Osir gonplei nou ste odon

di Isbazia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Missile ***
Capitolo 2: *** Woods ***
Capitolo 3: *** Feud ***



Capitolo 1
*** Missile ***



Un mese dopo.

Lexa era distesa lì, ancora priva di conoscenze, con un’evidente espressione sofferente sul volto. Erano passati due giorni dall’attacco alla Capitale, due giorni dall’esplosione di quel missile sull’accampamento dei terrestri. Due giorni che Lexa stava distesa su quella branda, all’ospedale dell’Arca, priva di conoscenze.
Clarke andava a visitarla ogni volta che poteva, sperando sempre in un qualsiasi segno di miglioramento. Speranze che svanivano non appena incrociava lo sguardo mesto di sua madre fuori dalla porta della stanza. 
Lexa stava lì, con l’ago della flebo attaccato al braccio, il bendaggio ormai sporco sul collo, e la cicatrice sulla fronte, ricucita nel miglior modo possibile.

Clarke si avvicinò alla branda, prese la sedia lì accanto e si sedette con molta cautela, quasi avesse paura di fare troppo rumore. In realtà era proprio quello che sperava, magari così si sarebbe svegliata, dopo due interi giorni. Dentro di lei le emozioni erano contrastanti, si davano battaglia ogni volta che i suoi occhi studiavano le condizioni di Lexa. Era pervasa dalla preoccupazione e al tempo stesso dalla rabbia. Nonostante non le mancasse la speranza, non riusciva a sopprimere il timore che potesse accadere il peggio da un momento all’altro, ed era proprio lì che la rabbia si faceva spazio dentro di lei.

Quel missile era esploso proprio accanto alla tenda del Comandante. Lexa era rimasta viva per miracolo. Il missile  era stato preparato settimane prima per attaccare l’Arca, a quanto pare. Il Cancelliere era riuscito ad organizzare diversi incontri con il presidente di Mount Weather per evitare di ricorrere ad una soluzione così drastica. Erano riusciti a stipulare un accordo pacifico: l’Arca non sarebbe stata toccata a patto che gli abitanti della montagna potessero essere liberi di uscire, niente più prigionieri, niente più esecuzioni. L’accordo però richiedeva la fine di qualsiasi rapporto ancora esistente con i terrestri, in modo che ogni clan dovesse pensare solo al suo popolo, senza il rischio di strategie di contrattacco.

Clarke aveva scoperto dell’accordo il giorno stesso del bombardamento. Ad un mese dalla grande battaglia  la situazione governativa nell’Arca si era stabilizzata, e Clarke non godeva di alcun tipo di privilegio, riusciva solo a strappare qualche informazione ad Abby quando lavoravano insieme.                                                         
Il giorno del bombardamento alla Capitale Clarke era in perlustrazione con Octavia e Lincoln sul lato est della foresta, a poco più di un chilometro di distanza dall’accampamento del Popolo degli Alberi. L’esplosione era stata talmente forte che le ceneri erano arrivate fino a loro, oltre all’enorme boato. Erano stati proprio loro tre i primi ad arrivare all’accampamento e ad assistere ad una delle scene più raccapriccianti. Macerie ovunque. Corpi ovunque. Era stata proprio Clarke a trovare Lexa, quasi totalmente sepolta da un cumulo di legna e pietre, ancora viva.

