimo aveva sperato che il suo cuore fosse libero e pronto ad essere rapito. Invece si sentì sciocca. Probabilmente ancora pensava a sua moglie, e non guardava una ragazzina come lei, che ancora non aveva nemmeno concluso l'Università.

“Je... Je t'amerai... à jamais... à jamais...” biascicò, lasciando sfumare la voce sempre di più finché non si trasformò di nuovo in un respiro profondo.

Che lingua era? Forse italiano, o francese... Viktoria non sapeva che avesse certe origini. O magari sua moglie era straniera.

Avrebbe sempre voluto imparare il francese, che era la lingua di suo nonno, ma purtroppo lui era morto poco dopo la sua nascita e la nonna non lo aveva mai imparato così bene da poterglielo insegnare. Era davvero curiosa di sapere cosa stesse mugolando Ben, ma non voleva di certo svegliarlo. Allo stesso tempo si sentiva molto in colpa per avergli rubato il letto senza esitazioni: forse stava facendo degli incubi per colpa della sedia scomoda.

Si alzò cercando di fare il meno rumore possibile e si portò dietro il lenzuolo. Si rese conto di essere abbastanza riposata, quindi dedusse che erano passate diverse ore e che avrebbe fatto meglio a stare pronta per quando sarebbe sorto il sole.

A tentoni seguì il respiro di Ben, finché non vide la sua camicia bianca spiccare nel buio: si era veramente addormentato chino sul tavolo, sopra alcuni fogli. Lo coprì con il lenzuolo e ne approfittò per baciargli il capo. Lo fece così delicatamente che lui nemmeno si mosse.

Tornò a sedersi sul letto aspettando pazientemente, mentre si rifaceva le trecce. La luce del mattino non tardò ad illuminare la stanza e Viktoria poté infilarsi gli stivaletti; fece sempre attenzione a non fare movimenti troppo bruschi per non svegliare Ben, ma non poteva aspettare ancora molto. Le strade avrebbero iniziato a riempirsi presto.

Lui sollevò il capo quasi come se l'avesse letta nel pensiero: aveva i capelli spettinati ed il segno delle pieghe della camicia sul volto. Le sarebbe sembrata una scena molto buffa, se solo non fosse che la sua attenzione venne catturata da qualcos'altro.

Quando riuscì a vedere chiaramente la stanza, realizzò che sul tavolo sul quale lui si era addormentato, c'erano sparsi ben più che un paio di disegni. Saranno stati una decina, e c'era anche un grosso album accanto a lui.

Ritraevano tutti lo stesso volto, in posizione differenti: il suo.

Guardò il ragazzo a bocca aperta, senza cogliere l'ironia nel suo aspetto ridicolo ed assonnato, alla ricerca di una spiegazione. Quella cosa iniziava a diventare forse un po' inquietante: il fatto che l'avesse ritratta una volta era stato molto dolce, ma ora si sentiva quasi oppressa.

“Buong--” fece per dire lui, prima di accorgersi dello sguardo di Viktoria. Sobbalzò e si affrettò a raccogliere tutti i disegni in un blocco, quasi come per nasconderli alla sua vista.

“Mi sono lasciato prendere un po' la mano...” si giustificò confusamente, scuotendo il capo.

“Credo... Di dover andare. Mio padre sarà molto in pensiero.” la ragazza riprese la sua borsa ed iniziò a salire rapidamente le scale.

“Aspetta.” la pregò lui, ancora troppo intorpidito per poter reagire rapidamente. “Ti rivedrò stasera?”

Viktoria esitò sugli ultimi gradini. Poi si voltò e gli sorrise.

“Certo.”

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Suo padre l'aveva abbracciata per almeno mezzora dopo averla vista rientrare sana e salva, e anche Eva aveva fatto lo stesso. Le era stata spiegata la situazione e le disse di essere stata in ansia tutta la notte per lei, tanto che glielo si leggeva nei cerchi scuri attorno agli occhi.

Viktoria rassicurò tutti dicendo che il signor Keller l'aveva trattata con i guanti e le aveva persino ceduto il suo letto per dormire. Non raccontò ovviamente a nessuno del ritratto che le aveva regalato, né di quelli che lo aveva scoperto nascondere. Cosa c'era in quell'album? Era curiosa di sapere se ritraeva qualcos'altro oltre alle persone. E quali quadri aveva acquistato sua madre?

Senza farsi vedere da nessuno, fece il giro della casa per scovare una firma in un angolo dei dipinti appesi alle pareti o dietro di essi, ma niente. Non trovò il benché minimo indizio.

Su due piedi, aveva trovato un po' inquietante quell'ossessione di Ben per il suo viso, ma poi, riflettendoci, si disse che era quello il suo mestiere. Era un artista, e disegnava, e allora? Peraltro le piaceva molto il modo in cui la ritraeva. Gli altri disegni che aveva intravisto erano diversi da quello che le aveva regalato, quello in cui sembrava lei soltanto per via dei tratti del volto; negli altri si rispecchiò meglio, avrebbe dovuto dare un'occhiata più da vicino.

Quel giorno stette quasi tutto il tempo con suo padre. Tuttavia non ebbe il coraggio di fargli sapere che era venuta a conoscenza di tutta la storia di Ben e di sua madre: ancora le sembrava incredibile. Si limitò a sedere accanto al suo letto, ricamando un fazzoletto che avrebbe voluto regalare alla nonna. Ormai il signor Haas stava guarendo; sarebbero riuscite a costringerlo in casa al massimo per un altro paio di giorni, ma poi sapevano che non l'avrebbero convinto a non tornare alla sua amata fabbrica.

Viktoria iniziò a prepararsi per uscire parecchio tempo prima del necessario. Ma dedicò un po' di questo tempo a dire una piccola preghiera affinché tutto andasse per il verso giusto. Strinse tra le mani quel crocefisso che le aveva regalato sua nonna, poi in un gesto che le venne spontaneo, se lo mise al collo, nascondendolo sotto il vestito. Si lasciò i capelli sciolti sulle spalle per non far risaltare la catenella.

Aveva già la borsa col doppiofondo pieno di cibo, le mancava soltanto da infilarsi gli stivaletti e salutare suo padre. Lo fece ascoltando pazientemente tutte le sue raccomandazioni, trattenendosi dal sorridere come avrebbe voluto. Poi lo baciò in fronte e corse verso la porta.

“L'ho fatto.”

Viktoria si bloccò a metà corridoio. Le era parso di sentire una voce sussurrare qualcosa.

“Sono stata brava.”

Di nuovo. Ne era sicura: proveniva dalla stanza della nonna. Si avvicinò cercando di non fare rumore, e dischiuse la porta quel poco che bastava per permetterle di sentire meglio, ma non di vedere all'interno. Con chi stava parlando? Non poteva esserci nessuno.

“L'ho tenuta per tutto questo tempo... Ma ne sono certa: è lei.”

Viktoria era basita e confusa. Avrebbe dovuto dirlo a suo padre che la nonna si era messa a parlare da sola? Per un attimo non sentì più nulla, e fece quasi per andarsene ripromettendosi di affrontare il discorso con qualcuno più tardi, ma poi altre parole le giunsero all'orecchio.

“Mi manchi, Jerome.”

Era stato poco più di un rantolo, ma era sicura di averla sentita pronunciare il nome di suo nonno. Le venne quasi da piangere; sapeva che la nonna era molto sensibile quando si parlava del suo defunto marito, ma non poteva immaginare...

Si portò una mano alla bocca e ricacciò una lacrima, imponendosi di pensarci mentre camminava verso la fabbrica: era tardi, non poteva perdere altro tempo.

Velocemente scese le scale e s'incamminò.

Mentre avanzava pensierosa, ebbe quasi l'impulso di tornare ad esaminare quel crocefisso. Era forse di quello che parlava la nonna? Ma cos'aveva di così particolare? Si massaggiò il collo sovrappensiero e, oltre alla fredda catena che sorreggeva il gioiello nascosto sotto l'abito, sentì qualcosa di liquido inumidirle le dita. Andò a guardarsele, e vide che erano rosse di sangue. Di nuovo, il neo doveva essere stato sfregato per sbaglio, magari dalla stessa collana. Infastidita cercò un fazzoletto nella borsa e se lo passò sotto i capelli.

“Signorina.”

Una voce autoritaria dal forte accento tedesco la fece rabbrividire. Si fermò in mezzo alla strada. Con orrore si rese conto che doveva essere più tardi di quanto pensasse, perché non vide le donne che di solito uscivano dal lavoro, né gli operai della fabbrica di suo padre. Respirò lentamente e profondamente, poi si voltò, sfoderando il suo miglior sorriso.

“Sì?”

La guardia che le stava di fronte non poteva avere che qualche anno più di Ben, la mascella squadrata, i tipici tratti ariani: biondo, gli occhi azzurri.

“Può mostrarmi i suoi documenti?” domandò senza scomporsi.

Viktoria urlava dentro di sé. Le sue gambe volevano fare una cosa diversa da quella che il cervello si sforzava di imporle: scappare. Correre a più non posso verso casa e lì barricarsi dentro e piangere tra le braccia di suo padre fino a sentirsi di nuovo al sicuro. Ma non poteva, doveva tenere duro e non abbassare la testa, mai.

“Certo.” senza esitazione frugò nella borsa di pelle, approfittandone per controllare che il doppiofondo fosse in ordine. Allungò al tedesco la sua carta d'identità. Lui confrontò la foto sul documento con il suo volto, alzando ed abbassando lo sguardo un paio di volte, poi parlò di nuovo. La sua voce fu come una scarica elettrica nella schiena di Viktoria.

“Dove sta andando a quest'ora, tutta sola?”

“Mio padre si sta rimettendo da una malattia, devo prelevare dei documenti dal suo ufficio... Dalla sua fabbrica, la Haas&Pohl.” indicò con sicurezza l'edificio in fondo alla strada. Lui tornò a guardare il documento, verificando probabilmente che fosse davvero figlia di uno dei due soci. Poi glielo restituì.

“Tra poco calerà il sole. Farà meglio ad affrettarsi.” decretò infine, restando ad osservarla con sguardo fisso ed insistente.

“E' gentile a preoccuparsi.” cinguettò. Dopotutto, per quanto fosse inesperta in materia, sapeva bene come aggirare un uomo se lo voleva. “Ma farò in un batter d'occhio.” gli sorrise fingendo riconoscenza, anche se sapeva che nelle parole del soldato c'era soltanto sospetto. Ma in nessun modo poteva mostrargli di avere paura di lui o delle sue domande inquisitorie.

“Faccia attenzione. Buona serata.” e così come si era avvicinato, si allontanò.

Viktoria non si fermò a guardarlo, si voltò immediatamente e riprese a camminare a passo spedito, gli occhi sgranati, il respiro affannoso. Si sentì la ragazza più fortunata della Terra, e per tutta la strada che le rimaneva da percorrere strinse nella mano il suo crocefisso, assieme alla camicetta che lo nascondeva.

Dopo aver preso le solite precauzioni assicurandosi che nessuno l'avesse seguita o la stesse spiando, si fiondò nel nascondiglio.

“Ben!” guaì, cercando con lo sguardo il ragazzo che, udito il suo richiamo, si affrettò a raggiungerla con aria turbata.

Viktoria lo guardò negli occhi, sull'orlo delle lacrime, poi si gettò al suo collo stringendolo in un abbraccio. Dopo un attimo di esitazione lo sentì ricambiare, cingendole timidamente la vita.

“Ho avuto paura.” gli mormorò nell'orecchio. Tuttavia non pianse, si sforzò di mostrarsi forte nonostante le sue parole dicessero il contrario. Quell'abbraccio le era così di conforto che avrebbe voluto non finisse mai. Chiuse gli occhi e per un attimo si sciolse dimenticandosi di tutto; non esisteva nessuna guerra, nessun soldato, nessuna cantina umida e sporca, nessun sogno bizzarro... Solo quell'uomo che avrebbe voluto conoscere in diverse circostanze.

Lui la allontanò leggermente per guardarla negli occhi. Viktoria ricambiò il suo sguardo e sembrava quasi che l'espressione del suo volto lo supplicasse per un altro contatto come l'abbraccio di poco prima, o qualcosa di più...

Ben si avvicinò lentamente al suo viso senza smettere di guardarla. Il cuore le balzò in gola e provò una sensazione mai sperimentata prima di allora. Era un misto di adrenalina ed eccitazione, di dolcezza e conforto, di qualcosa di familiare e qualcosa di sconosciuto. Ma qualcosa non andava: se ne stava fermo in quella posizione insolita da troppo tempo. Gli aveva forse dato segno di non gradire ciò che stava per accadere?

“Perdonami.” mugolò lui, scuotendo il capo ed allontanandosi quasi bruscamente. Si passò una mano tra i capelli folti, dandole le spalle. Viktoria era rimasta impietrita, ma la foga della situazione la travolse.

“Non... Non è colpa tua.” balbettò, ancora un po' scossa e tutta rossa in volto.

“Maledizione...” sibilò lui tra i denti. Lo vide tremare, ma non seppe dire se di rabbia o di angoscia.

“Ben...” lo richiamò lei, osando avanzare qualche passo in sua direzione e posandogli una mano sulla spalla. “Se... Se un giorno vorrai parlarmi di Anne, io capirò... Io... Ti ascolterò, e se vorrai che dica qualcosa... O che stia zitta e basta...”

Mentre continuava a parlare, lo vide voltarsi lentamente, con aria perplessa.

“... Scusa.” continuò a farfugliare lei, sentendosi immensamente stupida. “Scusa, io...”

“Chi è Anne?” domandò lui improvvisamente, scuotendo il capo confuso. Viktoria lo guardò come se fosse totalmente impazzito. Effettivamente era stata lei a dedurre ciò che non le aveva mai raccontato, semplicemente sentendolo parlare nel sonno.

“Mi dispiace. Pensavo fosse... Tua moglie.” squittì come un topolino, abbassando sempre di più la voce per paura di una sua reazione. Ma lui continuò a fissarla con aria interrogativa.

“Mia moglie si chiamava Elodie.”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Viktoria era sempre più confusa.

“Ma io... Ti ho sentito parlare nel sonno, e...” si rendeva conto mentre lo diceva che in effetti suonava un po' ridicolo pronunciato ad alta voce. “Non lo so, hai detto delle cose in un'altra lingua che non capivo, e poi hai detto quel nome, e ho creduto...”

“Woh.” la fermò lui, mettendo le mani aperte davanti a sé. “Aspetta, aspetta. Hai detto 'un'altra lingua'? Ho capito bene?” la guardava decisamente come se fosse impazzita, ma lei annuì con fermezza.

“Credo francese, o italiano.” asserì, certa di ciò che stava sostenendo. Lui sorrise divertito.

“Io non parlo nessuna di queste lingue. Probabilmente farfugliavo solo qualcosa di insensato...” cercò di minimizzare. “Ora dovresti andare: il sole tramonta, Cenerentola.” il suo sorriso si fece più caloroso.

“Ma...!” tentò di replicare lei, ma subito si rassegnò. Non potevano discuterne a lungo. Sospirò e si lasciò andare a sua volta ad un sorrisino, facendosi scivolare addosso tutti i dubbi di una questione che dopotutto non la riguardava.

Svuotò il doppiofondo della borsa. Ben le si avvicinò quando stava rimettendo le sue cose dentro di essa, e vi infilò un foglio ripiegato. Viktoria sollevò lo sguardo ed incrociò quello del ragazzo, che le sorrise di nuovo in maniera rassicurante.

“Forse questo ti chiarirà un po' le idee. Anche se non spiega come io diventi poliglotta durante la notte.” la canzonò amichevolmente.

Lei gli rivolse un sorriso poco convinto e frettoloso, e poi scappò di nuovo su per le scale.

Era ancora molto scossa da tutto ciò che era accaduto in meno di un'ora: sua nonna che parlava a chissà chi, il soldato tedesco, quella lettera... il... quasi-bacio che si erano scambiati lei e Ben...

Era stata l'esperienza più intensa di tutta la sua vita, non aveva mai provato una sensazione simile. Quando andava a scuola, un ragazzino le faceva il filo e qualche volta di nascosto si erano scambiati alcune effusioni, ma non avevano niente a che fare con ciò che aveva appena vissuto con Ben. Si aspettava soltanto che da un momento all'altro tutta quell'energia che c'era tra di loro esplodesse nella stanza, facendo crollare le pareti. Cercò di pensarci il meno possibile, quando ripercorreva con la mente quel momento si sentiva arrossire dalla testa ai piedi, e non avrebbe mai voluto attirare di nuovo l'attenzione dei tedeschi.

Non capiva, tuttavia, perché all'ultimo si fosse tirato indietro a quel modo. In realtà non è che non avesse ragioni di farlo, è che ce n'erano troppe tra cui scegliere: la differenza d'età, la paura della reazione di suo padre, il ricordo della moglie. O forse era preoccupato dalla pericolosità della situazione e dalla diversità delle loro razze. Sarebbe stato uno sciocco ad esitare per quel motivo, Viktoria non vedeva alcuna diversità tra etnie, e anzi quando si parlava di “razza”, le pareva sempre che si parlasse di animali: odiava quella parola.

