and I'll be remembering you

di penny berry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. prefazione ***
Capitolo 2: *** 01. foto ricordo ***
Capitolo 3: *** 02. vieni con me? ***
Capitolo 4: *** 03. chiamata ***
Capitolo 5: *** 04. è tempo di crescere ***
Capitolo 6: *** 05. taglio netto ***
Capitolo 7: *** 06. saper aspettare ***
Capitolo 8: *** 07. indifferenza ***
Capitolo 9: *** 08. reazione ***
Capitolo 10: *** 09. il muro crolla ***
Capitolo 11: *** 10. inizio ***
Capitolo 12: *** 11. un freno alle parole ***
Capitolo 13: *** 12. nuovo ***



Capitolo 1
*** 00. prefazione ***


00
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: prefazione
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Salve a tutte... spero che vi ricordiate di me... ^-^
Beh... so che avevo già intrapreso "Dark Storm", e... so anche che alcune di voi mi stanno lanciando maledizioni Cruciatus (@.@ aiutoooo!) affinché io prosegua nella scrittura ^-^' Ma non temete, lo farò... il nuovo chap è a buon punto, parola di Lupetto U_U
Parlando invece di questa mia nuova creatura.
Era nata inizialmente come ONE SHOT!... ma, non ho saputo resistere: ho voluto trasformarla in una storia "vera", nel senso... una normalissima storia, che però nasconde in se i diversi sensi della vita.
Consideratela come una specie di Diario di ricordi di una ragazza di vent'anni, che io riempirò ogni volta che un pensiero, o un'emozione.... qualsiasi cosa, mi passerà per la mente, tanto da scuotermi fino nell'animo.
E dedico dunque questo mio nuovo lavoro (ohè, è ufficiale!) a tutte coloro che hanno ancora speranza. Quella... speranza... che brucia nell'animo sin dal primo momento, quando ci alziamo dal letto, all'ultimo attimo, quando ci addormentiamo.... Quella speranza che guiderà i nostri passi alla ricerca di lui, che guiderà i nostri occhi... nell'intenzione di incrociare i suoi, e scorgere il riflesso dello spirito, celato dietro l'apparenza.
Non deve essere per forza Robert. Potete anche leggerlo come Orlando Bloom. Jared Leto. Russel Crowe. Fa lo stesso... Situazioni diverse? Le emozioni sono le stesse.

E infine. Dedico questo nuovo racconto a tre persone, in particolare:
> La mia Marzia.... Una delle sorelle che, purtroppo, non ho mai avuto l'onore di avere. E che avrò la forza di amare fino alla fine.......
> armony_93.... Lo so, bambina, sono un po' in ritardo. Ma che ci vuoi fare, vivo in ritardo ^^"  Ma come vedi, forse sono riuscita a farmi perdonare? Non posso scrivere di Corbin, non gli renderei onore... ma spero che quello che provo io, posso riflettersi ugualmente in te.
> strowberry_sin.....  Beh, scrivere di Orlando, manco m'azzardo. Mi vergogno troppo. Tu l'hai reso vita e realtà. Tu continuerai a farlo. Io... Beh io, mi limito a darti quel poco di sentimenti che mi reggono in piedi, giorno dopo giorno. Lo faccio per starti vicino. Lo faccio perchè ti voglio bene.

Eeeeeee... ora basta, perché se no mi bannano da EFP per eccesso di sdolcinatezze!!
Un bacio a tutte.... e buona lettura



















{prefazione}
and I’ll be remembering you…







Scrivere una lettera, non sarebbe bastato.
Scrivere un poema… sarebbe stato sprecato.
Scrivere una poesia… forse non l’avresti capita.
Scrivere lusinghe… non te le saresti meritate.
Scrivere recensioni cinematografiche… beh, non è il mio lavoro.
Scrivere gossip sulla tua vita privata… ho di meglio da fare.
Scrivere battute idiote… ci sono sempre i tuoi amici.

Scrivere la verità.
Scrivere dei giorni mondani che ti hanno segnato sul viso cicatrici invisibili, ma letali…
Scrivere di parole sussurrate al tuo orecchio da coloro che fanno del desiderio vizioso la loro arte…
Scrivere di luci abbaglianti che illuminano il tuo viso, rendendolo candido come quello di uno spettro…
Scrivere di personaggi eroici che ti cuciono indosso un abito troppo stretto e fuori moda per il tuo carisma infantile…
Scrivere di canzoni intrappolate nelle corde della tua chitarra, la tua unica musa…
Scrivere di diari segreti che scarabocchi strillando silenziosamente quello che sei troppo fragile per dire…
Scrivere di giorni passati che hanno generato il ragazzo nascosto che solo a pochi rivelerai…

Si, scrivere questo.
Perché è quello che farò.
Scaverò nelle pagine di una vita fantastica agli occhi dei molti.
Sveglierò lo spirito che ti porti dentro, sotterrato sotto una montagna di vergogna mal celata.
Solleverò il bambino in pezzi che hai abbandonato dietro di te, incapace di saperlo trattenere dentro il tuo cuore… perché credevi che non vi fosse più spazio per le debolezze umane.
E salverò i ricordi.
Quei ricordi… che hanno impresso nella mente di chi sapeva ascoltare, il tuo sorriso.
La tua risata rumorosa.
Il tuo sopracciglio corrugato ad una domanda imbarazzante.
Le tue mani affusolate sui tasti di un pianoforte.
La tua sbadataggine per l’affanno di afferrare ogni singolo sorso di vita.
La beata stanchezza che hai dipinta sul viso, quando torni vittorioso da un progetto ambito andato a segno…
Il tuo abbraccio affettuoso e spontaneo che riservi a chiunque.
Il tuo sguardo attento, che carpisce al di là di una frase non detta.
E la tua maledetta profondità d’animo che ogni volta mi travolge come un treno in corsa.

Si. Questo è quello che farò.
Forse non sono la persona più indicata per prendermi cura di te. Lo ammetto, alle volte a stento riesco ad avere attenzione per me stessa…
Ma ti prego, non negarmi tale piccolo egoismo: raccogliere in pagine di un diario, tutto ciò che, se possibile, mi aiuta ad esserti accanto…
No. Non è una confessione, o una dichiarazione. Non sono così teatralmente brava.
Solo un pensiero. Seguito da un altro… ed un altro ancora.
Una lunga storia… che spero che, un giorno, quando ci guarderemo indietro, possa dipingere nella mente di entrambi, e di quelli che ci stanno accanto, il forte affetto che mai… e poi mai rinnegherò per un qualcuno che continuerà a sorprendermi, nel bene… e nel male.




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Capitolo 2
*** 01. foto ricordo ***


01
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 1° capitolo – Foto ricordo
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Eccomi qui!  Come avevo già avuto modo di dirvi, ho trasformato la shot iniziale in una prefazione di una storia alla quale tengo molto… È il racconto di un semplice ragazzo di ventitre anni che cresce, che matura attraverso i suoi errori, attraverso un lavoro che lo pone sotto i riflettori, e che vive a contatto con quelli che sono i suoi amici e affetti di sempre… e i nuovi incontri fatti sul cammino.
Ma non voglio anticiparvi di più, altrimenti è già finito il divertimento ^_^
Spero che possa piacervi…
Un bacione e buona lettura <3















1
“Foto ricordo”










Era una stanza ampia, spaziosa… e illuminata di sole. Le tende azzurro chiaro gettavano una piccola penombra sulle pareti aranciate, piene di stampe di cartoni animati e macchie di colore irregolari.
Nel centro quattro file ordinate di lettini facevano la loro figura, dove avvolti in copertine formato minuscolo dormivano o scalciavano i nuovi venuti al mondo. Erano così piccoli… così perfetti… così profondamente puri e unici. Nell’aria riecheggiavano le loro prime risatine, risuonavano i loro brevi pianti di sconcerto e brillavano i loro sorrisi timidi…

Oltre la vetrata che occupava metà di una parete, stavano eccitati ed emozionati i papà che, con le mani incollate sulla superficie trasparente, quasi avessero delle ventose, continuavano a ripetere fieri “Quello è mio figlio… Eh già, assomiglia tutto a me!”. E alle volte capitava anche di veder spuntare dal bordo del vetro della manine più piccole e sguardi altrettanto entusiasti, mentre si sentiva dire, “Papà è quello lì il nuovo fratellino?”
Sembrava di essere in una di quelle cosiddette isole felici, che spesso vengono narrate dagli scrittori come luoghi di pace. Era quel ritaglio di terra in cui l’esplosione della pura essenza della felicità raggiungeva l’apice e portava l’animo al di là di ogni possibile preoccupazione… Inebriava la mente, scendeva ad illuminare gli occhi e poi allargava il cuore.

E anche quella mattina, vicino all’angolo della vetrata, attorniato da altri papà impazienti, stava un uomo alto e dai capelli ramati che a passo lento si avvicinò e sussurrò alla creaturina di un anno che stringeva in braccio “Hei… piccolo, guarda lì”, indicando uno fra gli infiniti lettini dall’altra parte. “Vedi quella culla lì? La vedi si? È lei… è la piccola Charlotte. La figlia di James e Alice” sorrise, “La vedi, campione? È appena arrivata, dovrai fare il bravo con lei, è una personcina speciale” aggiunse prima di posare un bacio delicato sulla fronte del figlio.





Quattro anni dopo…

Un bimbetto stava seduto a terra, con i pantaloncini blu zuppi di fango. La melma lo ricopriva per i tre quarti del corpo, le braccine magre erano letteralmente scomparse, per non parlare dei capelli biondi ridotti ad un’unica chiazza marrone intenso. Era felice. Profondamente felice.
Le manine impastavano nella terra con precisione, e quel sorrisino di vittoria posato sul viso paffuto gli dava un’aria da conquistatore del mondo ancora in fasce. Stava costruendo una pista… o forse era un fossato per il suo castello immaginario, lui lo trovava bellissimo.
Ed era così intento nel suo lavorio da non accorgersi che, pian piano, una bambina con un paio di treccine gli si avvicinava, per poi fermarsi e dondolarsi sul posto con faccia titubante.
Il bimbo alzò il capo arruffato e piantò gli occhioni verde acqua sul viso della nuova arrivata.
“Sì?”
“Poffo ‘ocare anche io?” domandò lei incrociando le gambine, rossa di vergogna. Era carina, simile ad una di quelle bamboline di porcellana che si collezionano per intrappolarne la perfezione nel corso del tempo. I capelli corvini formavano un ciuffo ribelle sulla fronte e le nascondevano in parte il volto candido, segnato da due pomelline.
L’altro la osservò per un poco, con il ditino sporco di fango appoggiato sul mento a mo di grande intenditore. Infine esordì con un sonoro, “No”.
“E picchè?”
“Picchè hai quella!” esclamò indicando la gonnellina a fiorellini rosa della bambina.
La poverina sgranò gli occhi color cioccolata, si osservò il vestitino nuovo comprato dalla mamma, alzò lo sguardo già colmo di lacrime sul bambino… e cominciò a piangere a pieni polmoni: una trivella a pochi centimetri dall’orecchio sarebbe stata un suono più delicato.
Dal canto suo, il provetto architetto trasalì e si schiaffò le mani sul viso con espressione di sgomento, pari a dire “Oh cielo, che ho combinato!”.
“Charlotte!” si sentì urlare dal portico dall’altra parte del giardino. La signora Sullivan si affacciò con sguardo preoccupato. “Cosa succede?”
“ROBERT!” si sentì sopraggiungere più deciso dalla zona del barbecue, il signor Pattinson. “Cosa le hai fatto?”





Cinque anni dopo…

Una ragazzina con una buffa zazzera di capelli scuri si dondolava su un’altalena in un piccolo parco giochi, al tramonto di una tiepida giornata autunnale.
Si lanciava in aria, sempre più in alto dandosi la spinta con le gambe minute e gridando di gioia ogni qual volta lo stomaco si chiudeva per l’ebbrezza del volo.
Chiuse gli occhi, ed immaginò di essere una di quelle nuvole tinte d’oro e amaranto, lassù nel cielo d’Ottobre, sospinta dalla ali del vento… e portata chissà dove, su quali terre straniere e ancora inesplorate.
“Fammi salire”. Una voce la riportò bruscamente a terra.
Aprì gli occhi castani e fissò davanti a lei un ragazzetto immobile a braccia incrociate, appoggiato contro il tronco di un albero, i capelli ramati spettinati e la bocca storta in una smorfia di disapprovazione. “Fammi salire”, ripeté.
La ragazzina non vi badò e continuò a dondolarsi.
“Ci sono salita prima io”.
“È un anno che sei là in cima. Scendi” sbuffò lui, “O lo dico alla mia mamma”.
“Lasciami in pace”
“Se non scendi ti tiro giù per i piedi”.
“Prima devi riuscire a prendermi” ribatté lei, dando spinte più forti. Il vento le fischiava fra i capelli e le solleticava il collo.
“Se ti prendo ti lego intorno all’albero”.
“Prima devi riuscire a prendermi”.
“Ho detto scendi, l’altalena non è tuaaa!” puntò i piedi il ragazzino.
“Ci sono salita prima iooo!”
Accadde così che il rosso prese la carica e si lanciò come un razzo verso la ragazzina sospesa per aria; si aggrappò con tutte le sue forze ai piedi ciondoloni dell’altra e si lasciò trascinare avanti e indietro come un sacco morto strillando come un disperato. E a lui si unirono le grida isteriche della mora che si avvinghiava alle corde dell’altalena.
“Scendiiii!”
“Lasciamiiii!”
Continuarono nel loro minuetto per oltre due minuti. Minuti in cui i jeans del ragazzino divennero una tavolozza di colori impensabili, e le mani dell’altra si sbucciarono, costringendola a rovinare a terra portandosi con se l’amichetto. Quando furono distesi, lei ricevette in testa il contraccolpo del seggiolino dell’altalena con un sonoro “TONG!”. Ovviamente pianse…
E dall’altra parte del parco, come consueta abitudine, giunse una voce che pressappoco diceva così: “ROBERT cosa le hai fatto stavolta?”





Quattro anni dopo…

Sette e mezzo del mattino. Colazione attorno al tavolo della cucina di casa Pattinson.
Robert era vestito di tutto punto con la camicia bianca immacolata stirata dalla madre il giorno prima, e il nodo della cravatta ben centrato nel colletto… Spalmava tranquillamente una manciata di marmellata di fragole su un fetta di pane tostato con insolita tranquillità. Sembrava quasi che spalmare marmellata fosse la sua unica preoccupazione, e il sorrisino calmo sul viso lo rendeva estraneo a quell’atmosfera terrena.
Appoggiò il coltello sul piatto con cura, fece per avvicinare la fetta di pane alla bocca e…
“SPLAT!”
Fu il buio per un istante. Un lunghissimo istante che al ragazzo parve un’eternità… sentiva il volto invaso e appiccicoso e la mano, ancora a mezz’aria, gli tremava violentemente.
“Ma che…” mormorò fra se, colmo di sgomento. Ma presto la consapevolezza lo raggiunse. Ingoiò l’amaro che pian piano gli era ribollito in gola e… aprì gli occhi verdi. Dapprima ciò che intravide fu solo una massa informe color rosso, le ciglia sottili incollate fra loro, mentre nelle narici sentiva sempre più l’odore dolciastro delle fragole.
Una risata repressa giunse accanto a lui.
Robert si irrigidì e quel che rimaneva del pane venne distrutto nel pugno della sua mano, come un misero granello di sabbia.
Ancora un risolino strozzato.
“Io ti uccidoooo!”

La sedia si ribaltò a terra a mezzo metro dal tavolo con un fracasso inimmaginabile.
Robert scattò come una vipera e corse dietro a quella che sembrava essere un piccolo diavoletto dai capelli corti e spettinati. Rideva come una pazza.
“Io ti prendo! Ti prendo e ti ammazzoooo!”
“Eh dai, per così poco?!” ribatté lei scansando un pugno e rifugiandosi sotto il tavolo, per poi sbucare dall’altro lato della cucina. “Sono stata un’incapace: hai ancora la camicia pulita!”
“Tu…” la puntò con un dito il ragazzo, appoggiato al bordo. “Tu… oggi non andrai a scuola… viva!”
“Minaccia?” sorrise allegra Charlotte.
“È  una promessa, perché ti uccido!”
Preso dall’ira, il ragazzo afferrò la prima cosa sulla tovaglia e la scagliò contro la giovane: ci mancò poco che la scatola del burro le spaccasse il naso.
“Che ti prende? Come mai sei così scorbutico stamattina?” lo canzonò lei, “Hai promesso a Sophie che avreste pranzato assieme? Il rosso ti dona sulle guanciotte… Sei sempre così pallido, dimmi grazie almeno!”
Un secondo. Un misero, sciocco secondo. Charlotte non fu abbastanza pronta e non bastarono i suoi grandi occhi scuri sgranati a salvarla: il barattolo dell’orzo le arrivò dritto in viso, facendo “TONG!”.
“Ah-ah-ah…” fu la risatina di vittoria dall’altro lato del tavolo. Robert la spiava seminascosto dietro il bordo con occhi traditori.
E se prima la ragazza era allegra e gonfia di vittoria, quello che ne conseguì fu il fini mondo.
Con uno strillo che non invidiava nulla ad una trivella, fece leva sull’unica sedia rimasta in piedi e si lanciò sul tavolo fra le posate e i cereali, per poi gettarsi di peso addosso al nemico che la guardava terrorizzato dal basso. Sembrava la reincarnazione della dea della guerra, coperta di orzo in polvere.

Si presero per i capelli e a pugni sul naso, se ancora non erano rotti, si tirarono le guance e, mentre Robert la prendeva per il colletto, lei lo strozzava con la cravatta.
“Chiedi scusa!”
“Mi hai picchiato con l’orzo!”
“Mi hai rifatto con la marmellata!”
“E non mi hai ancora chiesto grazieee!”
Continuarono per almeno cinque minuti, quando finalmente dall’altra stanza accorse un uomo dai capelli ramati, come quelli di Robert, con la camicia scomposta, la faccia trafelata e una mazza da baseball in mano. Non appena scorse il motivo del baccano e si accorse che non erano ladri, abbassò la mazza… alzò un sopracciglio e diede un colpo di tosse.
La magia si spezzò e i due si fermarono come colpiti da una scossa elettrica. Voltarono lentamente il capo verso la porta… sfoggiarono un sorriso sbilenco e falsa aria innocente.
“È colpa sua” aggiunse infine Char, indicando Robert, mentre ancora lo teneva stretto per la cravatta.





Tre anni dopo…

Ottobre. Il cielo era cupo e il vento soffiava forte fra le piante che costeggiavano la via di fronte a casa.
La strada era bagnata e il rumore umido che arrivava dal passaggio delle auto che scorrono, rendeva insopportabile ogni singola cosa…
Il portoncino blu di casa Sullivan era serrato e le tende alle finestre erano tirate.

Dentro il silenzio aleggiava in ogni stanza, in ogni angolo nella penombra delle lampade a luce bassa. Un silenzio pesante, un silenzio che scoppiava, scalpitava e bruciava di dolore. Un silenzio che strillava e strideva lungo il corridoio, sul tavolo della cucina… vicino ai quadri in soggiorno e dentro lo specchio nel bagno. Ovunque.
E quello stesso silenzio camminava. Strisciava sui gradini di legno della scala e sibilava mentre percorre e sorpassava le porte della varie stanze, fino a fermarsi di fronte all’ultima di colore bianco.
Due persone. Immobili, una col viso nascosto nel petto dell’altra, restavano muti accanto al muro, il volto sfigurato dall’orrore e una sola domanda negli occhi: “Perché?”
Il silenzio si attorcigliava, si arrampicava e stringeva i corpi delle due figure, facendoli gemere e soffrire ancora di più. Una sofferenza che forse non si sarebbero mai più cancellati dal cuore.

“Dov’è?”
Una voce scosse i due, mentre dalla fine delle scale comparve un ragazzo alto e magro. “Dov’è Charlotte, papà?” ripeté.
L’uomo scostò il viso dai capelli della moglie e con un lieve cenno del capo indicò la porta bianca.
“N-non p-parla”.
Il ragazzo annuì. Represse un capogiro e dovette appoggiarsi al muro.
“C-com’è successo?”
Sua madre ebbe un tremito e gemette. Fu il padre a rispondere una seconda volta: sembrava invecchiato d’improvviso di vent’anni e parlare gli costava molto più dello stesso respirare.
“Stavano tornando dalla conferenza. Quella del vecchio professore di Alice, ricordi?” domandò con occhi gonfi. Si passò una mano sulla fronte e per poco Robert credette di vederlo crollare a terra. “Hanno sbandato sull’asfalto bagnato… e… li hanno trovati contro un albero… Non c’è… stato… nulla… da fare. Io…”
Il ragazzo si avvicinò. “Va bene… basta così”. Batté la mano sulla spalla del padre e… represse le lacrime.

Non poteva piangere. Non poteva soffrire, no, non poteva farlo. Non ora che stava per entrare da lei. Ingoiò la paura e il vuoto che si allargavano a macchia d’olio nell’animo, sempre più veloci e voraci; strinse le mascelle e batté un pugno sul muro, ignorando il male.
Poi aprì la porta. E la richiuse alle sue spalle.
La luce era spenta e solo il filtrare della pioggia grigia illuminava la stanza di un colore tetro e sinistro.
Il letto era intatto. I libri impilati sulla scrivania… I vestiti abbandonati come sempre sulla sponda del piccolo divano rosso. Solo una cosa stonava in quella calma apparente: una piccola cornice riversa al suolo con il vetro infranto.
Il ragazzo si passò una mano tremante fra i capelli lunghi e spettinati e ricacciò indietro un gemito. Il respiro gli strozzava la gola e sentiva chiaramente il cuore morirgli nel petto.
Fece vagare lo sguardo lungo la stanza, scrutando ogni angolo nelle penombra, fin quando non la trovò.
“Char…” mormorò.
Era rannicchiata a terra, fra il muro della finestra e il divano; la testa nascosta fra le ginocchia ed un lieve dondolio interrotto.

Robert avanzò a passo strascicato. Oltrepassò la sedia della piccola scrivania, superò il letto e si avvicinò a lei con calma… Si inginocchiò di fronte a lei con occhi arrossati e umidi, una lacrima argentea che non era riuscito a frenare…
“C-char” la chiamò con la voce rotta.
Lei continuava a dondolarsi, a cullarsi in quel silenzio rotto in lontananza dal rombo del tuono. Non smetteva di abbandonarsi a quello stato di totale agonia, al rifiuto di alzare il capo e aprire gli occhi di fronte all’evidenza. Come un graffio che, minuto e minuto, diventava sempre più lungo, sempre più profondo fino a scavare sotto la pelle e raggiungere il cuore.
“Char” chiamò ancora lui.
E lei dondolava.
Robert non poteva sopportarlo. No. Non poteva accettare l’idea di vederla ridotta in quello stato, spettro di se stessa, ombra di un ricordo che ancora gli riecheggiava nelle orecchie e nella mente, frammento spezzato di un quadro che, fino a quel mattino, continuava a sfoggiare colori vivaci ed accecanti.
“Char, ti prego” gemette.
Allungò una mano con timore… fermandosi ad un soffio dalla sua testa. Chiuse gli occhi verde azzurro e stanchi, cercando di svuotare la testa, e senza riuscirci… le sfiorò i capelli.

L’incantesimo si ruppe.
Charlotte sollevò il capo, rivelando il suo volto.
“Oh… tesoro” mormorò Robert.
Aveva le gote rosse e sanguinanti, forse si era graffiata. Due righe spesse di lacrime scivolavano lungo il mento e sul collo, e gli occhi… i grandi occhi scuri erano dilatati e spettrali per l’orrore.
Si fissarono per un lungo istante senza dire nulla. La pioggia batteva ritmica sui vetri della finestra e i tuoni erano ormai sopra la casa.
E infine, forse per l’aver trattenuto troppo a lungo un uragano di paura che piano la dilaniava, o forse per il dolore che sempre di più realizzava concreto, la ragazza si scostò e si gettò di peso fra le braccia di Robert, stringendogli la maglietta e lasciandosi andare in uno grido terribile.
“Va tutto bene. Ci sono qui io” disse lui, stringendola forte. “Va tutto bene. Passerà… vedrai che passerà. Lo so che fa male… ma non devi lasciarti andare, non puoi. Non voglio… che muoia anche tu, resisti. Fallo per te. Fallo… per me. Io non me ne vado”.
E mentre sussurrava le ultime parole, anch’egli pianse, rimanendo con lei sino al mattino dopo.
 




Tre anni dopo…

Charlotte apparecchiava la tavola per la cena. Allineava le posate accanto ai piatti canticchiando fra se un motivetto allegro, fresco… simile ad una nenia dolce.
Si allontanò per andare verso il frigo e prendere l’insalata e gli affettati, poi aprì il forno per ritirare la pasta appena cotta… La sfilò con cura, le mani fasciate dalle pattine, e la appoggiò sui fornelli con aria soddisfatta.
“Nonna? È pronto in tavola!” chiamò servendo da bere e affrettandosi a portare il resto in tavola.
Ed era talmente indaffarata e concentrata che non si accorse dell’ombra che le scivolò dietro le spalle e, dopo averle circondato le spalle con un braccio, le schioccò un bacio sulla guancia.
“Hei! Mi fai il solletico” scivolò via lei, voltandosi e incontrando uno sguardo colmo di affetto.
“Ciao”
“Ciao. Quando sei tornato?”
“Dieci minuti fa” rispose lui con un sorriso.
“Il solito, sempre all’ultimo minuto” alzò gli occhi al cielo lei. Lo allontanò poi con un buffetto e tornò a sistemare in tavola.
Dal corridoio nel frattempo giunse una voce arrochita ma ancora vispa, seguita da dei passi leggeri e lenti, “Bambina, Robert è tornato?”
“È qui nonna” rispose Charlotte, “Siediti… adesso porto la teglia” aggiunse poi rivolta al ragazzo. E stava per dirigersi verso il piano cottura, quando si sentì afferrare per il polso e fu costretta a girarsi.
I loro volti si trovarono di nuovo l’uno di fronte all’altro, lo sguardo intenso e profondo di lui contro quello interrogativo e pensieroso di lei.
“Rob…”
“Devo dirti una cosa” sillabò quasi a fatica. Non accennava ad abbassare gli occhi azzurri.
“N-no puoi aspettare dopo cena?”
“No”.
Intercorse un nuovo attimo di silenzio, durante il quale la mano lunga ed affusolata del ragazzo restava sempre stretta attorno al polso di Charlotte.
“Ho deciso… di fare il provino”.
“Di cosa?” sospirò lei. Un nuovo lavoro. Una nuova partenza, lo sapeva già. E ancora una volta, una parte di lei sarebbe morta.
“Di quel film tratto dal libro di vampiri. Twilight…” spiegò lui, abbassando ora lo sguardo. “Lo stavi leggendo la settimana scorsa”.
Charlotte lo osservò con un sopracciglio alzato.
“Dove dovrai andare se ti prendono?”
“Non è detto che mi prendano” rispose lui, sollevando il capo.
“Dove…” ripeté ferma.
Robert sospirò afflitto, “In America… probabilmente Vancouver”.
“Ne parliamo dopo cena” fu la risposta brusca ed improvvisa. La ragazza cercò di divincolarsi, ma lui strinse ancora di più. “Mi fai male”.
“Voglio che tu venga con me”.
Lei sgranò gli occhi e sporse le labbra in un’espressione di sorpresa.
E stava giusto per rispondere, quando sua nonna entrò nella cucina con un sorriso posato sul viso e un’espressione felice: Robert non era suo nipote, ma del resto lo aveva visto correre e giocare con la piccola Charlotte sin dai primi giorni di vita… che ormai, averlo sotto lo stesso tetto, era come dichiararlo suo.
“Ragazzo, finalmente! È una settimana che non ti si vede!” esclamò.
I due si irrigidirono, la mano si scostò dal polso ed entrambi si avvicinarono alla donna come nulla fosse, mentre Charlotte ripeteva sussurrando “Ne parliamo dopo cena”.















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piccolo spazio per i ringraziamenti :)

> leghy : come ogni volta il tuo sostegno, il tuo affetto... e la tua forza mi danno una gioia ed una carica unica. beh... che gli altri possano trarre insegnamento da quello che scrivo o dico, non lo so ^_^'' ma se aiuta ad essere più sereni e credere maggiormente in una causa giusta... allora ben lieta di dare una mano. Grazie sorella, cm sempre <3
> millape : ti ringrazio davvero tanto, e anche per il paragone con la Meyer, troppo buona *_* spero che anche questo chap possa esserti piaciuto, un bacione :)
> armony_93 : tesoro. ho fatto solo quello che ritenevo giusto, ti ho detto la verità: perchè davvero, credo che dare vita ai propri sentimenti, indirizzarli verso qualcuno... non importa che sia presidente di chissà che o un medico, un mendicante o un attore (in queso caso), beh... credo sia la cosa più bella del mondo. Lui (e sto parlando del tuo lui) sarebbe raggiante se ti avesse accanto, perchè sei semplice e pura, carica di forza e amore... Coraggio, non perdere mai la speranza. D'altro canto, siamo tutte qui; lo dico io, ma lo può dire chiunque... Un bacione :)
> Lady_Malfoy : uhuuu... ciao Lady *__* ahi i brividabadibidi, hihiih... grazie per aver letto e commentato, gentilissima <3
> Railen : beh tu ringrazierai me, ma... io ringrazio te per aver speso tempo nel leggere e commentare *_* eh si, anche io a volte faccio il tuo stesso errore, che vuoi farci xD  yuuuuhuuuu!! ti intrigo, mwahahahah, chissà nei prossimi chap allora, dehihih xD beh, grazie ancora... il tuo commento mi ha resa davvero felice ;)
> Hermone : avresti pagato per cosaaaaa??? O_o se mai Patty avesse davvero assistito ad una cosa del genere, mi faceva rinchiudere in prigione, no anzi... in terapia intensiva per psicopatici xD Oh, c'mon J, sei troppo forte... Mi rendi sempre così importante, quando alle volte mi sento una gran perdente, susu... non farmi arrosssssssireeeeee *corre via rossa come un pomodoro* Bando alle ciance, grazie. Grazie davvero. So che quello che hai scritto viene dal cuore, e ti voglio bene fratellino. <3



*beth*




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Capitolo 3
*** 02. vieni con me? ***


02 Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 2° capitolo – Vieni con me?
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Nota dell'autrice: Hei! beh... giusto per precisarlo ora, in questa storia Robert non avrà sorelle. Non tanto perchè abbia qualcosa contro di loro, no no xD  Piuttosto quanto perchè mi serviva "eliminarle" per focalizzare meglio l'attenzione su Rob e Char, in ambito "amici-fratelli" e... gestire meglio il tutto! Non avendo sorelle, è autorizzato a bisticciare con Char, ad assillarla, a prenderla in giro e risponderle male... e anche a coccolarla. Dorme fuori casa per trovare compagnia, si confida sempre con lei... Insomma, quello che i fratelli maggiori dovrebbero fare! baciii  <3















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“Vieni con me?”










La cena era giunta al termine. La pasta al forno fu un successo e la compagnia di Robert, di ritorno da uno dei suoi innumerevoli appuntamenti di lavoro, rese il momento ancora più piacevole. I tre risero e scherzarono, parlando della faticosa mattinata a scuola della ragazza e della “simpatica” incompetenza del professore di Matematica… dell’insopportabile truccatrice isterica a cui Robert aveva dovuto sottoporre la propria faccia, controvoglia… e del carico di spesa, pesante come un macigno, che nonna Marie Anne aveva dovuto trascinare dal mercato sino a casa.
“Potevi chiamarmi” commentò Charlotte, stringendo la mano alla nonna.
“Bambina, eri ancora a lezione…”
“Oh si certo, buona idea!” ridacchiò il ragazzo, “Perché non invitare anche il professore a pranzo? Potevi schiavizzarlo ai fornelli” aggiunse, giocherellando con una mollica di pane.
“Spiritoso” ribatté acida lei, “Io almeno mi rendo utile, invece che farmi cotonare i capelli come una mammoletta !”
“Non è vero!” rispose Robert con voce acuta. E toccandosi poi i capelli, sibilò, “Lascia stare i miei capelli…”
Charlotte sbuffò scotendo la testa.
“Ti è piaciuto la pasta, nonna? L’ho fatta come avevi detto tu” chiese la giovane.
“Eccellente… davvero squisita. Quasi migliore della mia” commentò con una risatina la donna pulendosi l’angolo della bocca con il tovagliolo. Appoggiò poi la forchetta e fece per alzarsi prendendo la teglia.
“Aspetta! Ferma” si alzò di scatto Charlotte, “Faccio io…”
“Macché, lascia marmocchia… faccio io” si allungò a sua volta sul tavolo Robert, prendendo l’altro lato della teglia, “Hai cucinato tutta sera”.
“Ma tu hai lavorato tutto il giorno, non è il caso: farsi cotonare i capelli è stancante. Non vorrei ti sciupassi troppo” disse lei tirando dalla sua.
“Io non sono stanco” gracchiò permaloso lui “Tu invece hai una faccia da far paura… Matematica deve essere stressante, specie quando si ha un professore che dorme per i tre quarti della lezione” continuò con un sorrisino provocatorio, strattonando verso se.
“Certo che farai anche l’attore, ma il bon ton è ancora all’età della pietra” ringhiò Char senza mollare la presa.
La nonna, seduta fra i due, li osservava facendo scattare la testa prima da un lato… poi dall’altro. Una scena vista e rivista all’infinito, specialmente ad ogni pranzo e cena che condividevano assieme, anche se… questa volta vi era una lieve differenza: l’oggetto conteso non era lo scolapasta, ma la teglia della pasta al forno.
“Se sono così rozzo, è colpa di chi da piccolo mi picchiava troppe volte con l’innaffiatoio da dietro i cespugli in giardino. Temo tu abbia avuto un cattivo effetto su di me!” soffiò Rob.
“Robert, togli quelle mani dalla teglia o prometto che ti picchierò anche con quella!”
“Voglio lavare i piatti! È un mio diritto!”
“No che non lo è!”
“Li lavo io se la cosa vi mette a disagio…” si intromise tranquilla la nonna, le mani aperte sul tavolo.
“Non-se-ne… parla… nemmeno… MOLLALAAAA!” alzò la voce Charlotte.
E il ragazzo non ci pensò due volte: diede un ultimo strattone, prima guardare beato e sollevato in pieno viso la ragazza, e poi disse “Come desideri”. Mollò la presa.
Beh… inutile dire che, come da manuale, la mora inciampò su se stessa e per poco non fini stesa a terra con la teglia per cappello. Fulminò con lo sguardo il nemico, mostrandogli i denti… pur senza fiatare: doveva aspettarselo, da uno come lui per lo meno.
“Devo finire di sistemare i vecchi libri di tua madre nello studio, giovanotto” disse d’un tratto Marie Anne, alzandosi dalla sedia con fatica. “Sarà meglio che mi dia una mossa, o non finirò più…”
“Ti do una mano: sono i libri di letteratura, vero?” si offrì Robert, “Potrei leggerne qualcuno”.
“Volentieri” sorrise la donna.
Lui si scostò dal tavolo e, passato un braccio attorno alle spalle della nonna, imboccò il corridoio con calma, mentre a bassa voce bisbigliava “Sorridi. Ho vinto”.

Charlotte rimase per qualche istante ad osservare la porta oltre cui sua nonna e Robert erano scomparsi, i capelli scomposti e la teglia ancora malmessa fra le mani… Si morse un labbro, scoppiando poi in una risata sommessa. Era sempre così.
Afferrò posate e bicchieri, per poi sistemarli dentro la teglia e portare il tutto al lavandino; fece scorrere l’acqua, annaffiò la pila di stoviglie con il detersivo e, rimboccandosi le maniche, prese a strofinare in silenzio.

Era pressappoco una settimana che Robert mancava da casa…
Era buffo vederlo aggirarsi per il soggiorno come fosse un perfetto estraneo, se si pensava che sin da bambino trascorreva la maggior parte del suo tempo nel giardino di Charlotte e Marie Anne, giocando a guardie e ladri con la ragazza… o a picchiarsi con l’innaffiatoio, come lui stesso aveva rammentato quella sera.
Giorno dopo giorno, momento dopo momento, i due erano cresciuti fianco a fianco. Trascorrevano la notte di Halloween a gironzolare per il quartiere mascherati da zucca e scheletro, e naturalmente Robert non mancava mai di far spaventare l’amica nascondendosi dietro i bidoni della spazzatura; alle feste di Natale cantavano sotto l’albero, finendo poi con il prendersi per i capelli per aggiudicarsi il regalo più bello… L’ultimo giorno dell’anno si lanciavano addosso palle di neve, mentre alla fine degli anni scolastici, si tuffavano nella piccola piscina gonfiabile montata dal signor Pattinson.
E la sera. Ogni singola sera, il ragazzo prendeva la chitarra sedendosi sotto il portico e augurava la buona notte a Charlotte che già dormiva al piano di sopra.
Beh, non che Robert non ricordasse il proprio indirizzo di casa! Certo che no. Del resto abitava solo due isolati più in là del numero 86, casa Sullivan…
Ma… come poter lasciar sola, a combattere contro l’adolescenza e gli spettri del passato, la propria amica di infanzia? Da quando James e Alice Sullivan erano scomparsi in un incidente e la figlia aveva smesso di mangiare, il ragazzo non si era posto limiti né aveva voluto sentir ragioni, non si era preoccupato di rimproveri o dell’essere troppo invadente: aveva raccolto le sue cose, aveva promesso che ogni tanto sarebbe passato a trovare i genitori, e… si era stabilito a tempo indeterminato sul divano di casa di Charlotte, portandosi appresso la sua chitarra e la sua collezione di cd di Van Morrison.
“Posso restare vero?” aveva chiesto poggiando la sacca a terra sotto lo sguardo scioccato della giovane, “Ma certo che posso restare. Sciocco io a chiederlo! Allora, che si mangia?”

Charlotte risciacquò i bicchieri e li sistemò in fila su un ripiano. Dopodiché, incominciò con i piatti.

Era arrivato poi il momento in cui Robert era cresciuto. Il cosiddetto momento solenne dei capelli torturati dal gel… per far colpo sulle ragazzine. Le veniva ancora da ridere, al solo pensiero.
E aveva smesso di andare a scuola. O meglio, l’avevano cacciato da scuola, e solo Charlotte era a conoscenza delle strilla isteriche della signora Pattinson, udibili solo dai pipistrelli in quanto ultrasuoni. Robert aveva cominciato a recitare, quasi per gioco… ignorando il broncio dell’amica quando era costretto a trascurarla per dedicarsi allo studio di qualche piccola parte da interpretare.
I momenti spensierati erano pian piano scomparsi, lasciando spazio a responsabilità che andavano ben oltre al prendersi cura della propria bambola o peluche prima di andare a letto.
E infine… era arrivata quella chiamata. Non che non vi fossero mai state offerte di lavoro davanti ad una cinepresa, Robert ne aveva accettate in passato, ma quella… non era come le altre, e la ragazza sapeva che qualcosa sarebbe cambiato. Lo annotò sul suo diario segreto: Robert era stato scelto per interpretare un personaggio di rilievo nella celebra saga cinematografica di Harry Potter, Cedric Diggory.
“Cosa fa di bello Cedric, nella storia?” aveva chiesto la mora.
“Mhmm… si fa ammazzare invece di godersi la coppa di fine torneo” aveva annuito lui.
“Un idiota come te, quindi” sorrise lei. “Non sarà difficile”.
“Decisamente no” rispose al sorriso Robert.
Erano passati quattro anni da allora, altre proposte, televisive e cinematografiche, erano state presentate e accettate… e i due condividevano solo la metà del loro tempo assieme. Incontrarsi in corridoio la notte, assonnati, uscendo dalla porta del bagno e chiedendosi come fosse andata la giornata… oppure passandosi la scatola di cereali la mattina, prima di rivedersi soltanto a sera inoltrata o a distanza di qualche giorno.
Una cosa tuttavia non era cambiata. Robert dormiva ancora sul divano in soggiorno, con accanto la sua chitarra.

Charlotte ripose i piatti nell’armadietto sopra il lavandino, attenta a non romperli. Attaccò con la teglia, l’oggetto tanto conteso. Sorrise.

Non aveva mai avuto molto da ridire sul lavoro di Robert. All’inizio l’aveva accolta come una scelta affrettata, forse un colpo di testa, l’ennesimo pretesto per farla arrabbiare dal momento che lei non sopportava di essere trascurata dall’unico amico sincero… Poi, man mano che il ragazzo sgusciava via di casa, portandosi appresso copioni nascosti nella sacca di scuola con aria innocente, beh… aveva cominciato a farci l’abitudine. La divertiva, in un certo senso, vederlo così concentrato su quel mucchio di fogli, quando si rintanava nello studio accanto alla finestra, mentre trangugiava l’ennesima tazza di caffè. Sembrava quasi che, oltre alle pagine da leggere, Robert cercasse un di più, una nota invisibile ai bordi dei fogli o una qualche strana formula magica che gli rivelasse la vera essenza del personaggio a lui destinato. Voleva sapere, voleva scoprire, e lei rideva… sempre.
“Sembra che tu voglia violentare quel povero pezzo di carta, Rob” lo accusava a volte, nascondendo una risatina dietro una faccia scioccata.
“Violentare?” chiedeva lui. “No. Mi basta uno spogliarello veloce, non sono mica così esigente. Quanto basta per rendermi un uomo felice”, aggiungeva ad occhi chiusi con aria solenne.
E con il successo di Harry Potter, era arrivata anche la fama. Dapprima sottile e quasi fragile, e che con il passare dei mesi portò il giovane a rimirare la propria immagine sui piccoli giornali di pettegolezzi delle ragazzine. Era diventato celebre. E naturalmente, con la celebrità, viene sempre anche un’altra cosa: viaggiare.
“Dove andrai?” chiedeva spesso Charlotte.
“Tokyo… Un giretto di promozione. Vuoi che ti porti qualche giapponesina impazzita di Cedric?”
“No grazie, le lascio tutte a te” rispondeva lei con aria terrorizzata. “Non voglio rubarti il divertimento”.
“Cercavo solo di non essere egoista e farti condividere i benefici del mio lavoro” ribatteva lui offeso.
“Avere giapponesi impazzite in giro per casa?”
“No. Diventare fosforescenti per i flash dei fotografi. È già sufficiente”.
Ed era volato via. E così sarebbe successo altre innumerevoli volte. Partendo da casa propria, preparava il borsone con i vestiti freschi di bucato che la signora Pattinson stirava, si metteva il berretto in testa, usciva e correva a perdifiato sino al numero 86 in fondo alla via, e obbligava Charlotte ad accompagnarlo all’aeroporto. Un rituale al quale ormai la ragazza non si opponeva più.

Charlotte ripose la teglia sul tavolo ad asciugare. Prese poi uno strofinaccio e si asciugò le mani lentamente mentre lo sguardo vagava in un punto indefinito lungo il bordo del lavandino, dove le gocce d’acqua insaponata risplendevano sotto il fascio della lampada sul soffitto…
Sorrise assente. Un sorriso amaro. Un sorriso stanco, che sapeva di ricordi del passato.
“Ho deciso… di fare il provino” aveva detto. “Un provino per quel film… Twilight”.
No, anche quella volta… non sarebbe stato diverso. Anche quella volta… lui avrebbe esaminato il copione, avrebbe preparato la sua borsa chiedendole dove fosse il bagnoschiuma e la scatola dei cerotti. E non solo. Aveva parlato di America. E di certo non si sarebbe trattato di una misera settimana di assenza.
Sarebbe stato sottoposto a dei ritmi forzati, non si trattava di una semplice serie televisiva di sole quattro puntate che andava in onda il pomeriggio su un canale qualsiasi della rete Britannica. Ora si parla di un film a tutti gli effetti, e lei lo sapeva bene…
Senza mettere in conto che diventando con grande probabilità il nuovo “oggetto del desiderio” delle ragazzine di mezzo pianeta, Robert avrebbe certamente patito di fosforescenza a causa dei riflettori e degli scatti dei fotografi.
Beh… forse, una volta finite le riprese, pensò ingenuamente, lui sarebbe tornato a casa e per un po’ sarebbe rimasto con lei e Marie Anne, facendola impazzire per il disordine che lasciava ovunque al suo passaggio e per il frigorifero costantemente gonfio di cheeseburger. Ma era a casa. Che fosse la propria o quella della ragazza, non importava. Seduto in soggiorno o a gambe incrociate sul tappeto di camera sua. Era a casa.
Con un sorriso storto si diede mentalmente della sciocca per aver anche solo sfiorato l’idea di una simile e remota possibilità.

E mentre si dondolava su un piede con lo sguardo ancora assorto, un paio di braccia forti le circondarono i fianchi e la strinsero.
“Finito di lavare la teglia?” sentì sussurrare fra i capelli. Robert sorrideva. Eppure lei non rispose, immobile e assente… persa in un frammento di futuro che sapeva già non le sarebbe piaciuto.
“A che pensi?” le domandò allora.
“A niente” si riscosse lei scotendo la testa. Cercò di sciogliersi dall’abbraccio, ma lui strinse di più.
“Spiegami il niente, allora”.
“Il niente è fatto di niente, Rob” rispose, appoggiando la testa sul suo petto.
“Si, è vero. Ma quando il niente viene evocato nella tua testolina, c’è da spaventarsi” sghignazzò piano. Tornò poi serio. “Cos’hai?”
Charlotte sospirò e chiuse forte gli occhi; poi li riaprì, mordendosi un labbro. Si slacciò dalla presa del ragazzo e scivolò verso il soggiorno con aria grave. Accese una piccola lampada in un angolo, accanto alla finestra, prese un libro dagli scaffali a muro e si sistemò sul divano.
Robert la osservava, appoggiato allo stipite della porta, a braccia incrociate ed un sopracciglio alzato.
“Non credevo che chiederti di farmi lavare i piatti avesse potuto farti incupire a quel modo”.
“Non sono affatto incupita” rispose lei, gli occhi puntati fra le pagine.
“Allora diciamo corrucciata”.
“Nemmeno per idea”.
“Incazzata” esordì infine lui. “Non è da me usare termini del genere, ma se la metti su questo piano…”
“No, non sono nemmeno incazzata” sorrise enigmatica Charlotte. Continuò a leggere distrattamente una mezza dozzina di pagine, sfogliandole rumorosamente e con gesti bruschi, rischiando di strapparle. Il silenzio calò fra loro, interrotto solo dal rumore della carta e dallo scorrere delle macchine sulla strada. Fu infine, quando non potendo più sopportare lo sguardo intenso del ragazzo fisso sulla propria fronte, che Charlotte chiuse il libro e lo sbatté sulle ginocchia. “Che c’è? Insomma che vuoi?”
“Voglio andare a letto senza dover credere di essere accoltellato a notte fonda da una pazza che non voleva farmi lavare una teglia”.
“Oh, questo è davvero divertente…” gli fece una smorfia di rimando.
“Non per me, ci tengo alla pelle”.
Charlotte sbuffò. Cacciò il libro sul tavolino accanto al divano e si passò una mano sugli occhi stanchi. Era sempre stata una ragazza testarda e in pochi riuscivano ad infrangere il suo mutismo se si trattava di un momento in cui aveva piacere a restare sola. Peccato che una di quelle poche persone si trovasse ora a meno di due metri da lei e non accennava a veleggiare altrove.
“E va bene… va bene” disse sconfitta. “Che c’è?”
“Voglio sapere di che morte devo morire”.
“Sta volta nei guai ti ci sei messo da solo, mio caro. Io non c’entro”.
Robert assunse un espressione di sorpresa e inclinò la testa di lato. “Colpa mia?”
“Beh… Diciamo che, sarebbe stato carino avvertirmi di tuoi certi spostamenti lavorativi, prima di rimettere piede in casa. Avrei preparato del calmante da prendere in caso mi fossero venute crisi di panico” ridacchiò sarcastica. “Geniale specialmente l’idea di chiedermi di partecipare alla tua piccola avventura oltre mare”.
Il ragazzo strinse le labbra in una smorfia di disagio e si guardò un istante la punta delle scarpe. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, anche se pensava che lei l’avrebbe presa in maniera alquanto differente: non era una novità che lui si spostasse come un’orbita impazzita nell’universo del mondo cinematografico, cosa avrebbe dovuto esserci di diverso questa volta? La destinazione?
“Hai sempre detto che ti sarebbe piaciuto andare in America” concluse il proprio filo dei pensieri a voce alta. “Pensavo di farti un piacere”.
“Come scusa?” scosse la testa Charlotte, non seguendolo.
“Mi pare di capire che il tuo problema sia… partire. Viaggiare. Spostarti. Ma guarda che non è poi così male come sembra, dico davvero”.
“Ok. Come prevedevo: sei fuori strada” sorrise. Si alzò e spense la luce della lampada prima di imboccare le scale, diretta in camera sua. Robert le era dietro.
“Sai non sei mai stata un totale libro aperto per me, quando ti atteggi da prima donna” commentò contrariato agitando le mani come un’attricetta da quattro soldi. “Se mi illuminassi sulle tue frustrazioni da post cena…”
“Pensavo di essere stata già abbastanza loquace”, lo interruppe Charlotte.
“Un disegnino sarebbe gradito, in tal caso”.
Si fermarono davanti alla porta della camera della ragazza. Lei fece per aprire la porta, ma Robert le bloccò la mano sulla maniglia e strinse. Le piantò poi in volto due occhi profondi come il mare.
“A me piacciono gli scarabocchi, sono creativi”.
Charlotte lo guardò con una lieve ed improvvisa vena di rancore. Gli pizzicò il dorso della mano e approfittando dell’attimo di dolore dell’amico, entrò in camera.
“Non sono arrabbiata per le scelte che fai, Robert. Vorrei solo che mi avvertissi in tempo, quando hai intenzione di coinvolgermi in queste, magari per un tempo indeterminato, come suppongo che questa sia”.
“Quindi da incazzata passiamo ad arrabbiata” sorrise lui dalla porta, “È già una conquista”.
“Robert”.
“Si è vero…” annuì abbassando il capo, sentendosi colpevole. “Avrei dovuto dirlo”.
“Almeno fin quando resterai in questa casa: devo sapere cosa cucinare per cena”.
“Il sarcasmo non lo apprezzo, sai” alzò un sopracciglio.
“Puoi spiegarmi che succede?” chiese infine lei, sedendosi sul bordo del letto. Stringeva fra le mani un vecchio pupazzo. Doveva averlo dall’età di otto anni, un vecchio regalo di Robert un giorno alle giostre accanto al parco.
E dal canto suo, il giovane, in quel momento, sarebbe stato in grado di fare tutto, meno che guardarla in faccia, non quando lei lo osservava con quegli occhi pari a pozzi che lo risucchiavano sino al cuore.
“Eeehmmm…” incominciò torturandosi i capelli. “Ricordi quando la tua amica, Julia, ti raccontava di aver letto quello strano libro sui vampiri? Sarà stato un po’ di tempo fa, lo ammetto”.
“Me lo ricordo solo perché continua a torturarmi con quell’assurdo libro ancora oggi” trattenne un gemito lei.
“All’inizio pensavo fosse una cosa idiota, farlo” riprese lui. “Il provino intendo. È stata Sarah, la mia manager, a propormelo… Aveva sentito dire di questo film basato su quel libro. L’aveva considerato particolare”.
“E mi pare ovvio che abbia pensato a te, certo”.
“Guarda che ci credevo meno di quanto ci possa credere tu ora! Smettila di prendermi in giro”.
“Ti sto ascoltando…”
Robert incrociò le braccia con aria scocciata. Non la sopportava quando si comportava a quel modo: avevano fatto un patto, la decisione e le scelte di copioni, quindi lavoro, erano una cosa di cui lei non si sarebbe occupata… Altrimenti non gliene sarebbe andato a genio nemmeno uno.
“C’è molto poco da aggiungere. Ho tentato per il provino. Tutto qui. Fine della storia”.
“E per quale personaggio hai tentato, se posso chiedere?”
“Non hai letto il libro”.
“Posso sempre cominciare a leggerlo domani. Julia non abita tanto lontano”.
“Il protagonista”.
“Quindi hai puntato in alto” comprese Charlotte. Giocherellò un poco con il pupazzo di pezza, poi chiese ancora, “Ha un nome questo protagonista?”
“Edward Cullen. E perché tu possa saziare la tua curiosità, ti dico anche cosa è: un vampiro centenario che si innamora di un’umana particolare”.
“Una simpatica love story, quindi…”
“Parla di vampiri” alzò gli occhi al cielo Robert.
“Beh, i vampiri non sono simpatici?”
“Dipende dai punti di vista”.
Un lungo istante di silenzio scese su di loro, come una cappa di piombo in cui era difficile respirare. Non si avvertivano rumori nella casa, la stessa Marie Anne si era fatta invisibile, segno che doveva essersi ritirata in camera sua.
“E… dal momento che mi hai chiesto di venire con te in America, mi fa supporre che ti abbiano affidato il ruolo”.
“Ecco è… è in questo che sono stato avventato e ti chiedo scusa” rispose in fretta Robert, facendosi rosso in volto per l’imbarazzo. Si passò una mano fra i capelli, tirandone le ciocche con nervosismo. “No, non è ancora una cosa certa, o per lo meno… Sarah è in contatto con la direzione del casting e aspetta una risposta: da quel che ho capito, ho buone probabilità di passare e ottenere la parte, ma non escludo un tiro mancino dell’ultimo minuto da parte di un usurpatore del mio traguardo”.
“Tieni a questa parte?” rilanciò subito lei, fissandolo. “Onestamente”.
Lui abbassò lo sguardo e si dondolò sui piedi per un poco, prima di rispondere sempre tenendo il volto verso il basso.
“È un ruolo come molti altri. E io avrei anche bisogno di lavorare…” accennò ad un sorriso disarmante. “Certo, è una parte che mi intriga e mi incuriosisce più delle altre, lo ammetto”.
Charlotte annuì e si alzò dal bordo del letto per andare alla finestra.
“In più pare stiano radunando un ottimo cast, e l’attrice che interpreterà Isabella, la protagonista, è già stata scelta: è formidabile”.
“Chi è?”
“Kristen Stewart: era in ‘Into the Wild’, la ragazza con la chitarra” esclamò lui, alzando la testa con un sorriso pari a quello di un bambino felice.
“Oh, si, me la ricordo… Non hai fatto altro che blaterare su quella tizia per tre giorni interi”.
“Non è vero!” gracchiò lui punto sul vivo.
“Quindi lo fai più per l’attrice che non per il ruolo, vero?” disse infine Charlotte voltandosi e sorridendo. “Le bugie non le sai dire”.
“Beh… ecco…” cercò di salvarsi lui. Ma vendendo che non c’era via di scampo dallo sguardo di fuoco dell’amica, abbassò il capo e confessò. “Si, lei è una delle ragioni per cui vorrei la parte, contenta ora?”
“Contenta di sapere la verità, si”.

Restarono in camera della ragazza per un altro poco, in silenzio. Robert si dondolava sulle proprie gambe, appoggiato allo stipite della porta e lo sguardo perso sulle pieghe del tappeto. Charlotte seduta sul bordo della finestra chiusa, il pupazzo fra le mani, e le labbra pallide.
Parlare del lavoro di Robert ultimamente stava diventando pesante, e dovettero riconoscerlo entrambi. Beh, non tanto perché lei non approvasse le sue scelte o la voglia di fare (al di fuori delle singole opzioni per i personaggi da interpretare), quanto piuttosto per il fatto che… man mano che il tempo passava, che il nome “Robert Pattinson” acquistava il suo prezzo, la crepa nel loro mondo in apparenza indistruttibile, si faceva sempre più netta. Era agli inizi, ovvio. Lui non era di certo una garanzia come poteva definirsi Orlando Bloom, ma chissà perché Charlotte avvertiva una strana elettricità nell’aria. Una pressione diversa dalle altre volte. Quel film, “Twilight”, avrebbe portato un vento che non era certa fosse favorevole.
“Sei pallida” disse ad un tratto Rob, guardandola.
Lei fece spallucce e si passò una mano sul collo. “Sono solo stanca”.
“Dovresti riposarti di più, non stai mai ferma”.
“Qualcuno deve pur farle le cose, non si fanno mica da sole” ribatté secca.
E il ragazzo si morse la lingua: lui non c’era mai, e per quanto avesse detto che l’avrebbe sempre sostenuta, cominciava a tener meno fede alla promessa.
“Scusami…” mormorò a capo chino.
“No. Scusami tu. Non è colpa tua” rispose Charlotte, scostandosi dalla finestra. Andò verso l’armadio e tirò fuori una vecchia maglia scolorita che usava la notte per pigiama. “Tu hai il tuo lavoro, è giusto così… Specialmente in questo periodo”.
“Potrei anche saltare qualche impegno e darti una mano”.
“Nemmeno per sogno” si sentì bofonchiare da dietro l’armadio. L’anta poi si chiuse e la mora andò verso il letto per scostare le coperte. “Va bene così. I patti erano questi. Mi avresti aiutato, ma senza togliere la priorità ai tuoi obblighi”.
“Ma vivo qui con te” sbottò Rob.
“Che differenza fa?”
“Fa differenza eccome” ribadì lui, facendo un passo in avanti.
“Possiamo cambiare discorso, per favore?” chiese lei con un cenno nervoso della mano.
“Sarebbe il caso di farlo, invece. È parecchio che cerco di affrontarlo e tu non lo vuoi mai finire”.
“Come se ci fosse bisogno di farlo” lo guardò ad occhi sgranati la ragazza.
“Senti…” cominciò portandosi al centro della stanza e agitando le mani affusolate. “Io vorrei solo cercare di farti capire che la colpa non è mai se non sono sempre in casa. Mi sento… egoista a comparire come un ologramma una volta ogni tanto, ma credimi: non lo faccio apposta”.
“Ma io lo so”.
“No, non lo sai” alzò la voce lui. Succedeva di rado, ma quando perdeva la pazienza, era un evidente segnale che c’era poco da scherzare. “Credi che non sappia quello che ti passa per la testa? Da quanto ti conosco? Ti ho praticamente visto nascere”.
“Robert…”
“Sta zitta, per favore” alzò un dito tremando. “Ammetto di essere pigro e di avere un mucchio di cose da fare. Ma è una scelta che non ho fatto solo io, in passato: se non ricordo male, anche tu eri d’accordo! Se non ti andava bene, ora è tardi per rinfacciarmelo. E non dire che non… non osare… io lo so che tu non sei contenta!” disse con una smorfia addolorata.
Charlotte lo fissò con occhi arrossati. Che stava succedendo? Che gli era preso tutto d’un tratto? Ne era quasi spaventata. “Perché dici così?”
“Perché vedo il modo in cui mi guardi!” scoppiò il ragazzo. “Vedo come mi guardi quando rientro in casa, come fossi un estraneo”.
“Io sono contenta quanto torni a casa, invece!” strillò di rimando lei.
“Perché puoi rimproverarmi!”
“Ma… che…” scosse il capo incredula. “Mi hai forse preso per tua madre?”
“Io volevo anche dividere il mio stipendio con te, per farmi restare qui!” continuò lui, con le mani sulle tempie. Stava andando a ruota libera, gli occhi verde mare fissi sul pavimento e le labbra tirate. “Tu non hai voluto che lo facessi!”
“Perché è il TUO stipendio, non il mio! Che razza di persona sarei se lo facessi, me lo spieghi?”
“Una che ascolta una volta ogni tanto!”
“Sei diventato completamente idiota? Robert che discussione è questa?” chiese in lacrime, gettando il pigiama sul letto e sedendosi a terra tremando.
“È il discorso che tu non volevi ascoltare”.
“Come se dovessi, vero? Stiamo risolvendo qualcosa?” ringhiò rossa in volto.
“Almeno io ho detto quello che dovevo”.
“Oh grazie tante. Egoismo puro. Attento a cedermene troppo, potrei scoppiare”.
“Smettila. Ora!” la puntò di nuovo con un dito Rob.
“Stammi a sentire”. Charlotte si alzò di scatto e lo fronteggiò: un metro e sessanta contro l’altezza longilinea del ragazzo. Appena gli fu davanti lo colpì sul petto, “Se questa è una crisi di sfogo, ben venga, la accetto. Il lavoro è pesante e me ne rendo conto. Non sono certo io quella che ti impedirà di esternare quello che senti… Ma non è affatto vero che io ti guardo con rimprovero, per una scelta alla quale ho acconsentito!”
“Mamma mi guarda con meno odio quando le rompo le piante in giardino quando gioco con il cane!”
“Basta…” gesticolò lei, allontanandosi. Non voleva più sentire.
“Posso sapere almeno perché lo fai? Eh? Abbi il buon senso di”
“Perché ho paura che tu te ne vada!”
Il silenzio calò nuovamente, gelido e spietato. Ghiacciò ogni singola cosa attorno a loro, insinuandosi sotto la pelle e scorrendo nel sangue. Un brivido percorse i cuori di entrambi, immobilizzandoli per numerosi attimi.
“C-che…” cercò di ripetere a fatica Rob.
“Ho paura che tu te ne vada, un giorno o l’altro e non torni più. È q-quello che hai scelto, d’accordo… Ma è una cosa di cui ho paura ugualmente. E la colpa è mia… solo mia”.
“Charlotte” allungò una mano disarmato.
“Esci”.
“Per favore”.
“Esci dalla stanza, voglio dormire”.

Il giovane la osservò con le lacrime agli occhi per un breve attimo. Poi annuì e facendo due passi indietro, passò di nuovo per la porta e sparì nel corridoio. I suoi passi rimbombarono sulle scale in legno, attraversarono la cucina svelti, fin quando si sentì la porta sul retro sbattere con violenza e poi più nulla.
Charlotte rimase immobile nella sua posizione raggelata per altri brevi minuti, mentre le lacrime le scendevano senza sosta lungo le guance. Ma non appena sentì il pizzicare delle corde della chitarra provenire dal giardino, si mosse… e corse verso la porta della camera e la chiuse battendoci sopra i pugni con rabbia. Si allontanò poi come se fosse rimasta scottata e spogliandosi in fretta si infilò la maglia oversize, spense la luce e si nascose sotto le coperte.
Pianse… pianse così tanto che a stento ricordava da quanto tempo non lo facesse. Gli occhi le facevano male, le lacrime gonfiavano le palpebre e avevano infradiciato la federa del cuscino… Ma lei non smise, con le mani strette fra i capelli scomposti, seguitava a disperarsi scossa dai tremiti.
Fu solo verso notte fonda, che il sonno la colse e Charlotte si rilassò e scivolò nel mondo dei sogni con un espressione sofferente e indifesa…
E mentre dormiva, la porta della sua stanza si aprì piano piano.
Una figura alta camminò leggera sul tappeto, scostò le coperte dal letto e si infilò accanto alla ragazza. Le cinse i fianchi con le braccia e, appoggiando il mento sulla sua spalla, sussurrò “Nemmeno io voglio perderti...”...
E si addormentò a sua volta.















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spazio per i ringraziamenti :)

Allora, che si dice? Piaciuto? Si, è un po' che non aggiorno, ma è stato un capitolo un po' sofferto, lo ammetto xD Spero comunque vi sia piaciuto!
Vi avverto... si tratta di una storia un po' particolare, e... spero che apprezzerete, del resto io faccio sempre cose strane, no? XD
Ma passiamo ai ringraziamenti:

Piccola Ketty :  ciao tesoro! sono davvero contenta che ti sia piaciuto… è una storia un po’ strana, sai xD spero ti sia piaciuto anche questo e… beh, quello che verrà! Un bacione
SweetCherry : ahahahha!!! Si, la signora Pattinson che strilla dietro a Robby Junior ha fatto scompisciare anche me xD Ma che vuoi farci, Rob dice di se che fosse un bambino tranquillo, ma io sono sicura che, in un’altra vita, per vendicarsi della sorella che lo vestiva da femmina, avrebbe fatto un po’ il prepotente xD  E la nostra Charlotte, qui, è in netto svantaggio!  Grazie mille per il commento, un bacione!
Railen : Ma chère, quel plaisir *-*  Il tuo commento mi fa arrossire… Beh, che dire? Faccio del mio meglio, è una fic che si rivelerà un po’ particolare, vedrai… spero di non arenarmi ^^’’  Sono contenta che ti sia piaciuto il chap passato, è stato divertente scrivere di loro bambini, e… beh, pensieroso per il momento “dark” della ragazza. Spero ti sia piaciuto anche questo *-* Un bacioneeee

Volevo anche ringraziare coloro che hanno aggiunto la storia ai loro preferiti. Ossia:
1 _ Leghy
2 _ Obsetion
3 _ Piccola Ketty
4 _ Railen
5 _ SweetCherry
6 _ vero15star

Grazie infinite a tutti, anche ai lettori silenziosi!
Un bacione, alla prossima…


*beth*


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Capitolo 4
*** 03. chiamata ***


03 Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 3° capitolo – Chiamata
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: eeeeeh… sono imperdonabile lo so, ma… l’università m’ammazza XD  E pensare che ho un libro di 504 pagine (non solo quello) che mi fissa con aria di rimprovero… ma potrà restare lì ancora un pochetto immagino :P   Che dire? Capitolo che m’è costato un certo sforzo ed impegno, non è facile gestire emozioni simili, spero di esserci riuscita e che non sia un emerito scempio… *beth prega intensamente che non le si tirino pomodori… ma nemmeno altro*.  Da questo capitolo in poi si prevedono turbolenze e, piano piano, l’entrata in scena di nuovi personaggi… Woooohaaa, chi saranno mai? Surprise!!
Ora vi lascio alla lettura, ci si vede sotto per i ringraziamenti ;)















3
“Chiamata”







Il sole colpì il viso della ragazza attraverso le tende tirate, e lei arricciò le labbra in una smorfia annoiata. Tirò un po’ le lenzuola sopra la testa e si girò dalla parte opposta sbuffando.
Aveva dormito fondo. O almeno era quello che credeva. Non aveva sognato… il buio riempiva la sua testa, segno che lo stress della giornata prima le aveva offuscato i sensi per tutta la notte.
Controvoglia aprì piano un occhio e osservò la luce che filtrava attraverso le lenzuola sopra la testa.
 
“Ho solo paura che tu te ne vada… e la colpa è solo mia”.
Serrò la palpebra e strizzò entrambi gli occhi, cacciando il viso nel cuscino.
“Lo so che mi odi, conosco quello sguardo di rimprovero ogni volta che torno a casa!”
Premette più a fondo contro la federa e smise di respirare.
“Mi hai scambiato per tua madre? Io non ti rimprovero affatto per una cosa decisa assieme anni fa!”
“Io volevo fare questo discorso da una vita e tu non hai mai voluto ascoltarlo!”
Sentì le orecchie farsi rosse e scoppiare.
“Ha forse senso tutto questo?”
“Io non sono contento di lasciarti sola, e tu non ti vuoi mai fare aiutare!”
“Adesso basta!”
“Ho solo detto quello che dovevo”.