Ora Lexa combatteva contro la morte su quella branda, da due giorni. La rabbia per non aver saputo niente dell’accordo, per non aver potuto fare nulla per evitare quell’attacco, per non aver avuto il coraggio di affrontare Lexa dopo l’ultimo incontro nella foresta. Quella rabbia la divorava, insieme alla paura di poter perdere una delle persone a cui teneva di più.
Gli occhi di Clarke si spostavano dall’enorme cicatrice che Lexa aveva sulla fronte, proprio sopra l’occhio sinistro, al livido ormai viola sul mento, al bendaggio sporco sul collo. Avrebbe dovuto cambiarlo, per l’ennesima volta. In quel momento però non aveva nemmeno la forza di stare in piedi, riusciva solo a tenere a bada le emozioni per evitare di esplodere un’altra volta, come dopo aver scoperto dell’accordo.
Chiuse gli occhi e sospirò. Poggiò i gomiti sul bordo della branda, all’altezza del braccio di Lexa, e abbandonò il volto tra le mani.
“Svegliati..” sussurrò tristemente. “Ci stai mettendo troppo”.
Il silenzio era diventato assordante. L’unico rumore nella stanza era il ronzio elettrico dei macchinari per la conservazione delle medicine. Fastidioso, ma allo stesso tempo quasi rilassante.
“Ci…”
Un suono quasi impercettibile, una sillaba soffocata. Clarke alzò di scatto la testa con lo sguardo dritto verso il volto di Lexa.  Il cuore le martellava impazzito nel petto. Le labbra di Lexa erano leggermente schiuse, ma immobili. Eppure l’aveva sentito, aveva sentito qualcosa, Lexa aveva parlato, ne era sicura. Non c’era nessun altro in quella stanza, e di certo non se l’era immaginato.
I suoi occhi continuavano a cercare un qualsiasi segno di movimento nelle labbra di Lexa, con il cuore che non smetteva di battere all’impazzata.
“…ci vuole...il tempo necessario”.
Aveva parlato. Lo aveva fatto.                                                                                                                                    
Clarke scattò in piedi e le strinse il braccio in preda ad un attimo di eccitazione. Lexa abbozzò una smorfia di dolore e Clarke mollò subito la presa, dispiaciuta.                                                                                                     
“Sei sveglia…” riuscì a dire con un fil di voce, ancora fortemente sorpresa.
Lexa aprì lentamente gli occhi e trovò subito lo sguardo emozionato di Clarke su di lei.

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Capitolo 2
*** Woods ***


Il coltello volò talmente veloce che il mietitore non ebbe neanche il tempo di girarsi al suono della voce della  Comandante. Un colpo netto, dritto in gola. Clarke rimase seduta per terra immobile, guardando inorridita il corpo del mietitore che si accasciava morente ai suoi piedi. Alzò velocemente lo sguardo per incontrare quello di Lexa , che dall’alto del sentiero sovrastante la guardava con espressione preoccupata. Clarke si alzò in piedi, tenendosi il braccio destro, visibilmente dolorante. Lexa la raggiunse immediatamente. Con una mossa svelta estrasse il coltello dal collo del mietitore, lo pulì noncurante su un drappo della sua veste e lo ripose nella custodia agganciata alla cinta.

“Stai bene?” chiese subito, notando la posizione in cui Clarke teneva in braccio. I loro occhi si incontrarono, e Clarke annuì con una leggera smorfia.
“Credo sia solo un po’ ammaccato, nulla di grave” sospirò. Il battito cardiaco cominciava a tornare regolare, il respiro rallentava e la mente cominciava a riprendere lucidità.

Quel mietitore era spuntato all’improvviso, da solo. I mietitori non viaggiavano mai per la foresta da soli. Quella mattina Clarke aveva deciso di portare Lexa fuori da Camp Jaha, dopo aver passato gli ultimi due giorni di convalescenza sotto lo sguardo ostile degli abitanti dell’arca. Lexa sarebbe dovuta stare ancora a riposo, ma lei stessa aveva più volte espresso il volere di uscire ed allontanarsi da possibili problemi di convivenza forzata, nonostante i fermi divieti sia di Abby che di Clarke stessa. Quella mattina però era successa una cosa che aveva seriamente rischiato di scatenare una guerra interna al campo. Qualcuno era riuscito a mettere mano sul cibo destinato a Lexa, aggiungendo del coji, un’erba secca potenzialmente pericolosa, se ingerita in grosse quantità. Fortunatamente Clarke ne aveva sentito subito l’odore, prima ancora di portare il piatto nella sua tenda, e lo aveva direttamente buttato via, senza farne parola con nessuno, specialmente con Lexa. La foresta era il luogo migliore per cambiare aria, e ormai la convalescenza era quasi terminata, così Clarke si era decisa a portare Lexa con sé nella sua perlustrazione, in cerca di piante medicinali utili.