Appena entrò in casa si appoggiò alla porta per un attimo, tirando un sospiro di sollievo. Come al solito suo padre la chiamò ansioso, e lei lo rassicurò. Non gli raccontò del soldato che l'aveva fermata, non voleva farlo preoccupare ed uscire dal letto prima del termine impostogli dal dottore.

Si chiuse semplicemente nella sua stanza dicendo di voler riposare un po' prima di cena, ed avidamente aprì il foglio ripiegato che le aveva lasciato Ben.

Divorò quella lettera con lo sguardo. Lesse e rilesse quelle parole senza quasi sbattere le palpebre, a bocca aperta.

 

“Cara Viktoria,

non posso fare a meno di scriverti questa lettera, perché ciò che vorrei dirti non può essere racchiuso nella manciata di minuti di conversazione che ci sono concessi ogni giorno, forse ancora per poco tempo.

Cara Viktoria, quello che vorrei dirti non è facile da comprendere, né mi aspetto che tu lo faccia, ma sei l'unica persona con la quale io possa parlare liberamente, e non voglio che tu pensi a me come a un maniaco; ho visto lo sguardo sul tuo volto questa mattina, e avrei voluto dirti tante cose, ma non potevo, non riuscivo...

Non ti ho detto tutta la verità su tua madre. Non ce l'ho fatta, non potevo sopportare che tu mi giudicassi negativamente o che mi vedessi come un bugiardo, perché questa storia ha dell'inverosimile. Fatico persino io a crederci, ma è la pura verità.

Quando tua madre venne nel mio negozio la prima volta, mi interessai moltissimo a lei, ma non solo perché era intelligente, piacevole ed appassionata d'arte. Lei mi ricordava tanto una persona che già conoscevo, in un certo senso. Assomigliava in maniera impressionante alla donna che vedo nei miei sogni sin da quando ero bambino.

Credimi, non ho alcuna intenzione di impressionarti o di raccontarti una storia romantica di come mi innamorai di tua madre, perché questo non accadde. Ero felice con mia moglie, e quello che ci fu tra me e Marlene fu soltanto una splendida amicizia. La cosa più impressionante accadde anni dopo.

Un giorno vidi tua madre passeggiare con le sue due figlie. Una di loro era identica alla donna che sogno da quando ho memoria: eri tu. Improvvisamente capii perché tua madre aveva voluto acquistare i miei quadri e perché ne era rimasta così impressionata. La ragazza ritratta era uguale ad una delle sue figlie.

Ma c'è di più: nel mio sogno non vesti abiti normali, e non ti comporti in maniera ordinaria. Non direi nemmeno che sei tu, se non fosse per il fatto che quella donna ha il tuo viso. Nel mio sogno io mi inginocchio ai tuoi piedi e ti bacio la mano. Nel mio sogno sei una Regina.”

 

Viktoria si sentì mancare. Dovette sedersi sul letto, la lettera ancora in mano per miracolo, la mano le tremava visibilmente e la testa le girava.

Come faceva quell'uomo... Quell'uomo al quale non ha mai accennato nulla dei suoi sogni, a sapere...? Non poteva essere vero. Non voleva crederci. Ma perché avrebbe dovuto prenderla in giro su qualcosa del genere? Le si accese una lampadina.

Se avesse trovato quei quadri, avrebbe potuto svelare il mistero, vedere se davvero le somigliavano così tanto. Ma non aveva idea di dove cercare e chiedere a suo padre sarebbe stato troppo sospettoso. Perché sua madre li aveva comprati per poi non appenderli?

D'un tratto, Eva entrò nella sua stanza. Viktoria trasalì, interrompendo così bruscamente i suoi pensieri che non ebbe tempo di nascondere la lettera da qualche parte.

“Ehi, Vicky...” fece per dire sua sorella, fermandosi poi sull'uscio perplessa. “Cos'hai lì?”

Lei esitò parecchio. Quello era il suo segreto. In più, sua sorella era del tutto scettica sull'argomento, e non le aveva nemmeno raccontato quanto assurdi fossero diventati i suoi sogni ultimamente.

“Chiudi la porta.” le bisbigliò. Eva obbedì, e le si avvicinò, ma lei ebbe cura di ripiegare a dovere la lettera, in modo che non si potesse leggere nemmeno una parola di ciò che c'era scritto.

“Sai tenere un segreto?”

 

“Tu?? E quell'ebreo?!” esclamò Eva stupefatta, ma sua sorella la zittì.

“Taci, oca! Vuoi che lo sappiano tutti?” sibilò. Poi annuì titubante. “Non chiamarlo in quel modo. E' una persona molto gentile.” lo difese timidamente.

“Beh, ma è quello che è.”

“Non mi piace fare differenze. Per me è un uomo, ed è... adorabile.” arrossì vistosamente ed abbassò lo sguardo. Non era abituata a fare confessioni del genere a sua sorella, ma doveva pur sfogarsi con qualcuno riguardo tutte le cose che le stavano accadendo, e quello era il segreto che più la tormentava: gli altri erano solo dubbi e sue congetture. Eva la guardava con aria sospettosa e lesse sul suo viso un po' di invidia: il fatto che alla sua età fosse ancora zitella le premeva molto, ma d'altronde non aveva molte occasioni di conoscere coetanei, per di più ancora celibi.

“E non è che... l'altra notte...?” azzardò maliziosa.

“Co--? No! Per l'amor del cielo, Eva!” si finse indignata. “Lo conosco soltanto da pochi giorni.”

Cadde il silenzio per qualche istante, durante il quale la sorella maggiore fissò la minore come se non fosse del tutto convinta delle sue affermazioni. Ed infatti ecco che Viktoria cedette sotto lo sguardo pressante di Eva, e confessò: “E va bene. C'è stato... qualcosa.”

La vide sgranare gli occhi e accennare una smorfia come a dire “lo sapevo!”

“Non è stato nulla, non... Lui... Voleva baciarmi, ma poi si è bloccato.” sospirò mortificata. Fu quasi un sollievo dirlo ad alta voce, anche se sua sorella non era proprio la persona più adatta a darle consigli.

“E la lettera?” domandò improvvisamente Eva, facendo cenno al foglio che ancora sua sorella teneva in mano.

“Oh, questa...” doveva inventarsi qualcosa alla svelta. “Non è nulla. Parla della sua arte e mi cita qualche passo di un libro che non conosco.” aveva toccato il tasto giusto. Sua sorella odiava leggere, si sarebbe disinteressata subito alla questione, quando avrebbe capito che non poteva aiutarla in nessun modo e che, anzi, sarebbe stato persino noioso leggere quelle righe.

Ma Viktoria sapeva cosa doveva fare, ed aveva prefissato un ruolo preciso per Eva in tutta la faccenda.

“Devi aiutarmi.”  

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Mai si sarebbe immaginata che tutto sarebbe filato non liscio, ma liscissimo. Beh, era ancora un po' presto per parlare, ma ormai la parte più complicata e pericolosa del suo piano era stata portata a termine: si trovava alla fabbrica, all'interno, salva.

Aveva previsto qualunque scenario, da sua sorella che si rifiutava di aiutarla al peggiore: essere scoperta da un soldato. Eppure Eva non aveva opposto resistenza, anzi, giurerebbe persino di aver scorto un lampo di eccitazione nei suoi occhi quando le aveva chiesto di coprire la sua fuga. Forse aveva capito finalmente cosa si provava a vivere un'avventura, una vera, di quelle che lei aveva sempre evitato per tutta la sua vita. Anche se non la stava sperimentando di persona, ne faceva comunque parte, e prima che Viktoria uscisse di casa, le aveva preso le mani tra le sue e le aveva sorriso, scusandosi per ciò che aveva detto di Ben in precedenza, senza nemmeno conoscerlo, ed augurandole un lieto fine per quella storia.

Non le aveva raccontato del sogno. Non voleva metterlo in mezzo a quella faccenda, sapendo quanto scettica fosse Eva ogni volta che lo nominava, ma era quello il reale motivo per cui non poteva aspettare fino alla sera successiva per dirglielo: era davvero troppo importante per tenerselo dentro così a lungo. Inoltre suo padre si stava riprendendo in fretta, e presto l'avrebbe destituita dal suo incarico e sarebbe tornato lui stesso a portare il cibo a Ben.

Viktoria sapeva bene che sarebbe stato molto più sicuro in quel modo: lei dava troppo nell'occhio, mentre suo padre si trovava sul proprio luogo di lavoro, non c'era nulla di sospettoso nei suoi movimenti. Ma il solo pensiero di non poterlo più vedere per chissà quanto tempo le spezzava il cuore. Per questo doveva approfittarne e dirgli tutto, subito.

Non aveva incrociato nessuno in strada, aveva preso alcune viette secondarie ed il buio l'aveva inghiottita facendole provare una sensazione opprimente e claustrofobica, nonostante si trovasse all'aperto, in un luogo che ben conosceva; ma una volta che i suoi occhi si erano abituati, era stata aiutata dalla luce della luna che fiocamente le illuminava la via.

Aveva ancora il cuore in gola, quando entrò nella fabbrica; dopo essersi chiusa la porta alle spalle, dovette fermarsi un istante a riprendere fiato, ma non riuscì nel suo intento.

Non poteva sprecare nemmeno un secondo del tempo che aveva a disposizione con Ben: con l'eccitazione ancora in circolo, si fiondò nell'ufficio di suo padre.

Non si premurò nemmeno di portarsi una lampada quando scese la scala. I suoi movimenti erano così rapidi ed impazienti che quasi inciampò sui gradini.

“Viktoria...” sentì mormorare nell'oscurità. Il ragazzo sembrava più preoccupato che sorpreso.

“Non... Non ci vedo...” si sentì sciocca nel farfugliare, ma fu l'unica cosa che le passò per la testa quando sentì come se qualcuno le avesse iniettato nelle vene un potente tranquillante. Era l'adrenalina che la stava abbandonando improvvisamente, lasciandola quasi senza forze. Fu proprio quando giunse quasi alla fine della rampa che il calo di forze fece calare anche la sua attenzione ed inciampare, ma Ben fu più svelto. Le cinse la vita con un braccio, lasciando che cadesse su di lui, poi le passò l'altro braccio sotto le ginocchia e si caricò tutto il peso della ragazza.

“S- Scusa...” balbettò lei, cercando di individuare il suo volto nell'oscurità.

Nel momento in cui aveva sentito la voce di Ben le era sembrato come se fosse a casa. Per questo tutta la paura e l'adrenalina erano calate drasticamente in quell'istante: dopotutto allora non erano dettate dall'ansia di dovergli parlare, ma soltanto dal voler stare con lui.

Non ebbe tempo di domandarsi perché lui non si muovesse, o non la rimettesse in piedi. A dire il vero, non ebbe nemmeno tempo di aprire bocca nuovamente, perché si ritrovò zittita in partenza dalle labbra di lui.

Lo aveva fatto senza esitazione, determinato ma per nulla freddo. Anzi, un violento tepore si diffuse nel corpo di Viktoria ancor prima che si rendesse conto di cosa stava succedendo.

E poi, una volta che lo capì, fu come se quella sensazione fosse già nella sua memoria e la stesse rivivendo un'altra volta. I movimenti le vennero naturali, spontanei, troppo adulti per quello che era lei. Portò le sue braccia ad accarezzargli la nuca, ricambiò quel bacio prendendone quasi il controllo, mentre lui procedeva cautamente.

All'improvviso Viktoria scattò, distaccandosi bruscamente e sussultando. Riuscì a vedere il suo viso, adesso che erano tanto vicini, e vi lesse perplessità.

“Devi vedere una cosa.” gli disse, con voce strozzata.

Senza fare domande, lui la rimise in piedi ed accese la lampada. Quando guardò verso di lei, la vide sollevare una mano: l'indice era tinto di rosso. Istintivamente Ben si portò la mano alla nuca.

“Non ti preoccupare, è solo un...” sminuì, un po' stranito dal fatto che Viktoria avesse interrotto un momento simile soltanto per una goccia di sangue. Ma quando riportò l'attenzione su di lei, la vide scostarsi i capelli dalla nuca e voltarsi.

Aveva un puntino nero, nella stessa identica posizione del suo. E la cosa più sorprendente era che anch'esso stava sanguinando.

“... neo.” concluse la frase, attonito.

Le si avvicinò. Lei era ancora di spalle, e quando riuscì a vederla in volto si accorse che era commossa. Qualcosa le bruciava in petto. Era una sensazione che le sembrava di aver già vissuto, ma non riusciva a ricordare in quale occasione, né a capire se fosse una sensazione bella o brutta. Sapeva soltanto che era giusto che loro due stessero lì assieme. Quel bacio aveva sbloccato qualcosa: sapeva che non sarebbe stato mai più lo stesso.

Ben cercò di consolarla, accarezzandole il capo e stringendola a sé, ma dovevano assolutamente parlarne. Lui probabilmente pensava che fosse soltanto una coincidenza, ma Viktoria sapeva che non era così: c'erano troppi elementi, non potevano essere tutti frutto del caso.

“Non è successo nulla.” la rassicurò, continuando a passarle una mano tra i capelli.

Viktoria non riusciva a trovare le parole. “Non è vero che non è successo nulla!” avrebbe voluto gridare, ma quella sensazione non l'aveva ancora abbandonata e aveva voglia soltanto di godersi quelle coccole, di respirare il suo profumo, di cullarsi nella sua voce profonda. Se l'era meritato dopotutto.

“Anne.” disse lui, inaspettatamente.

Lei sobbalzò incredula, allontanandosi di nuovo per guardarlo in faccia, ma senza perdere il contatto con le braccia che la stringevano. Ben stava sorridendo.

“Anne.” ripeté. “E' il nome che chiamo la notte.” confessò. “Mia moglie ha sempre pensato che avessi un'amante di nome Anne.” ridacchiò divertito. Ma Viktoria non era molto divertita: lo fissava a bocca aperta ed occhi spalancati.

“Perché non...” fece per chiedere.

“Perché non sapevo come spiegartelo.” le rispose lui, senza nemmeno sentire la domanda per intero. “Avrei dovuto dirti tutte le cose che ti ho scritto nella lettera e non sapevo come. Compreso il fatto che parlo francese nel sonno... Che è forse la cosa più assurda tra tutte.”

Dopo un attimo di smarrimento ed incredulità, anche Viktoria vide il lato comico della vicenda. Iniziò a sogghignare. Poi rise, cercando di contenersi, premendosi la mano sulla bocca.

“Non so nemmeno cosa dico, non conosco nessuno che sappia il francese per poterlo tradurre!” rincarò la dose lui, facendola ridere ancora di più.

Nonostante l'ilarità del momento, Ben cercò di zittirla prima con un sibilo, e poi con un altro bacio che la ragazza assaporò fino in fondo.

“Non sono coincidenze.” sussurrò poi lei.

Ora poteva parlare a cuor leggero, la tensione era stata smorzata.

“Il neo, i tuoi sogni... I miei sogni.”

“I tuoi sogni?” ripeté lui. Viktoria annuì.

“Da quando sono piccola... Sogno di essere nella stanza di un palazzo sfarzoso, con abiti di un'altra epoca, di un altro luogo.” tralasciò di proposito il fatto che aveva un bambino tra le braccia, sostituendo quella parte con un breve silenzio. “Sempre lo stesso sogno, per anni ed anni da quando ho memoria. E poi, quando ti ho conosciuto... Ho sognato che un uomo mi veniva a prendere. Venivo trascinata in una prigione. Poi degli uomini mi liberavano e...”

Tornò a guardarlo negli occhi e le sembrò che si stesse divorando quel racconto e che non potesse aspettare di sentire cosa avrebbe detto in seguito.

“E ti ho incontrato.” concluse. “Ben, io...”

“Eri una Regina.” affermò lui con aria disincantata. “Eri una Regina nel sogno, vero?”

Viktoria annuì di nuovo con un cenno del capo. Ben le prese una mano e gliela baciò. Premette forte le sue labbra contro il dorso della mano per alcuni secondi.

A lei sembrava soddisfatto. Le pareva che finalmente anche lui avesse trovato una risposta ai suoi interrogativi e a quanto pare aveva le idee più chiare di lei, che invece continuava a chiedersi se i sogni sarebbero continuati e come, che cosa ne sapesse sua nonna di tutto ciò e soprattutto cosa significassero tutti quei segni che il destino le stava mostrando sulla strada.

Forse Dio aveva qualcosa a che fare con quella situazione? Si chiese d'un tratto se avrebbe potuto trovare risposte proprio nella fede, e come aveva potuto non pensarci prima.

Quando Ben parlò di nuovo, però, le diede qualcos'altro su cui riflettere. Qualcosa che le avrebbe fatto dimenticare per un po' quella storia ai limiti del soprannaturale.

“Adesso ho capito perché ti ho amata dal primo istante in cui ti ho vista. Tu eri già parte di me.”

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Si chiese per alcuni secondi se avesse sentito bene e ripassò quella frase nella sua testa parecchie volte prima di rendersi conto che l'aveva detta seriamente. Aveva detto che l'amava. Lui. Ben. Quell'uomo tanto affascinante, di cui non sapeva nemmeno l'età precisa, che era già stato sposato... Aveva detto di amare una ragazzina inesperta e confusa come lei.

Non poteva credere che tutto quello che le stesse accadendo fosse tanto perfetto e tanto idilliaco, al punto da farle dimenticare che il mondo era in guerra e che le loro vite erano costantemente in pericolo. Sorrise a quell'uomo che non sembrava nemmeno aspettarsi una risposta da lei, ma che la guardava con occhi sognanti, orgoglioso di ciò che le aveva appena detto.