Charlotte saltò fuori dalle lenzuola gridando e si ritrovò seduta sul bordo del letto con il fiato corto. Si posò una mano sul petto e sentì il proprio cuore sbattere forte contro il torace, quasi l’avesse avuto a contatto sotto le dita.
Alzò piano il capo e, con sua grande sorpresa, notò che nella sua stanza regnava il silenzio più assoluto, interrotto solo dal lento ticchettio della sveglia sul comodino… Nessuno stava parlando. Nessuno litigava. Nessuno strillava. Solo echi di un ricordo appena passato.
Impiegò ancora qualche attimo per regolarizzare il proprio respiro e riacquistare la lucidità. Si issò poi con fatica fuori dal groviglio di lenzuola e coperte, e si mise in piedi.
“Ho solo detto quello che dovevo”.
Gemette. Si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi con aria sofferente.
Perché avevano litigato? Non capitava quasi mai… Certo, di pareri discordi ce n’erano. Lei stessa doveva ammettere di essere parecchio pignola riguardo certi aspetti, oltre ad essere più permalosa di Robert.
Ma a parte quello, discussioni come la sera precedente non ve ne erano mai state. O meglio… il vivere insieme, nella stessa casa e affrontare problematiche di vita domestica, li spingeva spesso a prendersi per i capelli e solo grazie a Marie Anne riuscivano a non strapparseli. Dannazione, si trattava di sciocchezze risolvibili e ininfluenti…
Ma quella sera. Quella appena trascorsa, aveva un valore del tutto nuovo. Come una bomba che esplode per metà, rimanendo nascosta sotto terra ancora per un poco… aspettando di riecheggiare nel proprio clamore feroce.
E Charlotte lo sapeva. Uno strano presentimento, che vile strisciava sotto la pelle e si annidava nell’animo, stringendolo sempre più forte. Una sensazione. Un’intuizione. O forse solo consapevolezza? È più facile restare nel dubbio e ignoranza che ammettere le cose, era una storia vecchia come il mondo… Però lei sapeva. Non avevano gridato abbastanza e la discussione era finita troppo in fretta. Gli occhi di Robert lampeggiavano a quel modo in rare occasioni, e quando accadeva arrecavano dolore. E lo avrebbero fatto ancora.
E lei stessa. Non era in grado di pensare. Come poteva? Da dove cominciare? Non avevano mai avuto una vita da definirsi “normale”, con un neo attore a zonzo per casa… e lei con le sue manie di eroismo e tirarsi fuori dai guai senza farsi aiutare. Ridicolo.
Sarebbe capitato di nuovo. Oggi. Domani. Entro una settimana o un mese. Poco importava. Non ne aveva voglia e aveva paura a guardarlo in faccia per rispecchiarsi nello sguardo azzurro che, se infuriato, tagliava come una lama di ghiaccio.

Riaprì i grandi occhi color cioccolata e, passandosi una mano fra i capelli spettinati, avanzò verso l’armadio strascicando i piedi. Fece per aprire le ante alla ricerca di vestiti puliti, quando… qualcosa attirò la sua attenzione. E si fermò, immobile.
Si girò poi su se stessa con uno scatto e piantò lo sguardo accanto al letto, verso la parte che dava vicino alla porta.
C’era un calzino. Bianco. Con tre righe colorate. Enorme. E… non era suo.
Allargò gli occhi, e si avvicinò circospetta. Si chinò a poca distanza e stava per dire “I calzini ora godono di vita propria e vagano per casa?”, quando la porta si spalancò e una testa arruffata entrò nella stanza con aria preoccupata.
“Che hai, che succede, stai bene? È entrato qualcuno dalla finestra?”
Charlotte si voltò a guardarlo e la sua attenzione cadde sui suoi piedi. Uno era nudo, l’altro aveva un calzino. Bianco. Con tre righe colorate. Enorme. Ed era del proprietario che ora la fissava interrogativo dallo stipite della porta.
“Ha-hai dormito qui, per caso?” chiese infine indicano il calzino.
Robert parve cascare dalle nuove, sbattendo contro la terra in maniera dolorosa a giudicare dall’espressione. Si morse la lingua e annaspò per qualche istante.
“Beh… Ecco, è possibile che… passassi di qua e…”
“La domanda è semplice: hai dormito qui?”
“Beh… Si” ammise.
La ragazza alzò un sopracciglio e spostò gli occhi sul letto. Avevano dormito insieme.
Non era la prima volta. Da piccoli lo facevano spesso, finendo poi col ritrovarsi uno con tutte le coperte e l’altra senza. Certo non si aspettava che quella notte lui l’avesse rifatto.
“D’accordo”, disse.
Si alzò e andò verso la finestra per aprirla. La luce la investì. Robert alle sue spalle gettò un rapido sguardo nella camera, allungando il collo, prima di stropicciarsi i capelli e bofonchiare qualcosa.
“Stai bene?”, disse.
“Si. Perché correvi?”
“Perché ti ho sentito gridare” annuì lui di rimando, guardandosi nuovamente attorno. Forse si aspettava di veder comparire un qualche uomo nero da dietro l’angolo dell’armadio.
“Ho gridato? Io?”
“C’è qualcun altro nella stanza?”
“Tu”.
Robert socchiuse gli occhi. “Sssi… ma io sono appena arrivato”.
“Ah…” si fece pensierosa Charlotte, “Allora no, non c’è nessun altro”.
“Quindi hai gridato”.
“Davvero, quando?”
Gli occhi azzurri del ragazzo si fecero più sottili, “Prima”.
“Oh…”
“Hai picchiato la testa per caso?”
“Pure?” sgranò gli occhi lei.
“La scintilla dell’intelligenza stamattina ha fatto cilecca”.
“Almeno io non dimentico i calzini in camera degli altri” rispose, assottigliando gli occhi a sua volta.
“Ma non strillo alle nove del mattino, dimenticandomi di averlo fatto”.
Si fissarono guardinghi per lunghi istanti senza dire una parola, il respiro leggero e il capo inclinato di lato. Non occorreva dire nulla. Era sufficiente.
“Non ho voglia”, disse poco dopo Robert.
“Di cosa?”
“Lo sai”.
Si. Lo sapeva. Non aveva voglia di litigare. Eppure, a giudicare dal colore tendente all’azzurro fosforescente del suo sguardo, la ragazza avrebbe giurato il contrario. Faticava a sostenerne il peso, quasi che l’altra metà della bomba inesplosa fosse nascosta dietro la superficie cristallina verde mare. Ma lui non voleva litigare…
“Non ho voglia”, disse a suo turno Charlotte.
“Di che?”
“Oh, lo sai…”
E si. Lo sapeva. Lei era così. Non voleva che le facesse del male. Non lui. Aveva subito troppa amarezza e maree di ricordi di agonia, senza che lui l’affogasse alle prime luci del mattino. Avrebbe dovuto proteggerla, non mortificarla. Forse scrollarla e aprirle gli occhi su una visuale meno tetra, ma non inchiodarla con assurde preoccupazioni.
Il ragazzo annuì e, dopo aver fatto un respiro profondo, attraversò la stanza e colmò la distanza che li separava. La prese per le spalle e la strinse a sé con forza, cacciandole il capo sul proprio petto.
“Ho dormito qui… perché non volevo farti male a dire quello che ho detto” sussurrò. “Sono stato un idiota… stupido… irresponsabile… gentleman fallito e… pure stronzo”.
“D-da quando dici le parolacce?” bofonchiò lei da sotto l’abbraccio.
“Da quando me lo merito”.
“Io sono stata molto più egoista di te”.
“Nah…” scosse il capo lui. “Abbiamo raggiunto una splendida parità”.
Charlotte sorrise e strinse la maglietta fra i pugni, attirandolo più a sé.
“Ti voglio bene”.
“Anche se ti ho detto che hai mancato la scintilla stamattina?”
“Si… anche se hai detto che ho mancato la scintilla stamattina”.
“Allora ti voglio bene anche io” sghignazzò baciandole il capo.

Scesero in cucina per fare colazione, dopo che Robert recuperò il proprio calzino bianco a righe, e pure enorme, e dopo che Charlotte si diede una rinfrescata per far riattivare la scintilla smarrita.
Era domenica e una lunga giornata li attendeva, nessun programma o appuntamento segnato sui post-it attaccati al frigorifero. L’agenda del ragazzo era abbandonata in chissà quale angolo dello studio, probabilmente di proposito, e nessuno aveva intenzione di consultarla… E i libri di scuola della giovane era rimasti rinchiusi nello zaino al piano di sopra.
“Dov’è la nonna?” domandò lei guardandosi attorno.
“È andata da una vicina… ha detto che forse farà tardi per pranzo”, rispose Robert versandosi del latte nella ciotola. “Allora, che ti va di fare oggi?”
“Non so…” si punzecchiò il naso lei, “Che tempo fa?”
“Se quella cosa… giallina grigina… che sta lassù in cielo, si può definire sole, allora…” azzardò con una smorfia, “Si può dire che non piove”.
Charlotte rise forte, prima di esclamare, “Hei! Perché non mi accompagni al mercato?”
“Al che?”
“Mercato. Sai quell’altra cosa composta di bancarelle e piena di gente che va e viene”.
“Oh. E che di solito compra cose… che tu guarda, non sono mai inferiori al numero dieci?” lagnò prima di alzarsi e andare verso il frigo per prendersi del succo. “E poi, cosa c’è di meglio dello stuolo di miliardi di voci femminili che ti sibilano nell’orecchio ‘Tu devi essere il figlio di Richard e Clare! Ma come sei diventato grande! Fatti abbracciare, tesorino!’… Un pover’uomo non può suicidarsi in questo modo”.
“Robert”.
“La risposta è no, se non avessi capito: adoro le descrizioni pittoresche abbinate alle mie motivazioni”.
“Melodrammatico, ecco cosa sei”.
“No!” alzò un dito lui, con aria furba. “Eh eh! Sono uno che, se deve vendere la pelle, vuole qualcosa di più… mhmm… di più valoroso di un mercato femminile della domenica mattina”, aggiunse cacciandosi una cucchiaiata di cereali in bocca.
“Dimmi piuttosto che hai paura, ti credo di più… tesorino” gli fece l’occhiolino Charlotte.
Robert alzò lo sguardo e la incenerì sul posto.
“Perché devo venire?”
“Eh dai… è un secolo che non ci andiamo, lo sai” abbassò il capo rabbuiandosi un attimo. Lo rialzò poi e aggiunse, “E ci sono cose davvero carine”.
“Hai detto ‘cose’ di nuovo” la puntò con il cucchiaio e la bocca piena di cereali.
“Eh su, non farti pregare. Per una volta tanto che mi va di uscire! Ti prego”.
Non era esattamente sua abitudine farlo, ma… si. Quella volta lo fece. Sfoderò lo sguardo più acquoso e innocente che poté. Si sentì davvero stupida nel farlo, ma a giudicare dall’espressione sorpresa di Robert dovette constatare che aveva buone probabilità di convincerlo.
“Charlotte…” ringhiò Robert, sputacchiando cereali.
“Eh dai! Piagnucoli sempre dicendo che mi barrico in casa” ammise con una nota triste nella voce. Il ragazzo si mosse sulla sedia punto sul vivo da quella affermazione. “Dovresti essere contento se chiedo di scorrazzare all’aria aperta, no?”
“Ma io sono contento” annuì l’altro. “Ma il mercato… NO”.
“Ti prego!”
“Sono io a pregarti” gemette lui.
“Mi stai per caso facendo gli occhioni dolci, Pattinson?” alzò un sopracciglio.
“Stanno meglio a me, che non a te” soffiò di rimando, “Con quella faccia da femminuccia stampata a francobollo sei davvero spaventosa… Sei più credibile quando mi guardi in cagnesco”.
“Io non… guardo mai… in cagnesco…” gracchiò Charlotte.
“Violenta” sorrise Robert, schiacciandole subito dopo l’occhiolino.
La ragazza lo fissò per qualche istante e poi poggiò le mani sul tavolo per fare leva ed alzarsi.
“D’accordo” disse, prima di andare verso il lavello e versare la fine della sua colazione. “D’accordo, scusami. Non ti è mai piaciuto effettivamente, è vero” disse sciacquandosi le mani. “Nemmeno a… papà… piaceva andarci”.
Il ragazzo dai capelli ramati ebbe un sussulto sulla sedia e si diede mentalmente dell’idiota. Perché lo era, perché avrebbe dovuto capire il senso profondo di una richiesta silenziosa e banale come quella.
“Devo finire di studiare, in effetti. Ne approfitto, così oggi pomeriggio finisco di riordinare il soggiorno, e non dovrà farlo nonna” annuì più a se stessa che al suono delle proprie parole.
“Io…”
Charlotte si voltò verso di lui e lo guardò interrogativa.
“Cosa?”
“S-sono uno stupido”.
Lei parve pensarci un attimo. “Beh non è una novità. Ma riguardo a cosa stavolta?”
“Scusami”.
“Che hai fatto?”
Non rispose. Buttò giù tutto d’un sorso la colazione, si alzò e aggirò il tavolo, cacciò la ciotola nel lavandino e prese per mano la ragazza.
“Andiamo”.
“Dove?”
“A cambiarci”.
“Perché?” squittì lei, strattonata per un braccio su per le scale.
“Usciamo”.

Si sentiva egoista. Doveva ammetterlo. Dannatamente egoista. E il perché era semplice. Non le piaceva costringere Robert a fare qualcosa che non gli andava a genio, per di più se lei era consapevole di imbrogliarlo. Ma quella mattina era stato più forte di lei.
Non era sua abitudine mostrarsi entusiasta nell’uscire, e specialmente di propria iniziativa, ed era capitato che in passato Robert avesse dovuto caricarla sulle spalle per farle varcare la soglia di casa e metterla in macchina per uscire a bere una birra con gli amici.
“Charlotte sono dieci minuti che sei chiusa in bagno!” gracchiò lui da dietro la porta, “Te ne do altri sette, e poi vengo a prenderti…”
Lei sbuffò. Non sapeva dare una spiegazione logica al suo agire, o forse non c’era proprio. Semplicemente, le andava. Aveva voglia di scendere le scale, mettersi il cappotto, varcare la soglia di casa e uscire all’aria aperta, sentire il freddo pungente del primo inverno sul viso scoperto e sapere che, man mano che camminava, metteva spazio fra se stessa e il suo rifugio.
“E fanno quattro”, tuonò dal corridoio.
Chiuse i rubinetti dell’acqua e si voltò verso lo specchio incontrando il proprio riflesso. Era cambiata. Non le piaceva ammettere di avere ricordi di quando aveva sedici anni, ma lo rammentava alla perfezione: un’estranea in confronto ad ora. I capelli castani, anche se sempre gli stessi, adesso le parevano più spenti… più anonimi. Gli occhi color cioccolato, la gioia di sua nonna, le avrebbe definite ora due pozze di acqua sporca di terra, senza armonia. E il viso… mai passato inosservato, poteva considerarlo inespressivo.
Doveva quindi meravigliarsi se non le andava mai di uscire? Si sentiva così inutile d insignificante…
A dir la verità nemmeno quella mattina si sentiva diversa. E dunque? Cosa le prendeva? Cosa la spingeva a trascinare il suo migliore amico al mercato, dopo lungo tempo di reclusione? Forse lo sapeva, ma ammetterlo era troppo doloroso che non il semplice immaginarlo…

Come se avesse intuito la confusione nel cuore della ragazza e col timore che potesse cambiare idea da un momento all’altro, Robert fece irruzione nel bagno strillando.
“Da da daaan! Tempo scaduto!” la prese per le braccia e, mentre lei gracchiava di rimetterla a terra, se la caricò in spalla e si avviò, “I gentili passeggeri sono pregati di allacciare le cinture, premurarsi di non sbattere la testa contro la ringhiera delle scale mentre scendo… e di non arpionarmi la schiena nel tentativo di scendere, perché NON MOLLO LA PRESA! AHIA!”

Uscirono di casa pochi minuti dopo, stretti nelle loro giacche a vento.
“Dovresti legarli quei capelli, ti vanno dappertutto” disse Charlotte passando una mano sul ciuffo dell’amico.
“A me piacciono così” fece spallucce lui, prima di chiudere a chiave la porta. Scesero in strada e si diressero verso il piccolo parco che separava la zona abitata dal quartiere di negozi e, ovviamente, del mercato.
Era una ricorrenza non molto recente, quella del mercato, pressappoco da quando i ragazzi avevano dieci e dodici anni. Le loro mamme amavano recarsi fra quelle bancarelle colorate e fermarsi a chiacchierare con le amiche al banco della frutta o davanti all’esposizione di fiori secchi intrecciati, per poi rincorrere i propri bambini che, senza ombra di dubbio, si stavano contendendo una mela caramellata a suon di capelli tirati. Era un’usanza di famiglia… un appuntamento al quale non si doveva mai mancare… ovvio, fatta eccezione per i papà, che trovavano puntualmente qualcosa di grande importanza da sbrigare.
Ma da quando i signori Sullivan erano passati a miglior vita, tre anni fa, Charlotte si era come spenta. Aveva perso tutto. L’affetto. La fiducia. La voglia di sorridere. La voglia di vivere. E persino quelle piccole cose che costellavano le sue giornate di ragazzina, erano bruciate. Svanite come cenere ad un colpo grigio di raggio di sole. Aveva smesso di uscire di casa. Aveva perso parte dei propri amici. Aveva smesso di mangiare. Aveva smesso di dormire.
Da allora Robert era piombato nel suo soggiorno, dichiarando di rimanerci a vita. Otto mesi dopo la morte di James e Alice, si era inventato di tutto per strappare alla ragazza almeno un mezzo sorriso o uno sguardo poco più acceso… La svegliava la mattina col suono della chitarra. Le portava la colazione a letto e, a volte, la rapiva da scuola per portarla al parco o al centro commerciale per fare compere. Lui, che di shopping non poteva nemmeno sentir parlare! Una volta, persino, aveva organizzato un viaggio per due, in treno, sino al mare… per farle vedere la spiaggia e le onde che si susseguivano nel loro lento moto, come una cantilena antica.
E i suoi sforzi avevano dato i loro frutti. Dopo un anno e mezzo, Charlotte aveva ripreso a parlare e… avevo riso. Fu festa grande. Le regalò un piccolo anello d’argento inciso, che lei non toglieva mai.
Erano tornate poi, pian piano, le vecchie abitudini: uscire il sabato sera in qualche pub con gli amici; sperimentare ricette culinarie ai fornelli e… andare al mercato della domenica mattina. Solo che Robert riusciva spesso a svignarsela in tempo, come ottimo erede delle tradizioni maschili.

Camminavano fianco a fianco, ora. Charlotte con la testa china e la mani affondate nelle tasche, lo sguardo perso fra gli spazi delle pietre che componevano il marciapiede.
E il ragazzo la osservava. Poco dietro di lei, la fissava dall’alto e si domandava quanto male effettivamente era riuscito a farle la sera prima.
Charlotte era una ragazza dal carattere ribelle. Attaccabrighe e testardo, e lui aveva avuto modo di provarlo in tutte le maniere possibili. Ma era anche vero che quando occorreva, era la persona più sensibile e dolce che uno potesse desiderare di avere accanto. I suoi alti e bassi, insomma…
Una litigata rabbiosa come quella, beh… sarebbe stata una bazzecola per lei, niente più di un battibecco per il diritto di guardare il programma televisivo preferito. Ma questo… anni fa. E lui avrebbe dovuto saperlo.
Era cambiata. O forse era sempre la stessa. O forse, era entrambe le cose. Solo più fragile e delicata.
Non è che non apprezzasse il suo lavoro di neo attore, sapeva che qualunque cosa fosse accaduta, lei lo avrebbe spalleggiato e consigliato, nonostante fosse evidentemente gelosa delle attenzioni che non poteva più dedicarle. Solo… aveva paura. E più di lui.
I propri genitori, prima o dopo, ci devono lasciare… ma non in un incidente stradale. Non nel fiore dell’adolescenza. Non senza prima aver detto “mi dispiace, ma ti devo lasciare”, o regalato una carezza o un ultimo sorriso…
Marie Anne era rimasta, una nonna splendida, ma non con la forza di un tempo, nonostante a Charlotte bastasse. Casa sembrava meno vuota e, quando la donna rideva, sembrava di sentire ridere James da qualche parte nelle stanze. Alle volte il dolore è l’unico modo per ricordare e conservare quello che ci è stato portato via ingiustamente. E questo, Robert, avrebbe voluto che fosse capitato in una circostanza ben diversa.
Fece per aprir bocca, dire qualcosa come… “Fa meno freddo di quanto pensassi” o “In fondo non mi andava di stare in casa, il mercato non dovrebbe essere così terribile”, ma di colpo non seppe come mettere insieme le parole. La gola gli si era seccata.
Vederla sorridere e abbassare meno lo sguardo di fronte agli altri era ancora una conquista recente e vi erano momenti in cui lei si chiudeva in camera per uscire con le guance in fiamme e rigate di lacrime. Era come un fiore da curare con attenzione e parsimonia… fragile come i boccioli al gelo dell’inverno.
In realtà nessuno gli aveva chiesto o ordinato di assumersi un compito come quello, perché di conseguenze ne aveva comportate anche per lui. Seguirla, consolarla e sostenerla l’avevano costretto alla reclusione per parecchio tempo: serate in casa, seduti sul tappeto circondati da fazzoletti appallottolati e la testa di Charlotte sulla propria spalla, anziché essere fuori a bighellonare per le strade con una bottiglia di birra in mano in compagnia dei migliori amici. Oppure… implorarla di mangiare mezzo piatto di pasta e imboccarla, per poi vederla vomitare, piuttosto che lanciarsi patatine fritte dal piatto in un fast food dove era solito pranzare con i vecchi compagni di scuola.
Non era stato il medico a prescriverlo. E oltretutto, da piccoli, loro si odiavano. Terribilmente.

Robert sorrise e pensò che non v’era motivo di dare giustificazioni. A se stesso o ad altri.
La risposta era semplice, quando implicita, quanto scontata e ovvia. “Perché si”…
Banale. Poco esplicativo. Breve. Ma che importava? L’aveva fatto e, se avesse dovuto tornare indietro, avrebbe ricompiuto ogni singolo gesto.
Il suo sorriso si allargò. Allungò il passo, afferrò il braccio della ragazza che camminava a testa china, la fece voltare e la strinse a se forte inspirando a fondo il suo profumo.
Charlotte rimase immobile per qualche istante prima di dire, “Che c’è? Che ho fatto?”
“Ssshhh…” rispose lui, con gli occhi chiusi e il mento sul suo capo.
Lei alzò di poco lo sguardo per intravederlo con la fronte corrucciata, prima di stringerlo sui fianchi a sua volta.
“Rob?”
“Sto solo pensando che… anche se non valgo poi così tanto come persona, ho fatto tutto quello che potevo per vederti tornare a sorridere” disse a fatica, “E giuro che lo rifarei da capo”.
Charlotte esitò un istante. “Ho fatto qualcosa che non dovevo?”
“No”.
“Sei ancora arrabbiato con me?”
“No”, sorrise lui ancora ad occhi chiusi.
“Perché pensi di non valere tanto?”
“Beh… onestamente credo ci siano al mondo molte più persone intelligenti e coraggiose di me” fece spallucce, “Era un modo per giustificarmi, in maniera vile, se non ho fatto abbastanza per te”.
E fu allora che la ragazza si sciolse di poco dall’abbraccio, gli passò una mano sulla guancia e disse, “Io dei grandi cervelloni non me ne faccio niente. Vivo di semplicità”. Una lacrima le solcò il volto, “E mi sento in colpa ad averti costretto a dover rinunciare a parte della tua vita per me… Nessuno ti aveva chiesto di…”
“Ssshhh… zitta, non dire niente” strinse gli occhi. “Non dire niente”.
Le baciò la fronte forte per poi stringerla ancora al petto.
“Va bene così” aggiunse infine, “Va bene così”.
Restarono abbracciati ancora qualche minuto, senza dire niente, prima che Charlotte gracchiasse “Le pettegole ti aspettano!” per fargli tornare il solito sorriso sghembo.

Lo spazio verde che li circondava, fiancheggiato da alberi e panchine, andò pian piano aprendosi in una piazza incastrata fra due vie opposte, da cui si alzava un fracasso e un cicaleccio simili a quello che Robert definì in pochi secondi “Pollaio?”
“Cosa?”
Il ragazzo strabuzzò gli occhi e inchiodò i piedi a terra. Davanti a loro, si estendeva una miriade di bancarelle colorate, schiamazzi di bambini che si rincorrevano fra i passanti e donne che patteggiavano i prezzi con i venditori. Una visione bizzarra e accesa che invogliava al movimento, allo spulciare oggetti particolari e insoliti fra un banco e l’altro, chiunque avrebbe fatto volentieri due passi. Beh… chiunque eccetto il signor Pattinson junior.
“Ti senti bene?” gli chiese Charlotte mettendogli una mano sul braccio.
“Casa”.
“Eh?”
Robert scosse il capo, e cerco di ritrovare il senno. Si sentiva stupido, poco più del solito ad essere onesti, ma quella situazione lo metteva terribilmente a disagio. Era oltremodo più forte di lui.
“Oddio”. Disse con gli occhi ridotti al terrore puro. “È spaventoso. No… è più di spaventoso… è viscido. È infernale. È pullulante di donne… e quando dico donne, intendo donne sposate”. Si schiaffò di colpo le mani sulle guancie. “La mia faccia. Non sarà più la stessa domani. Le pettegole si mettono sempre lo smalto, lo sai vero? Io lo odio. E poi stringono quando ti pizzicano sugli zigomi: ma che vogliono, spremermi?”. Si portò poi le mani sullo stomaco. “Oddio. Vomito. Lo senti? È l’omino del mio stomaco che sta STRILLANDO all’omino del cervello di fare retro front… No, non è una cosa fattibile che io vada lì in mezzo, non sono eroico come dovrei. E poi… papà non c’è mai venuto, tranne quando mamma l’ha minacciato di farlo dormire sul divano per due settimane. Ma tu non puoi farlo perché io già ci dormo sul divano. Perciò io me ne vado” disse facendo due passi indietro.
Charlotte, che era rimasta in silenzio a fissarlo sconvolta per tutto il monologo, disse “Hai finito?”
“NO!” urlò lui. “NO! Voglio andare a casa!”
“Robert sono… solo… donne…”
“Pettegole!”
“Da quando hai così paura di loro?”
“Da quando mamma mi ha lasciato da solo con loro in soggiorno, seduto in mezzo alla signora Figg e alla signorina Corks per mezz’ora! Non avevo più le guance alla fine della giornata!”
“Avevi dieci anni, non puoi ricordatelo…” sospirò insofferente Charlotte.
“Beh le mie guance se lo ricordano! Me l’hanno detto loro!”
“Io… giuro che non so cosa dire” scosse la testa lei, incredula dell’idiozia del ragazzo. “C’era qualcosa nel latte di stamattina?”
“Se ci fosse stato, sarei molto più felice e magari all’ospedale anziché qui!”
“Ma basta! Non puoi inventarne una nuova ogni due secondi!”
“Casa… ti prego…”
Charlotte lo prese per mano e, intrecciandola alla propria con forza, marciò verso il mercato colorato che li aspettava allegro e chiassoso.
E con sommo dispiacere del neo attore vi rimasero per ben due ore!

Era come tornare bambini, come cacciare la testa dentro un’enorme bolla di sapone sulla cui superficie venivano proiettate immagini appartenenti ad un vecchio album di fotografie. Ripercorrere i piccoli vicoli fiancheggiati dalle bancarelle, risentire nelle orecchie le voci mai cambiate delle signore indaffarate… faceva ringiovanire di dieci anni. E non potendo fare a meno di sorridere, Robert si rivide bambino, con i jeans arrotolati in fondo alla caviglia, correre di fronte a se stesso e guidarlo attraverso un mondo che traspirava spensieratezza e ingenuità.
Si fermò, le mani nelle tasche, ad osservare rapito la scia del proprio ricordo scivolare fra la folla ridendo e ripetendo allegro “Ah Ah Ah! Questa volta ho vinto io, Charlotte! Il Re della giornata sono io!”…
Si voltò alla sua sinistra dove la ragazza era intenta ad osserva strane collane colorate appese ad un tendone, e abbozzò ad un sorriso sghembo nell’immaginarla bambina e vivace come un pirata in miniatura.
Perché le cose non potevano essere sempre così?, si chiese.
Ciò che era accaduto non poteva essere cambiato, ma era necessario rovinare anche quello che era rimasto? E il problema, con suo enorme rammarico, derivava più da lui che non dalla giovane. La scelta di un lavoro così in vista era il biglietto d’andata per un viaggio che non era detto avrebbe condotto alla meta desiderata.
Ma ormai era troppo tardi, non poteva più tirarsi indietro. “Una volta che hai cominciato a ballare, devi continuare a farlo” gli dicevano spesso quando, al lavoro, lo vedevano rattristito. Ma a che prezzo? Ballare da soli non era affatto gradevole. E non perché lei non avrebbe accettato di stargli accanto, ma perché… anche se faceva male ammetterlo… ormai erano su due strade diverse.
Abbassò lo sguardo passandosi una mano fra i capelli, mentre sentiva ancora il fantasma di se stesso ridacchiare per poi vederlo infrangersi contro Charlotte che ora gli stava di fronte.
“Ti senti bene?”
Lui sospirò e disse, “Pensavo a quel giorno in cui avevo vinto al tiro a segno, con le pistole ad acqua… Ricordi?”
La ragazza sorrise ed annuì.
“Tu ti eri versata il catino addosso” aggiunse sogghignando.
“Beh… diciamo pure che qualcuno aveva aiutato il catino a rovesciarsi” si finse falsa meditabonda lei, prima di sentire scoppiare a ridere l’amico, che la abbracciò e insieme continuarono il giro del mercato.
Arrivò l’ora di pranzo ed i ragazzi fecero ritorno verso casa agitati e ancora elettrizzati. Incontrarono Marie Anne carica di sacchetti di carta e sportine colme di verdura che si avviava davanti a loro.
“Nonna, ti aiuto!” la raggiunse la nipote.
“Bambina” la salutò la donna, “Ho approfittato per fare una capatina al mercato e fare la spesa” spiegò.
“Oh… Si, anche noi siamo… andati al mercato, si” annuì con imbarazzo l’altra, prima di allungare il passo con i sacchetti verso la porta di casa.
Marie Anne, rimasta indietro, si voltò sorpresa verso il ragazzo rimasto muto e chiese, “Dove?”
E Robert annuì.
“Sei riuscito a farla uscire di nuovo, giovanotto?”
“A dire la verità ha voluto uscire da sola”.
La nonna strabuzzò gli occhi e li riportò sulla nipote ora in casa, “Beh questo è…”
“Positivo”.
“Direi splendido!” esultò lei, “Non essere avaro di complimenti, lo so che sei molto più sollevato di me” commentò avviandosi a sua volta verso casa, con Robert alle calcagna per aiutarla a portare il rimanente della spesa.

Il resto della giornata trascorse in soggiorno fra pagine di libri, lo strimpellare della chitarra e il profumo dei biscotti di Marie Anne che giungeva dalla cucina. Charlotte era accoccolata sul divano, nascosta sotto la coperta e con un libro di scuola aperto sulle ginocchia, la matita morsicata in bocca e lo sguardo concentrato.
“Fra poco è Natale”.
Lei alzò gli occhi. “Manca almeno un mese”.
“Si lo so… dico solo che si avvicina” rispose l’amico aggiustando una corda dello strumento.
“Hai voglia di fare qualcosa in particolare?”
Robert la guardò e fece spallucce, “Del tipo?”
“Non saprei… una fuga di qualche giorno in un paese remoto del mondo?”
“Giappone?”
“Troppo lontano”.
“Antartide!”
“Ho già il mio pinguino personale…” lo prese in giro lei, “E fa troppo freddo”.
“Credo che stare insieme sia l’importante, giusto? Però possiamo invitare qui Tom e la tua amica Julia per la vigilia, se ti va”.
“Beh… perché no?” sorrise Charlotte prima di tornare al libro, “Ma non voglio quel tizio… come si chiama, Gabriel?”
Robert scoppiò a ridere, “E perché mai?! È simpatico!”
“Mi fissa sempre”.
“Fissa… qualcosa di te, non te in particolare” cercò di soffocare le risa il ragazzo.
“Non voglio sapere cosa”.
“Peccato, in fondo non è da biasimarlo” si finse offeso.
“Robert!”
E lui scoppiò a ridere nuovamente, mentre dalla cucina Marie Anne li chiamava dicendo che erano pronti i biscotti. Non se lo fecero ripetere due volte e fecero per precipitarsi verso l’altra stanza, quando il giovane disse “Mi sono tagliato con la corda, mi lavo le mani e arrivo: non mangiare tutti i biscotti o Gabriel non ti guarderà più!”, e scappò prima di ricevere un calcio nel sedere.

Si stava asciugando le mani quando sentì vibrare il cellulare, lasciato sul mobile nel corridoio. Credeva di averlo spento. Con una mossa fulminea scivolò oltre il bagno e afferrò l’oggetto affinché non attirasse troppo l’attenzione di Charlotte; poi tornò sui propri passi e si chiuse nello studio.
“Dannazione” disse, non appena lesse il nome lampeggiante sul display. Sospirò e si premette qualche secondo la narice del naso, prima di dire “Pronto?”
Era Sarah, la sua manager.
“Si sono in casa… No, casa di Charlotte… Infatti, ero fuori, sono tornato da poco” precisò con una punta di acidità. “Immagino che ci siano novità: è andata male, vero?” sembrava quasi augurarselo, come se di punto in bianco quello stupido ruolo non avesse più alcuna importanza. Solo lui e quella donna sapevano che mesi prima aveva già tentato l’audizione per Edward Cullen ma, al momento di mostrarsi, si era tirato indietro per paura. Quella ora era la seconda volta… e in cuor suo cominciava a maledire se stesso per averci riprovato.
“… ah” mormorò infine.
Come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco si lasciò andare e crollò sulla sedia accanto alla scrivania, portandosi una mano sul viso, “Si… sono ancora qui” annuì, e avrebbe voluto aggiungere ‘purtroppo’.
“Certo, ovvio, sono più che contento!” esclamò. “Come sarebbe a dire non sembra: è solo che… avevo perso le speranze, sai… una produzione americana, è un colpo che non abbiamo mai tentato prima, devi darmene atto. … Davvero? Beh non vedo l’ora di conoscerla… A mamma e papà lo dirò stasera, passerò prima di cena…”.
Ed arrivò una delle domande alle quali non avrebbe mai voluto rispondere. “Charlotte… è… contenta. Si. Lei è… entusiasta del progetto” sputò controvoglia. “Le ho… raccontato della trama e del personaggio, dice che non vede l’ora di vedermi sullo schermo… È sempre stata fiera, dovresti saperlo, lei si fida di me” aggiunse per poi mordersi la lingua.
E giunse anche la seconda domanda indesiderata, anche se fu lui stesso a porla.
“Quando dobbiamo partire?”. Strizzò gli occhi nel sentire la propria voce suonare così formale e atona. “… così presto?!”. Per poco il telefono non gli cadde di mano. “… ma… Farei a mala pena Natale qui! …si, capisco sia una grande opportunità, ma…”.
La sua voce si raggelò mentre sentiva discorrere quella della manager all’altro capo della linea, quasi appartenesse ad un mondo al quale lui non avrebbe mai e forse fatto parte completamente. Perché non lo voleva. Perché non poteva. Perché non era come gli altri.
“Voglio passare qui il Natale” esclamò, come fosse un ordine. “Non mi importa, Kristen Stewart è americana, non è molto lontana da casa, scommetto! … Non mi interessa, trova un modo, per favore! Sarah… te lo chiedo in ginocchio…” supplicò sull’orlo di una crisi isterica. “… d’accordo… il 26. Farò in modo di farmi trovare impacchettato e pronto per l’arrembaggio sulle nuove terre” cercò di sdrammatizzare, più per sollevare se stesso che non per rendersi simpatico.
“D’accordo. Ci sentiamo fra qualche giorno… Aspetto una tua chiamata, come vuoi… Buona serata anche a te” disse chiudendo la comunicazione, per poi aggiungere “E grazie per averla rovinata a me”.

E mentre era ancora con il cellulare sospeso a mezz’aria e lo sguardo perso oltre la finestra nel tentativo di trovare un modo di dirlo alla ragazza, si sentì risuonare nel corridoio la risata allegra di Charlotte che era venuta a cercarlo.
“Cosa le dico ora?” si chiesa, prima che la porta dello studio si aprisse con un tonfo.
“Hei! Che combini? I biscotti li ho mangiati tutti, ahah!”
 











..........





Spazio ringraziamenti :)

Ed eccoci qui! Allora che ne pensate? Fa schifo… ahahaha! Lo so, l’università mi ha bruciato anche l’unico neurone esistente responsabile della mia serietà, non ho più ritegnooo!! Cooomunque, che succederà ora al nostro Polletto Bobby e alla cara Charlotte? E che succederà alla Vigilia di Natale? Eheee… nemmeno io lo so, bwahahaha!!  
I personaggi che compariranno più avanti sono… beh, non molto “famosi” qui sulla pagina delle fic, ma lo faccio proprio per questo: sono troppo simpatici e meritano di essere “raccontati” XD

Ma passiamo ora ai ringraziamenti:
Piccola Ketty: wow… mi commuovi sai? *-* sono così contenta che ti sia piaciuto… Bobby è tenero, già, e mi sembrava che la scena finale gli si addicesse! Cioè… secondo me lo farebbe! Un bacione e spero che anche questo nuovo chap ti sia piaciuto, baci!!
Satyricon: ti ringrazio moltissimo per i complimenti! Felicissima che ti sia piaciuta! E si… Charlotte è un po’ pazzerella: arrabbiarsi per una teglia, solo lei poteva farlo xD  un bacione!!!
SweetCherry: anche a te scoccia per Kris? Beh… mi sono ispirata a quando lui scherzava dicendo che lei era uno dei motivi per cui voleva fare il film, che poi l’abbia detto seriamente non so deciderlo, ah xD  Spero che anche questo nuovo chap ti piaccia, mi spiace per la lunga attesa, spero di aver rimediato! Baci
Railen: ehiiii!!! Wow, grazie, quanti complimenti *me arrossisce* … e mi fai ridere per la Stew, e so che mi picchierai fra qualche capitolo, ma non ti spoilero troppo, buahahah! È un personaggio enigmatico kris, mi tornerà utile, sisi :)  E… Charlotte e Rob sono… come dire… due pezzi opposti di un unico puzzle ma si completano, compensando uno con l’altra *oddio che poetica*  che mi dici di questo chap nuovo? Un bacione cara, e grazieee <3

E un grazie anche a tutti coloro che sono lettori silenziosi e… per le nuove aggiunte ai preferiti, siete nei miei cuori *-*
Inoltre, dato che non credo di aggiornare per il 25, auguro a tutti un grandisssssimissssimo NATALEEE! Auguroni, di cuore e spero che lo passiate bene… in serenità, che ce la meritiamo un po’ tutti direi ;)
Un bacione

beth

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Capitolo 5
*** 04. è tempo di crescere ***


04
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 4° capitolo – È tempo di crescere
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Uuuuaaaahhhh!!! Beh dai, questa volta non è passato un millennio dall’ultimo aggiornamento, visto che brava? *-* Allooora, il capitolo, magari a voi non piacerà nemmeno un po’, ma… a me si. A dire il vero non so perché, ma vedere Robert sotto questa luce mi riempie il cuore d’orgoglio e tenerezza. Magari non ci sono andata vicino manco per un millimetro alla sua personalità, chissà, io spero di si ;P
Non vaneggio più e vi lascio alla lettura, ci vediamo sotto :)















4
“È tempo di crescere”







Un momento. Veloce. Rapido. E glaciale. Che penetra nella pelle. Raggiunge i nervi e li annichilisce, per poi raggiungere la testa e tramortire il cervello.
Dura un attimo. Passa in fretta. Ma è letale. Per la tua coscienza. Per il tuo animo. E per quello che ne deriva dopo.

“Allora? Che ti prende?” lo guardò la ragazza, interrogativa. “Niente più biscotti?”
“S-scu… c-cosa?”
Robert la fissava come se fosse stata la prima volta che se la ritrovava davanti. Come se fosse stata uno strano alieno disordinato, piovuto dal cielo… o forse l’alieno era lui. E si trovò d’accordo con la seconda ipotesi.
“Biscotti” alzò un sopracciglio l’altra. “B-i-s-c-o doppia t e termina in i. Biscotti”.
“So cosa sono dei biscotti” scattò come una molla lui, occhi socchiusi. “Che vuoi?”
“Vieni in cucina o ti ci devo portare di peso? Perché sappi che non lo farò, ahah!”
Erano nel piccolo studio e Robert vi era rinchiuso dentro da almeno un quarto d’ora, dopo aver detto che si sarebbe solo lavato le mani… Charlotte si era preoccupata ed era andata a cercarlo, aveva spalancato la porta con un sorriso tra il divertito e il dispettoso per poi lasciare spazio ad un’occhiata preoccupata nel vederlo con la testa china sulle ginocchia e le mani serrate fra loro con forza.
“Non mi va di mangiare i biscotti” disse infine il ragazzo.
“Oh. P-perché no?”
“Perché no” rispose, alzandosi in fretta dalla sedia e superando l’amica.
“Ma fino a poco fa avevi detto che…”
“Quale significato della parola NO, non ti è chiaro Charlotte? Non insistere” la freddò lui, andando verso il soggiorno.
La mora rimase inchiodata al pavimento dello studio, fissando ancora il punto in cui era sparito, mentre il tono acido e pungente con cui le aveva detto ti tacere aleggiava ancora nell’aria. Ebbe un tremito. Cos’era successo? Aveva detto qualcosa di sbagliato? Forse non doveva confessare di avere un’antipatia per l’amico di Robert? Alle volte, doveva ammetterlo, lei sapeva di parlare senza riflettervi prima, non lo faceva apposta, era parte della sua indole… Doveva averlo rifatto un’altra volta quindi, doveva essere stata scortese.
“Non ne faccio mai una giusta, vero?” sbuffò, passandosi una mano sul viso stanco. “D’accordo… andiamo a chiedere scusa”.
Attraversò il corridoio a grandi passi, gettò un’occhiata a sua nonna seduta in cucina in silenzio e fece per andare in soggiorno a discutere con il ragazzo quando…
“Senti, è probabile che io abbia detto qualcosa che non andav…” ma si interruppe di colpo e fissò con occhi sgranati la scena che le si parava davanti. “Che… c-cosa stai facendo?”
“Non è evidente?” rispose Robert chiudendo la zip della giacca. “Vado a casa”.
“M-ma… perché scusa? Sei a-arrabbiato per quello che ho detto? Io non credevo che”.
“Per favore, falla finita” alzò la voce di nuovo lui, prima di chinarsi a terra, sistemare la custodia della chitarra e poi caricarsela in spalla. “Torno a casa perché mamma e papà non mi vedono da quasi un mese. Sarebbe il caso che siano messi al corrente della mia esistenza”.
“Ma poi torni? Per cena, vero?” disse in fretta lei con gli occhi lucidi.
Robert non rispose. Si cacciò la cuffia di lana scura in testa e le passò accanto, dirigendosi verso la porta.
“Ciao Marie Anne…” disse, con un gesto incerto della mano. La donna lo squadrò cupa senza dire una parola, ma il suo silenzio ne valeva per mille. E il ragazzo, punto sul vivo, abbassò il capo e fluttuò verso la porta.
“Robert!”
Non appena appoggiò la mano sulla maniglia, quella di Charlotte si serrò sulla sua e la strinse. Rimasero immobili entrambi, come congelati d’improvviso da un incantesimo.
“Ti ho fatto arrabbiare, dimmi perché?”
Lui le dava le spalle, non riusciva a vederla in volto, ma sapeva con esattezza che era sull’orlo delle lacrime, la voce la tradiva.
“Nessun perché. Torno solo a casa, è mio diritto, no?”
“Perché non mi guardi in faccia?”
Avrebbe fatto meglio a non chiederlo. Robert si voltò e fu come se un lampo avesse attraversato la stanza in quel preciso momento. I suoi occhi… azzurro verde come l’oceano… grandi e profondi… erano l’esatto ritratto dell’ira. Bruciavano. Come una scossa elettrica che prende allo stomaco e scuote con così tanta forza che, per riuscire a resistere, bisogna solo ammettere di essere deboli e distogliere l’attenzione. E così Charlotte fece. Abbassò la testa e deglutì.
Lui la guardò dall’alto, senza cambiare espressione, per qualche istante, smettendo persino di respirare. Poi, come mosso da un’improvvisa agitazione che non poteva più reprimere, si scollò dalla presa della ragazza, girò la maniglia e disse, “No, non torno per cena”.
Uno spostamento d’aria, la porta si chiuse con un tonfo e la sua ombra sparì oltre i vetri dell’entrata. Poi nulla.

“Bambina…”
Charlotte rimase con lo sguardo inchiodato alla porta. Quella stessa porta che lui le aveva quasi sbattuto in faccia. Quella stessa porta che ora, lei, cercava di non spalancare per poi correre in strada, inseguirlo, tirargli un pugno sul petto e strillargli quanto lo odiasse.
“Bambina…”
Aveva sbagliato. Era vero, lei non rifletteva, specialmente quando era stanca, e diceva cose che potevano ferire… lo sapeva, ma oltre al chiedere perdono e quale fosse la ragione, cos’altro poteva fare? Del resto, quante altre volte lui la trattava con sufficienza e dispetto? La sera prima avevano litigato per colpa sua… Era necessario, ora, farne una questione di stato se lei aveva mancato di tatto?
“CHARLOTTE!”
La ragazza ebbe un sussulto e si voltò stranita verso sua nonna, all’entrata della cucina.
“Che cosa c’è?”
“La porta ha una particolare attrattiva della quale sono all’oscuro?”
Lei storse la bocca e roteò gli occhi, schioccando poi la lingua con insofferenza.
“Dunque?”
“Che cosa, nonna?”
“La morale?”
Era chiedere un po’ troppo. Gli occhi della ragazza punsero e si arrossarono di colpo e, prima che la voce le tremasse, disse secca, “Nessuna morale. Ha detto che non torna per cena. Ha preso la chitarra… Starà via un po’. Cos’altro devo aggiungere?”
Detto questo partì alla volta delle scale, salendo i gradini a due a due, strillando “Non ho fame, mangia pure quando vuoi”. E per la seconda volta, un’altra porta sbatté. Poi il silenzio.
Marie Anne sospirò lentamente, abbandonando il capo allo muro e azzardò ad un sorriso triste.



Un passo, e poi un altro. Camminava da cinque minuti, ciondolando da un lato all’altro del marciapiede, come fosse ubriaco o sonnambulo… Svoltò poi l’angolo e, appena trovò una panchina, lasciò cadere la chitarra a terra e si sedette di peso.
Digrignando i denti, strinse le mani fra loro, sino a intravedere le nocche sotto la pelle; si portò le gambe al petto serrandole fra le braccia e… dopo due colpi di tosse… cominciò a piangere.
Si dondolava come un bambino che cerca di distrarre l’attenzione dal dolore che si propaga dall’interno come una piaga, mentre continuava a ripetersi “Adesso passa… andrà tutto bene… adesso passa”.
Nascose il viso fra le ginocchia e strinse sulle tempie, impedendo ai pensieri di scorrere nella mente, per fermare il flusso di confusione e di ansia che lo assalivano come un’esplosione, come un’eruzione che, tuttavia, non era stato lui a causare.
“Ti ho fatto arrabbiare, vero? Dimmi perché!”
Tossì di nuovo e il pianto si fece più forte. Slacciò la presa della mani e si coprì gli occhi, ormai fradici, nascondendoli con vergogna.
“La regista richiede la tua presenza sul set, in fretta, dovresti presentarti là prima di Natale”, aveva detto Sarah. E la sua voce ferma di donna indaffarata risuonava così distorta e fastidiosa.
Lui era nello studio e Charlotte era entrata ridendo e richiamando la sua attenzione. Cos’altro poteva fare? Cosa doveva dire? Ammettere che aveva ricevuto il via per il mondo in cui lei non poteva mettere piede?
“Perché non mi guardi in faccia?”. E ancora, “Torni? Per cena?”
Robert batté il pugno sulla panchina, prima di spalancare gli occhi azzurri e cacciare un urlo straziato che avrebbe fatto agghiacciare chiunque, per poi accasciarsi sullo schienale e tornare a piangere.
Si. Piangere. Perché era tutto ciò che gli rimaneva da fare...
Beh, in molti, probabilmente, in quell’istante avrebbero potuto commentare: “Quel tizio è tutto strano! Tanti problemi per cosa? Per una telefonata che frutterà soldi? Un’infinità di idiozie, dovrebbe essere contento!”
E da un lato era vero. Il nuovo progetto in cui stava per imbarcarsi gli avrebbe fatto guadagnare soldi (quanto ancora non lo immaginava), anche se lui non amava dare peso al denaro, non gli importava.
Ed era anche vero che, a livello professionale e d’avventura, avrebbe fatto la conoscenza di nuove persone, in particolare una presso cui coltivava una grande ammirazione… e non vedeva l’ora di incontrarla.
E… era vero inoltre che sarebbe stata l’ennesima prova che avrebbe fatto luce sul quesito che spesso si poneva: recitare era davvero la sua vocazione?
Ma a parte questo? C’erano altre motivazioni positive? No.
“Poi torni?”
Tossì più volte, portandosi le mani sulle orecchie, ma sapeva che anche diventando sordo, quella voce piena d’angoscia non se ne sarebbe andata. Veniva dal petto, veniva dall’animo e non sarebbe sparita.

Si era comportato da perfetto idiota. Anzi, peggio, da criminale o da truffatore. Provava vergogna e disprezzo per se stesso, provava disgusto, provava rancore. Si sarebbe tolto la pelle di dosso se fosse bastato a farlo sentire meglio…
“Dio… se potessi mi piglierei a pugni da solo. Pattinson, quanto sei idiota”, ringhiò a se stesso, trattenendo l’impulso di auto-colpirsi. E a giudicare dallo stato delle cose, gli avrebbe fatto bene, alla coscienza e per un po’ non avrebbe pensato ad altro che al dolore fisico.
Si alzò in piedi, le braccia sopra la testa e prese a camminare avanti e indietro, come una bestia in gabbia.
“Potevo dirle: ha chiamato lei… Sarah… e ha detto che devo partire… presto” parlò in fretta, di fronte ad un’immaginaria Charlotte. “Lei dice che deve essere prima di Natale. Però io ho insistito per partire dopo… prometto che partirò dopo”.
Si fermò davanti ad un albero e lo fissò, “Lo so che non sei contenta, nemmeno io lo sono. Ma non posso fare altrimenti, non è colpa mia. Non l’ho deciso io! Io nemmeno volevo farlo quel dannato provino: lei mi ha convinto a riprovarci! Si… quando mai le ho dato ascolto. Sono un idiota, non dirmelo, lo so già” annuì con vigore, all’albero. “Ti giuro, vorrei tirarmi indietro, ma sarebbe un guaio! Un grosso guaio. Potrebbero venire a cercarmi e prendermi. Io… io… non posso fare diversamente” aggiunse poi, sfiorando la corteccia ruvida e fredda della pianta.
“Scusami” mormorò infine con un filo di voce e il viso rigato dalle lacrime.
Perché la verità era una sola. Di fronte alla paura improvvisa, al panico che lo aveva afferrato, non sapendo se vuotare il sacco e confessarle l’accaduto, aveva preso il sopravvento la parte irrazionale di lui. Aveva preso il comando la corazza, la difensiva… l’attacco. Non capitava spesso, non lo sentiva necessario, tanto meno con la ragazza. Ma quella sera si.
Glaciale. Estraneo. Micidiale come una stilettata al cuore. Lui stesso provava dolore nel calarsi in simili sembianze e non vedeva l’ora di scrollarsele di dosso. Ecco perché aveva sbattuto la porta. Per allontanare da se quello che aveva appena commesso… quello che era stato costretto a pronunciare.
Era… come se… avesse passato le mani attorno al collo di lei e avesse stretto, fino a vederla stramazzare a terra, con la parola “perché” sulle labbra.
Diede un pugno all’albero e tornò ad accasciarsi sulla panchina, piangendo nuovamente.
In effetti, a vederla esternamente, ci si poteva domandare il perché un ragazzo come lui, bello e fortunato, poteva porsi così tanti problemi per una questione che, a quanto detto, non dipendeva da lui. La giovane non avrebbe potuto capire? Era sua amica, e gli amici sostengono le scelte difficili. E se così non era, allora… non erano amici.
Robert rise amaramente, una risata che suonava ubriaca e malata.
Oh… si. Charlotte avrebbe capito. Charlotte l’avrebbe appoggiato.
Cos’avrebbe risposto?
“Sono felice per te, Robert. È una bella notizia, al secondo tentativo ce l’hai fatta, visto? Vuol dire che hai talento… Sono fiera di te”.
Certo. Una frase colma di orgoglio. E che equivaleva all’ennesima condanna per lei. Alla preoccupazione, alla solitudine, alla paura… e alla perdita. Poteva sorridere, poteva mostrargli lo sguardo più colmo di ammirazione su tutta quanta l’intera Terra, ma era proprio quello che lo spaventava.
“Lei finge…” sussultò, il volto arrossato e gli occhi gonfi.
Aveva vissuto abbastanza accanto a lei da sapere che non avrebbe mai ammesso di essere triste, di provare dolore… Non avrebbe mai messo in evidenza il vuoto che compariva magicamente ogni qual volta lui annunciava che spariva per più di una settimana.
Sfrontatezza? Orgoglio? Capriccio? No.
“Paura…” mormorò con un sorriso amaro Robert. “È solo dannata paura”.
Si portò le mani sul viso e asciugò il sale delle lacrime. Si premette la radice del naso e, con un saltello, si alzò e sbuffò.
“Coraggio Bobby. Chi è autore delle proprie disgrazie, sarebbe simpatico che evitasse di piangerci su… E vale anche per te”. Si fermò,  e fissò l’albero con occhi sgranati. “Oh mio dio. Stavo parlando con un albero. E l’albero mi ascoltava. No… faceva finta di ascoltarmi”. Scosse la testa sospirando. “Casa. È meglio”.
E si avviò verso casa Pattinson con passo strascicato e la chitarra ciondoloni sulla schiena.

Il campanello suonò e dopo pochi istanti un piccolo uragano bianco a paffuto si precipitò giù dalle scale, attraversò il corridoio e si schiantò letteralmente sulla porta di casa. Patty.
“Patty tesoro, non siamo ad una corsa motociclistica,coraggio”. Una donna sulla cinquantina giunse dalla cucina, aprì la porta e gli occhi le tremarono per la gioia, “Lo sapevo…”
“Ciao mamma” sorrise Robert.
Clare colmò la distanza fra loro e gettò le braccia al collo del figlio, stringendolo forte come se da un momento all’altro potesse scomparire. Di nuovo.
“Mamma non respiro”.
“Oh sta zitto Robert, dammi la soddisfazione di torturarti prima che scappi un’altra volta” sghignazzò divertita, prima di guardarlo in volto e dirgli, “Bentornato”.
Lo invitò ad entrare e lo guidò nel soggiorno tutta eccitata.
“Dai, dammi la giacca! E levati quel berretto dalla testa per favore, sembri uno scappato di casa... Beh, effettivamente scappi sempre di casa” parve pensarci su. “Richaaard! Tuo figlio è tornato!”
“Mamma non strillare, i vicini ti sentono” piagnucolò il ragazzo, mentre armeggiava con la custodia della chitarra.
“I vicini servono proprio perché io possa strillare, che gusto c’è se no?”
E Robert scosse la testa senza speranza. Sua madre non cambiava mai.
“Dov’è? Il fotomodello più schizzato del mondo è tornato?” si sentì dire dalle scale.
“Oddio ti prego…” riprese a gemere il figlio.
E poco attimi dopo, un uomo brizzolato e dalla faccia simpatica fece la sua entrata nel soggiorno. A giudicare dal modo di camminare e dallo sguardo profondo, si capiva subito che, nonostante il parlare giovanile e divertente, nascondesse una personalità tenace e che la sapeva molto lunga…
Attraversò il soggiorno e abbracciò il figlio, dandogli un’affettuosa pacca sulla schiena.
“Bentornato ragazzo”.
“Ciao papà” sorrise lui.
“Oddio, fa qualcosa! O mi toccherà cambiare la tovaglia per l’ennesima volta!” strillò d’improvviso la madre coprendosi gli occhi.
Robert si voltò e notò che Patty, piccola e un terremoto vivente, stava addentando la tovaglia per attirare la sua attenzione: un lavoraccio, poverina.
Il giovane sghignazzò, si chinò a terra e con un gesto dolcissimo la prese in braccio e cominciò a lusingarla su quanto fosse bella, quanto le fosse mancata e… quanto fosse ingrassata.
“Ma cosa le date da mangiare?!” chiese sconvolto.
“Niente” rispose secca la madre.
“Come?!”
“Perché ruba dalla dispensa mentre siamo fuori: ha deciso che preferisce il buffet - pret-à-porter invece della solita e noiosa pasta e crocchette. È un cane intelligente, dagliene atto Clare” commentò invece solenne suo padre.
“Oh per favore!”
Robert rise.
Quanto gli erano mancati. Mamma. Papà. E cane. Tutti quanti. E, se avessero avuto un nome o una parola, avrebbe detto che aveva sentito la mancanza anche dei mobili… del divano… del tappeto, della cucina e del bagno. E della sua stanza da letto. Della sua musica. Della sua vita…
Fissò i quadri lungo le pareti, alcuni li aveva fatti lui, altri sua madre, adoravano dipingere nel tempo libero. Quasi non se li ricordava, o meglio… impossibile scordarli, ma cominciava a dimenticare il vero senso di quella casa, di quella famiglia, ossia l’amore che gli avevano trasmesso per tutto il tempo passato.
“Vuoi… andare in camera?” chiese tranquilla Clare, mentre lo guardava.
Lui annuì, sempre rapito dai quadri. Poi, con Patty ancora in braccio, si avviò per le scale e andò al piano di sopra, i genitori che lo seguivano.
Una volta che fu alla fine del corridoio, si fermò, fece un respiro profondo e aprì piano la porta… Camera sua.
“Ti ho cambiato le lenzuola” disse sua madre, appoggiando la chitarra accanto all’armadio.
“Le cambia ogni settimana” puntualizzò il padre.
“Richard!”
“Perché?” chiese sorpreso il ragazzo.
La donna abbassò lo sguardo e arrossì, prima di voltarsi dalla parte opposta e guardare fuori dalla finestra. Robert non comprese…
Richard batté una mano sulla spalla del figlio e si fece strada nella stanza, per poi andarsi a sedere su letto con uno sguardo inequivocabile. E fu allora che Robert capì. Sua madre cambiava le lenzuola e coperte, e scommise gli lavasse anche i vestiti che non usava rinchiusi nell’armadio, per una sola ragione: lo aspettava. Compiva quei sciocchi rituali che le davano la sensazione che, prima o dopo, il suo ragazzo sarebbe tornato e loro avrebbero potuto far finta di essere una famiglia felice, almeno per un po’…
“M-mi… dispiace” disse, guardando la madre con tristezza.
Lei annuì, tirando su con il naso. Si stirò il maglione e con colpo di tosse si fece tornare il solito dolce sorriso sul viso.
“Allora, cosa vuoi per cena?”
“Chiedigli almeno se si ferma, prima…” si intromise Richard.
“Certo che si ferma!” lo zittì lei con un’occhiataccia.
“Mi fermo” intervenne subito Robert. “I-io… mi fermo. Si”.
“Oh bene! Hai visto? Lo sapevo!” esclamò trionfante la donna, battendo il cinque con il figlio. “Ha portato a casa la chitarra, vuol dire che resta. Vado di sotto, forse riesco a cucinare qualcosa di speciale!” aggiunse con occhi sognanti.
“E di commestibile… grazie” commentò sconsolato il marito, ma lei non parve sentirlo, già scomparsa al piano di sotto.

Robert mosse qualche passo in camera sua, e già gli sembrava di essere entrato in un mondo diverso.
Le pareti azzurrine, tendenti al grigio, le aveva dipinte con il padre anni prima, in un pomeriggio d’estate. Rise al ricordo del cane, giunta per aiutarli, divenuta tutta blu per l’essersi rotolata contro il muro.
Allargò lo sguardo e riscoprì l’enorme scaffale colmo di cd, di dvd e di libri, per lo più vecchi e sciupati, che avevano popolato la sua adolescenza e animato le sue notti insonni. In particolare, notò, sulla sinistra, nascosto sotto un mucchio di pastelli colorati e mazzi di carte, una vecchia raccolta di poesie, le sue preferite. Era ancora lì, nessuno l’aveva toccata, restava esattamente dove l’aveva lasciata prima… di andarsene e trasferirsi.
“Cosa c’è?”
Il ragazzo sussultò e si voltò, con il cane addormentato in braccio.
“Come?”
Il padre, la braccia attorno ad un ginocchio, e lo sguardo acceso e attento, lo fissava come solo un buon uomo poteva fare.
“Che c’è che non va ragazzo?”
“Io?”
“No… Patty”.
“Niente papà. Sono solo…” cercò di dire, un cenno distratto della testa. “È strano ritrovare tutto quanto. Niente di più. Sembra di essere immersi in un pozzo e scoprire che sotto la superficie c’è un mondo dimenticato, un mondo… che sembra nuovo e inesplorato, ma è soltanto la rovina di quello che ci si è lasciati alla spalle”.
Si avvicinò alla libreria e sfiorò il dorso consunto dei volumi. Dio, quanto tempo c’aveva speso sopra quelle pagine, chinato in avanti e gli occhi incollati alle parole…
“Ma non è solo questo”, aggiunse Richard.
“Si, è solo questo”.
Ma l’uomo non disse altro. Aspettò che il figlio si girasse, lo guardasse con aria interrogativa.
“Cosa papà?”
“Puoi nasconderlo a tua madre, ma non a me”.
“Perché devi sempre avere la convinzione che io abbia qualcosa da nascondere?”
“Perché lo fai da quando hai sette anni”.
“E non è fattibile che io abbia perso quel vizio?”
“Non direi, a giudicare da ora” sorrise lui.
Il ragazzo sbuffò, chiudendo gli occhi. Allargò le braccia e fece scendere il cane, riluttante, e si sedette accanto al genitore, sul proprio letto.
“Cosa vuoi sentirti dire?”
“Non ne sono convinto… ma credo la verità” scherzò l’altro.
“E se non volessi dirla?” chiese, prima di alzare il capo e piantare gli occhi azzurri in quelli del padre.
“Beh… in tal caso, penso che mi accontenterei dell’essere felice di riavere il mio giovanotto in casa, anche per la cena, e non chiederei nulla di più” si aprì in un sorriso raggiante. “Sono un uomo semplice, lo sai”.
Robert rise con uno sbuffo. Si passò una mano nei capelli e poi la lasciò cadere di peso sulle ginocchia. Era stato messo all’angolo, tanto valeva…
“Ha chiamato Sarah” disse, in un soffio.
“Oh, e chi è? Una nuova ragazza?”
“È la mia manager papà!” alzò gli occhi al cielo lui.
“Ah! Beh allora chiamala “signora manager”, non sono sempre al corrente di tutto io”, ma si bloccò non appena il figlio gli fece un cenno deciso con la mano di tacere.
“Sarah, la mia manager, ha chiamato stasera, meno di un’ora fa. E… ha detto che ho passato il provino e sono stato accettato per il ruolo del film di cui vi ho parlato”.
Richard lo guardò, lo vide mentre si metteva le mani sul viso e lo nascondeva, e non poté fare a meno di annuire triste.
Ma non chiese se il ragazzo aveva intenzione di restare con loro, sino al giorno della partenza, benché lo desiderasse più di ogni cosa; non chiese quanto importante fosse quel nuovo progetto… e non chiese nemmeno se lui era felice o meno. No.
Chiese l’unica cosa che sapeva essere la stilettata al petto di suo figlio.
“Lei lo sa?”
Robert alzò la testa di scatto e lo fissò sbalordito.
“C-cosa…”.
“Ragazzo mio, sono vecchio abbastanza da vederci molto più lontano di quel che vedi tu” sorrise tranquillo. “Io e tua madre godiamo della tua presenza, anche se è per poco… ma la nostra vita sta cominciando a sfumare, l’età della scoperta l’abbiamo superata da un pezzo. Preferiamo lasciare il mondo a voi giovani. Non mi stupisco che il tuo primo pensiero vada… a lei, anziché a noi”.
“Papà io non volevo assolutamente… io… no! Io mi… Io mi preoccupo per voi!”
“Ma lo so. E lo sa anche tua madre. È stato carino da parte tua venire da noi, ti ringrazio” e diede un’occhiata al cane acciambellato sul tappeto, “E anche Patty ringrazia. Ma… sono convinto che non tutti siano al corrente della notizia”.
Robert sorse la bocca e riabbassò il capo.
“Lo sa?” incalzò il padre.
“No. Non lo sa”.
“E cosa aspetti?”
“Pensi che sia facile?”
“No, certo che no. Ma è più facile tacere e trovare un modo per poi svignarsela senza essere scoperti, col rischio di finire male… O è più facile vuotare il sacco subito?”
“La differenza fra dire o non dire bugie”.
“In sintesi, si” fece spallucce l’uomo.
Il ragazzo si dondolò sul letto, prima di buttarsi all’indietro con le braccia sopra la testa.
“Come pensi la prenderà?” chiese.
“Come pensi tu che la prenderà?”
Lui sospirò, “Probabilmente mi dirà che è felice per me”.
“E tu le credi?”
“Si. In parte”.
“E qual è l’altra parte?”
“Vorrebbe che non andassi”.
“E tu vorresti restare?”
Il silenzio scese per qualche istante, poi fu interrotto di nuovo. “Si. Vorrei restare”.
“Bene! Allora fallo! Felice lei, felice tu… felici noi!”
“Non posso! Io… non posso papà”.
“Spiegami il motivo”.
Robert si alzò con uno scatto del bacino e si appoggiò alla spalla del padre.
“Non è tanto una questione di lavoro o diplomatica. È che voglio indipendenza. Voglio guadagnare qualche soldo, voglio poter… dare qualcosa”.
“Un contributo” annuì Richard. “Ti sei stufato di vivere a sue spese”.
“Si” si rabbuiò lui.
“Beh, è una buona ragione”.
“Vorrei fare qualcosa. Vorrei anche dimostrare che non sono sempre il solito idiota che ci prova a farla stare meglio, perché in fondo so… che non cambierà mai” disse con occhi lucidi. Si voltò verso la finestra e guardò il cielo scuro. “Ho spaccato il mondo intero per lei, ho… rinunciato ad ogni cosa, e anche se la vedo sorride o dire che sta bene, io lo sento. Sento quel dannato e odioso pulsare sotto il suo petto che mi dice che il vuoto che si è aperto anni fa, è ancora lì”. Ora piangeva. “A che è servito? A chi ha fatto più male? A lei? O a me? Essere… impotente e nullo di fronte ad un qualcosa che io non posso combattere, di fronte ad una voragine che la risucchia e la strappa via dal mondo, la porta via da me. Come faccio a fermarla se nemmeno lei si aiuta?” chiese con un lamento, rivolgendosi al padre.
Richard lo guardava con l’affetto che gli brillava negli occhi. Gli passò un braccio attorno alle spalle e lo scosse, “È una battaglia persa. Non è la guerra. Di tempo ce n’è ancora”.
“Non reagisce. Si sta avvinghiando come una pazza a”
“A te” completò per lui l’uomo. “A te, ragazzo mio”.
Robert si sentì morire e si ripiegò su se stesso. Nascose il capo fra le braccia e sussultò, “E io me ne sto andando. Io parto”.
“Non è colpa tua”.
“Ho scelto io di fare il provino”.
“Hanno scelto loro di prenderti”.
“Papà!” sbottò da sotto la felpa il ragazzo. “Non è questo il punto…”
“E qual è allora?”
“E che non vorrei che facesse qualche pazzia! Tipo… che mi seguisse in aeroporto, e si mettesse a strillare che c’è una bomba sull’aereo pur di non farmi partire!”
“Perché tu vuoi partire, giusto?” lo incalzò nuovamente l’altro.
“NO!” si agitò il figlio. Ma poi si irrigidì, si passò le mani nei capelli… e poi annuì. “Si. Si voglio partire”.
Richard annuì e sorrise. L’aveva ammesso alla fine. “Oh. Bene. La verità”.
“Io non… ce la faccio più. Sono stanco. Ma non fisicamente. È che non… riesco più a pensare”.
“Robert per quanto io apprezzi quello che hai fatto per quella bambina, non è giusto che tu debba recluderti ancora a lungo. Hai solo vent’anni. Pensi di restare chiuso in quella casa fino ai novanta?”
“Lei ha bisogno di me!” si voltò a guardarlo, gli occhi rossi e gonfi.
“Lei è dipendente da te! Lei vive per te e di te!” lo bloccò l’uomo. “Lei non è più umana. L’hai detto anche tu: non reagisce, perché sa che ci sarai sempre tu a tirarla in piedi”.
“Mi aspetta sempre, ergo: non sono mai in casa”.
“Basta la consapevolezza che tu ci sia”.
“La sto ammazzando” si nascose di nuovo fra le proprie braccia.
“L’hai aiutata fin che potevi e questo… è per me davvero un motivo di grande orgoglio. Sono fiero di te, ragazzo” mormorò Richard, accarezzandogli la testa. “Ma è arrivato il momento che cammini con le sue gambe”.
“Si ammazzerà”.
“Non credere che tua madre glielo permetta. Anche se non abbiamo mai interferito più di tanto, Charlotte è rimasta come una figlia per noi. Abbiamo lasciato campo libero per te, ma ora è giusto che pensi a quello che è bene per il tuo futuro”.
“È egoista questo”.
“Non sai nemmeno cosa vuol dire egoista” rise il padre.
Il giovane tirò su con il naso ed inspirò profondamente. Si passò le mani sul volto, tremando, e cercò di svuotare la mente. Infine annuì, sapeva che il padre aveva ragione, sapeva che, per quanto male facesse, per quanto incomprensibile fosse, era arrivato il momento di camminare lui per la sua strada… e Charlotte per la propria.
“Promettimi che non lascerai che faccia niente di stupido”.
Ma non fu Richard a rispondere.
“Charlotte è come se fosse mia figlia. L’ho cresciuta assieme ad Alice, e a James. Pensi davvero che permetterei che si ritrovi sola?”, disse Clare, appoggiata allo stipite della porta.
Entrambi i due uomini la guardarono sorpresi, chiedendosi da quanto tempo stava effettivamente ascoltando.
“Quando glielo dirai?” chiese poi il padre.
“Domani o dopodomani. Devo pensare a come dirglielo. Dovrò partire il giorno dopo Natale, c’è ancora tempo, ma… voglio che si abitui all’idea”.
“Saggia risposta. Vedrai che andrà tutto bene”.
“Non dimentichiamo che Marie Anne, alla veneranda età di ottanta anni, è l’unica più in gamba di tutti noi!” esclamò Clare.
E sia Robert che il padre risero. Una risata liberatoria.
“Andrà benone, figliolo!” gli diede una pacca sulla schiena. “E ora andiamo a mangiare, ah! Che hai cucinato di buono? Anzi no… non lo voglio sapere. Lo prendo per il sapore che ha, voglio ignorare quello che in realtà dovrebbe o potrebbe essere. Voglio vivere i miei ultimi minuti di vita nell’ignoranza”.
“Poi ti chiedi da chi hai preso l’arte del “vittimeggiare”, Robert?” chiese la madre, prima di dare uno scappellotto al marito e guidarli giù in cucina.