Si erano separate solo per cinque minuti. Clarke aveva deviato dal sentiero per scendere più vicina alla riva del ruscello, mentre Lexa era rimasta lì ad aspettarla. Il mietitore era sbucato da dietro la parete rocciosa che costeggiava il ruscello, ed era saltato dritto addosso a Clarke, che si era appena accovacciata per strappare delle radici e non aveva fatto in tempo a tirarsi su per mettersi in difensiva. Il peso del mietitore le aveva fatto sbattere violentemente il braccio contro il terreno pietroso su cui si trovavano, facendole scappare un grido di dolore. Fu lì che Lexa si precipitò in suo aiuto.

“Avresti potuto colpire me” disse Clarke in tono di sfida.
“Sai bene che non sarebbe successo” rispose prontamente Lexa.

Il sole cominciava a calare dietro le montagne che circondavano la foresta. Ormai erano ad almeno un’ora di cammino da Camp Jaha. Entrambe avevano bisogno di riposare; Lexa risentiva ancora della convalescenza, con fastidiosi mal di testa e sporadici cali di pressione; Clarke lottava contro il dolore al braccio, precariamente fasciato con un pezzo di stoffa della veste di Lexa. Avevano deciso di passare la notte nella foresta, in un piccolo spazio riparato da una parete rocciosa, all’interno di una fitta linea di cespugli di rovi. Sembrava abbastanza sicuro come riparo.
Il fuoco scoppiettava in un silenzio pesante. Dovevano essere le nove ormai. Lexa era seduta di fronte al fuoco, appoggiata alla parete dietro di lei, e osservava assorta Clarke, al di là delle fiamme, intenta a spostare un ceppo di legno per sistemarsi comodamente davanti al calore del fuoco.

“A che stai pensando?” chiese Clarke, notando lo sguardo attento di Lexa su di lei.
“Cerco di capirti” rispose lei, senza distogliere lo sguardo.
Clarke provò un leggero imbarazzo. Avvertiva tutta l’intensità di quello sguardo. Aggrottò la fronte e inclinò leggermente la testa. “Che vuoi dire?”

Lexa sospirò, poggiò la testa alla parete e chiuse gli occhi. Una fitta di dolore le attraversò la fronte, propagandosi per tutto il cranio. Trenta interminabili secondi di dolore la costrinsero in quella posizione, impedendole di proferire parola.
Clarke scattò in piedi e la raggiunse, inginocchiandosi accanto a lei, preoccupata.
“Avrei dovuto portare più medicine” disse agitata, cercando di interpretare l’espressione concentrata di Lexa.
“Sto bene adesso. Non preoccuparti, Clarke”. Riaprì gli occhi e posò lo sguardo sui movimenti fluenti delle fiamme che li lanciavano verso l’alto e si dissolvevano velocemente.
Clarke si sedette e anche lei si lasciò catturare dal fascino di quella danza. Il silenzio che era calato su di loro venne interrotto dalla voce sottile di Lexa. “Cerco di capire perché mi hai salvata”.
Clarke si voltò verso di lei, cercando il suo sguardo, ma Lexa teneva gli occhi fissi sul fuoco, impassibile. I ricordi di quel giorno cominciarono a riaffiorare nella mente di Clarke, e un vuoto la pervase.
“ Non ti avrei mai lasciata lì. Non dopo aver visto che eri ancora viva”.
Ora aveva spostato lo sguardo verso il basso. Il braccio sinistro appoggiato sul ginocchio e un rametto in mano che batteva ritmicamente per terra. Lexa distolse lo sguardo dal fuoco e posò gli occhi prima sul volto di Clarke e poi su quel rametto.

“Come mi hai trovata?” sospirò d’un tratto.
Clarke si bloccò per un attimo. 
Silenzio.
Poi cominciò lentamente “C’erano fumo e macerie ovunque…”.
Lexa ascoltava attenta, mentre Clarke si prendeva qualche secondo tra una frase e l’altra, tentando di scacciare le immagini di quell’orrore dalla mente.
“Il tuo tatuaggio” disse dopo almeno un minuto di silenzio.
Lexa alzò il capo e incontrò gli occhi di Clarke su di lei. “Ho visto il tuo braccio tra le macerie. Ho riconosciuto il tatuaggio”.
La voce di Clarke si era fatta sempre più debole, i suoi occhi cominciavano a riempirsi di lacrime. Il ricordo vivido di quell’immagine l’aveva investita in pieno. Lexa venne colta di sorpresa, non si aspettava quella reazione così sentita. Forse Clarke non aveva mai provato tutto quel rancore nei suoi confronti, come quello che lei provava per se stessa, soprattutto dopo Mount Weather. Forse quello che provava Clarke, qualunque cosa fosse, era riuscito ad andare oltre tutto quello che era successo. Forse c’era ancora qualche speranza per costruire un solido rapporto con lei.