Poi qualcosa strappò via il sorriso dalla faccia di entrambi. Ben sgranò gli occhi, la prese per mano e si affrettò a spegnere la lampada, senza prima farle segno di far silenzio, con l'indice premuto sulle labbra.

Allora non se lo era immaginato: aveva sentito veramente dei passi scricchiolare sulla ghiaia. C'era qualcuno nel cortile dell'edificio.

Viktoria fissò la finestrella con occhi pieni di lacrime e terrore, poi tornò a guardare Ben. Anche lui stava guardando in alto, terrorizzato. Ma nonostante tutto si voltò verso di lei e la strinse a sé.

I passi proseguivano, ma non sembrava l'andatura di un soldato. Pareva più un uomo zoppo che arrancava con incedere irregolare e, tendendo meglio le orecchie, potevano sentire anche i suoi lamenti. Versi gutturali che fecero supporre ad entrambi che si trattasse di un uomo ferito. Improvvisamente Viktoria guardò Ben con tutt'altro sguardo.

Avrebbe potuto trattarsi di un ebreo, di qualcuno che stavano inseguendo, forse aveva bisogno di aiuto, forse...

Ben non le diede tempo di pensare ad altro; iniziò a scuotere il capo fermamente, una volta che capì cosa aveva in mente. Ma nelle sue vene scorreva il sangue di sua madre e se c'era qualcuno per cui poteva fare qualcosa, non sarebbe stata lì ad aspettare senza far nulla. Sentì la presa di lui consolidarsi sulle sue braccia, ma quando temette di poterle far male, la lasciò andare e non poté far altro che stare a guardare mentre Viktoria si arrampicava sul tavolino instabile.

Si alzò in punta di piedi ed andò a sbirciare fuori dal vetro sporco di terra da cui riusciva a vedere ben poco. I passi però parevano essersi interrotti: ora sentiva soltanto dei gemiti sofferenti non molto lontani dal punto in cui la finestrella sbucava sul cortile. Eccolo: nell'angolo intravedette un uomo appoggiato al muro, ma era tutto troppo scuro per poter capire se si trattasse di un ebreo.

Si sentì toccare una gamba e nel momento in cui si voltò e vide Ben scuotere di nuovo il capo, allungandole una mano per invitarla a scendere. Il tavolino oscillò pericolosamente, quando un urlo risuonò nelle loro orecchie, facendole raggelare il sangue. “Da questa parte!” gridò qualcuno con un forte accento tedesco.

Soltanto in quel momento Viktoria si rese conto dell'effettivo pericolo che stavano correndo. Scese dal tavolo velocemente, quasi lanciandosi tra le braccia di Ben, che la prese al volo.

Nessuno dei due voleva più guardare in alto, verso la finestra. Entrambi cercavano conforto l'uno nell'altra, ma nei loro occhi leggevano soltanto una paura mai provata prima: ora correvano il rischio di perdere molto più della loro stessa vita.

Sentirono più persone correre nel cortile. Urlavano, urlavano tutti, e un uomo piangeva. A Viktoria non venne in mente altro se non tirare fuori il crocefisso che portava al collo e stringerlo tra le mani, il cuore in gola, le lacrime che le facevano bruciare gli occhi. Ben non osava muovere un muscolo, quasi non sbatteva le palpebre.

Sembrava quasi che la stesse guardando per l'ultima volta in vita sua.

Le urla crescevano, sembravano quasi avvicinarsi sempre di più e poi un istante di silenzio venne squarciato da uno sparo improvviso. Viktoria sussultò appena, ma Ben le premette comunque una mano sulla bocca. La sentì bagnarsi di lacrime, ma la spostò non appena capì che nonostante fosse visibilmente scossa, non avrebbe mai fatto nulla per attirare l'attenzione dei tedeschi.

Dopo che sentirono i soldati trascinare il corpo fuori dal cortile, non osarono parlare ancora per lunghissimi minuti. Rimasero soltanto a guardarsi negli occhi: Viktoria con il crocefisso intrecciato tra le dita, strette tra di loro in una silente preghiera; Ben che pareva aver appena ricevuto una dozzina di schiaffi.

Finalmente parve convincersi di essere al sicuro ed abbassò lo sguardo sulle mani della ragazza. Poteva intuire cosa nascondesse tra di esse, ma volle comunque spingerla ad aprirle, come guidato da un istinto che non riusciva a sopprimere. La accarezzò gentilmente e lei gli mostrò il ciondolo argentato.

Inizialmente ne restò quasi indifferente, ma non appena lo sfiorò dovette lasciarlo andare per portarsi le mani alla testa.

“Ben!” esclamò Viktoria, mantenendo sempre la voce bassa. “Stai bene?”

“E'... Un po' di emicrania...” mormorò, massaggiandosi le tempie.

“Sdraiati.” gli suggerì, accompagnandolo verso il letto. Riaccese la lampada, mantenendo però la luce molto bassa ed appoggiandola per terra come ulteriore precauzione, in modo da illuminare soltanto l'area sotto la finestra.

Tutto quello che era successo l'aveva lasciata con la testa piena di preoccupazioni. Le possibilità che suo padre scoprisse la sua fuga notturna erano aumentate esponenzialmente. Anche se non c'era più un cadavere da spostare, qualcuno lo avrebbe avvisato dell'accaduto: sperava soltanto che avvenisse il giorno seguente, quando lei fosse stata già a casa. Ma soprattutto, sentiva la vita di quell'uomo pesarle sulle spalle, anche se non avrebbe comunque potuto fare niente per lui. La persona per cui poteva fare qualcosa, invece, era lì accanto a lei.

Nonostante Ben avesse quell'angelica creatura seduta accanto a carezzargli la fronte amorevolmente, non poteva fare a meno di continuare a guardare il crocefisso che gli penzolava davanti alla faccia. Quell'oggetto lo attraeva in maniera inspiegabile. Si trovò persino a desiderare ardentemente che Viktoria si proponesse di donarglielo, perché voleva metterselo al collo a tutti i costi. Eppure non era nemmeno un simbolo della sua religione, né gli piaceva poi tanto come stile... Lo sfiorò nuovamente. Questa volta riuscì a rigirarselo tra le dita per qualche secondo, prima che un altro attacco di emicrania lo distolse di nuovo dal suo proposito di ammirare l'oggetto.

Sibilò, costretto a serrare gli occhi dal dolore.

“Non ti preoccupare.” lo rassicurò Viktoria, mantenendo il controllo della situazione. “E' probabilmente un po' di stress. Sono... successe molte cose.” quasi aveva dimenticato il perché si fosse recata lì in primo luogo. Ma di certo non si era dimenticata ciò che lui le aveva confessato.

“Ben, io...” fece per dire. Dopotutto gli doveva una risposta.

“Dove... Dove hai preso quel crocefisso?” domandò invece lui con aria tormentata. Viktoria si drizzò sulla schiena, prendendo il ciondolo tra le mani ed osservandolo.

“Questo? Me lo ha dato mia nonna.” rispose, stranita. In un momento come quello, perché gli importava così tanto di un oggetto che non aveva mai visto prima d'ora?

Lui scosse il capo.

“Ho idea che venga da molto più lontano.” affermò con sicurezza.

“Beh, nemmeno io so esattamente da dove venga, ma...”

“Mi faresti un favore?” domandò, interrompendola di nuovo. Viktoria si morse la lingua per non far scorrere il fiume di parole che avrebbe voluto riversare su di lui riguardo i suoi dubbi sul crocefisso. Annuì.

“Toglitelo e sdraiati con me.” le sorrise un po' malizioso, stringendole una mano.

La ragazza arrossì di colpo. Non pensava che quell'uomo potesse essere tanto sfacciato e soprattutto non aveva mai visto quell'espressione sul suo viso, ma la cosa stranamente non le provocava nessun fastidio, anzi. Sentì un'eccitazione mai provata prima di allora. Stava forse per succedere qualcosa? Nonostante tutto, non riusciva a trovare nulla di sbagliato in quella situazione.

Si sfilò il crocefisso lentamente, andandolo a posare sul tavolo, poi si accoccolò accanto a lui. Cercò di mantenere le distanze, non voleva che pensasse che fosse abituata a fare certe cose con i ragazzi. Si tenne sull'orlo del letto, ma la scena pareva un po' ridicola e anche Ben se ne accorse. Ridacchiò e le cinse la vita con un braccio, avvicinandola a sé.

Le si avvicinò per baciarla, ma non lo fece. Era lì, sul punto di posare le labbra su quelle di lei, ma si limitava a guardarla con gli occhi socchiusi a pochi centimetri dal suo viso e questo portò Viktoria a desiderare quel bacio come se fosse acqua nel deserto, tanto che pensò di impazzire nell'attesa. Si domandò se la stesse facendo soffrire di proposito, se fosse semplicemente un gioco, un esperimento per vedere quanto avrebbe resistito... E la risposta in ogni caso sarebbe stata: molto poco.

Dopo alcuni secondi interminabili, fu lei a scattare in avanti e a baciarlo, assaporando finalmente quella sensazione che tanto agognava. Non avrebbe mai pensato che a desiderarla così tanto, poi se la sarebbe goduta di più. Lui la prese tra le proprie braccia e con un'abile mossa la fece rotolare sotto di sé.

Dalla bocca di lei passò all'orecchio, le mordicchiò il lobo facendola mugolare di piacere, poi scese sul collo. Per agevolarsi l'impresa, le slacciò i primi bottoni della camicetta in un istante, tanto che Viktoria non si rese nemmeno conto che vi stava armeggiando finché non sentì la sua barba sfregare contro la pelle del suo petto. Il suo ansimare si trasformò in un fremito quando si rese conto di ciò che stava per accadere.

“Ben!” mormorò allontanandolo gentilmente.

Lui la guardò perso, e lei ricambiò la stessa occhiata confuso. Non era più lui. Lo sguardo, il modo di fare, quei gesti così risoluti... Non riconosceva l'uomo che pensava che fosse. Se lo era immaginato come un romantico passionale, sì, ma non credeva che sarebbe potuto essere così deciso e audace.

Poi lo vide come tornare in sé. Scosse il capo, sbigottito, passandosi una mano tra i capelli.

“Mi dispiace, io... Io non lo so cosa...” farfugliò, lasciandosi ricadere sul letto e fissando il soffitto.

Viktoria sorrise. Non avrebbe dovuto farlo, ma un istinto prese il sopravvento, e si ritrovò a provare un'attrazione incredibile per quel ragazzo ora sperduto, ma che poco fa le aveva fatto provare cose che non sarebbe stata in grado di descrivere. E che non avrebbe mai descritto a nessuno, dopotutto.

Era un segreto tra loro due, uno dei tanti. Era una cosa che sarebbe rimasta in quello scantinato. Per una volta poteva essere un'altra persona.

“Non ti ho detto di smettere.” sussurrò. Lui si voltò di scatto, sorpreso.

“Ma...” cercò di replicare.

“Ti ho fermato per dirti che anche io ti amo.”  

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Anne non ricordava nemmeno più di essere stata una Regina. Per quanto le riguardava, era nata per fare quello: essere una buona madre ed una buona moglie.

Quello che era sicura di non essere, invece, era una buona cuoca.

Si trovava in una piccola cucina, piena di pentole e pentolini e non aveva idea di cosa stesse preparando, ma un odore piuttosto sgradevole le faceva pizzicare le narici e venire voglia di buttare tutto. Era stanca, sudata, sporca e frustrata. In più, il bambino aveva preso a piangere e a nulla servì rassicurarlo dicendogli che suo papà sarebbe tornato presto. In realtà questo non rassicurava nemmeno lei, perché la cena non era per niente pronta e sentiva di non volerlo deludere in alcun modo. Tornò a leggere il librone di cucina accanto a lei, ma si ritrovò più confusa di prima, tra termini che non aveva mai sentito nominare e procedimenti troppo complicati da seguire. Le salì la rabbia alla testa e schiaffò a terra il pesante tomo, che ricadde con un tonfo. Non contenta gli assestò anche un calcio rabbioso, ma ciò che ottenne fu soltanto di spostarlo di pochi centimetri ed un mignolo dolorante.

Soffocò un urlo mantenendo un minimo di contegno, anche se ormai aveva la sua privacy e non era più circondata da decine di dame da compagnia che seguivano ogni suo movimento. Si prese il piede tra le mani e saltellò fino al più vicino sgabello, sfilandosi poi la scarpa. Una cosa che rimpiangeva erano proprio i suoi begli abiti... Indossava una semplice tunica – al momento sudicia ed unta, ma solitamente manteneva un minimo di decenza – e dei sandali un po' logori ma comodissimi.

Le salirono le lacrime agli occhi per il dolore, e fu quasi sul punto di andare a prendere a calci anche quello stupido paiolo pieno di una brodaglia indistinguibile, ma si trattenne. Sospirò guardandolo e scosse il capo. Il piccolo stava ancora piangendo ed ogni suo urlo le faceva salire il magone.

“Cosa c'è, Philippe?” rantolò, andando a prenderlo in braccio. In quel momento sentì la porta aprirsi e si voltò automaticamente verso l'ingresso.

Provò un moto di estremo affetto per l'uomo che aveva appena varcato la soglia e che le stava sorridendo amorevolmente. Lo vide guardarsi attorno e posare lo sguardo sul suo piede nudo, sul pentolone dal quale stava ora fuoriuscendo una schiuma marroncina poco appetibile e sul libro a terra.

“Allora, cosa c'è di buono stasera?” chiese comunque.

Anne si sentì sopraffare da una sensazione di inadeguatezza, mista al profondo amore che provava per il suo Moschettiere, anche se ora non indossava più l'uniforme. Quando le si avvicinò sentì un odore familiare di polvere da sparo e nella sua mente scorse l'immagine di Aramis nell'intento di montare e caricare un moschetto, mostrandolo ad un paio di uomini interessati.

“Mi dispiace... Io... Philippe...” balbettò esasperata, ma lui non si scompose.

Lui continuò a sorridere rassicurante, poi le prese il bambino dalle braccia. Questi subito parve calmarsi. Non poté far altro che pensare a quanto fosse meravigliosa la persona che amava. Con la manica si ripulì il viso da una lacrima, dalla fuliggine e da non sa cos'altro e stette a guardare; Aramis aveva gli occhi e i modi di un padre. E, si rese conto poco dopo, quando si voltò verso di lei, di un marito del tutto fedele e devoto.

La fece sorridere con il suo solo cenno, poi le prese una mano.

“Sei felice, Anne?” le chiese all'improvviso. Lei si commosse di nuovo ed annuì.

“Come non potrei?” rispose con un fil di voce.

Aramis portò il dorso della sua mano alla bocca e lo sfiorò con le labbra, senza mai smettere di ammirarla in adorazione.

 

Viktoria aprì gli occhi e si rese conto di star sorridendo.

Allora è così che finiva... Entrambi avevano ritrovato una nuova vita, felici, soddisfatti e innamorati. Sarebbe finita così anche per lei e Ben?

Oh, Santo Cielo! Ben! Improvvisamente tutto le tornò alla mente e il sorriso si allargò ancor di più. Lo sentiva accanto a lei, emanava un piacevole tepore ed il suo respiro profondo le ispirava tenerezza. Era successo veramente, quindi...

Si girò su un fianco e lo osservò per un po' mentre dormiva, resistendo alla tentazione di accarezzargli e baciargli il viso che ora appariva tanto innocente, ma che poche ore prima... Beh, era tutt'altro che candido. Ma gli piaceva quel suo lato che finora era rimasto nascosto. Aveva un non so che di risoluto che la faceva sentire al sicuro. Per un attimo si domandò se anche con sua moglie si comportasse in quel modo, ma poi ricacciò il pensiero. Esistevano solo loro due.

Sospirò profondamente, cercando di rivivere sulla pelle quelle sensazioni che mai nessuno le aveva fatto provare, senza vergognarsi minimamente di ciò che era successo.

Attese ancora un po' il suo risveglio, ma doveva essere veramente esausto, perché non si destò nemmeno quando lei si alzò dal letto senza curarsi molto di farlo piano. Da una parte voleva che si svegliasse per potergli raccontare del suo sogno, ma dall'altra non voleva farlo direttamente per non sembrare troppo impaziente. Il sole non era ancora sorto, ma la lampada era rimasta accesa: nessuno dei due aveva avuto la forza di compiere il semplice gesto di spegnerla, erano semplicemente crollati per la stanchezza.

Viktoria si rivestì, dandogli le spalle ed immaginandosi che lui avesse aperto gli occhi e la stesse ammirando, ma quando si voltò lo trovò nella stessa posizione di prima. Un po' delusa, iniziò a guardarsi attorno. Trovò il crocefisso appoggiato sul tavolo e se lo mise al collo. Ma dove era sparito quel blocco su cui l'aveva ritratta? Da alcuni giorni desiderava dargli un'altra occhiata più approfondita e vedere magari se avesse fatto dei disegni anche che raffiguravano sua madre.

Il tavolino aveva un cassetto. Esitò un po' prima di farlo, chiedendosi se fosse giusto o meno, ma poi sollevò le spalle. Dopotutto non stava facendo nulla di male, voleva solo vedere i suoi disegni, non avrebbe certo frugato tra le altre cose.