Pollo, uova e patate. Richard non ebbe molto di cui lamentarsi.
Mangiarono parlando del più e del meno, Robert voleva essere aggiornato sulle ultime novità della famiglia, sui pettegolezzi dei vicini, con sommo piacere della madre… E raccontò anche qualcosa riguardo il nuovo progetto “Twilight”.
“Così, sei un vampiro” lo puntò con una forchetta Clare.
“Così sembra” fece spallucce lui.
“E hai i denti a punta? Sangue che cola dalla bocca?” intervenne il marito, imitando una faccia agonizzante.
“Richard, è disgustoso quello che fai” alzò un sopracciglio la moglie.
Ma il figlio scoppiò a ridere.
“Non lo so. Forse si, forse no. Ho letto parte del copione, anche se credo ci saranno dei cambiamenti. Non sembra male. Forse un po’ sdolcinato in alcuni punti… ma è una love story”.
“Con un’umana” affermò ancora la madre.
“Si! Kristen Stewart! Oh, mamma, non vedo l’ora di conoscerla! È bravissima, credimi, penso sia… oh! Penso sia una delle migliori alla sua età” esultò il ragazzo.
“Richard smettila di guardare tuo figlio con quello sguardo” ringhiò d’improvviso lei. “No, non ci proverà con l’attrice”.
“Papà!”
“Ma che ho detto?” si difese lui, mani alzate in segno di resa.
“Non ce la faccio più…” sospirò infine la moglie, poggiando la fronte sulla mano con aria disperata, mentre il figlio rideva a più non posso.
“Quello che avrò difficoltà a fare è cercare di essere il più fedele possibile al personaggio” disse d’un tratto.
“Che intendi dire?”
“Leggevo che è un essere centenario, quindi ha una conoscenza vastissima… oltre ad essere demoralizzato, che tristezza. Ma come si fa ad essere centenario e depresso in un corpo di un diciassettenne?”
Richard prese i piatti sporchi per portarli in cucina, “Hai scelto la via dell’interpretazione, ragazzo? Agisci di conseguenza”.
“Grazie papà, illuminante” gracchiò in risposta mentre l’uomo spariva in cucina.
“Perché non provi a rifletterci e scriverci su?” gli suggerì la madre.
“Ossia?”
“Pensa. Rifletti. Ragiona. Leggi qualche libro di vecchi autori… e appuntati le idee da qualche parte, poi mettile insieme”.
“Potrei tenere un diario!” esclamò come colto da un’improvvisa rivelazione. “Un diario delle mie giornate e provare a vedere come possono riflettersi nel personaggio”.
Clare gli strinse il braccio incoraggiandolo e, poi, insieme raggiunsero Richard in cucina per riordinare le stoviglie.
“Cosa fai stasera?”chiese il padre, mentre insaponava i piatti.
“È appena tornato a casa, insomma!” strillò Clare.
“Avanti, non puoi pretendere che si chiuda in casa solo per fare felici due rampicanti millenari come noi, no? Lascialo uscire”.
“Io non pensavo di uscire. Volevo stare in camera a riordinare un po’ le… idee. Se per voi va bene” rispose poco dopo il ragazzo, passandosi una mano sul collo con disagio.
“Come preferisci” annuì la madre.
“Ma domani ti voglio fuori, figliolo. Hai degli amici, ho sbaglio? Tom è passato di qui stamattina, era in crisi depressiva: ha bisogno di vederti quel buon diavolo, quanto tempo è che non vi parlate?”
“Una settimana”.
“A noi ha detto un paio di giorni” dissero in coro i genitori.
Robert ridacchiò di cuore. “Tom non sa contare”.
“C’è il luna park, qui vicino, non è grandissimo, ma non è male. Potreste farci un salto, domani sera, che ne dici?”
Un attimo di silenzio scese nella cucina, interrotto solo dallo scorrere dell’acqua nel lavandino e il tintinnio delle bottiglie sistemate nel frigo. Robert si passò una mano fra i capelli e poi sollevò lo sguardo verso il padre. Uno sguardo incerto.
“E si… credo che sarebbe un’ottima occasione per dire a Charlotte la verità” gli rispose lui. “Parlane prima con Tom. Lui resterà qui, no? Siete come tre fratelli, l’aiuterà lui al posto tuo”.
E il figlio annuì triste, prima che la madre andasse verso di lui e lo abbracciasse forte.

E scese infine la sera. Il cielo era tinto di un blu nero che faceva pensare a quanto effettivamente fosse profondo l’universo e i suoi spazi. Non c’erano stelle e solo la luna, sbiadita e pallida, restava appesa lassù come un piccolo fanale.
Robert salì in camera, seguito dal cane, e si gettò sul letto. Sospirò a fondo una volta, due volte, tre volte. Non aveva voglia di pensare. Faceva troppo male. Si riteneva colpevole, credeva di aver detto delle cose troppo egoiste e cattive, che i suoi progetti di evasione e voglia di rendersi indipendente fossero così meschini e ingiusti… Eppure, in un angolo della propria coscienza, sentiva una flebile vocina che gli sussurrava che in fondo il suo lavoro di angelo custode era finito. Era tempo di maturare.
“Sembra tutto così sbagliato” disse, fissando il soffitto.
Patty alzò la testolina e cominciò a uggiolare.
“Devo trovare il modo di dirglielo senza farla crollare. Almeno questo glielo devo” sbuffò con ansia. “Ma non oggi. Ci penseremo domani, vero?”
Con un colpo di schiena si tirò seduto e poi si alzò diretto alla finestra. Osservò la luna per qualche istante, guardò in fondo alla via sapendo che dietro l’angolo c’era la sua seconda casa e poi tirò le tende.
Andò verso l’armadio, cercò e indossò una vecchia tuta per pigiama e, dopo aver augurato la buona notte ai genitori, spense la luce, si rannicchiò sotto le coperte che sapevano di pulito, con il cane acciambellato ai suoi piedi, e si addormentò poco dopo con una lacrima che gli rigava la guancia.











..........





Spazio ringraziamenti :)

Alors? Che ve ne pare? Pianto? Io si, lo ammetto, ho pianto mentre lo rileggevo, sono sentimentale che ci volete fare?
È stato divertente però scrivere di lui in questo modo, e ho trovato altrettanto simpatico scrivere di mamy e papy Pattinson, li immagino davvero così, oh povera me xD
Ma cosa succederà ora? Eheh, lo scoprirete nella prossima puntata del documentario “Pattinson Circus”, restate sintonizzateeeee!!! *-*
Giusto perché so che… alcune di voi amano, o odiano, a prescindere (vero Leghy? Adesso mi picchia) il caro Tom-Tommy… premetto che sarà più che presente nel prossimo capitolo, eheh!
Ma passiamo ai ringraziamenti ora.
> Piccola Ketty: wiiii, si sono tornata grazie, anche se il libro di italiano continua a volermi assassinare, è una dura battaglia xD E… dici che si amano? Davvero? Onestamente non lo so, sono due personaggi che stanno agendo di vita propria, sono loro che scrivono, non io, ahaha… Oddio, questo è inquietante! xD  Beh, vedremo che succederà, possiamo scommettere nel frattempo, che dici? ;) Spero che anche questo nuovo chap ti sia piaciuto, e ti ringrazio davvero tanto per i complimenti, sei troppo buona! Un bacio.
> Sweetcherry: Ma dai non mi dire! Anche tu hai odiato la manager ed eri pronta a scagliare saette come il nonno di Pollon? Io c’ero ù_ù  Ma tu guarda se quella megera doveva rovinarmi il sacrosanto rito dei biscotti, ma vai! Coooomunque, sta tranquilla, terrò a bada Kristen ;)  Grazie per aver letto, recensito, e spero che anche questo nuovo ti piaccia! Baciiii
> Leghy: uhuuuuuu *___*  Si è un idiota nella scena del mercato. E il bello è che ce lo vedo pure, tu no? “le mie povere guance non saranno più le stesse!”, ahahahaha xD Eh beh io lo spero che sia una bella fic. Spero anche che piaccia… scrivo in modo strano, lo sai, non sempre va a genio… e spesso scrivo cose che non ci si aspetterebbe (vedi la fic su Twilight: quante persone volevano linciarmi, secondo te, per quel che c’ho messo dentro? xD ). Io però ce provo, poi si vedrà… Grazie cmq, sei sempre fedele e mi sostieni :3  Spero che anche questo ti sia piaciuto, e poi è pieno zeppo di lui, dai… non può nun stuzzicarte, ahahaha xD  luv ya :3

Eeeeeee fine.
Grazie signore e signori per la vostra magnifica attenzione. Spero che il prossimo capitolo esca più decente e che continuiate a seguirmi, scrivo anche per voi eh, paperelle ;P
Un bacioneeee

beth

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Capitolo 6
*** 05. taglio netto ***


Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 5° capitolo – Taglio netto
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Mio dio… sono ancora vivaaaaa O___o Non ci credo, è stato un massacro questi giorni, pensavo seriamente che l’atrio della mia università avesse un vortice che mi risucchiava xD  ahaha… no ok, sono seria: ho avuto da fare. E in più sto capitolo m’ha reso il rimanente della mia esistenza un vero inferno, mannnnacccccia -.-   Comunque, non temete, l’ho finito. Eh beh, è strano, come al solito. Mi piace e non mi piace. Mi piace Tommy (e so che molte lo odiano: no dai poverino *_*), mi piace la scena finale… ma non mi piace l’atmosfera, troooppo triste ç_ç (ok basta spoiler).
Nonostante questo, mo le cose si fanno serie, Bobby ha fatto la sua scelta e Charlotte di conseguenza. Nuovi personaggi all’orizzonte, si parteeeee xD
Ci vediamo sotto per i ringrasssiamentzzzz :3















5
“Taglio netto”







Si girò su un fianco ed aprì gli occhi. Era mattina. Lunedì.
Con uno sbuffo di insofferenza si stropicciò le palpebre e si tirò su piano piano, tanto da scorgere Patty ancora acciambellata ai piedi del letto.
“Buongiorno principessa” sorrise.
Stranamente ci impiegò poco ad alzarsi, lavarsi e gettarsi una felpa sulle spalle; di solito passava più di mezz’ora e sua madre doveva venirlo a reclamare con minacce di morte.
Scese in cucina, strascicando i piedi e torturandosi i capelli come sua abitudine. Era distrutto. Gli sarebbe piaciuto dire che quella notte aveva avuto il sonno più fondo di un orso in letargo, ma di fronte all’evidenza, a due occhiaie viola, non poteva di certo negare: si era trovato a fissare il soffitto sino alle cinque di quella mattina.
Da non stupirsi dunque se mancò di poco lo stipite della porta della cucina, mentre era perso fra le sue miriadi di riflessioni, o sogni ad occhi aperti…
“Wow. Ubriaco già alle prime luci del giorno, Bob? La cosa ci sta sfuggendo di mano”.
Robert dovette impiegare due minuti buoni per abituarsi all’ambiente circostante e mettere a fuoco la persona che gli stava davanti.
“Buondì anche a te, amico” riprese la voce, al di là della stanza.
Il neo attore sorrise e si sistemò sulla sedia. O meglio, crollò di peso sulla sedia, con la testa sbattuta sul tavolo.
“Mi spaventi” sogghignò qualcuno.
“Buongiorno Tom”.
“Hai dormito bene, immagino”.
“Talmente bene che non me ne sono nemmeno accorto”.
“Scommetto che il soffitto di camera tua ora ha una crisi esistenziale per essersi sorbito le tue infinite pare mentali tutta la notte”.
E in risposta giunse un profondo grugnito dal bordo del tavolo.
“Come sospettavo” fece spallucce Tom. Prese poi la caffettiera dai fornelli e, afferrata una ciotola piuttosto capiente, ci versò tanto di quel caffè da riempire un acquario di modeste dimensioni. Lo piazzò davanti al naso dell’amico. “Ecco qua. Il nettare degli dei. Serviti”.
L’aroma insistete della bevanda nera sgorgò dalla tazza e solleticò l’olfatto del ragazzo, ancora riverso sul bordo del tavolo… Gli punse il naso e gli fece piegare i lati della bocca in un sorriso. Caffè.
Si mise dritto sulla sedia e prese la tazza. Forse era banale o da tossicodipendente, ma lui adorava il caffè. Quella sensazione che pervade la bocca quando il liquido scuro incontra le papille gustative, poi scende nella gola e la brucia di sapore… per poi arrivare allo stomaco e scaldarlo. Celestiale. E d’altro canto, lo rendeva più sveglio di quanto di solito non fosse, perciò aveva un buon motivo in più per farne la propria droga personale.
“Grazie” disse con un cenno del capo.
“Hai delle occhiaie da far spavento”.
“Mi sono già visto allo specchio” alzò un sopracciglio lui. “Che ci fai qui?”
“Passavo di qua. E mia madre aveva bisogno di chiedere in prestito una cosa alla tua, così mi ha spedito in missione. Cose da donne immagino, non ho voluto indagare” alzò gli occhi al cielo.

Tom era il migliore amico di Robert. Cresciuti insieme sin da quando riuscivano a ricordarlo, avevano condiviso tutto, dalle magliette rubate nei reciproci armadi alle lattine di birra, dalla macchina alla sigaretta post riflessioni profonde… dalle delusioni di cuore alle pacche sulle spalle per farsi forza. Un’amicizia normale, un’amicizia come mille al mondo potevano essercene, ma che per loro era tutto. Entrambi con un sogno nel cassetto, diventare attori, entrare a far parte di uno scenario che li affascinava e li ammaliava, come una danzatrice di fronte ai suoi spettatori; avevano fatto sacrifici, a volte anche umilianti, ma la resa non era nei loro piani.
Beh alle volte si chiedevano se il momento della loro gloria sarebbe mai arrivato. Non una gloria pari a quella della folla impazzita mentre ricevevano un Oscar. Quella era fantascienza, secondo loro. Si accontentavano di un ruolo che desse spessore e un debole spiraglio di luce sui propri nomi, sulle proprie persone. E no… Non era per vanità. Forse un poco, ma lo facevano per passione.
Avere per le mani un mucchio di fogli di carta stampata dove si susseguivano dialoghi e battute da ripetere poi ad alta voce, parole a cui dare forma e colore, attimi da sigillare nel tempo e renderli immortali. Far entrare il personaggio dentro se e permettere a se stessi di dargli corpo e vita. Non importava se il ruolo era un pittore di un quartiere di periferia o un alcolizzato che non vedeva l’ora di tagliarsi le vene, o… un vampiro di diciassette anni con crisi adolescenziali avrebbe presto detto Robert. Non era quello che contava. Perché ciò che valeva, era il sapore della vittoria. Il suono del “ce l’ho fatta” che riecheggiava nel cuore e vi restava per sempre.
Quello era recitare. Quello era crescere. Un modo insolito, si, è possibile. Ma chi si strapazza da un personaggio all’altro, per saperlo fare con classe, deve prima sapere che, oltre al regista truccatrici e cameraman, ha a che fare con se stesso, e sapersi domare o controllare non è un gioco da ragazzi…
Ed ecco dunque cosa univa i due giovani. Passione. Dedizione. Speranza. Fatica. E anche una buona dose di incoscienza. Ma se non si vivono appieno i vent’anni, che prezzo ha la vita itera?
Erano fratelli. Erano alleati. Erano compagni. Erano Robert e Tom.

“Allora, chi ti ha tenuto sveglio stanotte, piccolo Bobby?”
“Chi ti dice che sia qualcuno e non qualcosa?” gracchiò l’altro, finendo il caffè nella ciotola. “Avrei potuto avere il mal di pancia”.
“E da quando ti accorgi di un mal di pancia mentre dormi? Di solito ronfi talmente a fondo che nemmeno Charlize Theron vestita da Cupido in gonnella potrebbe svegliarti, ergo: non era mal di pancia”.
“Questo perché non era Jennifer Aniston, lei ha più chances. E comunque poteva essere mal di gola”.
“Ma certo” si batté una mano sulla fronte il ragazzo. “Come ho fatto a non pensarci prima! Ma se hai mal di gola vuol dire che ti sei fatto una scampagnata in qualche bar, e non mi hai chiamato, e hai deciso di darti alla pazza gioia, pagandone poi le conseguenze. Si. Suppongo sia più credibile” annuì con occhi chiusi ed aria saccente. Anche se si affrettò ad aggiungere, “Ma non pensare che voglia per forza conferirti l’immagine dell’ubriacone! È che… ti si addice di più. Mal di testa da post sbronza, che non un mal di pancia” concluse Tom con un gesto confuso della mano.
Robert lo fissò con occhi sgranati e la bocca semi aperta per lo stupore.
“Tu hai qualche serio problema, parola mia”.
“Oddio! Oh… oh… oooh! Penso che sia il complimento più grande che tu mi abbia mai fatto fino ad ora… Sono toccato” si colpì il petto l’altro, con una smorfia commossa.
“Sei venuto per rendermi l’esistenza difficile, già dal lunedì mattina?”
“Gli amici servono a questo”.
“Anche per essere la valvola di sfogo della mia ira, lo sapevi?”
“Ehi! Adesso non ti allargare, ho solo fatto una constatazione”.
“Che non mi è piaciuta affatto”.
“Eh… la verità fa male, quant’è vero”.
Robert appoggiò la ciotola sul tavolo e fissò il ragazzo che aveva davanti.
“Posso sapere - ”
“Perché non sto mai zitto?”
L’altro gli fece cenno di si con la testa ed un sorriso tirato. Si era alzato da poco e aveva dormito male. La testa gli scoppiava e continuavano a lacrimargli gli occhi arrossati. E per giunta doveva sorbirsi il suo migliore amico che, a quanto pareva, quella mattina, era più loquace di un bambino a cui avevano tolto la parola per un mese.
“È un secolo che non ti vedo” rispose infine, in propria difesa, Tom.
“Tom, è stata solo una settimana”.
“Perché invece quando ti vedo, sei molto presente, vero?” ribatté lui cacciandosi una manciata di cereali in bocca.
“Senti”. Robert sbatté la bottiglia del latte sul tavolo, facendolo tremare, si alzò dalla sedia e, facendo leva sugli avambracci, si portò in avanti e fissò in cagnesco l’amico. “Se sei venuto solo per farmi una ramanzina, quella è la porta, vecchio mio. Fa come se fossi a casa tua: esci!”
“Di solito quando sono a casa mia… entro… non esco” parve pensarci su l’altro.
“Cavolo! TOM!”
“Vabene, vabene, ho afferrato il concetto, d’accordo?”
Robert inspirò profondamente e con calma si risedette, prese la tazza e si versò del latte in silenzio.
“La verità è che sono venuto per vedere come stavi” disse con un cenno del capo Tom. Un cenno di resa. “Lo sai che quando non so da dove cominciare sparo una marea di cazzate”.
Robert annuì, ma continuò a bere il latte.
“Ecco. Ad essere sincero non sapevo nemmeno se venire. Sai, non volevo distruggere la tua bolla da eremita in missione di salvataggio, probabilmente non eri a casa oggi…”
Risposta sbagliata. Robert alzò lo sguardo da sopra i bordi della tazza e lo fissò con rabbia.
“D’accordo! Cazzata! Cazzata!” portò le braccia avanti. “Però devi ammettere, almeno questo concedimelo, che trovarti qui è più difficile che chiedere a Babbo Natale di - ”
“Darti un cervello nuovo?” completò per lui l’altro. “Si, hai ragione, è impossibile”.
Robert si alzò e mise la stoviglia nel lavandino, poi aprì il frigo e tirò fuori una scatola con un avanzo di torta; si sedette e riprese a mangiare in silenzio.
“Come faccio a dire o… domandare qualcosa, se ho paura di essere sparato con il laser che hai al posto degli occhi? Ecco si! Quel laser!”
“Non necessariamente devi parlare, sai?”
“Dio, amico, ma che ti prende!” allargò le braccia Tom, con aria rassegnata.
“Sono stanco”.
“Io non ti ho fatto nulla!”
“Tom è mattina! Sto facendo colazione!” sputacchiò briciole di torta a destra e manca.
E fu l’ennesima inutile risposta nell’arco di cinque minuti.
“Hei, dove vai?” chiese di colpo Robert, vedendo sfrecciare l’altro in direzione della porta.
“Mi rendo utile: faccio come a casa mia ed esco! Ciao Bob, stammi bene”.
“Hei no! No no, aspetta, frena!” gli corse dietro lui, rovesciando la sedia a terra. Attraversò il corridoio a grandi passi, lo bloccò sulla soglia di casa e gli si piazzò davanti.
Era frustrato. Lo doveva ammettere. Era terribilmente giù di morale, nero in viso, gli occhi gonfi e un tono di voce da fare invidia a Sauron del “Signore degli Anelli”. Si reggeva a stento in piedi ed ondeggiava come se, la notte prima, avesse davvero fatto la maratona di tutti i bar di Londra. E se a questo aggiungiamo la parlantina loquace dell’amico, gli risultava impossibile mantenere un contegno tale da passare per umano dotato di sentimenti.
Si passò una mano fra i capelli disordinati e sospirò, prima di chiudere gli occhi.
Non pensava che sarebbe stato così difficile. Crescere.
Abbandonare quello che da anni ormai era abituato a fare, ciò che costituiva buona parte della sua vita, dei suoi perché e delle sue azioni. Abbandonare quello che aveva promesso di proteggere sino alla fine… abbandonare quello che, ne era certo, lo rendeva la persona reale che era.
Tom gli poggiò una mano sulla spalla e inclinò la testa per guardarlo meglio in volto.
“Hei”.
“Scusa” annuì Robert con un sorriso triste. “Io… Sono stato un idiota. Non volevo, scusami”.
“Non fa niente”.
“Torni dentro?”
“Ovvio che si! Devo assaggiare la torta”.

Tornarono in cucina e, per cercare di distrarsi, Robert chiese a Tom di aggiornarlo su tutto quello che si era perso durante la settimana passata. Niente di sconvolgete, ma lo aiutava a rimettersi in contatto con il mondo che lo circondava e lo faceva sentire di nuovo completo.
Parlarono poi di una nuova offerta di lavoro per Tom, anche se il giovane era ancora indeciso se considerarla o meno; accennarono ad alcuni ruoli da interpretare di cui si vociferava e… giunsero inevitabilmente all’argomento che Robert avrebbe volentieri scansato. Ma del resto, oltre ad averne parlato con i propri genitori, se non ne parlava con il suo migliore amico, il fratello che non aveva mai avuto, chi altri avrebbe onestamente espresso il proprio parere al riguardo? Nessuno.
“Che c’è?” chiese Tom, nel vederlo assorto.
“Devo dirti una cosa”.
“Ti ascolto”.
“Mi hanno… accettato per il ruolo di Edward Cullen, il vampiro di quel libro. Te ne avevo già parlato”.
“Si, me lo ricordo”.
“Ha telefonato Sarah, vogliono che mi presenti dopo Natale, anche se in realtà mi volevano prima delle feste”.
“Mi sembra una cosa sensata: il Natale si passa in famiglia”.
“Starò via per un bel po’”.
“È una produzione americana. Un bel colpo. È normale che tu stia via parecchio”.
Robert annuì. Poi scollò lo sguardo dal pavimento e lo piantò in quello dell’amico, seduto di fronte a lui.
“Perché non mi dici quello che pensi davvero?”
Tom rise. “E cosa vuoi che ti dica? Che sono geloso marcio e vorrei gonfiarti un occhio?”
“Adesso ti riconosco”.
“Naaah! Gli occhi pesti oggi li hai già di per te, e il tuo faccino ti serve per metterlo sul grande schermo. Sai cosa mi fa Sarah se ti picchio?”
“Potresti andarci tu al posto mio”.
“Io a fare il vampiro?” alzò la voce di un’ottava l’altro. “No grazie, preferisco Cedric Diggory”.
“Simpatico”.
“Cosa vuoi che dica, Bob?” fece spallucce. Si tirò poi avanti con la sedia e si avvicinò all’amico. “Sono fiero di te. So che è il secondo tentativo, vero? E beh, se ci hai riprovato vuol dire che, in un qualche modo, sarà un ruolo che avrà un qualche scopo a noi ignoto. Chi lo sa? Devi attraversare un bel po’ d’acqua per andare dall’altra parte. Sarai lontano da qui. Sarai lontano da quello che sei abituato a conoscere. Sarai lontano da questa casa. Sarai lontano da noi” dedusse passandosi una mano fra i capelli corti e spettinati. “Ma è quello che comporta, giusto?”
“Fa… spavento”.
“Che cosa?”
“Tutto” rispose Robert abbassando lo sguardo. Aveva gli occhi lucidi.
“Essere lontano da casa?”
“A prescindere. Abbiamo sempre detto che è il nostro modo di crescere, in fondo è anche divertente se riusciamo a prenderla per il verso giusto. Ma…”
“Ma questo è un bel salto” completò per lui l’altro.
“C’è un sacco d’acqua oceanica in mezzo, l’hai detto anche tu prima”.
Rimasero in silenzio per qualche istante, che parve durare all’infinito.
Fu Tom a spezzarlo con un colpo di tosse.
“I tuoi che dicono?”
“Sono contenti” rispose atono Robert. “Penso che siano già abituati all’idea di non avermi quasi mai in casa. Un paio di mesi in più non farà la grande differenza”. Grattava con il dito una macchia immaginaria dal tavolo, come a voler pulire un pensiero fisso che lo assillava.
“E… lei invece?”
Il ragazzo ebbe un sussulto e bloccò la mano. Anche se quella domanda gli era stata posta la sera prima, dal padre, sentirla nuovamente gli faceva lo stesso effetto: agghiacciante.
“Lei…”
“Charlotte”.
“Beh…” tentennò, riprendendo a grattare sul tavolo.
Tom lo osservò per qualche minuto, e poi commentò con un sorriso, “Non lo sa”.
“Si che lo sa!”
“Oh davvero? Allora cosa ti ha risposto?”
Robert alzò gli occhi azzurri e lo incenerì, ma l’amico non parve accorgersene.
“Non lo sa, quindi” ripeté. “Quando glielo dirai?”
“Non ne ho la più pallida idea”.
“Qualcuno dovrà pur farlo. Vuoi che glielo dica io?”
“Tieni alla tua faccia molto meno che io alla mia” rispose acido lui.
“No, è solo che ho più fegato di te, Bob” fece spallucce, “E no, non mi rimangio ciò che ho detto, stavolta. Perché ho ragione, e lo sai anche tu”.
Robert annuì e batté con stizza la mano a palmo aperto, facendo tremare le posate. Si passò poi entrambe le mani sul volto e sospirò forte. Se pensava la chiamata fosse il vero guaio da risolvere, si sbagliava di grosso: ammettere l’evidenza non era più una fatica colossale, dolorosa, si, ma non mortale. Era il dopo che costituiva la minaccia contro cui non sapeva che misure di sicurezza adottare. E adesso doveva trovare una via di uscita… Non si aspettava di trovarne di rosee e facili, non ci credeva, ma se non altro quanto bastava per non far crollare gli anni passati in cui si era dedicato anima e corpo ad una crociata forse già persa in partenza.
“A che pensi?”
“Ad un modo per non dovermi sentire in colpa nel dirle quello che devo”.
“Ti preoccupi per te stesso?” esclamò colpito Tom. “No! Non fraintendermi, è solo che è la prima volta che la metti in secondo piano”.
“Perché so già quello che mi dirà e ciò che farà” rispose lui, scoprendosi ora il volto dalla mani. “E se lei crolla, fra i due chi è che deve reggere? Io. Ma se sono sopraffatto dai sensi di colpa, non credo di esserne in grado. Sono un essere umano anche io”.
“Lo so”.
Restarono muti per un’altra manciata di minuti, ciascuno con lo sguardo fisso su un punto indistinto della cucina, mentre la lancetta dell’orologio accanto al frigorifero ticchettava indisturbata.
“Quello che tuttavia non afferro è questo: tu vuoi andare o… restare?”
Robert si voltò verso la finestra. “Tutt’e due”.
“Oh fantastico. Adesso si che è un problema” si lasciò andare sullo schienale l’amico. “Il motivo?”
“Andare per… beh fare quello che vorrei diventasse il mio futuro. Non mi interessa la grana, lo sai, non ci ho mai badato. E poi questa mi sembra una buona opportunità, anche se la giudico abbastanza assurda. Ma è una sfida, e la voglio affrontare”.
“E restare?”
Ma non giunse risposta. Solo l’ennesimo sguardo ferito e pieno d’agonia silenziosa, uno specchio azzurro mare attraversato da lampi di buio e vuoto. Un vuoto che strillava paura e incapacità di afferrare la situazione fra le mani, agire da persona responsabile e fare un passo al di là del confine.
“Devo ricordarti che… nessuno di noi ha più cinque anni, Bob?”
“E con questo? Che risposta è?”
“Lei deve crescere” lanciò secco e asciutto Tom, fissandolo con quanta intensità era capace di mostrare. E Robert ingoiò amaramente. Annuì, per poi scuotere la testa vigorosamente.
“Si. Ma da sola. Sarà da sola”.
“Ha quasi vent’anni… non è una bambina”.
“Parli come se la cosa non ti importasse minimamente”.
“Hei! È come se fosse mia sorella, lo sai, vacci piano con le parole”.
“Certo, come no?!” ringhiò velenoso lui. “Tua sorella. Beh doveri tu in questi ultimi tempi? Dov’eri due settimane fa, quando credevo che smettesse di mangiare un’altra volta? E dov’eri quando a scuola quel tizio ha cominciato a darle fastidio? E dov’eri quando” ma Tom lo interruppe.
“Io c’ero Robert! O meglio, avrei voluto esserci”. Ora era serio, non un piega di allegria sul volto. “Io voglio preoccuparmi per lei. La accompagnerei anche a scuola e la passerei a trovare tutte le sere, ma tu non me ne dai la possibilità”.
“Come sarebbe a dire?!”
“Non te ne accorgi, vero? Hai eretto intorno a lei e a quella casa una barriera, trasformando la tua e la vostra vita in una bolla felice dentro cui non permetti a nessuno di entrare! Dio Santo, tu non… Dannazione!” Tom si passò una mano sui capelli e si appoggiò al tavolo. “Con l’intenzione di farle del bene, di sollevarla dal peso che si porta appresso da anni, tu… Robert… tu l’hai reclusa”.
Arrivarono come due coltellate in pieno petto, affondando nella carne e raggiungendo il cuore. “Tu l’hai reclusa”.
La vista gli si annebbiò e credette di svenire.
“C-cosa?”
“Lo so che è difficile da capire, e lo è per me riuscire a dirtelo senza rischiare di farmi uccidere da te” ammise Tom, con lo sguardo affranto. “Ma sono il tuo migliore amico, e queste cose devo dirtele. Bob la cosa ti è sfuggita di mano. Io ti ammiro, e lo sai, e ti stimo più di molti altri per quello che ti sei messo in testa di fare: nessuno ti aveva obbligato, e non credo alla storia del ‘era scontato che lo facessi’, perché è un’emerita cazzata. Ma ora, è diverso. Per quanto tempo ancora vuoi andare avanti a leccarle le ferite? Già di per se l’immagine che evoca è ridicola, perché non ha più diciassette anni! È orfana, d’accordo, ma quanti orfani ci sono al mondo?”
“Sei blasfemo” sputò l’altro.
“No, sono realista! Pensa a chi non ha mai avuto un appoggio con cui andare avanti, pensa a chi passa la vita da solo e fa di tutto per non crollare! Beh lei non lo fa e non lo farà mai! Ci scommetto quello che ti pare che la situazione ora comincerà a peggiorare, probabilmente è già successo… Lei non cambierà, non cambierà mai! Non tornerà più a sorridere!”
“Perché! Dimmi il perché!”
“Perché ci sei tu!”
Una terza coltellata arrivò secca, ma direttamente all’anima. Ora era morto.
“Tom… mi stai… ammazzando…” mormorò a stento. Aveva le lacrime agli occhi e non se ne accorse.
“Lo so, e mi dispiace” gemette l’amico. Gli strinse la mano. “Ma è la verità. Hei, Bob…” si chinò in avanti e lo osservò da sotto il ciuffo di capelli, “Ammiro quello che hai fatto, e lo farò fino alla fine dei miei giorni. Ma adesso… devi lasciarla andare. Le hai insegnato come riprendere il cammino, ma se continuerai le darai solo false speranze, perché per quanto tu lo voglia, non ci sarai in eterno. E il lavoro che hai scelto è il primo ostacolo, e lei se n’è già accorta”.
“Come lo sai?”
“Perché adesso sei qui. E non sa della telefonata. Non te ne sei andato per un appuntamento o un intervista dell’ultimo minuto. Te ne sei andato perché qualcosa comincia a non funzionare, e prima o poi lo capirà”.
Robert batté forte il pugno sul tavolo e scattò all’indietro sbattendo la sedia. Attraversò il corridoio e puntò alla porta di casa ma qualcosa, come una barriera invisibile elettrica, lo fermò e lo fece deviare in soggiorno. Ansimando, si addossò alla parete tappezzata di fotografie.
“Bobby” lo rincorse l’amico.
“Non ce la faccio” rispose strozzato lui. “Non ci riesco”.
Tom gli stava davanti e lo fissava. L’avrebbe abbracciato ma sapeva che doveva rialzarsi con le proprie forze. Non era incuranza o superficialità, ma se ora l’avesse sostenuto, probabilmente avrebbe sortito l’effetto contrario: Robert si sarebbe sentito al sicuro e avrebbe rimandato la cosa chissà di quanto, lasciandola nel dimenticatoio, per poi agire d’istinto alla fine. E allora si che sarebbe stato divorato dai sensi di colpa.
Doveva reagire. Doveva ragionare. Ingrato o no che fosse, quello che andava detto… era da dire, ne più ne meno. Charlotte non era più una bambina, e probabilmente anche lei aveva la sua buona dose di colpe: si era arresa, si era nascosta, mentre affermava il contrario, e questo creava dolore a se stessa… e a Robert.
Certo, loro non se ne sarebbero mai accorti, ma chi li osservava da fuori, all’esterno della loro bolla dorata e magica, poteva notare con dispiacere quanto precario quell’equilibrio fosse ormai diventato.
“Senti. Odio dover fare la parte dell’insensibile, ma qui la situazione sfugge di mano”.
“Oh davvero? E cosa proponi allora? Sentiamo!”
“Non prendermi in giro, sto solo cercando di correre ai ripari. La bomba non è ancora scoppiata giusto?”
“Che intendi dire?” gemette Robert.
“Beh, potrebbero annunciare ora alla televisione che l’amico di Harry Potter si imbarcherà per il Nuovo Mondo fra i vampiri; lo sai, il gossip va di moda”.
“Cosa?” si strozzò di nuovo il ragazzo. E lo sguardo d’orrore dipinto sul volto era un’espressione unica.
“Tranquillo, non credo lo faranno. O meglio, non ancora” si corresse Tom, voltandosi verso la televisione spenta. “Charlotte guarda la tivù?”
“Ogni tanto. Marie Anne la accende quasi tutte le sere, ma lei spesso sta in camera”.
“Bene, giocheremmo su questo fattore di vantaggio allora” commentò con aria cospiratrice. “E per tanto, dobbiamo trovare il momento giusto per lanciare l’ancora di salvataggio ed evitare che il Titanic affondi”.
“Cosa scusa?”, Robert cominciava a non seguirlo più.
“Le devi parlare, ma come prima cosa… devi incontrarla”.
“Torno a casa”.
“No no, fuori. Basta rinchiudervi, se non fosse che vi conosco così bene, potrei anche farmi strane idee”.
“Ecco, non fartele. Rinchiudile e poi bruciale, razza di…”
“Zitto Pattinson, sto organizzando un piano per tirarti fuori dai guai, come sempre”.
“Pensavo volessi lasciarmi affondare nelle mie frustrazioni da solo” sorrise cattivo di rimando.
“Oh ma è quello che farò, solo che ti concederò l’onore di farlo con grande stile. Gli amici servono anche per insegnarti come cadere, mantenendo integra la dignità”.
“Che strano, io credevo che servissero proprio a NON farmi cadere” si finse falso meditabondo.
“Che sciocchino, non è questo il caso. Cadrai perché ormai è inevitabile”.
“Sempre realista, sta diventando un’abitudine”.
“Sono concreto, è un problema, lo so… dovrò trovare una soluzione anche a quello, dannazione” mormorò sconsolato, scotendo la testa.
“Quindi verrai con me. Sarai lì quando glielo dirò”.
“Mhmm, quale concetto del ‘cadrai da solo’ non è ti chiaro?”
“Hai detto che mi aiuterai a farlo con stile!”
“Ossia che ti procurerò atmosfera e momento adatti, ma oltre a quello io me ne chiamo fuori, d’accordo? È la tua crociata, mio caro, non la mia”.
Si guardarono a lungo, con espressioni opposte l’una all’altra: Robert da pazzo omicida in preda ad una crisi esistenziale, e Tom da giovane Archimede che sta per risolvere il quesito del secolo.
“In effetti…” commentò infine, seguendo una propria scia di pensieri.
“Che cosa? Parli da solo”.
“No, riflettevo a voce alta. Comunque, penso di aver trovato il buon pretesto per farla uscire”.
“Ossia?”
“Oh è molto semplice: il Luna Park. È una cosa nuova, e divertente. La bomba verrà attutita da una manciata di caramelle gommose e zucchero filato. E se sarà pervasa da raptus rabbiosi, c’è sempre il tiro a segno no? Sperando che non metta te al posto del bersaglio”.
“Il Luna Park” ripeté Robert. “Lo dici perché ci credi, o perché vuoi farti una scampagnata sulle montagne russe mentre io bollo in pentola?”
“Entrambe le cose, mio caro, entrambe le cose” sorrise l’amico. “Ma se non ti va, trovami posto e pretesto migliore. Si accettano consigli al TUO problema”.
Robert sbuffò e si abbandonò sul divano. Tom aveva ragione. Non v’era altra soluzione. Certo, la migliore sarebbe stata tornare a casa e parlarle apertamente, mettendo ben in chiaro le cose, senza spaventarla e senza, tuttavia, darle “false speranze”, così come le aveva definite prima l’amico. Ma… non ce la faceva. Lo disgustava il solo pensiero. E forse perché, proprio come era stato detto prima, guastare la bolla dorata che aleggiava attorno a quella casa, alla loro casa, era come distruggere anni di sacrifici. Piuttosto sarebbe morto.
“D’accordo”.
“Cosa?”
“Luna Park sia. Andiamo.”
“Grandioso!” batté le mani Tom. “Vedrai, andrà meglio del previsto. Anche perché, è buffo sai? Ti stai complicando la vita per una cosa apparentemente così semplice, e la stai complicando anche a me. È solo un piccolo discorso da fare”.
“Solo perché sono sensibile”.
“Ti voglio bene anche per questo, lo sai”.
Robert sorrise e si scompigliò i capelli.
“Quando vuoi andarci?”
“Settimana prossima?”
“Stai scherzando”.
“No”.
“Ok, ripeto la domanda: quando vuoi andarci, entro questa settimana?”
“Devo partire fra un mese, forse meno… Ho tutto il tempo che voglio!”
“Non se ne parla”.
“Sabato”.
“Oddio, il fine settimana no! Allora si che sarai corroso dai sensi di colpa, perché IO andrò in crisi esistenziale se mi poi mi toccherà raccogliere i cocci di entrambi, la domenica, toglitelo dalla testa! Non te lo perdonerò mai!”
“Sempre il solito, vero?”
“Oggi”.
“Cosa? Nemmeno per sogno!”
“Andata. Stasera. Chiamo mia madre e le dico che resto da te fino a domani mattina”, annuì Tom, spostandosi verso il tavolino con il telefono. Ma Robert lo fermò e gli piantò addosso due occhi terrorizzati.
“Ti prego”.
“Il lunedì è considerato dal mondo intero il giorno più infausto fra tutti e sette. È già osceno di per se, una notizia brutta come questa è destinata a coronare l’inizio della settimana. Accettalo. Le cose brutte e pietose si fanno il lunedì, gli altri giorni sono sacri”.
“Questa perla di saggezza firmata Sturridge da dove arriva?” lo scrollò in preda ad una crisi di panico l’altro.
“Da una mia lunga e attenta analisi sul comportamento delle persone durante i vari giorni della settimana, e ho scoperto che il lunedì aleggiano molte più imprecazioni che non il mercoledì, per esempio. E un attacco di follia assassina da parte di Charlotte, non può che calzare a pennello con oggi… avrà poi sei giorni per smaltirlo”.
“Questa è la cazzata numero uno, paragonata a quelle che hai detto prima”.
“Voglio solo che tu faccia quello che devi, d’accordo?” si smascherò da solo Tom. “Prima lo fai, e meglio è! Perciò dacci un taglio, levami le mani di dosso e fammi chiamare la mamma o ti illustro le mie teorie sul pensiero di uomini e donne in base ai vari momenti del ciclo lunare, capito?!”
E come se avesse toccato un oggetto rovente o pieno di spine, Robert si scollò dall’amico e fece due passi indietro. Lo osservò comporre il numero, aspettare in linea e poi parlare allegro con la madre. In sostanza, assisteva alla conferma della propria condanna a morte senza più muovere un dito. Ma poteva fare diversamente?
“Ecco fatto. Tutto a posto” disse infine Tom, concludendo la telefonata.
E Robert annuì. Ormai era fatta.
“E ora?”
“Ora andiamo a pensare cosa cucinarci per il pranzo, nel pomeriggio mi impossesserò della tua chitarra e infine decideremo a che ora andrai a prenderla stasera”.
“Un piano perfetto, insomma”.
“Io faccio sempre tutto a regola d’arte, Bob” rise forte l’amico, prima di scorrazzare in cucina, seguito a capo chino dall’altro.
E mentre i due ragazzi svuotavano il frigorifero di casa Pattinson, improvvisandosi cuochi degni dell’Astice, a casa Sullivan, nel piccolo studio in fondo al corridoio, un cellulare squillò e qualcuno rispose.


***


T-shirt. Camicia a scacchi rossi e blu. Jeans allacciati. Una scarpa… due scarpe. Un sospiro. Scese le scale. Si avvicinò alla porta. Guardò l’attaccapanni che sembrava stesse emanando fuoco, ma era solo una sua impressione. Sospirò di nuovo. Prese la giacca. Infilò un braccio. Poi il secondo. Tirò su la zip.
“Bene, sei pronto! Fuori comincia a piovigginare, ma non credo sia grave, smetterà a breve” gongolò Tom battendogli una mano sulla spalla.
“Non credi che sarebbe il caso di lasciare perdere? Potrebbe diluviare, no? Ci prenderemo un raffreddore tutti e tre” cercò di convincerlo Robert, con aria finta preoccupata.
“Non mi incanti, vecchio mio, due gocce di pioggia non possono fare che del bene ad una che l’ha vista cadere dal cielo soltanto in televisione, o quasi. Non le farà male uscire, una volta ogni tanto, perciò falla finita”.
E Robert sbuffò abbassando il capo. Non c’era via di scampo.
“Senti, c’è… c’è una cosa che vorrei dirti prima. Ci ho riflettuto parecchio e vorrei che mi stessi a sentire”.
Tom si voltò a guardarlo. “Ti ascolto”.
“Ecco, ho apprezzato quello che hai detto stamattina. Vedi io sono sempre stato così concentrato su quella che tu chiami ‘la mia missione’, da non rendermi conto che la stavo trasformando in un legame morboso. Ho sempre pensato di agire per il bene, che le mie attenzioni, che le mie premure e pressioni fossero la cosa migliore da fare per farla reagire, quando invece… la stavo solo costringendo a rinchiudersi in se, senza accorgermene”.
“I-io… Bob io non volevo dire che - ”, ma l’amico lo interruppe.
“Fammi finire”. Aveva il capo chino e gli occhi nascosti dal ciuffo ribelle di capelli ramati. Probabilmente era sull’orlo delle lacrime. “Non devi sentirti in colpa per quello che hai detto, hai agito da amico. Si forse con il metodo “Sturridge”, ossia con la sensibilità di un rastrello, ma l’ho apprezzato. Non sono in grado di vedere i miei errori da fuori. O meglio, non li vedo quando c’è di mezzo lei. Ti ringrazio”.
“N-non c’è di che” rispose sorpreso Tom.
“Inoltre ho deciso che si, partirò. È tempo che lo faccia. Ancora non riesco a credere di dirlo e pensarlo con disinvoltura senza poi prendermi a schiaffi, ma è la cosa giusta da fare”. Alzò infine il capo e fissò il ragazzo. “È tempo di crescere e, maledizione, non si può fare senza provare dolore e un briciolo di rimorso”.
Tom lo guardò e provò compassione. Sapeva di non aver avuto del tatto nel parlargli durante la loro discussione, c’era andato pesante, ma non aveva avuto altra scelta. Robert era un tipo sensibile, timido e sentimentale, avrebbe dovuto come minimo cercare delle parole che non lo lasciassero tramortito. Si maledisse per questo. Ma d’altro canto, per ironia della sorte, quelle stesse parole l’avevano fatto ragionare, gli avevano fatto luce dove per anni si era oscurato il vero disegno di partenza: far tornare alla vita Charlotte. Perché seguirla, aiutarla e sostenerla non significava solo rimboccarle le coperte, metterle il tovagliolo al collo o asciugarle i capelli dopo la doccia. Aiutarla significava darle una spinta e farle mettere il naso fuori di casa, scrollarla quando si impuntava, ignorarla quando si mostrava viziata, stringerla quando era al limite e sorridere con lei quando le cose miglioravano. Tom era certo che, un tempo, Robert facesse tutto ciò… ma col passare degli anni la crociata era diventata un minuetto, un circolo vizioso e aveva perso il suo vero scopo: lei era divenuta la bambola da rattoppare e lui la sarta che si affanna a riattaccare i pezzi. E ora, finalmente, l’aveva capito.
Sorrise e strinse la spalla all’amico. Si. Era orgoglioso di lui, nonostante tutto. Per quello che aveva fatto. Prima e dopo. Perché, anche se ultimamente aveva sbagliato inconsciamente, aveva agito dove altri avevano girato il capo altrove ignorando il problema, e ora era capace di riconoscere anche i propri errori.
“Promettimi solo una cosa”.
“Dimmi Bob”.
“Io parto. Ma giura su quello che ti pare, non mi importa cosa, che… che anche se ci fossero trenta metri di neve e dovessi prendere un carro armato per uscire di casa o… un meteorite fosse in rotta per la terra, giura che - ”
“Si” concluse l’altro con un sorriso. “Si, Robert. Avrò cura di lei”.
“Oh… d’accordo”.
“Bastava chiedere. L’arte del melodrammatico ti sta prendendo un po’ troppo, amico”.
“Non sto scherzando”.
“Senti: la conosciamo da una vita. Forse tu più di me, ma so benissimo che elemento da sbarco lei sia. E beh, credi davvero che solo perché tu hai deciso di andare nel nuovo mondo a giocare a ‘Pocahontas e John Smith in versione moderna’ , io decida di cancellarla dalla mia lista di persone degne della mia tortura?”
“Pocahontas e John Smith…” ripeté incredulo Robert.
“Il succo della questione: non sarò da lei tutti i giorni, ma conta su di me. Sapremo cavarcela”.
E il ragazzo annuì.
“Ma a te, chi ci pensa?” disse però Tom.
“Che vuoi dire?”
“Posso contare sul fatto che ti comporterai da essere umano civile e non fingerai di essere parte della tappezzeria o dell’arredamento perché ti senti consumato dai sensi di rimorso, tanto da non socializzare con nessuno?”
“Da quando fai lo psichiatra?”
“Preferisco abbandonare lei, e venire con te”.
“Non ti azzardare!” lo spinse spaventato. Ma Tom gli bloccò il polso.
“Allora comportati bene. Dio! Sembra di parlare a mio figlio il primo giorno di scuola: vai a spianarti la strada per il tuo futuro, Bob! Non ha importanza se non spalerai montagne d’oro, Pocahontas non aveva oro… solo pannocchie”.
“Oddio, ti prego…” piagnucolò l’altro.
“Ma quel che conta, è che tu faccia esperienza, che faccia vedere questo tuo bel faccino” esclamò prima di prendergli le guance e stringerle facendolo urlare. “Sveglia Bobby! Fa finta di non essere lo sfigato che sei e datti una mossa! Porta quel tuo bel sedere tondo tondo davanti a casa Sullivan, porta Cenerentola fuori di casa, falle la dichiarazione di indipendenza e poi sparisci!”
Robert lo squadrò con occhi sconvolti convinto di avere di fronte un essere demoniaco, ed era sul punto di piantargli addosso le mani messe a croce esclamando “Esci da questo corpo!”, quando decise che la soluzione migliore fosse cacciarsi il berretto in testa e uscire.
“Io vado” disse pertanto, ficcandosi la cuffia sulla fronte.
“Ciao e fa buon viaggio, mio caro” lo salutò sostenitore l’altro. “E ricorda: se ti trovi in difficoltà, tutto quello che devi fare è - ”
“Sta zitto, non lo voglio sapere!” strillò dal fondo della strada, prima di svoltare l’angolo.

Camminò per un buon quarto d’ora. O forse era mezz’ora. Fatto sta che aveva girovagato per metà quartiere, quando avrebbe già dovuto trovarsi di fronte a casa di Charlotte, e ora se ne stava appollaiato sulla panchina a cinquanta metri di distanza e fissava, da lontano, il portoncino con occhi distrutti.
Stava per farlo. Stava per parlarle. Stava per dirle la verità. Sembrava così assurdo. Sembrava così irreale. Per una stupida chiamata ed un’unitile proposta di lavoro (ma forse non così inutile), la sua vita aveva infine mostrato tutti i nodi che sarebbero dovuti venire al pettine molto tempo prima. La domanda allora era: se Edward Cullen non avesse bussato alla porta, lui… si sarebbe accorto dell’equilibrio precario su cui danzavano lui e la ragazza? Si sarebbe reso conto che la loro “bolla dorata” non era altro che un’armatura contro il mondo? Si sarebbe accorto che, con il tempo, sarebbe sparito anche lui, nascosto sotto ideali ormai distorti?
Abbozzò ad un sorriso triste e si passò una mano sulla fronte. Infondo, quella nuova offerta di lavoro, aveva cambiato già molte cose senza che lui fosse ancora effettivamente partito. Cos’altro gli serbava dunque? Presto l’avrebbe scoperto.
Si alzò lentamente dalla panchina e si incamminò, arrivando fino alle scale. Le salì un gradino alla volta, deglutendo rumorosamente. Fece poi per bussare, quando si ricordò di avere le chiavi di scorta in tasca; le prese e le infilò nella toppa. Aprì infine la porta ed entrò. E con sua enorme sorpresa… lei era lì.
Lei era lì, in piedi di fronte all’entrata, immobile, e lo stava fissando.
“C-charlotte…” disse lui avanzando di un passo.
Lei rimase immobile.
“Hei” azzardò ad un sorriso di circostanza. Entrò e si chiuse la porta alle spalle.“Sono tornato! Hai visto?”
Lei non disse niente. La linea delle labbra dritta.
“Pensavo che… beh… visto che ieri sono stato… come dire… un po’ brusco, ecco, magari… potrei farmi perdonare portandoti al Luna Park. Che ne dici?” sorrise. “Scegli tu i giochi da fare, promesso! Hei viene anche Tommy, lo sai? Ci divertiremo un sacco, però prenditi il capello, minaccia di piovere”.
Lei restava muta.
Robert deglutì e allungò una mano verso di lei, seguito da un altro passo in avanti.
“C-che cosa c’è? Non parli. Hai litigato con Marie Anne?”. Quanto si sentiva patetico. Continuava a parlare a ruota libera, voleva spezzare quell’atmosfera che faceva presagire nulla di buono.
Ma Charlotte non mosse un muscolo. Gli occhi scuri ridotti a due lastre di carbone spento.
“Ah. Capisco. Probabilmente ce l’hai ancora con me per come mi sono comportato” annuì, passandosi una mano fra i capelli, “Hai ragione, sono un idiota, ma infondo non sono stato via nemmeno tant - ”
“Questo è tuo” lo interruppe finalmente lei.
Era stanca. Stanca di sentirlo parlare a vuoto. Stanca di vederlo arrampicarsi sui vetri, per poi cadere con fracasso. Stanca di sentire menzogne, una dietro l’altra. Stanca di essere presa in giro. Stanca di essere trattata come se fosse stata una ragazzina scema…
“C-cosa?”
“Questo”, e ne dirlo tirò fuori dalla tasca dei jeans il cellulare del ragazzo e glielo porse.
Robert si ghiacciò sul posto, senza nemmeno avere la forza di deglutire.
Il suo cellulare. Dannazione, credeva di averlo portato con se, invece lo aveva lei. Quindi voleva dire che l’aveva lasciato nello studio. Nello studio dove Sarah lo aveva chiamato. E se Charlotte ora l’aveva in mano, voleva dire che l’aveva sentito squillare, ma lui non aveva chiamato… e il numero lo avevano solo lui e la manager.
“Merda…” pensò. Lei… lo sapeva. Sapeva tutto.
“Prendilo o lo lascio cadere in terra”.
Con un gesto fulmineo, il ragazzo lo afferrò mentre l’oggetto era già a metà strada fra la mano di Charlotte e il pavimento. Alzò poi lo sguardo su di lei ed ebbe paura.
“I-io…”
“Sta zitto”.
Fu peggio di una frustata in piena schiena. Si piegò al colpo immaginario e strinse i pugni.
“N-non… io non posso stare zitto”.
“Non voglio sentire altre cazzate, per favore” sputò secca lei. “Bella la scenetta di ieri dello sbattere la porta. Era per dartela a gambe dopo che Sarah aveva chiamato? Ottimo diversivo, i miei complimenti per la tua carriera recitativa”.
“Non sapevo da che parte cominciare”.
“Non c’è nessun inizio. Bastava dirlo”.
“Come se fosse facile…”
“Ho detto che è facile?”
Si fissarono a lungo, e l’unica cosa che si leggeva nei loro occhi era odio. Odio da parte di Robert, verso se stesso, ed odio da parte di Charlotte per essere stata così stupida e cieca.
Basta. Era ora di finirla.
“Devo partire” disse infine lui.
“Mi fa piacere”.
Tre parole. Dette con superficialità miste a piacere, come se fosse stata contenta di vederlo sparire. Era davvero così? Che ingrata. Che ne sapeva lei di quello che lui aveva passato quella notte e la mattina, ad arrovellarsi la mente alla ricerca di un modo per farle sapere le notizia il meno dolorosamente possibile? Che ne sapeva lei? Di colpo si dimenticò dei buoni propositi e la rabbia e la tensione presero il sopravvento.
Scoppiò a ridere. E le cose degenerarono.
“C-come… ah! Come diavolo fai a dire una cosa del genere, si può sapere?!”
“Non alzare la voce” lo fulminò lei.
“Come fai ad essere felice di una cosa simile!?”
“Ho detto… non alzare la voce” si mosse d’improvviso lei, puntandogli contro il petto.
Lui le prese la mano e gliela strinse abbassandola, “Io parlo come mi pare…”
“Robert non provocarmi” strattonò, prima di spingerlo via.
“Senti. Saltiamo i convenevoli e andiamo al sodo. Qui le cose sono solo due: io parto e tu resti”.
“Grazie per avermi illuminato, genio” ringhiò lei.
“Con una variante: io parto… tu vieni con me”.
“Prego?”
Come? Gliel’aveva chiesto davvero? Diamine, se ne era scordato. Non ne aveva fatto parola nemmeno con Tom, forse la sua stessa coscienza gli aveva nascosto la soluzione più ovvia al problema, ma perché? Non era allora quella più giusta? Due sere prime gliel’aveva già domandato e lei non aveva dato una risposta sicura.
“Non ho voglia di girarci intorno, e tanto meno fare giochetti di parole. Te l’ho già chiesto. O vieni con me… o resti qui”.
Che idiota. Se la propria coscienza gliel’aveva nascosta, come soluzione, era perché andava contro tutto quello che lui s’era riproposto: crescere, dare un taglio netto agli spettri del passato, andare al di là del confine delle proprie paure e respirare aria nuova… Vivere. Eppure, in quel momento, gli era tornata alla mente la proposta. Perché? Per metterlo alla prova. Avrebbe dovuto riflettere prima di parlare. Ma ormai era tardi.
Charlotte chiuse gli occhi ed inspirò forte.
“Non essere insofferente, ragazzina. Ti sto chiedendo di ven - ”
“Ho capito quello che hai chiesto!”
“Degnati di darmi una risposta allora!”
“La risposta la sai già. È no”.
Gliela sputò quasi in faccia.
“Perché?”
“Non c’è un perché”.
“Dammi una spiegazione o ti ci porto legata, quanto è vero che ti sto per prendere per i capelli”.
“Azzardarti a toccarmi…”
“Voglio sapere il perché!”
“Perché è la tua vita. Perché è la tua scelta. Perché è il tuo avvenire. Non il mio. Io non c’entro niente. Né con la macchina da presa, né con i copioni, ne con i tuoi futuri colleghi, ne con i miliardi di soldi con cui ti seppelliranno. È abbastanza?”
Robert la guardò con occhio ferito.
“Dimmi che quello che hai detto è frutto della mia immaginazione”. Aveva gli occhi lucidi. “Come sarebbe a dire che non fai parte del mio avvenire? È una cosa che… io… cosa vuol dire che non c’entri? Perché non dovresti?”
“Cito le tue parole Pattinson: quale significato della parola ‘no’ non ti è chiaro?”.
Lui assottigliò gli occhi ed una vena di cattiveria si accese.
“Non ti sopporto quanto fai così”.
“Quando non ti do retta?”
“No quando fai la bambina, brutta stupida!”
Charlotte ammutolì. Come prego?
“Quando ti rifiuti di reagire, quando ti chiudi in te stessa, quando spranghi la porta di casa e della tua testa, dannazione! Quando ogni volta che si presenta una nuova occasione per reagire scappi e ti nascondi! Quando io cerco di coinvolgerti nel mio mondo per farti cambiare aria, per - ”
“IO HO PAURA!”
“E NON PENSI CHE IO NE ABBIA, EH?”. Ora era furibondo. “Pensi che io non ne abbia? A prescindere! Non averti con me, sapendo che sei a casa nello stato in cui sei… O averti con me, con il terrore di far in modo che tu ti senta a tuo agio, che tu reagisca senza scomparire da un momento all’altro! Che razza di persona credi che io sia? Io ho paura quanto te!”
“Tu non sai niente…” sibilò lei, ad un centimetro dal suo volto. “Tu non sai niente di quello che io ho visto e sofferto. Tu non sai niente di come ci si sente… un rifiuto del mondo. Un essere senza padre e madre… Lo volevi sapere come ci si sente? Adesso lo sai. Uno scarto. E tu pensi che il tuo bel mondo fatato mi faccia tornare il sorriso, eh?” sfoderò un ghigno cattivo. “Illuso”.
“Non azzardarti mai più a dire che io non so niente” soffiò a sua volta, quasi le sfiorava la fronte, “Io ho visto tutto. Io c’ero… E se non ci fossi stato, tu saresti ancora in camera tua a nasconderti dietro l’armadio, piangendo come un’orfana quale sei”.
Ed arrivò. Secco. Rumoroso. Freddo.
Robert si portò una mano sulla guancia destra stringendosi la zona lesa. E di colpo il suo volto si scurì e divenne spaventoso. Non rifletté su quello che accadde dopo. Non pensò. Agì.
Tirò uno schiaffo a sua volta a Charlotte, dritto all’altezza dello zigomo.
Ma non erano più bambini, e la sua forza di uomo la sbatté contro il muro facendola gemere per lo scontro con la schiena. Le prese poi le mani e gliele torse, fissandola.
Piangevano, entrambi. Robert tremava nell’improvviso rendersi conto di averla fra le mani in maniera così brutale, ma non riusciva a lasciarla andare.
E lei, con il naso che aveva cominciato a sanguinare, lo guardava come fosse lontano chilometri… come se fosse già partito e davanti avesse un estraneo che aveva interesse a farle solo del male.
“Vattene”.
“I-io…”
“Va via”.
Un minuto in più per fissarla, e poi scattò all’indietro, aprì la porta e scappò, mentre fuori aveva ormai cominciato a piovere.










..........





Spazio ringraziamenti :)

Weilà!! È fatta, woh… Quello scemo, mi ha alzato le mani sulla mia Charlotteeee!!!! Eretico!!!! Brutto scemo! *si ricompone*
Beh non che lei non se la meritasse, ma insomma… Pattinson, John Smith per caso prende a sberle Pocahontas con le pannocchie? No che no! xD
Ecco, a proposito di quello, non ho idea di come mi siano venute in mente certe scene su John e Poca, o meglio, non ho idea di come mi sia venuto Tom. A me sta simpatico xD È un po’ scemo, ma credo che sappia il fatto suo… anche se sarei curiosa di sentire le teorie sulle fasi lunari, ahaha xD
A parte quello, se ci sono errori di orto sparsi qua e là, perdonatemi… l’ho postato in fretta, domani passo e ricontrollo :P   Ma che ne pensate? Fa schifo? Lo so che non è tanto da me chiederlo e implorare, ma stavolta lo faccio: vi prego commentateeeeeeee!!! Vi supplico, desidererei davvero tanto sapere che ne pensate, se vi fa schifissimo o… solo schifo, o forse vi piace. Daiiii, siate buoni, lasciatemi almeno una riga!! Vi faccio gli occhioni *___*  eh? Gli occhioni *____*
Ahahaha, ok basta o divento malefica xD
Passo a ringraziare le due che han commentato e mi scuso per il ritardo:
> Piccola Ketty: sempre fedelissima, ti adorooo!!! :3  Aaaallora… si, si amano. Cioè no… cioè boh xD Non lo so, e non lo sanno nemmeno loro credo, il tempo ce lo dirà  TomTom prometto farà il bravo o gli sego via le manine, ma confido che le tenga a casina, eheh! E Kris, si, ci sarà. Voglio seguire un andamento abbastanza realistico e, se pensiamo che “a quanto pare”… Bob e lei stanno insieme (così dicono, ma non si sa… blah), colgo la palla al balzo e li metto anche qui, ma ce ne saranno delle belle, buahahahaaaaaarrrgh!!!  (non sono un’amante del gossip, anzi tutto il contrario, ma mi serviva per la storia… anche se non nego di sentirmi un po’ in colpa ^^”).  Di questo nuovo chap che mi dici? Baci cara, grazie mille, sei sempre gentilissima e mi sostieni :3
> _Miss_: Hei ciao, sei nuova!! Piacere di conoscerti e… contentissima che ti sia piaciuta. Mi spiace di averti fatto aspettare, ma l’uni mi ha inglobata XD Spero ti sia piaciuto anche questo nuovo chap, e contenta anche che quello passato ti abbia commossa, vuol dire che sono riuscita nell’intento! Un bacione :3

E… grazie anche a chi legge silenziosamente, però…. *______________* (occhioni, daiii)
Un bacione


beth

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Capitolo 7
*** 06. saper aspettare ***


06 Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 6° capitolo – Saper aspettare
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Eeeeeh. Salve. Come va?
Si lo so. Sono scomparsa. Sparita. Disappeared. E voi mi odiate, lo so…
L’uni mi ha risucchiata definitivamente, non sto scherzando xD E… diciamo anche che si sono aggiunte complicazioni, ma… facciamo che ne parliamo dopo, sotto? Così vi lascio leggere in santa pace…
Il capitolo è sofferto, molto sofferto perché ho faticato in maniera indicibile, e poi vi spiegherò il perché.
Vorrei solo una cosa: perdono ç_ç















6
“Saper aspettare”







Il rumore di un piatto infranto, seguito dal tintinnio di posate che cadevano a terra come una cascata. Lo scoppio dei mille vetri di un bicchiere schiantato sul pavimento.
Tom era immobile nel centro della cucina, con la bocca spalancata a dismisura e gli occhi talmente dilatati da apparire alienati.
Gli cadde anche l’ultima forchetta di mano, poi il silenzio regnò.

Dall’altra parte della stanza, Clare era congelata accanto al frigorifero con la teglia della pasta al forno ferma tra le mani. Fissava un punto preciso, poco distante da lei, e la sua espressione avrebbe potuto fare a gara con quella allucinata dell’ “Urlo” di Munch.
E Richard. Fermo nell’atto di sedersi, stringeva fra le dita lo schienale ed era indeciso se accennare a sorpresa o scontento. Nell’indecisione, optò per il silenzio e le labbra serrate in una piega obliqua.

Ed infine. Robert. In piedi davanti all’entrata della cucina.
Aveva uno zigomo rosso. Gli occhi gonfi. Le occhiaie di quel mattino erano duplicate ed avevano un colore violaceo. E sulle mani, sulle nocche e sui polsi… c’erano dei segni. Rossi. Erano tagli. Erano graffi. Erano nuove cicatrici.
Era tornato a casa. Aveva aperto la porta. Era comparso nella stanza come uno spettro, o una sorta di ologramma di se stesso, e senza dare modo di ricevere domande, aveva semplicemente lasciato che dalla sua bocca uscisse come un fiume in piena il resoconto di quello che era accaduto poco prima.
E ora, se ne stava lì. Pietrificato contro lo stipite della porta, quasi cercasse un appoggio per l’improvvisa stanchezza che lo schiacciava.
Non disse una parola di più. Non aggiunse altro. Non ne aveva la forza. Non ne aveva il coraggio.