La luce delle fiamme si rifletteva pienamente negli occhi umidi di Clarke, che, trattenendo le lacrime, continuava a guardare una Lexa visibilmente spiazzata. Il silenzio aveva preso il sopravvento. Nonostante lo scoppiettare del legno bruciato, entrambe avevano eliminato qualsiasi tipo di rumore attorno a loro, e continuavano a guardarsi negli occhi con un’intensità talmente forte da diventare ipnotica. L’una sapeva cosa provava l’altra, ed entrambe stavano zitte, sapevano che parlare era superfluo, quello scambio di sguardi diceva già tutto. Era sempre stato così tra loro. Sin dal primo giorno era bastato uno sguardo per leggersi nell’anima, ed era stato questo ad alimentare il loro rapporto particolare giorno dopo giorno. Nessuno era mai riuscito a capire profondamente il vero carattere di Clarke come c’era riuscita Lexa, e viceversa, nessuno era mai riuscito ad abbattere le barriere che Lexa aveva costruito attorno al suo cuore come c’era riuscita Clarke. Due persone paradossalmente tanto diverse quanto simili. Negli occhi di Clarke si leggeva il dolore di quei ricordi, la difficoltà di elaborare quella tragedia, la paura di un pericolo costante. Pericolo che continuava a inseguire le persone a cui teneva di più. Lexa lo aveva capito e quasi si pentì di averle fatto quella domanda.

Ad interrompere il contatto visivo fu Clarke, che spostò rapidamente lo sguardo sulle labbra di Lexa e improvvisamente si sporse verso di lei. Fu un movimento lento ma deciso. Le loro labbra si toccarono dolcemente, entrambe chiusero gli occhi e si lasciarono trasportare dal momento. Stavolta era Clarke a guidare la situazione. Le sue labbra continuavano a cercare quelle di Lexa che, colta di sorpresa, sentiva di risultare leggermente impreparata. Clarke lasciò cadere il rametto e allungò la mano verso il volto di Lexa, avvicinandolo al suo. Fu un bacio lento, molto dolce, accompagnato dalle lacrime di Clarke, che ora scorrevano libere.

Quando le loro labbra si separarono, i loro occhi si cercarono immediatamente.
Silenzio.

“Percepisco del dubbio nei tuoi occhi” commentò Lexa d’un tratto.
Clarke si prese qualche secondo prima di rispondere. “Devo ammettere che tutto questo è nuovo per me. Un intero mondo da scoprire”. La sua voce era tranquilla. Spostò nuovamente lo sguardo verso il fuoco e sospirò. Lexa tentò di interpretare al meglio quella risposta. Poteva voler dire tutto, ma anche niente. Ma forse era meglio non soffermarsi troppo su quelle parole, non in quel momento.
“Abbi fiducia, Clarke” rispose con un sospiro “Andrà tutto bene. Fidati di me, almeno per stanotte”.
Quelle parole scatenarono qualcosa di strano dentro Clarke, un misto tra agitazione, ma anche conforto. Non immaginava che Lexa potesse evitare l’argomento in quel modo, ma le era grata. In quel preciso momento sarebbe stato distruttivo affrontare una discussione di quello spessore, e Lexa lo aveva capito subito. Ormai sapeva come comportarsi con lei, sapeva come agire e in che modo, cosa evitare e quando farlo.
Ora anche lei guardava il fuoco, con sguardo fisso sulle fiamme ed espressione stanca. Non passò neanche un minuto e Clarke appoggiò delicatamente il capo sulla spalla di Lexa, abbandonandosi alla stanchezza con gli occhi chiusi. Quelle parole la facevano sentire tranquilla, sapeva che stavolta Lexa avrebbe mantenuto la parola, sapeva di potersi affidare a lei, almeno per quella notte.