Ma non appena iniziò a tirare il pomello del cassetto, sentì Ben muoversi nel letto. Si stava stiracchiando, ma aveva ancora gli occhi chiusi; Viktoria richiuse il cassetto e gli si rivolse con un sorriso.

“Ben!” esclamò entusiasta come una bambina che vede una persona a lei cara dopo molto tempo. Si rituffò nel letto travolgendolo col suo impeto e senza dargli nemmeno il tempo di connettere, lo baciò. Lui trasalì all'inizio, ma poi la cinse con le braccia, ricambiando il bacio mentre si tirava su a sedere. Da subito Viktoria si accorse che c'era qualcosa di diverso.
Non era più quell'uomo esperto e provocante che l'aveva sedotta con uno sguardo poche ore prima. Era di nuovo... Ben. E questa cosa la faceva diventare matta, perché non riusciva a capire come due atteggiamenti così distanti tra di loro potessero attrarla alla stessa maniera.

Lo guardò negli occhi beata e all'improvviso si ricordò.

“Oh, ho fatto di nuovo un sogno!” esclamò elettrizzata, per poi iniziare a raccontarglielo per filo e per segno tutto d'un fiato. Lui ascoltava ancora mezzo addormentato e mezzo attonito, finché Viktoria non smise di parlare. A quel punto prese parola, commentando semplicemente: “Un bambino?!” mentre sgranava gli occhi.

Oh già. Aveva saltato deliberatamente quella parte quando gli aveva raccontato dei sogni precedenti, ma ora se l'era fatta sfuggire. E non riuscendo a capire se Ben fosse incollerito o lieto della notizia, si limitò ad annuire, serrando le labbra. Ma quando lo vide ridere, anche lei si lasciò andare.

“Un bambino... Eravamo felici... E avevamo un bambino.” sospirò lui, passandosi le mani tra i capelli. Senza smettere di sorridere, Viktoria divenne leggermente pensierosa.

“Cosa significa ciò che hai detto?”

Lui la scrutò per un attimo, come se fosse indeciso se parlare o meno, ma alla fine l'insistenza delle occhiate di Viktoria lo convinsero. Le prese una mano e la baciò nel suo solito rituale.

“Lo so che è difficile da comprendere. Ma è l'unica spiegazione che chiarisca ciò che ci sta succedendo... E penso che dovresti accettarla anche tu, anche se le nostre religioni non la prevedono.”

La ragazza si scostò i capelli dietro l'orecchio ed il suo sorriso si trasformò in un'espressione concentrata a focalizzare ogni singola parola pronunciata da Ben.

Cosa stava cercando di dirle? Tutto ciò aveva davvero un senso? Non era soltanto frutto della sua fantasia e del... Beh, del caso?

E' vero, c'era qualcosa di veramente strano nel fatto che lui conoscesse il suo viso ancora prima di incontrarla, e quel neo che entrambi avevano... Lo aveva spiegato semplicemente come un segno del destino, o un segno dal cielo. Pensava che fosse Dio che cercava di far capire loro che dovevano stare assieme e che non importavano le loro età o la loro religione... Ma mentre pensava a tutto questo, Viktoria si rese conto da sé di quanto suonasse ridicolo, una volta messi assieme tutti i pezzi del puzzle. Stava soltanto cercando di spiegarsi qualcosa di incomprensibile ed arcano, giustificandolo come un miracolo. Ma ai miracoli aveva smesso di credere il giorno in cui sua madre era morta.

“Che vuoi dire?” domandò, determinata ad aprire i propri pensieri a qualsiasi assurda spiegazione le avesse fornito Ben. Dopotutto, di lui si fidava profondamente.

“Penso che questi siano i ricordi di una vita precedente.”

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Assurdo. Era tutto completamente assurdo. Non aveva mai pensato nemmeno di striscio ad una possibilità del genere, ma a tratti non le pareva poi così tanto improbabile. Poi però scuoteva il capo e ricacciava l'idea come una tentazione a cui doveva resistere.

Ammettere una cosa del genere significava tradire la sua religione, la sua fede, tutto quello in cui credeva. Ma non ammetterlo significava schierarsi dalla parte opposta a quella di Ben, andare contro un'idea della quale andava tanto fiero. Voleva vederci più chiaro.

Mentre camminava per le strade del centro, con la solita andatura sicura e senza guardare in faccia a nessuno, si ripromise di fare un salto in biblioteca per cercare qualcosa sull'argomento. I libri non potevano tradirla, i libri raccontavano favole o verità, e lei era in grado di distinguere un genere dall'altro.

Fu soltanto quando ormai era troppo vicino che si accorse che una persona la stava fiancheggiando. Trasalì quando intravide con la coda dell'occhio l'uniforme da soldato, e fermandosi realizzò che si trattava dello stesso soldato che l'aveva fermata pochi giorni prima.

“Buongiorno.” le si rivolse imperturbabile, la voce ferma ed autorevole.

“B- Buongiorno.” rispose Viktoria colta alla sprovvista. Doveva ricomporsi il più velocemente possibile.

“Posso chiederle di mostrarmi i suoi documenti?” domandò l'uomo, squadrandola dalla testa ai piedi. Doveva avere ancora i capelli arruffati, poiché non aveva avuto modo di sistemarseli per bene, e si accorse che anche i suoi vestiti erano leggermente sgualciti. La sua fortuna risiedeva nel fatto che gli uomini di solito non notano quelle cose quando guardano una bella ragazza. Beh, quasi tutti. Mentre Viktoria estraeva il suo portadocumenti, sentì lo sguardo insistente del soldato su di sé. Avrebbe anche voluto chiedergli se la stesse prendendo in giro, visto che le aveva chiesto i documenti qualche giorno prima ed era sicura che nemmeno lui si sia dimenticato. Difatti non diede che una veloce occhiata alla sua carta d'identità, per poi tornare ad inquisirla.

“Dove sta andando?”

“Torno a casa. Sono andata alla fabbrica per lasciare in ufficio un documento... Per il socio di mio padre.”

Più parlava, più il soldato le sembrava poco convinto. Aveva forse visto qualcosa che a lei sfuggiva? Un dettaglio che gli rivelasse la grandissima bugia che aveva appena detto? O semplicemente l'aveva tenuta d'occhio e si era accorto di non averla vista passare quella mattina, per andare in fabbrica come asseriva?

“La Haas&Pohl...” continuò, cercando di acquistare più credibilità. “Mio padre... è il signor...”

“Può andare.” la interruppe il biondissimo uomo, restituendole la sua carta d'identità. Viktoria non si scompose e si limitò a mormorare un “Arrivederci...” perplesso.

Non le aveva fatto paura come la prima volta, anche se avrebbe dovuto visto il potere che aveva di smontare la sua bugia con un semplice controllo.

Ma aveva ben altro a cui pensare, quindi l'accaduto passò semplicemente in secondo piano. Adesso doveva soltanto sperare che suo padre non si fosse accorto della sua assenza e che non l'avessero ancora chiamato per comunicargli dell'omicidio avvenuto proprio nel cortile della fabbrica, a cui Viktoria e Ben avevano assistito involontariamente.

Allungò il passo: ormai aveva superato la “zona calda”, ovvero il punto in cui di solito si appostavano i tedeschi. Salì le scale del condominio a due a due, ma cercò di fare sempre più piano man mano che giungeva in prossimità del suo appartamento; dopodiché abbassò lentamente la maniglia, cercando di fare meno rumore possibile. Con sollievo, la porta si aprì: Eva era stata al gioco e si era svegliata presto per girare la chiave nella toppa.

A quell'ora di solito si svegliava soltanto sua nonna, ma non sarebbe stata un problema. Era un po' triste approfittarsi della sua malattia in quel modo, ma in alcuni casi diventava un vantaggio. In punta di piedi Viktoria si avviò verso la sua stanza, superando la stanza della nonna, in cui ancora Eva dormiva, e quella del padre dalla quale proveniva il suo russare profondo.

Entrata in camera tirò un sospiro mentre richiudeva la porta. Ma quando si voltò verso il suo letto, sobbalzò.

Sua nonna era lì seduta a fare a maglia e le sorrise.

“Ciao, Vicky!”

Cosa ci faceva lì? Non entrava mai in camera sua. Aveva forse scoperto la sua fuga notturna? Viktoria rabbrividì: suo padre non doveva sentirle parlare.

“Nonna...” bisbigliò, avvicinandosi. “Aspetta, non fare rumore...” la pregò con una gestualità quasi teatrale, mentre si spogliava dei vestiti che indossava il più velocemente possibile e si infilava la camicia da notte. Sua nonna obbedì, continuando a sferruzzare tutta soddisfatta.

“Vieni, andiamo di là.” cercò di aiutarla ad alzarsi dal letto, prendendola sottobraccio, ma l'anziana donna non si mosse e Viktoria non insistette. Dopo un lungo sguardo, ripiegò la testa sul suo lavoro e continuò a muovere l'uncinetto rapidamente. La ragazza sospirò rassegnata e si sedette accanto a lei.

“Non so che fare, nonna. Non ci capisco più niente.” iniziò a raccontare. Sapeva che non avrebbe mai avuto una risposta sensata, ma era appunto per questo l'unica persona alla quale potesse parlare liberamente. Si passo le mani sul volto stanco.

“E' tutto sul diario.”

Viktoria sollevò il capo di scatto.

“Cos'hai detto?” chiese, incredula.

“Il diario.” rispose la nonna, come se avesse appena detto la cosa più ovvia del mondo. La ragazza si guardò attorno, persa nella sua stessa camera, finché non scorse un oggetto che non apparteneva alla sua stanza. Anzi, che non aveva mai visto prima d'allora. Era un piccolo libricino dalla copertina di cuoio appoggiato sul suo cuscino: le pagine gonfie ed ingiallite le sembrarono sgualcite ancor prima che lo sfogliasse. Con sommo fascino lo prese tra le mani come una reliquia ed iniziò a sfogliarlo. Non si trattava che di poche pagine, scritte in una grafia ordinatissima e datate meticolosamente.

Quando Viktoria iniziò a leggere, non poteva credere ai suoi occhi.

 

“2 settembre 1885.

Inizio a scrivere questo diario, perché sto per dare una svolta definitiva al caso del sogno misterioso che faccio sin da quando ho memoria. Lo riporterò qui di seguito.

Quel ragazzo di cui sono tanto innamorata, mi mette tra le mani qualcosa e mi promette di tornare, poi si allontana a cavallo con altre persone vestite come lui. E' senza dubbio un soldato e quando se ne va sento una gran tristezza nel mio cuore, come un brutto presentimento. Difatti l'ansia cresce sempre di più, finché non mi ritrovo a pregare e piangere su una tomba, stringendo tra le mani un ciondolo, probabilmente lo stesso che mi era stato affidato dal giovane prima di partire. Ma io so che quel ciondolo non mi appartiene. Sento di aver sofferto tanto e di aver perso molte persone a me care e tutte le mie sofferenze sono racchiuse in quella catenella che tengo in mano. D'improvviso mi ritrovo vecchia. Devo dire che ho mantenuto un certo decoro, una certa caparbietà nei miei modi che mi rende orgogliosa di come abbia affrontato la vita, che forse sta per giungere al termine. Sono in pace con me stessa mentre scavo una buca ai piedi di un grande olmo campestre e vi seppellisco quell'oggetto. Poi guardo verso la città: sono sicura che non sia Vienna.

 

Ho indagato molto, ho passato ore in biblioteca e finalmente ho capito che nel mio sogno è ambientato tra il XVII e il XVIII secolo. Ancora non capisco in quale città mi trovi, però. Sto sfogliando diversi libri di mode del passato per trovare un vestito simile a quello che indosso nel sogno.

 

5 dicembre 1885.

Ci sono, l'ho trovato finalmente! Parigi. Ero totalmente fuori pista, mi concentravo sul dettaglio sbagliato! Quando ho realizzato finalmente che dovevo analizzare l'abbigliamento di lui – del mio amato – e non il mio, ci sono arrivata praticamente subito. Paris, la cara, vecchia, romantica Paris! E' tutto così affascinante che se anche alla fine la mia ricerca terminasse nel nulla, mi lascerebbe comunque questo senso di magico e misterioso che nessun'altra ragazza della mia età può dire di aver provato! Ora so dove cercare, so cosa devo fare.”

 

“N- Nonna, non dirmi che...” iniziò Viktoria, ma l'anziana donna con un gesto della mano le fece cenno di continuare. La ragazza pensò che se avesse sgranato gli occhi più di così, le sarebbero usciti dalle orbite, e non le restò altro da fare che proseguire la sua lettura. Girò pagina.

 

 

“13 giugno 1886.

Sono passati sei mesi dall'ultimo aggiornamento, ma nel frattempo ho deciso di partire: andrò a Parigi! Mia cugina Sophia andrà lì con suo marito per le vacanze e mi ha proposto di unirmi a loro! E' stata davvero un angelo, non potrò mai dimenticarlo... Negli ultimi mesi mi sono concentrata a migliorare il mio francese: adesso posso salutare come una vera mademoiselle! Non vedo l'ora di partire.

 

17 luglio 1886.

E' senza dubbio una città magica e per i primi giorni me la sono goduta pienamente, ma ho quel conto in sospeso... Devo scoprire assolutamente se è successo sul serio o se si tratta solo di una mia fantasia e di puro caso. Sono andata in una biblioteca. Quando seppellivo il ciondolo, mi trovavo fuori dalla città, ma da allora si è allargata parecchio, quindi quel cimitero potrebbe non esistere più o essere stato inglobato nei confini. Ho fatto una lista di cimiteri ed oggi inizio la mia ricerca!

 

18 luglio 1886.

Non ci posso credere, sono successe così tante cose che nessuna di esse mi sembra vera... Tra le mie mani, ora, tengo... Sì, è proprio lui! E' un crocefisso argentato con delle pietruzze rosse. Sembra essere anche molto prezioso, ma non è questo ciò che importa! Non era soltanto un'invenzione, è tutto reale! Il cimitero esiste ancora, anche se non ho ritrovato la tomba sulla quale pregavo, è tutto molto diverso... Ma quando ho visto quel grande olmo, quasi mi è preso un infarto... Tanto che il giovane custode è venuto a chiedermi se mi sentivo bene!

Poverino, sembrava così terrorizzato all'idea che potessi sentirmi male che ha voluto accompagnarmi a tutti i costi. Ma poi mi ha persino concesso di scavare una buca, nonostante non fossi riuscita a spiegarmi bene, in preda all'agitazione. Alla fine quando mi ha vista tirare fuori quel ciondolo ha farfugliato tante di quelle cose che non ho capito quasi nulla! Era così buffo che mi ha fatta ridere.

Poi è diventato tutto strano. Quel tipetto così impacciato... Nell'istante in cui ha toccato il crocefisso... Non so proprio spiegarlo, ma è come se fosse diventato un'altra persona. Non è stato pauroso, anzi, mi è parso... Di conoscerlo da sempre. E anche se poco prima riuscivamo a farci capire l'uno dall'altro a malapena, da quell'istante non mi sono persa una parola di tutto ciò che ha detto, e lui sembrava capire perfettamente il mio francese stentato. Mi ha detto di non raccontare a nessuno di quello che era successo. E poi, mentre me ne stavo andando, mi ha detto che avrebbe voluto rivedermi!

E' un ragazzo tanto affascinante e tanto dolce. Si chiama Jerome.”

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Viktoria lasciò ricadere il diario sulle proprie gambe, incredula, ancora a bocca aperta.

“Nonna!” esclamò stupefatta. Perché non aveva mai saputo niente di tutta quella storia? Nessuno le aveva mai raccontato come i suoi nonni si fossero conosciuti. Che lo avesse tenuto sempre segreto anche agli altri? Come aveva spiegato alla sua famiglia il suo incontro con il guardiano di un cimitero e la loro conseguente relazione?

Così tante domande le giravano nella testa che non sapeva da dove iniziare. Ma probabilmente non avrebbe mai iniziato, perché era quasi sicura che le sue risposte non si trovavano lì.

Però doveva fare almeno un tentativo.

“Perché hai dato a me il crocefisso?” chiese. Era quella la questione che le importava sopra di tutte: per quanto affascinante e misteriosa fosse la storia di come i suoi nonni si sono conosciuti, ormai c'era poco da aggiungere. Ora voleva capire quale fosse il suo ruolo in tutto ciò.

“Il crocefisso era tuo.” rispose candidamente la donna, senza smettere di far lavorare l'uncinetto.

Quell'affermazione, che aveva già sentito quando le aveva dato il ciondolo, assunse un significato diverso. Se quel gioiello era suo, come aveva fatto ad arrivare nelle mani di sua nonna, o della persona che era stata?

Viktoria deglutì. L'intera storia iniziava a farle un po' paura.

“Nonna... Come ti chiamavi?” chiese. Attese una risposta in silenzio, ma invano. Sorrise comunque, intenerita, e baciò la nonna sulla guancia.

“Grazie.” bisbigliò, restando seduta lì ancora per un po' semplicemente ad osservarla sferruzzare e pensando che in tutto questo tempo quella piccola grande donna aveva mantenuto un segreto enorme. E che se forse qualche volta, quando ancora era in sé, si fosse soffermata a chiederle qualcosa della sua vita, invece di essere sempre tanto egocentrica e parlare solo di se stessa, lo avrebbe scoperto molto prima.