“T-tu… tu…” cercò di riprendere l’uso della voce Tom, dopo un tempo che parve interminabile. “T-tu… tu l’hai…”
“Robert” gemette la madre, con la teglia ancora fossilizzata fra le mani.
Ma lui non rispose. Continuava a fissare il pavimento, fra la piastrella accanto al mobile e quella subito dopo, dove solo lui riusciva a vedere quel vortice… quel dannato buco che, ad ogni minuto che passava, si allargava senza sosta e diventava nero, e dal profondo giungevano sempre più alte le grida e le eco delle parole e dello schiaffo che non cessava di bruciargli la pelle sul viso. Lo schiaffo… lo risentiva, secco. Prima freddo, e poi caldo. E di nuovo. Arrivava, colpiva e sfregiava. E ancora…
“Robert!”
Il ragazzo sussultò e si sganciò dal fiume di ricordi che lo stavano risucchiando nella follia. Alzò lo sguardo e si trovò di fronte Tom.
“Ha-hai una faccia che non… va bene”.
“Figlio mio” gemette Clare.
“È sempre quella… non è cambiata molto… nell’arco degli ultimi venti minuti” rispose con un tono inumano ed una estrema fatica. Sempre dovesse sputare sassi roventi tanto contorceva il volto in una smorfia.
“Venti minuti?” chiese l’amico. “Bobby è passata l’ora di cena da un pezzo. Sei uscito un’ora e mezza fa”.
Robert alzò un sopracciglio e storse la bocca.
“Mi prendi… in giro”.
Ma Tom scosse la testa ed indicò l’orologio. Era passata ben oltre l’ora e mezza. E il ragazzo, dopo aver constato che effettivamente non era uscito da poco, si ghiacciò per l’ennesima volta e tornò a guardare i propri genitori e il migliore amico.
“Falla… finita. Smettila… di fissarmi… in quel modo… maledizione” ringhiò. Un ringhio basso.
“C-così come?” domandò Tom, facendo un passo indietro.
“Dio… Tom… ho detto di piantarla”.
“Tesoro, cerca di non agitarti, sei teso. T-togliti la giacca, e vatti a stendere sul divano” cercò di avvicinarsi la madre, toccandogli la spalla. “Io nel frattempo ti preparo un po’ di tè”.
“Non voglio… il tè” rispose con stizza, scrollandosi di dosso la presa dolce della donna. “Non… lo… voglio”.
“Ma…”
“Bobby, dovresti cercare di calmarti, hai una brutta cer - ”
“LA VOLETE PIANTARE DI DIRMI CHE HO LA FACCIA DI UN MANIACO!? BASTA!”
L’urlo scoppiò nella cucina come un boato e si infranse sui muri, facendo tremare i vetri. Clare fece ondeggiare la teglia per lo spavento, mentre Tom schizzò indietro di dieci passi appiattendosi contro i fornelli e ripetendosi che qualunque cosa fosse accaduta, doveva restare muto.
E se i loro visi erano divenuti pallidi, quello di Robert era livido, sfigurato in un’espressione che lasciava trasparire dolore e frustrazione, tanto da rimanere schiacciati dall’enorme peso che emanava; era come se fosse sotto tortura, come se il carnefice fosse impegnato a trapassargli la schiena e il petto con una lama di ghiaccio e lui non potesse fare nulla per sottrarsi all’agonia… Perché non si trattava di un essere in carne ed ossa da cui fuggire, ma di un senso di colpa che, da dentro, strappava e lacerava la carne facendogli riflettere su quanto ancora il dolore gli avrebbe dato permesso di vita.
 
“D’accordo, ora ne ho abbastanza”. Richard riaccostò la sedia al tavolo e lo sorpassò. L’apprensione di sua moglie e la parlantina di Tom non avrebbe portato da nessuna parte, se non ad un ulteriore crollo emotivo del figlio e dei propri nervi, il che avrebbe potuto rivelarsi un gran brutto affare visto che, come al solito, doveva riportare lui l’ordine, ma del resto, era l’uomo di casa. “In questo modo non otterremo un accidente. Robert, dà la giacca a tua madre e viene in camera”.
“Ho detto… che non voglio” ringhiò il figlio in posizione di difesa.
“Questa è casa mia” gli si piazzò di fronte il padre. “E fin quando resti sotto questo tetto e mangi alla mia tavola, tu fai esattamente quello che dico io. Anche se vivi da clandestino, resti sempre mio figlio. Perciò… ora ti levi quella giaccia e vieni di sopra”.
E così facendo strattonò la manica del ragazzo e lo costrinse a spogliarsi; dopodiché lo guidò al piano di sopra spingendolo con forza sulla schiena, lo fece sedere in camera sua sul pavimento e chiuse la porta.
Tornò poi sui suoi passi, facendo in fretta le scale, e andò in cucina.
“Richard!”. Clare gli fu subito incontro.
“Sta bene. O almeno… credo sia sotto shock” la rassicurò il marito, facendole una carezza sul viso.
“Ha picchiato Charl - ”
“Smettila di ripeterlo, Clare: non cambierà le cose”.
“Ha d-dei segni sulle mani”.
“Avrà preso a pugni qualcosa” annuì l’uomo fermandosi a riflettere.
“O qualcuno” ipotizzò Tom.
“Tom, ti prego” alzò la voce terrorizzata la madre, all’idea del proprio figlio coinvolto in una rissa violenta. E il ragazzo fu costretto a tornare al proprio silenzio meditativo.
“Bene, la cosa è gestibile se nessuno di noi si fa prendere dal panico, intesi? Io ora torno di sopra e vedo di scoprire che è successo; Clare tu prepara qualcosa per farlo dormire un po’. E tu Tom… va dalla ragazza e resta con lei”, ordinò con tono secco Richard, prima di andarsene.
“E se piglia a schiaffi anche me e mi sbatte fuori di casa?”
“Ti ci riaccompagno personalmente, puoi scommetterci”, fu la risposta dalle scale.
“D’accordo, ho capito l’antifona” commentò abbattuto il giovane, prima di avviarsi verso l’entrata e prendere il cappotto.
“Forse dovresti portarle qualcosa” gli fu subito dietro Clare, “Dei biscotti o… una fetta di dolce, per tirarla su di morale, c-credi che lo apprezzerebbe?”. Era sull’orlo delle lacrime.
“Senza offesa, ma vuoi la mia morte?” chiese Tom mentre si legava la sciarpa al collo. “Meglio non metterle oggetti fra le mani, fin quando sono con lei, non credi?”
“Tom!”
“No, non li vuole i biscotti” rispose annoiato aprendo la porta, “Vuole solo che quell’idiota le chieda scusa, ma questo non accadrà mai, perciò no… non le serve nulla”. E detto ciò sbatté la porta e la sua ombra scomparve nella notte, mentre la donna si accasciava sul divano e si stringeva nella spalle chiedendosi cosa mai stesse succedendo.

Nel frattempo, la porta della camera di Robert si aprì e si richiuse. Nella penombra che avvolgeva l’intera stanza, rischiarata solo dalla flebile luce della lampada sul comodino, Richard si avvicinò cauto, ma senza timore, al figlio, per poi sedersi accanto a lui sul tappeto. Aspettò qualche istante, dando un paio di colpetti di tosse per schiarirsi la voce e segnalare la sua presenza; ma il ragazzo restava immobile, con lo sguardo azzurro spiritato e le mani strette fra loro in una morsa arrossata e ferita.
“Beh, giusto per fartelo notare: sono seduto qui accanto a te. E quando avrai finito di crogiolarti nel limbo dei tuoi sensi di colpa e ritornerai su questo pianeta, avvertimi…” disse il padre.
Scorsero pochi e pesanti attimi, prima che ci fosse risposta.
“… vattene”.
“No”.
“Non ho voglia… di… parlare. Con nessuno. Va via”. Chiuse gli occhi Robert, respirando con fatica.
“Invece credo che parlerai, figliolo”.
“Perché… ogni volta… che faccio qualcosa… di sbagliato… e non voglio parlarne… tu devi sempre… rendermi l’esistenza… un… inferno?”
“Non lo faccio sempre” scosse la testa l’uomo.
“Tutte… le sante… volte…”
“Robert, stammi a sentire - ” cercò di imporsi lui, prendendolo per una spalla.
“Lasciami stare!”
E al solo contatto, il figlio scattò come una molla e si rannicchiò in un angolo distante ai piedi del letto con un urlo disumano. Fissò il padre con i grandi occhi azzurri sgranati e feriti: un’occhiata di terrore misto ad agonia, un’occhiata che nessuno, in quella casa, si sarebbe mai sognato di vedere un giorno o l’altro… Si lasciò poi andare disteso e cominciò a prendere a pugni il tappeto, mentre le lacrime avevano ripreso a scorrere copiose sulle guancie.
Richard, per la prima volta in vita sua, non seppe che fare. Rimase a guardarlo con impotenza mentre lo vedeva contorcersi per il dolore dell’animo, mentre colpiva a morte i suoi ricordi… Un padre che osserva il proprio figlio autodistruggersi, senza muovere un dito, senza sapere quale parola fosse quella magica per farlo tornare in se. Senza avere il coraggio di riconoscere in quel ragazzo Robert.
“… odio”.
L’uomo alzò il capo e, con gli occhi lucidi, chiese, “Dimmi”.
“… odio”. E un altro pugno assestato al pavimento.
“Cosa odi?”
“ME!”
“Perché?”
“I-io… io l’ho… picchiata papà, io l’ho…”
“Uno schiaffo non è la fine del mondo. O… non era soltanto uno?” domandò con un tremito nella voce. Che avesse perso la ragione e la memoria stesse tornando poco a poco rivelando l’accaduto?
“Come… come… io no! Come potrei?!”. Robert si alzò di scatto dal pavimento e smise di respirare. Fissò il padre. Aveva gli occhi azzurro mare infuocati e l’espressione spettrale. “Io non l’ho picchiata”.
“Ne sono convinto” annuì Richard, tuttavia più sollevato, ma non lo disse. “Ti va di dirmi che è successo?”
E alla sola idea, il ragazzo riprese a contorcersi, aggrappandosi alle ginocchia come un bambino indifeso.
“Non… voglio…”
“E restare in questo stato per tutto il tempo? Tanto vale vuotare il sacco, o ti vergogni di me? Pensi che io non abbia mai preso a pugni nessuno?”
“Non hai mai… non hai mai picchiato la mamma” commentò l’altro, tirando su col naso.
“No beh… quello no”.
“Sono un mostro”.
“Perché hai la faccia gonfia e le mani rosse?” chiese indicandolo e cambiando discorso.
Robert guardò in giro per la stanza, prima di riuscire a rispondere, “Mi ha tirato uno schiaffo”.
“Ah”.
“E ho… preso a pugni… l’albero in fondo alla via…”
“E lo schiaffo te l’ha tirato prima o dopo l’av - ”
“Prima” lo interruppe lui. Voleva che finisse di fargli domande. Non capiva? Non vedeva il fuoco che bruciava dal petto sino alla testa, che lo avvolgeva come un rogo assassino e che lo lasciava senza fiato? Non vedeva i ricordi e le immagini dell’accaduto, riflesse nei suoi occhi? Che senso aveva fargliele rivivere? Che senso aveva costringerlo a sentirsi doppiamente meschino, doppiamente uomo senza dignità, perché calpestata da se stesso?
“Quindi ha cominciato lei”.
“Sono stato io”.
“Ma lo schiaffo l’ha tirato per prima lei. O… c’è dell’altro?”
“A-abbiamo… litigato”.
“E perché?”
“Ha scoperto tutto”.
“Tutto cosa?”
“Tutto” ammise con occhi colpevoli. “S-sarah… ha chiamato sul mio c-cellulare. E lei ha risposto…”
“E dov’era il cellulare?”
“Nello studio. Io… io l’ho dimenticato”.
I nodi cominciavano a venire al pettine. La manager aveva preceduto il figlio nel dare la “lieta novella” e, evidentemente, aveva scelto il momento meno opportuno, come da manuale. Dannata di una donna incapace, pensò Richard, e per giunta a lui non era nemmeno mai piaciuta, ora poteva liberamente odiarla senza rimorso.
“Charlotte si sarà arrabbiata perché non sei stato tu a parlarle per primo, giusto?”
“Era furiosa”.
“Beh non possiamo darle torto. E quel buon diavolo di Tom stava agendo di buon senso a mandarti a confessare stasera stessa. Il fatto che quella serpe ti abbia preceduto, è solo… beh… sfiga?”
E Robert abbozzò ad un mezzo sorriso involontario nel sentire il padre parlare con un gergo giovanile.
“Oh, allora sai anche sorridere!”
“No…” ringhiò, prima di tornare cupo.
“Avanti, non fare il tenebroso. Vediamo piuttosto di ricapitolare: sei andato per vuotare il sacco, ma lei ne era già al corrente. Avete litigato, lei ti ha tirato uno schiaffo e tu, da buon gentleman, non hai porto l’altra guancia ma hai percosso la sua” elencò sulle dita l’uomo, “Quello che mi sfugge è: quella bambina ti rivoltava come un calzino all’età di dieci anni, ma ora… vederla alzare le mani mi riesce un po’ diffic - ”
“L’ho insultata…” ammise dolorosamente Robert senza sapersi frenare, prima di affondare le unghie nei tagli e farsi male. Trattenne un gemito. “Io… l’ho insultata, papà. I-io… le ho… detto…”, ma la voce gli morì in gola.
“Che cosa le hai detto?”
“C-che…”
“Che?”
“Ecco io…”, e si affondò le unghie nei tagli un’altra volta.
“Vuota il sacco, sono vecchio e non mi resta molto” cercò di ironizzare lui, per alleviare l’atmosfera grave.
“Io le ho… rinfacciato che è un’orfana”.

Shock. Buio. Silenzio. Glaciale.
Richard si pietrificò sul pavimento e rimase con la mano, su cui contava, sospesa nell’aria e lo sguardo paonazzo fisso sul figlio. Gli ci vollero un paio di buoni minuti prima di riacquistare la lucidità e il controllo di se stesso.
“C-che cos - ”
“Non l’ho fatto apposta, papà” pianse il figlio, coprendosi il volto.
“E… ti ha tirato solo uno schiaffo?” chiese con la voce strozzata.
“Si!”
L’uomo si passò una mano sulla fronte ed inspirò profondamente nel tentativo di calmare la rabbia improvvisa che gli saliva dal petto alla testa, come l’acqua in un bollitore. Si costrinse a contare sino a dieci, prima di commettere atti troppo impulsivi.
“Ringrazia… di avere ancora la testa attaccata al collo, allora… perché se ci fosse stato qualcun altro saresti al campo santo, razza di bifolco che non sei altro!”. E se prima era impotente davanti all’agonia del figlio, ora moriva dalla voglia di arrossargli anche l’altra guancia. Non era un tipo violento, ma non aveva cresciuto un camionista con la sensibilità di un teppista alcolizzato, e sapere che Robert mancava di rispetto, a prescindere, era una cosa che non tollerava, ne mai l’avrebbe fatto.
“I-io… mi dispiace” pianse ancora lui, dondolandosi sul posto.
“Sono ancora sotto shock, e sei troppo lontano perché possa tirarti io uno schiaffo come si deve, ma questa… questa non la passi liscia, Robert Thomas”.
“Papà…”.
“Smettila di frignare, te la sei meritata, dannazione!” sbraitò, prima di alzarsi e andare verso la porta. Ma non fece nemmeno in tempo ad aprirla che la moglie la spalancò.
“Oddio, Richard! Tom non è ancora tornato!”
“Certo, gli ho detto di non tornare, ma che ne sapevo io?” strillò. “Che ne sapevo della galanteria di tuo figlio, eh? Chiedi un po’ a ‘mister sensibilità in saldo’ che ha fatto! Chiediglielo! Mi tocca andare a salvargli l’amico ora, o ci troviamo lui senza testa, e questo per colpa TUA, sia ben chiaro!” aggiunse indicando il figlio.
“Ti prego…” gemette l’altro, sempre con le mani sul viso e il dondolio incessante.
“Blaaah, io ci rinuncio, quando tornerai ad essere un uomo, discuteremo della tua punizione, anche a costo di farti saltare il giro turistico oltremare. Ora vado a recuperare quel buon diavolo, maledizione!”. E detto ciò si precipitò giù dalle scale, prese la giacca ed uscì con la porta che sbatteva.


***


Tom era già sulla via di casa quando il signor Pattinson lo trovò, e a giudicare dall’aspetto e le parole balbettate non doveva aver passato una mezz’ora serena.
Charlotte aveva dato filo da torcere e Tom era stato costretto a farsi aprire la porta sul retro da Marie Anne, ma fosse finita lì la difficoltà… Una volta in casa, l’uragano gelido lo avevo investito, gli aveva detto di andarsene o avrebbe rimandato indietro il messaggero a metà e il rimanente sarebbe stato seppellito in giardino. Ovvio, Tom aveva cercato di mostrarsi gentile e di farle mantenere la calma, ma era servito a ben poco.
La stessa Marie Anne aveva convenuto che quello fosse il momento meno opportuno per farla ragionare. L’aveva quindi accompagnato alla porta dicendo che non era con lui che doveva prendersela, ma in quello stato non avrebbe fatto distinzioni…
“Gran bel lavoro” commentò quindi Richard a volto scuro.
Decisero di restare fuori casa per un po’, passeggiando al parco poco distante, a schiarirsi le idee, dato che aveva smesso di piovere e tirava soltanto una brezza leggera.
“L’ha combinata grossa stavolta, mi sa…” abbozzò Tom.
“Grossa?” esclamò Richard. “Grossa? Di dimensioni tali che potrei levarlo dal mondo”.
“Da piccoli si picchiavano sempre, però”.
“E questo cosa significa? Ti ho sempre considerato dotato di buon senso, ma con questa uscita perdi punti, Tommy”.
Il ragazzo fece una smorfia prima di stringersi nelle spalle e prendere a passeggiare distrattamente lungo il marciapiede.
“Non è per lo schiaffo in se che sei arrabbiato, ma per quello che lui ha detto, vero?”
“Mi chiedo come gli sia venuta da dire una cosa simile. Come abbia potuto fino a mai pensarla… Lui, soprattutto!”
“Beh… forse un motivo c’è” disse Tom con un cenno distratto del capo.
Richard si voltò verso di lui e lo guardò con aria interrogativa.
“Ossia?”
“Non ne può più” disse asciutto l’altro. “La verità è che ne abbiamo parlato, di… questa faccenda, ecco. Lui si è accorto di avere calcato troppo la mano con il suo ‘progetto di salvataggio’ e… beh penso si senta in colpa per l’aver combinato un casino colossale, e di conseguenza voglia fargliela pagare. A lei, intendo. La ritiene responsabile almeno tanto quanto se stesso”.
“E quindi, secondo te, avrebbe detto una carineria simile per vendetta”.
“Si. Ma resta pur sempre una cazzata”.
“Tom!”
“V-volevo dire, una cavolata… si” sorrise.
Richard si passò una mano fra i capelli e sospirò profondamente, in preda allo sconforto.
“Ma immagino che tu non sia d’accordo con me, vero?” disse il ragazzo alle sue spalle.
“È solo che è inquietante vedere il proprio figlio agire secondo un… principio che non gli si addice” mormorò triste l’uomo. “L’hai mai visto agire per vendetta?”
“Tralasciando le battute ironiche e cretine… no” scosse la testa Tom, con la linea delle labbra obliqua.
Scorse qualche attimo di freddo silenzio prima che Richard piantasse i piedi a terra e alzasse lo sguardo verso il cielo con un lamento.
“No. Non lo è”.
Tom lo guardò con la fronte corrugata. “Che cosa?”
“Non è stata vendetta, Tommy”.
“Ah… no?”
L’altro si voltò e lo fissò, “No”.
“E… quindi?”
“Rob soffre. Quel che dici tu è vero, è consapevole dell’aver sbagliato, nonostante cercasse di agire per il bene. Si è accorto da tempo ormai che lei non cambia… ma non vuole ammetterlo. Ferirla… equivale a farle provare almeno la metà del dolore che lui prova, suppongo”.
“Quindi vendetta”.
“Disperazione, Tommy! Robert non sa cosa voglia dire fare del male”.
“Ma non… non ha alcun senso! Cavolo, c’è l’ha forse?” allargò le braccia incredulo il giovane. “Agire in quel modo solo per rendere partecipe qualcuno al proprio tormento interiore, lo trovo alquanto contorto, per non dire IDIOTA! Ci sono mille e uno modi per farsi comprendere, e lui che fa? Alza le mani e offende in maniera gratuita! Oh, forse non sarò la persona più indicata per protestare, certo, ma anche io ho un margine di possessiva protezione su Charlotte, e la cosa non mi è andata molto a genio, sia chiaro!” aggiunse puntandosi un dito al petto.
“Diavolo, ragazzo” lo guardò sorpreso Richard, “Sfogati!”
“Io ci provo a fare la parte dell’amico che lo comprende e lo aiuta a ragionare, ma se si oppone e preferisce la via del lato oscuro, padrone di farlo! Ma che non coinvolga altri nella sua caduta verso i bassifondi!”
“Potrei interpretarlo come un disinteressamento verso il tuo migliore amico” sorrise Richard, pur sapendo di non pensarlo davvero.
“Io voglio… b-bene… a Bobby” balbettò d’improvviso Tom, rosso fuoco in volto. Si girò di poco per nascondere l’imbarazzo. “È un idiota collaudato, ma lo sono anche io. È solo che non capisco perché si debba impuntare, perché dica di ascoltare agendo poi di testa sua, finendo con il crogiolarsi nei propri sensi di colpa! Ha una valida giustificazione, forse? Beh io non la vedo, mi spiace”.
“E da quando, dimmi, si agisce col senno in amore?”
Se fosse stato un vecchio film western, probabilmente non sarebbe stato insolito l’alito di vento carico di sabbia del deserto e l’immaginaria palla di sterpi rimbalzante ai lati della strada, mentre Tom sgranava gli occhi e impiegava qualche minuto per riacquistare coscienza ed esclamare “Come prego?”
Richard rise e gli batté una mano sulla spalla con affetto.
“Non te ne sei accorto”.
“Si. Cioè… no. Cioè… di cosa?”
E l’uomo lo guardò con aria scontata e che non ammetteva dubbi. Il ragazzo, dal canto suo, strizzò gli occhi e arricciò i lati della bocca, mentre gli ingranaggi del cervello stridevano e sbuffavano. Sospirò e annuì abbassando il capo.
“Sono un idiota”.
Richard rise per la seconda volta. “No. Non lo sei”.
“Avrei dovuto… insomma, si”.
“Alle volte le cose più ovvie sono le più difficili da ammettere o notare”.
Tom lo guardò, un misto di tristezza e confusione. Si. Ne era consapevole, probabilmente lo era sempre stato, solo che non si era mai preso del tempo per considerarlo veramente, per far propria ed ovvia quella realtà che, ad occhi esterni e disinteressanti, appariva chiara come il sole.
“Ora è un casino di livelli colossali” fu tuttavia quello che riuscì a dire. Forse più per esprimere i sentimenti che gli opprimevano il petto, che non lo stato delle cose.
“Abbastanza”.
“Un momento… B-bobby è cotto di Charlotte?” esclamò con voce stridula.
“Non è quello che abbiamo appena detto?”
“Si d’accordo, ma… dirlo a voce fa un altro effetto” gracchiò, prima di essere scosso da un tremito. “Brrr, brivido”.
“Io e Claire non siamo mica nati ieri, ce ne accorgiamo molto prima dei diretti interessati, sai” accennò con un sorriso velato l’uomo. “Solo che non è detto che si possa fare lo stesso ragionamento per lei”.
“In che senso?”
“Non sempre un sentimento è corrisposto”.
“Perché non dovrebbe?”
“Puoi arrivarci da solo, suppongo” sorrise Richard.
Il ragazzo si massaggiò le tempie con forza. Dopo qualche attimo di riflessione ipotizzò “Perché per lei ormai è scontato averlo intorno, che non sa distinguere cosa… possa provare per lui?”
L’uomo annuì. “Più o meno. Vedi… Robert da piccolo la odiava, più di ogni cosa al mondo, non la poteva soffrire; e credimi, la maggior parte delle volte in cui Charlotte si faceva male la colpa era sua, anche se lo negava come un ladro” raccontò con una vena di nostalgia nella voce. Fece qualche passo e con lentezza si sedette su una panchina lì vicino. “Col tempo ha imparato ad accettarla, a vederla come una componente della sua vita alla quale non poteva più rinunciare. Sono cresciuti in simbiosi, tanto che alle volte noi adulti ci chiedevamo chi fosse figlio di chi. Alice amava Robert come fosse suo, e lo stesso valeva per Claire nei confronti della bambina…”
“Ricordo che la maggior parte delle foto d’infanzia li ritraevano mentre si tiravano i capelli o si rotolavano sul giardino, ma non in maniera amichevole. Me le ha fatte vedere Bobby” annuì Tom.
“Erano pestiferi in una maniera inimmaginabile. Ma si volevano bene”.
Il ragazzo aspettò qualche istante, ascoltando il silenzio, prima di chiedere, “Non capisco”.
“Non hanno potuto scegliere” gli sorrise Richard, guardandolo in viso. “Passata l’età della sciocca rivalità di bambini, per loro è stato inevitabile e normale imparare a volersi bene. Prendersi cura l’uno dell’altra, preoccuparsi quando uno dei due stava male… È come quando si compie un’azione senza domandarsi il perché, pur sapendo che va fatta. Era spontaneo, era vitale. Charlotte era la compagnia che Robert non poteva avere, e viceversa. Non penso si siano mai soffermati a riflettere sul fatto che, crescendo, le cose sarebbero cambiate”.
“Io… odio fare la figura di quello non intelligente: ma non capisco cosa tu voglia dire” si morse un labbro Tom, con aria mortificata.
E Richard rise. “Le cose cambiano. Cambiano sempre. Se prima il loro era affetto, premura, interesse come compagni di giochi… ora è ben altro. Ora è - ”
“Amore”.
Quelle cinque lettere aleggiarono nell’aria per un po’, prima che l’uomo riprendesse a parlare.
“Bravo, vedi che quando vuoi ragioni?” sorrise. “Sono passati per l’età adolescenziale, come tutti, solo che… lei non l’ha superata come avrebbe dovuto”.
“Alice e James”.
“Già” annuì lui, facendosi triste d’improvviso. Non ne parlava spesso, ma i due amici gli mancavano terribilmente, una ferita che aveva ancora da rimarginarsi. “Robert ha agito come avrebbe sempre fatto, gli è stato vicino, l’ha curata… l’ha protetta. E come poi sia andata a finire lo sai anche tu. Ma quel che non ha previsto è che vivendo solo ed esclusivamente con lei, Charlotte sia diventata il centro di ogni sua giornata, di ogni sua azione e perché, e se Bobby aveva un sentimento da maturare, l’ha dedicato a lei”.
“Ma ha avuto altre ragazze. Intendo dire… lei non - ”
“Oh, ma certo. Nina, Katie” annuì l’altro. “Quelli sono stati amori adolescenziali, come ogni ragazzo, e ringrazio il cielo che ci siano stati! Ma oltre a loro… dimmi, chi altre guarda, ora? Charlotte è di più, molto di più”.
“E questa condizione, quello che lui prova, ti chiedi adesso se… sia lo stesso anche per lei”.
“Esatto. Bisognerebbe chiederlo a Marie Anne, ha buon occhio quella donna” ridacchiò, “Ma è facile che, se per mio figlio è amore latente, per lei sia dipendenza morbosa. Alla fine, fra i due, è quella che ha avuto più dolore da sopportare, non posso fargliene una colpa. Così come non posso farne a Robert, ha agito solo come meglio credeva… Sono state le circostanze che hanno rovinato il tutto”.
Entrambi tacquero ed ascoltarono le foglie correre sul marciapiede, trasportate dal vento.
“Ora che si fa?”
“Bella domanda”.
“Charlotte non ha intenzione di vederlo”.
“Non mi sorprende, ma non è un male. È meglio così”.
“Non vuoi che si chiariscano?” strabuzzò gli occhi Tom.
“E chiarire cosa? È un discorso troppo complicato perché possano discuterne a mente lucida e valutandone tutti gli aspetti” scosse la testa lui. “Robert partirà, e lei tornerà a fare la vita che deve, con le proprie gambe. È giusto così”.
“Non c’è il rischio che non si parleranno mai più?”
“Pensi che arriveranno ad un simile livello infantile?” chiese curioso Richard.
“Beh… io penso che se Bobby non chiederà scusa, sarà davvero un problema, si!” commentò deciso Tom.
“Uno schiaffo ed un insulto di quelle proporzioni non si cancella con una parola soltanto, ragazzo”.
“Potrebbe almeno provarci!”
“E dopo? Mhmm?” l’uomo gli si avvicinò e gli strinse le spalle, “Dopo che succederà? Lui resterà comunque con il rimorso di averla sfiorata e diventerà ancora più protettivo, mentre lei si rinchiuderà ancora più in se stessa… allontanandosi anche da quell’unica persona che poteva farla tornare a sorridere. È una ferita troppo profonda quella che Robert le ha inferto. Ha distrutto ogni cosa, non lo capisci?”
Tom represse un gemito, mentre sentiva pungere le palpebre e la vista annebbiarsi. Non era un gran sentimentale, ma vedere i suoi migliori amici distruggersi a vicenda, graffiarsi l’animo e pugnalarsi alle spalle, per via di un dolore passato che nessuno dei due aveva chiesto, lo faceva sentire impotente e nullo. Era come quando si assiste ad una rissa da dietro un muro trasparente che concede la panoramica, ma ti impedisce di muovere un solo dito… mentre dentro di te acquisti la consapevolezza che ormai ogni cosa ha perso il proprio equilibrio.
“Non voglio che finisca così” mormorò.
“Nessuno di noi lo vuole. Erano la cosa più bella del mondo, nonostante fosse sbagliata per un verso… Ma da un certo punto di vista, è un bene che sia successo: lei aprirà gli occhi, e la rabbia che la gonfia le darà la forza per reagire. Quella ragazza ha bisogno di tornare a vivere, Tom, e deve farlo con la propria volontà, con il proprio cuore! Deve imparare che per quanto male possa aver subito, ha ancora l’intera esistenza davanti a se”.
Il ragazzo fissava il cemento sotto di se, sentendo le parole di Richard scorrere nella testa. Come poteva vederla così semplice? Come poteva annullare un buco di dimensioni enormi ad un semplice “deve imparare a cavarsela da se”? Lo considerava per l’uomo maturo e coscienzioso che credeva che fosse, ma quella sua sicurezza, quella sua convinzione che la scelta giusta da fare fosse lasciare Charlotte a combattere da sola, non riusciva a collegarla alla morale del solito Richard con cui aveva a che fare. Com’era possibile? Forse solo lui, uno stupido ragazzo come mille altri al mondo, riusciva a scorgere la grandezza e il nero che avvolgevano la sua amica… Perché per quanto una persona sia costretta a crescere e a reagire, lei era ancora una bambina e probabilmente, in un angolo del suo cuore, lo sarebbe rimasta. Per sempre.
Tom alzò gli occhi sul padre di Robert, con un’improvvisa vena di cattiveria, di animo ferito. Ma non appena incontrò lo sguardo chiaro sul suo volto, allora capì.
Capì che nonostante le parole suonassero decise, senza rimorso, dietro quegli occhi c’era ben altro.
Richard si stava auto convincendo. Oh si, credeva a quello che stava dicendo, senza dubbio, ma più per farsi forza e augurarsi che le cose, anche se con dolore, sarebbe andate per il meglio, che non per una mancanza di affetto. Richard voleva vedere tornare a sorridere quella ragazza. Voleva sperare che la tempesta prima o dopo sarebbe passata oltre, lasciando spazio al sole.
“Io non la lascerò sola”.
“Come?”
Tom aveva parlato senza pensare. O meglio, l’aveva pensato, ma senza dar tempo alla bocca di fermarsi.
Perché era esattamente quello che intendeva fare. Prendere il posto di Robert.
“È il mio turno, ora”.
“Per cosa?”
“Prendermi cura di lei”.
Richard corrugò la fronte e tentennò, battendo le dita sulla ginocchia.
“Non penso sia l’idea migliore”.
“Non ho intenzione di lasciarla com’è…”
“Sostituire la figura di Rob, è sbagliato, Tommy. Sia per quello che lui rappresenta, sia perché le impedirai di evolvere” cercò di spiegare l’uomo.
“Non sarò Robert. Ne tanto meno il rimpiazzo di un babysitter improvvisato” rispose deciso e con una nuova luce negli occhi lui. Abbozzò ad un sorriso. “Sarò soltanto io”.
L’altro lo osservò per qualche istante, poi chiese, “E cosa speri di ottenere?”
“Avere indietro la mia migliore amica e veder nascere quella nuova. Non posso lamentarmi”, sorrise.
“E come intendi farlo?”
“Non come ha fatto Bobby. Non sono mai stato d’accordo su quel punto di vista. Ma… ce la caveremo. E poi, mi ha chiesto di badare a lei, mentre lui sarà via. Perciò è come se adempissi ai miei doveri di buon amico. Non puoi impedirmelo”.
Richard si schiarì la voce e si alzò in piedi. Si ficcò le mani in tasca e guardò il cielo cupo ancora una volta. Com’era strano il mondo e la sua gente.
“È vero. Non posso”.


***


Passarono tre giorni da quella sera e nessuno parlò più della cosa.
Robert restava rinchiuso in camera sua, permettendo soltanto al cane di entrare ed acciambellarsi ai suoi piedi, in silenzio. Scendeva solo per il pranzo e la cena, mantenendo un mutismo religioso e l’occhio fisso in un punto indefinito di fronte a se.
A nulla era servito il vano tentativo di sua madre di coinvolgerlo in qualche buffa conversazione, riguardo i vicini, e lo stesso valeva per il padre che, con meno comicità della moglie, cercava di farlo reagire ponendogli domande sul suo nuovo ruolo di neo attore.
“Ti interessa veramente?” gli chiese finalmente, a fine cena del terzo giorno. Erano al dolce.
“Naturalmente” annuì Richard, cercando di trattenere la gioia di sentir parlare nuovamente il figlio.
“Perché?”
“È il tuo lavoro. E suppongo il tuo futuro. Vorrei che me ne rendessi partecipe”.
Robert abbassò lo sguardo e prese a giocherellare con il pezzo di torta nel piatto. Inclinò il capo di lato e storse la bocca in una smorfia.
“È curioso come… mi senta vicino a quel personaggio, ora più che mai” mormorò assente.
I due genitori si guardarono in silenzio. Poi riportarono l’attenzione sul figlio.
“Agonia centenaria. Innumerevole tempo a disposizione per riflettere. Azioni… parole… immagini che si fermano e si imprimono nella mente come vecchi tatuaggi, che so porterò fino alla fine” sussurrava, sempre giocherellando con la torta. Ma lo sguardo ora era acceso, e seguiva il significato di un pensiero che solo lui riusciva a leggere. “E solitudine. Solitudine che scava nel cuore… C’è solo una differenza. Io un cuore ce l’ho, e batte ancora. E fa male. Un male inimmaginabile”.
Scese il silenzio. E anche la forchetta si fermò. Una lacrima cadde sul bordo del piatto di ceramica bianca.
“Robert”.
“Devo andare da lei, papà”.
Clare si portò una mano alla bocca e cercò di reprimere il pianto che sentiva nascente in fondo alla gola.
“Non credo sia una buona soluzione, figliolo”.
“Buona o meno, è quello che devo fare”.
“Le hai tirato uno schiaffo, fisico, e morale”.
La forchetta cadde nel piatto e anche se il rumore fu tollerabile, sembrò aumentare di proporzione in maniera smisurata.
“Non mi pare il caso di mettersi a discutere su questa faccenda” si intromise Clare, nervosa.
“Perché no, mamma?” si voltò verso di lei, il figlio. “Non è quello che stavate aspettando? Che tornassi a parlare? E di cosa vuoi che parli? Di quanto è buona la torta? Si, è buona, sei contenta?”
“Il punto della questione è che dopo quanto è successo, le cose sono cambiate, Rob” disse il padre dall’altro lato.
“E pensi che non lo sappia?” rispose secco lui.
“Io penso che potresti agire… in maniera… non appropriata” cercò le parole più adatte Richard, cercando di non lasciarsi influenzare troppo dalla conversazione avuta con Tom, tre giorni prima.
“Non sono un maniaco assassino. Non le metterò le mani addosso un’altra volta. Non dovrai rinchiudermi in prigione o in un ospedale psichiatrico, sta tranquillo”.
“Robert!” strillò Clare.
“Si, mamma?”
“Prendertela con me e tua madre, a cosa devo l’onore?”
“Non me la prendo con nessuno” scosse la testa Robert. “Ti rassicuro su aspetti che temo tu possa storpiare nella tua mente troppo fantasiosa”.
“Robert!”
“Cosa, mamma?” si voltò di nuovo, con il sorriso tirato, verso Clare.
Richard sbatté il tovagliolo sul tavolo e si alzò. “Vuoi andare a parlarle? Vacci. In fondo chiedere scusa è un dovere da gentiluomo. È una cosa che ti ho sempre insegnato”.
I due si guardarono, in silenzio. L’odio che alimentava lo sguardo azzurro del ragazzo si scontrava con quello impassibile del padre, fermo con i palmi della mani appoggiati sul bordo del tavolo.
“Avanti. Cosa aspetti? Vai”.
Robert strinse gli occhi e tirò la linea della labbra. Ma non si mosse.
“Ho detto di andare. Vuoi che ti apra la porta?”
Ma il giovane non accennava a muoversi, bruciando sempre di più nel proprio fuoco di rabbia che dentro avvampava come un rogo.
Fu alla fine, che Richard sbuffò e fece spallucce con aria incurante.
“Pazienza. Vuol dire che non era poi così importante”, e dettò ciò si sedette di nuovo. “Posso prendere un’altra fetta di dolce, Clare?”
La sedia alla sua destra grattò con violenza sul pavimento e Robert si alzò da tavola con uno scatto carico di frustrazione, sorpassando il padre e abbandonando la cucina. Percorse il corridoio a grandi passi e una volta di fronte alla porta di bloccò come se avesse battuto contro una barriera invisibile. La vista gli si annebbiò, bruciando gli occhi in maniera insopportabile. Si aggrappò con una mano alla ringhiera e stringendo i denti, oltrepassò l’entrata e si gettò a rotta di collo su per le scale, per poi sbattere la porta di camera, lasciando che il silenzio scendesse di nuovo.


“Perché non vuoi che vada da lei?”
Clare aveva appena servito una seconda fetta di dolce al marito e ora lo osservava da dietro la frangia bionda.
“Non sono io. È lui che non vuole”.
“Richard”.
“Cosa? Hai visto no? Io gli do il permesso e lui non ci va, che vuoi da me?”
“È da te usare un tono sfacciato quando sai perfettamente che mentire con me… non ti riesce” sorrise di rimando lei, incrociando le braccia sul tavolo.
Il marito si cacciò in bocca un pezzo di torta. “Tu perché non vuoi che vada a chiedere scusa?”
“Io non l’ho detto”.
“Ma lo pensi”.
“Ti ho posto la domanda per prima”.
Lui alzò gli occhi al cielo e sospirò. “Anche se ci andasse, lei non aprirebbe nemmeno la porta”.
“Ma tentare non nuoce”.
“E ritrovarcelo con il collo spezzato? Non che biasimi quella bambina, ma il rischio c’è”.
“Ha vent’anni, non è una bambina”.
“Visto?” la puntò con un dito lui. “Se dici così allora la pensi come me!”
“Non è quello che ho dett - ”
“Detto, certo. Però mettiamola così, ci sono due possibilità: numero uno, lui chiede scusa, lei non accetta, lui dorme sui gradini di casa di Marie Anne, fin quando non gli verrà aperto, e siccome non gli verrà aperto… morirà di polmonite. Numero due” alzò il secondo dito. “Lui chiede scusa, lei magicamente accetta, e lui tornerà ad essere ancora più protettivo di prima, perché no, magari mettendola anche sotto una campana di vetro o dentro una bolla di decontaminazione come ho visto fare in un dannato film, ieri. E poi? Avremo due decerebrati che si crederanno i re del mondo, vivendo nel loro mondo di illusione, solo che uno è mio figlio e, per quel poco che conta, vorrei evitarlo!”
“Robert non sta solo con Charlotte”.
“Ma ci spende i tre quarti della giornata ultimamente, posso voler aspirare a qualcosa di meglio per lui?”
“Non ti interessa che lei abbia compagnia?”
“Ma perché tutti dovete farmi la stessa domanda?” allargò le braccia esasperato e allibito. “Dannazione, mi interesso della crescita di una ventenne con una crisi adolescenziale protratta, visto che nessuno qui ci pensa!”
“Marie Anne avrà preso la situazione in mano”.
“E allora lasciamogliela! Lascia che se la gestisca da se! Io do il mio contributo levando di torno mio figlio, d’accordo?”
“Non ti capisco” scosse il capo la moglie, abbassando lo sguardo.
“No, non vuoi capire, è diverso”.
Richard posò la forchetta e si sporse verso la moglie.
“Se io fossi rinchiuso dentro una gabbia sott’acqua e tu mi vedessi affogare… se entrambi fossimo consapevoli dell’amore che ci unisce… e se tu facessi di tutto per aiutarmi ad uscire dalla gabbia, ma io non collaborassi… forse perché non mi va di tornare a respirare, o forse perché non parliamo più la stessa lingua… e sapendo che tu non puoi rischiare troppo… cosa faresti? Ti lasceresti affogare con me, cancellando così anche quell’unico appoggio che potrei avere, da parte tua, una volta che io sia riuscito a rompere la gabbia, costringendo alla morte entrambi… o aspetteresti, stringendo i denti, che io capisca e reagisca, per poi essermi accanto e tornare in superficie? Ah. Dimenticavo: la gabbia è mia. Fa parte di me. Sono io. Tu non puoi romperla, o uccideresti anche me”.
I due si fissarono a lungo, nella cucina silenziosa, dove solo l’orologio a muro scandiva il passare del tempo. Si dissero cose mute che le parole non avevano potere di realizzare e videro nel riflesso dello sguardo, l’uno dell’altra, il dolore che li preoccupava e incupiva. Ma una sola era la risposta.
“Ecco. Visto?” disse infine Richard, cacciandosi un altro pezzo di torta in bocca. “Ho ragione io. Dobbiamo aspettare. Farà male, non sarà facile. Ma è giusto così, almeno per ora”.  










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Spazio ringraziamenti :)

Allooooora. Che ne dite?
Bleah. Mi viene da piangere da sola… ma per l’orrore ç_ç
Ci ho messo non so quanto a scriverlo. Poi a cancellarlo. Poi a riscriverlo. Poi a ricancellarlo… Gaaaah, delirio!
Questo è un capitolo più di… come dire… passaggio. Abbiamo Rob, si, ma in maniera limitata, forse perché volevo prendere la situazione da una prospettiva diversa, per chiarire bene come stessero effettivamente le cose (un occhio esterno), per poi lanciarmi nell’analisi interiore, sia di lui, che di Charlotte (che arriverà ben presto). Ma si sa, i primi capitoli sono sempre di assestamento; da ora in avanti ci sarà più sostanza, yah yah ù_ù
È stato insolito scrivere di Rob arrabbiato-frustrato. Nel senso, più del dovuto. Prima di tutto è un maschio, e non tutti reagiscono allo stesso modo; secondariamente, è una persona che considero emotiva e sensibile (non in senso cattivo, sia chiaro), quindi una reazione simile credo ci stesse, pur non volendo finire nell’eccessivo, tipo… mettersi a minacciare madre padre e cane dicendo che si sarebbe lanciato dalla finestra a mo di scoiattolo volante. Non so se mi spiego.
Divertente invece la scena di Rich e Tom, sono stati due personaggi interessanti. Tom l’ho voluto delineare un poco più infantile, che non come quando era con Rob, ma solo per far risaltare la maturità di Richard… (Tommy, perdono ç_ç).
E il pezzo finale. Il sarcasmo di Robert, a tavola, con la madre, non ha prezzo xD “Si mamma? Buona la torta!”… ahahahha XD   Ok. Rido da sola.

Ma immagino che ora, almeno per quelle che seguono, vogliate sapere che è successo, vero?
*sospira disperata, e si copre la faccia con rassegnazione*
Il problema è uno. O forse tanti, ma che possiamo riassumere in uno solo.
Ossia: il fattore Twilight-fan @_@
Ok, lo so che forse non dovrei dirlo, forse molte di voi mi legheranno un sasso alla caviglia e mi lanceranno giù da qualche ponte, mettendosi poi a ballare in cerchio come i Pelagostos dei Pirati dei Caraibi 2, ma… vi prego, lasciatemelo dire: il fenomeno RobSten mi sta traumatizzando!
Oddio nelle ultime settimane non sentivo parlare d’altro, per via della festa a sorpresa per Kris e il tanto “rumoreggiato” anello! E con Eclipse alle porte, non mi meraviglierei di sentire che la povera Kris ha messo al mondo sette gemelli ù_ù Anche se lei sostiene che sarà Rob a partorire, perché lei non ha la minima intenzione di fare figli xD
Però. Ferme. Mettiamo le cose in chiaro: io non è che… non voglia che le persone ne discutano, anzi, sono felice per loro (sia per i due piccioncini, se stanno davvero, che per le fans attorno), ma… quando una cosa diventa di livello colossale, tanto che il film di Ben-Hur mi scende di tre piedistalli, eh c’è qualcosa che non va ù_ù
Ovunque andassi, sentivo gente parlarne (non sto scherzando, qui è una cosa mostruosa); dagli scaffali delle librerie, migliaia di occhi di Pattinson mi fissavano (sia versione Robert, che versione Edward, ohcccielo)… e qui su FB e internet, BOOM!
*strilla in preda ad un attacco di panico, e poi si lancia da sola dal ponte* …

Ripeto, penso sia un problema mio, perché sono una persona tendenzialmente discreta, e già in passato avevo fatto nota riguardo la mia contrarietà allo “spulciare nella vita privata di Rob”…
Sono rimasta traumatizzata, tutto lì. Non faccio colpe a nessuno, in teoria.
E per scrivere questa fic, avevo bisogno di sgombrare la mente e… mi sono ritirata in esilio. E il capitolo infatti è sofferto ç_ç
Mi perdonate? Perdonoooo ç_ç
Vi prego, non odiatemi, ho solo espresso un parere *no! non ti perdoneremo maiiii, AVADA KEDAVRAAAA, gahahahaha!*
Ok, io vi amo lo stesso, ahahah XD

Passiamo ai ringrasss:
_Miss_ : oddio. Ti ho traumatizzata. O_O scusaaaaa!!! Perdonami!!! No beh in realtà ci sono rimasta male anche io, quando lui ha alzato le mani *pensa e riflette* il che non è un sintomo mio di sanità mentale, perché sono io ad aver scritto… ma è questa è un’altra faccenda, XD  Cooomunque, contenta che ti sia piaciuto (ti è piaciuto, si?) e grazie per averla messa nei tuoi preferiti *-* Spero che anche questo nuovo chap ti sia piaciuto, e grazie per aver recensito, è importante pour moi! un bacione :)
Piccola Ketty : Si, Pattz, è un idiota. È ufficiale. E Kris… bah, hai visto come la penso, no? Che stiano o meno, preferisco restarne fuori, muahahaha XD E si, userò il RobSten, in realtà, ma solo perché mi “serve da copione”, diciamola così, ma cercherò di essere meno invadente possibile… Ma sarà curioso vederti all’opera con le infamate gratis, ahahah! ^-^ Tom! Tommy è adorabile *-* Così tenero e premuroso, direi anche più sveglio di Pattz ù_ù Chissà cosa farà ora, che vuole prendere la situation in mano, mah… misssssteroooo!!!
Grazie per aver recensito, sei sempre gentilissima, oltre che una fan della fic XD Mi rende molto felice *-* Alla prox, bacio!!

E vorrei poi ringraziare in massa, così sono tutte comprese e non dimentico nessuno, coloro che l’hanno messa nei preferiti, ossia:
Annina88
bella95
EmilyAtwood
Frytty
giulimpire
Leghy
Obsebtion
Piccola Ketty
Railen
Satyricon
SweetCherry
vero15star
_Miss_


Bene. Che dire di più? Grazie anche ai/alle silenziose/i e… vi scoccia se vi chiedo di lasciarmi un commentino? Dai tiratemi su di moraleeeee, vi pregoooo ç_ç  Dai non vi faccio compassione? *-*
Prometto di aggiornare più spesso (si certo, come no… xD). Ok, ci proverò, anche se ho gli esami alla porte (4libri di italiano, più due di lettura e un saggio, yeaaahhhhh!!!).
Un bacione e grazie ancora, :3

beth




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Capitolo 8
*** 07. indifferenza ***


07
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 7° capitolo – Indifferenza
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Mi volete linciare. Lo so. O probabilmente non ve ne frega più un accidente, e posso capirlo. Avrei anche un po’ di scuse in mia difesa ma… sono davvero ‘na caccola u.u
In realtà sono in stato comatoso per via degli esami (e non sto studiando abbastanza, va te che esempio eccelso) e… ho intrapreso un progetto che mi ronzava in testa da almeno due anni (scritto) e che, se mi riesce di farlo almeno decentemente, potrei anche azzardarmi a farne un lavoretto serio…
Ma bando alle mie cianfugnate. Ecco il mio nuovo capitolo. È immensamente lungo, forse anche per chiedervi scusa ç_ç Ci vediamo sotto?














7
“Indifferenza”







Dicono che quando avvertiamo dolore, ci siano due scelte.
Abbracciarlo. Farlo nostro. Lasciare che penetri nel nostro cuore, permettendo che vi ci si annidi. E aspettare con volto agonizzante, mentre strappa a brandelli le emozioni e i ricordi, per poi rimodellarli assieme in una maschera di orrore che ci perseguita giorno e notte. Ma siamo stati noi a permetterlo, a concederglielo… e ben presto quel dolore diventa un compagno. Un compagno che ammettiamo silenziosi nella nostra vita.

La seconda scelta. Chiudere gli occhi. Smettere di respirare e circondarci di silenzio, lasciando che l’unica parola a riecheggiare sia “basta”. E riprendere poi a vivere, all’insegna dell’indifferenza. Come un vestito fatto su misura, non troppo stretto ne troppo largo, che ti protegge dai riflessi delle parole dette e delle immagini dei momenti trascorsi… Si è immuni da ogni singolo attacco della memoria. Sordi ad ogni suono che giunge come un grido di guerra antico. Ma ad un prezzo: se il vestito dovesse sgualcirsi, la barriera verrebbe infranta e la mente… e il cuore nuovamente torturati.


Non era facile scegliere quale lato della medaglia contemplare.
Vivere con la consapevolezza che il dolore scava a fondo e brucia, ma istruisce.
O vivere chiudendo gli occhi su un passato da cancellare, e concentrarsi sull’eventuale bene nascosto nel futuro.
Per un verso, c’era da dire, che su un fatto simile, l’unica cosa meritoria era davvero seppellire il tutto sotto una pietra e lasciare che la terra scura si cibasse di grida e lacrime. Perché continuare a rivivere ciò che era così chiaro? Uno strappo. Una cicatrice nel disegno di pace e serenità, dipinto attorno a due persone che si amavano, anche se ciascuna alla propria maniera. Un taglio profondo come può esserlo l’infinito universo, e non perché un litigio aveva il potere di disfare ciò che il sentimento aveva unito… ma perché quello stesso sentimento si era ritorto contro, nascosto dietro un vessillo cattiveria e disperazione.
Quindi, cosa scegliere?


Charlotte stava riponendo pigramente il libro di letteratura nello zaino, quando una sua compagna, Nia, le si sedette accanto mangiucchiando un tramezzino.
Erano le undici e mezza del mattino ed erano in classe, la lezione appena terminata. Gli alunni sgusciavano nel corridoio per sgranchirsi le gambe, mentre i più secchioni restavano incollati ai banchi, quasi fossero naufraghi avviluppati al salvagente, a scambiarsi opinioni sull’argomento appena trattato dall’insegnante. Fissati.
Nia ingoiò un pezzo di prosciutto, “Che terribile frustrazione”.
La mora, poco distante, fece spallucce ma non disse nulla.
“E poi si lamentano di non avere una vita sociale, accusando noi di emarginarli…” continuò Nia. “Pff! Ma con piacere! Io li emargino eccome! Piuttosto che finire così…” aggiunse con una smorfia di orrore e la bocca di nuovo piena di pane.
Non udendo tuttavia risposta, si girò verso l’amica e le diede un buffetto sulla testa per attirare la sua attenzione.
“Ahia” borbottò Charlotte, massaggiandosi il punto offeso.
“Oggi sei un po’ assente” la osservò l’altra con un sopracciglio alzato. “Beh, più del solito…”
“Non è vero”.
“Certo che si, tesoro. Stai fissando il libro di letteratura da cinque minuti, e a meno che non abbia una qualche dote nascosta a me sconosciuta…” sorrise lei. E Charlotte arrossì di colpo, cacciando definitivamente il tomo sul fondo dello zaino per poi richiuderlo. Inspirò a fondo socchiudendo gli occhi, prima di lasciare andare il capo sul banco.
“Non ho… dormito molto, tutto qua”.
“Mhmm” mormorò Nia, sbirciandola da dietro la frangia bionda. “Quindi… anche il fatto che studi il doppio di prima, che quando pronunci più di tre parole potrei aspettarmi di vedere crollare questo edificio per la gioia di ogni essere vivente esclusi gli emarginati, e… che non rispondi più alle mie chiamate, lo attribuisco al non dormire, giusto?”
La mora deglutì e serrò forte le palpebre.
“Hei, mi stai ascoltando?”
Certo. Poteva altrimenti?
Nia era così. Amava investigare. Amava cospirare. Amava interrogare. E amava ossessionarla.
Alta, bionda, con una maledetta frangia costantemente spettinata che rivelava gli occhi azzurri più ipnotici che Charlotte avesse mai visto, ed un fisico che infiammava ogni creatura del sesso opposto. E si… L’implacabile abitudine di ingozzarsi di tramezzini.
“Non rispondo alle tue chiamate, eh?”
“Non che prima lo facessi spesso”.
“Che differenza fa, allora?” sorrise la mora.
E Nia rise allegra, appallottolando il tovagliolo di carta.
Lei era così. Un concentrato di adrenalina, di irruenza, di energia e luce, che era difficile non rimanerne travolti. Come un meteorite che ti colpisce in pieno petto e ti spinge in una corsa all’indietro facendoti dimenticare i momenti pensierosi, la durezza della vita… e si, Charlotte dovette ammetterlo, anche il senso della responsabilità. Oh ma quello era stato un caso, si disse, pensando alla volta in cui erano scappate da un supermercato con una scatola di caramelle gommose. Beh, non scappavano di certo perché temevano di perdere l’autobus, e il cassiere dietro di loro non le inseguiva per una maratona di piacere. Naturalmente la colpa ricadde su Nia, Charlotte era solo una povera vittima, così come le caramelle… che purtroppo andarono restituite, per evitare qualcosa di serio.
“Che c’è?” chiese ancora la bionda.
“Cosa?”
“È evidente che c’è qualcosa che non va”.
La mora fece leva con le mani sul banco e si alzò. Passò fra la fila di banchi, sorpassò “gli emarginati” e si incamminò verso la porta.
“Hei, senti questa, ho un nuovo giochino di società da proporti” esclamò fingendosi entusiasta, “Facciamo che, per oggi soltanto, non mi usi come cavia per sfogare la tua pazzia psicologica? Mhmm?” le chiese rivolgendole uno sguardo carico di speranza.
“Mai stata più entusiasta di ora, ma… ti rifarei la stessa domanda domani, chérie” ghignò Nia, fissandola sadica.
“Allora… per due giorni?” azzardò l’altra, appoggiandosi al muro del corridoio.
“Puoi andare avanti all’infinito… ma ho tutte le vacanze di Natale, se preferisci”.
E Charlotte la maledisse, prima di abbandonarsi sul pavimento e tapparsi gli occhi.
“Senti. Perché non me lo dici e basta?”
“Perché non ti fai gli affari tuoi?”
“Sei un affare mio. Con le tue onde negative, allontani tutti quanti dal nostro banco, e io non riesco più ad interagire con anima viva” borbottò con aria triste Nia.
“Uhuh! Come se la cosa ti interessasse …”
Lei parve incespicare qualche istante, prima di riaversi e “Non è questo il punto. Voglio che mi dici qual è il problema. Dico sul serio. Ora”.
E fu allora, che Charlotte alzò la testa di scatto e, esaudendo il suo desiderio, le piantò addosso uno sguardo profondo come una voragine, mentre la linea della bocca era dritta ed inespressiva. Non disse una parola. Si limitò a fissarla. A riversarle addosso tutto quello che sentiva, tutto quello che traspariva dal suo animo, nascosto là sotto il petto: il niente.
Cercò di trasmetterle lo spessore e la sostanza dei suoi pensieri, ma era come mostrare un quadro ad un cieco, chiedendogli di ammirarne i colori: impossibile, perché la vista non c’era. E i pensieri di Charlotte non c’erano.
Cercò di farle comprendere il suono delle parole che la memoria le scagliava addosso con forza immane, ma non poteva… perché nella testa regnava sovrano l’unico rumore a cui ella aveva dato accesso: il silenzio.
Cercò di farla partecipare al dolore che avrebbe dovuto trapassare il cuore, ma non vi riuscì, perché il dolore era rimasto fuori della soglia della sua sopportazione.
E se c’era una cosa che a Nia aveva sempre invidiato, era quel riuscire a bloccare il fiume di agonie e disperazioni con un solo sorriso e un passo indietro di fronte alle relazioni. Un tempo lo avrebbe considerato sbagliato e distruttivo… ora era un toccasana.
“Non mi dici niente?”
No ho nulla da dire, avrebbe risposto, ma nemmeno le parole uscirono dalla bocca, perché il suono era stato portato via nell’esatto momento in cui Charlotte aveva fatto la sua scelta. Nel momento cui aveva scelto il suo lato della medaglia.
Deglutì a fatica e si trovò spiacevolmente la bocca e la gola asciutte, come se avesse ingerito un pugno di sabbia. Strinse di riflesso gli occhi nel tentativo di impedire alle lacrime di colare lungo le guance, ma con grande sorpresa si accorse di non averne… Non aveva più nulla da esprimere.

Nia la guardava, rimasta in piedi di fronte a lei, le mani puntate sui fianchi e l’espressione interrogativa lampante. Non era una da gettare la spugna facilmente, certo che no. Il mutismo ad oltranza dell’amica, quello sguardo vuoto e assente, per non parlare della propria ombra che si trascinava dietro come fosse stata l’unica compagnia di cui avesse bisogno, erano durati anche troppo. Amava Charlotte, l’amava come una sorella, se ne prendeva cura nonostante non fosse tipo da spendere tempo per chi consumava il proprio piangendosi addosso… ma quell’agonia inspiegabile non aveva più diritto di esistere.
Non era a conoscenza del suo tormento, ma non ci voleva di certo una tripla laurea in psicologia per capire che il motivo, o per lo meno uno dei possibili, era quell’altro. Quello che Nia chiamava “il mio rivale”. La metà della figura che lei ricopriva, al maschile. Quello che vantava di avere più diritto su lei che non Nia stessa. Robert.
Doveva ammettere di non averlo mai trovato particolarmente simpatico, ne che si fosse preoccupata di impegnarsi ad accettarlo. Esisteva, nulla più. E non per un particolare capriccio di gelosia, ma piuttosto perché… anche se poteva apparire fredda ed insensibile, aveva trovato inutile ed inadeguata la premura con cui il ragazzo aveva protetto Charlotte, portandola lontana dal mondo.
Non aveva mai obiettato. Non apertamente. Non si era mai opposta. L’amica sembrava apprezzare l’aiuto di Robert. Non si era mai intromessa. Charlotte non doveva scegliere chi dei due seguire.
Si era limitata a starle vicino negli ambienti scolastici, nelle sporadiche uscite, ormai quasi nulle, e a scrollarla quando la sentiva più dalla sua parte che non ancorata come una cozza allo scoglio Pattinson.
Caramelle e libri delle fiabe avevano l’utilità di un sonnifero per lenire il dolore, ma non di cancellarlo. E Nia delle favole non sapeva che farsene, perché Charlotte doveva svegliarsi, e non addormentarsi.
Ed ora, guardandola seduta in terra, con gli occhi vuoti e la mente silenziosa, poteva capire una cosa soltanto: che era stata una stupida di dimensioni mastodontiche a non averla rapita prima dalle braccia del “rivale” ed aver permesso che si arrivasse a tanto.
Beh… forse non tutto era perduto. Poteva sempre giocare l’uscita di scena del ragazzo a proprio favore. Del resto, Charlotte era molto meno complicata di quel che sembrasse.
“Allora?”
“Mi sembra di aver già detto abbastanza”, mugugnò la mora, dal basso.
“Naturalmente” commentò in risposta l’altra con fare sarcastico.
Doveva ammettere di sentirsi colpevole a criticare Robert per il suo operato. D’altronde aveva fatto quel che poteva, e non poteva giudicarlo per via della sua indole pericolosamente romantica e sensibile, ma ora occorrevano un altro paio di maniche. Non un sostituto, non una balia, non un amante. Ma un’amica.
Nia sospirò a fondo e contò fino a dieci premendosi la base del naso, prima di piantare i suoi occhioni azzurri sulla ragazza di fronte a se e dire, “Alzati e vai in bagno. Aspetta finché non torno”.
Charlotte la guardò come se fosse un alieno con indosso un vestito da sposa.
“Ho parlato in lingua corrente, perché fai quella faccia?”
“La lezione”.
“La tua dedizione allo studio mi sta dando ai nervi, mia cara. Obbedisci. Da brava, alza il fondoschiena, vai in bagno ed aspettami”, ripeté una seconda volta, ma con tono che non ammetteva più repliche.
Cosa fare quindi se non obbedire? La mora si alzò veloce sotto lo sguardo a calamita dell’amica per poi correre a nascondersi in bagno, mentre Nia entrava in classe ed aspettava l’insegnante seguente: una bugia. Cos’altro di più sano e assolutamente meraviglioso poteva esserci dell’inscenare la parte della compagna preoccupata per l’alunna di salute cagionevole, con tanto di occhi lucidi e parole balbettate? Offriva il pass per uscire di scuola prima e, francamente, si stava annoiando da morire.
Afferrò la propria borsa e quella di Charlotte, salutò l’insegnante sempre mostrando il labbro tremulo, e sgommò in corridoio; recuperò l’amica ancora in stato confusionale e con lei oltrepassò il portone dell’edificio, per poi scendere in strada e sfoggiare un sorriso trionfante.
“Aaaah! Lo senti, dolcezza? Il profumo dell’evasione, è adorabile!” si voltò poi verso l’altra e aggiunse con aria grave “Mi devi un favore… sommato ai cinquecento futuri che, mi sa, mi toccheranno”.
E prendendola sotto braccio, si incamminarono verso la fermata dell’autobus.

Restarono sull’autobus per due isolati, ridacchiando dei tipi strani e curiosi che salivano e scendevano, e lo facevano così forte che dovettero sorbirsi le critiche poco contenute di una signora piuttosto insolita che le minacciava con lo sguardo vendicativo e la mano stretta attorno al manico dell’ombrello. Se poté, Nia rise ancora di più.
Scesero vicino ad Oxford Street e si mescolarono con la gente che scivolava veloce sul marciapiede mentre tutt’attorno le decorazioni per il Natale imminente scintillavano immergendo la città in un’atmosfera surreale.
“Ma tu guarda che traffico” borbottò contrariata Nia, scansando un pedone che la travolse senza troppe smancerie, “Hei! Essere idioti non è una colpa, ma tu ne fai un abuso! Guarda dove cammini!”
Charlotte era davanti a lei e si guardava attorno con aria persa…
Tre settimane. Tre settimane…
“Tre settimane” mormorò mentre contemplava senza vero interesse un manifesto appeso in una vetrina. “Tre settimane…”
“Come?” chiese l’amica, poco distante.
Era passato così tanto tempo. Quasi non se ne era accorta. Non se ne era voluta accorgere.
Aveva lasciato che i giorni le sfumassero sulla pelle come l’acqua evapora al sole in silenzio, senza lasciare più traccia se non un leggero alone sbiadito ed inodore.
Aveva lasciato che le pagine del proprio diario di vita venissero sfogliate dal vento e scritte dalla polvere senza che lei interferisse per cambiare anche una sola parola.
Era rimasta a guardare. Era rimasta ad aspettare. Ad aspettare il silenzio. Ed era diventata un’abitudine così piacevole, il barricarsi dietro una trincea di indifferenza, che quasi poteva dire che sarebbe stata la scelta di vita più comoda e leggera.
Ma c’era qualcosa che non andava. Come un granello di sabbia che raschia sulla pelle asciutta e ti irrita fino a quando non lo scacci con un colpo di mano, fino a quando non ammetti l’evidenza che c’è. Esiste. Il problema esiste.
“Hai intenzione di comprare quel vestito?” le si avvicinò Nia. “Beh… è un bel vestito… un po’ corto. Un po’ scollato… un po’ succinto… un po’ costoso”.
“C-che?” scrollò di colpo la testa Charlotte.
“Quello. È un vestito, sai?” chinò il capo verso lei l’altra, con aria di chi parla ad un’idiota.
“Lo so cos’è”.
“Lo vuoi comprare?”
“Nemmeno per sogno!” sbuffò la mora.
“Perfetto!” si illuminò Nia battendo le mani, prima di prendere quella di Charlotte e stringerla, “Perché ho visto una giacca stratosferica nel negozio laggiù, ieri, e non avevo nessuna intenzione di aspettarti mentre provavi il vestito! Andiamo!”
E così facendo la trascinò con la forza di un carro armato in mezzo ai passanti. Si fermarono di fronte all’entrata e Nia stava per entrare con gli occhi che parevano quelli di un fumetto in preda ad un attacco di felicità acuta, quando Charlotte la tirò per un braccio e disse seria “Perché siamo scappate da scuola?”
“Perché devo comprare la giacca”.
“Potevamo farlo anche dopo”.
“Saresti tornata subito a casa” annuì l’altra con aria di chi la sa lunga.
“Bastava chiedermelo”.
“Odio essere ripetitiva, e oh guarda! la risposta alle mie ultime tre proposte di uscire a fare shopping è stata sempre quella: certo che no”.
“Non hai risposto alla mia domanda”.
“La giacca”.
“Nia”.
E Nia si spazientì davvero. Le si piantò davanti cacciando le mani sui fianchi e sfoggiò tutto il suo terrore divino di super bionda con i grandi occhi azzurri a calamita.
“Stammi a sentire, tesoro: è Natale. No, tecnicamente manca una settimana, ma fatto sta che ho ancora metà lista dei regali da rimediare. Ma cosa più importante: non ho un regalo per me. E si, sono egoista e amo essere egoista a Natale, perché mai una volta che uno azzecchi il regalo giusto! Oltre a te, ma perché sono io a suggerirti sempre, perciò non vale. Quindi…” indicò l’entrata, “Ora andiamo lì dentro, io do nuovamente un senso a questa giornata compiendo una buona azione nei miei confronti, e tu. Tu finalmente potrai vivere come un essere umano: gente” e allargò la mano attorno a se, “Aria aperta” e alzò l’indice verso il cielo, “Luci, decorazioni: Natale!” e sfarfallò le dita di fronte al viso di Charlotte, “E… maledizione, si, divertimento. Sano divertimento” concluse abbandonando le braccia lungo i fianchi.
La guardò come si guarda una persona che rifiuta di lasciar emergere il buono che è nascosto dentro, per il gusto di voler restare protetti nella proprio stato di emarginazione dai sentimenti, dai legami… e dal mondo.
“Quindi… è per me” sospirò infine la mora.
“E per la giacca”.
“Io non costo come la giacca” sorrise Charlotte.
“Ma mi costi l’emicrania, piccola” annuì Nia.
Charlotte ridacchiò e guardò il negozio, per poi lasciar correre gli occhi alla gente. Alle luci. Alle decorazioni. Al cielo grigio neve che minacciava fiocchi bianchi grandi come batuffoli di cotone. Alla vetrina e al negozio gremito di gente e colori. E a Nia.
“Mi dispiace”.
La bionda fece spallucce.
“E… grazie”.
“Ringraziami alla fine della giornata. Perché sia ben chiaro, e lo dico ora e una volta soltanto” e la fissò intensamente, tanto che Charlotte arretrò di un passo, “La favola della bella tormentata è demodé e mi manda in crisi isterica. Odio le lacrime di autocommiserazione. Odio i silenzi che durano più di dieci minuti ma fanno un fracasso peggio della mia maledetta lavatrice. Ed odio, nessuno sa quanto io odi vedere la rassegnazione di fronte ad una battaglia nemmeno iniziata”.
Charlotte deglutì fissando il dito che Nia le aveva lentamente puntato sul naso.
“Ora è abbastanza chiaro?”
“Oh, certo che si” sorrise subito lei.
“Bene!” si raddrizzò la bionda raggiante. “E adesso prega che la mia giacca sia ancora lì o ti toccherà inseguire chi me la scippata” esordì tirandola dentro il negozio.