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Capitolo 3
*** Feud ***


“La tua gente mi odia, Clarke. Stanno facendo a gara per uccidermi!” sbottò Lexa in preda all’agitazione, guardando Clarke dritta negli occhi. Il cuore le batteva all’impazzata.
Dentro la tenda l’aria si era fatta elettrica, si percepiva la tensione di tutti i presenti.

Erano passati pochi giorni dalla notte nella foresta, e la situazione a Camp Jaha era peggiorata notevolmente. Secondo delle voci, si erano venute a formare delle piccole fazioni che in incognito organizzavano diversivi per sabotare la presenza Lexa tra la gente dell’Arca. Clarke aveva sempre percepito un certo livello di astio da parte del suo popolo, e, dopo il recente tentato avvelenamento, aveva cominciato a pensare seriamente che dietro quel gesto folle ci fosse qualcosa di più. La conferma gli era arrivata da Raven che, avendo avuto contatti con la maggior parte dei 44, era riuscita ad avere informazioni attendibili sull’effettiva esistenza di questi gruppi organizzati. Clarke aveva voluto evitare di portare la cosa all’attenzione dei capi, tra cui sua madre, ma le cose andavano sempre peggio, soprattutto ora che Lexa era stata aggredita fisicamente.

“Ascoltami, non lascerò che questa situazione vada avanti” disse Clarke con tono deciso. La sua espressione era dura, quasi quanto quella di Lexa.
“Clarke, la cosa ci sta sfuggendo di mano. Se questi idioti arrivano a corrompere i piani alti, non potremo più fare molto” intervenne Octavia, facendo notare la gravità della situazione. Lexa ora spostava lo sguardo da Clarke ad Octavia, in attesa che qualcuno prendesse di nuovo la parola.
“Beh, scusate la franchezza, ma non possiamo dargli torto”. Raven avanzò accanto a Clarke e lanciò un’occhiata di sfida a Lexa. 
Tutti si girarono a guardarla con espressione interrogativa.
“La sua simpatica scelta di lasciarci morire a Mounth Weather ha segnato molte persone. Vogliono solo vendetta” continuò lei tranquillamente.
Lexa cambiò improvvisamente espressione. Era stata colpita in pieno da quelle parole. Subito il senso di colpa riaffiorò dentro di lei. Quel senso di colpa che fino a quel momento era stato placato, grazie soprattutto a Clarke, ora le tornava a bruciare dentro. Strinse le labbra e abbassò lo sguardo.
“La vendetta non è una soluzione. Noi non agiamo in questo modo. Lexa è sotto la mia protezione, nessuno può discutere le mie decisioni”. 
Clarke era di una serietà particolarmente convincente. La sua determinazione traspariva dallo sguardo intenso che aveva rivolto a Raven.