Attese pazientemente che il resto della casa si svegliasse, poi andò a farsi un bagno caldo e si rivestì, come se nulla fosse successo. Invece tutto era successo.

E finora era stata tanto stupida da trascurare qualcosa di tanto significativo. Non come sua nonna, che invece si era messa al lavoro ed aveva passato le giornate in biblioteca a fare ricerche.

E così era Parigi... Quella città che aveva osservato anche lei da lontano, dal carretto che la stava portando in salvo. La città che sentiva di aver tanto amato come se fosse casa sua, anche se in realtà non lo era. Avrebbe voluto essere tanto astuta da poterci arrivare da sola.

Ora non aveva più dubbi. Quello di cui parlava Ben era reale. Persino sua nonna lo aveva vissuto, non potevano essere tutte coincidenze. E la cosa che era successa a suo nonno nel momento in cui aveva toccato il crocefisso... Era esattamente ciò che era accaduto a Ben quella notte. Che anche suo nonno facesse parte di quella grande rete che si stava lentamente districando?

Ancora un paio di nodi la separavano dalla verità. Dove si trovava il crocefisso prima di giungere nelle mani di sua nonna? Se era suo, allora perché nei suoi sogni non compare mai?

Uscita dal bagno, ancora piena di mille pensieri, si ritrovò di fronte suo padre, ormai praticamente guarito.

“Vicky, ti sei svegliata presto...!” esclamò nel vederla già lavata e vestita. Improvvisamente provò una gran vergogna, nel pensare agli avvenimenti della sera precedente. Si sentì in colpa per averlo preso in giro, ma non poteva raccontare... Si limitò ad annuire, incerta.

“Che succede?” domandò subito il signor Haas, insospettito.

“Nulla, l'acqua era troppo calda, forse.” si affrettò a giustificarsi. “Stai meglio?” domandò quindi. Era una cosa che non aveva preso in considerazione. Se suo padre si era ripreso, significava che...

“Già, sono in piene forze! Non c'è bisogno che vada dal signor Keller stasera, posso farlo io.”

“No!” esclamò, forse con troppa veemenza perché suo padre rimase meravigliato.

“Cioè... E' meglio se riposi ancora un giorno. Soltanto uno.” cercò di salvarsi all'ultimo, tirando in ballo la scusa della salute. Ma ormai il danno era stato fatto. Il signor Keller la guardava sospettoso e lei non poté far altro che farsi piccola piccola e sperare che non le facesse nessun'altra domanda.

“Di' un po'... Non è che...”

“Ah, papà, ti sei alzato!” Viktoria sospirò quando Eva interruppe la loro conversazione. Dall'occhiata che le lanciò fu sicura che lo avesse fatto di proposito: probabilmente era dietro alla porta ad origliare ed era intervenuta per evitarle l'imbarazzo.

“Però è meglio non fare le cose di fretta, eh!” le diede manforte. “Va', riposati ancora un pochino, che ci pensiamo io e Vicky a tutto il resto. Vado al lavoro.”

Quando vide la sorella avvicinarsi a lui per dargli un bacio, Viktoria ne approfittò per sgattaiolare nella sua stanza ed evitare la ripresa della conversazione.

“Devo riordinare l'armadio!” esclamò, richiudendosi la porta alle spalle e sperando che l'opera di convincimento fosse andata a buon fine. Non aveva per niente voglia di aggirarsi di nuovo per strada di notte, da sola, per andare a trovare Ben di nascosto: aveva rischiato troppo, se ne rendeva conto.

Per tutto il giorno cercò di evitare suo padre e ci riuscì, anche se i suoi riflessi non erano al meglio. Si aggirava assonnata per casa tentando di tenersi occupata, perché sapeva che se avesse toccato il letto o il divano, si sarebbe addormentata e non voleva far nascere domande sulla sua inusuale stanchezza.

Ma più l'ora si avvicinava, più l'adrenalina le dava scosse continue che la tenevano ben sveglia. Pensò che prima o poi sarebbe suonato il telefono ad annunciare l'omicidio avvenuto durante la notte nel cortile della fabbrica, ma invece nessuno chiamò. Probabilmente i tedeschi avevano insabbiato tutto. Non lo dissero nemmeno alla radio.

Ripensò a quell'uomo, al suo respiro affannoso. Lo aveva sentito, era vicino, ma non avevano potuto fare nulla per aiutarlo. E poi d'improvviso non c'era più. Dimenticato per sempre, soltanto uno dei molti, troppi, ebrei uccisi. Quel pensiero la tormentava.

Arrivata ad un certo punto della giornata, però, si rese conto che ciò che stava facendo era veramente subdolo. Che senso aveva mentire a suo padre? In ogni caso, il giorno seguente avrebbe ripreso lui ad andare in fabbrica, ed allora chissà quando avrebbe potuto rivedere Ben...
Pensò che in fin dei conti avrebbe dovuto essere felice per lei, anche se forse non era esattamente la relazione che si era immaginato per una delle sue figlie. Ma lo aveva detto anche lui, che Ben era un brav'uomo. In uno slancio di positività, Viktoria si introdusse in camera del padre, già pronta per uscire. Lo trovò intento a leggere un libro a letto, piuttosto seccato per il fatto che gli avessero proibito ancora di muoversi.

“Stai andando?” le chiese, notando subito di nuovo quello sguardo sul suo viso, che stavolta si era dipinta apposta per introdurre la conversazione. “Per l'amor del cielo, Vicky, si può sapere cosa ti succede in questi giorni?”

Viktoria deglutì, tenendo gli occhi bassi ed appoggiandosi timidamente all'armadio alla ricerca di una posa naturale.

“E' successa una cosa.” mentre lo stava per dire, la sua mente lavorava così rapidamente che aveva quasi paura che suo padre potesse udire tutti i suoi pensieri. Era partita con l'intento di essere completamente sincera, ma già quando aveva varcato la soglia della camera aveva cambiato idea: forse non era il caso di raccontare della sua fuga notturna. Dopo la domanda di suo padre si vietò assolutamente di parlare dei sogni e di tutto ciò che era legato ad essi.

Alla fine, la sua filosofia diventò: il minimo indispensabile.

“Non dirmi che ti sei messa nei guai con i tedeschi, o che...”

“No!” si affrettò ad interromperlo. “Non è una cosa brutta.” beh, non lo era affatto. Almeno per lei. Ma non ebbe bisogno di parlare. Quando sollevò lo sguardo, vide suo padre con il volto tra le mani a coprire quella che deduceva essere una maschera disperata.

“Papà, mi dispiace, io volevo dirtelo... Lui... E' davvero buono.” finì per mormorare, abbassando sempre di più il tono della voce. Non era questo il discorso che si era preparata, ma finì per farsi travolgere dalle emozioni.

“Vicky, non ho niente contro quell'uomo, è la persona migliore che conosca!” sbottò il signor Haas d'un tratto, facendola trasalire. “Ma è pericoloso. Lo capisci? Non voglio perderti... Non voglio che la nostra famiglia...” lo sentì deglutire a forza, ingoiando un singhiozzo. “Non voglio che tu faccia la fine di tua madre.”

Viktoria si sentì colpita nel profondo. Aveva tirato fuori la storia di sua madre. Lui non ne parlava mai. Questo significava che era veramente preoccupato.

“Non ne vale la pena. Non per una cotta passeggera.”

Nel sentire quelle parole, tutta la pietà che provava lasciò spazio ad una rabbia incontrollabile. Strinse i pugni e lo guardò come non aveva mai fatto prima d'ora.

“Cosa ne sai tu?” tuonò furente. “Non eri lì! Non hai visto il modo in cui mi guarda, non hai visto... Il modo in cui mi stringe a sé.” nel suo sfogo non riuscì nemmeno a provare vergogna per ciò che stava dicendo, nonostante si fosse ripromessa di tener segreto qualsiasi loro contatto fisico. “Io lo amo, e lui ama me. Ed è un sentimento che nessuno potrà fermare. Non l'ha fermato il tempo, non lo fermeranno le bombe, non lo fermeranno i nazisti e di certo non lo fermerai tu!”

Senza nemmeno stare a guardare la reazione di suo padre, Viktoria uscì dalla stanza, dall'appartamento e dal condominio. Si rese conto solo strada facendo di star camminando sotto alla pioggia. Ripassò nella mente le parole che aveva appena sputato contro suo padre e comprese quanto potevano suonare insensate per qualcuno che non conosceva l'intera storia. Ma soprattutto quanto dovevano averlo ferito. Non era da lei comportarsi in quel modo.

Più si avvicinava alla fabbrica, più pensava di stare commettendo un errore. Suo padre non aveva colpe se non quella dell'ingenuità. Se non gli raccontava come stavano effettivamente le cose, come poteva immaginarle? Ed era del tutto normale che fosse in pensiero per la sua vita, sapeva benissimo anche lei di rischiarla ogni giorno.

Si fermò nel bel mezzo della strada, a metà cammino, e prese tra le mani il crocefisso.

Lo baciò e fece dietro-front.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Mentre suo padre la abbracciava non poteva far altro che pensare al fatto che anche Ben la faceva sentire in quel modo. La faceva sentire al sicuro, e questo era l'ennesima riprova che non si sbagliava riguardo i loro sentimenti reciproci, e che suo padre doveva capirlo.

“Mi spiace, Vicky.” le disse commosso, accarezzandole la testa.

“Scusa, papà.” gemette lei tra le lacrime. “Ma è tutto vero, te lo posso giurare. Io...” si scostò leggermente dalla presa, per poterlo guardare in faccia. “Io l'ho saputo dal primo momento in cui l'ho visto.”

Il viso del signor Haas si contrasse dapprima in un'espressione sofferente, che si sforzò di trasformare in un sorriso. In quell'istante riuscì a vedere finalmente sua figlia come una donna adulta, e non più come la bambina che lo pregava di prenderla in spalla quando era troppo stanca per camminare. Doveva lasciarla andare sulle proprie gambe adesso.

“Ho una cosa per te.” annunciò. La baciò in fronte e la lasciò ad attendere nell'anticamera, sparendo per alcuni secondi. Quando tornò teneva in mano un grande foglio ingiallito dal tempo, arrotolato su se stesso. Lo porse a Viktoria, che a quel punto aveva già capito di cosa si trattava; quando lo aprì velocemente, riconobbe il suo profilo in un dipinto ad acquerelli così sfumato che le parve di essere entrata direttamente nel sogno di Ben, la cui firma a matita si nascondeva in un angolo.

“L'ho trovato solo alcuni anni fa... Doveva averlo comprato tua madre.” disse il signor Haas. “E mi sono sempre chiesto come il signor Keller abbia potuto riprodurti così bene senza averti mai visto.”

Viktoria alzò lo sguardo su suo padre e aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a trovare nessuna scusa plausibile. Per fortuna il signor Haas non sembrava intenzionato a saperne di più.

“Allora vai. Sarà in pensiero per te.” cercò di ricomporre la voce rotta per sembrare sicuro della sua decisione. Dopotutto quel giorno, Viktoria aveva dovuto fare una scelta importante nel tornare sui suoi passi per chiedergli scusa. Era venuto il suo turno di mettere da parte l'orgoglio.

Viktoria arrotolò di nuovo il foglio e lo appoggiò il tavolo; era incapace di proferire parola senza scoppiare in lacrime in quel momento.

Gli sorrise e lo abbracciò un'ultima volta, prima di correre via nuovamente. Il signor Haas poteva vedere la sua coscienza svolazzare più leggera tra le pieghe del vestito mentre si allontanava.

 

Ben era rimasto tutto il giorno in ansia. Incapace di dormire nonostante la stanchezza estrema, si era tormentato per tutte quelle ore chiedendosi cosa stesse facendo Viktoria nel frattempo: stava cercando una prova del fatto che si sbagliasse? O magari l'aveva spaventata così tanto che non si sarebbe fatta vedere?

Il sole iniziò a tramontare e temette seriamente di non vederla più. Non si rendeva conto di quanto tempo fosse passato da quando aveva iniziato a fare avanti e indietro per la stanza, percorrendo quei pochi passi che lo spazio ridotto consentiva, rimuginando e ripetendo nella sua testa le ultime parole che si erano scambiati.

E cercando di ricordare cosa fosse successo durante la notte. I suoi ricordi erano confusi. Dei flash disordinati e rapidi gli suggerivano che dovevano aver passato dei gran bei momenti assieme, ma dopo il forte mal di testa non riusciva a ricordare molto. O meglio, non riusciva a ricordare quali fossero state le sue azioni. La pelle chiara e liscia di Viktoria, quella la ricorda benissimo. Il sapore dei suoi baci, i suoi movimenti lenti ma per nulla impacciati, il suo sguardo sognante e i suoi gemiti...

Ebbe un brivido. Non gli sembrò quasi vero che fosse stato proprio lui a provocarle tutte quelle sensazioni che sembravano farla impazzire. Cosa aveva fatto di così speciale per dipingerle in viso quell'espressione estasiata? Ricordava solo di essere crollato esausto e di aver fatto molta fatica a risvegliarsi al mattino.

Ma fortunatamente lo aveva fatto in tempo per evitare a Viktoria di aprire quel cassetto. Pensò che non le avrebbe fatto molto piacere vedere cosa c'era dentro.

D'un tratto sentì dei passi leggeri correre al piano superiore: era lei, lo sapeva. Guardò in direzione della botola entusiasta, in attesa che questa venisse aperta.

Gli si fiondò tra le braccia. Ben la strinse a sé, con la paura di poterla perdere di nuovo anche se ormai era lì. Viktoria lasciò cadere gli stivali infangati che teneva in mano ed iniziò a parlare.

Non poteva credere alle sue orecchie. Se non l'avesse sentita direttamente dalla voce di Viktoria, avrebbe detto che fosse tutta una grandissima presa in giro.

Ma allora non stava diventando pazzo chiuso tra quelle quattro mura...! La sua ipotesi non era tanto assurda. Si era sentito un po' stupido dopo aver visto la reazione della ragazza quando le aveva esposto la sua teoria e per tutto il giorno si era chiesto se avesse fatto meglio a starsene zitto e rifletterci meglio, cercando un'altra spiegazione possibile.

Era così sollevato che avrebbe voluto trasmettere anche a lei la sua soddisfazione e la sua gratitudine per aver parlato a suo padre di un argomento tanto delicato. Lui stesso non avrebbe saputo come affrontarlo, probabilmente lo avrebbe evitato finché fosse stato possibile.

Le baciò il dorso della mano, e poi le labbra. Quando si allontanò le vide un sorrisetto malizioso che gli suscitò un vago ricordo della sera precedente.

“Sai...” iniziò, tirando fuori dalla camicetta quel ciondolo che la sera precedente gli aveva provocato quell'orrendo mal di testa e, apparentemente, anche la conseguente piccola amnesia. “Mia nonna sul suo diario ha scritto che quando mio nonno ha sfiorato questo crocefisso.... Era come se fosse diventato un'altra persona.” glielo fece penzolare davanti alla faccia.

Ma lui scosse il capo. Finalmente aveva capito, e per quanto assurda fosse anche quell'ipotesi, sapeva che ormai le coincidenze non avevano più nulla a che fare con quella storia.

“Non abbiamo bisogno di essere altre persone, Vicky.”

La baciò nuovamente in maniera più decisa e la sentì gemere per la sorpresa. A quanto pare il suo vecchio se stesso l'aveva fatta divertire la notte precedente, ma anche lui poteva esserne all'altezza. Dopotutto sempre di se stesso si trattava: credeva a tutto quello che era successo, tranne che allo sdoppiamento di personalità.

Aramis, o come aveva detto che si chiamava, era parte di lui, non sarebbe potuto esistere senza Ben Keller.

Con determinazione la spinse verso il letto, costringendola ad indietreggiare. Ma non appena si sedette, accadde qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. La botola si aprì di scatto, facendoli sussultare. Sentì le unghie di Viktoria aggrapparsi al suo braccio come se stesse per essere risucchiata da un vortice che la trascinava lontana da lui.

Terrorizzato riconobbe una divisa militare. Era finita. Era tutto finito.

Non poté nulla contro la paura, lo sgomento. Era immobilizzato. E non temeva il campo di concentramento, il duro lavoro, le botte, la malattia, nemmeno la morte. Aveva paura per Viktoria, la sua dolce, piccola Vicky, la cui voce ovattata che urlava il suo nome faceva di sottofondo ai mille pensieri: scattò in piedi, ma subito si vide puntata contro una pistola.

“Fermo! Non fare un altro passo!” il tedesco scese le scale, spostando il bersaglio da lui a Viktoria, rannicchiata e singhiozzante sul letto.

Ben andò nel panico. Aveva sempre pensato che in una situazione del genere si sarebbe semplicemente rassegnato al suo destino, senza tentare gesti folli e disperati, ma tutto era cambiato da quando quella biondina sperduta era entrata nella sua vita. Si chiese quali sarebbero state le conseguenze per la sua famiglia, ma nemmeno una volta gli venne in mente di incolparla per ciò che era accaduto.

Cadde semplicemente in ginocchio.

“La prego.” disse, chinando il capo. “La prego non le faccia del male... La scongiuro, lei...”