***


Non aveva mai preso sul serio l’idea di farsi una vita. Una vita indipendente. Una vita in cui fosse lui a tagliarne i contorni e colorare gli spazi all’interno come più gli piacesse.
Non aveva preso in considerazione nemmeno il fatto che si… il tempo passava. Era come avere un piano ben delineato nella testa, lì nascosto in qualche angolo, ma ben presente, e affidarsi a quello. Seguire una mappa che si svelava solo giorno dopo giorno, e che lasciava il dubbio su quanto sarebbe effettivamente accaduto in un futuro più lontano…
Perché no, non bastava appigliarsi a macchie di colore o melodie che frullavano nelle mente dando quella sicurezza fittizia, che ti rendevano il re dell’intero universo con una sola nota schiacciata sui tasti del pianoforte, o con una striscia di pittura su una tela. Certo, dipingevano il mondo come un meraviglioso posto di promesse, di armonia e spensieratezza, tanto da riuscire ad amare qualunque essere vivente, anche il più rozzo e lurido.
Ma non era così che doveva andare. E ora se ne rendeva dolorosamente conto.
Era appoggiato alla finestra della propria camera, con lo sguardo perso oltre i vetri, sul giardino infreddolito dove i propri genitori discutevano animatamente, la madre appesa al modesto albero di Natale e Richard nascosto fra sei scatole di addobbi sgargianti.
Robert inclinò la testa di lato e trasse un profondo respiro. No, non era così che doveva andare.
Attore un giorno. Modello un altro. Musicista quello dopo… scrittore la notte. E amico sempre.
Amava l’idea di poter dilettare la propria persona in più attività, stare con le mani in mano era una cosa che gli dava il tormento, che lo rendeva isterico ed intrattabile. Gli piaceva riconoscersi capace di grandi cose, di tante cose… di cose belle. Perché l’arte, che fosse musica poesia o canto o pittura, era un qualcosa che riempiva l’animo e lo espandeva, rendendolo grande cento volte di più, permettendo di essere sensibile anche al più piccolo cambiamento del tempo, dei sentimenti, della gente. Rendeva umani. E rendeva potenti allo stesso tempo. Sapere capire… saper comprendere… saper cogliere… saper amare.
Ecco perché non era ancora stato capace di mettere un punto, di mettere un “perché” ed un conseguente “ora si fa così” alle sue mille occupazioni. Poteva scegliere? Gli piaceva ogni cosa.
Ed ecco anche perché, benché gli altri lo rimproverassero, e lui stesso avvertisse l’errore, aveva scelto di aiutare la persona che amava tanto, ma nel modo che più gli si confaceva: proteggendola, imbottendola di pace e di armonia, di poesie e di musica. Perché era quello che era. Lui era una bomba di spartiti, colori e parole d’inchiostro.
Sapeva che non era corretto. Che non era giusto, che non era opportuno. Ma non gliene era importato nulla, ed aveva passato gli anni più belli… benché forse sbagliati.

Spostò lo sguardo al cielo e notò quanto fosse grigio e freddo, sarebbe venuto a nevicare.
Si ritirò di poco dalla finestra e si guardò alle spalle, accanto al letto: la sua valigia restava lì ormai da una settimana, vuota, come a chiedere “Allora, si parte o no?”.
Robert si morse un labbro e fece una smorfia di insofferenza. Decisioni.
Gli ci erano volute tre settimane insonni per capire che era un inconcludente ed un dannato romantico con la testa farcita di fiori e promesse d’amore, così come aveva realizzato che l’unica medicina possibile era quella: un salto drastico. Uno strappo. Una bruciatura. Una pagina nuova.
Adorava le pagine nuove, da riempire e macchiare di inchiostro, ma chissà perché quella non gli andava a genio nel modo più assoluto…
A sentire suo padre, era stato un bene che si fosse confinato in camera propria a meditare e riflettere su quello che avrebbe dovuto costituire, se non altro, un ibrido di progetto futuro, mentre secondo sua madre era stato un idiota fatto e finito a non essere corso a chiedere scusa in ginocchio con tanto di tre camion di rose al seguito come pegno di supplica.
Rob sorrise. Si, forse la vena poetica l’aveva presa da Clare.
Batté le mani sul davanzale e si avvicinò al letto. Prese in mano una cartelletta contente documenti, fogli e scartoffie varie riguardanti la sua odissea oltre mare. Li scorse l’uno dopo l’altro, nonostante li conoscesse ormai a memoria, se li sognava di notte.
Li gettò infine sul cuscino prima di lasciarsi cadere all’indietro sul materasso.
“Dannazione…” brontolò.
Il problema è che lo sapeva. Sapeva cosa doveva fare. O meglio, lo intuiva, lo prevedeva, lo temeva. L’aveva già deciso. Aveva firmato la propria condanna molti giorni addietro anche se, a dire la verità, se ne rendeva drasticamente conto solo ora: accettare una cosa perché devi, non è lo stesso del realizzare che accadrà davvero. Sarebbe partito, e in fondo avrebbe dovuto anche esserne contento, la sua carriera cinematografica ne avrebbe tratto vantaggio, a sentir la manager, forse ancora più entusiasta di lui.
Ma allora perché? Perché la paura lo assaliva? Si certo, l’idea dell’ignoto è una brutta bestia, ma per un artista come lui, l’ignoto è scoperta, è avventura e novità. Beh la verità era che forse era un artista, ma ancora terribilmente inesperto.
Si girò a pancia in giù e si guardò le mani.
Con un battito di ciglia lo rivide. Il colpo che la sua mano aveva sferrato a Charlotte, lei cadere contro il muro e il sangue colare dal naso.
Nascose di riflesso le mani sotto la coperta e sbuffò di frustrazione.
Si. Doveva fare qualcosa. E per quanto era consapevole che avrebbe fatto male, andava fatto. E lui l’avrebbe fatto.


“Richard, maledizione, quello è un nastro!” strillava Clare sventolando un nastrino sottile color rosso acceso, con aria minacciosa, “Quello invece è un fiocco!”
“E con il nastro non puoi farci lo stesso un fiocco?” chiese tranquillo e riflessivo il marito.
“NO!”
Robert scese le scale con le mani affondate nelle tasche della tuta e seguì il suono delle voci dei suoi genitori. Li trovò intenti ad addobbare il salotto che, per ora, sembrava il magazzino di un centro commerciale.
“Ma perché dobbiamo mettere le decorazioni anche lì? Chi vuoi che le veda?”
“Io!”
“Beh allora falle da sola, sono tre ore che ti passo palline di Natale e angioletti che sembrano conigli coi boccoli, mi sono stancato… Oh, ciao figliolo”.
Clare si voltò di scatto e seguì lo sguardo le marito.
“Robert, sei sveglio” esclamò allegra.
“Con tutto il vostro… addobbare, nemmeno un morto poteva dormire, mamma”.
Richard ridacchiò e colse al volo l’occasione per arruolare il figlio in aiutante-addobbi, per svignarsela in cucina e sferrare un attacco a sorpresa al dolce che la moglie aveva sfornato quella mattina.
“Richard non ti azzardare, chiudi il frigo!” strillò tuttavia Clare dal soggiorno.
“Cosa devo farci con questi, mamma?” chiese Robert con aria afflitta, armeggiando con un enorme gomitolo di striscioni dorati.
“Oh! Quelli puoi metterli attaccati alla ringhiera delle scale, o appenderli all’entrata, tesoro, come preferisci!” gioì lei tornando a sistemare stelline e angioletti.
Robert rabbrividì. Non aveva la benché minima intenzione di prendere chiodi e martello per poi arrampicarsi in cima alla porta e appendere quell’enorme agglomerato di paillettes: alta percentuale di precipitare dalla scaletta, e certezza di battersi il martello sul dito.
Pilotò senza dubbio verso la ringhiera delle scale.
“Papà?”
Dalla cucina si sentì un tonfo e la porta del frigo richiudersi di scatto.
“Richard…” ringhiò la moglie in soggiorno.
“Si figliolo?”
“Ho… pensato a quello che mi hai detto” cominciò il ragazzo, mentre cercava di dare una forma ad uno degli striscioni, “Alla valigia”.
Non poté sentire il respiro trattenuto della madre, ne poté vedere il sorriso storto sul volto del padre. Continuò a parlare ignaro, “Penso che tu abbia ragione”.
“Sempre e comunque” disse il padre, ancora in cucina. Ora si sentì un rumore di sportello della dispensa. “Ma stavolta a che ti riferisci?”
Il silenzio aleggiò nella casa per qualche breve attimo, mentre Robert si arrabbiava con lo striscione ed era ad un passo dal farne coriandoli.
Richard scivolò via con aria di chi ha trovato la marmellata, nascosta da Clare, e si affiancò al figlio, parlandogli a bassa voce affinché la moglie non sentisse, “Intendi ragione sul fatto che la valigia è troppo piccola… o che non era poi tanto sbagliato restare a meditare su qualcosa di produttivo?”
Il ragazzo diede uno strattone all’addobbo e si ritrovò di colpo con due striscioni più piccoli per le mani; sospirò deluso, per poi borbottare, “Tutte e due, papà, tutt’e due le cose”.
Ed il sorriso che comparve sul volto dell’uomo era fra i più raggianti e luminosi che Robert aveva mai visto. Si sentì un po’ contrariato, ma del resto capì: lo faceva per lui, lo faceva per il suo bene, era pur sempre un genitore.
“Sono fiero di te, ragazzo” gli disse, battendo una mano sulla spalla e stringendogliela.
“Per la mia scelta o per l’aver fatto a pezzi lo striscione della mamma?”
“Beh… entrambe le cose, credo” annuì l’uomo, fissando con aria cattiva l’addobbo.
“Mi serviranno due valigie allora”.
“Credo sia il minimo: tua madre non ti ha rifatto il guardaroba mica per rendere cenere il mio stipendio, sai?”
“Sono certo che l’avrai incoraggiata tu, per vedermi sloggiare il prima possibile, vero?” commentò alzando lo sguardo azzurro sul padre. Non era di certo scemo.
“Beh… diciamo che l’ho fatto per una buona causa” si giustificò lui, grattandosi la nuca.
Dal soggiorno arrivò acuta la voce di Clare, “Cosa state confabulando di là, voi due? Robert non t’azzardare ad aiutare tuo padre nelle sue crociate in cucina!”
“No, mamma…” rise il giovane.
“Che fate?”
“Parliamo, mamma”.
“Di cosa?”
“Di addobbi natalizi…”
“Come procede la scala, tesoro?” trillò lei.
“Oh, ehmm… ho più materiale del previsto ora, gli striscioni si sono moltiplicati” gemette Robert, guardando anche il secondo addobbo rompersi ad un ennesimo strappo.
“Si sono cosa?!” strillò con voce più alta di tre ottave la madre.
“Ma che… li fanno di carta velina?” ringhiò il ragazzo al padre, cacciando il rimanente sotto i piedi e pestandolo con rabbia.
“È una cosa che mi è indifferente, addobbi e mobilio a tua madre, cucina e prato a me”.
“E io che c’entro con gi addobbi, scusa?”
“Sei l’erede. Devi saperti destreggiare con entrambe le cose: sei un asso in cucina… nel ripulire i piatti. Devi eccellere anche nell’addobbare, ragazzo” commentò solenne Richard, con l’aria di chi istruisce il figlio su un’importante lezione di vita o di morte.
“Credo che non mi mancheranno affatto quando sarò via”.
“Mentre io sarò costretto a sorbirmi quelli di Pasqua…”
“Nella buona e nella cattiva sorte, papà” sogghignò di vendetta Robert, rammentandogli il giuramento del matrimonio.
“Figlio ingrato” lo colpì affettuosamente al petto il padre.
“Ma allora, di che parlate?” riprese Clare dal soggiorno.
“Di eredi mamma…”
“Di che?!”
“A tuo figlio serve un’altra valigia, donna”.
Seguì il tonfo di un oggetto che cade sul pavimento, e poi il silenzio. Un silenzio che durò così tanto che i due uomini di casa si guardarono perplessi negli occhi, temendo che Clare si fosse strozzata con uno dei nastri rossi, ed erano sul punto di avanzare verso il soggiorno, quando la donna comparve sulla porta reggendo in mano un angioletto bianco.
Richard abbassò lo sguardo e voltò il capo altrove. Aveva capito…
Robert storse la bocca e sentì una morsa al cuore nel vedere la propria madre piangere copiosamente mentre stringeva un pupazzetto candido come se fosse stata la sua ancora di salvezza.
“Un’altra valigia…”
Il ragazzo cercò di dire qualcosa, ma le lacrime stavano minacciando anche lui e la voce gli morì in gola.
“Si certo, quella che hai preso è talmente minuscola che non basterebbe nemmeno a…” ma si fermò, tirando su col naso e guardando l’angioletto. “Sai io non ho ancora avuto modo di parlarti Robert, riguardo a… questo”.
“Non ce n’è bisogno, mamma” cercò di andarle incontro lui. Ma Clare parve non sentirlo.
“Io non… Io non sono egoista, Robert. Forse non sarò la madre migliore, forse avrei dovuto spingerti a fare scelte più produttive e costanti, forse… forse avrei dovuto vietarti delle cose e obbligarti a farne delle altre. Forse…” ma si fermò un istante perché la voce le venne a mancare. Sospirò. “È che ho sempre cercato di vederti felice, di saperti contento, entusiasta. E sapere… sapere che andartene può provocarti dolore, e che soffrirai per noi, e per… beh, anche per lei… ecco io pensavo non fosse giusto. Perché dovresti?”
“Mamma”.
“La verità è che ho voluto nascondere l’ovvio. Tuo padre è più pratico in questo. Io sono una madre, non un sergente marines: sono brava a fare torte e addobbare la casa, a spiare i vicini e a strillarti dietro, a te e a quell’altra anima di Tom. Faccio il mio dovere. E avrei dovuto farlo anche ora” alzò il capo e mostrò i grandi occhi azzurri che Robert aveva ereditato. Sorrise, “Perciò rimedio. Anche se in ritardo”.
Una lacrima scivolo lungo la guancia di Robert.
“Ti aiuterò a fare la valigia, o finirai col riempirla di pacchetti di sigarette e libri, lasciando a casa quello che ogni buon cristiano si porterebbe in primis” rise scuotendo l’angioletto.
Il ragazzo non si trattenne più, colmò la distanza che li separava e abbracciò di slancio la donna, stringendola a se, contro il proprio petto, e la cullò.
“Mi aiuti anche con le cose del bagno, vero?”
E Clare alzò gli occhi al cielo, prima di annuire e stringere il figlio, mentre Richard li guardava commosso e con quel sorriso sghembo dipinto sul viso. Quella era la sua famiglia, quella era la vera forza. Una forza che non si sarebbe mai dispersa, che sarebbe rimasta viva in eterno, non importa quanta distanza vi fosse stata fra loro, sarebbe rimasta.
Annuì col capo, e con fare risoluto si incamminò verso la cucina dicendosi che si, ora la fetta di dolce era davvero d’obbligo.
 

***


Era sfinita. Era distrutta… era a pezzi.
Abbandonandosi alla stanchezza, Charlotte si lasciò cadere all’indietro sul letto e represse un gemito acuto di dolore.
“Oddio, i miei piedi…”
Quattro ore. Quattro maledettissime ore, e aveva cominciato a pregare che una voragine si aprisse sulla strada e la inghiottisse permettendole di riposare in santa pace.
“Io quella strangolo, ma tu guarda” gracchiò scalciando per togliersi le scarpe, prima di vederle volare attraverso la stanza. Rannicchiò le ginocchia al petto e si abbandonò di lato sulle coperte. Si, era davvero esausta.
“Devo rifarmi di tutte le volte che mi hai dato buca, chérie: adesso soffri” imitò la voce di Nia, sbattendo gli occhioni al modo suo, “Soffri… soffri un paio di cavoli, sono un invertebrato ora, accidenti a lei” mugolò tirandosi a sedere con una smorfia.
Lanciò un’occhiata all’orologio. Non erano ancora le cinque e mancavano due ore prima di cena. Un sorriso malefico le si allargò sulle labbra: si, poteva rubare due ore di sonno al pomeriggio, se le era meritate in fondo. E prima che riuscisse a mettersi sotto le coperte, gli occhi le si chiusero da soli e lei sprofondò in un sonno senza sogni.

Trascorsero quelli che sembrarono dieci miseri minuti.
Dondolava. Avanti e indietro, mentre una luce fastidiosa le violentava gli occhi ancora chiusi.
“Hei…”
Charlotte cercò di scacciare la luce con la mano ma colpì solo l’aria; sbuffò infastidita.
“Bimba…”
Fece una smorfia che esprimeva tutta la sua contrarietà e lentamente aprì gli occhi. Non era contenta.
“Checccosac’è?”
“Ciao anche a te” sorrise Marie Anne, smettendo di dondolarla sulla spalla.
“Nonna stavo dormendo” biascicò la ragazza.
“Oh, me ne sono accorta: sono tre ore e mezza che dormi”.
“Sono cosa?”
Fece uno scatto alzando di colpo la testa per guardare la sveglia. Troppo in fretta… le ossa scricchiolarono.
“Ah… ah… ahia…”
“Vedo che ti sei divertita con Nia” commentò allegra la donna, seduta sul bordo del letto.
“È una pazza”.
“Compere e pettegolezzi a Natale è la cosa più salutare del mondo, bambina”.
“Ma non la schiavitù!” lanciò le braccia al cielo l’altra, “Abbiamo inseguito la sua dannata giacca per tutti e tre i piani di quel maledetto negozio, e io spero solo che crolli ora… adesso! E poi, poi sai che ha fatto?” si mise a sedere con gli occhi sgranati, “Ha aspettato che la poveretta che l’aveva presa andasse in camerino con un paio di pantaloni nuovi, e gliel’ha sfilata dal mucchio di roba ancora da provare… Poi mi ha fatto rifare i tre piani di scale ad una velocità che non penso sia umanamente concepibile; mi sono spalmata a marmellata sul muro del secondo perché un deficiente aveva deciso che fosse intelligente allacciarsi le scarpe a metà scala” ed esibì un livido rilevante sull’avambraccio destro, “Abbiamo pagato io spero con soldi, e siamo uscite correndo di nuovo, nemmeno avessimo un Balrog alle calcagna… per poi entrare in un altro negozio” concluse chiudendo gli occhi sofferente.
“Ve la siete spassata, insomma” ridacchiò la nonna.
Charlotte riaprì gli occhi scuri e la fulminò letteralmente.
“Oh non fare quella faccia, è Natale… quasi”.
“E io non voglio più vedere giacche per i prossimi sette anni, dico sul serio”.
Marie Anne rise forte, prima di alzarsi e puntarsi le mani sui fianchi.
“Allora, che ne dici di cenare? Cena cinese” fece l’occhiolino. E Charlotte sentì che il mondo aveva di nuovo senso.

Non fecero in tempo a sedersi a tavola che la ragazza si era già riempita la bocca di riso cantonese. Sospirò felice.
E felice lo era anche Marie Anne. Beh forse non per il livido sul braccio della nipote ne per l’evasione da scuola, che Charlotte aveva distrattamente biascicato, ma per il semplice motivo che ora, in quel momento, la vedeva vivere. Stanca, acciaccata, ma con una giornata piena alle spalle, dei ricordi in più da conservare e un’amica che, ne era certa, non l’avrebbe mai abbandonata. Si appuntò mentalmente di chiamare Nia e ringraziarla.
“Non lo prendi quello, vero?” bofonchiò Charlotte indicando un involtino primavera. Marie Anne scosse il capo e glielo porse.
Non aveva proferito parola riguardo a quello che era accaduto tre settimane prima, nonostante non ne fosse affatto contenta. Amava Robert come un figlio adottivo, ma ritrovarsi con la nipote con il naso grondante sangue e i nervi a pezzi non era esattamente il tipo di comportamento che poteva tollerare, a prescindere dalle loro solite scaramucce. Aveva dovuto controllarsi e fare due ore di training autogeno per non correre a pescare il ragazzo e assestargli due schiaffoni, ma confidò nel buon senso di Richard.
Il fatto poi che avesse deciso di non immischiarsi era dovuto ad una cosa molto semplice: dovevano sbrigarsela da soli. Ovvio, se fossero arrivati alle mani una seconda volta, sarebbe intervenuta, ma voleva credere che non si sarebbero spinti a tanto… E inoltre, forzare Charlotte a discuterne, era come implorare una parete di granito di mettersi a ballare il tip tap: assolutamente inutile.
L’aveva tenuta sotto controllo durante tutto il mese, era tutto ciò che si riteneva in grado di fare.
“Sono contenta che tu sia uscita oggi” commentò infine.
La ragazza smise di masticare un istante, “Mi fa… piacere, nonna”.
“Pensi che riaccadrà di nuovo?”
“Dipende”.
E la nonna preferì non calcare la mano, avrebbe aspettato. Un passo alla volta…
Parlarono del più e del meno, rubandosi dai piatti e aprendo le seconde porzioni ancora inscatolate; la mora raccontò della noiosa lezione di chimica e della figuraccia che Nia le aveva fatto fare di fronte a Simon, uno dei ragazzi più belli della scuola, come da manuale. Marie Anne tornò indietro nel tempo, ai tempi del liceo e sorrise beata.
Finito di cenare, sparecchiarono e riposero gli avanzi nel frigo, per poi passare al lavello dove iniziarono una piccola guerricciola con acqua e detersivo. E non erano ancora al secondo piatto da lavare, che qualcuno suonò al campanello.
Le due si guardarono.
“Aspetti qualcuno?” chiese Marie Anne.
“Se è Nia, mandala via, dille che non ho più i piedi” ringhiò lei tornando a lavare i piatti.
La donna si affrettò alla porta e con suo sommo piacere sorrise al nuovo arrivato, pensando che quel giorno era davvero la rivincita di tanti anni tristi.
“Bambina guarda un po’ chi c’è?”
Charlotte voltò di poco il capo, alle proprie spalle, e un’espressione di sorpresa le si dipinse sul volto.
“Ah…”
“Ciao scricciolo” la salutò Tom. La osservò poi meglio, piegando il capo di lato, “Perché hai del sapone in testa?”
“Oh. Io… la nonna…” incespicò. “Ciao Tom”.
“Hai già cenato ragazzo?” sopraggiunse la donna.
“Si grazie, pizza!”
“Giacché ti nutri solo di quella”.
“Non voglio sconvolgere troppo il mio canale alimentare: sono una persona delicata” sghignazzò lui.
“Lo immagino” ribatté Marie Anne, alzando gli occhi al cielo. Quel tipo non cambiava mai.
“Come mai sei qui?” chiese Charlotte, mentre sciacquava un bicchiere.
Aveva un tono scortese. Lo aveva spesso quando lui era nei paraggi o era costretta a condividerci lo stesso spazio, come adesso. Non che avesse nulla nei suoi confronti, era un amico come un altro, ma… non era la sua faccia che vedeva quando si voltava a guardarlo, ma quella dell’amico che avevano in comune. E la cosa le provocava dolore.
“Passavo di qua”.
“Casa tua è dall’altra parte”.
“Non ero a casa”.
“Compere di Natale?” intervenne Marie Anne.
“Maledizione, si: mamma mi ha spedito a comprare i regali per la zia” e dicendolo lasciò intendere tutto l’entusiasmo che aveva provato nel farlo: nessuno.
La ragazza continuava a lavare i piatti, ostinandosi a dare le spalle al giovane, e sia lui che la nonna se ne accorsero. Si guardarono un istante, un lungo cenno di intesa, d’altronde combattevano sullo stesso fronte. Fu Tom a prendere parola.
“In realtà sono qui per requisirti”.
“Sei qui per cosa?” si voltò allora Charlotte.
“Usciamo”.
La mora allargò gli occhi e serrò le labbra. Marie Anne si mise una mano davanti alla bocca per reprimere una risatina: quel ragazzo era davvero un temerario.
“E dove vorresti andare, di grazia?”
“Oh, è una sorpresa”.
“Non mi piacciono le sorprese”.
“Pazienza, a me un sacco” sorrise allegro Tom, strofinandosi le mani. Peccato che non avesse notato il bicchiere in mano della ragazza, già predisposto ad un lungo lancio attraverso la stanza.
Fu Marie Annie, silenziosa, a levarglielo dalla presa e riporlo nell’armadietto.
“Uscite?” chiese.
“Non credo”.
“Certo che si”.
“Voglio prima sapere dove andiamo”.
“Non penso che Tommy voglia portarti in un locale ad ubriacarti, vero caro?” si assicurò la nonna, rivolgendo al giovane un’occhiata così feroce che avrebbe fatto abbandonare anche la più misera intenzione di fare uso di alcolici quella sera. Tom deglutì.
“A-assolutamente no” bofonchiò, “Solo zucchero filato”.
“Zucchero filato?” chiese Charlotte.
“Ottima idea” commentò la donna. Aveva intuito la meta.
“Già. Allora vieni?” domandò ancora il ragazzo, ad un passo dal mettersi in ginocchio. “Non c’è nulla di pericoloso in un posto dove vendono lo zucchero filato, te lo posso assicurare. Vieni?”
Lei non seppe che rispondere.
Era stanca, esausta. Non si sentiva più i piedi e voleva tornare a dormire. Ma non era quello il punto. Perché la vera domanda era: sarebbero stati soltanto loro due? Escluso lo zucchero filato, certo.
Tom parve intuire il suo cruccio, perché assunse un’espressione dolcissima e disse “Una piccola rimpatriata con questo vecchio ubriacone, stasera in sciopero, che ti perseguita da due settimane. Puoi concedermelo?”
Si, erano due settimane. Non era proprio sicura di essere contenta di averlo di nuovo accanto; certo, era il secondo buon amico a cui teneva immensamente e che, doveva ammetterlo, gli era mancato molto. Le mancavano le sue battutine assurde e il modo di fare ironico e leggero, per non parlare delle sua mania per la pizza. Le mancava Tom…
Ma da quando era successo il fatto tre settimane addietro, vedere lui era come vedere di riflesso anche Robert, come se Tom si trascinasse dietro l’ologramma dell’amico, che aleggiava a mo’ di fantasma, e questo la disturbava immensamente.
“Allora?”
Sospirò a fondo. Beh, fatta una pazzia quella mattina, evadendo, tanto valeva chiudere in bellezza. Quasi non si riconosceva.
“D’accordo, vada per lo zucchero filato” annuì.
“Grande!” esultò Tom, lanciando un pugno in aria. “Ti aspetto fuori, fai in fretta!” e detto questo si eclissò in corridoio ed uscì.
Charlotte scoccò un’occhiata alla nonna, e quella sorrise. “Ti divertirai”.

Si incamminarono un quarto d’ora dopo, a braccetto, diretti verso il parco.
“Allora, com’è andata oggi a scuola?”
“La solita noia”.
“Chimica?”
“E matematica…” sbuffò sconsolata lei.
“Le due migliori materie per concentrarsi su attività extracurricolari”.
“Non… credo di voler davvero sapere cosa combinassi durante matematica” lo guardò preoccupata, ma abbozzando ad un mezzo sorriso.
“Questo perché non sai cosa facevo a chimica, dolcezza” ricambiò lui inarcando le sopracciglia con fare ammaliatore. E la ragazza non poté fare a meno di ridere.
Voltarono l’angolo e si fermarono. Si, era davvero una sorpresa, dovette ammetterlo.
“Il Luna Park!”
“E lo zucchero filato, per servirla, madame” la guidò allegro Tom all’entrata.
Pagarono il biglietto e in pochi attimi si confusero con la folla di gente urlante e in fermento.
Fu come tuffarsi in una piscina piena di pesci colorati in cui si diffondeva una musica da carillon: era diverso. Non era abituata a frequentare i luoghi così rumorosi, o meglio… non lo era da qualche tempo. Le luci, le bancarelle e le persone che si accalcavano per fare la fila ai giochi o comprare dolcetti e pupazzi, le attrazioni che sbucavano in ogni dove e da cui provenivano strilla eccitate o terrorizzate, tutto quanto sfociava in una girandola confusionaria ed opprimente che, poco dopo, Charlotte fu costretta ad aggrapparsi al braccio di Tom con tutte le proprie forze.
“Stai bene?” le chiese subito il ragazzo, preoccupato.
“Io… si. Si, sto bene. Sono solo…” disse scuotendo la testa evasiva. “È solo che è un po’ diverso”.
Tom la guardò e parve capire. Forse aveva osato troppo a portarla lì. “Vuoi tornare a casa? Ti accompagno”.
“No. No” lo rassicurò lei. “È ok, mi piace”.
Non capì se lo disse più per non farlo dispiacere o se per un desiderio inconscio di restare fuori di casa. Quella era una giornata diversa dalle altre… e come tale, decise di ragionare fuori dall’ordinario.
“D’accordo. Vuoi provare qualche cosa?” propose il ragazzo, guardandosi attorno. “La casa degli orrori. La… strega impazzita. Il… che diavolo è? Oh, il bruco!”
“Da quando ti piace il bruco?” rise lei.
“È un pezzo di storia, mia cara. Potrei dire di preferirlo alle montagne russe”.
“Pensavo preferissi la…” ed allungò il collo per leggere l’insegna, “… casa dello squartatore. Dio, non ci entrerei nemmeno da fantasma là dentro”.
“Cuore debole, fanciulla” ridacchiò autoritario lui.
“Parla l’amico del bruco”.
“Ma tu non volevi lo zucchero filato?”
Charlotte rise e gli diede un buffetto sulla spalla, prima che Tom la trascinasse alla bancarella dei dolci con un “Sei una maledetta poppante”.
Restarono ad osservare i mille tipi diversi di dolci, tanto che si chiesero se alcuni fossero davvero commestibili; arrivato il loro turno, presero due zuccheri filati enormi e, soddisfatti, si incamminarono verso la ruota panoramica.
“Non soffri di vertigini, vero?” le chiese Tom.
“Certo che no”.
“Io si”.
Charlotte si voltò a guardarlo con aria divertita, “E cosa ci saliamo a fare, scusa?”
Lui fece spallucce. “Ma tu vuoi andarci… e poi ho lo zucchero filato per consolarmi”.
Era davvero unico. E ancora una volta, la ragazza dovette riconoscere di quanto le fosse mancato. Era arrivato dopo Robert, all’età di nove anni, facendo subito comunella con il ragazzo ed ereditando la sua mania di prenderla in giro. Insieme erano davvero insopportabili, la peggior coppia di bambini che il mondo avesse mai partorito… ma lei gli voleva bene. Col tempo Tommy era diventato la parte divertente del duo, mentre Robe era il lato sentimentale e artistico. Charlotte era la vittima, l’eroina che li sopportava da mane a sera, ma che senza di loro avrebbe avuto l’infanzia più triste e solitaria di tutti.
Ed averlo lì ora, e ripensare ai vecchi ricordi, come sfogliare un album di fotografie, la faceva sentire diversa… Una sensazione estranea, che le si infilava sotto la pelle come aghi roventi e cominciava ad incidere un percorso nuovo. Uscire per un breve attimo dalla pozza d’acqua scura in cui era immersa da una vita, prendere un respiro d’aria e poi tornare sotto.
“Grazie Tommy”.
“Uhm?”
“Grazie…” ripeté lei, sorridendogli e stringendogli il braccio.
E Tom sorrise sfiorandole una ciocca di capelli con occhi affettuosi. Anche a lui mancava la sua vecchia Charlotte…
“Allora vuol dire che facciamo la casa degli orrori?”
Si, era unico.

Si stavano quindi avviando verso la temibile casa degli spiriti, meditando di comprare dell’altro zucchero filato e spettegolando su quanta gente strana ci fosse in giro, quando il ragazzo si fermò di colpo fissando un punto davanti a se. Charlotte seguì la linea del suo sguardo e non poté fare a meno di impallidire.
Robert era lì. In piedi. Immobile. Vicino all’entrata della casa degli orrori. E li guardava.
Il bastoncino pulito cadde di mano alla ragazza, mentre il respiro le si era strozzato in gola.
Sentì al suo fianco Tom irrigidirsi e biascicare qualcosa, ma lo sentiva distante. Sentiva distante qualunque rumore attorno a lei, come se d’improvviso fosse tornata ad immergersi nella piscina scura, puntando verso il fondo. Cominciò a tremare.
Lui era lì. Robert era lì…
Vedeva nitidamente la distanza che c’era fra loro, come un sentiero illuminato da un fascio di luce. Vedeva i suoi contorni stagliarsi contro la massa sfuocata che gli scorreva accanto, riusciva quasi a scorgere i particolari del viso come se lo avesse avuto a meno di un metro di distanza.
Indietreggiò di un passo e si immobilizzò.
Istintivamente si portò una mano al viso, sfiorandosi il naso e vide, dall’altra parte, il ragazzo reprimere una smorfia e spostare il peso su un piede. Cos’era? Dolore? Rabbia? Noia?
Lentamente cercò di riordinare i pensieri. Cercò di scacciare dalla mente il ricordo dell’accaduto, di liberare gli occhi dai flash che la abbagliavano e di porre un filo logico a quel momento presente. Perché sapeva che non era tanto il gesto compiuto a ferirla, Robert l’aveva picchiata spesso da bambina, quanto l’offesa… l’umiliazione. Il tradimento.
E per tre settimane, si era così affannata ad innalzare muri e pareti attorno a se stessa, a barricare ogni eco di ricordo, a cancellare anche la più piccola traccia che le avrebbe permesso di struggersi per l’onta e la frustrazione, che l’avrebbe autorizzata ad interrogarsi e a fare congetture, che ora… averlo davanti, equivaleva a subire un attacco a sorpresa al proprio castello di illusioni. E i ricordi avevano fatto breccia, portandosi appresso i sentimenti.
Con rabbia Charlotte si voltò verso Tom, distante, chiedendogli in una muta domanda se fosse stato per caso tutto organizzato, se la trovata del Luna Park altro non fosse che una messa in scena.
Ma Tom pareva più sorpreso di lei, a giudicare dallo sguardo disorientato, e non riuscì a proferir parola.

Robert la guardava. La vedeva torturarsi le mani. La vedeva aggrottare la fronte e mordersi il labbro. E sorrise dentro di se. Non era cambiata affatto. Era sempre la stessa quando si scontrava con emozioni che non sapeva gestire… sempre la stessa tavolozza di colori mescolati e frasi in rima scombinata.
La vide poi sfiorarsi il viso, e non poté non reprimere una smorfia di dolore. Gli tremarono le mani e si morsicò la lingua.
La vide voltarsi verso Tom e intuì cosa volessi chiedergli: no, non era stata una messa in scena. Ma una maledetta coincidenza a cui lui non aveva saputo resistere.
Era andato a casa di Tom per proporgli una serata in birreria, quando gli era stato detto che era al Luna Park; non ci aveva messo molto a fare due più due. E ora eccoli lì.
Sulle prime aveva dovuto reprime l’istinto di ringhiare all’amico di mantenersi a debita distanza, aveva notato come le aveva sfiorato i capelli… si era sentito bruciare il petto.
Ma la sensazione che l’aveva pervaso non appena i propri occhi avevano incontrato quelli di lei, non aveva eguali. Era come riappropriarsi di un qualcosa andato perduto e gioire per averlo riottenuto, anche se per pochi istanti. Aveva inspirato a fondo, beandosi di quel momento in cui i loro sguardi erano rimasti incatenati, rabbia e sconcerto mescolati assieme in una cascata di parole a cui non avrebbe saputo dar ordine, ma che lo riempì e gli scaldò il cuore.

Charlotte aprì la bocca per dire qualcosa… ma non uscì nulla, se non un gemito strozzato.
Cosa poteva dire? Gli mancava da morire, gli mancava vederlo girare per casa con i capelli peggio di un covone di paglia, e la felpa storta. Gli mancava sentirlo suonare e strillare che era stufo di vederla studiare. Gli mancava vederlo dormire di traverso sul divano e ingozzarsi di panini, di notte in cucina. Ma più di tutto gli mancava il modo in cui la guardava, in cui la abbracciava, stringendola a se dicendo che sarebbe andato tutto bene.

Robert chiuse gli occhi, per poi riaprirli e lasciare che una lacrima gli scendesse lungo la guancia.
Aveva preso una decisione pochi giorni addietro, aveva scelto che cosa fare, aveva scelto per cosa combattere. E vedere ora ciò che avrebbe lasciato alle spalle per sparire e costruirsi un futuro diverso, lo avvertì come una morsa insopportabile al torace e alla testa, tanto che si piegò di poco su se stesso sofferente.
Avrebbe voluto parlarle, spiegarle di come si sentisse cambiato ora, di come volesse affrontare la sua vita, sotto una prospettiva diversa, avrebbe voluto renderla partecipe del nuovo. Ma d’improvviso ogni buona intenzione era scomparsa, cancellata dalla paura, e i propositi a lungo meditati erano sfumati lasciandolo con le spalle scoperte. Vedeva tutto e niente.
Era stato un errore venire, si disse.
Indietreggiò di due passi e poi sì volto deciso incamminandosi fra la folla, verso casa.

Charlotte lo vide farsi indietro e poi sparire fra la gente.
Ebbe paura. Era lì, e un attimo dopo era scomparso. I piedi le si mossero da soli, lanciandola in una corsa che non aveva premeditato, scostando i presenti e cercando disperatamente con lo sguardo attorno a se, nelle speranza di scorgere la sagoma alta e slanciata del ragazzo. Volle chiamarlo ma ancora non riuscì ad emettere nulla se non un sibilo distrutto.
E quando le fu chiaro che di lui non c’era più traccia, si lasciò andare, incassando il colpo al petto, e reclinando la testa accettando la sconfitta.
Tom le si avvicinò, lo sguardo indecifrabile. Le passò un braccio attorno alla spalla e la strinse a se, aspettando che si calmasse.
“Torniamo a casa”, fu infine quello che Charlotte riuscì a dire.

Aveva scelto l’indifferenza… e ora il suo abito era stato sgualcito e i ricordi erano tornati.








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Sproloqui :)

Alloooors… che ne dite? Sono successe un bel po’ di cosine eh!
Punto numero uno: so che Charlotte può sembrare na palla di depressione che vien voglia di lanciarla giù da un ponte con tanto di masso attaccato al piede, e magari pure uno al collo… ma che volete che vi dica? Morti mamy e papy, e con il migliore amico che ti piglia a schiaffi, qualche complesso di inferiorità alla poverina posso anche concederglielo, dai u.u
Comunque, stavolta l’ho fatta reagire, e da qui in poi ci proverà ancora… forse anche perché il gesto di Robert, benché non premeditato, è una scossa talmente forte che, inconsciamente, la costringe a risalire in superficie e darse ‘na svejata.
Nia. NIA! Io adoro Nia. In realtà doveva chiamarsi Anne, ed essere la versione sdolcinata di Biancaneve… ma poi, dannazione, è saltato fuori ‘sto mostro malefico, che non ho potuto fare altro che lasciarle campo libero xD *ok, malattia mentale e perversa credere che i miei personaggi siano reali, ma vabene lo stesso, è tutto a posto… u.u*
Tom. Non linciatelo stavolta, c’mon! Ho sentito le vostre onde negative mentre scrivevo dei piccoli gesti affettuosi che ha nei confronti di Charlotte, e ho avuto paura @_@ Però, in sua difesa, devo dire che almeno si sforza di essere simpatico, no?
E Bobby. Il suo pezzo solitario è stato immensamente difficile, perché, almeno per me, Robert è un personaggio molto complesso, e per tanto ho cercato di descriverlo nel modo che più credo gli si avvicini: musica, parole e colori… E’ un punto cruciale, è una pagina nuova, ma che va affrontata non in modo banale. È stato difficile, ma spero di esserci riuscita ;)
E… beh… per il prossimo capitolo ho in mente un’ideuzza simpatica, eheh *ghigna malefica*
No. fermi… a dire il vero non sono sicura se la piazzerò nel prossimo o fra due *ci pensa* … boh?! xD Beh, vi dico solo che è un fatto realmente accaduto (a me) e mi sembrava potesse starci nel contesto… vedremo!

passando ai commenti:
Piccola Ketty: Tesoro! Allora... si, Richard è un papà. L'ho messo un po' sul brutale, ma ho cercato di farlo agire da uomo e da genitore più che da persona comprensiva per Rob. E si ancora, Charlotte è un po' pesante, lo ammetto, ma... poverina, capiamola (no invece, linciamolaaa!!! gnahahah xD), ha avuto un po' di scombussolamenti pissssicologici e ora non sa nemmeno da che parte girarsi per scendere dal letto (no beh, forse quello no... ma ci va vicina :P). Non è che lei non sia riconoscente a Bob, solo che... lo dà per scontato, nel senso: lui c'è, e non concepisce l'idea che lui possa svolazzare altrove. ... che pensiero contorto xD
A dirti la verità, si, l'idea iniziale era quella di far scappare Bobby senza dire niente a nessuno, tranne che a mamy e papy. Ma poi ho pensato, e letto anche il tuo commento, che se glielo facevo fare diventava una trincea di storia con tanto di spade laser xD
Tommy, ehmmm... mi sa che allora in questo capitolo lo odierai ammmmorrrrteeee!! Dai tieni duro, pochi capitoli e poi lo vediamo eclissarsi per un po', o almeno questi dovrebbero essere i miei piani u.u
Kris, uhmm... simpatica antipatica, non lo so. E' strana. E la farò agire da persona strana, fidati di me ;) Però te ne lascio un pezzo se vuoi esercitarti con la mazza, ahahah XDD
Grazie cmq sempre per aver recensito, sei gentilissima, e spero che anche questo nuovo chap ti sia piaciuto!! E... ma sei genovese? x) bacioni :3
anniesomerhalder: cocca ^^ beh si... sta storia dello schiaffo mi sa che ha traumatizzato un po' di persone e... mi spiace *scuote il capo afflitta* ma secondo me ci stava, cioè... era un toccasana per la storia e poi dai: Bob è stressato a mille, quella non la pianta di fare la pianta da soggiorno, mi sembrava legittimo piantarci un destro e un sinistro, eh eh u.u Comunque tranquilla, ora le cose miglioreranno... con calma per lei, ma lui va verso il nuovo mondo, ehehe *kristen in viiiistaaaa* Grazie mille e spero che anche il nuovo chap ti sia piaciuto! kiss :3

 


In quanto al progetto di cui parlavo prima.
Sto cercando di pianificare un’idea che coltivo da parecchi anni ormai, due o tre, e finalmente mi sono decisa a lavorarci sopra seriamente. Non mi aspettavo che fosse così difficile, probabilmente perché ho sempre visto gli altri mettere mano a imprese così mastodontiche da non rendermi effettivamente conto di quanto sia faticoso ed impegnativo. Comunque… mi porta via del tempo. Oltre agli esami, se ignoriamo il fatto che ho perso temporaneamente la voglia di studiare *sessione estiva, CREPA!*
Tutto questo sommato al caldo.
Io so di non essere una persona costante nell’aggiornare, di fatti sono una più da one-shot e via. E non perché non abbia a cuore quello che scrivo, anzi. Più che altro perché scrivere di persone reali è una cosa delicata, non… facile. Il modo in cui io descrivo Bobby, benché per me sia abbastanza fedele, potrebbe essere in realtà lontano mille mila volte dal vero lui, e non faticherei a crederlo se me lo dicessero. Non ho la presunzione di conoscerlo, benché mi farebbe piacere perché è un personaggio curioso (e che non associo a Cullen), e quindi scrivere ogni volta un capitolo nuovo, con nuove scene, con nuovi dialoghi e nuovi risvolti è come sviscerare il carattere di Robert e reinterpretarlo a modo mio, giusto o meno che sia.
So anche che questo mio aggiornare sporadico mi porta via lettori/lettrici… l’ho notato dal calo di letture xD E mi spiace: sia perché lo avverto come una mia mancanza nei vostri confronti (perdono…) e sia perché io non so più che fare!!!
Perciò, se vi va, battete un colpo e dite che ne pensate, se abbandoniamo la nave o continuiamo con l'avventura, eheh XD Inoltre finita l’estate dovrei tornare ad aggiornare anche settimanalmente u.u
Ditemi! Parlate!! ç_ç

Inoltre, ringrazio: Ello, epril68 e fringui, per averla aggiunta ai preferiti.
E ringrazio: alice brendon cullen, avaadore, baby90, BrandNewSibyl, Dark Angel 1935, DolcePotter, Eli2345, Ello, fire and ice, giulimpire, memole_88, Twilly, _Miss_ .... per averla aggiunta alle seguite ;)
E grazie naturalmente a coloro che leggono in silence, yah :)


*col capo cosparso di cenere, se ne va implorando ancora il perdono*
Ci vediamo al prossimo chap, nella speranza di essere sopravvissuta agli esami -.-
Un abbraccio miei divini *-*

beth


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Capitolo 9
*** 08. reazione ***


08
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 8° capitolo – Reazione
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Un capitolo un po’ particolare, specialmente la prima parte… ma spero di essere riuscita nell’intento e che sia leggibile xD
Ci vediamo sotto, bacio ;P















8
“Reazione”







Era seduto sul muretto ed accordava la chitarra. La felpa blu scuro gli cadeva larga sulle spalle e i capelli ancora bagnati dalla doccia gli restavano incollati alla fronte, disegnando righe buffe.
Era l’imbrunire, e i raggi rosso fuoco attraversavano il cielo tingendo le nuvole di un rosa carico, mentre un vento leggero e freddo scuoteva le cime degli alberi spogli, diffondendo una melodia frusciante e malinconica.
Robert storse la bocca mentre giocava con le corde dello strumento cercando disperatamente la nota che poteva completare la piccola canzone che gli passava per la testa da quella mattina.
Pizzicava le corde con leggerezza, quasi le accarezzasse con grazia, facendole vibrare con maestria. Canticchiava. Un mugolio basso e passionale che gli nasceva dalla gola e saliva sino alla testa, riempiendogli la mente di immagini colorate e dolci che accompagnavano la sua idea di musica…
Ci aveva pensato spesso negli ultimi giorni. Probabilmente, una volta partito, non avrebbe avuto più tanto tempo per dedicarsi alla sua passione. Probabilmente era un errore portare con se la chitarra, era una sorta di vessillo di un romantico fatto e finito, cosa di cui alle volte si vergognava. Beh, non che la vena maschile gli mancasse, ma il cedere al fiume dello stupore, della poesia e dell’armonia era una cosa che da tempo aveva aggiunto alle sue debolezze perenni. Fatto sta che decise di comporre e liberare il proprio spirito, prima di salire sull’aereo e abbandonare dietro di se i ricordi.
“Uhmm… no” borbottò, ripetendo un accordo, con il viso rivolto verso il cielo e lo sguardo concentrato. La nota stonava. Un fiore spento in mezzo ad un campo di girasoli. Doveva dargli colore.

Una figura scivolò via dalla veranda e attraversò con calma il giardino, per fermarsi dietro il ragazzo e ascoltarlo con la testa inclinata di lato.
Era un piacere ascoltarlo. Vederlo amare quello strumento come se fosse stato un riflesso di se stesso, un fratello gemello, tanto da non stancarsi mai dal confidarsi con lui ed averne la massima cura. In molti avrebbero potuto dire che si, la musica è un interesse che va coltivato e deve riempire gli spazi di una vita, ma farne un attaccamento morboso poteva essere solo una mera perdita di tempo… o un segno di debolezza, di rifugio da un evidente stato emarginato. Ma per Robert non era così.
Si alzava la mattina con nuove note che gironzolavano e canticchiavano nella mente, per poi fare colazione ed averne altre che già componevano una nuova canzone. Incontrava gli amici nel pomeriggio e attorno a loro disegnava spartiti immaginari, mentre la sera legava melodie malinconiche attorno ai confini del proprio mondo, aspettando il domani. Era come vederlo spostarsi di continuo su scale e scivoli costruiti con macchie nere d’inchiostro ed echi di vecchie e nuove melodie che arrivavano dallo spazio che teneva nascosto dentro il petto; dove camminava, dove rideva, dove piangeva, dove rifletteva… era un piccolo pezzo di musica.

Richard lo osservò imbronciarsi mentre bisticciava con nell’esima nota. Suo figlio. E presto sarebbe partito. Assieme alla sua amata chitarra. Già gli mancava. Gli mancavano tutti e due.
“Ti ho portato una tazza di tè” disse andandogli vicino.
Rob alzò lo sguardo e abbozzò ad un sorriso. Posò la chitarra sulle gambe e prese la tazza.
“Problemi con la tua musa?” chiese ridacchiando l’uomo.
“Non trovo il finale” bofonchiò affranto il ragazzo.
“Una canzone nuova?”
Lui fece spallucce storcendo la bocca. “Ne nuova ne vecchia… è più un riassunto e un prologo messi assieme”.
“È molto bella”.
Rob rise, “È un disastro!”
“Lo dici sempre”.
“Beh…” tentennò lui, osservando il tè nella tazza, “Sono modesto”, concluse, guardando il padre con i grandi occhi azzurro mare.
“Poco ma sicuro. Hai preso da me” gli batté una mano sulla spalla Richard. E il figlio rise.
Finita la tazza di tè, la passò all’uomo e riabbracciò la chitarra tornando a sfiorare le corde. Prima o poi la fine l’avrebbe trovata… era una questione di filosofia.
“Tua madre ha finito il bucato e ha lanciato maledizioni per mezz’ora per tutta la roba che ti ha comprato: penso che non sia molto contenta, ora che la dovrà stirare” raccontò Richard.
“Io le avevo detto che la tuta e le due camicie bastavano”.
“Tu saresti andato in pigiama”.
“Così sarei già stato pronto per la sera… Sul set i vestiti me li danno gratis, che senso ha spendere quando posso risparmiare per cose più utili?” commentò con un ghigno che non prometteva nulla di buono.
“Io spero che… con la lontananza di Tommy, ti prenda una malinconia tale da non toccare un singolo goccio di birra, non è vero?”
Robert alzò il viso con occhi sbarrati. Non diceva sul serio!
“Come scusa?”
“Niente. Tua madre mi ha detto di farti la ramanzina su ‘ Robert non deve ubriacarsi e farsi riconoscere subito ’… Ho adempito ai mie doveri di genitore” annuì asciutto Richard, passandosi una mano fra i capelli. E il figlio rise forte una seconda volta. Suo padre non sarebbe mai cambiato.
Passarono altri lunghi istanti assieme, Robert suonando alla ricerca del finale perduto e l’uomo seduto accanto a lui, con lo sguardo rivolto verso il cielo ormai tinto di viola e blu con una linea sottile e quasi impercettibile color corallo all’orizzonte.
Mancavano tre giorni a Natale. E quattro alla partenza del ragazzo. Era come andare avanti al rallentatore… o forse vi era l’illusione che il tempo andasse più lento, per poter intrappolare ogni singolo attimo nella rete di ricordi per poi ritagliarli e infilarli sotto il cuscino, affinché facessero sempre compagnia. Ma i cambiamenti prima o dopo avvengono, e quando si è sull’orlo del grande salto, tornare indietro e trovare una strada più semplice, è solo una grande perdita di tempo: si chiude gli occhi, si inspira… e ci si lancia. Erano pronti per il salto. O quasi…
“Hai preso il regalo a tua madre?”
Robert sbuffò. “Ho girato sei negozi. Sei! Ero tentato dal comprarle un piccolo set di nanetti vestiti da Babbo Natale, da mettere in giardino. Erano molto carini, con il berretto luminoso”.
Il padre avvampò sul collo per il terrore.
“Ma alla fine ho preso qualcosa di più di pratico” lo rassicurò con sorriso.
“Ero già pronto a diseredarti, sai?”
“Tu che le hai preso?”
“Ho già speso metà della mia settimana ad addobbare casa assieme a lei: non c’è prova d’amore più grande, immagino” commentò solenne.
“Economico soprattutto”.
“Non per i miei nervi…” ribatté funereo Richard, ricordandosi d’improvviso degli angioletti grassi e palline colorate sparse per il pavimento. Un incubo.
“Fra poco arriverà Tom. Usciamo a prendere il regalo per sua mamma. Penso sia più disperato di me… ma ho già intenzione di abbandonarlo al quinto negozio se non troviamo nulla” annuì con vigore a se stesso Robert, come a rassicurarsi sul fatto che forse sarebbe sopravvissuto allo shopping dell’ultima ora.
“Phoebe è una donna semplice, non penso sarà difficile”.
“Anche mamma è semplice…”
“No, tua madre vive nella semplicità quando sono io ad aggiustare le cose, è un po’ diverso come punto di vista” borbottò Richard, fissando con odio l’albero di Natale poco distante che era stato costretto a sistemare perché restasse in equilibrio.
Robert fu tentato dal rispondere, ma la voce di Clare alle sue spalle glielo impedì. I due uomini si irrigidirono sperando che non avesse sentito nulla dei loro discorsi, in particolar modo il marito se voleva arrivare sano e salvo sino alla cena.
“Oh, siete qui! Tesoro, è arrivato Tom, ti aspetta in soggiorno”.
“Grazie, mamma” le sorrise lui, prima di vederla sparire all’interno. Saltò giù dal muretto e prese la chitarra, seguito subito dopo dal padre. Entrarono lasciandosi dietro il freddo della sera.
“Cinque negozi, eh?” scherzò Richard.
“Quattro sono troppo pochi… e sei non se ne parla nemmeno: sono una persona paziente e servizievole, do sempre un certo spazio alle persone a cui voglio bene”.
Avevano raggiunto il soggiorno, dove Tom li aspettava appollaiato sul divano e Clare correva da un lato all’altro della stanza per sistemare alcune decorazioni che, a suo parere, erano fuori posto. Richard alzò gli occhi al cielo con un gemito.
“A chi è che vuoi bene?” chiese curioso Tom, cogliendo la fine del discorso.
“A te” rispose Rob, appoggiando la chitarra sul tavolo.
“E… è una cosa di cui devo aver paura?”
“Dipende” sghignazzò l’altro con aria sadica. Tom si spostò lontano da lui con aria terrorizzata.
“Bene, giovanotti! Andate e cercate di non radere al suolo nulla, o mi toccherà vendere le decorazioni di tua madre per saldare i debiti, capito?”
“Richard!” strillò Clare dall’altra stanza.
“Oh, ma mica tutte eh… metà bastano per restaurare gli Harrod’s” commentò acido lui. Si rivolse poi al figlio, “Ti aspettiamo per cena?”
“No, non credo, mangeremo qualcosa fuori” scosse la testa lui, guardando poi l’amico.
“Uhm! Italiano?”
“Nah, messicano”.
“Ugh! Cinese…”
“Ah, francese”.
“Oh oh, giapponese! Sushi…”
“MacDonal - ”
“E io sono un monaco tibetano, si d’accordo” li afferrò per le spalle Richard, ridendo sotto i baffi. Li spinse verso la porta, “Andate dove vi pare, basta che torniate a casa interi e con tutti i vestiti addosso. O almeno la metà, le scarpe potete lasciarle in beneficenza”.
E fu dopo aver allungato qualche soldo al figlio, che i due ragazzi uscirono stringendosi nelle giacche e salutando il signor Pattinson.

“Tuo padre è strano ultimamente”.
“Lo è sempre a Natale”.
“Bontà in saldo?”
“No. È l’albero che mamma gli fa decorare tutti gli anni in giardino”.
“Oh, brutta storia”.
Camminavano da una mezz’ora, dopo aver preso la metropolitana ed essere scesi a Picadilly Circus. Era uno dei posti che più preferivano: per la gente, per i rumori e i colori, per l’atmosfera, e per i ristoranti e locali. Era una dei piccoli cuori di Londra, ed era anche uno degli angoli dei loro ricordi e dove spesso amavano tornare…
“Hai almeno una vaga idea di cosa prendere a tua mamma?”
“Certo che no” sorrise Tom, mentre adocchiava un take-away cinese con occhi famelici. “Stamattina ha detto di volere un nuovo spremiagrumi, ma tanto lo so che lo usa solo per ingozzarmi di spremute: e io odio le arance. E poi ha detto che voleva un altro paio di Louboutin… va a capire che c’entra con la frutta”.
“È solo un po’ confusa”.
“No, è una donna” commentò lugubre il ragazzo.
Vagarono fra le vie illuminate parlando del più e del meno, gettando occhiate curiose ai negozi e alle piccole bancarelle improvvisate per i vicoli, alla ricerca di un qualcosa di degno per Phoebe: semplice o meno, donna o confusa, qualcosa dovevano pur trovare, e l’umore di Tom era decisamente sconfortato.
Decisero di spostarsi in Oxford Street, dopo che Robert aveva saggiamente proposto di comprarle qualcosa per la casa, originale ma pur sempre femminile, e Urban Outfitters era l’unica fonte di salvezza.
Una volta entrati, furono investiti da un’onda di persone impazzite, che si strappavano dalle mani oggetti e vestiti, scarpe e soprammobili, quasi fossero sul punto di azzannarsi e strapparsi i capelli: Natale? No, la terza guerra mondiale…  I due cercarono di farsi largo fra la folla, pur non toccando nulla per timore di non ritrovarsi più le dita.
“È il terzo negozio in cui entriamo. Ne mancano ancora due,e poi sarai libero” sorrise Tom, mentre curiosava delle lampade su uno scaffale.
“Mi hai sentito?”
Quattro sono troppo pochi, e sei non se ne parla nemmeno ” citò l’amico con una risata, “Pensavo ti saresti fermato al secondo in realtà. Mi sorprendi”.
“Sono una persona servizievole” cercò di darsi tono Robert.
“No, sei scemo, è diverso”.
“Posso sempre andarmene, sai?” gracchiò in risposta l’altro, offeso.
“Oh, io me ne sarei già andato da un pezzo, Bobby” sghignazzò lui.
Robert si fermò e lo guardò, con le mani affondate nei jeans e la bocca serrata. Lo osservò scansare due donne con le braccia colme di vestiti e scarpe, prima di prendere cautamente in mano una cornice in legno e fiori secchi. Lo studiò…
Tommy era un ragazzo a cui voleva bene. Un gran bene. Era il suo migliore amico. Era la voce della verità, quando questa era troppo timida o troppo scomoda per essere rivelata. Era l’occhio attento nelle situazione in cui Robert sapeva di essere parziale e maledettamente distratto. Era la spalla su cui battere il pugno nei momenti di sfogo e il sorriso strafottente che risollevava il morale quando si credeva che ogni cosa fosse una delusione.
Eppure, in quegli ultimi giorni, Robert lo odiava. Lo avvertiva come una presenza irritante. Lo percepiva come un estraneo capitato all’improvviso nel suo acquario di felicità. E se avesse dovuto dipingerlo, avrebbe usato colori troppo scostanti dai propri perché potessero essere in sintonia. Era Tom… e allo stesso tempo non lo era.
Abbassò il capo, osservandosi la punta delle scarpe con una smorfia.
Aveva imparato di recente che era inutile girare attorni ai problemi, assoldata la loro presenza, perché equivaleva a prolungare l’agonia e la confusione, portando all’infinito. E anche se gli doleva ammetterlo, o meglio… trovava strano che potesse accadere, lui, Robert, era geloso.
Si, dannatamente geloso.
“Hei, Bobby: guarda questo, che te ne pare? È spaventoso, ma magari alla mamma piace” gli urlò Tom da dietro uno scaffale, alzando sopra la testa un enorme gatto in legno con due lampadine al posto degli occhi.
Robert lo guardò per un momento, prima di alzare un sopracciglio e scuotere la testa con vigore.
“Si hai ragione: è troppo bello e mi sentirei in colpa a sottrarlo agli altri… credo prenderò qualcos’altro” commentò il ragazzo, sparendo dietro un paravento.
Geloso.
A dire la verità, doveva riconoscere che se c’era qualcuno da incolpare, quello era se stesso, e nessun’altro. Perché era stato lui, in un momento di ansia e forte preoccupazione per ciò che il futuro avrebbe comportato, ad aver chiesto all’amico di occuparsi di lei. Di assicurarsi che non sarebbe mai stata sola, che avrebbe avuto sempre una mano a cui aggrapparsi per potersi rialzare, che avrebbe avuto sempre qualcuno dietro di se, come un’ombra, a coprirle le spalle. Si, era stata una sua preghiera.
E Tom aveva obbedito. Aveva esaudito il suo desiderio. Non aveva colpa.
Il fatto poi che le cose fossero precipitate, e che la separazione di Robert e Charlotte fosse stata anticipata di un mese era attribuibile, ancora una volta, a Robert… Tom aveva solo colto la palla al balzo, e da un certo punto di vista aveva anche agito da amico, andando a sanare la ferita dove lui aveva lasciato lo strappo. Tom era il salvatore.
Geloso.
“Oh mio D - … no, questo è orrendo, non lo voglio nemmeno vedere!” spuntò dal nulla una mano da oltre un mucchio di coperte, sventolando un tappetino da bagno rosa shocking con due antenne a molla a forma di cuore.
Robert strinse gli occhi, ma non rispose.
Era stato insolito, strano, diverso vederlo quattro sere prima assieme a lei, al Luna Park. Era come guardare un quadro e notare una nota di colore troppo calcata rispetto al resto dell’armonia della composizione, ed essere l’unico ad accorgersene. Lei rideva e camminava con una mano stretta attorno al suo braccio, mentre Tom le lanciava occhiate protettive e la guidava attraverso la folla. In altri tempi, forse, non l’avrebbe considerato un elemento disturbante, anzi: sarebbe stato contento di vedere quanto affetto scorresse fra loro, e quanta felicità il ragazzo riuscisse ad accendere in Charlotte… ma per un solo ed unico motivo. In passato, lui, Robert, c’era. Era presente giorno e notte nella vita della ragazza, come un sogno ad occhi aperti che si protrae anche durante le tenebre; considerato, visto… amato.
Ed ora era uno spettatore. Spettatore di una vita che amava alla follia e che osservava scorrere al di là di un vetro appannato e freddo.

“Credo che le prenderò questo, è meno orribile delle altre cose” tornò indietro Tom, reggendo un vaso di medie dimensioni, rosso con dei disegni floreali sul bordo. “Ha la mania dei fiori da mettere a centro tavola: è una cosa utile, e femminile”.
Si ritrovarono l’uno di fronte all’altro, occhi azzurri contro occhi azzurro mare. Sorriso allegro contro bocca a linea dritta. Fronte distesa contro sopracciglia corrugate.
La gente correva e spingeva attorno, ma loro rimasero immobili, a fissarsi, con il vaso rosso a mantenerli distanti.
Non occorreva un veggente per intuire cosa turbasse Robert, e forse la stessa coscienza dava profondi cenni di consapevolezza. Tom si morse un labbro e fece un bel respiro.
“Credo… che tu sia arrabbiato”.
Robert allargò gli occhi e poi li strinse. Nella sua semplicità, era minaccioso.
“Ed immagino anche quale sia il motivo”.
“Non ne voglio parlare” rispose tutto d’un fiato lui.
“Sarebbe il caso”.
“No, non lo penso”.
Tom lo soppesò per un istante, poi guardò il vaso come a cercarvi una soluzione alla tensione del momento. Perché si comportava a quel modo, si chiese? Poteva comprendere la sua possessività verso Charlotte, l’aveva sempre dimostrata, ma perché mettersi sulla difensiva con lui? Lui che non gli avrebbe mai fatto un torto nemmeno sotto tortura. Gli vennero a mente le parole di Richard, riguardo i sentimento di Robert verso lei… e ancora più non comprendeva perché dovesse arrabbiarsi con lui, che di interesse non ne aveva.
“Immagino che il problema risalga all’altra sera, vero?”
“Ho detto che non ne voglio parlare”.
“Volevo chiederti di uscire con noi, ma poi ho pensato che come idea, non brillasse di intelligenza”.
Una vena di rabbia si accese negli occhi del neo attore e lui avanzò di un passo.
“Certo, la mia presenza sarebbe stata di troppo, lo capisco”.
“È brutto da dire, ma si”.
Ovviamente nessuno dei due comprese che, pur usando le medesime parole, si stavano muovendo su due concetti del tutto opposti. Robert si sentiva escluso da un cerchio che rivendicava come proprio, mentre Tom cercava di far riemergere la ragazza passo dopo passo anche se ciò comportava l’assenza della figura dell’altro.
“Bene, immagino che allora sarà in buone mani, quando non ci sarò”.
“Cercherò di fare del mio meglio, Bobby…” rispose teso Tom.
“Mi sembra che ti stia già dando da fare al riguardo”.
“Per un giretto al Luna Park?”
“So che l’hai vista parecchio in questi giorni”.
“Sei stato tu a chiedermi di tenerla d’occhio” ribatté di colpo offeso il ragazzo, stringendo il vaso fra le mani.
E Robert incassò le spalle come se avesse ricevuto un colpo sulla schiena. Fece un passo indietro e gettò un’occhiata fugace all’uscita.
“Senti io credo che… stiamo parlando di due cose diverse” cercò di chiarire Tom.
“Stiamo discutendo sulla stessa persona” fu il ringhio in risposta.
“Ma con intenzioni differenti” calcò il tono lui.
Robert spostò l’attenzione dal pavimento affollato all’amico alla sua destra. Lo guardò rabbioso.
“Che cosa vuoi dir - ”
“Te la stai prendendo per una ragione che non esiste!” scosse il capo. “Mi stai considerando come una persona che potrebbe nuocerti su un campo che… dannazione, nemmeno mi interessa!”
Il ragazzo corrugò la fronte. Non capiva.
“Io voglio bene a Charlotte” spiegò Tom. “E gliene vorrò sempre. Ma è come se fosse mia sorella, o una sorta di cugina molto stretta o… quello che ti pare. Mi taglierei tutte e due le mani, se servisse, ma la cosa finisce qui. Non sono disposto a ridurre a marmellata la faccia di chi le incollerà gli occhi al fondoschiena per più di due minuti, ne voglio diventare scemo per l’ansia causata da crisi di possessività nei confronti suoi e di quelli che invadono il suo spazio d’aria. Io non voglio… non mi interessa. Non in quel senso. Non a me ”.

Robert lo guardò con gli occhi stralunati, pietrificato, per lunghi istanti, l’eco delle parole di Tom ancora vivo nelle orecchie.
Ebbe un tremito improvviso lungo la schiena e sentì le ginocchia cedere sotto il suo peso.
“I-io…” balbettò.
“Non importa. Non ha importanza” gli strinse una mano sul braccio l’amico. “Ho capito”.
Robert spalancò ancora di più gli occhi, se poté, e gemette. Aveva capito.
Come? Perché? Nemmeno lui l’aveva realizzato. Nemmeno lui riusciva a dirlo a parole o a tracciarlo nitido nella propria testa. Era solo un pensiero che andava e veniva, che si portava sulla scia di emozioni ballerine e stralci di parole e canzoni appuntate su un quaderno. Nemmeno lui l’aveva capito.
“No” fu tutto quello che riuscì a dire.
“Oh si invece, ma tranquillo, se vuoi non ho capito niente. È lo stesso per me”.
Il ragazzo scosse il capo e si passò una mano sui capelli e sul viso con un sospiro agonizzante. Gli mancava l’aria tutto d’un tratto e quello spazio affollato gli stava dannatamente stretto.
“È meglio se torno a casa” disse.
“Si. Io qui ho finito, e non credo di avere abbastanza soldi per cenare fuori” si dimostrò solidale Tom. “Nessun problema, Bobby, ci sentiamo domani, se vuoi”.
Robert inspirò ed annuì distrattamente. Si voltò verso il giovane e con un cenno del capo lo salutò, biascicando un “Ciao”, e a passi svelti si disperse fra la gente.