La tensione continuava ad aumentare. Raven ora aveva indietreggiato, appoggiandosi al tavolo dietro di lei, incrociando le braccia. Octavia spostava lo sguardo da Clarke a Lexa, con evidente agitazione. Clarke si era avvicinata a Lexa. Con tocco leggero fece scorrere le dita sul taglio che aveva sulla fronte, studiandolo con attenzione. Lexa era visivamente a disagio, non si era ancora abituata a lasciarsi curare da qualcun altro, ma sapeva bene che con Clarke non c’era discussione, l’avrebbe fatto comunque.
“Non è molto profondo, non servono punti” sentenziò dopo aver osservato la ferita. “Va disinfettato però, non sappiamo se la lama era impregnata di qualcosa”.
“Se voi piccioncini volete scusarmi io avrei del lavoro da fare” la interruppe Raven, alzando un sopracciglio, rassegnata.
Con un gesto del capo Clarke la congedò. Octavia la seguì fuori dalla tenda, accennando un saluto alle altre con espressione comprensiva. Lo sguardo di Clarke tornò su Lexa, che rimaneva in silenzio. Era riuscita a calmarsi, e ora si era seduta sull’estremità del letto, con le braccia appoggiate alle ginocchia. Clarke si spostò dal lato opposto, verso il bancone dove teneva alcune attrezzature mediche. In velocità strappò un pezzo di garza, lo bagnò con del liquido disinfettante e raggiunse Lexa, fermandosi in piedi davanti a lei. Con delicatezza le sollevò leggermente il volto e cominciò a tamponare la ferita con la garza. I suoi occhi seguivano i movimenti della sua mano, come un vero e proprio dottore, attenta a non aprire ulteriormente il taglio. Il liquido disinfettante bruciava, ma Lexa sembrava sopportare il dolore con non troppa fatica.
“Non hanno il diritto di comportarsi così” cominciò Clarke, tenendo lo sguardo sempre sulla ferita.
“Invece lo hanno, Clarke. Raven ha ragione. Jus drein jus daun” commentò Lexa, chiudendo gli occhi.
Clarke si fermò un attimo e spostò lo sguardo su di lei.
“Quello che è successo a Mount Weather è già stato discusso, non puoi più essere il capro espiatorio di questa situazione” rispose infastidita.
Lexa aprì gli occhi. Con un movimento svelto allontanò la mano di Clarke e scattò in piedi.
“Io ho preso quella decisione, Clarke! L’ho presa per me e per il mio popolo, ma anche per il tuo. Ho deciso per tutti voi, senza la necessità di essere il vostro capo. Non ne avevo alcun diritto, non sono il vostro Comandante”.
Clarke aveva indietreggiato. Guardava Lexa intimorita, era la prima volta che la vedeva così agitata da molto tempo. La guardava dritta negli occhi, ma faceva difficoltà a sostenere il suo sguardo. Si sentiva a disagio. Sapeva che Lexa aveva ragione, ma sperava che le cose fossero cambiate ormai. Per lei lo erano, ma ora le sembrava di combattere quella battaglia da sola. La sua espressione faceva trasparire quella sensazione di sconfitta, e le parole non trovavano il modo di uscire.
“Tu più di chiunque altro dovresti capire quello che stanno provando tutti loro. Hai provato le stesse cose anche tu” continuò Lexa, ora con tono di voce più bassa. Clarke la guardò con espressione interrogativa. “Ti sei sentita tradita anche tu, lo so. Non mi stupirebbe sapere che hai potuto pensare ad un modo per vendicarti” concluse Lexa, abbassando lo sguardo.
Quelle parole fecero scattare qualcosa dentro Clarke, che subito avanzò verso di lei e con un movimento deciso, ma non violento, le sollevò il volto e la costrinse a guardarla negli occhi.
“Non lo avrei mai fatto. Ammetto di aver provato tutto quello che stanno provando loro adesso, ma il mio giudizio era condizionato dai miei sentimenti personali. Sapevo bene che qualsiasi decisione avessi preso in quel momento sarebbe stata stupida e che me ne sarei pentita”.
Le sue parole furono chiare e dirette. Il suo sguardo era fisso negli occhi di Lexa.
“Hodnes laik kwelnes” scandì sottovoce Lexa, sostenendo decisa lo sguardo di Clarke. “Stai perdendo l’appoggio del tuo popolo a causa mia. Nessuno è più disposto ad ascoltarti se l’argomento in questione sono io. Questo non va bene, Clarke. Hai guidato questa gente per mesi, guadagnandoti un rispetto profondo da parte di tutti. Sei ancora il loro leader, dimostralo”.
L’espressione di Clarke mutò improvvisamente. Un miscuglio di emozioni si fece spazio dentro di lei, dallo stupore alla confusione, dall’ansia al dolore. Quelle parole contenevano tanta tristezza quanta verità. Clarke sapeva di aver perso credibilità tra il suo popolo nell’esatto momento in cui aveva pubblicamente annunciato la permanenza di Lexa a Camp Jaha. Certamente non tutti covavano l’odio profondo che questi gruppi organizzati avevano dimostrato negli ultimi giorni, ma sapeva di non avere più la loro simpatia, non di meno il loro rispetto assoluto, non più ormai. Non aveva modo di tornare ad essere il loro leader, non se questo avrebbe comportato abbandonare Lexa nelle loro mani.
“Non ho alcuna intenzione di lasciarti in pasto a loro” commentò lei, ingoiando il magone che aveva in gola.
D’improvviso una strana idea le balenò in mente e sgranò gli occhi.
“Aspetta. Un modo per costringerli a starti alla larga c’è…” si voltò verso il tavolo e cominciò a cercare tra i fogli sparpagliati.
Lexa era confusa, non aveva idea di quale potesse essere questa soluzione che Clarke credeva di aver trovato.
“Eccolo!” sbottò Clarke, tenendo in mano un blocco di fogli scritti a mano. Lexa la guardava con espressione interrogativa.
“Regola numero 17, qualsiasi tipo di comportamento che possa nuocere alla salute di un membro dell’Arca, o a quella di eventuali membri a lui sentimentalmente legati, sarà punito con l’incarcerazione” lesse attentamente Clarke, rivolgendo poi lo sguardo verso Lexa, in cerca di un riscontro.
“Non capisco, come potrebbe aiutare me questa cosa? Nessuno mi considera un membro dell’Arca” chiese sempre più confusa Lexa.
“No, sono io il membro dell’Arca in questione! Basterebbe dire a tutti che il nostro rapporto non è di sola semplice complicità e comportarci di conseguenza” spiegò Clarke, agitando i fogli che teneva stretti in mano.
Lexa sollevò leggermente il capo. Ora capiva il piano di Clarke. Fingere una relazione per permetterle di restare a Camp Jaha senza rischiare la morte. Qualcosa di strano si mosse dentro di lei. Il cuore cominciò a batterle velocemente e il sangue si fece strada veloce dritto fino alla testa.
“Due persone dovrebbero stare insieme perché lo vogliono, non perché sono costrette” intervenne lei, trattenendo la rabbia che le ribolliva nel sangue. “Tutto questo è ridicolo”.
“Lexa, è l’unico modo per tenerti qui al sicuro, quello che provo non c’entra niente…” provò a risponderle Clarke, avvicinandosi a lei in cerca di comprensione. Lexa indietreggiò prontamente. L’espressione sul suo volto era terribilmente seria.
“Non vivrò una menzogna per salvarmi la pelle. E non lo farai neanche tu” sentenziò decisa, guardando Clarke dritta negli occhi. Con un movimento deciso fece un passo verso l’uscita della tenda, oltrepassando Clarke, che in velocità la bloccò prendendole il braccio.
“Lexa…cerco solo di salvarti la vita” provò a spiegarle.
“Non così, Clarke” rispose lei senza battere ciglio. 
Svelta si liberò dalla presa sul braccio e uscì dalla tenda, lasciando Clarke immobile davanti al tavolo, con sguardo perso.