“Ben!!” un grido straziante e se la ritrovò di fianco, in ginocchio con lui. Avvolse la sua testa in un abbraccio e sentì le sue lacrime bagnargli il collo, o forse era di nuovo il neo che aveva ripreso a sanguinare.

“La prego... La prego, non lo porti via!” supplicò il soldato, in una preghiera straziante che gli fece versare a sua volta alcune lacrime. Ricambiò il suo abbraccio passandole un braccio dietro la schiena.

Il tedesco non si muoveva.

“Dovete seguirmi.” decretò. Ma Ben si accorse che il suo tono di voce non era così autoritario come si aspettava, e uno spiraglio di luce gli riaccese la speranza.

“Se ha un cuore... Se ha una famiglia, una donna che ama, che vorrebbe sposare... Allora non lo faccia, la prego. Nessuno verrà mai a saperlo e pregheremo per lei tutti i giorni che ci restano da vivere.”

“Pe- Per favore...” balbettò Viktoria, alzandosi in piedi. Mosse un passo verso il ragazzo biondo.

“Vicky.” la richiamò Ben, per fermarla, ma lei pareva determinata. Guardava il soldato negli occhi con il viso arrossato e umido. Non abbassò mai lo sguardo sull'arma puntata ora verso di lei.

“La prego...” mormorò di nuovo, muovendo un altro passo.

“Vicky, fermati!” le ordinò più fermamente Ben, che aveva visto sì dell'esitazione nelle azioni del nazista, ma non così tante da poter azzardare una mossa del genere.

Ma lei non si fermò.

Lentamente la vide allungare una mano tremante verso l'uomo. Pensava che lo avrebbe disarmato. In quel momento gli sembrò di rivedere la sua cara amica Marlene nel momento in cui le aveva salvato la vita. Solo sua figlia avrebbe potuto fare una cosa tanto avventata.

Il tedesco tremava, la pistola quasi gli cadde di mano ad un certo punto, ma lui rinsaldò la presa, stringendo il calco, e con un dito sul grilletto non la spostava dal suo obiettivo.

Scosse la testa.

“Non posso.” borbottò confuso.

Viktoria gli sorrise tra le lacrime e sollevò ancora la mano. Col capo inclinato lo guardava come si guarda alla tenerezza di un bambino o al viso di un amante.

Ben aveva smesso persino di respirare. Non voleva fare niente che potesse provocare reazioni istintive nel soldato.

Quando le dita di Viktoria gli sfiorarono lo zigomo, il tedesco ebbe uno scossone e per un attimo Ben temette veramente che fosse tutto finito. Ma l'uomo non sparò. Guardava Viktoria come un essere venuto da un altro pianeta, come se gli avesse appena aperto gli occhi su una verità che non aveva mai preso in considerazione.

Lei appoggiò la mano sul suo volto con una naturalezza di cui nessun altro sarebbe stato capace con una pistola a pochi centimetri dalla pancia.  

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Ben era esterrefatto.

Viktoria aveva sfiorato la guancia del nazista con una carezza e lui aveva subito abbassato la pistola, lasciandosela scivolare di mano. Poi era caduto in ginocchio a sua volta, sullo stesso livello dell'ebreo che gli stava di fronte.

Ma ora nessuno stava più supplicando. C'erano solo due uomini sconvolti ed arresi l'uno all'altro, e una ragazza tra di loro, che in qualche modo era riuscita a metterli sullo stesso piano con un gesto tanto semplice come una carezza.

Viktoria non era mai stata brava con l'empatia, ma in quel momento avrebbe tentato di tutto per salvare il suo amato, e non era nemmeno troppo sorpresa del fatto che avesse funzionato. Di certo era estremamente sollevata e grata a Dio e a quell'uomo che aveva temuto tanto durante i loro incontri precedenti.

Lo vedeva a terra, rassegnato e arreso e non sapeva a cosa stesse pensando perché teneva la testa bassa a fissare il pavimento, ma lo vide tremare molto. Era fradicio per via della pioggia, ma non pensò che fosse quella la ragione.

Le venne spontaneo, come aveva fatto poco prima con Ben, prendergli il capo tra le braccia e consolarlo.

Ben la guardava a bocca aperta, spaesato ed impotente. Non poteva fare nulla. Le fece cenno alla pistola, ma Viktoria scosse il capo. La situazione era ancora molto delicata e qualsiasi gesto avventato avrebbe potuto mandare tutto all'aria.

“Non è stata colpa mia... Io non volevo...” farfugliava confuso. Si portò le mani al volto e fu allora che si accorsero che stava piangendo.

Viktoria aveva ripreso il controllo in maniera quasi spaventosa. Dalla gattina supplicante che era fino a qualche minuto prima, era diventata una donna sicura di sé e con in mano le redini della situazione.

“Non importa. Tutte le brutte azioni che ha fatto... Dio le perdonerà.” mentre pronunciava quelle parole si rese conto che quell'uomo probabilmente aveva sulle sue mani il sangue di moltissimi innocenti, ma non riusciva proprio a provare rabbia nei suoi confronti, non in quel momento.

“E' troppo tardi. E' troppo tardi...” ripeté lui.

“Vicky!” esclamò all'improvviso Ben, quando vide il tedesco allungare la mano verso la pistola a terra; ma Viktoria fu più rapida e con un calcio la spinse lontana. Subito dopo si inginocchiò anche lei all'altezza del nazista e gli prese il viso tra le mani.

“Non devi farlo!” gli disse fermamente, guardandolo negli occhi umidi. “Troppe vite sono già andate sprecate.”

Con la coda dell'occhio vide Ben alzarsi ed andare a raccogliere la pistola. Sentì che stava togliendole il caricatore ed i proiettili, ma lei era troppo concentrata nel cercare di infondere un po' di sicurezza in quel ragazzo nel quale non riusciva più a ritrovare quei tratti duri che l'avevano tanto spaventata al loro primo incontro.

“Non capisci...” le disse con quel forte accento. “Avrei potuto farli scappare... Avrei potuto... Non rendere vana la sua morte...”

Viktoria si scambiò un'altra occhiata con Ben, perplessa.

“Non so di cosa stia parlando...”

“Marlene Haas.” Viktoria ebbe un tuffo al cuore. “Era tua madre, no?”

Rimase così sorpresa dal sentirgli pronunciare quel nome, che lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e restò a fissarlo con gli occhioni spalancati, puntati verso di lui ma fissi nel vuoto allo stesso tempo. Fu Ben ad intervenire. Anche lui si mise su un ginocchio per poter guardare meglio in volto il tedesco e gli posò una mano sulla spalla.

“Come conosce quel nome?” gli chiese rapidamente, ansioso di sentire la risposta.

Ma Viktoria aveva già fatto due più due.

“Non... Non si sono salvati, vero...?” chiese, pur restando imbambolata. Non poteva crederci. Per tutti quegli anni le era stata raccontata una bugia bella e buona.

Quando l'uomo scosse il capo, addolorato, si immaginò tutta la scena nella sua testa. La pozza di sangue che si estendeva da sotto il corpo morente di sua madre, le urla di suo padre, i soldati che cercavano di riprendere i fuggitivi...
Ma fino a quel momento aveva pensato che quel sacrificio avesse salvato delle vite, e invece...

“Li ho ripresi. Avrei potuto lasciarli andare, ma... Non potevo tradire questo...” si portò una mano al braccio, strappandosi la fascia rossa contrassegnata con la svastica “...stupido, inutile...” e la gettò a terra. “...simbolo di sterminio.”

Alcuni istanti di silenzio furono rotti infine dalla voce piatta e attonita di Viktoria.

“Erano soltanto due ragazzini.”

“Lo so.” rispose lui, coperto di vergogna, a testa bassa.

“Erano... I suoi alunni.”

“Lo so, io...”

Viktoria nascose il volto tra le mani e così rimase.

Non sentì Ben aiutare la SS a rialzarsi, né le parole di gratitudine che gli rivolse, ma soltanto la botola richiudersi ed il suo amato cingerle le spalle ed appoggiare la fronte su una di esse.

“Mi dispiace, Vicky. Marlene... Sarà per sempre un'eroina.”

Ancora la ragazza non reagiva e non dava segno di voler muoversi.

“Se non avesse mai fatto ciò che ha fatto... Probabilmente oggi tu non avresti avuto il coraggio di... Di salvarci la vita.”

Era vero, completamente. Era l'unica cosa a cui pensava mentre si avvicinava alla pistola puntata contro di loro: sua madre e ciò che aveva fatto, la sua ultima, estrema azione di protesta contro un regime che lasciava terra bruciata dietro di sé.

Si asciugò gli occhi, facendo scorrere le mani sul volto e tornando a guardare il ragazzo.

“Siamo vivi.” mormorò con un fil di voce, come se si fosse resa conto solo in quell'istante che il pericolo era scampato. A terra, di fianco a lei, la fascia strappata del nazista le suggeriva che non si era trattato di un incubo, era successo davvero.

Ed era merito suo.

Quel giorno aveva salvato due vite.

“Sarebbe molto fiera di te, lo sai?” le sorrise Ben, dolcemente.

Viktoria lo baciò a lungo. Rimasero così tanto tempo attaccati l'uno all'altro da dimenticarsi di essere due persone distinte.

Non voleva rivivere quel momento terribile appena trascorso nella sua m,ente, ma soltanto l'istante in cui alzando la testa aveva visto Ben, ed aveva capito che erano salvi.

Soltanto una frase però continuava a risuonarle nelle orecchie, e doveva proprio togliersi quel dubbio. Si staccò da lui.

“Aspetta.”

Trovò buffo il fatto che Ben non voleva proprio saperne di smettere di baciarla e continuasse a cercare le sue labbra anche dopo che lei aveva interrotto il contatto. Rise, come non faceva da tempo, come se poco fa non avessero rischiato la vita entrambi.

“Ben!” cinguettò, cercando di nuovo di schivare i suoi baci, che finirono per centrare il collo. Si trovò ad ansimare profondamente, dimenticandosi quasi della domanda che voleva porgli, ma poi decise che poteva fare entrambe le cose, godersi le sue attenzioni e parlare.

“E' vero che vuoi sposarmi?” boccheggiò, mentre lui già aveva tuffato il viso nell'incavo tra la spalla ed il collo ed armeggiava con i bottoni sulla schiena del suo vestito.

A quel punto però si fermò per un istante, tornando all'altezza del suo volto e fissandola profondamente negli occhi.

“Non mentirei su una cosa del genere nemmeno di fronte a dieci nazisti pronti ad uccidermi.” detto questo, riprese a baciarla e la sollevò in braccio con estrema facilità, portandola sul letto.

Viktoria era al settimo cielo. Fissava il soffitto nella penombra con aria sognante e gli occhi lucidi: era davvero il momento più bello della sua vita.

Ridacchiò di nuovo quando la sua barba le solleticò il petto.

“Non sai nemmeno... Se dirò di sì...” continuò a ghignare, provocandolo. Anche lui sorrise malizioso quando, togliendole il vestito, alternò lo sguardo dal crocefisso al suo volto.

“Vedrai che ora te la farò urlare la risposta...” la baciò sulla bocca. “... E...” continuò, baciandola sul mento. “... Scommetto...” scese sul collo. “... Che sarà un sì.” la guardò un'ultima volta, prima di abbassare di nuovo il capo a baciare il crocefisso.

Ma qualcosa glielo impedì. Lo sguardo serio di Viktoria lo rimproverava tacitamente, mentre con entrambe le mani lo teneva lontano dal ciondolo. Si sfilò la catenella dal collo e la appoggiò sul tavolo.

“Voglio amare soltanto Ben, adesso e per sempre.”

Sapeva che Aramis era parte di lui, e di certo non le era dispiaciuta la notte precedente, durante la quale il suo passato aveva preso il sopravvento. Ma non era Aramis l'uomo che amava, era Ben Keller, quel dolcissimo e romantico ragazzo che le avrebbe messo un anello al dito, una volta finita la guerra. Mentre si contorceva dal piacere ad ogni suo tocco, si vide percorrere la navata. Lui si sarebbe voltato a guardarla con quegli occhi sognanti e pieni di speranze e le avrebbe sorriso.

Era sicura che a Ben non sarebbe dispiaciuto se qualche volta Anne ed Aramis si sarebbero potuti incontrare di nuovo grazie a loro. A lei non sarebbe dispiaciuto affatto.

Dopotutto, Anne sarebbe sempre stata parte di lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Quel sogno fu diverso da tutti gli altri.

Viktoria si sentì parte di esso, era come se stesse osservando tutto ciò che accadeva dall'alto, un'invisibile farfalla che si spostava assieme alla precedente ospite della sua anima ed al suo amante. Ma allo stesso tempo riusciva a sentire le sensazioni che Anne provava, come quel moto di gioia infinita nel guardare il suo bimbo muovere i primi passi. Il piccolo era ormai cresciuto abbastanza da potersi reggere sulle gambette grassocce, seppur a fatica, ed ostentare qualche movimento in sua direzione. Si vide sorridere, prendendolo tra le braccia nel momento in cui inciampò e poi sollevarlo in aria ridendo.

“Bravo, amore mio!”

Anche il bimbo ridacchiò gorgogliando.

Aramis si sedette accanto a loro, con i capelli ancora bagnati e la camicia aperta. Con un bacio le sfiorò le labbra e poi posò le proprie sulla sua mano, nel consueto vizio che non era riuscito a perdere.

“Potrei essere quasi geloso.” commentò malizioso, fingendo gelosia nei confronti dei gesti affettuosi che la ragazza rivolgeva al bambino.

“Aspetta il tuo turno.” lo riprese giocosamente lei, stampandogli un bacio di ricambio e spostando poi di nuovo l'attenzione su Philippe, al quale solleticò la pancia. Aramis ghignò nuovamente sotto ai baffi e prima di alzarsi in piedi, pizzicò la guancia del bimbo.

“Solo perché sei tu.” gli disse seriamente. Il piccolo lo guardò come se stesse capendo, ma dopo averlo guardato allontanarsi tornò a sghignazzare divertito dalle facce buffe che Anne gli stava facendo.

“Ho trovato un altro buon cliente oggi. Dovremmo festeggiare.” annunciò l'ex Moschettiere, allacciandosi la camicia allo specchio. “Aveva due gran belle pistole che voleva modificare.”

Anne non dette peso alle sue ultime parole, era rimasta ai festeggiamenti, quelli la interessavano decisamente di più.

“E' fantastico, tesoro.” cinguettò allegramente.

“Mi chiedo dove le abbia prese. Non sembrava un sol--”

Un rombo interruppe il loro dialogo. La porta si era spalancata all'improvviso, sbattendo contro al muro così forte da far sfuggire alla ragazza un urlo.

Sette guardie armate entrarono quasi marciando in casa loro ed il passato le tornò alla mente come una secchiata d'acqua gelida. Rabbrividì e strinse istintivamente il suo bambino a sé. Un uomo lesse delle parole da un foglio che suonavano piuttosto ufficiali, ma né Anne né Viktoria riuscivano a seguirle. Tradimento, rapimento del Delfino, diserzione, evasione... Condanna a morte.

“No!” sentì Aramis urlare. Delle spade vennero estratte, ma lui era disarmato e lei non voleva guardare. “Non so di cosa stiate parlando. Io ho disertato, ma mia moglie non è la Regina!”

Sapevano entrambi che era un tentativo disperato, ma Anne capì che stava cercando di prendere tempo inutilmente. Avrebbe ritardato soltanto di qualche minuto l'inevitabile morte.

“Marie... Si chiama Marie. Mio figlio si chiama Philippe.” lo udì ripetere la stessa storia che avevano raccontato a tutti nel villaggio, quel posto così sperduto tra i Pirenei e così lontano da Parigi nel quale si erano sentiti da subito al sicuro...

“E io sono Aramis, disertore. L'unico colpevole.”

Anne non osava voltarsi. Avrebbe voluto dargli un'ultima occhiata, ma era terrorizzata. Nonostante non avesse mai visto quegli uomini, avrebbero potuto riconoscerla: c'erano così tante falle nel piano di Aramis che si chiese se davvero pensava che avrebbe funzionato.

“Bella favola.” commentò uno di loro. “Sono loro, giusto?”

Dalla porta un ottavo uomo si fece largo tra i soldati.

“Tu...!” esclamò Aramis tra il sorpreso e l'infuriato.

Anne sentì i passi avvicinarsi e strinse il bambino ancora di più al suo petto. Philippe urlava così tanto che era diventato tutto rosso. La Regina vide l'uomo sorriderle e si sentì in qualche modo violata; avrebbe voluto pregarlo, scongiurarlo, ma in cuor suo si era rassegnata alla fine. Avevano combattuto fino a quel momento, erano scappati, si erano nascosti e avevano trovato finalmente la felicità. Era durata molto poco, ma sapeva che non era colpa di nessuno se non di quell'uomo che li aveva denunciati. In quell'istante Anne notò le pistole attaccate alla sua cinta e realizzò che doveva trattarsi di quel nuovo cliente di cui Aramis le stava parlando poco prima.

“Sono loro.” decretò, dopo averle dato una lunga occhiata.

“Prendeteli.” ordinò un'altra guardia, impassibile.

Le immagini si fecero più sfocate, le voci più ovattate; nonostante stesse vivendo la scena da due punti di vista differenti ma collegati, Viktoria faceva molta fatica a capire cosa stesse succedendo.