***


Con la mano intirizzita dal freddo, Nia aprì la porta di Starbucks e si gettò dentro come un pupazzo a molla, seguita da Charlotte. Erano congelate, da capo a piedi, le labbra livide e uno sconnesso tremore in tutto il corpo: gran brutta idea la pista di pattinaggio.
“Oh… oh oh… oh…” balbettò la bionda, guardandosi le mani.
“T-tu… t-tu… sei” cercò di indicarla la mora, con occhi cattivi.
“Surg-gelata” sorrise in risposta lei.
“Morta”.
“Eh… no” scosse il capo Nia. “Ma uno a d-dieci che se mi m-mandi f-fuori di nuovo… p-potrei esaudire il tuo d-desiderio”.
Era la seconda volta che la ragazza dagli occhioni azzurri rapiva Charlotte dalla calma della sua cameretta e la costringeva a indossare qualcosa di carino, per poi trascinarla giù dalle scale, scollarla dalla ringhiera, e farle varcare la soglia, con una destinazione ben precisa: pattinaggio sul ghiaccio e cioccolata calda. E sarebbe stata una prospettiva più che allettante e assolutamente imperdibile, se non fosse stato che Charlotte passò metà del suo tempo spalmata sulla pista, con Nia che correva a raccoglierla, travolgendo metà dei presenti come in una pista di bowling, finendo a terra anche lei con un volo che aveva ben poco dell’angelico. Un pomeriggio movimentato… ed era tutta colpa di Nia, naturalmente.
“Cercavo solo di riequilibrare la tua inutile vena acrobatica” disse infine la bionda, mentre sorseggiava una doppia cioccolata con panna.
“Sei molto premurosa ultimamente” soffiò Charlotte da dietro la propria tazza.
“Trovi, vero?” sfarfallò gli occhi l’altra. “Credo di avere un innato senso dell’altruismo, effettivamente”.
“Mi fraintendi. Cercavo di dissuaderti dalla tua crociata missionaria, sai?”
“Oh, ma come sei insensibile” mugolò, prima di cacciarsi un muffin in bocca.
“Si, anche la mia schiena ha raggiunto un livello d’insensibilità unica. È curiosa come cosa”.
“Cosa è curioso?”
“Essere ridotta a pezzi, ogni volta che hai modo di invadere il mio spazio vitale”.
“Questo perché hai sempre vissuto in un acquario, dolcezza: è un problema non mio”.
“Oh… ma come sei insensibile” ripeté sarcastica Charlotte, facendole il verso. E Nia cacciò la lingua con una risata così forte da scuoterle i lunghi capelli dorati.
La mora mosse il capo con aria sconsolata e guardò fuori dalla vetrata, osservando la gente passare, avvolta in cappotti e sciarpe. Si muovevano come formiche impazzite in un enorme prato illuminato, proteggendo fra le braccia pacchi e scatole dai colori sgargianti, e tenendo lo sguardo fisso davanti a se quasi avessero paura di perdersi se mai avessero osato distrarsi… Buffo.
La vita delle feste le tornava estranea. Negli ultimi anni non aveva avuto modo di assaporarla a dovere, o almeno è quello che la coscienza le suggeriva. Passava le sue giornate ad addobbare casa assieme alla nonna, lasciando il giardino e l’albero a Robert, per poi limitarsi a riempire l’atmosfera con canzoni e vecchi film in bianco e nero. Quello era il Natale. Una piccola riunione di famiglia, un incontro di cuori, una delicata manifestazione di affetto. Ma nulla più…
Con l’arrivo delle vacanze scolastiche, vedeva i proprio compagni affannarsi ed eccitarsi all’idea delle grandi compere e corse ai negozi per il centro, emozionarsi per i regali che pensavano avrebbero ricevuto, specialmente da chi suscitava particolarmente il loro interesse. Anche lei un tempo faceva parte di quella giostra luminosa, poi… piano piano… era sfumata in una piccola nuvola scura, lasciata in disparte, perché gettava una vena troppo cupa su un’atmosfera così gaia.
Charlotte sorrise al ricordo. Già. Lei era il temporale.
Solo una persona, non l’aveva abbandonata e anzi, sembrava preferire il gran temporale che la caratterizzava alle luci e scintilli di festa del resto della massa. Nia.
“A che pensi?”
La ragazza bionda la osservava con un sorriso sulle labbra rosse e piene e la testa inclinata di lato. Era bellissima.
Charlotte non rispose subito, alzando lo sguardo sui festoni accesi lungo i cornicioni degli edifici e sugli alberi agli angoli delle strade. Pensare… riflettere… ultimamente non faceva altro.
“Ho visto Robert l’altra sera” disse, senza rendersene realmente conto.
“Oh”.
“Dopo che siamo tornate dallo shopping. Dopo la caccia alla tua bruttissima giacca” aggiunse con una risatina, mentre Nia metteva il broncio. “Tom è passato a prendermi e siamo andati al Luna Park”.
“Oh. Un’uscita a tre” commentò con aria maliziosa la bionda.
Charlotte la fulminò con lo sguardo. “Eravamo solo io e Tommy. Robert… beh, lui… lui è… era lì. Immagino fosse da solo”.
“E avete parlato”.
“Uhm… no”.
“Allora perché raccontarmi l’episodio? ”
La mora storse la bocca, e tornò a mescolare la propria cioccolata con aria triste.
“Perché non sapevo a chi dirlo, immagino”.
Nia sospirò e poi allungò una mano a cercare quella dell’amica. La strinse con forza.
“Tesoro io penso che questa storia stia durando un po’ troppo, non credi? Specialmente perché non sono al corrente di parecchie cose. Godo di un’intelligenza al di sopra della norma, lo so, ma ho i miei limiti” annuì con aria saccente. E Charlotte non poté non reprime un timido sorriso.
Si. In fondo, perché no? Perché non rivelarle quella che da settimane le dava il tormento e le faceva scoppiare la testa? Del resto, anche se la irritava essere schiacciata dalle troppe attenzioni di Nia, la bionda stava solo cercando di dimostrarle che effettivamente c’è un secondo modo di affrontare la vita… Beh, forse non proprio con un criterio ortodosso, ma era pur sempre godersela. E d’altro canto, oltre a lei, pensò, non aveva nessun’altri. Tom ne era già al corrente.
Strinse a sua volta la mano della ragazza, fece un profondo respiro e dopo aver contato fino a dieci, raccontò quello che aveva costituito lo strappo fra lei e Robert.

Nia non mosse un muscolo. La ascoltò in silenzio, fissandola senza battere ciglio. Non diede modo di lasciar trapelare nemmeno la più piccola reazione. Si concesse solo uno sbuffo trattenuto quando arrivarono alla parte dello schiaffo reciproco, per poi tornare nel mutismo.
Una volta che il racconto terminò e la mano della mora tremava in quella della bionda, Nia decise che ora poteva parlare.
“Hai finito?”. Charlotte tirò su col naso e annuì. “Ora capisco un bel po’ di cose. Ci voleva tanto perché me le dicessi?”
“Non mi andava”.
“Certo. Tanto peggio per te che hai sofferto da sola, senza nessuno con cui parlare. Alle volte mi chiedo se tu lo faccia apposta ad essere così maledettamente imbranata. Ma forse è un difetto genetico, non tutti escono sani dalla catena di montaggio”.
“Per favore…”
Nia lasciò andare la mano e si abbandonò sullo schienale, guardando fuori. Il quadro ora cominciava a lasciar scorgere i propri colori, belli o brutti che fossero, si risaliva all’origine.
“Dovrei parlare con Mr. Pattinson, per poter dare un’opinione imparziale” disse dopo due minuti di silenzio.
“Nemmeno per sogno! Non… oh no, non lo farai” si agitò Charlotte, cercando di attirare la sua attenzione.
“Ho detto che dovrei, non che lo farò, dolcezza. Non è mai stato un ragazzo che mi sia andato particolarmente a genio, ma penso che sia dovuto ad una questione di carattere e fegato” rispose lei, sempre senza guardarla. Era strana. Era diversa. Era seria. “Non ho mai approvato la sua linea di filosofia, giacché ritengo che perdere tempo a nascondere una persona sotto un cumolo di caramelle e orsacchiotti sia un evidente segno di crisi esistenziale, sia per lui… che per te. Con ciò non voglio dire che abbia sbagliato, solo... che non la pensiamo alla stessa maniera”.
La mora socchiuse gli occhi e mandò giù il groppo in gola che non accennava ad andarsene.
“È anche colpa mia… ho agito d’istinto, non ho pensato prima di…”
Nia si voltò e le piantò addosso i suoi grandi occhi azzurri. “Vi siete comportati come due essere umani, dotati di ormoni e neuroni dell’idiozia, non c’è nulla di sbagliato, sai? Perché tu non…” si fermò un attimo lasciandosi andare in una risata amara, “Ah, tu non hai dato sfogo alla tua vera personalità per anni, tesoro: hai messo la camicia di forza alla tua adolescenza e ti sei sepolta viva. E così facendo, hai permesso a quell’altro demente, di aggiungere altra benzina sul rogo, credendo che fosse la sua missione nella vita. Nemmeno fosse il Greenpeace e tu una foca in via d’estinzione”.
“Non è un discorso che mi va di ascoltare” gracchiò Charlotte, scostando la sedia, ma Nia fu più svelta e la afferrò per il  polso impedendole di alzarsi.
“Ma qualcuno deve pur dirtele queste cose, non credi?” la inchiodò. “Ti credevo più matura, considerando gli arretrati di esperienza passata”.
“La cosa non credo ti riguardi, non è vero?” si difese con cattiveria Charlotte. Non voleva toccare argomenti che erano ancora una ferita aperta e sanguinante.
“Mi riguarda nella misura in cui tu eri la mia migliore amica, maledizione a te”. E fu allora, che per la prima volta, la ragazza vide il primo spiraglio di debolezza nella bionda. Era come scorgere un enorme baratro sotto i piedi, nascosto da uno spesso strato di soffice nebbia: c’è, ma non sempre si vede…
“Forse dovresti trovare qualcun altro. Non credo di essere adatta al ruolo” mugolò sotto pressione Charlotte.
Nia scoppiò a ridere, sotto lo sguardo sconvolto dell’altra. “Ahahah! Oh… dolcezza, non ho mai sentito risposta più idiota di questa. E mi piace…” aggiunse con aria sognante. “Non sei tu a decidere a chi io debba rivolgere le mie attenzioni, non t’azzardare mai più a dire una cosa simile. Ma a parte questo, credo che, ritornando sull’argomento, abbiate entrambi una buona e sana dose di colpa, ma la maggiore spetta a te”.
“Come da manuale”.
“Dovevi pensarci prima”.
“Hai finito di infierire? Credevo di trovare conforto… non la Santa Inquisizione”.
“Oh ma è questo il mio conforto: l’impatto con la realtà. Trova qualcun altro che abbia una faccia come la mia e ti dica quello che c’è effettivamente da dire, senza mentire, e poi forse… potremmo riparlarne”.
“Non sei divertente”.
“Io mi trovo interessante. Ma è una questione di punti di vista, tesoro. La vita è tutto un punto di vista. E anche voi due… siete due inutili punti di vista. Lui pensa di aver agito nel migliore dei modi, nemmeno fossi la rosa incantata della Bella e la Bestia; mentre tu hai giocato a fare la pazza mentale, crogiolandoti nelle sue attenzioni. Ma hai dimenticato una cosa: tra sopravvivere e vivere… c’è una spessa linea di differenza. Dico sul serio” annuì con gli occhi accesi.
Era come ascoltare un disco rotto. Una canzone che si ripete, e si ripete, e si ripete… Aveva afferrato il concetto di Nia, glielo stava riversando addosso come un secchio d’acqua bollente, ma ciò non voleva dire che era intenzionata a restare ad ascoltare ancora per molto. Non voleva. Le serviva tempo per riflettere, per pensare… per capire. La considerava una che scappa, che si nasconde, che si rifiuta di reagire? Era quello il problema? Beh, lei aveva smesso di preoccuparsene molto tempo prima. Dicono che la prima persona con cui siamo costretti a convivere, siamo noi stessi, e se non impariamo ad accettarci, allora nessuno mai incontrerà i nostri favori. Charlotte coesisteva con un’idea di se, con un la realtà camuffata sotto un ricordo lontano, un ricordo allegro, mentre il presente non lo era. E allo stesso modo, viveva con un’idea di Robert… Lo accettava senza metterlo in discussione, senza chiedersi se quello che faceva fosse giusto o sbagliato.
Era vero. Tra vita e sopravvivenza c’era una netta linea di differenza. Ma lei non sapeva più distinguerla.
“Devo pensarci”.
“A cosa?” chiese Nia.
“A quello che hai detto”.
“E cosa c’è da pensare, di grazia? A quanto abbia ragione?”
“È difficile per me… è c-complicato”.
“No, tu vuoi che sia complicato, perché essere ragionevole comporta uno sforzo e sbattere la faccia contro il muro degli errori” disse secca. “Un mucchio di persone accetta l’idea di avere il naso rotto a furia di andare a sbattere, non vedo perché tu debba essere diversa”.
“Forse è solo un modo di essere che ho scelto?”
“No. È solo la codardia più grande che abbia mai visto” le strinse ancora più forte la mano.
“Senti…” gemette Charlotte guardandola con le lacrime agli occhi, “Non puoi accettarmi per come sono? Non penso cambierebbe le cose, non più di quanto lo siano già. Non chiedo molto. Vivi e lascia vivere”.
E la risposta di Nia fu semplice, diretta, precisa. “No”.

Restarono sedute ad osservare in silenzio la gente camminare fuori della vetrata. Ordinarono un altro giro di cioccolata e muffin, senza scambiarsi una parola. Solo la mano di Nia era rimasta saldata a quella dell’amica.
Infine, quando ormai l’ora di cena era passata da un pezzo, la bionda si rivolse a Charlotte con una dolcezza insolita, innaturale.
“C’è sempre tempo. C’è tempo per ogni cosa. Ma non mollo…”
E detto questo, andò a pagare per tutte e due, prima di prendere l’altra sotto braccio e tornare a casa assieme.










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Sproloqui  

Eeeee salve xD Come andiamo? Le vacanze procedono? Io sono dispersa in un buco della Francia, dove non c’è nemmeno il soleeee ç_ç Sono più bianca di un coniglio albino, che triste…
Questo capitolo è nato un po’ controvoglia perché, in principio, doveva essere tutto un’altra cosa, avrebbe dovuto esserci un episodio movimentato, mentre invece si è piazzato in primis questo: immagino sia un cosiddetto capitolo di transizione, che serve a chiarire dei passaggi che, altrimenti, credo sarebbe rimasti un po’ troppo abbandonati… e addio ai personaggi xD
Bobby questa volta mi ha spiazzato, lui e le sue paranoie, e Tommy non aiuta di certo! Lui e il suo maledetto vaso per la mamma… u.u
Nia la adoro. E Charlotte è una rompiscatole, ma le voglio bene lo stesso, ahaha xD *malattia mentale che peggiora, siiiii*

Non sono molto sicura di come sia riuscito il capitolo, scrivere con un mal di testa da Cavalcata delle Valchirie è un’impresa, ma volevo postarlo lo stesso, perciò perdonatemi se ci sono degli errori qua e là… domani passerò a controllare, promesso *O*
Spero vi sia piaciuto e che la storia non vi annoi troppo, sono un po’ i primi capitoli per impostare bene il seguito, ci vuole un po’ di pazienza ;)

Ringrazio tantissimo _Miss_ per il suo commento:
Tranquilla tesoro, sono contenta che tu sia tornata, mi sei mancataaaa ^^ E una finalmente che ama il mio Tommyyyyy!!! E diciamolo che non è così malefico poverino, è solo un po’ strano :P Nia è una pazza, ma la adoro per quello, immagino averla nella realtà, sai che roba? xD E si… ho uno stile un po’… un po’ così. Scrivo lasciandomi prendere dalle emozioni, e rileggo solo una volta finito, altrimenti perdo l’ispirazione e chi la ripesca più? u.u L’importante è che sia leggibile eh, ahah! Grazie per il sostegno, mi fa molto piacere e spero che ti sia piaciuto questo nuovo chap! Un bacione ;)

Un grazie ENORME anche ai lettori silenziosi, e a tutti coloro che l'hanno aggiunta ai seguiti e ai preferiti *O*
beth


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Capitolo 10
*** 09. il muro crolla ***


09.
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 9° capitolo – Il muro crolla
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Capitolo importante. Ma non dico altro perché corro a nascondermi. Leggete leggete… poi vediamo se alla fine sopravvivo o... meriterò la morte… :P















09
“Il muro crolla”







“Credo che per Natale ti regalerò sette confezioni di sigarette formato famiglia…”
“Beh… potrebbe essere solo una mia vana speranza, ma… sono abbastanza convinto che le vendano anche in America”.
“Fa lo stesso” fece spallucce Tom. “È un dovere d’amico far si che tu parta con tutto il necessario per la sopravvivenza”, annuì con fare convinto.
Robert scosse la testa e inspirò a pieni polmoni l’odore e il sapore del fumo. Guardava la neve cadere dal cielo, fuori dalla finestra, come candido zucchero a velo sopra il mondo immerso nel grigio e freddo invernale. C’erano solo le luci delle feste a rischiarare quella foschia triste e malinconica e, in certi momenti, Robert si chiedeva se ci fosse davvero qualcosa da festeggiare…
Si. Certo. Una ricorrenza religiosa, e la gioia e di stare con i propri cari; incartare i pacchi regalo, con grande attenzione, pur sapendo che entro pochi giorni quella stessa carta sarebbe andata in mille pezzi, per l’impazienza di scoprire cosa celasse.
Ecco. Lui sentiva un po’ così. Come un minuscolo pacchetto, ricoperto di carta nera e lucida, con legata una piccola dedica che diceva “un pensiero per l’avvenire”. E dentro, una scatolina vuota che altro non aspettava che essere riempita. Riempita. Riempita… Dio solo sapeva di che cosa, perché ora come ora riusciva a pensare a tutto, e a niente.

“Alla fine, il regalo per tua mamma, l’hai trovato?” chiese Tom con voce un po’ troppo allegra. Lo osservava con la coda dell’occhio, fingendo di allacciarsi distrattamente una scarpa.
Robert si riscosse dai suoi pensieri e spense la sigaretta nel posacenere sul tappeto. “L’ho trovato una settimana fa, si. È un vecchio quadro che aveva visto in un negozio d’antiquariato”.
“Ti sarà costato un rene”.
“No… ma mi sono inginocchiato davanti al proprietario per chiedergli uno sconto”.
Tom gli batté una mano sulla spalla. “Un’opera di bene. Ti prenderò otto pacchetti formato famiglia anziché sette, promesso”.
Robert rise e gli diede un buffetto sulla fronte, per poi tornare a guardare fuori dalla finestra con aria assente.
“E invece… i preparativi? Come vanno?” riprese ostinato Tom.
“Uhm?” fu il mugolio atono.
“La valigia, Bobby”.
“Ah. Oh. Beh… io… io, si. È pronta, mia mamma la tiene di sotto nello studio, perché dice che dal nervoso l’avrò disfatta cinquanta volte. Dice che sono una ragazzina isterica”.
“Che sei cosa?”
“Una ragazzina isterica…” annuì Robert.
“Io direi che sei solo di umore variabile” cercò di non calcare troppo la mano lui, pur sapendo quanto fosse irritabile ultimamente il ragazzo. “Ma d’altro canto, lo sarebbero tutti. Ti capisco, e anche tua madre lo sa, solo che deve abituarsi a sua volta”.
Il giovane girò il capo e guardò negli occhi Tom, come a leggervi un secondo significato, quelle parole non dette che lasciavano una terribile scia di bruciato e amaro, prima di voltare la testa un’altra volta e tornare a fissare la finestra. Sapeva di essere insopportabile. Beh, lo era sempre stato, non c’era da meravigliarsi che alla fine qualcuno glielo facesse notare; solo che sperava di potervi porre rimedio, di poter ricucire quegli strappi che sentiva ai bordi e al centro del proprio orgoglio, e invece… non sapeva nemmeno da che parte cominciare. Era come avvertire il caos nitido e fastidioso, distinguerne i colori e i suoni, ma non sapere in che angolo confinarlo, a quale voce dare ascolto per prima, per smorzarne la furia… C’erano idee e pensieri, e piani e progetti, e promesse e rinnegazioni, tutto quanto affollava la sua mente e, con un sospiro, si disse convinto che l’unico regalo di Natale che avrebbe accettato sarebbe stato ancora un po’ di tempo per capire e rimediare.
“Forse era meglio che restassi a casa, oggi” disse d’improvviso Tom. “Forse volevi restare un po’ per i fatti tuoi, vero?”
Robert si voltò di scatto con occhi sbarrati. “Come? No! No no, io… io… Stavo solo pensando che… che…” ma la frase sfumò nel nulla, mentre i suoi begli occhi azzurro mare tornavano sul cielo innevato.
“Appunto. Hai bisogno di pensare un po’ per conto tuo” ribadì l’amico, stringendogli l’avambraccio. “Passo domani se vuoi, è la Vigilia, ma penso di riuscire a scappare prima che mamma mi chiuda in cucina” sghignazzò all’idea, facendo leva sulle ginocchia per alzarsi.
“No” scosse la testa Robert, senza guardarlo. “Resta”.
Tom lo guardò un attimo con aria dubbiosa, per poi annuire e tornare seduto. Avrebbe voluto dire qualcosa, sparare una delle sue solite “battute infelici”, così come le chiamavano gli amici, giusto per smorzare quell’atmosfera grave che rischiava di mandare in frantumi i vetri e la porta… ma non gli venne in mente nulla. Riuscì solo a tacere ed aspettare.

“So di non essere stato particolarmente… di compagnia, ultimamente” sorrise con amarezza Robert, fissando un punto impreciso nel vuoto con aria triste. “E so anche che, carattere psicopatico a parte, avrei potuto contenere, se non altro, i miei malumori, almeno con te e i miei genitori, visto che… beh… vi siete dati la pena di starmi vicino. Avrei dovuto imparare da solo, dai miei errori, e invece ho continuato a restare con la testa bassa”.
Tom deglutì, ma non disse nulla. Robert continuò.
“Sai, l’altro giorno papà mi ha detto che quando ero bambino avevo la mania di correre a nascondermi dopo che avevo combinato uno dei miei soliti disastri, e restavo nascosto fin quando non mi convincevano che il danno non era poi così grave… Ho pensato che fosse la cosa più stupida e idiota che uno potesse fare, ma del resto ero un bambino; io sono diverso ora, mi sono detto”. Fece una pausa mordendosi il labbro e reprimendo una smorfia. “Ma è una bugia. Sono sempre quello di allora, solo che ho smesso di nascondermi sotto le scale o nella dispensa. L’abitudine è rimasta. Io credo che… l’istinto a nascondere a me stesso l’evidenza di un errore sia un’autodifesa più forte di me. È come se il cervello strillasse e mi nascondesse di colpo il sentiero per raggiungere l’ovvio, che è lì. È proprio lì. E lo vedo. Ma non so come arrivarci. O forse lo so… ma non ne ho la forza. Giro attorno ai problemi, cercando di renderli digeribili con ogni piccolo escamotage che trovo nel vivere di ogni giorno, sperando che al grande impatto, possa fare meno male” rise amaro, coprendosi la bocca un istante. “Non ho voglia di tornare a rimuginare su vecchi argomenti, non voglio tediarti, ma… ci ho pensato. E ci ho pensato davvero. A quello che è successo prima e dopo, e a quello che succederà ora. Perché oltre al passato, è il futuro che mi spaventa: ho una base traballante, ed è solo mia la colpa, e l’idea di… di… saltare in un burrone dove l’unica cosa certa è il denaro, anche se non è detto che sia molto, beh, è una prospettiva che baratterei volentieri con chiunque. Ma dipende tutto da me, come sempre. Ho fatto una cazzata prima e ne farò delle altre. So quello che devo fare, ma è solo una stupida teoria, e mi rode non sapere dove appigliarmi effettivamente per riordinare il tutto, pur sapendo di avere dei problemi da affrontare. E sai cosa?” disse voltandosi a guardare l’amico. “Il problema di base non è lei. Ne il lavoro. … il problema sono io. Soltanto io”.
Tom corrugò le sopracciglia con aria interrogativa, ma lo ascoltò.
“Se fossi stato una persona più solida, avrei agito diversamente con lei, le… avrei se non altro detto che non si può vivere rinchiusi in casa come se fuori ci fosse la seconda guerra mondiale, e l’unico momento in cui ho avuto il coraggio di accennare alla cosa, ho combinato un casino. Se fossi… più sicuro di quello che voglio e di quello che potrei meritarmi, non bazzicherei da un lavoretto all’altro e forse ora non avrei così paura di prendere un aereo e andare ad incassare un pacchetto di soldi, forse pochi, ma poco importa… E se fossi più uomo, non avrei agito come un dodicenne che non sa riconoscere un interesse del tutto innocuo del proprio migliore amico verso… la persona che… dovrei amare di più. E beh si, se fossi meno idiota, l’avrei capito da un pezzo che non è una sorella. Non per me” commentò con dolore, passandosi una mano sugli occhi lucidi e rossi. “È tutto qui. È tutto maledettamente qui. E dipende solo da me. Perché è vero, quando dicono che una persona è anche il riflesso di quello che pensa e dice, ma io sono il primo con cui devo convivere e, fino ad ora, l’ho fatto non come avrei dovuto”.

La neve continuava a scendere, silenziosa e spettatrice di numerosi attimi del mondo che avvolgeva, lasciandosi alle spalle un cielo grigio e solitario.
Tom ascoltò per tutto il tempo, chiedendosi dove mai avesse sbagliato. Perché se Robert, di punto in bianco, realizzava e diceva di essere un errore vivente, allora lui, come amico, aveva fallito il doppio: verso di lui, per non essergli stato vicino a dovere, e verso se stesso per essersi illuso d’aver fatto abbastanza. Ma Robert lo sorprese, lasciandolo colpito.
“Con questo non voglio dire che… tu abbia colpa. Si forse nel riempirmi la testa con le tue idiozie quotidiane, ma credo che siano state quelle, in fondo, a farmi restare umano. Fosse per me vivrei in una dimensione alternativa, Tommy… e ci ho portato me e lei, da capo a piedi”, guardò l’amico. “Lo dico perché so che ti stai scervellando per prenderti la tua dose di colpa, ma non ne hai, o forse giusto un poco, ma è irrilevante. È tutto ok, non sono arrabbiato con te. Dovrebbe essere il contrario, immagino” aggiunse con aria preoccupata.
Ma Tom non disse nulla e fece l’unico gesto che gli venne spontaneo, che gli venne dal cuore, che gli venne dall’amicizia. Allungò il pugno e lo batté sulla mano di Robert, per poi abbracciarlo forte e pensare che si, forse era arrabbiato, forse era deluso, forse si sarebbe aspettato altro, ma avrebbe davvero potuto? Nella vita si fanno così tanti errori. Ma c’era ancora tempo per rimediare. E Bobby senza crisi paranoiche, senza il suo reclinare la testa durante le lunghe riflessioni, senza la risata rumorosa, senza il magone facile, senza la sua musica, non era Bobby. E con errori o meno, lo apprezzava per quello e avrebbe continuato a farlo.


***


Ed anche la Vigilia passò, fra i suoi mille alberi di Natale scintillanti ormai pieni di regali ai piedi e di decorazioni sulle fronde, fra chi aveva scelto il pranzo e chi la cena per festeggiare in compagnia ed aveva contato sino a mezzanotte per vedere spuntare il Natale per essere il primo a salutarlo. L’aria era piena di auguri, strillati da una strada all’altra, da un balcone ad un giardino, dall’ascensore al pianerottolo, ovunque. La magia regnava, o almeno quello era l’intento.
Charlotte scese le scale canticchiando, la mattina del venticinque, con un cesto pieno di cd di canzoni natalizie. Andò in cucina ed armeggiando con il lettore per dieci minuti, lo convinse a partire e subito canti di bambini si diffusero nella stanza con allegria.
“… silent night, holy night… all is calm, all is bright ” cantò Marianne spuntando dalla porta.
“Nonna!” esclamò la ragazza, correndole in contro ed abbracciandola. “Buongiorno e buon Natale!”
“Buon Natale, bambina mia” ricambiò lei, stringendola forte. “Hai dormito bene?”
“Si, e tu?”
“Il solito mal di schiena, ma oggi è festa: credo che lo ignorerò” le schiacciò l’occhiolino. “Hai già fatto colazione?”
“Aspettavo te” sorrise Charlotte.
“Coraggio allora, muoio di fame!”
Mangiarono e chiacchierarono sui pettegolezzi che la vicina aveva “gentilmente” fornito a Marianne la sera prima, quasi come a farne un dono di Natale; discussero sulla quantità di compiti delle vacanze, che Charlotte definì ingiusta, mentre la nonna la definì appropriata, pensando con orrore ai suoi vecchi esercizi di latino e algebra; ridacchiarono sui regali, pochi, che avevano comprato, pensando alle facce di coloro che quel giorno li avrebbero aperti.
“Spero che alla signora Cork serva un set da giardinaggio avanzato, perché non avevo idea di cosa regalarle” commentò affranta Marianne.
“Spero le piaccia almeno il giardinaggio”.
“Vive in simbiosi con le sue piante e parla agli alberi: o ha qualche problema… o ama il giardinaggio, bambina”.
Discussero anche riguardo la cena di quella sera, con una vaga tensione da parte di Charlotte. Erano solite, le due, passare la Vigilia festeggiando da sole, per poi trascorrere il Natale in compagnia della famiglia Pattinson. Ma giusto il giorno prima, Clare, aveva telefonato dicendo che, con enorme rammarico, avevano già un impegno: la partenza imminente del figlio, senza contare ovviamente recenti e spiacevoli avvenimenti, anche se omise di menzionarli.
E così si erano ritrovate sole, ma del resto, non sarebbe stato molto diverso dalle loro solite cene, negli ultimi mesi, solo un po’ più colorata e rumorosa.
“Che vuoi che cucini?”
“Possiamo ordinare qualcosa? Magari del take-away”.
“Bambina, tu dovresti piantare una tenda sotto un tavolo del ristorante cinese. Oh, avanti, non ho intenzione di crescere mia nipote a furia di involtini e ravioli al vapore anche il giorno della nascita di Nostro Signore!” esclamò la nonna, brandendo un cucchiaio vittoriosa. “Lasagne. E ho deciso. Il verdetto è dato”.
Passò il resto della giornata a cucinare, impastare, infornare e decorare, perché aveva deciso che una cena di Natale, anche se in due, era pur sempre una super cena. Aggiunse alla lista una crostata alla marmellata di fragole e biscotti alla vaniglia; si, di take-away, ne aveva fin sopra la testa. Vivere con due ragazzi adolescenti in casa, prima che Robert se ne andasse, la costringeva a vedere sempre il frigo pieno di hamburgers, per uno, e di cibo cinese, per l’altra, e con gran fatica li convinceva a nutrirsi di qualcos’altro che non fosse pane tostato e riso cantonese. Ma era pur sempre ragazzi… e il sorriso nel vederli così ingenui, la rabboniva.

Charlotte, invece, trascorse il pomeriggio in camera sua, distesa sul letto, con lo sguardo rivolto verso il soffitto, una mano sulla pancia e l’altra dietro la testa.
Aveva lasciato passare ore, in silenzio, senza dire nulla, ascoltando il suono del silenzio nella stanza, dello sbattere delle stoviglie di sotto in cucina, delle ruote delle auto sulla strada innevata. Ed era rimasta immobile, con gli occhi scuri puntati sul soffitto azzurro.
Sviava. Evitava. Scavalcava. Eludeva. Ci provava. Eppure le parole di Nia le tornavano alla mente come se l’avesse avuto accanto, lì con lei su letto.
Tu vuoi che sia complicato, perché essere ragionevole comporta uno sforzo e lo  sbattere la faccia contro il muro degli errori ”.
Andare a sbattere. Cadere. Graffiarsi le mani. Tagliarsi la pelle. Sanguinare.
“Un mucchio di persone accetta l’idea di avere il naso rotto a furia di andare a sbattere, non vedo perché tu debba essere diversa”.
Già. Cosa c’era di diverso? Doveva essere diversa? Si. E no. Forse. Lo era. E non lo era.
“C’è sempre tempo. C’è tempo per ogni cosa…”
Tempo. Tempo… L’aveva visto trascorrere a lungo. Da quel giorno, anni addietro, aveva scelto di uscire dalla strada sulla quale camminava con aria spensierata, per attardarsi sul ciglio polveroso, finendo con il sedersi ai bordi del marciapiede in un silenzio opprimente, aspettando.
Ma aspettando cosa? Un segno? Un cambiamento? Una rivelazione?
Aveva vissuto gli anni della sua infanzia nella più totale gioia, all’insegna di quell’amore ed affetto riversato su di se e donato agli altri, e mai si era posta il problema se, un giorno, le cose sarebbero potute cambiate davvero. Il mondo è vita, è allegria, è amore… perché doveva essere diverso?
L’aveva creduto. Ci era nata, in quell’universo fatto di piccole cose, ma che nascondono un cuore colmo di fiducia e aspettative brillanti. E l’aveva vissuto quanto bastava perché ci si affezionasse, perché si abituasse all’idea, perché la adottasse come linea di vita.
E quando si costruiscono le proprie basi, le proprie fondamenta e i propri credo su sogni che, poi, vengono spezzati come cristallo da forze che, su di noi, hanno il potere della vita e della morte… beh, l’unica domanda, in mezzo al marasma di emozioni, che viene in mente è: e ora, che senso ha ricominciare, se poi accadrà di nuovo?
E così, aveva cominciato la sua crociata di rinunce, di privazioni, sia materiali che di vita, di spirito. S’era costruita un muro che le dava giusto quella sicurezza di essere ancora viva e che le permetteva di lasciar entrare le uniche persone alle quali non avrebbe mai potuto rinunciare, perché erano come l’ossigeno: sua nonna, e lui. Robert. Il resto, era buio, era il nulla, era vuoto.
Più ti affezioni, più stringi, più ami… e maggiore è il prezzo da pagare se te lo portano via.
Si convinse che bastavano poche persone, ed in questo caso due, per riempire il mondo e le proprie conoscenze ed orizzonti. Si convinse che non occorreva essere in cima all’elenco telefonico delle amicizie dei vari conoscenti. Si convinse che non era necessario vestirsi in maniera curata, per attirare l’attenzione di qualcuno, perché se così fosse stato, avrebbe comportato attaccamento ed affetto… e lei non lo voleva. Non ne voleva più.
E Robert… Robert era Robert. Bambino pestifero da piccolo, sognatore a quindici anni. Musicista a diciotto. Attore a venti. Ma restava sempre lui. Lo stesso sguardo. Lo stesso sorriso. La stessa voce bassa e calda. La stessa risposta strampalata ad ogni sua domanda. Era come un tatuaggio marchiato sulla pelle di lei, poteva anche cambiare colore, ma restava, faceva parte del sistema.
Eppure ora se ne andava. Partiva.
Aveva impiegato due ore, quel pomeriggio, per realizzare, per capire finalmente che, entro poche ore, avrebbe preso un aereo e sarebbe sparito oltre le nuvole, per atterrare in un posto dove lei non poteva andare.
Non avrebbe più sentito la sua voce rimbombare dalle scale, ne dallo studio al piano di sotto, se non, forse, a di là di una cornetta, rimandandola indietro roca e metallica. E non avrebbe più sentito la sua chitarra, ne la mattina, ne il pomeriggio e ne la sera prima di andare a dormire.
Ogni particolare che componeva il quadro del ragazzo, andò pian piano sfumando e sgretolandosi, come un enorme mosaico che sotto colpi di piccone si frantuma e cade a terra, prima di essere spazzato via dal vento. L’avrebbe perso.
E i recenti avvenimenti. Episodi così banali alla vista, per come li definiva Nia, così infantili, ma che per lei, ed era certa anche per lui, assumevano un significato tangibile ed indelebile. Erano sempre stati legati da un doppio filo, circondati da un’atmosfera che rifletteva la gioia di uno, gettandola sull’altra, e viceversa; il reciproco dispetto, da bambini, che era cambiato e sviluppato in fiducia e profondo affetto, aveva fatto si che entrambi si fondessero in un’unica persona, tanto che a vederli con occhio esterno, si sarebbero potuti dire gemelli, tralasciando l’aspetto fisico. Ruotavano attorno allo stesso nucleo di emozioni, divenendo l’una il sostegno dell’altro, la spalla su cui piangere, il polso fermo e l’obiettività reciproca dove e quando uno dei due diveniva improvvisamente cieco. Un compenso… un equilibrio… un’armonia che arrivava diretta ed inconscia, ma che c’era. Viveva e pulsava, come un cuore unico ed in comune. E la sola idea che parte di quel cuore dovesse dividersi, che dovesse separarsi e addossarsi ad un altro appiglio, era come morire. Era soffocare, era soffrire.
Lei lo sapeva bene, e per questo soffriva doppiamente. Aveva permesso che lui restasse, che non l’abbandonasse mai, che fosse presente. Aveva permesso che si prendesse cura di lei, aveva permesso che entrambi provassero affetto. Aveva concesso il legame, e ora… lui se ne andava. Uno strappo…
Non era mai stata una ragazza sciocca o sprovveduta, ne particolarmente infantile o capricciosa, ma da quando i genitori erano morti, era diventata ossessivamente possessiva sulle uniche e poche cose che aveva deciso di tenere, e Robert era una di quelle. E l’idea che ora uno stupido lavoro lo portasse via da lei, lontano dal suo sguardo e dal suo abbraccio, la mandava ai folli.
Ma non solo. Non gli rivolgeva la parola da giorni e settimane, rinchiusa prima nello sgomento, poi nell’indifferenza ed infine nel rimorso. Perché, a dirla tutta e con sincerità, anche lei aveva la sua bella fetta di colpa: scappava da una vita, ed era scappata dall’evidenza anche questa volta. L’evidenza che a spingerlo ad agire con rabbia erano state la sua ostinatezza ed arroganza, di lei, una cosa che Robert non aveva mai tollerato, a prescindere. L’aveva provocato dando voce al proprio terrore inconscio di vederlo partire e non fare ritorno, aveva parlato riversandogli addosso con veemenza le proprie preoccupazioni, quando invece sarebbe bastato chiedergli “Cosa vuoi che faccia?”
Lui stesso le era andato incontro dicendole di seguirlo, di non lasciarlo. Ma quella foga e irruenza nel parlarle, le avevano fatto pensare che fosse una sorta di ripiego per pietà, e lei la pietà non la poteva sopportare… specialmente la sua.
Inutili e stupidi malintesi, ma che avevano contribuito a coronare il sogno d’orrore e a porre un muro sporco e freddo fra loro. Lei era la cieca e l’indifferente, e lui, benché pochi lo sapessero, era il tormentato e il vigliacco. Un’accoppiata vincente se in sintonia, ma devastante se divisi. E ora lo stavano sperimentando entrambi sulla loro pelle.
Charlotte si mise a sedere sul letto e sospirò, trattenendo le lacrime di rabbia, verso se stessa, e verso le circostanze.
Lo stava perdendo per una stupida questione di orgoglio e paura… Ma anche pur sapendo cosa fare, non trovava la forza per riavvicinarlo a se, ne sapeva se lui era disposto a volerla indietro.
Si lasciò andare nuovamente sulle coperte e soffocando il pianto nel cuscino, si addormentò pochi minuti dopo.

Fu il profumo della crostata e il cantare di sua nonna a svegliarla due ore dopo, giusto in tempo per la cena.
Ci impiegò un poco per alzarsi e darsi un contegno, prima di scendere al piano di sotto e trovare Marie Anne intenta ad apparecchiare. Si sentì un’ingrata.
“Nonna. Nonna scusa, mi sono addormentata, potevi chiamarmi” la raggiunse, prendendole le posate di mano.
“Oh, ma ho appena finito di cucinare… sarei salita a chiamarti entro poco” sorrise lei, ma entrambe sapevano che non l’avrebbe fatto.
Apparecchiarono canticchiando canzoni di Natale, servendosi a testa un’enorme porzione di lasagna fumante: aveva l’aspetto più buono del mondo, ed il sapore era ancora meglio.
Brindarono con una vecchia bottiglia di spumante, tenuta da parte per le occasioni, e mangiando di gusto la crostata di fragole e i biscotti alla vaniglia dalle mille forme.
“Questo cos’è?” chiese la ragazza alzando un biscotto dalla forma indefinita.
“È un pesce rosso”.
“Avrei detto una coccinella” rise l’altra.
“Era il sesto pesce rosso che impastavo, e dal momento che non volevo mettere su un acquario, ho deciso di farlo senza coda: mi sta quasi più simpatico degli altri” fece spallucce Marie Anne. Charlotte rise più forte e mangiò il pesce rosso senza coda.
Si ingozzarono di dolci fino a scoppiare, tanto che decisero che, siccome era festa e vacanza anche per loro, avrebbero lasciato i piatti a bagno nel lavandino e li avrebbero lavati il mattino dopo. Decisero quindi per un bel film in bianco e nero, sdraiate sul divano, ed era proprio quando la ragazza stava infilando il DVD nel lettore che il telefono squillò.
“Oh, sarà la signora Corks che mi ringrazierà per il set da giardinaggio” esclamò Marie Anne. Si alzò e andò a rispondere. Sbucò poi dall’altra stanza pochi minuti dopo, con uno strano sorriso sul volto, “Bambina, è per te!”
Charlotte si voltò lentamente verso la donna, indecisa se scoprire o no chi fosse a reclamarla. Decise infine di andare in contro all’ignoto e andò a rispondere.
“Pronto?”
“Yoho! Buon Natale, tesorino!”
La mora chiuse gli occhi e sospirò. “Buon Natale anche a te, Nia”.
“Oh… non mi dire che hai tenuto quel muso lungo per tutta la cena, vero?”
“Non ho nessun muso” ribatté subito scocciata. Quella ragazza aveva l’assurdo potere di irritarla con due parole. O forse era lei che era troppo suscettibile.
“Bene! Tanto meglio! Ti è piaciuto il regalo che ti ho fatto?” si sentì trillare dall’altro capo della cornetta.
“Non ho ancora aperto i regali”.
“Come sarebbe a dire!” fu stavolta il tuono che fece tremare la linea. Charlotte allontanò istintivamente il telefono dall’orecchio.
“È tradizione di famiglia aprirli la sera di Natale…”
“Beh è una tradizione un po’ bislacca: soffrire tutto il giorno chiedendosi cosa ci sia nei pacchetti, quando puoi aprirli la mattina!”
“La cosa sembra turbarti…” sorrise Charlotte.
“Avete solo uno strano senso di masochismo che non comprendo: dannarsi per due settimane a comprare regali, e poi aspettare fino all’ultimo per aprirli” sbuffò sconsolata la bionda. “Allora, ti piace il mio?”
“Nia, non l’ho aperto”.
“Beh, allora aprilo!”
La mora sospirò profondamente e promise che appena messa giù la cornetta l’avrebbe aperto, e il giorno dopo l’avrebbe chiamata per ringraziarla.
“Oh no, non occorre che mi chiami domani, ci vediamo dopo”.
Un attimo di silenzio scese fra le due, durante il quale Charlotte smise di respirare, e la bionda represse un risolino.
“Credo di non aver capito. Ma deve essere un disturbo della linea: abbiamo incrociato la conversazione di qualcun’altro”.
“No no, hai capito bene invece, tesoro! Passo a prenderti, fra mezz’ora. Usciamo”.
“Eh?”
“Usciamo… varchiamo la porta di casa… oltrepassiamo la soglia… abbandoniamo il nido…”
“Si va bene, smettila, ho capito” la frenò lei. “Posso chiedere perché?”
“È Natale! Che motivo deve esserci, scusa?”
“Io non… posso. Io… il Natale lo passo in famiglia, Nia. Non…” cominciò a balbettare Charlotte, voltandosi istintivamente verso Marie Anne che la osservava dalla porta della cucina a braccia conserte. In una muta preghiera le lanciò un’occhiata che diceva tutto: fammi restare a casa, non voglio uscire. Ma la donna fu irremovibile e continuò a fissarla.
“Nonna” mormorò allora la ragazza.
“Non voglio essere usata come scusa per farti rinchiudere in casa. Quando eri piccola ho passato ben più di una sera di Natale in casa, senza di te. Che differenza può fare una in più?”
“Ma…”
Nia la zittì intromettendosi, dall’altra parte del telefono. “Visto? Adoro tua nonna. Passo a prenderti tra mezz’ora allora, d’accordo? E apri quel dannato regalo, ti servirà per uscire!” e dettò ciò sbatté giù la cornetta prima che la ragazza avesse modo di ribattere.
Charlotte rimase immobile per qualche minuto ad ascoltare il tu-tu della linea morta. Infine riagganciò con una lentezza tale che fece pensare che il telefono pesasse un quintale. “D’accordo. Esco, come volete”.
Andò in soggiorno dove c’era l’albero e si inginocchiò per prendere il regalo di Nia. Era un’enorme pacco ricoperto di carta argento e disegni azzurri, con un fiocco blu ed una piccola dedicata legata accanto: “È uno schianto, e l’ho scelto io. Buttalo in fondo all’armadio e te ne ritroverai altri sei a Natale prossimo. Con affetto, Nia”.
La ragazza represse un brivido di terrore e si domandò se, aprire o no la scatola, fosse davvero una buona idea.
“Non penso sia nulla di esplosivo, bambina. Dai, vediamo che c’è dentro” la incoraggiò la donna, alle spalle.
Ancora qualche attimo di esitazione, e la carta argento venne strappata. Man mano che il colore panna della scatola si intravedeva sotto, Charlotte dovette ammettere che quella sottile vena di curiosità ed infantilismo, che pervade tutti quanti al momento dell’apertura dei doni, stava contagiando anche lei. Con un sorriso gettò via la carta e il nastro, aprì la scatola… e rimase a bocca aperta.
“È bellissimo” commentò Marie Anne.
Un vestito. Color blu scuro e fatto di tulle, con una fascia morbida a coprire una spalla soltanto, per poi scendere in una scollatura a cuore e fasciare i fianchi in un tubino delicato e femminile.
“Oh mio Dio”.
“Avrà speso un patrimonio” le batté sulla spalla la nonna.
“È pazza…” continuò con sgomentò l’altra, tenendo alto il vestito fra le mani. Era come in ipnosi, e fissava l’indumento con occhi sbarrati. Era bellissimo, nessun’ombra di dubbio, ma averlo significava metterlo, a prescindere dalla minaccia di Nia, e quello andava decisamente contro i suoi propositi di passare inosservata.
“Spero che il tuo regalo sia all’altezza di questo, bimba” la prese in giro Marie Anne.
“Un paio di scarpe su cui ha lasciato una scia di bava peggio di venti lumache… spero che le piacciano davvero. Non so mai cosa le piaccia”. Ed era vero. Per quanto si sforzasse di tenersi lontana da legami e relazioni, le risultava piuttosto impossibile, specialmente negli ultimi giorni, restare insensibile agli interessi di Nia. Che poi questi fossero confusi era un altro paio di maniche.
“Le piaceranno sicuramente, vedrai. Su, ora corri a metterti il vestito e a darti una pettinata; fra venti minuti la pazza sarà qui”.
Senza neanche farselo ripetere due volte, Charlotte andò di sopra pur continuando a tenere il vestito a debita distanza da se. Era ancora in tempo per farlo a pezzettini o dargli fuoco, si disse, lamentando un terribile incidente, ma una vocina in un angolo del petto le rammentò della minaccia della bionda… E quando Nia minacciava, poi agiva. E così, con il terrore di trovarsi l’armadio zeppo di vestiti succinti, la ragazza represse un gemito e si cambiò.
A dire il vero, passarono ben più di venti minuti e ancora restava di fronte allo specchio a fissarsi con le sopracciglia corrugate, quando la porta della stanza si spalancò facendola voltare con uno strillo.
“Ma è meraviglioso!”
La pazza era arrivata. Come un tornado attraversò lo spazio che le separava e afferrò l’amica per le braccia facendola girare su stessa, ammirando il capolavoro.
“È assolutamente perfetto, e ho azzeccato pure la taglia! E quel colore ti sta d’incanto, lo sapevo che quell’altro era troppo scuro e quello rosso fuoco era troppo sensuale per te, mi saresti svenuta sul colpo, aprendo il pacchetto, tesoro. Ma guarda un po’… ti fa un fondoschiena che mezza fauna femminile ammazzerebbe per averlo, altro che chirurgia estetica, ah!”
“Ma…” avvampò Charlotte, coprendosi con le mani il sedere.
“Oh non fare la timida: come te lo sto guardando io, lo faranno tutti quelli che incontreremo stasera, dolcezza” le schiacciò l’occhiolino lei.
“Oh mio…”
“Dio, già. Non è pazzesco? E non stare a ringraziarmi! Il tuo regalo è stato stratosferico, ma naturalmente non potevi sbagliare: mi piacevano tutte le scarpe del negozio!” esultò Nia, sfoggiando un paio di decolté nero scamosciato con piccoli strass applicati sul retro del tallone e lungo il tacco. Erano splendide. “Però queste erano candidate al secondo posto”.
“Sono contenta che ti piacciano” ammise l’altra arrossendo un poco. Si sentiva in imbarazzo.
“Altroché! Ma ora, dolcezza, che ne dici di… staccarti dalla cornice dello specchio, muovere i piedini attraverso la tua stanza, fare le scale e varcare assieme l’uscio di casa?”
Charlotte si morse un labbro e fece un passo indietro. No, davvero non se la sentiva. Non conciata a quel modo: elegante o meno, avrebbe voluto gettare all’aria quel vestito e mettersi un paio di jeans e una felpa. A che pro stuzzicare chi poi non aveva intenzione di considerare?
Nia parve intuire il suo stato d’animo e le poggiò una mano sul braccio, “Hei, che succede? Sei bellissima, che vuoi di più? Certo, io avrei messo un paio di tacchi da urlo su quel vestito, ma… rimedieremo al prossimo regalo, che dici? Ora andiamo, si fa tardi”.
Non fece in tempo a replicare, che si trovò trascinata giù per le scale con il polso stretto nella morsa della bionda, tanto che le venne voglia di attaccarsi al corrimano e restarci avvinghiata sino alla fine della serata. Ma il pensiero sfumò, sostituito da una figura inaspettata, seduta sul divano con una bella tazza di cioccolata calda in mano.
“Eccoci qua” esclamò Nia, saltellando nel soggiorno, scuotendo la voluminosa chioma dorata. “Non è splendida?”, chiese facendo cenno all’amica dietro di lei.
Marie Anne si alzò dal divano e si avvicinò alla nipote, abbracciandola. “È davvero bellissimo, bambina, Nia ha scelto bene”, ed aggiunse sussurrandole all’orecchio, “Vedrai che ti divertirai”.
Charlotte ebbe un altro tremito all’idea di uscire e fece per cercare lo sguardo confortante della nonna, quando qualcun altro espresse il suo parere.
“Sei uno schianto, bambolina. Dovrò picchiare un sacco di pretendenti stasera, immagino. Ma che amico sarei, se no?” commentò fiero Tom.
Gli occhi della mora divennero di colpo terrorizzati al solo pensiero di uomini che le gironzolavano attorno e la sfioravano e, nuovamente fece un passo all’indietro scuotendo la testa.
“Oh mio Dio…”
“Che? Che ho detto?”
“Niente, lascia perdere!” si intromise Nia, afferrando il cappotto dell’amica e cacciandoglielo sulle spalle, “È solo un po’ impressionabile, ma ora le passerà. Forza, andiamo!”
I tre ragazzi salutarono Marie Anne, chi meno convinta degli altri, e dopo essersi coperti con giacche e sciarpe, varcarono finalmente la soglia di casa e uscirono in strada.


***


La notte era fredda e spazzata da un leggero venticello, ma le luci quella sera scintillavano più che mai.
Sembrava che l’intero mondo fosse sceso per le vie e si sentisse più vivo e gaio, quasi volesse trasmettere la propria allegria a chiunque. Gruppi di ragazzi correvano qua e là ridendo e chiacchierando, coppie di adulti si salutavano scambiandosi auguri e abbracci calorosi, mentre i piccoli cantanti di strada si fermavano agli angoli delle strade lasciando che le proprie voci armoniose scivolassero sulle onde di quell’atmosfera festosa. Era Natale.
I tre ragazzi camminarono sino alla metropolitana, saltando sul primo vagone diretto a Piccadilly, confondendosi con la folla di gente rumorosa. Scesero con fatica, tra spintoni e gomitate, e pochi minuti dopo assaporarono l’aria aperta e allegra del quartiere.
“Oh! È favoloso! Adoro il Natale!” batté la mani Nia, guardandosi attorno come una bambina di fronte ad un negozio di giocattoli. “Dobbiamo assolutamente andare di fronte all’Odeon e salire su quell’aggeggio della morte!”
“Come scusa?” chiese sulle spine Charlotte. “Nia - oggetto della morte”: nella sua mente erano due parole che associate erano altamente pericolose.
Tom le circondò le spalle con fare protettivo, “Hanno allestito un Luna Park in miniatura per il Natale, e c’è anche un gioco che fa girare le persone a testa in giù. È interessante”.
“È spaventoso”.
“È adorabile!”
“Come no… andate pure, vi aspetto giù” sorrise ironica cercando di scacciare l’immagine di lei a testa in giù, appesa come un salame, ed un vestitino striminzito a metterle in mostra le gambe. “Non ci sarà mica posto per tutti e tre”.
“Quello che soffriva di vertigini ero io, o sbaglio?” le chiese allora dispettoso Tom.
Lei si voltò di scatto pronta per una risposta con i controfiocchi, quando le venne in mente una domanda che non aveva ancora avuto modo di porre. “Ma tu che ci fai qui?”
“Chi?”
“Tu”.
“Ah. Io eh? Beh io… io…” boccheggiò per qualche minuto, mentre le sopracciglia della mora si corrugavano terribilmente. “Ero venuto ad accertarmi che avessi aperto il mio regalo di Natale, già”.
“Mi avete rapito, non ne ho aperto neanche uno”.
“Io però il tuo l’ho aperto!” esclamò contento il ragazzo aprendo la giacca e la felpa, mostrando la maglietta nera con un buffo pinguino disegnato sopra. “Mi piace molto, grazie”.
E in tutta risposta, Charlotte arrossì facendo un gesto distratto col capo e voltando lo sguardo altrove.
Era fuori. In mezzo alla gente. La sera di Natale. Era strano, ma in quegli ultimi giorni si era promessa di restare da sola, nel suo muto silenzio, di dimenticarsi del dolore che voleva trafiggerle il cuore come una stilettata velenosa, di scordarsi che al di fuori delle mura di casa era in corso una festa. Eppure, andando contro ogni sua previsione, ben due persone erano schizzate nella sua esistenza, stravolgendola e scombussolandole l’ordinario. E quelle due stesse persone, ora, stavano una accanto a lei, e l’altra poco distante a scattare fotografie agli alberi addobbati. Nia e Tom…
Era come tracciare una linea netta e precisa su un foglio bianco, dritta e senza ostacoli, e ricevere d’improvviso un colpo alle spalle che costringe la mano a spostare la matita in una curva… e poi un’altra, ed un’altra ancora, riempiendo sempre più spazio sul foglio, fino a colmarlo di cerchi e linee ondulate.
Lo trovava insolito, lo trovava irritante, lo trovava diverso, lo trovava estraneo, lo trovava dubbioso. E fosse dipeso da lei, probabilmente, avrei continuato a disegnare linee rette ed angoli spigolosi.
Certo. Quello che diceva Nia, l’essere in continua fuga, aveva la sua base di verità, lo sapeva. Ma quando ti abitui ad uno stile di vita è difficile abbandonarlo di punto in bianco, facendo finta che sia la cosa più bella in assoluto. Occorre tempo, occorre pazienza, e per lei i fatti stavano capitolando troppo in fretta. O almeno era quello che pensava.
“Ti senti bene?” le chiese Tom, stringendo la prese sulle spalle.
La ragazza alzò lo sguardo su di lui e poi lo richiuse, appoggiando d’istinto il capo nell’incavo del suo collo. Aveva paura. Ne aveva tanta. Si sentiva un pesce fuor d’acqua e non sapeva come dirlo per non fare la figura della stupida.
“Hai freddo?” chiese di nuovo il giovane.
Nia smise di fare fotografie e si voltò verso di loro con sguardo attento. Che avesse osato troppo a farla uscire la sera di Natale? Del resto era una ricorrenza che si passava in famiglia. Ma quella ragazza ne aveva solo un vago ricordo, storpiato da mille fantasie, aveva bisogno di crearsene una nuova. L’idea poi di portarla fuori proprio quella sera aveva trovato subito appoggio in Tom, che Nia aveva incontrato per caso nel negozio doveva aveva comprato il vestito per Charlotte. L’unione fa la forza, dicono, e i due avevano deciso di giocare il tutto e per tutto.
“Vuoi che ti dia la mia cuffia?” domandò una terza volta Tom, sfiorandole la testa. Ma Charlotte scosse la testa, restando accoccolata sul petto del giovane.
“Beh, che fate lì impalati, tesorini? Che ne dite di trovare un locale abbastanza rumoroso e metterci a sedere? Adoro i vestiti corti, ma le mie gambe non la pensano allo stesso modo” gracchiò Nia, riponendo la macchina fotografica.
“Bella l’idea dei tacchi, mi congratulo, bionda. Sulla strada sporca di neve, è una mossa da manuale”.
“Ti aspettavi che uscissi con le racchette da eschimese, per caso?” sbatté le ciglia lei.
“Sarebbe stato insolito, ma l’avrei apprezzato: avresti colto se non altro la mia attenzione” sghignazzò lui.
“Purtroppo per te, non è nei miei piani futuri cogliere i tuoi favori” sorrise radiosa Nia, battendogli una mano sulla spalla. “E ora, questo dannato locale?”
Passeggiarono per un po’, Nia a braccetto con Charlotte e Tom con il braccio attorno alle spalle della seconda, ciascuno con un’espressione diversa dipinta sul volto: euforia, tensione, serenità.
Trovarono infine un piccolo locale poco distante da una delle vie principali, da cui giungevano musica e risate a tutto volume, il posto ideale per un po’ di sano divertimento, disse convinta la bionda, prima di trascinare gli altri due all’interno. Non era molto spazioso, ma sembrava confortevole: la carta da parati color panna e i numerosi quadri in bianco e nero appesi alle pareti, i tavoli e le sedie in legno scuro e i lampadari candidi dal soffitto.
“Laggiù! Se ci stringiamo, ci stiamo” indicò Tom in fondo alla stanza, guidandole attraverso il dedalo di gente già comodamente seduta. Ed infine, anche loro ebbero modo di sistemarsi.
“Non è male, ha un qualcosa di spirituale” sentenziò Nia, guardandosi attorno con gli occhioni azzurri. Tom rise per via della sua espressione, mentre Charlotte annuì dicendo che era davvero un posto carino.
“Ordiniamo da bere?” chiese il ragazzo.
“Offri tu naturalmente” sorrise Nia, piegando la testa con fare ammiccante.
“Perché dovrei?”
“Sei il cavaliere della situazione”.
“Avevi detto che non volevi cogliere i miei favori. Perché adesso ti interessa?”
“Oh ma quanto sei difficile!”
Pattuirono per il classico pagamento individuale a proprie spese; ordinarono e ridacchiarono nel vedere il cameriere ondeggiare come una banderuola con il vassoio in bilico fra i presenti accalcati. Brindarono e si lanciarono in una fitta conversazione sulle terribili settimane, delle corse ai regali, che precedevano il Natale. Un vero incubo, e Charlotte aveva buona ragione di lamentarsi, specialmente per una pazza corsa dietro una stupida giacca. Nia le fece una linguaccia, mentre Tom sghignazzava divertito.

Restarono nel locale per un’ora intera. Il tempo sfumò così velocemente che a stento se ne resero conto.
Fra battutine pungenti tra Nia e Tom e le risate via via più rilassate di Charlotte, la serata prese una piega piacevole e allegra, proprio come ai vecchi tempi, solo con una differenza. Al posto della ragazza bionda, avrebbe dovuto esserci Robert.
Bastò una lieve inclinazione della voce di Tommy, distratto a discutere con il cameriere, che Charlotte vi riconobbe la stessa intonazione del timbro caldo e basso del ragazzo, e si incupì al ricordo. Non era una vera festa senza di lui, senza il suo ridere a crepapelle e lo spintonarsi con Tom, senza il suo “Birraaa! Birra per favore, cameriere!” e senza il suo “Pausa sigaretta… ho bisogno di intossicarmi i polmoni” detto con fare autoironico. Come un’insegna a caratteri cubitali dove l’ultima lettera resta spenta e vuota, gettando un effetto mancante. E a loro mancava proprio un’ultima luce per rendere il gruppo più luminoso.
Charlotte passò il dito sul bordo del bicchiere e pensò che non solo Robert non era fra loro, ma che domani sarebbe sparito definitivamente. Di bene in peggio…
“Un penny per i tuoi pensieri, dolcezza” le sussurrò all’orecchio Nia.
“Solo un vecchio ricordo” scosse la testa lei.
“Vuoi condividerlo con me?”
“Pensavo ne avessi abbastanza delle mie lamentele” sorrise allora, voltandosi a guardarla in viso.
“Dipende dal tono con cui le affronti. I ricordi sono belli, ma restano ricordi… non sono il presente”.
La mora storse la bocca e sospirò a fondo, tornando a giocare con il bicchiere. Tom discuteva ora animatamente con il cameriere e c’era da chiedersi se sarebbero arrivati alle mani.
“Ti manca, vero?”
La domanda arrivò netta e Charlotte incassò le spalle reclinando il capo verso il petto.
“Beh non occorre che mi rispondi, lo so. È evidente” continuò Nia. Le passò una mano fra i capelli con fare affettuoso. “E sai a dirti la verità, volevo chiedergli di uscire con noi stasera. E stranamente anche Tom era dello stesso parere”.
La ragazza si voltò colpita. “Dici sul serio?”
Nia annuì. “Solo che poi Tom mi ha detto di avergli telefonato e di non averlo trovato in casa. Immagino fosse fuori con la famiglia”.
“A-avranno voluto festeggiare in grande… per via di domani” commentò triste lei.
“Si. È possibile” le strinse la mano la bionda. “Mi dispiace”.
“Anche a me” sorrise amara reprimendo le lacrime.
“Posso fare qualcosa? Una telefonata dell’ultimo minuto?” si offrì disponibile l’amica, comprendendo il dolore della ragazza. Ma quella non fece a tempo a rispondere, che Tom batté le mani sul tavolo con forza mentre fissava in cagnesco il cameriere andare via.
“Brutto nano malefico! Ma tu guarda!”
“Che cosa c’è ora?” chiese d’improvviso stanca Nia.
“Vuole che sloggiamo. Dice che hanno più clienti del solito e il tavolo gli serve! Nemmeno a pagarlo a peso d’oro ce lo lascia… brutto decerebrato” soffiò inviperito.
“È comprensibile, non farti salire la pressione, tesoro” lo additò Nia.
“E che facciamo allora, sentiamo?”
“Usciamo e cerchiamo un altro locale, no? Sono solo le undici e mezza…”
“Sempre se troviamo posto” disse Charlotte.
“Beh, restando seduti, non troveremo un bel niente: alza il fondoschiena bellezza, usciamo, forza!” la esortò Nia. “E tu baldo giovane corri a pagare, ti aspettiamo fuori”.
Ed era talmente arrabbiato che Tom non diede minimamente peso al costo accollato a sue spese. Pagò, continuando a litigare con il cameriere, si cacciò il portafoglio in tasca e raggiunse le due ragazze che lo aspettavano accanto alla porta.
“Da che parte?” chiese Charlotte, guardandosi attorno con aria poco convinta.
Proprio di fronte all’entrata s’era radunata una calca rumorosa, fra chi aspettava il posto all’interno del locale, e chi invece era uscito per prendere una boccata d’aria. Peccato che alcuni di loro non brillassero di sobrietà e cantassero ad alta voce con schiamazzi ed urli.
“Oh, gente allegra” alzò un sopracciglio Nia.
“Meglio togliersi di qui, attraversiamo” disse serio Tom. “Vieni” aggiunse, prendendo per mano Charlotte e Nia per un braccio, e tirandosele dietro. Si incamminarono attraverso la folla, restando i più vicini possibile, il giovane in testa.
“Hei ragazzo, sei in compagnia eh?” disse uno di un gruppetto, vedendoli sfilare a poca distanza. “Perché non ce ne lasci una, non sono troppe due? La bionda non è male!”, e a lui si unì una grassa risata che puzzava d’alcool, proveniente dal resto della combriccola.
Nia fece per ribattere, con un diavolo per capello, ma Tom le diede uno strattone continuando a tirare dritto, “Sta zitta e cammina”.
Marciarono silenziosi, le due ragazze con lo sguardo basso e le gote arrossate, fino all’altro lato del marciapiede dove si fermarono tirando un sospiro di sollievo.
“Beh un po’ di rissa è quello che ci vuole no? È pur sempre una bizzarra manifestazione di sentimenti” fu tutto quello che riuscì a dire Nia qualche minuto dopo, forse più per dar sfogo alla tensione accumulata che non per l’averlo pensato davvero. Odiava terribilmente le persone senza controllo per colpa dell’alcool, aveva visto troppa gente perdere la testa per un vizio simile.
“Se mai dovessero picchiarsi, noi resteremo qui” commentò tranquillo Tom. “E tu soprattutto starai zitta”.
“Come prego?” lo fulminò subito Nia, andandogli a pochi passi di distanza.
“Ok, forse è meglio se chiamiamo un taxi e torniamo a casa, vero?” si intromise Charlotte saltando fra i due con un finto sorriso di circostanza. Era tesa anche lei, pur non sapendoselo spiegare. Era stanca.
“Si, forse è meglio. Qui dietro c’è Oxford Street, possiamo prenderlo lì” annuì Tom.
“D’accordo. Andiamo da qu - … Aspetta… Hei ma quello lo conosco, è un mio vecchio amico! Accidenti, che ci fa qui?!” disse d’un tratto la bionda, distanziandosi di un paio di metri e raggiungendo un ragazzo alto e bruno che, al vederla, la abbracciò con entusiasmo.
Dall’altra parte della strada, nel frattempo, le urla si erano fatte più alte assieme a qualche imprecazione, tanto che un paio di camerieri del locale erano usciti per chiedere di abbassare la voce.
Charlotte osservava la scena con sguardo tra il preoccupato e lo spaventato, mentre spostava nervosa il peso da un piede all’altro. Si sentiva fuori posto, si sentiva a disagio e scoperta, e quella situazione di equilibrio precario la metteva in un’agitazione interiore tale da farle tremare la schiena.
Due braccia la cinsero da dietro, e la voce di Tom le arrivò dritta all’orecchio.
“Sta tranquilla. Non è niente. È normale che a Natale ci sia qualcuno un po’ allegro. Anche io e Bobby alle volte ci scoliamo qualche birra e canticchiamo vecchie filastrocche” sorrise. “Si beh, forse non così” aggiunse alludendo alle strilla della gente.
“Pensi che - ”
“Ci sarà una rissa? Nah… E anche se fosse noi ce ne saremo già andati. Sempre se la tua amica non ha intenzione di andare ad abbracciare tutto il mondo per fare gli auguri di buone feste …” commentò acido alzando gli occhi al cielo. Ma un urlo più forte proveniente dalla folla di fronte a loro coprì il resto della frase.
Ben presto altra gente sobria scivolò via dalla massa ubriaca, unendosi ai tre sul marciapiede, con un’aria scocciata e tesa. La situazione si stava effettivamente scaldando, e non passò molto che dal centro della calca si sentì l’eco di uno botto seguito da un grido di rabbia. Qualcuno strillò con veemenza e alcune figure cominciarono a spintonarsi con forza.
“Ma che…” si strozzò Charlotte.
“Ok. Ora ritengo sia il caso di andare. Dov’è quella pazza?” si guardò attorno Tom, spostandosi tra i presenti. Teneva sempre per mano la ragazza. “Nia? Hei, cara, sentì un po’, manderai delle cartoline a chi ancora non ha goduto dei tuoi auguri: andiamo. Adesso”.