Per un attimo l’era parso di aver trovato la soluzione adatta a quel problema, credeva di poter creare questo compromesso con Lexa, d’altronde non sarebbe stata del tutto una finzione. Dopo la notte nella foresta entrambe avevano deciso di non porsi alcun tipo di limite nel loro rapporto, di non mettere delle barriere, di non stabilire nulla di ufficiale, in modo da evitare qualcosa di troppo affrettato. Le cose dovevano evolversi da sole, Clarke aveva bisogno di tempo per realizzare materialmente tutto ciò che provava, per riuscire a far conciliare la mente con il cuore, e Lexa glielo aveva concesso con tranquillità, perché sapeva quanto potesse essere difficile per lei affrontare questa cosa. I sentimenti c’erano, erano reali, da parte di entrambe; Lexa aveva soltanto più familiarità con la cosa. Clarke sapeva che ricorrere alla regola 17 non era una delle soluzioni migliori, ma non c’era alternativa, non se voleva evitare di coinvolgere i capi. Portare la questione ai piani alti significava metterli al corrente delle ultime vicende, delle motivazioni e delle possibili reazioni, il tutto sperando che nessuno di loro fosse già stato corrotto. Nella migliore delle ipotesi avrebbero esiliato Lexa definitivamente, e a quel punto Clarke si sarebbe trovata di fronte ad una questione ancora più grande: scegliere tra lei e il suo popolo.

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