Philippe piangeva, urlava e lo stesso faceva lei. Aramis scalciava, urlava il suo nome e quello del bambino, cercava di raggiungerla, ma lei non riusciva a divincolarsi dalla presa.

Poi Anne perse i sensi.

Viktoria, invece, avrebbe voluto svegliarsi, ma non ci riuscì.

Voleva tornare al sicuro, da Ben, sapere che loro due stavano bene, sentirsi dire che si sarebbero sposati presto. Ma per quanto ci provò, non riuscì a svegliarsi.

Se ne stava lì, invisibile ed impotente, a guardare i soldati che mettevano fuori gioco la sua gemella colpendola alla testa. Aramis lottò fino alla fine, urlava a squarciagola il nome di Anne, ma lei non poteva sentirlo. Una delle guardie prese il bambino, ma l'ex Moschettiere non poté fare nulla a riguardo, perché non appena se ne rese conto, colpirono anche lui.

Viktoria cercava di urlare ad Anne di svegliarsi, di reagire, di riprendersi suo figlio, ma non riusciva a farsi sentire. La sua voce risuonava disperata soltanto nella sua testa.

Le guardie portarono fuori i due, trascinandoli a peso morto e li caricarono su un carro. L'uomo che li aveva denunciati ricevette una lauta ricompensa e se ne andò soddisfatto.

E lei rimase lì, sull'uscio della casa deserta a guardare il carretto allontanarsi. Tutta la gente del villaggio era fuori a guardare, ma nessuno intervenne. Omertosi ed impauriti, quando le guardie sparirono dalla loro vista, tornarono tutti a fare ciò che stavano facendo, lasciandola lì, impotente.

Si guardò indietro e vide il fuoco ancora acceso, la culla immobile, lo specchio nel quale si stava guardando Aramis che ora non rifletteva altro che una stanza svuotata della vita che ospitava.

Anche lei si sentiva intontita, forse per la botta in testa, forse perché era successo tutto talmente in fretta che non sapeva cosa il destino stesse cercando di dirle, ma presto le fu chiaro.

La stanza si trasformò rapidamente in un altro scenario, e Viktoria tornò ad essere Anne.

Vedeva di nuovo tutto dai suoi occhi, ma continuava a sperare di svegliarsi e tornare ad essere Viktoria, perché non le piaceva affatto ciò che stava succedendo.

Camminava accompagnata da due guardie. Le voci ancora non riusciva a distinguerle bene, ma sentiva urla di disapprovazione, parole che la facevano vergognare ed arrossire.

Indossava di nuovo quella tunica bianca che le avevano messo in prigione: sapeva bene cosa stesse succedendo. I soldati non la tenevano perché non avrebbe potuto scappare da nessuna parte. Se lo avesse fatto, la morte sarebbe sopraggiunta molto più lentamente.

Sentì freddo al collo, e quando sollevò le mani per controllare, si accorse che queste erano legate e che la sua chioma bionda era sparita. Al suo posto, un caschetto ridicolo la fece sentire ancor più umiliata, anche se quella sarebbe dovuta essere l'ultima cosa a preoccuparla.

Subito, infatti, passò in secondo piano. Sentì la folla esplodere in urla più agguerrite, un boato di malcontento si sollevò verso il palco rialzato che intravedeva davanti a sé.

Fece per correre in quella direzione, ma una delle due guardie la fermò, trattenendola per una spalla.

“Non ve lo consiglio.” scosse la testa. Ma Anne capì che nonostante tutto quel soldato le portava ancora rispetto e lo stava dicendo soltanto per proteggerla.

“Voglio vedere.” disse caparbia, a testa alta.

I due uomini si scambiarono uno sguardo, poi la scortarono fino ai gradini che la separavano dalla morte. Lì, accanto ad un uomo con una maschera nera, vide Aramis.

Anche l'uomo biondo, quello che l'aveva fatta arrestare la prima volta, era lì. Osservava compiaciuto mentre altri quattro Moschettieri in fila porgevano l'ultimo saluto al suo amato. Accanto a loro vide anche Constance, ed il cuore le si strinse. Anne si guardò attorno, ma non riuscì a trovare il Re: avrebbe voluto chiedergli clemenza, in nome di tutti gli anni che avevano trascorso assieme, anni in qualche modo felici, nonostante i paletti imposti dalla società e dalla tradizione. Qualcosa la riportò indietro con la mente a quando erano più giovani e quel periodo in cui era riuscito ad amarlo. Era sicura che lui provasse ancora lo stesso nei suoi confronti, e si chiese come si potesse mandare a morte una persona che si ama.

“Aramis...” mormorò con un fil di voce. Il Moschettiere non poteva sentirla. Lo vide abbracciare i suoi compagni ed il suo capitano. Il più giovane di loro sembrava inconsolabile. Constance si stringeva al suo braccio, nascondendo il viso tra le pieghe della sua uniforme.

Quando Aramis arrivò a salutarlo, gli mise in mano qualcosa, un ciondolo che sia Anne che Viktoria conoscevano bene e verso il quale il biondo lanciò uno sguardo di fuoco.

Viktoria avrebbe voluto lanciargli un sorriso compiaciuto: sapeva bene che non sarebbe mai riuscito a mettere le mani su quel crocefisso perché, dopo tutti quegli anni, era arrivato nelle mani di sua nonna in ogni caso. Un'altra cosa le fu chiara: il giovane che sua nonna sognava probabilmente era quel Moschettiere. Questo significava che sua nonna... Doveva essere quella dama da compagnia che le era stata vicina fino alla fine. Constance. Adesso tutto era chiaro. Anche sua nonna e suo nonno si erano conosciuti in un'altra vita. Ma né Anne né Viktoria riuscivano a concentrarsi troppo su una sola cosa in quel momento. Era tutto troppo confuso, le urla, i pianti, l'assenza del Re.

Aramis si voltò verso di lei soltanto per un breve istante ed improvvisamente tutto sparì. Fu come se solo loro due importassero al mondo e la Regina smise di piangere. Annuì, come se le avesse appena mandato un messaggio telepatico, perché sapeva cosa avrebbe voluto dirle. Poi, quando distolse di nuovo lo sguardo da lei, la realtà la investì in pieno.

Con la folla in delirio, il ragazzo si inginocchio a testa bassa. L'attesa durò il tempo di fargli mormorare un'ultima preghiera.

Le sue labbra fecero appena in tempo a dire “Amen”.

E poi toccò a lei.  










Dedico questo capitolo alla mia cara amica che chiamerò per comodità Brioche <3 Grazie di supportarmi sempre e di leggere così velocemente e lasciarmi commenti tanto teneri!! La morte di Anne è tutta per te, che la odi profondamente XD 
Ne approfitto per ringraziare anche AramisSmile, altra commentatrice assidua! Grazie tesoro per avermi seguita fino alla fine! Ma restate con me, che manca ancora un capitolo! A presto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Viktoria trasalì, sudata e terrorizzata spalancò gli occhi, svegliando all'improvviso anche Ben che giaceva accanto a lei.

Cercò un suo contatto con le mani, graffiandogli involontariamente le spalle nell'agitazione e cercando di riprendere fiato a singhiozzi.

“Calmati. Calmati...” le sussurrò lui, prendendole il viso tra le mani.

“Ben, noi siamo... I nostri nei... E il crocefisso...” continuava a farfugliare, senza apparente senso logico. Ma il ragazzo sembrava capirla.

“Lo so.” le disse, tranquillamente. “Ma è tutto finito ora.”

Quando Viktoria comprese che anche lui doveva aver fatto lo stesso sogno, si tranquillizzò e lasciò che Ben la tirasse a sé, stringendola in un abbraccio confortevole.

“E' stato l'incubo più terribile che abbia mai fatto.” sussurrò, ancora un po' scossa.

“Siamo qui adesso. E' tutto finito.” ripeté, accarezzandole la testa.

“Viktoria?” una voce le fece gelare il sangue nelle vene. Non si era ancora del tutto calmata dopo il sogno che le aveva fatto rivivere la sua morte, che di nuovo si trovava in balia di qualcosa che quasi certamente l'avrebbe di nuovo messa in un mare di guai. L'uomo che aveva appena parlato li fece saltare nel letto. Si tirarono entrambi su a sedere e videro una figura possente stanziarsi in cima alle scale, appena sotto l'apertura della botola.

“Cosa...?” borbottò il signor Pohl, il socio di suo padre, mentre scendeva lentamente, incredulo.

“Signor Pohl!” esclamò la ragazza, cercando di alzarsi in piedi, ma il pudore prese il sopravvento: indossava soltanto l'intimo e dovette coprirsi con le lenzuola. Ben invece scattò in piedi, ancora a petto nudo, sollevando le mani in segno di resa.

“Cosa diavolo...?” l'uomo non sembrava capire cosa stesse succedendo e continuava ad alternare lo sguardo tra i due, fermandosi infine a squadrare da capo a piedi il giovane ebreo, che continuava ad arretrare con le mani alzate.

Viktoria non sapeva cosa dire. Si chiese dapprima come li avesse scoperti, ma si rispose da sola ricordandosi di quando la sera prima si era tolta gli stivali infangati per non lasciare impronte: evidentemente il soldato tedesco non aveva preso la stessa precauzione ed aveva involontariamente condotto quell'uomo da loro.

“Un... Ebreo?” domandò sprezzante, con aria quasi disgustata.

“Signor Pohl, posso spiegarle...” mormorò Viktoria con un fil di voce, alzandosi dal letto e trascinandosi dietro il lenzuolo che la copriva. Cercò di mettersi tra i due, per impedire a quell'uomo di fare del male a Ben.

Ma capì da subito che non sarebbe stato affatto facile convincerlo, come aveva fatto la sera precedente con il nazista.

Lo sguardo di quell'uomo era carico d'odio e disdegno, e sembrava persino che non la notasse: tutto ciò che riusciva a vedere era l'ebreo che il suo socio aveva nascosto nella loro fabbrica per chissà quanto tempo, mettendo a rischio la loro vita e la loro società senza nemmeno metterlo al corrente.

Ben scosse la testa, continuando a tenere le mani ben in vista.

“Non voglio fare del male a nessuno.” dichiarò, con aria innocente.

“Sono io che voglio fare del male a qualcuno!” sbraitò l'uomo, avanzando verso di lui minaccioso e quasi travolgendo Viktoria, che però riuscì a mettersi di nuovo in mezzo.

Le cadde il lenzuolo, ma a lei non importò più di tanto, non quando c'era di mezzo la vita del suo amato. Appoggiò una mano sulla spalla dell'uomo, cercando di spingerlo delicatamente indietro.

“La prego, la prego!” esclamò, ma il signor Pohl le scostò bruscamente il braccio.

“Non toccarmi! Sei una vergogna per la società e per la tua famiglia.” le disse, puntandole il dito contro e facendola improvvisamente vergognare di essere lì svestita di fronte ad una persona che conosceva appena. “Avrei dovuto capirlo che eri come tua madre. Peccatrice e sfacciata. E se tuo padre approva tutto questo... Allora anche lui merita il campo di prigionia!”

Viktoria restava lì in piedi, sentendosi inutile e ferita. Nessuno gliel'aveva mai messa giù in questa maniera, pensava che l'amore tra lei e Ben fosse la cosa più innocente del mondo e nemmeno per un istante aveva pensato di star commettendo un reato, né tanto meno peccato agli occhi di Dio.

“Per favore... Non lo mandi via.” disse a voce bassa, ma senza mai abbassare lo sguardo.

“Mandarlo via?” esclamò l'uomo furente. “Te lo dico io cosa succederà adesso. Chiamerò i tedeschi e porteranno via sia lui che te e tuo padre, e la fabbrica sarà salva!”

“No!” urlò la ragazza. “La prego, le daremo tutto quello che vuole!” scandì le parole per rendere chiaro il concetto, scuotendo il capo e pregandolo con ogni gesto del suo corpo e del suo volto.

“Vicky.” sentì la voce di Ben richiamarla alle sue spalle e quando si voltò con le lacrime agli occhi, lo vide puntare una pistola verso il signor Pohl.

Era così sotto shock che la cosa non la sorprese nemmeno più di tanto. Vide il cassetto aperto, e ricordò della mattina in cui stava per scoprirlo, ma poi Ben si era svegliato e le aveva impedito di guardarci dentro. Fece un passo indietro per liberargli l'area di tiro.

Il signor Pohl alzò le mani. Il faccione rosso dalla rabbia impallidì e nei suoi occhietti spalancati si leggeva il puro terrore.

Ben guardò Viktoria e lei annuì, impassibile. Ma il suo dito esitò sul grilletto, ed alla fine abbassò l'arma con un sospiro tremante.

Lui non era come lei, non sarebbe mai riuscito a compiere un omicidio per salvarsi la pelle. Ma dopotutto anche Viktoria fu sollevata, sebbene per altri motivi. Non sarebbero mai riusciti a sbarazzarsi del cadavere senza farsi vedere da nessuno.

“Se ne vada.” disse all'uomo che, ancora spaventato a morte, non aveva il coraggio di muoversi.

“No!” esclamò Viktoria. “Farà la spia!”

“Non lo farò. Non lo farò, lasciatemi andare e giuro che non lo dirò mai a nessuno.” pregò il signor Pohl. Mentre si agitava, il suo doppio mento tremava come un budino.

Ben si voltò verso Viktoria con aria malinconica e lei ricambiò con uno sguardo interrogativo. Le sorrise, ma i suoi occhi erano tristi. Le ricordava l'occhiata che Aramis aveva lanciato ad Anne poco prima di essere decapitato. Allora capì.

“Non farlo.” lo pregò, strabuzzando gli occhi.

“E' finita, Vicky.” sorrise lui, rassegnato. “Bisogna capire quando è finita.”

“Non dire così, Ben. Non farlo, ti scongiuro.” era incapace di muoversi, avrebbe voluto correre verso di lui, ma le sue gambe si erano cementificate e l'unico mezzo passo che riuscì a fare in sua direzione fu incredibilmente difficile. Si dimenticò completamente dell'altra persona nella stanza, e rivolse tutte le sue suppliche all'uomo che amava. “Possiamo nasconderci da un'altra parte. Possiamo... Perché devi essere tu? La tua vita vale molto di più di quella di quest'uomo!” sbottò d'un tratto, rabbiosa. Tutto ciò stava accadendo solo per colpa di un razzismo inutile, di una persona testarda ed egoista.

“Perché non siamo noi a scegliere chi deve andarsene.” rispose lui calmo, continuando a sorriderle dolcemente.”Non voglio più essere un problema per la tua famiglia. Questo era l'accordo con tuo padre. Altrimenti non gli avrei mai permesso di aiutarmi.”

Allora suo padre sapeva... E gli aveva permesso di tenere una pistola. Così non avrebbe potuto rilasciare nessuna dichiarazione, nemmeno sotto tortura, e fare il nome del signor Haas. In quel modo, forse, sarebbe riuscito a farla franca almeno lui.

“Ma pensa a me, Ben! Come puoi fare una cosa del genere e lasciarmi sola?”

Lui sorrise così tanto che Viktoria pensò che stesse quasi per scoppiare a ridere. Da una parte la infastidiva profondamente il fatto che fosse così sereno sapendo ciò che stava per accadere; dall'altra preferiva vederlo apparentemente rilassato piuttosto che in panico, com'era lei.

“Non l'hai capito, Vicky? Non è la fine di tutto.” sollevò la pistola lentamente, portandosela alla tempia. Viktoria sapeva che se si fosse mossa lui avrebbe sparato prima, quindi stette a guardare immobile, impotente, senza nemmeno potergli rubare l'ultimo bacio.

Le fece un sorriso commosso, ma senza lacrime.

“Ci vediamo nella prossima vita.”

E poi premette il grilletto.

Il suo corpo non era ancora caduto a terra, che Viktoria già aveva lanciato un urlo straziante e si era gettata su di lui. Vide la canottiera bianca diventare rossa, quando lo abbracciò. Il suo peso la costrinse a lasciarlo accasciare a terra per continuare a sorreggerlo e non lo lasciò andare nemmeno quando il signor Pohl corse via, spaventato e confuso.

Viktoria pianse tutte le sue lacrime. Infine si ritrovò a passare le dita tra i capelli del ragazzo, mormorando una ninna nanna che le cantava sempre sua madre.

Poi si alzò, completamente imbrattata di sangue e camminò lentamente verso il tavolo, accanto al letto dove, soltanto pochi minuti prima, avevano dormito assieme per l'ultima volta. Levò gli occhi alla finestrella dalla quale entravano i primi raggi di sole del mattino mentre stringeva il ciondolo tra le mani così forte da ferirsi. L'album nel cassetto aperto attirò la sua attenzione e lo sfogliò con un mezzo sorriso e gli occhi semi incantati. Passò in rassegna decine, forse centinaia, di bozze di disegni che la ritraevano. Partendo dal fondo, ne trovò molti che raffiguravano sua madre, ma la maggior parte erano comunque dedicati a lei. Più erano recenti, più erano precisi, finché si ritrovò catapultata nell'inaspettata fantasia infinita di Ben: vide il loro matrimonio, il loro bambino che pian piano cresceva, un amore che continuava pagina dopo pagina, disegno dopo disegno, fino alla loro vecchiaia assieme. Una coppia di anziani di spalle si teneva per mano di fronte alla torre Eiffel sull'ultima pagina dell'album.