Come dovuto ad un colpo di bacchetta, la situazione degenerò in un lampo, così come era iniziata. Dando le spalle alla strada, Charlotte si sentì spingere d’improvviso da una coppia di giovani ragazzi che la oltreppassarono e scapparono in un vicolo; fece appena in tempo a girare la testa per scorgere che anche quelli che erano sul marciapiede con lei si stavano muovendo di corsa, allontanandosi sempre di più dall’entrata del bar.
Una terza persona la spinse nella foga, e lei volò dritta sulle spalle di Tom. Lui l’afferrò al volo, prima di cacciare un’imprecazione colorita.
“Corri!”, fu tutto quello che la ragazza riuscì a sentire. Avvertì la propria mano stretta in quella di Tom, che la tirava attraverso i presenti in corsa, mentre con gli occhi cercava disperata Nia, non trovandola.
Era infine quasi arrivati in fondo alla via, ritenendosi salvi, quando delle grida arrivarono più forti e, senza  aspettarselo, uno scoppio improvviso riecheggiò sul muro sopra le loro teste, mentre un pioggia di vetri, con l’effetto di una bomba, schizzò contro di loro e i presenti.
Charlotte strillò, mentre Tom cadde a terra. La ragazza cercò di coprirsi il viso con le mani, ma reagì troppo tardi. Il collo e la guancia erano in fiamme. Chiamò il giovane accanto a se, ma pochi secondi dopo si ritrovò a terra senza volerlo, e sbatté la testa. I suoni le giunsero lontani e presto la vista lasciò lo spazio al buio.









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Spazio sproloqui :)

Da da daaaannnn!!
E qui partono i fischi: ma perchèèèèè l’hai troncato cosììììì!!??? Bruttaaaaa!!!  T_T
Si lo so, sono un essere malefico, gnahahah!!
Ma ho due buoni motivi: 1) adoro la suspance *_* ... 2) in realtà doveva esserci ancora un pezzettino, ma dopo una sofferta riflessione, ho deciso di lasciare il capitolo prossimo solo ed esclusivamente per i due piccioncini u.u E ci sarà da piangere dalla commozione ç_ç Io piango già ora…
Ok basta esaltarsi, parliamo di cose serie: che ne pensate di questo nuovo chap? Movimentato eh? Ricordate quando avevo detto che avrei inserito un episodio tratto da un’esperienza vissuta? Bene, l’ho messo, ed è proprio il finale con la rissa, solo che è avvenuto in circostanze un po’ diverse e non così drastiche, non per me se non altro: Londra, capodanno… gente un po’ alticcia e sopratono che comincia a litigare in mezzo alla folla, e di colpo volano bottiglie di vetro, da un gruppo all’altro. Una è seriamente scoppiata in faccia ad uno che, immagino, non c’entrasse nulla… a me ne è scoppiata solo una sul piede, ma niente di grave (avevo gli stivali nuoviiii, aaargghhhhh!!!) xD Però mi sembrava interessante inserirlo, specialmente per quello che avverrà nel capitolo seguente.

Che altro dirvi? Spero di aver reso un po’ di giustizia al personaggio co-protagonista di Bobby, Charlotte. Sin’ora l’abbiamo vista sempre sulle sue, tormentata, forse anche più di lui, schiva ed acida… ma mai senza arrivare fino in fondo al perché del suo comportamento; per lei ho assunto una descrizione iniziale abbastanza distaccata, almeno per ora, perché è un personaggio evasivo, che si sofferma poco sui suoi sentimenti, per paura di soffrire: con la partenza di Bobby, però, è costretta a pensarci, oltre al fatto che Nia è un bel chiodo fisso con i suoi interventi di salvataggio realistico. Viene quindi a galla il vero motivo del “freddo” che c’è nella protagonista… ed ecco, in questo chap, il resoconto (alleluja!!) di tutto quanto quello che prova.
Non è cattiva. Non è nemmeno stupida, anzi. È solo molto provata. E ora la sua dolce metà platonica prende il volo e sparisce nel Nuovo Mondo. Io sarei depressa eccome, XD
Aggiungo inoltre che si... lo so ç_ç Sta storia ha un'inzio abbastanza triste? Oh, mica succedono sempre le cose belle u.u  Ma non ho intenzione di far rimanere i personaggi in uno stato vegetativo, certo che no :P


Passando ai ringraziamenti :
BrandNewSibyl : hei, ciao ^^ benvenuta! Ti ringrazio innanzitutto per aver deciso di commentare, mi fa davvero piacere :3 Riguardo al fatto che la storia non sia tra le popolari… beh… posso avanzare un’ipotesi: siamo davvero in MOLTE a scrivere di Robert, tanto che penso che, ormai, gli argomenti da tirare in ballo siano pressoché esauriti. Probabilmente anche il mio è “demodé”, non saprei xD ...Di conseguenza, la mia storia, così come molte altre, passano in secondo piano, o perché sono partite in ritardo o perché ormai ci sono già delle scrittrici affermate e assegnate a Bobby. u.u A dirti comunque la verità, io sono una delle prime ad aver scritto su di lui, quando ancora non c’era il suo nome nella lista dei personaggi da scegliere. Ho cominciato con una storia fantasy, coinvolgendolo, ma fermandomi al secondo capitolo, vuoi perché era un argomento per me delicato… vuoi perché nell’arco di poco tempo è scoppiato il BOOM di Pattinson, che m’è passata la voglia. Sono tornata poi con questa storia (oltre ad altre due one-shot, sempre su di lui), e… beh… si, non è particolarmente gettonata. Ma a me fa piacere lo stesso scriverla, perché mi piace l’idea di dar voce ad un ragazzo che ritengo normalissimo, se non un po’ imbranato e sentimentale, che spesso viene dimenticato e scambiato per Edward Cullen, personaggio per personalmente odio come non mai. Naturalmente non nego che sapere cosa voi ne pensiate, di quello che scrivo, sia per me davvero importante: chi scrive, ha sempre bisogno di un resoconto, ma va bene anche così ^^  …A parte ciò, sono molto contenta che la storia ti piaccia e che io sia riuscita a far combaciare bene personaggi e relazioni; Tom e Bobby sono due asini, e li adoro alla follia… pensa poi se fossero davvero così, deliriooo *-* Ti ringrazio per esserti fermata a commentare e spero che anche il nuovo chap ti sia piaciuto!! E scusa se sono stata prolissa, ma mi sembrava giusto spiegarti ;P Un bacione :3
_Miss_ : tesoroooo!! Come andiamo? Le vacanze, todo bien? xD  Eh si, Bobby ce l’ha fatta *fascio di luce divino dal cielo con l’alleluja* È un po’ tardo il giovincello, ma alla fine penso che siamo tutti un po’ allocchi in amore. Riguardo a Charlotte, ho scritto il pezzo dedicato a lei proprio pensando a te, sai? Spero di aver fatto un po’ più di chiarezza :) Nia è una draga… la sposerei se potessi, e subitoooo! *O* E il Natale così lo vorrei pure io… ma penso che sia Londra a fare tutta sta magia: organizziamo viaggio pullman di pellegrinaggio per l’anno prox? xD Guido ioooo!!! Ti ringrazio tantissimo per aver commentato :3 Spero che anche questo chap ti sia piaciuto! Baci ^-*

Ringrazio anche tutti coloro che sono lettori silenziosi, vi adoro, e quelli che l’hanno aggiunta ai preferiti ;)
Un bacione, al prox chap!! :D
beth



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Capitolo 11
*** 10. inizio ***


10.
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 10° capitolo – Inizio
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Eccomi! Chiedo perdono, ma sono stata via una settimana e… uffa, qua in montagna la connessione prende ogni 2 per milleeee T_T  Ad ogni modo. Come promesso, un capitolo solo per Roberto. E Char ovviamente ;D















10
“Inizio”







Il tempo scorreva e la gente continuava a festeggiare, inebriata dalla dimensione di allegria che aleggiava ovunque come una coltre luminosa.
La notte magica stava per finire e tutti si affannavano come per godersi sino all’ultimo l’entusiasmo che il giorno dopo sarebbe stato un ricordo, bello e brutto.
E per qualcuno, quella volta, non sarebbe stato un ricordo a tinte piacevoli…
Da quando il buio la inghiottì, Charlotte venne sollevata di peso dal suolo e, mentre qualcuno le gridava in viso di riaprire gli occhi, un paio di braccia forti la prendevano in braccio, prima di condurla in un taxi sparato alla velocità della luce fra il traffico di Londra.
Tom la teneva stretta, con il viso segnato da un linea rossa. Schegge di vetro incastrate in un taglio sulla fronte, ma lui pareva non sentire nemmeno il dolore, un eco lontano, mentre schiaffeggiava il viso pallido delle ragazza.
Nia, seduta accanto a loro, gridava come un’ossessa al conducente di schiacciare quel maledetto acceleratore se non voleva ritrovarsi legato al tetto della macchina senza pantaloni. Era tesa, era spaventata, ero terrorizzata… ma non lo dava a vedere. Non poteva. Non voleva. Perché nonostante l’amica fosse priva di sensi e non potesse sentirla, avvertiva dentro di se il bisogno di tenerla al sicuro mostrandosi forte e senza paura.
Passarono venti minuti rintanati nel taxi, mentre l’ansia saliva come una febbre tanto che, arrivata al limite, Nia afferrò la mano libera di Tom e la strizzò nella propria facendo gemere il ragazzo.
Fu quando arrivarono in prossimità del pronto soccorso che la ragazza mora riaprì gli occhi con un singhiozzo, facendo saltare come un pupazzo a molla la bionda e il giovane che la teneva in braccio. Varcarono il cancello dell’edificio e, appena ferma la vettura, schizzarono fuori.
“È tutto ok. Non è niente. Sei ancora tutta intera” gracchiò Tom, mentre portava Charlotte attraverso le porte scorrevoli.
“N-non… mi sento più… la tes-ta” mugolò lei.
La voce di Nia arrivò feroce alle spalle del ragazzo. “Sei un idiota! Dovevamo chiamare un’ambulanza!”
Tom represse un moto di rabbia, mentre la lue dell’interno scoppiò come una bomba, accecandolo. Ambulanza voleva dire confusione, caos e rumore. Voleva dire shock. Charlotte avrebbe resistito alla cosa, dopo mesi che non metteva il naso fuori di casa? Certo che no.

Tre ore. Tre lunghissime ore.
Divisi per strade diverse, Nia rimase abbandonata su una sedia anonima in un corridoio infinito e candido all’inverosimile, con lo sguardo azzurro gonfio di lacrime e la borsa gettata fra i piedi. Stupida. Idiota. Deficiente. Continuò per mezz’ora a chiamarsi nei modi più svariati, o meglio… ad insultarsi, perché forte era la convinzione che se non si fosse allontanata per quei pochi minuti a salutare un vecchio amico, ora sarebbero già stati a casa a stendere la prossima lista di regali di Natale. Se non si fosse allontanata, non sarebbero stati costretti a restare rinchiusi in stanzette che puzzavano di disinfettante da far venire il capogiro. Se non si fosse allontanata, le cose… sarebbero state più semplici. Già, ma quando mai lo sono, si disse.
Tom era scomparso con un’infermiera che sembrava la reincarnazione di Hagrid di Harry Potter, dopo che gli era stato diagnosticato che era illeso, a parte un paio di tagli sulla fronte ed uno sullo zigomo. Poteva andargli peggio.
E Charlotte. Beh la cosa era diversa. Il colpo ricevuto alla testa, per colpa di un uomo cadutole addosso di peso, le aveva fatto perdere i sensi, complice lo sbattere contro il cemento della strada. Nulla di grave, dissero. Probabilmente una bella collezione di bernoccoli e lividi, ma nulla più. Ovvio, senza contare i piccoli tagli disseminati sulla fronte e sul collo. Ferite di guerra le avrebbe chiamate Nia, davano l’aria da temeraria, avrebbe aggiunto con malizia… Ma di essere divertente, la ragazza, non ne aveva la minima voglia.
Ed era illesa. Nia era illesa, se non un livido sulla spalla. E si odiava. Forse non più tanto per l’essere stata irreperibile quando occorreva, Tom le aveva ripetuto alla nausea che sarebbe successo comunque, ma lei non gli credeva. Si odiava perché per una volta in cui compiva una buona azione, in cui portava un’amica sola e repressa a riabbracciare il mondo, la vita le dava un colpo in testa. Letteralmente. Si poteva essere più sfigati?, pensò.
E con il pensiero di una nuova fatica per convincere l’amica a non richiudersi in se stessa per quell’esperienza, la bionda abbandonò il capo sulle ginocchia e pianse in silenzio.

Quando le porte luminose del pronto soccorso si riaprirono e Tom uscì tenendo Charlotte per i fianchi, e Nia con una mano sulla spalla dell’amica, erano ormai le tre di notte passate.
Presero il primo taxi, diretto a casa Sullivan, e durante il tragitto nessuno disse una parola. Il silenzio aleggiava, troppo fragile perché qualcuno si prendesse la responsabilità di romperlo per primo, nonostante tutti e tre avessero più che qualcosa da dire.
La vettura si fermò e, ad un cenno di Nia, attese in strada mentre i ragazzi sparivano in casa.
“Marie Anne!” urlò Tom aprendo con le chiavi di Charlotte. “Scendi subito!”
Accesero tutte le luci e si sistemarono in cucina, storditi e con gli occhi stralunati. Tom aprì il frigo e tirò fuori la scatola del latte, bevendo col rischio di strozzarsi e sputacchiando dappertutto.
“Ti pare il caso?” ringhiò Nia, e Charlotte alzò un sopracciglio a mo’ di conferma.
“Ringrazia che non ho preso la birra” commentò acido lui.
Rumore dalle scale, passi affrettati, e Marie Anne fece la sua comparsa in cucina avvolta in una vestaglia panna e con i capelli argentei scarmigliati. L’espressione mista tra il sorpreso e il preoccupato non lasciava dubbi al fatto che fosse stata in pena tutta la sera. Povera donna.
“Ma cosa diamine - ” cominciò.
Nia le strinse una mano, ed ignorando le urla di Tom per raccontare lui l’accaduto, fece un breve riassunto, mentre dietro di lei Charlotte restava seduta a tavola con lo sguardo perso nel vuoto.
Marie Anne ascoltò e, gettando poi un’occhiata veloce a tutti e tre, pensò che poteva andare molto peggio e ritrovarsi ora seduta ai piedi di tre letti in ospedale. Le risse per alcool, in quelle circostanze, erano molto pericolose, lo sapeva bene, e dovevano ritenersi fortunati… beh, nei limiti del possibile. Sospirò e abbracciò Nia ringraziandola. La bionda storse la bocca reprimendo il senso di colpa e pochi minuti dopo scomparve nel taxi, diretta a casa e con una cicatrice in più nel cuore.
“Beh, ragazzo... quante ferite di guerra hai tu?” cercò di sdramatizzare la donna fissando con occhio indagatore Tom. Passò poi le braccia attorno alla nipote e le strinse le spalle.
Per tutta risposta lui alzò un ciuffo di capelli e mostrò i piccoli punti sulla fronte. “Non è niente… Non dovrei essere molto più brutto di quanto lo fossi prima. O forse più bello” aggiunse con un ghigno.
Marie Anne scosse il capo, chiedendosi come facesse ad essere così anche in momenti di tensione. Si voltò verso la nipote e le chiese come si sentisse.
“Mi fa un po’ male la testa” rispose lei dopo due minuti che parvero secoli. Era assente. Era dispersa oltre un confine che solo lei vedeva, e gli occhi scuri erano velati di un’ombra che prometteva nulla di buono.
Tom aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse mordendosi un labbro. Dannazione perché doveva essere così complicato, perché? Si stavano divertendo, sproloqui della bionda a parte, ma perché allora il mondo aveva deciso di giocare al tiro al bersaglio proprio quella sera, perché?
Scosse la testa e rimettendo la bottiglia del latte in frigo, disse che andava in bagno. Sparì sulle scale, tirandosi dietro la porta.
Rimaste sole, Marie Anne girò attorno al tavolo e si sedette accanto alla nipote, aiutandola a sfilarsi il cappotto. Le prese poi una mano e con l’altra le sfiorò il viso, osservandole con tristezza le piccole ferite sulla fronte e sul collo. Storse la bocca in una smorfia.
“Ti senti bene?” chiese con dolcezza.
Charlotte mosse gli occhi scuri su di lei e la guardò. Poteva sentirsi bene? Poteva anche solo pensare di avvicinarsi all’idea di benessere? Poteva? Che razza di domanda era?
Marie Anne incassò l’occhiata della ragazza e riprovò. “È stato un bello spavento. Posso immaginarlo. E… mi dispiace. V-vuoi che… posso fare qualcosa che ti aiuti ad avere meno male?”
La ragazza continuava a guardarla, ma non vedeva nulla. Non vedeva altro che le immagini della scena che aveva vissuto poche ore addietro. Al rallentatore. Poi veloci. Poi di nuovo lente e pesanti, dolorose, come se avessero dovuto essere marchiate a fuoco, per imprimersi nella memoria. E ancora veloci, fulmine.
“Bambina…” la chiamò Marie Anne, scuotendole la mano. “Hei”.
Charlotte parve risvegliarsi per un istante dal suo tormento, istante in cui Tom riapparve nella stanza.
“Bene io… io credo che sia il caso che torni a casa. Mamma mi ha già chiamato due volte. Potrei rimpiangere la rissa se non mi sbrigo a tornare” disse con una vena di ironia.
“Vuoi che ti riaccompagni? Prendo la macchina” si offrì la donna, alzandosi.
“Nah. Faccio due passi… ho bisogno di un po’ d’aria” annuì convinto lui. Spostò poi l’attenzione sulla ragazza, immobile. Le si avvicinò piano e le si portò davanti, inginocchiandosi. I loro occhi, cioccolato contro azzurro, si scontrarono e si incatenarono per lunghi attimi e Tommy pregò perché, almeno parte della sicurezza che voleva trasmetterle, potesse pervaderla e non farle perdere quel poco di fiducia che era riuscita a conquistare.
Non sapeva cosa dire. Probabilmente non c’era nemmeno nulla da dire. Il silenzio, alle volte, cura molte cose.
La guardò ancora un attimo, e poi le mise le braccia attorno alle spalle e la strinse a se. La cullò piano, sentendola rabbrividire appena, e le posò un leggerissimo bacio sulla fronte.
Si alzò e salutando Marie Anne con un abbraccio veloce, disse che si, sarebbe andato diritto spedito a casa.
“Dove vuoi che vada? Ho già dato prova più che a sufficienza del mio coraggio e bontà. E Natale era ieri” sghignazzò, per poi correre in strada e sparire dietro l’angolo.
Le due restarono in cucina, immerse in un silenzio che aveva ben poco del rassicurante. Come se ci fosse stata una bomba nucleare nascosta da qualche parte sotto il pavimento della stanza, con il rischio che al minimo passo falso…
La donna si affannò a preparare del latte caldo per la ragazza, per farla rilassare, cosa che naturalmente lei rifiutò con un solo scrollare del capo. Non le importava. Non ne aveva bisogno. Non lo voleva.
Marie Anne era sul punto di alzare un poco la voce e costringerla a berne almeno un sorso, giusto per avere un segno che non stesse crollando in un stato depressivo, quando un battere furioso sulla porta le fece sobbalzare entrambe, come punte da una scarica elettrica.
La nonna aggrottò la fronte e il suo pensiero volò subito al ragazzo appena uscito, forse di nuovo nei guai, e corse ad aprire alla porta.

Fu come se il sole fosse entrato improvvisamente nella stanza. Come se i mille alberi delle strade avessero deciso di espandere le loro luci a tutte le case, inghiottendole. Come se la bomba nascosta sotto il pavimento fosse esplosa e il boato fosse ancora racchiuso fra le pareti.
La testa di Charlotte si voltò di scatto e i suoi occhi si incollarono a quelli azzurro mare più profondi che potesse ricordare.
Robert stava lì. Impietrito sulla soglia della cucina, con i capelli spettinati, la felpa al contrario e la giacca storta e respirava affannato. Aveva corso. Le mani rosse e fredde, strette a pugno.
Allargò gli occhi in un’espressione tramortita mentre li posava sulle ferite seminate sulla pelle della ragazza ed emise un respiro strozzato. Non calcolò più nulla.
Coprì la distanza che li separava e sollevò di peso Charlotte dalla sedia stringendola come se potesse scomparire da un momento all’altro nel nulla. La strinse sentendo i propri muscoli tendersi al massimo nelle braccia e nella schiena. La strinse sentendo lei rimpicciolire sotto la propria possessività. La strinse sentendo che il proprio cuore riprendeva a battere con calma.
E Charlotte pianse. Come un tappo tolto dal rubinetto, fece un respiro strozzato e riversò ogni cosa in lacrime, bagnando la felpa del ragazzo. Strinse i pugni attorno al suo torace. Strinse la giacca col rischio di strappargliela. Strinse i denti schiacciando il viso contro il petto rischiando di soffocare. Strinse come se fosse stata l’unica cosa in grado di fare.
Il cuore batteva. Quello di lui da affannato a sempre più calmo… sempre più tranquillo. Quello di lei, da ghiacciato a sconvolto, da legato a sciolto. Contrasto e diverso. Differenze che andarono a compensarsi in una sola nota, in un solo suono. Il suono di un battito che riprendeva il suo ritmo equilibrato, la sua dimensione bilanciata e unica. Divisi e insieme.
Robert chiuse gli occhi e baciò i capelli della ragazza, inspirando con una smorfia l’odore di disinfettante che nascondeva il suo, buono e pulito.
Tornare a respirare. Tornare e riprendersi quel pezzo di se stesso che aveva relegato in un angolo. Sapeva di agire per istinto. Sapeva di agire per conto di un senso che aveva ignorato a lungo. Ma cosa importava saperlo in quel momento?
“Rob?”
La voce di lei arrivò confusa e attutita dalle sue braccia che la circondavano. Avrebbe allentato la presa, ma l’idea che potesse sfuggirgli lo mandava in iperventilazione.
“Sono qui”.
Due parole. Due semplici parole, ma che ebbero l’effetto di un calmante, di un grande respiro liberatorio dopo ore di agonia e nervi tesi all’inverosimile. Una certezza. Una promessa che dettava sicurezza. Lui era lì e, poco ma sicuro, nemmeno una minaccia armata l’avrebbe smosso.
La ragazza serrò più forte le mani sulla sua giacca e smise piano di piangere, lasciando spazio ad un sorriso silenzioso.
Nel sentirla tranquilla, Robert si scostò di poco, pur tenendola a se, e lasciò che il suo viso tornasse ad essere illuminato dalla luce della lampada. La guardò riaprire gli occhi bagnati e tirare su col naso arrossato. La fissò tanto da riuscire a vederle direttamente nell’anima, tanto da sentirsi bruciare all’idea di riaverla di nuovo. Con una mano le passò gentilmente le dita sulla guancia umida e cancellò le lacrime saline. Sorrise. Il solito sorriso sghembo.
Charlotte lo guardava di rimando, con una luce diversa negli occhi… un misto fra sollievo e dolore. Era combattuta. Era pensosa. Ma più di tutto era felice. Si. Maledettamente felice. Perché poteva negarlo quanto volesse, poteva impuntarsi fino allo stremo, ma la verità era che adesso, si, aveva smesso di avere paura. Non si chiese nemmeno come lui fosse piombato da un momento all’altro lì, nella sua cucina – anche se ne aveva una vaga idea – era un dettaglio che non era degno della minima attenzione.
Robert le passò un dito sul collo con aria triste.
“Ti fa male?”
Lei storse la bocca. “Un po’…”
Lui spostò la testa di lato con un piccolo lamento. “Hai… hai avuto paura?”
Gli occhi scuri di lei si spensero per un attimo. “Si”.
La schiena fu scossa da un tremito e il ragazzo la strinse di nuovo con forza, ignorando il gemito di lei per il gesto affrettato. Scosse la testa con vigore e i suoi occhi azzurro mare parvero prendere fuoco.
“Sono un idiota. È colpa mia. Dovevo uscire con voi”.
Un classico. Accusarsi. Sapeva che non era giusto, ma non poteva evitare di farlo.
“Sarebbe successo comunque” bofonchiò nascosta lei. “E magari ti saresti fatto male anche tu”.
“Perché eravate lì? Tom non ha visto che era il caso di levare le tende?” chiese con aria piccata.
“Non è colpa sua… Lui mi ha protetto. Non arrabbiarti con lui” fu la risposta in favore dell’amico. Robert sentì il petto ardere e strinse i denti.
“Beh con qualcuno dovrò pur arrabbiarmi, ti pare?”
Charlotte ridacchiò. Ecco il suo Rob. Sempre pronto a dar libero sfogo al primo pensiero che gli passava per la testa, non era per nulla cambiato.
“Sto bene. Non è… niente” cercò di suonare rassicurante. “Adesso sto bene”.

Restarono abbracciati nel mezzo della cucina, senza nemmeno accorgersi della scomparsa di Marie Anne al piano di sopra, e con il solo rumore dell’orologio a scandire il tempo.
Erano tornati nel loro mondo, nella loro bolla felice, ma… con una consapevolezza diversa.
Era come quando ci si rende conto di percorrere la stessa strada fatta in precedenza, per correggere l’errore, ma con una mente diversa, con una prospettiva diversa. Conoscere i limiti e saperli definire, vederli e sapere che oltre c’è dell’altro che non andava ignorato.
Mentre la teneva stretta, Robert realizzò definitivamente che quella era l’ultima volta che l’avrebbe vista prima di partire per l’oltre mare, o almeno… l’ultima volta prima di chissà quando.
E Charlotte comprese che il tempo delle favole era finito. Lo aveva capito vedendo lui in partenza e da quel piccolo e spiacevole episodio avvenuto quella sera. Pensò che il proprio ritorno nel mondo avrebbe potuto essere meno brutale e più incoraggiante, nemmeno qualcuno l’avesse progettato a tavolino, ma del resto chiedere troppo e ottenere il doppio era una cosa che suonava inutile e per i sognatori.
Sospirò e deglutì aprendo gli occhi.
“Scusa” disse.
Robert sgranò gli occhi e smise di respirare per un paio di secondi. “Come?”
Lei lo ripeté. “Scusa”.
“Cosa scusa? Perché scusa? Mica l’hai fatto apposta a farti centrare dal tiro a segno” le rispose guardandola in faccia con aria di rimprovero.
“No. Scusa per… essere stata… difficile” ammise con fatica. Le costava immensamente, ma andava fatto. “Scusa per averti provocato. È colpa mia”.
La tristezza scese di colpo sul viso del ragazzo, spegnendo i suoi bei occhi accesi. “Sono io a chiedere scusa. Non avrei comunque dovuto alzare le mani”.
“Lo schiaffo è partito da me”.
“È diverso” scosse la testa lui. “Non dovevo toccarti a prescindere”.
“Non avrei dovuto alzare la voce… ed impuntarmi. Sono sempre così… così” cercò di spiegarsi, mentre si torceva le mani sul petto di lui. “Ah! Così idiota. Avevo paura che mi volessi per…”
Robert aspettò che finisse, ma non finì. “Per… che cosa?”
“Per pietà” alzò gli occhi lei, feriti. “Avevo paura che volessi portarmi con te solo perché sono una stupida… emarginata e… orfana. Si” disse reprimendo un groppo alla gola.
Il ragazzo la guardò come avesse avuto davanti un alieno. “Q-questa è la stronzata più grande che tu abbia mai detto, da quando sei nata, lo sai vero? C-come… come ti viene in mente di - ”
“Era paura, Rob! Soltanto paura, che anche seguendoti ti avrei perso lo stesso. Saresti andato oltre una soglia che io non sono ancora in grado di superare” scosse la testa con vigore. “Era solo questo”.
“Ti pare che io sia più forte di te? Lo pensi sul serio…” disse sconsolato e per nulla convinto lui. Al momento era tutto meno che forte. Preparato forse, ma non forte.
“Sei quello che parte. Io resto in casa” annuì lei.
Lui chiuse gli occhi ed inspirò per reprimere la risposta avventata. “D’accordo, vabene, ok, non è importante. Non è importante” sbottò tornando a stringerla a se e posandole il mento sulla testa. “Non è importante”.
Ma dal basso, giunse la richiesta, “Ma mi perdoni allora?”
Riaprì gli occhi azzurri e fissò un punto oltre loro. “Tu riusciresti a perdonarmi lo schiaffo?”
Charlotte rabbrividì e rispose dopo un po’. “Penso di si”, ma entrambi sapevano che ne uno, ne l’altra l’avrebbero mai dimenticato. Come un vaso che si crepa, mantiene la sua bellezza, ma è più fragile ed esposto ai colpi ferrei. “Ma tu mi perdoni si o no?”
E Robert ridacchiò baciandole i capelli, “Sei una scema”.

Erano quasi le cinque e l’alba cominciava a fare capolino fra la nebbia che si levava ovunque.
Era un po’ tardi per mettersi a dormire ed era troppo presto per rimettersi a correre per i mille impegni imminenti della giornata. Rob scoccò un’occhiata all’orologio a muro.
“Sono le cinque”.
La ragazza si corrucciò. “Ed è il ventisei…”
E lui sarebbe partito. Nel primo pomeriggio, volo prenotato, in compagnia di Sarah, due valigie e la chitarra chiusa nella sua custodia di pelle nera consunta. Ritorno a data ignota.
“Forse è meglio che vada…” mormorò lui, pur non scollando le braccia dalla sua posizione. Gli facevano male, e le gambe tremavano per lo sforzo, ma lo ignorava.
“No!” scattò come una molla Charlotte. “O meglio… se vuoi”.
Lui corrugò la fronte.
“Puoi restare a dormire” spiegò timidamente lei, abbassando lo sguardo.
“Uhmm. Beh qualche ora di sonno effettivamente non mi farebbe schifo. Ma camera tua è troppo lontana, e le scale sono infinite. Prenoto il divano”.
“Già, perché di solito dove dormi?” rise la mora, tirandolo ora verso il soggiorno.
Arrivati nella stanza, Robert si lanciò di peso sui cuscini e assunse un’espressione sfinita, da povero lavoratore sfruttato; scalciò le scarpe attraverso la stanza, senza preoccuparsi di dove fossero andate a finire; sfilò giacca e felpa e si nascose sotto la sua coperta blu, conquistata dopo dure lotte all’ultimo ciuffo di capelli molti anni prima, per poi far sbucare il naso e allungare una mano in direzione della giovane.
Charlotte alzò gli occhi al cielo con uno sbuffo, cercando inutilmente le scarpe che aveva appena visto schizzare come due missili e sparire chissà dove; si levò le ballerine, appoggiandole ai piedi del tavolino, e raggiunse il ragazzo sotto la coperta. Robert in compenso, le cedette buona parte dei cuscini e la aiutò e poggiare il capo lasciando le ferite libere da impicci, e controllandogliele ogni secondo che passava con aria critica. Spensero la luce sul mobile accanto al divano e il buio inghiottì la stanza.
Ahia…”
“Che vuoi?”
“Quello era il mio piede” ringhiò Charlotte.
“Ehmbè? Colpa tua che l’hai messo sotto il mio. Spostalo”.
“Il divano è il mio”.
“Nemmeno per sogno”.
Un tonfo e una pacca risuonarono, seguito da un gemito.
“Oddio, ho una costola in meno!” strillò Robert.
“E io un timpano in meno, demente, voltati quando strilli!”
Un altro tonfo e un rumore di stoffa strappata.
“Ahia il collo” gemette seriamente la ragazza.
Ma lui non parve sentirla. “Hai… strappato… la… mia coperta?”
Silenzio.
Robert auto controllo… Robert autocontrollo…” cominciò a ripetersi lui, con le dita che premevano la radice del naso. “Ti odio e sei una pazza”.
“Sono ferita, lasciami in pace!”
Il ragazzo inspirò e si promise di mantenersi calmo. “Ti ho appena chiesto scusa. Sono una brava persona, ignorerò quello che hai fatto”.
“Ma tu guarda!”
“Zitta. Dormi”.
“Brutto - ”
“Dormi!”
Continuarono a litigare per i seguenti cinque minuti, tirandosi i capelli e dandosi pizzicotti e calci, nonostante Robert cercasse di sfiorarle le ferite il meno possibile, e non smisero fin quando Charlotte crollò addormentata sul suo petto, e lui decise che era troppo stanco per restare sveglio a guardarla, anche se l’avrebbe voluto. Reclinando il capo su quello di lei, sorrise e si addormentò.


***


Gente. Caos. Il rumore delle rotelle dei trolley trascinati sul pavimento lucido. I passi di gente in corsa. Gli spintoni di chi era di fretta. Il cercare i passaporti nelle borse colme di oggetti. I pannelli luminosi con destinazioni, partenze e arrivi. Gli altoparlanti che riempivano l’aria con la loro voce gracchiante.
Poco distante dal check-in, appoggiato ad una colonna con un giornale in mano, Richard sfogliava distrattamente le ultime notizie, il viso stanco e l’espressione triste. Il grande giorno era arrivato. E doveva ammetterlo, nelle ultime ventiquattro ore le cose erano cambiate ancora una volta, ma tutto sommato doveva dirsi abbastanza soddisfatto.
Girò l’ennesima pagina con non curanza, e Tom fece capolino da sopra la sua spalla.
“Morti, sparatorie, massacri e tragedie varie?” chiese annoiato.
“La dose quotidiana da tutto il mondo. Vuoi che ti legga qualcosa, caro?”
“Nah grazie. Sono facilmente impressionabile” scosse il capo con vigore. “Bobby dov’è?”
“Sua madre lo sta rimpinzando di merendine da nascondere nello zaino” rispose sempre non curante Richard, sfogliando il giornale.
“Oh. Credo che non lo salverò, Clare oggi fa paura. La bimba dov’è?”
Richard allora alzò lo sguardo e fissò un punto vicino a loro, oltre una panchina. “Là”.

La ragazza sedava a gambe incrociate su una delle panchine metalliche sistemate nella grande sala d’attesa, lo sguardo rivolto ai grandi finestroni che davano sulle piste dove gli aerei si stagliavano con immensi gabbiani candidi.
Piangeva, e non si premurava di nasconderlo. Si disse che le cose per lei erano così cambiate nell’arco di poco, che una lacrima in più non sarebbe risultata strana agli occhi degli altri. E d’altro canto, non sapeva come impedirselo. Di piangere.
Fissava con aria malinconica i passeggeri che si avviavano ai grandi veicoli alati e immaginava di vederli sparire oltre le nuvole, destinati chissà dove. Immaginava i loro discorsi durante il viaggio per scacciare la noia. Immaginava il cielo che avrebbero visto, se fossero riusciti a vedere l’alba o il tramonto, una volta arrivati. Immaginava il loro atterraggio e chi li avrebbe aspettati.
Una mano le si posò sulla spalla e sobbalzò. Alzò il capo sopra di lei e Tom le sorrise.
“Che fai?”
“Guardo”.
“Che cosa?”
“Gli aerei”.
Il ragazzo la guardò come se fosse stupida, ma poi sorrise di nuovo. “Ti compro un modellino se vuoi”.
Charlotte chiuse gli occhi e gli tirò un pugno sulla spalla.
“Come va la tua fronte?” chiese poco dopo lei.
“Brucia un po’ e i punti tirano. Ma niente che non possa sopportare. La tua?”
“Brucia… e i punti tirano un po’, ma è sopportabile” disse facendogli il verso. “Il collo fa più male” aggiunse sfiorandosi il cerotto.
“Passerà” le rispose tranquillo il ragazzo. E lei annuì.
Dall’altra parte del salone, la figura ciondolante ed assonnata di Robert si fece strada fra la folla, accompagnato dalla madre con le mani cariche di merendine e lo sguardo paonazzo.
Al vederli Richard si nascose ancora di più dietro il giornale, mentre Tom ridacchiò e Charlotte si ammutolì.
Il neo attore raggiunse l’amico e gli mimò con le labbra la parola “aiuto”, con un cenno rivolto alla madre.
Tom sbuffò. “Buone le merendine, avrete reso felice il negoziante, almeno”.
“Oh zitto, Tom. Deve pur mangiare qualcosa in aereo, non può morire di fame” lo rimbeccò Clare.
“Mamma” gemette Robert con l’aria di chi ha affrontato la questione una trentina di volte. “Ci danno la colazione, il pranzo e forse anche la cena, a bordo… Non morirò di fame”.
“Sciocchezze. Non si sa mai quello che ti danno” gli sventolò la mano sotto il naso lei. “Dov’è tuo padre?”
“In incognito dietro il giornale, laggiù” lo additò sadico Tom. Clare seguì l’indicazione e sparì con le merendine ancora in braccio.
Robert riprese a respirare nel vedere la madre sparire e si spalmò sulla panchina, lasciandosi andare contro la spalla di Charlotte. “Uffa”.
“È il suo modo di dimostrarti che ti vuole bene, Bobby. Sii comprensivo” lo bacchettò Tom.
“Sono tre ore che la ascolto strillare che non ho preso abbastanza calzini e camicie di ricambio, e un’ora che sto rinchiuso dentro quell’inutile negozio di maledette merendine alla pesca, tanto che sono diventato allergico alle pesche! Direi che sono un pochino più del comprensivo” ringhiò strozzato lui.
“Sei un po’… teso…” osservò Tom.
E Robert fece per tirargli un calcio, ma Charlotte gli passò un braccio attorno alle spalle e gli intimò di starsene buono e a cuccia.
Restarono a ciondolare nel salone per un’interminabile ora, Robert con le gambe allungate sulla panchina e la testa contro la spalla di Charlotte, lei con i piedi appoggiati alla panchina di fronte e Tom che le slacciava e riallacciava le stringhe delle All Stars.
Non chiacchieravano molto, a parte il chiedere che ore fossero e se i signori Pattinson fossero ancora presi a litigare per un qualche ignoto motivo. Non c’era molto da dire, e se ci fosse stato non sarebbero state parole allegre. Addii… saluti… abbracci e sventolare di mani.
Si erano già detti tutto e niente, quella stessa mattina, ritrovandosi con le occhiaie più brutte che il mondo avesse mai visto, e gli occhi più stanchi della storia. Si erano guardati e si erano detti buongiorno. Ma era un buongiorno diverso.
Era un buongiorno che sapeva di perdita per Charlotte. Una coltellata a pieno petto, che incideva e tagliava sino allo stomaco, togliendole la voglia di scherzare per smorzare la tensione. Un buco che si allargava come una voragine, mentre lei pregava per non caderci dentro e sparirvi definitivamente.
Era un buongiorno a tinte spente per Robert. Come se di colpo tutte le luci del mondo si fossero spente, ad eccezione di una, che gli illuminava il cammino davanti a se, e gli rammentava quello che andava fatto. Dolore e sconfitta, per ciò che aveva imparato a capire ed amare, e che troppo presto era costretto a lasciare.
Ed era un buongiorno sordo per Tom. Appena sveglio aveva rinunciato alla solita musica che gli dava la carica, preferendo la radio spenta ed anonima. Non voleva parole estranee nella sua testa, non ora che a fatica riusciva a contenervi le proprie, perché sapeva, che al momento di vedere scomparire l’amico al di là delle porte scorrevoli, avrebbe dovuto fargli forza con qualche frase di circostanza… e lui non aveva la più pallida idea di cosa dirgli.

L’aria si spezzò e la voce gracchiante dell’altoparlante annunciò il volo.
Tutti e tre i ragazzi smisero di respirare.
Gli occhi di Tom scattarono su Robert. Quelli di Robert scattarono sul riflesso di Charlotte nella grande vetrata di fronte a lui. E quelli di Charlotte volarono al tabellone delle partenze.
Bene. La giostra aveva ripreso a girare e ora si andava in carrozza.
Tom si passò le mani fra i capelli e sospirò rassegnato.
Rooob! Robert!”. Clare arrivò correndo, con Richard dietro. “Rob, il volo. Forza, alzati!”
Il figlio le gettò un’occhiata contrariata e con lentezza si alzò dalla panchina e raccolse lo zaino.
“Sbrigati” riprese la madre.
“Clare, l’aereo non scapperà nell’arco di cinque minuti. Lascialo respirare” le mise una mano sulla spalla il marito. “Tu però, ragazzo, non diventare paralitico proprio ora. Coraggio”.
Il gruppetto si trascinò a passo rallentato sino alla barriera del check-in, dove una piccola coda già attendeva il proprio turno. Robert la guardò con una smorfia, poi si voltò e rimase in silenzio.
Non abbracciatemi tutti assieme, avrebbe voluto dire, nel vedere che nessuno si faceva avanti per salutarlo, ma in fondo poteva capirlo. Il primo che l’avrebbe fatto avrebbe segnato a fuoco l’evidenza della partenza.
Tuttavia fu Clare a rompere l’incanto, singhiozzando e gettandosi fra le braccia del figlio, stringendolo convulsamente.
“Mi raccomando! Mi raccomando sta attento e comportati bene” lo puntò con un dito.
“Si mamma”.
“Incontrerai un sacco di persone, non fidarti di tutti. Pensa prima di parlare, hai capito?”
“Si mamma”.
“E non cacciarti subito nel primo bar che trovi, per cortesia, non bruciare quel briciolo di educazione che ti ho dato!”
“Si mamma” annuì sfinito lui, abbassando il capo.
Clare lo abbracciò di nuovo e gli disse che gli voleva bene.
A lei si sostituì Richard, con gli occhi lucidi, che strinse silenzioso il figlio, prima di dargli un buffetto sulla guancia con il monito di limitarsi alla decenza, il resto bastava che lo facesse con la miglior discrezione possibile.
“Lui è discreto. Ha imparato da me” commentò Tommy, sorpassando Richard. Si portò davanti all’amico e gli sorrise. Si guardarono per qualche minuto, senza dire nulla, entrambi con le lacrime agli occhi e la gola che premeva per il pianto. Infine, tirando su col naso, Tom scrollò le spalle e abbracciò di slancio l’amico, “Stammi bene, Bobby”.
Robert lo strinse e serrò gli occhi. “Rispondi al telefono o sei un uomo morto, Sturridge”.
“Ti manderò una tabella con i miei orari di reperibilità” scherzò il ragazzo, “Tu cerca di non fare l’idiota. O mi toccherà venire a salvarti”.
“Tanto prima o dopo vieni, no?” fu la domanda, quasi una preghiera.
“Prenota già la stanza”.
Sciolsero l’abbraccio e si batterono le mani sulle spalle, con una breve risata di tensione.
E poi Tom lasciò il posto a lei.

Robert la guardò. Era più minuta di quanto avesse mai notato e ora la trovava così piccola e fragile, sotto la felpa blu che le aveva lasciato. Aveva i capelli spettinati e gli occhi stanchi. Le sopracciglia aggrottate e il mento che tremava. E il ragazzo pensò che fosse perfetta.
Inclinò la testa di lato e lei gli si avvicinò. Gli altri tre, come coordinati, si fecero da parte, lasciandoli soli quanto bastava.
“Come va il collo?”
“Meglio” mentì lei. “La costola?”
“Sopravviverò anche senza”.
Charlotte rise e si passò una mano sugli occhi. Dio, perché stava succedendo? Voleva mettersi a gridare, a minacciare che ci fosse una bomba sull’aereo o qualche altra stupida idiozia pur di inchiodare il ragazzo al pavimento. Ma ovviamente non c’era nulla da fare.
Alzò lo sguardo e incontrò quello devastato azzurro mare, e sentì il cuore cederle.
“C-cerca di… essere il meno possibile te stesso” disse, “O sarà la fine di tutti”.
“Come incoraggiarmi con parole di conforto. Tom è un mago in confronto”.
“Sono solo previdente”.
“Sei bisbetica, è diverso”.
Lei cacciò la lingua e scosse la testa abbassandola.
Robert sentiva il petto dilaniarlo dal dolore che sembrava scoppiare da dentro e stava per dire qualcosa, ma una voce al di là del check-in lo interruppe, facendolo arrabbiare.
Robert! Muoviti!”. Sarah sventolava la mano e lo richiamava all’ordine, ma scomparve ancor prima che lui potesse lanciarle dietro lo zaino con tutte le merendine alla pesca.
Tornò con l’attenzione sulla ragazza e vide che si torturava le mani con ansia. Non voleva vederla così, non ce la faceva. Si avvicinò di un passo.
“Beh. Il capo chiama, non voglio commettere atti impropri” commentò contrariata Charlotte.
Era il momento. Arrivi ad un punto in cui tirare la corda non serve più, in cui puoi anche metterti a pregare ogni santo e oracolo possibile, ma le cose hanno preso la loro piega e puoi solo restare a guardare. Una consapevolezza che faceva male come sale su una ferita aperta, ma che Charlotte sapeva sarebbe diventata la sua regola di vita. Avrebbe imparato a convivere con parte dei propri pensieri al di là dell’oceano, a parlare senza avere timore di sbagliare e senza l’appoggio di qualcuno dietro, a mostrarsi di nuovo al mondo senza l’ombra di un protettore che le ripeteva che, si, lui c’era.
Avrebbe imparato a considerarlo un uomo adulto, capace di discernere e di agire secondo le proprie scelte e conseguenze. Avrebbe imparato a vederlo come un oggetto conteso fra le mille creature sulla faccia della terra, lei unica capace di capirlo fino in fondo. Ed avrebbe imparato che c’era posto per entrambi, divisi e separati, senza che fossero un unico cuore.
Alzò lo sguardo cioccolato sul ragazzo e con il sorriso più sincero disse “Buon viaggio, Rob”.
E al vederla così sicura di se, una luce che arrivava di riflesso da lontano e di cui non sapeva spiegarsi la provenienza, vederla così diversa anche se per pochi istanti, Robert mollò lo zaino a terra e la tirò a se.
“Sei una stupida. Una stupida” le soffiò all’orecchio. Piangeva.
“Grazie”.
“Ti avevo detto di venire, perché hai pensato che ti volessi solo per un capriccio?” pianse, stringendole la felpa. “Sei una stupida”.
Lei deglutì, con il viso ormai fradicio di lacrime. “È il tuo percorso, non il mio”.
“Che risposta del cavolo”.
“Andrà tutto bene, Rob. Andrà tutto…” ma la voce le si spezzò.
Robert la sollevò e la prese in braccio, “Ti odio”.
“Non è vero” sorrise, cacciando il viso nella spalla di lui.
“Ascolta Tom. Fosse che ha capito che può usare anche il cervello, a volte. Capito?”
“Tu non bere”.
La scostò di poco e la guardò dritta in volto. “È di te che mi preoccupo! Maledizione… s-smettila di isolarti, per favore. Ho… paura. Smettila di nasconderti, ti prego”.
Piangeva senza preoccuparsene, lasciando che i grandi occhi azzurro mare diventassero liquidi e profondi, tanto da perdersi.
Poteva forse rispondergli di no? Con il respiro rotto dai singhiozzi, lei annuì e abbozzò ad un sorriso.
Robert la strinse a se ancora un attimo, inspirando a pieni polmoni il suo profumo di pulito, imprimendosi a forza nella memoria ogni singolo attimo trascorso, ogni singola parola detta o urlata, ogni singolo gesto compiuto, per rabbia o affetto. Registrò nella mente il suono della sua voce, quando strillava, quando cantava, quando rideva, quando sussurrava e quando piangeva. “Ti voglio bene”, disse, pur sapendo quanto minime e inferiori fossero quelle tre parole al confronto di quello che davvero provava.
La lasciò scivolare di nuovo in piedi; poi, prendendole il viso fra le mani, posò le labbra sulla sua fronte, premendo con forza e avidità, e, senza guardarla più in viso, si allontanò, raccolse lo zaino e andò a completare la coda. Fece il check-in e, a spalle curve, sparì al di là delle porte scorrevoli.









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Spazio sproloqui

Et voilat!
Eh eh… allora? Che mi dite? State piangendo? Io si. Che ci crediate o no, ho pianto (un pochino eh…) mentre scrivevo dall’abbraccio di Tom in giù, e "Your Call" dei Secondhand Serenade di certo NON aiuta... no...  T_T
È stato un capitolo stranamente facile da scrivere. Forse perché erano già diversi capitoli che volevo scrivere un qualcosa del genere, cioè carico di emozioni e fatti per i nostri due eroi… o forse perché in questi giorni ho un disperato bisogno di affetto che penso mi mangerei sacchetti di zucchero e caramelle gommose fino a diventare l’omino michelin >_>
Comunque, da questo capitolo in poi le cose si fanno più difficili perché in parte voglio recuperare un po’ il tempo perduto, siamo indietro: siamo a Twilight, vi rendete conto? O.° *brava carlotta, genio…*  Perciò alcuni capitoli è possibile che avranno degli scorci temporali più veloci, magari frammenti o altro, giusto per arrivare, se non pari, almeno al periodo di Eclipse… Ci saranno episodi importanti fra New Moon, Remember Me e blablabla, ma vedrò di conciliare il tutto, anche perché… wow… ora posso usare più personaggi, siiiiiiiiiiiiii!!! *.* E chissà che non mi arrivi anche qualcuno di interessante, eh? *mente malefica, sa già cosa fare…*

Passando ai ringraziamenti:
_Miss_ : cara, figurati, è stato un piacere… e mi sembrava giusto farlo ;D Si. Lo so, penso che almeno i tre quarti dei lettori si aspettassero Bobby seduto sul divano, era abbastanza matematico, dai! Ma io… sono cattiva, ahah, e non faccio mai le cose come dovrei XD  
Tom francamente lo adoro. Cioè continuo a notare l’odio nei suoi confronti, ma oh: ma che vi ha fatto poverino? Come si può non amarlo? Tra lui e Nia poi, c’è da mettersi le mani nei capelli, ma sorvoliamo…
Mi spiace se hai aspettato un po’, ma qui la connessione mi sa che mi arriva dalla Groenlandia T_T Spero di essermi fatta perdonare però, anche se è un po’ triste. Ti ringrazio comunque, sei dolcissima e gentilissima, sempre sempre, e… dammi tempo di tornare a casa e poi ci arrangiamo coi contatti, eh? Bacio cara *.^


Bene. Un mega grazie anche a chi legge in silenzio e a quelli che l’hanno aggiunta a preferiti e seguite.
Al prossimo chap! Baciooo ;*


beth

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Capitolo 12
*** 11. un freno alle parole ***


Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 11° capitolo – Un freno alle parole
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: Ed ecco il nuovo chap con Bobby oltre marrrr!! :D Porello, mi fa un po’ pena, ma è giusto che il ragazzo si faccia le ossa. E chissà che combina invece la pazza a casa…
Ci vediamo sotto, come sempre ;)















11
“Un freno alle parole”







Dicono che più ti ripeti una cosa, più mormori le parole che compongono un’idea, più ti incidi nella mente che doveva andare in una determinata maniera, hai buone probabilità di crederci, di convincerti che si, forse era l’unica via.
Dicono che per quanto tu possa sperare ad occhi chiusi, con un pugno stretto attorno all’eterno desiderio, i miracoli non crollino dal cielo come caramelle senza che tu non lo voglia davvero. Devi giocare la tua parte, devi sussurrare al destino che c’è almeno un motivo valido per cui una certa cosa debba accadere o meno…
Ma dicono anche che, alle volte, il destino è sordo. O ci sente benissimo, a seconda dei casi. Solo che cammina su una strada parallela alla nostra e vede il mondo sotto una prospettiva diversa da come la contempliamo noi. E il problema sta proprio lì. Che anche pregando, implorando e sperando, la maggior parte delle volte non capiamo. E ci feriamo.
E ci sono diversi tipi di ferite. Da arma da fuoco. Da sbadataggine casalinga. Da colluttazione fra bulletti di scuola. Da pollice verde schizzato. Da cuoco amante dei fornelli. Da lavoratore infaticabile… Ciascuna con la propria storia e con il proprio rimedio. Tutte tranne una. La ferita all’animo. Perché per quante vite si possano attraversare, per quante volte si possa apprendere cosa è giusto e cosa è sbagliato, non è mai abbastanza per quell’ennesima che ti lascia in ginocchio come se fosse la prima. Un ciclo che si ripete, un storia vecchia come il mondo e odiata dai tre quarti di esso, ma che non cambierà mai.

E anche quella volta, non sarebbe cambiata per Robert. Non sarebbe cambiata per Tom. E non sarebbe cambiata per Charlotte.
Legati a tre fili, uniti in un unico nodo, ma sparpagliati su differenti piani con una luce individuale a schiarire l’orizzonte.
Naturale. L’illusione che le cose sarebbero andate come sperato, come un giuramento che si fa da bambini, “amicizia per sempre, sino alla morte”, nemmeno fosse un sigillo in grado di fermare l’aldilà, era un credo che si portava dentro il petto come un amuleto. Era lì. Lo vedevi. Lo sentivi e lo adoravi. Ma sapevi che per quanto invogliassi il riflesso a darti ragione e sollievo, era soltanto un modo per scacciare l’evidenza e la coerenza. Che le cose cambiavano.
Cambiavano sempre. Una girandola colorata che si spostava, che girava e sobbalzava ai colpi di un vento che non sarebbe mai stato uguale, che non avrebbe mai rispettato le regole, perché regole non ve n’erano, che non avrebbe mai ascoltato nessuna lamentela per sorda e muta che fosse, che non si sarebbe mai fermata, ne per se stessa ne per il mondo intero…
Abbattersi, forse, era l’unica via d’uscita. O probabilmente, imporsi e giocare a proprio favore i colori della vita era l’unica alternativa. “La vita non è tutte rose e fiori”: i colori restavano, ma avevano le spine, e dipendeva solo dal modo di raccogliere il fiore, dall’ignorare il dolore ed imparare di conseguenza ad evitarlo o ad essere più forte.

Erano passate due settimane dal ventisei Dicembre.
Le immagini registrate nella memoria scorrevano ancora come un film interrotto.
Robert che raccoglieva lo zaino. Robert che baciava Charlotte sulla fronte. Robert che schivava la gente al check-in. Robert che chiudeva gli occhi ed oltrepassava le porte scorrevoli. Robert che spariva fra le nuvole.
Due settimane e sembrava ancora il primo giorno. Due settimane e Charlotte sentiva ancora il profumo del ragazzo sulla propria pelle. Due settimane e l’eco del “ti voglio bene” sussurrato risuonava senza sosta come campane alla fine del mondo.
Avesse voluto mentire, avrebbe detto che stava assimilando la cosa e se ne stava facendo una ragione, che non era così terribile come si aspettava, sarebbe tornato indietro prima o dopo. E a voler essere sinceri, invece, doveva ammettere che non aveva dormito per quattro giorni di fila.
Si svegliava nel cuore della notte con il fiato corto e gli occhi sbarrati con la convinzione di sentirlo chiamare al piano di sotto, o di sentirlo suonare nella veranda sul retro, lui e la sua stupida chitarra.
Lo vedeva muoversi negli specchi del corridoio, dell’armadio e del bagno, per poi voltarsi su se stessa di scatto nella muta speranza che fosse già tornato, in un improvviso cambio di programma, quando invece era l’abitudine a farle immaginare le sue espressioni e cenni del capo.
Si aspettava di trovare il solito disordine, scarpe e calzini sparsi come relitti per i pavimenti delle stanze; il dentifricio schizzato sul lavandino e sullo specchio; le magliette mescolate alle proprie; la scatola del latte puntualmente dimenticata sul tavolo della cucina, assieme al barattolo del caffè; i fogli degli spartiti seminati come coriandoli in ogni angolo possibile… E invece l’ordine regnava – nei limiti del possibile – il bagno restava pulito, così come i pavimenti e il tavolo della cucina; i vestiti erano piegati e ordinati nei ripiani e negli angoli v’era il nulla se non la polvere.
Segni. Evidenza. Lui non c’era. Non era tornato. E sarebbe stato così per un pezzo.
Oh. Lui aveva mantenuto la promessa. Una volta atterrato, appena passata la dogana e i controlli di routine, non aveva nemmeno ripreso a respirare, che già armeggiava con il cellulare e componeva il numero di casa Sullivan e contava i secondi che passavano prima di sentire un boato scoppiare dall’altra parte della cornetta.
“PRONTO!”
“Sono io! Sono arrivato!” aveva sorriso, pur sapendo che non l’avrebbe visto.
“Oddio, sei tu! Stai bene? C-com’è andato il volo? Cosa fai or – RIDAMMI IL TELEFONO!”
E Robert aveva storto la bocca interrogativo.
“Dammi qua! … pronto? Hei Bobby! Allora com’era il volo? Le hostess ti hanno trattato a dovere? Non devo lavare nessun’onore? Lo faccio volentieri se occorre!”
“Tempismo perfetto Tom, meno di ventiquattrore e già mi rimpinzi delle tue perle: casa non mi manca per niente” aveva riso il ragazzo, con il cuore colmo di gioia.
Non sei era nemmeno chiesto cosa ci facesse l’amico a casa di Charlotte, anche se aveva una mezza idea: la regola del “non lasciarla sola” vigeva, almeno per i primi giorni, e malgrado la gelosia, doveva ammettere che gliene era grato.
Erano rimasti al telefono per mezz’ora, con Robert che rideva come un disperato, i piedi in America, e Charlotte e Tom che si strattonavano la cornetta a vicenda, seduti sul divano con il cielo di Londra fuori della finestra.
Non si badava a spese, per così dire, nonostante il sopracciglio di Marie Anne si incurvasse un po’ troppo mentre adocchiava i minuti scorrere, e quelle telefonate si ripetevano di continuo, come se il ragazzo fosse sempre stato lì e la sua immagine oltre oceano fosse solo un dipinto.
Raccontava della piccola camera d’albergo che gli avevano dato per le prime due notti, senza intrattenitrice aggiuntiva come aveva dovuto chiarire a Tom, ed immaginando l’espressione disgustata di Charlotte; aveva descritto poi la roulotte, piccola ma confortevole, poco distante dal set vero e proprio… e, naturalmente, aveva parlato di tutto il resto: della regista, una bomba esplosiva intrappolata in un corpo da donna adulta; di alcuni co-protagonisti già incontrati e che, a sentirlo, non sembravano così male; del trucco che gli avevano dovuto sperimentare sulla faccia, nemmeno fosse stato una lavagnetta cancellabile e riscrivibile; insomma, un’altra vita, che sapeva di nuovo, di diverso… di lontano.
“Eh dimmi, lei l’hai vista? Com’è?” aveva chiesto Tom, all’ora di pranzo mentre si ingozzava di patatine fritte in cucina, Charlotte alla sua destra che giocava con il tubetto della maionese. “Hai già fatto conoscenza?”
“Lei chi?” si era sentito dall’altra parte.
“Lei. La tua Bella… Isabella… o come diavolo si chiama”.
E un’ombra scura era passata sul volto di Charlotte. Un’ombra veloce e sfuggevole, ma che Tommy era riuscito lo stesso a cogliere e a chiedersene il perché.
“Oh. Oh… Kristen” rispose Robert, “Certo. È un po’ che la vedo, sai? Oggi abbiamo fatto la prova costumi: caspita è minuscola, e ha un’aria così… così…”
“Sexy?”
E di colpo, Charlotte schiacciò un po’ troppo forte il tubetto, e il tappo salto via attraverso la cucina.
“Stavo per dire introversa. È difficile parlarle. Non sembra una molto socievole… o forse lo è, ma non le sto simpatico”.
“Questione di punti di vista” lo aveva rassicurato Tom.
“È strana. Diversa da come me l’aspettavo”.
“Chiedigli com’è il tempo” si era allora intromessa la ragazza mora, fissando con aria contrariata il punto dov’era scomparso il tappo.
Tom l’aveva guardata per un istante con aria confusa, poi aveva ripetuto la domanda all’amico.
“Il tempo? Uhmm… piove. E fa freddo. Perché?”
“Niente. Qualcuno sta sviluppando un interesse per le previsioni meteorologiche in maniera ingiustificata”.
“Non è vero”.
“Chi?”
“Nessuno” aveva bofonchiato Tom, schivando uno scappellotto sul collo. “Piantala!”
“Charlotte è lì?”
“Sono seduto sulla tua sedia in cucina, in casa sua, si”.
“Leva le chiappe e passamela”.
Erano svariati gli argomenti, a seconda della giornata, così come lo era la voce del ragazzo. Una volta era stanco, una volta era entusiasta, l’altra era elettrizzato o confuso, ma più passavano i giorni, e più si poteva notare la sicurezza che prendeva tono e la curiosità che risuonava nelle sue riflessioni. Era un mondo diverso, e facilmente lo si poteva immaginare con la sua espressione da dolce irresponsabile con il sorriso stampato sul viso e la risata pronta, la maschera che calava sempre, come una cortina su un palcoscenico, ma che faceva sempre centro, perché disarmava… perché metteva nella posizione di unirsi alla sua allegria.

E passate quelle due settimane, ne era seguita una terza in cui le chiamate erano diminuite. La giustificazione? Intense riunioni di gruppo e lunghe discussioni con la scrittrice riguardo ogni singolo personaggio; Robert era il protagonista, e le sue ore d’aria erano ridotte drasticamente, cancellate da colloqui e interazioni con regista, autrice e sceneggiatrice. Per non parlare del legame che il ragazzo aveva dovuto avviare con la tanto nominata Kristen, o Isabella che dir si voglia, che a detta sia di Robert che di Tom, era un’attrice a dir poco straordinaria per la sua giovane età…
A poco erano servite le minacce silenziose e i lunghi sguardi assassini rivolti a Tom quando si lasciava andare in commenti e consigli poco ortodossi circa un “sii te stesso amico, lascia andare il Robert che è in te” con un aggiunta più seria di “Beh… vedi il lato positivo: se andate d’accordo, la sopporterai fino alla fine, se è bisbetica rimpiangerai il giorno in cui hai accettato di firmare il contratto, vecchio mio”.
Non che Charlotte avesse qualcosa da ridire al riguardo, o meglio… non necessariamente: comprendeva la difficoltà di intesa, non sempre fra persone mai viste prima e con cui si è forzati a lavorare a lungo scattava la scintilla, ritrovandosi poi a bighellonare per il set come amici di prima asilo. Ma era anche vero che le pressioni di Tom e i risolini isterici di Robert dall’altra parte della cornetta, erano di un livello a dir poco insopportabile. Trovò una sola spiegazione al riguardo: che gli uomini erano tutti maledettamente uguali. Cameratismo e tanta sfacciataggine.
Giunsero di quel ritmo sino alla fine del mese, quando Charlotte aspettava per l’appunto una nuova chiamata, mentre era sdraiata sul letto, intenta a sfogliare il famoso “Twilight” con aria corrucciata e le mani nervose.
Il cellulare squillò. Lei mise il segno al libro e si voltò a guardare lo schermo luminoso, accanto a lei, sulla coperta. Era lui.
“Pronto?”
“Ciao”.
“Hei… sei sotto le grinfie di chi, ora?”
“Uhmm… ho appena liquidato la truccatrice, improvvisando una lunga corsa disperata verso la porta del bagno. Devo averla convinta, perché non mi ha inseguito: attore mica per niente”.
“Hanno cura di te, Rob, cerca di essere accomodante” lo prese in giro con un risolino lei.
“Non dopo quello che mi hanno fatto oggi” gracchiò il ragazzo.
“E cosa ti avrebbero fatto, sentiamo?” sospirò Charlotte, pronta all’ennesima lamentela. Di storie truci sulla truccatrice ne aveva a miliardi, poteva scriverci un libro intero e vivere di rendita.
“No. È troppo… i-imbarazzante”.
“Oh, ora me lo dici! Cos’è, ha provato su di te il lipgloss effetto bagnato, all’ultima moda? Ti hanno messo il mascara glitter? Anzi, perdonami la domanda: da quando i vampiri brillano al sole? Cioè, tu brilli al sole? Non fatico a comprendere l’attrattiva che quella povera truccatrice ha per te, sai? Potrà sbizzarrirsi a pasticciarti la faccia” e schiarendosi la voce e assumendo un cipiglio severo, imitò la voce di Tom. “Vedi il lato positivo della cosa, Bobby: un donna che ti massaggia la faccia tutto il giorno, è una cosa per cui tutto il mondo darebbe via il proprio migliore amico. Anche se è brutta, le puoi sempre mettere un sacchetto in testa, ah ah aaah”.
Robert sospirò un paio di volte, chiedendosi se Tom le avesse fatto il lavaggio del cervello, prima di dirle con grande umiliazione, “Mi ha fatto la ceretta alle sopracciglia”.
Un attimo di silenzio intercorse sulla linea, per poi venire interrotto da un singulto. E un secondo. Anzi era più un respiro strozzato. E ancora. Assomigliava ad una risata. Si, una risata mal trattenuta, che nel giro di poco scoppiò in un boato che costrinse Robert ad allontanare il telefono dall’orecchio.
“Grazie eh. Si si, grazie, bella comprensione”.
Charlotte rideva come un’ossessa. Accidenti, se c’era una cosa che Rob odiava, era l’essere femminile o essere trattato da tale, come ad esempio essere costretto a farsi la barba con cura, quando lui adorava lasciarsi cancellare mezza faccia dal disordine, oppure l’avere troppe mani che gli cospargevano guance e naso di creme ed esfolianti. Le sopracciglia, quindi, dovevano essere un duro colpo all’orgoglio. Uno si sarebbe preoccupato se si fosse sentito dare dell’impotente con rabbia, ma Robert era diverso. Lui si preoccupava… delle sopracciglia.
“Naturale, certo. Io te lo dico e tu ridi, m-mi sembra il miglior conforto che uno dovrebbe ricevere, giusto? Che stupido, perché non te l’ho detto prima, eh!?”
Charlotte soffocava e batteva il pugno sul cuscino come una matta, mentre si immaginava la faccia del ragazzo rossa e solcata da macchie rosse e residui di ceretta. Uno spettacolo.
“Ma allora hai finito?!”
“Oddio… ahahahah!”
“Ma tu guarda…” grugnì, per poi aggiungere, “FINISCILA!”

Da quell’ultima volta, le settimane presero a volare. Gli impegni si intensificavano, il lavoro portava via gran parte del tempo, e la stanchezza si prendeva il resto. Le chiamate scemavano, raggiungendo un ritmo di un paio durante i sette giorni, con l’esclusiva del weekend.
Era difficile, ma Charlotte accettò silenziosamente il compromesso. Poteva diversamente?
Era la sua vita, era il lavoro che aveva scelto, e si sentiva già un’ingrata per il costringerlo implicitamente a telefonarle per renderla partecipe di un qualcosa a cui lei stessa aveva rinunciato, figurarsi il rimproverargli della carenza di chiamate.
Sentiva la soddisfazione crescente e l’orgoglio che si nascondevano sotto le parole del ragazzo e i discorsi che facevano: orgoglio per l’essere parte di un progetto in grande e “straniero”, per l’indipendenza che pian piano arrivava e si legava al suo cuore come una nuova musica. Stava crescendo, stava cambiando, stava maturando… e lo stava facendo lontano da lei.
Perché nonostante sentisse la sua mancanza, era questo il vero dolore di Charlotte: che lui diventasse un altro senza che lei potesse accorgersene, senza che potesse vederlo, senza che potesse esserne partecipe. Passavi parte della giovane vita a condividere ogni sorta di emozione, sentimento ed affetto, dall’imparare ad allacciarsi le scarpe al riconoscere la differenza fra passione ed amore, e poi… la prima grande svolta, quella che ti catapultava nel mondo degli adulti, lui la affrontava da solo. Certo, circondato di nuovi compagni d’avventura, ma senza i vecchi. Lei e Tom erano rimasti indietro, erano rimasti a guardare un film a cui non appartenevano più, e Charlotte era convinta che così come lei soffriva, anche Tom ne pativa, pur nascondendolo dietro risate e battutine piccanti.
Era così. Era naturale. Amavano Robert. E soffrivano. E parlarne, purtroppo, serviva a poco, ed era già successo.
“Pensi che… si trovi bene, là?” aveva chiesto una sera la ragazza, mentre mangiavano pizza davanti al televisore.
“Perché non dovrebbe?” aveva risposto atono Tom, fissando lo schermo.
“Non è sempre facile. Alle volte… beh… non si sa bene come… fare”.
“Imparerà alla svelta” fu la risposta. “È quello che ha scelto. Deve farci i conti”.
Charlotte l’aveva guardato perplessa, scrutando l’espressione diversa che aleggiava sul viso di solito allegro del ragazzo. Lui aveva posato la pizza e si era voltato, piantandole in volto gli occhi azzurri.
“Non ho risposta. Cosa vuoi che ti dica? Ha fatto una scelta, è l’ho rispettata. Ha scelto di camminare su una strada diversa dalla mia. E l’unica cosa che posso fare è sperare che sappia quello che fa. È il mio compito. Credere e aspettare. Non posso fare altro”, ed aveva ripreso a mangiare la pizza guardando la televisione.
Soffriva. E Charlotte ora glielo leggeva a chiare lettere addosso. Mostrava la facciata spensierata, quella che da anni erano abituati a vedere e sopportare, ma sotto c’era altro: anche Tom stava crescendo. Maturava la consapevolezza che prima o dopo i percorsi si dividono, ciascuno si assume le proprie responsabilità e decide di abbandonare parte della vecchia vita per fare spazio alle novità. E lui, Tom, faceva parte di cosa? Del vecchio… o poteva restare a fare parte anche del nuovo?
Charlotte gli aveva messo una mano sul braccio e aveva detto, “Non si è dimenticato di noi”.
Ma lui non aveva risposto.