Viktoria si soffermò su quello schizzo più che sugli altri. Lasciò il blocco da disegno sul tavolo, poi tornò verso Ben.

Sembrava così sereno, che improvvisamente sentì la paura scivolarle via. Baciò il crocefisso e glielo mise al collo. Nel farlo, le tornò in mente quando Anne aveva fatto lo stesso con Aramis. Quando tutto era iniziato. Sorrise.

Infine gli prese una mano e ne baciò il dorso, come lui aveva fatto tante volte. Al piano di sopra la voce del signor Pohl eccitata ed impaziente, dava indicazioni a quello che sembrava un bel gruppo di soldati che correvano verso l'ufficio di suo padre.

Viktoria sfilò la pistola dalle mani di Ben. Con calma la sollevò, puntandosela alla tempia mentre recitava una preghiera.

Le sue labbra fecero appena in tempo a dire “Amen”.  






FINE.





Grazie a tutti per avermi seguito, non dimenticatevi di recensire ;) Vorrei proprio sapere cosa ne pensate del finale XD So che alcuni (a caso, proprio) mi odieranno per ciò che ho fatto, ma doveva andare così. I'm sorry. 
Ne approfitto per pubblicizzare l'altra fanfiction che ho scritto sui Moschettieri, "Scars"! Fans di Athos, so che apprezzerete! :D 
Un bacione e alla prossima (è in lavorazione!)

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo bonus - Iris ***


Iris sobbalzò nel letto.

Con i grandi occhi chiari sbarrati si guardò attorno, ma nemmeno quando si rese conto di essere ancora nella propria stanza riuscì a tranquillizzarsi. Si passò le mani tra i biondi capelli, spargendo tra di essi con le dita il sudore della fronte madida, mentre boccheggiava e continuava a far saltare lo sguardo da una parte all'altra della propria camera da letto, alla ricerca di un contatto con la realtà.

Non aveva mai fatto un incubo tanto realistico. E soprattutto non poteva credere che quella storia fosse davvero una spiegazione ai dubbi che la affliggevano da quando era piccola.

Dovette restare nel letto ancora per alcuni minuti, prima di potersi riprendere abbastanza da alzarsi in piedi. Il clima di Barcellona era particolarmente crudele d'estate, ma l'aria condizionata la aiutava a dormire sonni tranquilli solitamente. Per questo le sembrò stranissimo avere la camicia da notte fradicia di sudore per quanto si era agitata durante il sogno.

Aprì il cassetto del comodino e rimase ferma per un istante a fissare l'oggetto contenuto in esso, quasi come se non avesse il coraggio di prenderlo in mano. La aveva sempre affascinata, ma allo stesso tempo lo temeva. Sapeva che dietro a quel ciondolo argentato appeso alla collana che le ricadeva tra le dita, c'era una lunga storia. Sua madre le aveva sempre detto che veniva da Vienna, ma quando glielo aveva regalato le aveva detto che le apparteneva e a lei era sempre sembrato molto strano il modo in cui le aveva rivolto quelle parole.

Era come se avesse lasciato inteso che fosse stato suo da sempre, ma lei non lo aveva mai visto prima che sua madre glielo donasse. Quando lo aveva preso tra le mani la prima volta le era sembrato un oggetto troppo vistoso per i suoi gusti, ma capì subito che portava con sé molta storia. Era esattamente come nel suo sogno.

Quella ragazza, Viktoria, e sua nonna, e il crocifisso, quell'uomo e i loro ricordi, la Regina, il soldato... E infine lo sparo.

Iris si portò istintivamente una mano alla tempia, esattamente nel punto dove spiccava una piccola voglia marroncina sulla sua pelle chiara. Quando l'emicrania la colpiva all'improvviso, stranamente le fitte partivano sempre da lì. Si chiese come avesse potuto il suo inconscio elaborare una storia tanto intricata per spiegare i suoi mal di testa e la provenienza del crocifisso.

Lo lasciò ricadere nel cassetto e lo richiuse. Chiuse gli occhi e trasse un lungo sospiro, cercando di calmarsi. Ancora le tremavano le mani dall'agitazione. Poteva davvero non essere un sogno ma un ricordo...? Il pensiero la terrorizzava. C'era un modo per scoprirlo: ricordando i nomi, una semplice ricerca su internet avrebbe potuto levarle ogni dubbio.

Ma in quel momento non poteva permetterselo. La sveglia del suo cellulare stava suonando da qualche minuto ormai, anche se Iris non ci aveva fatto caso più di tanto, immersa nei propri pensieri. Quando lo realizzò, andò a spegnerla e si diresse risoluta verso il bagno.

L'acqua della doccia non scorse per molto, perché aveva i minuti contati: non poteva permettersi di tardare. Con il sudore lavò via anche qualsiasi pensiero tormentoso riguardo lo stranissimo sogno.

Il suo cellulare suonò per una decina di volte mentre era sotto la doccia; sullo schermo lampeggiava il nome di “Celia”, che dopo tutto quegli squilli riagganciò rassegnata, facendo comparire una chiamata persa. Iris infilò i piedi nelle infradito e si asciugò, poi tornò in camera da letto ed indossò un lungo vestito elegante, blu come la notte, che le calzava a pennello e che la sera prima aveva appeso fuori dall'armadio. Il tessuto velato svolazzava ad ogni suo movimento, facendola sentire una principessa. Assieme ad esso aveva preparato anche un paio di scarpe dello stesso colore, con il tacco alto.

Ci mise un po' di tempo a truccarsi e a sistemarsi i capelli, ma alla fine riuscì a tenerli su con delle forcine e a decorarli con degli eleganti spilloni, che facevano risaltare delle perle tra i suoi capelli e che si abbinavano perfettamente agli orecchini e alla collana.

Anche la pochette era già pronta. Afferrò il telefono e si guardò attorno per controllare di non aver dimenticato nulla e il suo sguardo si immobilizzò sul comodino. Sbatté le lunghe ciglia parecchie volte, prima di dare un'occhiata all'orario sul cellulare che teneva in mano e leggere l'ora e la chiamata persa di sua sorella. Dopo un altro momento di indecisione, corse ad aprire il cassetto del comodino e prese il crocifisso, riponendolo poi nella borsetta.

Non sapeva perché lo avesse fatto, ma si sentì molto meglio. Mentre usciva di casa, richiamò sua sorella al telefono. Doveva trattarsi di qualcosa di importante, considerando che si sarebbero viste entro pochi minuti. Eppure partì la segreteria telefonica.

Celia era l'unica persona che conosceva capace di passare al telefono anche i momenti subito precedenti al suo matrimonio. Sperava solo che non si fosse risentita del fatto che non fosse stata lì con lei ad aiutarla coi preparativi, ma la sera prima aveva un po' esagerato nel far baldoria con le amiche e non ce l'avrebbe mai fatta a svegliarsi per raggiungerla più presto.

Iris non era di certo l'esempio migliore di empatia, nonostante volesse un bene dell'anima a sua sorella. Ma quando si parlava di certe cose così femminili, non riusciva a provare un minimo di comprensione per le ragazze che impazzivano all'idea di passare la mattinata a starnazzare attorno alla sposa, aiutandola a truccarsi e pettinarsi. A malapena sapeva farlo su se stessa: sarebbe stata un pesce fuor d'acqua in quel contesto, e si sarebbe sentita completamente inutile.

Uscì sulla strada ed iniziò a cercare con lo sguardo la macchina di suo padre, ma non riuscì a trovarla. Eppure l'orario prefissato era già passato da alcuni minuti, e lui era di solito puntualissimo, al contrario suo.

Riabbassò lo sguardo sul cellulare e fece per chiamarlo, ma il suono di una portiera che si apriva poco lontano da dove si trovava lei attirò la sua attenzione.

Non poteva crederci.

Da quella macchina nera parcheggiata ad alcuni metri dal suo appartamento scese il ragazzo più affascinante che avesse mai visto. I capelli lunghi e mossi, gli occhi penetranti, i baffi e la barba incolti gli donavano un'aria selvaggia, ma da subito Iris riuscì a leggere la sua anima come un libro aperto. Perché era lui.

Era Ben, era Aramis, era l'uomo del suo sogno ed era lì, nel suo completo elegante. Ed era perfetto.

Le sorrise, agitando una mano, ma lei non riusciva a muovere un muscolo, mentre ancora lo fissava inebetita. Stava davvero salutando lei? O anche quello era un sogno?

La vibrazione del telefono tra le sue mani la fece trasalire, e senza nemmeno guardare chi la stesse chiamando, rispose con voce fioca, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal ragazzo che stava scendendo dall'auto e camminando verso di lei con quell'aria spensierata ed il sorriso sornione.

“Pronto?”

“Iris, ti ho cercata prima!” esclamò la voce elettrizzata di sua sorella. “Papà non può venire a prenderti, il fiorista ha fatto un casino ed è dovuto andare a sistemarlo, ma non preoccuparti, sta arrivando un amico di Nicolas!”

Nel tempo in cui Celia finì la frase, Iris si ritrovò ormai faccia a faccia con quel personaggio affascinante, di cui le era appena stata svelata l'identità.

“Sei tu Iris, immagino.” quando le rivolse la parola, un brivido le corse lungo tutta la schiena e le raggiunse la nuca. La voce di sua sorella dall'altra parte del telefono le sembrava un cinguettio lontano, e non riusciva più a capire cosa stesse blaterando. Annuì con sguardo ebete, facendo scivolare il cellulare lungo la guancia ed abbassandolo. Doveva essere rossissima in viso, perché si sentiva le guance in fiamme.

“Sono Manuel” il ragazzo allungò una mano e Iris sollevò la propria debolmente, per andare a stringergliela, ma invece di una stretta amichevole, lui se la portò alle labbra, chinando leggermente il capo, e le baciò il dorso in un gesto perfettamente naturale.

Aveva sognato anche quello. La sensazione che provò in quel momento le parve così famigliare e scontata che nemmeno per un istante pensò che fosse un gesto davvero inusuale per la situazione.

“Allora... Se sei pronta possiamo andare.” tornò a sorriderle un po' imbarazzato. Sembrava più sorpreso lui di averle davvero fatto il baciamano, che lei di averlo ricevuto. Si vedeva che non era qualcosa che faceva abitualmente con le ragazze, e mentre Iris lo seguiva verso la sua macchina, notò che un certo disagio persisteva nelle azioni di Manuel, che si passò la mano tra i capelli e mai si voltò a guardarla per controllare che lo stesse effettivamente seguendo.

Non sapeva cosa dire. Avrebbe voluto raccontargli tutto, fargli milioni di domande. Anche lui l'aveva sognata? Perché le aveva baciato la mano? Si ricordava di Viktoria, o di Anne?

Iniziò a guidare verso la chiesa, ma Iris lo vide molto impacciato ed imbarazzato, tanto che fu lei a dover rompere il ghiaccio. Si schiarì la voce, prima di azzardare una domanda casuale.

“Allora.. Come conosci Nicolas?”

“Io? Ah, oh, beh... Eravamo a scuola assieme. All'università, cioè.” farfugliò.

Mentre parlava, la ragazza ebbe finalmente la scusa di poterlo guardare ancora una volta in viso, per scrutarne meglio i tratti. Voleva illudersi che fosse soltanto suggestione, ma non era così: era identico ai personaggi del suo sogno.

D'un tratto, l'aria che entrava dal finestrino gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte. Rivelò un'altra verità sconcertante: sulla tempia destra aveva una voglia marroncina praticamente identica a quella di Iris.

Manuel la osservò con la coda dell'occhio e quando si accorse dell'insistenza dello sguardo della ragazza, arrossì violentemente dal collo in su. Tossicchiò, sistemandosi la cravatta come se gli mancasse aria, ma continuava a sentire gli occhi di Iris su di sé.

“Ehm... Ho detto... Ho fatto qualcosa...?” fece per domandare confusamente, prima che la ragazza lo interrompesse con un'esclamazione di dolore.

“Ahi!” e istintivamente si portò una mano alla tempia, strizzando forte gli occhi. La sua solita emicrania le aveva fatto pulsare un punto molto vicino alla voglia, costringendola a massaggiarsela come faceva abitualmente.

“S-Stai bene?” domandò subito lui, preoccupato.

“Ah... Sì... Cioè, no...” mormorò la ragazza, abbassando il capo e coprendosi gli occhi con le mani per restare più al buio possibile.

“Ora accosto.” annunciò Manuel. Iris avrebbe voluto dirgli che non era necessario, ma il mal di testa le impedì di proferire parola. Sentì la macchina rallentare e poi fermarsi del tutto, e poi udì la cintura di sicurezza di lui che veniva slacciata, e percepì il suo sguardo anche se aveva gli occhi chiusi.

“Cosa posso fare?” le chiese. Ma in quel momento Iris sentì che il dolore andava alleviandosi, e poco dopo fu in grado di tornare a guardare il mondo.

Si voltò verso di lui con gli occhi lucidi e si guardarono per interminabili secondi. Manuel sembrava allo stesso tempo imbarazzato ed incantato da quel momento, ma fu l'impaccio a vincere e a fargli distogliere l'attenzione dal viso di lei. Attenzione che Iris cercò di catturare di nuovo.

Con un gesto un po' incerto, andò a scostargli alcuni capelli e a rivelare di nuovo quella voglia, nella stessa identica posizione in cui si trovava la sua. Era come il neo di Ben e Viktoria.

“Scommetto che... Soffri anche tu di emicranie.” dichiarò. Non ne era del tutto certa, ma una volta pronunciata la domanda, era sicura della risposta. Difatti glielo lesse in volto senza bisogno che lui replicasse.

“Come...?” fece lui, sorpreso. La ragazza si scostò a sua volta una ciocca di capelli che aveva lasciato libera di ricaderle sul viso e gli mostrò la sua piccola imperfezione. Lui la guardò stupefatto, come se avesse appena visto un alieno.

Allora ad Iris venne in mente una cosa che non aveva considerato fino a quel momento. Era una cosa che aveva dato a Viktoria la soluzione definitiva a tutte le sue domande. E la dolce, coraggiosa Viktoria viveva ancora dentro di lei. La sentiva chiaramente, così come sentiva Anne, ed entrambe sembravano gridarle di farlo, di non lasciarsi sfuggire l'occasione per nulla al mondo... Entrambe quelle donne che non aveva mai conosciuto ma che erano parte di lei le stavano dicendo che aveva di fronte la persona che aveva aspettato per tutta la vita, nonostante non sapesse assolutamente nulla di lui.

Le mani frugarono impazientemente nella pochette, finché non lo trovò. Erano state loro, erano state Anne e Viktoria quella mattina a spingerla a prenderlo, e Iris non lo aveva capito finché non sentì nuovamente quell'impulso di fare qualcosa di avventato. Persino la coscienziosa Anne la spingeva a farlo, a seguire il proprio istinto.

Estrasse il crocifisso e riportò lo sguardo su Manuel, che lo stava osservando con aria stranita. Lo vide sollevare una mano, e non appena lo sfiorò, Iris ebbe un dejà-vu.
La sua reazione fu identica a quella di Ben. Si portò una mano alla tempia, nel punto in cui aveva la voglia, nel punto in cui... Ben si era sparato. Anche lui chiuse gli occhi mugolando per il dolore, ma lei non si preoccupò per nulla. Era stupefatta: stava accadendo esattamente tutto ciò che aveva previsto. Rimise il crocefisso nella borsa ed assistette alla scena; l'emicrania di Manuel andò calmandosi, o almeno così intuì dal suo respiro che da affannoso tornò regolare.

Finalmente scostò la mano dal viso e si voltò di nuovo verso di lei.

Le lacrime scesero copiose dai suoi occhi, sbavandole completamente il trucco e rigandole le guance di nero, ma non le importava assolutamente nulla. Era lui. Lo sentì dentro di sé, come un abbraccio caloroso che le gonfiò il cuore di una gioia estasiante.

Lui le sorrise con quell'aria complice che le ricordò i momenti felici che avevano passato assieme, la vita al villaggio, il loro bambino, la prima volta che si erano ritrovati, le notti al nascondiglio, i baci, le carezze...

Manuel sollevò una mano lentamente e le accarezzò il viso, con una sicurezza che di certo non apparteneva al suo carattere, per quanto poco ne sapesse lei. Iris si accoccolò in quel gesto, inclinando il capo e godendosi il suo tocco. Poi la sua mano passò dietro alla nuca. Per un istante si guardarono intensamente; negli occhi di entrambi ardeva un desiderio che non poteva attendere un secondo di più. Manuel la tirò a sé con dolcezza e determinazione, e la baciò con passione.

Le loro anime si intrecciarono ancora una volta, finalmente libere di amarsi, e Iris si sentì leggerissima, mentre dei lampi improvvisi le mostrarono prima Anne e poi Viktoria. I loro volti erano praticamente uguali al suo, ed entrambe le sorridevano tra le lacrime.

Iris rise, appoggiando la fronte sulla spalla di Manuel, che la strinse in un forte abbraccio.

Rise sempre di più tra le lacrime che sgorgavano incessanti, bagnandogli inevitabilmente la giacca.

Lui le posò un bacio sui capelli e a sua volta sorrise.

“Sei tu...” singhiozzò Iris con voce roca, aggrappandosi alla sua giacca, come se avesse paura che potesse scappare.

“Te lo avevo detto... Che ti avrei ritrovata.”  

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3061951