***


Dei passi risuonarono sul selciato ghiaioso e raggiunsero una piccola scaletta, per infilarsi dentro un abitacolo non troppo ampio e chiudersi una porticina alle spalle. Una mano s’allungò su un interruttore e la luce rischiarò una semplice zona soggiorno, da cui si scorgeva il letto nella stanzetta accanto.
Robert sospirò passandosi una mano sui capelli. Appoggiò la giacca sul ripiano accanto alla porta, si avvicinò al letto e si lasciò cadere sul materasso. Era stanco. Terribilmente stanco. Più per l’emozione che non per l’effettiva giornata di lavoro. Era stata abbastanza tranquilla, una scena nella mensa della scuola, dove aveva fatto cadere una mela almeno un miliardo di volte, prima di afferrarla come da copione, e poi un’altra, in una serra dove faceva un caldo infernale e dove, per giunta, l’avevano obbligato a tenere addosso il cappotto. Era scoppiato dal caldo, merito dei tre quintali di trucco immacolato sul viso se non era apparso il suo rossore, almeno serviva a qualcosa quella dannata tortura.
Si passò una mano sulla faccia con una smorfia affranta, e la lasciò ricadere sulle coperte.
Era ora di cena. E non aveva fame. Lui che non smetteva mai di mangiare.
Aveva una strana stretta alla bocca dello stomaco, che gli attorcigliava la pancia e gli dava il nervoso. Erano giorni che l’aveva, ad essere sinceri, ma era più facile ammetterlo dopo un po’, per sminuire la debolezza, piuttosto che crollare ad ammettere la verità in pochi attimi.
Con un’occhiata al soffitto pensò a suo padre, con il suo cipiglio severo, che gli diceva “Non ammettere le cose come stanno, figliolo, complica solo le cose. Cosa ti ho insegnato, diamine?!”
Abbozzò ad un sorriso, per poi lasciarlo sparire al ricordo di cosa effettivamente lo rattristava.
Aveva chiamato Tom, il giorno prima, per la solita chiacchierata… e l’aveva trovato spento, cupo, privo della solita allegria. Aveva spostato l’orecchio dal telefono ed aveva controllato il numero sullo schermo per essere sicuro di parlare con il vero Sturridge.
“Non ho niente. Perché, che ho che non va?” aveva chiesto.
“Sei… diverso”.
“Non è vero”.
“Non hai ancora detto una parolaccia…”
“Sto mangiando, Robert”.
“Certo. Dovevo… immaginarlo” aveva annuito a capo chino lui. “Scusami”.
Non era vero. E lo sapeva. Lo sapeva lui. E lo sapeva Tom. Ma nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso. Anche perché infondo non c’era nulla da ammettere: erano divisi, erano separati e lontani. Punto. Non condividevano le idiozie quotidiane, non si prendevano in giro a vicenda e non chiacchieravano più con la solita tranquillità. C’era sempre il telefono, ovvio, ma non era decisamente la stessa cosa.
Robert pensava che il colpo più duro sarebbe arrivato con la separazione da Charlotte, ma si sbagliava se credeva che sia lui, che Tom, non ne avrebbero risentito. Uno sciocco. Certe cose le speri e ti auguri che non accadano, ma succedono e basta…
Represse un gemito ad un crampo allo stomaco, prima di scattare a sedere come una molla sul letto. Avevano bussato?
Un secondo colpo alla porta gli diede conferma, e lui andò ad aprire.
Un ragazzo abbastanza alto e dal fisico asciutto e longilineo, con una buffa chioma spettinata di capelli biondi, lo guardava allegro muovendo la mano in un cenno di saluto.
“Heilà”.
“Oh… Jackson”.
Il ragazzo alzò un sopracciglio. “Ed immagino che tu sia lieto di vedermi”.
“Altroché” sorrise Robert. Non lo conosceva da troppo, ma era il primo che gli era andato a genio… Riservatezza e carattere brillante allo stesso tempo, un carisma ed uno sguardo che diceva molto di più che non un intero discorso da cerimonia.
“Non ti ho visto a cena. Tutto bene?”
“Oh si… io… ero un po’ stanco” fece un cenno evasivo Robert.
“Certo, capisco”.
Jackson inclinò la testa di lato con un accenno di sorriso. L’altro, ancora in cima alle scalette con l’aria impacciata, scrollò le spalle, “V-vuoi entrare? Non so…”
“No, ero solo passato a vedere come stavi”.
“D’accordo”.
“Anche Ash era preoccupata”.
“Mi dispiace” arrossì Robert.
“Nah, ci vediamo già fin troppo sul set, che dici?”
Si guardarono entrambi un momento, e poi ridacchiarono sollevati. Erano alle prime armi: di giorno attivi sul set, fra un corsa e un dialogo recitato; la vita reale era diversa, ad un passo dalla scena cinematografica, ma nettamente più rigida… occorreva una certa dose di buona volontà e coraggio per abbattere l’imbarazzo.
“Si… credo di si”.
Jack sorrise. “Domani sera però usciamo a bere qualcosa. Sei dei nostri?”
“Oh certo, si, volentieri” annuì il ragazzo.
“Kellan ha dato un’occhiata nei dintorni oggi, sai… aveva la giornata libera. Dice che c’è un localino niente male, piccolo, ma con buona musica. Immagino sia meglio che restare rinchiusi nella serra per due ore”.
“Oddio… la serra” si batté una mano sulla faccia Robert. “Dio, non me lo ricordare”.
“Ashley mi ha quasi portato via di peso, per colpa del caldo: per essere un vampiro che sopporta ogni cosa, non sono stato molto convincente. Salvato da una donna per giunta” ridacchiò.
Rob fece una smorfia divertita e si passò una mano fra i capelli.
“Beh, allora buona notte. Ci si vede domani mattina” lo salutò Jackson.
“Si, certo. A domani” fece un cenno lui. E l’altro fece due passi indietro prima di incamminarsi sul selciato e sparire dietro l’angolo.
La porta della roulotte si chiuse; Robert si spogliò con lentezza e assenza; si diede una lavata e, infilata una vecchia maglia di Tom, spense la luce e si cacciò a dormire, pensando che forse sarebbe dovuto andare a cena, allontanare i cattivi pensieri e considerare che in quel posto doveva restarci ancora per parecchio tempo.

Il mattino dopo, così come i seguenti, Rob si svegliò con lo spiraglio di luce tenue che passava attraverso le tende e il suono snervante della sveglia, accanto al letto. Si rigirava sul materasso mugolando e sbuffando, affondando il viso nel cuscino. Le sveglia continuava a suonare, ma lui litigava con le coperte, ancora vagante nel mondo dei sogni, con una frase mormorata inconsapevolmente sulle labbra, “Piccola, spegni la sveglia”.  Abbracciava il cuscino e lo stringeva forte, socchiudendo gli occhi ed inspirando un profumo che ricordava nei sogni, fin quando… piano piano si rendeva conto di accarezzare un pezzo di stoffa impregnato del proprio odore e di fumo. Tirava allora una manata addosso alla sveglia, e con un sospiro sconfitto fissava il soffitto ripetendosi quanto fosse stupido ed illuso.
Quello che accadeva poi, stava diventando la sua routine e, per quanto all’inizio fosse difficile, cominciava ad abituarsi. Pensò che se si trovava lì, con un oceano di distanza da casa, era solo per una propria scelta, una svolta a cui lui stesso aveva dato diritto di vita… cosa costava, dunque, vedere il lato positivo nascosto fra le righe e affrontarlo a pieno petto? Beh, dovette ammetterlo, gli costava parecchio.
Lui era una persona fondamentalmente socievole e, per certi versi, maledettamente imbranata e fiduciosa, tanto che, spesso, gli amici lo riprendevano dicendogli che avrebbe dovuto passare più tempo con la bocca chiusa, piuttosto che finire con qualche delusione in più alle spalle.
Ma era più forte di lui. Parlava e riversava tutto quello che la sua mente gli proponeva, condivideva e poneva sul palmo della mano le proprie idee e punti di vista, quasi a dimostrazione che lui si fidava, che lui metteva a nudo i propri pensieri, senza vergogna. Cosa c’era in fondo da nascondere? Per come la vedeva lui, era più semplice mettere le carte in tavola subito, piuttosto che rincorrersi una vita per una briciola di conoscenza. E forse era anche per quello che si ritrovava con elementi come Tom alle calcagna: gente con un’insana vena di follia in corpo, ma che di vendersi per una maschera di finzione costruita con arte nemmeno a parlarne. “… pochi ma buoni”, si diceva, e lui ci credeva.
Dove stava quindi il problema?
Beh… il problema stava in tutto. O forse niente, pensò. Fosse stato per lui, avrebbe elargito consigli e riflessioni filosofiche da mane a sera a tutti i presenti, sarebbe rimasto in piedi fino a notte tardi per discutere anche delle cose più inutili e sciocche, avrebbe raccontato ciò che più lo spaventava e lo rallegrava, senza riserve, con l’innocenza di un bambino… Ma poteva permetterselo?
Facce nuove e occhi bassi o fissi in punti vuoti gli scorrevano davanti, giorno e notte, come fotografie strappate da un album a colori forti e spenti. Era come tuffarsi di colpo in un mare in cui l’acqua sa di sale e zucchero, in cui le onde sono blu e gialle, in cui la corrente tira a destra e a sinistra… In poche parole, il mondo. Pensava che nel suo piccolo circolo londinese avesse potuto assaggiare una buona fetta di vita, e forse così era, ma il ritrovarsi davanti un’esperienza tale gli fece comprendere che, per quanto credi di aver dato tanto alla tua esistenza, lei ti stupisce sempre, ogni giorno che passa.
E Robert era stupito. Sorpreso. Dal silenzio ponderato e gli occhi profondi di Jackson, dalla risata chiassosa di Kellan, dalla dolcezza non troppo ingenua di Ashley, dalla schiettezza di Nikki e dalla riservatezza ossessiva di Kristen. Era stupito e disarmato da quello che ciascuno di loro proponeva e richiedeva. Era stupito e pensieroso di fronte a quello che riteneva giusto concedere loro riguardo se stesso. E non perché fosse colpito da una sindrome di egoismo, ma perché… aveva paura.
Gli ci vollero due settimane per capirlo. Per ammettere che la sua era paura, mista ad insicurezza e precauzione. Era come confrontarsi per la prima volta con un alieno, piombato dal cielo, e che gli diceva con un sorriso “Ciao! Sei circondato di estranei e ciascuno di loro può mentirti e prenderti in giro, può dirti la verità e fidarsi. Non ci sono margini di errore, e l’evidenza superficiale non basta. L’ingenuità non ti salverà, ma ti condannerà. Buon divertimento!”.
Si sentiva insicuro, perplesso e stracciato. L’istinto gli diceva di giocare se stesso in tutto e per tutto, era ciò che gli avevano insegnato, che senso aveva fare il contrario? Ma quella vocina, nascosta Dio sa dove, gli ripeteva di frenare, di rinchiudere la maggior parte della propria allegria e rilasciarla un poco alla volta, come una stella che aumenta la sua intensità man mano che cala la sera.
Non si era mai fermato a riflettere sul fatto che sarebbe potuto accadere. O meglio, lui e Tom l’avevano considerato, ma lungi dal ritrovarsi in mezzo e, come da manuale, non sapere cosa fare.
Rideva spesso, quando era da solo, dicendosi che era un idiota. Fatto e finito. Chi si sarebbe mai fatto problemi su una questione così banale come interagire con un gruppo nuovo di amici? Già… ma lui era Robert. Ed era un maestro in paranoie, non si aspettava di cambiare in pochi giorni, solo perché il sole americano gli tingeva il panorama con colori più attraenti, giusto?
E così i giorni passavano, Dicembre sfumò in Gennaio… e Robert passava le sue giornate fra battute celate sotto l’aspetto di un vampiro adolescente con il cuore colmo del più grande sentimento del mondo, e l’indecisione di non reprimere se stesso dietro una cortina di finzione e freddezza, ereditata da un’insicurezza che non si aspettava di avere e con la quale non riusciva a dialogare.


***


Era una mattina a fine mese, fredda e ghiacciata, con il sole coperto di nuvole, quando il cellulare squillò nella borsa di scuola.
Charlotte salutava i compagni di classe e si avviava lungo il corridoio che portava all’uscita con passo trascinato. Aveva due profonde occhiaie segnate, come se il trucco fosse colato in una macchia bizzarra; i capelli erano spettinati e scomposti, e lo sguardo assente. Robert non chiamava da una settimana, e lei non aveva dormito.
Stava giusto schivando un ragazzo in corsa, nemmeno fosse un centometrista impazzito, quando si accorse della suoneria che proveniva dalla tasca dello zaino. Non si fermò nemmeno a pensare chi potesse essere, strattonò la cerniera e rispose senza respirare.
“Sono io, ciao”.
La ragazza deglutì e sorrise chiudendo gli occhi.
“Ciao…”
Robert sospirò dall’altro capo del telefono e si torturò i capelli. “So che… s-sarai arrabbiata. È un pezzo che non mi faccio sentire, ma… ecco io… ero in una zona dove il cellulare ha deciso di abbandonarmi e il lavoro mi ha letteralmente schiavizzato. Scusami”.
“Non sono arrabbiata!” saltò come una molla lei. Forse lo era, ma sentirlo cancellava ogni precedente sensazione.
“Oh… d’accordo. Meglio così allora” ridacchiò più sollevato. “Sei a scuola?”
“Sto uscendo. È saltata l’ultima lezione… professore assente” fece spallucce lei.
“La solita fortuna. Che fai ora?”
“Beh, penso che… andrò a casa e - ”, ma non riuscì a finire la frase perché un bolide la colpì in pieno, facendola gridare, avvinghiandosi al suo braccio come una cozza.
“Ciao splendore!”
Charlotte chiuse gli occhi inspirando a fondo, mentre stringeva con forza il cellulare nella mano.
“Cos’è stato? Sei caduta?” chiese allarmato Robert.
“No… n-non è niente” bofonchiò la ragazza. Ed aggiunse con un grugnito rivolto alla persona accanto a lei, “Ciao Nia”.
“Con chi parli? È il disertore? Oh bell’amico, è una settimana che è scomparso” gracchiò dispettosa la bionda, prima di allungarsi verso il telefono ed urlare un forte “Ciaooo!”
Un gemito arrivò dall’altro capo e Robert impiegò qualche minuto a rispondere. “Ho perso l’udito”.
“Nia che vuoi?” chiese irritata la mora, fulminando la ragazza con uno sguardo omicida.
“Oh, stare un po’ con te, dolcezza. Perché?” rispose lei sfarfallando gli occhioni.
“Abbiamo già condiviso cinque ore… non è sufficiente?”
“Uhmm… no. Anche perché ho una notizia strepitosa da dare” trillò, stritolandole il braccio.
“E chissà perché, ho paura”.
“Ma chi è?” chiese impaurito Robert.
“Nessuno” rispose Charlotte scrollandosi Nia dal braccio senza riuscirci.
“Oh bell’ingrata, tesoro! Ma soprassiederò la tua insolenza e ti dirò che…” disse avvicinando il proprio viso allegro a quello dell’amica, la quale si ritrasse spaventata, “… siamo invitate ad una festa!”
Charlotte la fissò ad occhi sgranati e chiese se la cosa doveva avere rilevanza per lei.
“Certo che si, sciocchina, perché non dovrebbe!” le aveva tirato una guancia Nia, ignorando l’urlo di dolore. “Ma stavolta devi ringraziare la fata Turchina, lì al telefono, è merito suo”.
La ragazza fissò prima la bionda e poi il cellulare, senza riuscire a comprendere. Festa? Che festa? Anche se ci fosse stata, era oltremare, forse, e Nia si aspettava che prendesse un aereo solo per una dannata festa?
“Rob…”
“A prescindere da chi tu abbia in parte, metti una debita distanza tra me e lei, per favore” gemette il ragazzo. “Comunque ho sentito quello che ha detto, non che mi sia risultato difficile. Stavo chiamandoti apposta per dirtelo”.
“Per dirmi che cosa?”
“Sono stato invitato ad una festa, domani, lì a Londra. Niente di sconvolgente, è più un raduno di giovani attori emergenti e qualche figlio di papà annoiato. Ci andrei, se potessi… ma è ovvio che no” rise. Tacque un attimo poi riprese, come se stesse pensando a qualcosa, “Ho girato l’invito a Tom”.
Charlotte spostò lo sguardo su Nia, ancora avvinghiata al suo braccio e con gli occhioni blu accesi. “E tu come fai a saperlo?”, le chiese.
“Della festa? Oh, mi ha chiamato Tom, no?”
“Pensavo che chiamasse te, in realtà” aggiunse Robert.
“Beh, come al solito sono l’ultima a sapere le cose” disse lei.
“Tesoro, è irrilevante il messaggero, conta la sostanza: andiamo alla festa”.
“Non usare il plurale, Nia”.
“Come sarebbe a dire?”
“Non vuoi andare?” domandò Robert. Non che si aspettasse una risposta diversa.
“Perché dovrei? Non sono ne attrice, ne figlia di papà annoiata. Se Tom vuole andare, non sarò io ad impedirglielo” rispose secca lei.
Robert sospirò, mentre Nia corrugò la fronte. “Che razza di risposta, tesoro”.
“F-forse stare sempre in casa… Forse dovresti uscire, un po’. Alla fine è solo una festa” azzardò il ragazzo con tono improvvisamente stanco.
Charlotte continuò a camminare. Sorpassò il cancello della scuola, raggiunse il marciapiede e attraversò la strada, diretta alla fermata dell’autobus, sempre con l’amica cucita al braccio.
Aveva la mente annebbiata. La notizia l’aveva colpita in pieno come un treno merci. E, a suo avviso, aveva almeno due motivi per rifiutare: il primo era passare una serata possibilmente piacevole in compagnia di Tom e Nia sapendo che con loro avrebbe dovuto esserci Robert, era lui l’invitato… e il secondo, non meno rilevante, era la brutta esperienza di Natale che alle volte le tornava ancora alla mente. Certo, sapeva che c’erano scarse probabilità che un cosiddetto “figlio di papà” le tirasse una bottiglia in testa, ma la paura e la diffidenza restava, infilata sotto la pelle, mescolata al sangue e impressa nel petto. Si sentiva stupida e codarda, cominciava a riconoscerlo, dannazione, lo sapeva… ma non riusciva a cacciare fuori la forza di volontà.
“No” disse, fermandosi.
Robert non disse nulla, e lei si chiese se avesse sentito. Nia, in parte a lei, alzò gli occhi al cielo, e borbottò qualcosa.
“Cosa?” chiese Charlotte.
“Tanto valeva che non te lo dicessi: era meglio rapirti e imbavagliarti”.
“Oh, si, certo, ho visto l’ottimo risultato l’ultima volta, già”.
E quella fu una delle poche volte in cui Charlotte vide la rabbia cieca mescolarsi negli occhi della ragazza bionda. L’azzurro s’incupì, come inghiottito da una macchia di colore buio. Nia mollò istintivamente il braccio dell’amica.
“Naturalmente. È stata colpa mia. L’ho programmato a dovere. È stato delizioso”.
Charlotte si morse la lingua e sentì il sapore del sangue in bocca. Stupida, la solita stupida.
“N-no… non intendevo quello… non è stata colpa tua” biascicò impallidendo.
Nia la fissava con aria truce, e non disse nulla.
“Non serve a niente prendertela con la tua amica” disse d’improvviso Robert, tanto che la mora sussultò sentendo la sua voce. “Non è colpa di nessuno, lo sai. È soltanto… Dio, è soltanto una stupida festa, Charlotte, per favore. Se non vuoi andare, non andarci, ma non… non fare così, ti prego”.
E se avesse potuto, lei si sarebbe morsa la lingua un’altra volta. Succedeva sempre così, parlava dando libero sfogo alla propria frustrazione e paura, come un fiume in piena, senza che si curasse di arginarlo in tempo per impedire di ferire chi le stava attorno. Non che fosse sua intenzione offendere Nia o addossarle la colpa, ovvio.
“Scusa…” disse, chinando il capo con aria abbattuta.
“Devo andare ora. Sono le cinque del mattino, qui, e i ragazzi hanno appena finito di fare casino… sono stanco. Domani ho la giornata piena” disse lui, la voce stanca e tirata. “Ci sentiamo appena ho un minuto libero”.
“Rob io… mi disp - ”
“Fai quello che ritieni giusto. Io non posso obbligarti in nulla”.
Nessun saluto, nessuna promessa. Robert interruppe la chiamata, lasciando che il silenzio inondasse la mente della ragazza, rimasta immobile e con il cellulare ancora incollato all’orecchio. Le ci volle un po’ prima di abbassarlo e rimetterlo nella tasca dello zaino.
Fantastico. Non una, ma due persone era riuscita a ferire nell’arco di pochi secondi. Doveva ammetterlo, stava diventando una maestra.
Si girò con lentezza verso Nia, e sobbalzò nel vedere che non aveva abbandonato il suo sguardo carico di ferocia.
“Mi dispiace”.
“No, non è vero”.
“Si. Si, dico sul serio”.
“No. Perché se lo fosse, avresti avuto la decenza di pensare prima di parlare” alzò la voce l’altra. “Dico, credi che mi diverta? Pensi che sia stato uno sballo vedere pezzi di bottiglia volare come riso ad un matrimonio, e vedere poi te e quell’altro salame di Tom bucherellati in faccia come gruviera? Non ne abbiamo mai parlato, perché pensavo che, ormai, la cosa fosse assodata… Evidentemente mi sbagliavo”.
“Non ti sto dando la colpa!”
“Non a parole, ma lo pensi”.
“No! Io non… non…” ma non finì, girando su se stessa e mollando un calcio al palo della fermata dell’autobus, mettendosi le mani nei capelli. Ingoiò il groppo in gola e voltandosi di colpo verso Nia, disse “Mi dispiace!”
Lei la guardò, specchiandosi nei suoi grandi occhi scuri, velati di tangibile desolazione. Riusciva a palpare il conflitto e la paura che la animavano da dentro, come se fossero stati i suoi secondi vestiti. L’avrebbe abbracciata, avrebbe colmato la distanza che le separava e l’avrebbe stretta a se, se non fosse stato che, così facendo, Charlotte non avrebbe mai imparato a frenare la lingua, e che lei aveva ancora l’orgoglio ferito.
Si sentiva responsabile, era vero, lo aveva sempre pensato. Ma sentirselo dire a bruciapelo e con astio dalla migliore amica, era una cosa che non si era aspettata.
“Mi dispiace…” ripeté la mora con gli occhi lucidi.
Nia corrugò la fronte e scacciò una ciocca di capelli dalla fronte. “E vabene” sbuffò, “Vabene”.
“Non penso che sia colpa tua, non l’ho mai pensato. E so che è solo une festa” disse sventolando una mano, “Ma per me… per me è tutto dannatamente uguale”.
“Beh, non lo è. Niente è mai uguale”.
“Per me lo è”.
“Dovrai abituarti all’idea che non lo è, tesorino” pestò un piede Nia. “E ora, ascolta per bene: io voglio andare a quella maledetta festa, e tu vieni. Voglio ballare, voglio bere e voglio vedere il luccichio degli occhi dei maschi sopra il mio vestito. Voglio godermela, chiaro? E tu sarai esattamente dove sarò io, non resti a casa”.
“Ma…”
“Non ho intenzione di ripeterlo!” strillò, attirando l’attenzione dei passanti. Le si avvicinò di qualche passò e le puntò un dito sul naso. “Osa solo opporti, e giuro che ti ci porto in biancheria intima. E non è detto che sia la tua, casta e da bambina innocente”.
Charlotte strabuzzò gli occhi. No, non stava scherzando. Nia non scherzava mai.
E così, reprimendo un gemito di sconfitta, annuì all’amica e si preparò mentalmente all’imminente festa del giorno dopo.









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Spazio sproloqui:

Oddio la minaccia di Nia alla fine O.°
Giuro che me la sono immaginata a maxi schermo e ho allontanato il computer da me con aria terrificata! *e la cosa… è grave*
Ma bando alle ciance.......
È un capitolo che segna un po’ l’inizio dell’avventura vera e propria, ho gettato le basi, e improntato un po’ i personaggi su strade diverse, vediamo che ne viene fuori! xD
L’idea della festa la stavo macchinando da un pezzo, e ho almeno un paio di personcine da piazzarci, tra cui una che… resterà con noi un pochino, immagino *-*

Passando ai ringraziamenti:
_Miss_ : oddio no! come sta l’occhio??!! O__O Le zanzare sono delle creature inutili e barbare, sanguisughe zannute e assassineee!! Te lo dicono la mia coscia e il mio polpaccio che sono crivellati di bozzi bordeaux ç_ç … Parlando seriamente: uhmmm… no. Non poteva dirle “ti amo” anche se sarebbe stato maledettamente romantico. Dirlo avrebbe comportato uno sconvolgimento trooooppo grande per lei e per lui, e mi andava troppo avanti con la storia, ma non vuol dire che non glielo dica eh! ;) Sono io a ringraziare te, per il sostegno costante che mi dai! Sei sempre gentilissima, e spero che anche questo chap ti sia piaciuto… è abbastanza Rob-riflessivo, spero non annoi! baci :3
Ello: Oh, ciao! xD Woh, ti ringrazio, mi fai troppo felice, credimi! *va in brodo di giuggiole* Cerco di dare a ciascuno il proprio spazio, di renderli il più umani possibile, anche se porta ad odiarli, o a delle contraddizioni… noi ci contraddiciamo spesso xD Sono contenta che il capitolo passato ti sia piaciuto e spero che anche questo faccia centro! Un bacione :)

Grazie anche a tutti quelli che leggono e a chi l’ha aggiunta ai preferiti!
Un bacione, dolce notte a tutti e alla prossima,


beth

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Capitolo 13
*** 12. nuovo ***


Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 12° capitolo – Nuovo
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: hei hei heiiiii!!! Eccomiii!! Oddio, scusatemi, scusate scusate scusate scusate!! Lo so, è un secolo che non aggiorno, ma vi giuro, non avete idea de casino di robe da fare @_@ una volta iniziata, l’università mi ha letteralmente schiavizzato… povera me, avrei potuto piantare una tenda col sacco a pelo in aula e restare lì T_T  Coooomunque, non zinzaniamo in quisquiglie, vi lascio al chap che, vi anticipo, è bello lunghetto per farmi perdonare u.u Ci si vede dopooo! ;)















12
“Nuovo”








“E… taglia!”
La telecamera si abbassò, tagliando la scena. Robert distolse lo sguardo da Kristen e scoppiò a ridere, facendo un passo indietro. La ragazza scosse la testa sbuffando divertita.
“Perfetta! Era splendida ragazzi! Ancora una volta e poi siamo a posto!”
Robert si appoggiò al bus giallo nascondendo la faccia fra le mani. Non riusciva a smettere di ridere, era rosso acceso in volto e la sua voce arrivava stridula e gracchiante.
“Robert!” lo canzonò Kristen.
“O-ddio…” sputacchiò lui. “Quello ades-so scende dal pullman e mi piglia a schiaff…” cercò di dire prima di essere interrotto di nuovo da una seconda risata rumorosa.
“Oh si, davvero divertente: chiunque riderebbe come un dannato all’idea di farsi raddrizzare la faccia, Pattinson” gli diede un pugnetto sulla spalla lei.
Robert inspirò e cercherò di calmarsi. Avevano appena finito di girare una scena, conseguente a quella della famosa serra, dove il vampiro Edward Cullen consigliava caldamente a Bella di tenersi lontana da lui: una sorta di minaccia velata, per così dire, ma che, a quanto pare avrebbe aggiunto un alone di mistero in più sulla piccola love story che stava nascendo… “Devi mostrarti deciso e freddo, distaccato. Sfoggia il tuo sguardo intimidatore, ragazzo, devi farmi tremare dietro la telecamera!” gli aveva detto la regista, Catherine, dandogli un pizzicotto sulla guancia.
Sguardo intimidatore? Lui? Era rimasto a fissarla per un paio di buoni minuti chiedendosi se per caso si fosse davvero resa conto con che persona avesse a che fare: poteva chiedergli di comporre poesie e improvvisare per un’ora di seguito cascate di note al pianoforte… poteva implorarlo di sedersi sotto casa Swan e mugolare serenate al chiaro di luna a Kristen, ma atteggiarsi da bruto… beh, dannazione quella era roba per il resto del cast maschile! Anche impegnandosi, non ce l’avrebbe mai fatta, e la cosa poteva suonare ridicola, lo sapeva.
“Hei?”. Kristen gli sventolò una mano davanti alla faccia.
“Uhm?” mugugnò lui, riprendendosi dalle fila dei suoi pensieri. “Cosa?”
“L’hai fatto di nuovo”.
Robert corrugò la fronte in una domanda silenziosa. Fatto cosa?
“Bolla” sorrise lei con un sopracciglio alzato. “Ti sei rinchiuso un’altra volta nella tua bolla. La faccia da pensatore tormentato ne è la prova… ti stai calando troppo nella parte”.
“Pensare fa bene” fece spallucce lui.
“E a che pensavi?”
Il ragazzo si strofinò un occhio, maledicendo mentalmente le lenti a contatto, per poi appoggiare la testa al bus giallo.
Pensare. Ultimamente non faceva altro. Pensare…
Strinse le labbra e puntò lo sguardo sulle nuvole grigie e gonfie, sembravano batuffoli di cotone imbevuti di pittura cupa, quasi che qualcuno si fosse divertito a lanciarle nel cielo dopo averle affogate in secchielli di vernice… Assomigliava al cielo di Londra, ad essere sinceri. La stessa umidità, la stessa luce offuscata, lo stesso vento che scuoteva le fronde degli alberi, sembrava quasi di essere a casa. Ma lui lo sapeva che per quanto nell’aspetto potesse ricordarglielo, il cielo che vedeva ogni giorno fuori della finestra di casa aveva una malinconia propria, rifletteva storie diverse. Poteva sembrare un pensiero patriottico e carico di pregiudizio, forse, ma in fondo, si disse, quando si rivolge verso l’alto la maggior parte dei propri sogni, delle proprie preghiere, desideri e pianti, alla fine si impara a riconoscere a pelle il mondo che scorre sopra la propria testa. E quello non era il cielo di Londra. Quella non era casa.
Si grattò la fronte e gli venne in mente la domanda di Kristen. “A cosa pensi?”
Pensare. Dio, ultimamente non faceva altro. Si bloccava, in continuazione, ogni pretesto era buono per soffermarsi anche sulla più piccola cosa e lasciare che la mente galoppasse a briglia sciolta seguendo strade confuse e infinite.
Si alzava pensando. Lavorava pensando. Mangiava pensando. Si lavava pensando. E poteva giurare di continuare a pensare anche mentre dormiva. E la cantilena riprendeva ogni nuovo giorno.
Si metteva in coda per la colazione, al mattino, e si soffermava sui riflessi che il cucchiaio mandava con la luce dei neon, per poi passare alla tazza bianca che riempiva con i cereali e il latte, e domandandosi se avesse dimenticato qualcosa, quando ripeteva quella stupida azione da ormai un mucchio di giorni, avendola imparata a memoria. Mangiava fissando il tavolo, come se d’improvviso fare colazione avesse perso d’importanza, e chiedendosi quali costumi avrebbe dovuto indossare prima di andare sul set, di che colore sarebbe stata la camicia, di che taglio sarebbero stati i pantaloni, lui… che dei vestiti non gli era mai importato granché, se non che fossero caldi e comodi. E quando arrivava in camerino, con la sua andatura ciondolante e gli occhi azzurro mare fissi sulla punta delle scarpe, ecco che si perdeva nuovamente interrogandosi sulla vita fittizia che avrebbe dovuto adottare per il resto della giornata; pensava a quanto Edward gli assomigliasse, o meglio… a quanto poco gli assomigliasse. Una seconda pelle che gli si incollava addosso, che scendeva sul collo, sulla schiena, sulle braccia, sullo stomaco e sulle gambe, un’armatura pesante quintali, che esteriormente altro non erano che una t-shirt, una giacca ed un paio di jeans. Eppure lui la differenza la sentiva.
Un vampiro nato da carta e inchiostro, ma che si stava rivelando un rompi capo più arduo del previsto perché, per quanto gli piacesse ammetterlo, lo stava mettendo a confronto con un qualcosa che aveva deciso di non affrontare. Non ancora. Ed ogni mattino lui era lì. Edward era lì che lo attendeva, diviso sugli appendini del camerino, ma che si rimodellava non appena Robert lo lasciava scivolare sopra di se.
Trucco e vestiti, lenti a contatto e gel nei capelli. Un personaggio. Un fantasma. Ma era una fantasma che scavava sempre di più nella sua testa, che gli graffiava sotto la pelle della nuca e lo strattonava per le spalle facendogli rivolgere gli occhi al cielo, e chiedere “Stai facendo la cosa giusta?”. Non era romanticismo, non era coraggio, non era altruismo, era un confronto con se stesso. Lo metteva con il viso al muro ogni giorno, e ad ogni ora, facendogli crescere nel petto un’ansia che non credeva di aver mai provato; non riusciva più a vivere al momento, gustando un’esistenza tranquilla, ma perdendosi nell’affanno di quello che ancora doveva venire… perché aveva paura. Si sentiva come una casa senza fondamenta, senza supporto, consapevole che i muri prima o dopo sarebbero crollati al suolo, riflettendo sul disastro in arrivo, ma incapace di progettare una soluzione.
Edward Cullen, e tutto quello che ne derivava, era ormai il suo flagello. Perché per riuscire a cucirselo indosso e manovrarlo secondo i propri voleri, doveva accettare prima di convivere con se stesso… e ancora non c’era riuscito. E la personalità vuota e fittizia di Edward aveva la meglio, facendolo perdere.
“È  solo un personaggio” mormorò, guardando il suolo.
“Come?” chiese Kristen.
Robert scrollò la testa ed alzò lo sguardo azzurro mare su di lei. Una nota grave in un’atmosfera allegra.
“Niente”.
“Hai detto qualcosa” annuì lei.
“Riflettevo a voce alta” sorrise lui, per sviare la sua attenzione. “Quante volte pensi che ci farà rifare la scena?”
“Forse una volta soltanto, oggi è parecchio su di giri… è probabile che ci faccia staccare prima”.
Lui annuì scostando un sassolino con la punta della scarpa, mentre la voce di Catherine giungeva da dietro la telecamera gridando di rimettersi in posizione e ripetere la scena.
Robert si scostò dal bus di malavoglia e seguì Kristen all’entrata della serra, da dove avrebbero ripreso a recitare il copione. Attesero l’eco del “Si gira!” nell’aria, e il ragazzo guardò la giovane calarsi nei panni di Bella Swan ancora una volta… la osservò camminare impacciata, i capelli lunghi castano cioccolato che le ricadevano sulle spalle, la corporatura minuta… il collo incassato nelle spalle, quasi si aspettasse un peso enorme pioverle addosso dal cielo. Timore. Diffidenza.
Assottigliò gli occhi chiari e, senza rendersene conto, lasciò che ai capelli di Kristen e alla sua andatura si sostituissero un’altra chioma folta color cioccolato ed un altro incedere del passo. Un altro sguardo e un altro sorriso.
Robert deglutì e gli ci vollero due minuti abbondanti prima di riuscire a sentire la regista sbraitare dall’altra parte del parcheggio, notare Kristen che gli andava incontro battendo le mani per attirare la sua attenzione, e qualcuno della troupe che gli batteva sulla spalla con insistenza.
“Che c’è?” chiese confuso.
“Hei! Scoppia la tua bolla, Rob, e prestaci Cullen ancora per un paio di minuti” lo richiamò Kristen con espressione perplessa. “Tutto a posto? Ti senti bene?”
“Si, perché?” rispose lui facendo un cenno a Cat che aveva recepito il messaggio. Ora era lucido.
“Sei un po’… pallido” rispose la ragazza. “Nel senso… sei davvero bianco, trucco a parte”.
“Meglio, allora, no? È più realistico” fu tutto quello che riuscì a rispondere.
Ripeterono la scena da capo, per una volta soltanto, ed infine Catherine diede il segnale di fine riprese della giornata e spedì tutti a fare una doccia e riempirsi la pancia a cena.
E come da manuale, Robert andò nella sua roulotte, pensando ai vestiti puliti che avrebbe indossato, ora che si era scollato Edward di dosso, al bruciore immaginario che sentiva sulla pelle del collo e delle spalle. Entrò nella sua piccola abitazione e, lavandosi, pensò a cosa avrebbe mangiato per cena, così come quando arrivò a cena, cominciò ad interrogarsi su cosa avrebbe fatto appena avrebbe finito di mangiare… Sempre un passo più avanti del momento vissuto, sempre in corsa su un binario in discesa, come se il presente fosse stato troppo fragile e il futuro prossimo avesse rappresentato una base a cui aggrapparsi.
“Amico, sei sicuro di sentirti bene?”
Kellan gli batté una mano sulla schiena e Robert sputò un pezzo di pane nel piatto rischiando di soffocare.
“Di sicuro ora ha rischiato di andare al creatore, Kell” sghignazzò Jack, dall’altra parte del tavolo.
“Non hai una bella cera, Rob” disse convinto il ragazzone.
Robert gli rivolse uno sguardo bieco e si schiarì la voce riprendendo a respirare normalmente.
“Forse dovresti chiedere un giorno di riposo” disse Jack. “Catherine è abbastanza concessiva”.
“Sto bene, sono solo un po’ stanco”.
“Hai una brutta cera, Rob…” ripeté Kellan.
“L’hai già detto, mi sembra, no?” gracchiò infastidito Robert. Si portò una mano alla fronte.
“Ok. Hai un aspetto da far schifo” mimò il concetto allora l’altro. “Così è più chiaro?”
“Tatto da pachiderma, Kell, una perla rara” disse Jack, alzando un sopracciglio e complimentandosi con l’amico.
“Ma almeno ora ha capito” sorrise allegro lui. Si rivolse poi al ragazzo in parte a lui. “Perché hai capito, vero?”
Robert inspirò a fondo e batté le mani sul tavolo. “Vado a letto”.
Si alzò dal panca con uno scatto così veloce che a stento credette di essere già in piedi. Kellan allargò le braccia sorpreso come a dire “Ma che ho detto?”, mentre Jackson gli applaudiva le mani in silenzio con fare da rimprovero.
Robert attraversò la grande sala adibita a mensa, scansando il via vai di gente, gli occhi sempre fissi al pavimento. Metteva un piede dietro l’altro, ma man mano che avanzava verso l’uscita, sentiva il pavimento sprofondare sotto la suola delle scarpe, come se d’improvviso si fosse trovato a camminare sull’acqua, sentendosi risucchiare verso il basso. Scrollò la testa e i suoni arrivarono distorti, confusi, come ringhi e ruggiti, e i colori esplosero in una girandola di luci che gli violentarono gli occhi, prima di scemare sempre più velocemente nel buio.
Sentì le ginocchia scrocchiare e cedere, trascinandolo verso il basso. Agitò le braccia alla ricerca di un appiglio, ma lo spigolo di un tavolo si allontanava da lui nemmeno lo stessero levando di proposito. E poi arrivò: il colpo secco alla spalla e il freddo sul viso, e poi il buio.


***


Charlotte osservava il proprio riflesso allo specchio con espressione indecifrabile. Sbatteva gli occhi ripetutamente, come a capacitarsi che quella fosse la realtà e non una mera illusione frutto di un incubo. Si passò una mano sulla guancia, sfiorandola con la punta delle dita incerte, inarcando le sopracciglia con fare perplesso.
Era sera, e mancava un’ora alle nove. Un’ora alla festa, pensò silenziosamente senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce.
Dopo che Robert aveva interrotto la loro telefonata, la mattina prima, e dopo che Nia l’aveva minacciata delle peggiori torture qual’ora avesse anche solo osato opporsi al partecipare alla festa, Charlotte si era disfatta cervello e mente alla ricerca di un piano, di una via d’uscita per mandare in fumo quella che sembrava dover essere la serata più bella della loro vita, o almeno questo era quello che Nia ripeteva di continuo nelle ultime ventiquattrore…
Una bugia. Una scusa. Un’inutile e banale sciocchezza, ma che andasse a distruggere l’equilibrio di quella giornata che pareva perfetta per conciliare l’uscita serale. Charlotte le aveva pensate proprio tutte: dal fingere una febbre improvvisa o un mal di stomaco fulminante, al far cadere accidentalmente un fiammifero su metà dei proprio vestiti, ed ovviamente il come e il perché erano del tutto casuali, certo… Oppure prendere le forbici e dare un taglio drastico e improponibile ai lunghi capelli castani; mettersi a correre sulle scale, per poi arrivare in cima e fingere uno strillo di dolore per simulare una caviglia slogata. E queste erano solo le scuse di base.
Spostò lo sguardo sulla scollatura del vestito. Mai si sarebbe sognata di indossare quel… quel… beh, quella cosa. Poteva anche essere un modello dell’ultimo grido, ed effettivamente faceva strillare, ma non di certo per l’estasi del bon ton, o almeno non per lei.
Fu una sorta di magia, o miracolo, se il suo impulso di strapparselo di dosso venne stroncato sul nascere dalla porta che sbatteva alle sue spalle. Charlotte sobbalzò e si voltò con l’espressione colpevole.
Nia era di fronte a lei. La guardò a lungo, ed intensamente, con gli occhioni azzurri che risplendevano di una luce strana, insolita. “Non stavi cercando di ridurmi il vestito in un gomitolo di cotone, vero?”
“Uhm… c-che?”
“Metti la mani ben in vista, chérie”.
“Io n- non ho fatto niente”.
“Certo. Naturalmente. Ma preferisco prevenire il male, piuttosto che curarlo” sorrise la bionda, avvicinandosi con passo deciso e piantandosi di fronte all’amica, pugni sui fianchi. Fece scorrere l’attenzione su e giù, lungo la figura della mora, ed infine annuì con fare convinto e soddisfatto. “Perfetto”.
“C-che cosa?”
“Il vestito, Charlotte, il vestito” roteò gli occhi lei.
“È… stretto”.
“Deve essere stretto”.
“… e c-corto”.
“Altrimenti l’avrebbero chiamato pantalone, non credi?”
Charlotte abbassò gli occhi sul proprio petto fasciato in modo evidente e represse un gemito, mordendosi la lingua. Si sentiva nuda, come se non ci fosse stato nemmeno quel leggero vestito rosso a coprirla. Rabbrividendo, si strinse le braccia attorno al busto e strinse le spalle.
Nia piegò la testa di lato e assottigliò gli occhi. “È soltanto un vestito. Non si metterà a morderti nel bel mezzo della festa” disse, probabilmente intuendo il suo timore.
“È che… non sono… a-abituata a metterne di così - ”
“Così appariscenti? Oh, lo so” sorrise l’altra, facendo spallucce. “E forse avrei dovuto aspettare prima di mummificarti in un bocconcino come questo, ma… beh, chi mi dice che riuscirò a stanarti da camera tua un’altra volta? Meglio approfittarne, ora che posso, dato che ho anche la benedizione della Fatina Azzurra oltre mare”.
“Che c’entra adesso Robert?”
“C’entra… c’entra sempre, purtroppo” mormorò triste Nia. Il suo bello sguardo si rabbuiò per un istante, all’idea di come sarebbero potute essere le cose se lui fosse stato lì, in quel momento. Sarebbe riuscito a farla uscire con una parola soltanto? O forse avrebbe sorriso e avrebbe detto che la cosa migliore era farla decidere da sola, dandole così il permesso di nascondersi sotto il letto? Nia allungò una mano verso una ciocca scomposta dell’amica e sorrise. Dannazione. Lei stava facendo il possibile, e le sembrava così assurdo che, per due linee di pensiero del tutto differenti e contrastanti, la sua e quella di Robert, una persona dovesse cadere in una confusione totale, già di per se complicata in partenza. Eppure, entrambi avevano agito per il bene. Erano soltanto ragazzi. Facevano quel che potevano…
“Che cos’hai?” chiese Charlotte vedendola silenziosa, come di rado accadeva.
La bionda le sistemò una ciocca dietro l’orecchio e sorrise triste. “Niente”.
L’altra corrugò la fronte e fece per parlare ma Nia la zittì andando a prendere una scatola scura, tirandone fuori un paio di scarpe a tacco basso, in raso nero. Le scartò e gliele sventolò sotto il naso dicendo “Visto? Niente trampoli! Giusto perché non voglio passare l’intera serata a raccoglierti dal pavimento”.  
Passarono poi al trucco, fra suppliche, spintoni oltre la porta del bagno e lo sguardo feroce di Nia, ed infine, dopo aver raccolto i lunghi capelli castani in piccolo fermaglio, la bionda riuscì a sedersi sul letto sbuffando come una locomotiva.
“Santo cielo: mi costi come due ore di lavori forzati” sbraitò afferrando dei cleanex dal comodino e cacciandoseli sotto le ascelle, “E ti ho messo solo del fondo tinta, nemmeno ti avessi minacciato con una trebbiatrice!”
“Mi dà fastidio! Perché non te lo metti da sola?!”
“E mi toccherà rimettermelo, perché mi è colato da tutte le parti per la fatica che mi hai fatto fare!”
Continuarono a strillare per i seguenti dieci minuti, tanto da non sentire il campanello suonare, Marie Anne chiamare dal piano di sotto e da non accorgersi che, ora, qualcuno restava sulla porta della stanza, a braccia incrociate, e osservava la scena con un sorriso malandrino stampato in faccia.
Fu solo per una piccola pausa dagli strilli che lei due si voltarono verso l’intruso, il quale indietreggiò di un passo e disse “No… perché avete smesso? Era divertente”.
“Che cosa vuoi, Tom?!” sbottò Charlotte, portandosi istintivamente un braccio davanti al petto.
“Il giullare della Fatina Azzurra è arrivato, che onore” ringhiò Nia, gli occhi fiammeggianti.
“Autista, prego… Il ruolo del buffone lo lascio tutto a te, dolcezza, non potrei mai competere” sorrise di rimando Tom, facendo arrabbiare ancora di più Nia.
Il ragazzo si voltò poi verso Charlotte, posandole lo sguardo addosso con dolcezza, per poi dirle “Sei bellissima”.
“G-grazie” arrossì violentemente lei.
“Il vestito l’hai scelto tu?”
“L’ho scelto io, perché?” sbottò Nia.
“Mi era parso…” sorrise di nuovo lui, prima di avviarsi verso le scale. “Sono le nove meno dieci, sarà meglio andare, e vi conviene darvi una mossa, perché non ho intenzione di venirvi a salvare da un eventuale rapitore mentre ve la fate a piedi, perché non vi aspetto più!”
Nia inspirò a fondo, premendo la radice del naso e imprecando mentre cacciava una manciata di cleanex nella borsetta. Diede uno scossone a Charlotte che fissava il cappotto con aria spiritata, glielo cacciò sulle spalle, ed indossato il proprio, seguirono entrambe Tom fuori. Salirono in macchina e si avviarono alla festa tanto discussa.

Arrivarono alle nove e un quarto, in una viuzza poco distante dal centro di Londra, una zona senza dubbio di lusso, a giudicare dalle macchine parcheggiate e dai giardinetti curati a regola d’arte.
Tom parcheggiò in una via parallela, mentre un SUV nero lucido sfrecciava loro accanto diretto alla festa.
“Perché non è venuto un autista a prenderci?” chiese Nia, aprendo la portiera ed uscendo. “Pensavo che fosse inclusa”.
“La mia guida ti turba, zuccherino?” rispose Tom.
“Una volta sono venuti a prendere Robert a casa, per una festa” disse a bassa voce Charlotte, stringendosi nel cappotto.
Tom fece una smorfia, mentre inseriva l’antifurto. Si incamminò, con le ragazze al seguito, e passò un braccio attorno alle spalle di Charlotte. “Si, potevamo avere l’autista, ma… pensavo fosse più divertente andare per conto nostro” disse, abbassando lo sguardo sulla ragazza.
La mora lo guardò sorridendo, prima di appoggiargli il capo sulla spalla e sussurrare “Grazie”.
Pochi minuti dopo erano all’entrata. Doveva essere una delle villette più grandi nei paraggi, e la siepe che circondava la proprietà nascondeva un giardino molto grande e incantevole. C’erano lanterne sistemate lungo tutto il sentiero in pietra grigia e appese agli alberi sparsi, e gettavano una luce aranciata e calda tutt’attorno. Si intravedeva anche il profilo di una piscina, illuminata, non molto distante, probabilmente dove la festa cominciava già ad accendersi.
Un gruppetto li superò avviandosi verso la villa, tra risate e gridolini, mentre un altro SUV si fermava alle loro spalle facendo scendere altra gente.
“Interessante…” mormorò Nia, con lo sguardo sfavillante. Tom ridacchiò. “Bene, andiamo!” aggiunse poi, partendo in quarta sui suoi tacchi dodici.
Erano a metà del vialetto quando lei e il ragazzo si resero conto che Charlotte era rimasta indietro, immobile al cancello e li osservava con aria perplessa. Si fermarono.
“Bimba?” disse Tom, tornando indietro.
“Oddio, e adesso che c’è?” sospirò invece Nia passandosi una mano sulla fronte e pensando che, si, quella sarebbe stata una serata davvero lunga. Raggiunse gli altri due. “Hei, cosa c’è che non va?”
“Niente…”
“Bene! Quindi andiamo” disse sorridendo e prendendole la mano, tirandola. “A meno che tu non voglia entrare dalla finestra, per quanto possa essere originale, la porta è l’unica chance. Coraggio dolcezza”.
“N-non… a-aspetta, Nia… Lasciami!” strillò Charlotte strattonando la presa.
“Nia lasciala, smettila” si intromise Tom. Vedendo poi che la ragazza non mollava il polso della mora, si intromise a sua volta. “Adesso basta!”
“Stammi bene a sentire Thomas Sidney Jerome Sturridge” fiammeggiò la bionda. Ora era arrabbiata. Sul serio. “Eh si, so il tuo nome per intero, non guardarmi come se fossi la sfigata che ha inventato la bomba nucleare, mezzo mondo sa come diamine ti chiami! Apri bene le orecchie perché ho deciso di dare sfogo alla mia ira proprio ora, proprio qui, perciò goditi la cosa fino in fondo: sono mesi che ho umiliato la mia pazienza e sfrattato le mie buone abitudini mondane per darmi al volontariato! Non che non sia stata un’esperienza divertente e istruttiva, oh… il mio karma mi ringrazia ogni santo giorno…” assottigliò gli occhi. “Ma sfacchinare come se mi fossi iscritta a tempo indeterminato al club dei sostenitori della cause perse, sbattere la testa contro il muro perché sarebbe molto più produttivo che continuare a smuovere una persona che ha deciso che è molto più soddisfacente giocare alla damigella in pericolo, beh…  NE HO PIENI I COGLIONI!” strillò facendo sussultare due che passavano sul vialetto. Si girò e puntò un dito contro Charlotte. “Perché ti piaccia o no, lui non è qui. Lui non c’è e non ci sarà fino a quando diamine deciderà di respirare un po’ d’aria. Fattene una ragione! Non c’è la faccia di Robert Pattinson stampata sull’intero globo, il mondo non gira attorno a lui… e tu sei rimasta con i ragazzi cattivi. Io” disse indicandosi, e poi indicò Tom, “E questo povero sfigato che, per quanto spari stronzate, è molto più utile di Mr.Vampiro disperso chissà dove”.
“Nia, adesso bas - ” cercò di interromperla lui.
“ZITTO! Non ho ancora finito” gli mise una mano sulla bocca. “Quindi, Charlotte. O accetti il fatto che, per quanto una persona possa aver passato l’inferno nella sua vita, può anche trovare il modo per risalire, magari sforzandosi di essere anche una persona migliore… per se, e per gli altri, proprio come un qualcosa di ecologico: felice tu, felici noi, felice il mondo. Che cosa credi, brutta egoista? Di essere l’unico essere umano ad aver avuto una tragedia famigliare? Quanti bambini credi ci siano al mondo senza genitori? Uhm? Orfani. Si Charlotte, orfani… devi imparare a dirla quella stramaledetta parola! Perché è quello che sei, e mi dispiace… ma lo sei. Ma a differenza di altri, che superano la cosa, crescono e hanno una famiglia a loro volta, tu fai finta che sia la storia di un altro, e non la tua! Merda, lo vuoi capire, si o no? Perché in caso contrario, lascia che te lo dica, sei la delusione più grande con cui io abbia mai avuto la simpatica fortuna di andare ad impantanarmi…” e lo disse con le lacrime agli occhi, con i grandi occhi azzurri trafitti da una lamina di dolore e disperazione. Il bel viso attraversato da una smorfia di amarezza e rimpianto. “E detto ciò… mi sono divertita abbastanza. La festa è per di là, io me ne vado a casa. Ciao”.
Nia sorpassò Tom. Sorpassò Charlotte. Attraversò il cancello in un ondeggiamento di stoffa e capelli biondi lucenti. Girò l’angolo e sparì nel buio.

Charlotte e Tom rimasero immobili, statue di sale, nel mezzo del vialetto. Almeno tre coppie di invitati gli passarono accanto, chiacchierando e spensierati. Fu quando la musica si levò più alta dalla villa che i due cominciarono a riprendere possesso delle proprie facoltà mentali.
Tom storse la bocca ed inarcò un sopracciglio, fissando le mattonelle.
Charlotte sbatteva gli occhi ripetutamente, mentre cercava di dire qualcosa.
Tom irrigidì il collo e alzò il viso verso il cielo.
Charlotte si morse il labbro e lasciò cadere una lacrima lunga la guancia.
Tom inspirò e, lentamente, portò l’attenzione sulla ragazza di fronte a lui.
Charlotte deglutì e strinse i pugni, ripetendosi che Nia era effettivamente scomparsa.
“I-io…” cercò di dire lei.
Il ragazzo sembrava diverso. Un’espressione mai comparsa sul suo viso, che gli dava un’aria adulta, seria, priva di dolcezza, priva di bonarietà, assente da ogni traccia di ilarità. Gli occhi azzurro chiaro erano immobili e graffiavano come uncini.
“Nia non sarà di certo la prima candidata al concorso internazionale del bon-ton, e detto da me non è un complimento” disse asciutto. “Ma ha semplicemente detto quello che io da mesi non sono riuscito a dire a chiare lettere. E per quanto possa far male sentirtelo ripetere, ha detto la verità”.
Charlotte chiuse gli occhi, mentre le lacrime le si staccavano dalle ciglia come perle argentee, cadendo al suolo. Riusciva quasi a percepirne la loro silenziosa caduta, come un grido agghiacciante che si infrangeva in mille pezzi sulle mattonelle fredde. Riaprì gli occhi scuri e li posò sul ragazzo.
E a sua volta, sul viso le comparve un’espressione fra lo sgomento e la decisione, fra lo stupore e la durezza, fra l’angoscia e la determinazione. Una via di mezzo. Un posto nascosto fra due mondi che continuavano a strattonarla, cercando di conquistarla e portarla con se, come una terra senza bandiera, una terra di battaglie sanguinose, una terra calpestata e in ginocchio e che, prima o poi, avrebbe dovuto scegliere a quale partito dare una chance.
“Verità” ripeté atona.
“Pensi di star facendo molto, di sforzarti. Ma non è così. E se stai per chiedermi con che diritto parlo così, ti rispondo dicendoti che se ti importasse almeno la metà di tutto quello che è stato fatto, probabilmente Robert sarebbe un attore affermato da tempo, io non sarei qui, e tu e Nia sareste alla festa già da un pezzo. E questo solo per quanto riguarda stasera. Ma non occorre che allarghi le tue visuali, penso di essere già abbastanza chiaro, non è vero?”
Charlotte non rispose ed abbassò il capo. Guardò poi le finestre illuminate della casa e pensò alla gente all’interno, sembravano divertirsi.
“Ho perso memoria di come ero un tempo…” disse a bassa voce.
“Hai voluto dimenticarlo. Perché fa troppo male ricordare”.
“È un modo di difendersi, come tanti altri”. Aveva una voce strana, roca e cupa, come un ricordo che, avvinghiato alla gola, altro non aspettava che venire alla luce.
“Difesa contro cosa? Contro chi? Contro di me? Contro Bobby?”
“Ogni cosa…”
Il silenzio scese. Le lacrime avevano smesso di scendere, congelate come cristalli sulle guance arrossate.
“Non ho mai voluto farti del male” mormorò Tom.
“Ogni sentimento, ogni attenzione, ogni cura, ogni… affetto, mi ha ferito. Il vuoto ti riempie il petto per un evento che non hai chiesto, e disperatamente ti affanni per colmarlo perché l’assenza del calore ti fa sentire spoglia, nuda ed insignificante. Ma quando ne hai accumulato tanto da scoppiare, ti rendi conto che… no… non puoi. Perché godere dell’interesse, della protezione e del sostegno di qualcuno se poi, per piani da noi non premeditati, si viene cancellati senza nemmeno avere il tempo di dire addio? Solo una persona tremendamente forte e pazza potrebbe farlo. E io non sono forte. E non sono pazza”.
“Non è vero”.
Charlotte fece scattare gli occhi su di lui. “L’hai detto anche tu. Se lo fossi, le cose sarebbero diverse da un pezzo”.
Tom scosse il capo e le si avvicinò di un passo. Allungò la mano e le sfiorò i capelli.
“Tu sei forte. Lo sei sempre stata” le sorrise. “Sai perché io e Bobby ti prendevamo sempre in giro da piccoli? Perché sapevamo che per quanto ti arrabbiassi, alla fine non ti importava… perché sapevi il fatto tuo, eri già ritagliata nel tuo mondo indistruttibile. E lo sei ancora adesso: sei la persona…” la voce gli tremò e deglutì ricacciando indietro le lacrime. “Sei una delle persone più straordinarie che io abbia mai incontrato. Avresti potuto demolire un grattacielo da piccola con la sola forza dello sguardo, e non oso immaginare cosa potresti fare ora. Quando sorridi è come se la stanza si illuminasse di luce propria. Quando io e Bobby abbiamo un pensiero o un dispiacere, e sentiamo la tua voce… pensiamo che si, alla fine non è poi tutto uno schifo, c’è ancora qualcosa per cui vale la pena lottare. E questo perché siamo uniti, e lo siamo sempre stati: amici, Charlotte. È questo. Soltanto questo. La forza dell’affetto, della devozione e della solidarietà. È per questo che Robert s’è cucito addosso il tuo dolore. L’ha stampato sui muri di casa propria per condividerlo, perché potesse essere di conforto a te! Ha ritagliato la sua vita attorno alla tua, ha scelto di combattere anche oltre un confine che io definirei eccessivo, ma… l’ha fatto lo stesso. E di certo non per diletto personale”. Ormai piangeva, senza preoccuparsene. “Ed è lo stesso che io e quella disgraziata stiamo facendo. Perché quando un amico crolla, noi affondiamo con lui. Quando un amico soffre, noi piangiamo con lui. Quando un amico strilla, noi ascoltiamo. E tu l’hai sempre fatto… tempo fa. Ora era il mio turno. Quello di Bobby e Nia. Ma non… n-non… approfittarne, ti prego. Perché è logorante, è dannatamente distruttivo agire vedendo che quello che sto facendo non serve a niente. Perché io non ho altro! Dio io… io non altro! Non ho altro da darti se non l’aiuto di un povero scemo, e credimi, Nia pensa lo stesso, e Robert pure”. Le passò una mano sul viso, togliendole le lacrime. “Il tempo per piangere è finito. Il sole non è poi così brutto” disse sorridendo.
E Charlotte pianse. Gli gettò le braccia al collo e lo strinse come se avesse potuto scomparire da un momento all’altro. Sentì il suo petto schiacciarsi contro lo sterno e le braccia di Tom serrarsi contro la sua schiena e sollevarla da terra. Pianse. Piangevano. Mormorò “Mi dispiace”. Lo sussurrò così tante volte che era divenuta una filastrocca. Perché in fondo era vero, quando una persona affonda, porta con se ciascun’anima che almeno una volta le ha sorriso e le ha teso la mano. E lei, di affetto, ne aveva ricevuto in quantità immane, solo… doveva imparare ad apprezzarlo di nuovo.
“Mi dispiace, Tom” singhiozzò. “Mi dispiace”.
“Non importa. Va tutto bene” la cullò lui. “Le cose cambieranno, cambiano sempre”.
“Cambiano troppo in fretta”.
“Sono solo schifosi punti di vista, tesoro. Punti di vista”.
“Mi manca, Tom. Mi manca… vorrei che fosse qui”.
Tom sorrise e le accarezzò la testa. “Anche io”.
“Io non ho mai voluto che lui… che lui si distruggesse per stare vicino a me, non l’ho mai voluto. E sono un’ingrata! Io… io vorrei che fosse qui e riuscire a dirgli almeno per una volta che lo so. Che mi dispiace!”
“Non è una questione di volere o non volere. È un’azione di affetto, tesoro. Di amore” disse lui guardandola. “L’ha fatto per te. E credimi… lo sa che ti dispiace. Altrimenti non l’avrebbe fatto”.
Charlotte fece una smorfia sconfitta. “… non c’è stato nemmeno per Capodanno. Ho dovuto sentirlo attraverso un dannato telefono, mentre mi faceva gli auguri, quando… quando tutti gli altri anni lo festeggiavamo tutti assieme. Vive cose che io non avrò modo di condividere, non potrò dargli il mio appoggio, così come tu non potrai! Io…”
“Basta così, basta così” disse il ragazzo, tornando a stringerla a se. “Non occorre tirare fuori tutto in questo modo, serve solo a farti agitare e stare male. Basta… Lo so che è brutto, lo so che è dura, lo è anche per me. Non credere che non mi manchi! Diamine, sto diventando un santo per colpa della sua brillante idea di andarsene, mi tocca essere responsabile, e quello responsabile era lui!” disse ridacchiando per smorzare la tensione. “Ho cercato di non pensarci i primi tempi, ripetendomi che era giusto che se la cavasse da solo, che un po’ di lontananza gli avrebbe fatto bene, eppure sono stato il primo a rimanere fregato, come te, perché… mi manca. È come un fratello, e odio il fatto di non essergli vicino, a prescindere da qualunque sia l’occasione. E ho paura che le cose possano cambiare a tal punto da dividerci troppo. Ma è successo. È andata. Prima o poi si cambia. Sempre. È lo scopo di ciascuno di noi… Lui sta cambiando per se. Io cambio in seguito ad una sua azione, e tu cambierai a tua volta. E forse cambierà anche la tua amica bionda, lo spero. Ma i cambiamenti non devono farci paura, o saremmo ancora all’età della pietra, non credi?”
Si guardarono ancora un istante, azzurro contro castano cioccolato, e poi Tom fece una linguaccia e lei rise,
forte, col viso rivolto al cielo, la risata più bella del mondo, assieme ad un amico.
“Ah. Grandioso. Io mi incazzo come iena e, appena torno, voi ridete come Hansel e Gretel davanti alla casetta di marzapane”.
Charlotte e Tom si voltarono di scatto verso il cancello. Nia se ne stava di fronte a loro, a braccia conserte, il naso rosso e la faccia indescrivibile.
“Oh guarda. L’effetto boomerang del senso di colpa, bentornata dolcezza”.
“Fa silenzio” ringhiò Nia. Ma non fece in tempo a dire altro che Charlotte si sciolse dall’abbraccio di Tom e le corse in contro saltandole addosso in una morsa stritolatrice. “Sono contenta che sei tornata”.
Nia assunse un’espressione confusa e sorpresa; guardò Tom in cerca d’aiuto e ricevette una fulminata assassina pari ad una minaccia implicita di ricambiare l’abbraccio e smettere di lanciare critiche gratis.
E così fu tempo per la seconda riconciliazione. Una festa tanto odiata, e così tanto amata allo stesso tempo. E la serata non era ancora finita.
“D’accordo… vabene, vabene, ho capito, adesso smettila, chérie, ho un orgoglio da mantenere, intese?” si scollò Charlotte di dosso. La osservò con affetto, mascherato sotto un cipiglio scocciato. “Ho il fondo schiena ibernato, le orecchie e le mani perse in un’altra dimensione, e non ho camminato per due quartieri su questi dannati tacchi a spillo per non baciare nemmeno lo zerbino di quella stupida cazzo di villa, capito?! Muovetevi, tutti e due!”


***


All’interno si scoppiava. Il riscaldamento doveva essere al massimo, perché non appena entrarono, i tre si tolsero i cappotti di dosso e slacciarono i primi bottoni della camicia e si fecero aria con le mani.
“Oh Gesù… è un forno” borbottò Nia, sistemandosi l’orlo del vestito striminzito.
“Un punto a favore di chi ha organizzato la festa: risparmiano sul tempo che uno impiegherà a spogliarsi… La cosa si prospetta interessante” commentò Tom, guardandosi attorno alla ricerca di chissà cosa.
“Tieni per te le tue riflessioni maschili selvagge, Thomas Sidney Jerome” sbuffò lei.
Tom si voltò lentamente verso di lei, con occhi lampeggianti. “Tom”.
“Uhm? Oh, Thomas. Tom. Sidney. Jerome. Fa lo stesso, no?” sorrise provocatoria.
Lui strinse i pugni. “Bisbetica”.
“Non hai idea di quanto” allargò il sorriso lei.
E sarebbe finita nuovamente in lite se, “Ok! Promemoria per Nia: Thomas Sidn… cioè, Tom, odia il romanzo di secondi nomi che si porta appresso” esclamò Charlotte saltando come una molla fra i due. “È una persona riservata, Nia”.
La bionda spostò lo sguardo sull’amica, la fissò, poi lo riportò sul ragazzo che era sul punto di incenerirla con la forza della volontà. “D’accordo”, disse. E lo disse ghignando silenziosamente.
Charlotte sospirò, mentre Tom si incamminò verso una porta a doppi vetri dove stava un uomo in giacca e cravatta, auricolare all’orecchio e i bicipiti più grossi che Nia avesse mai visto.
“Prego” disse questo.
“Tom Sturridge” rispose Tom, allungando una busta bianca, che l’uomo scartò prontamente tirandone fuori un invito in carta stampata. “E loro?” aggiunse con un cenno alle due ragazze.
“Sono con me, su richiesta personale del signor Pattinson” annuì Tom, allungando una seconda busta, che l’uomo aprì e controllò. Attimi di lungo silenzio, prima che una fitta lista di nomi venisse controllata due volte e la porta a doppi vetri venisse aperta.
“Vi auguro una buona serata” disse l’uomo.
“Altrettanto” lo salutò Nia.

Si ritrovarono in una hall ampia e piastrellata in marmo, che dava su due gradinate laterali, le quali portavano ad un salone inondato di luce e colori. Lungo le ringhiere erano affissi mazzi di rose bianche e rosa, l’odore dolciastro dei fiori sospeso ovunque tanto da far venire il capogiro.
“Hai capito?” commentò piacevolmente sorpresa Nia, affacciandosi al balconcino che dava sulla sala. Charlotte la raggiunse, e le poggiò il capo sulla spalla. “Pensi che incontreremo qualcuno di famoso?”
“Uhm? Oh… non lo so, immagino di si” rispose la mora.
“Pensavo fossi informata su questo genere di cose: hai un neo attore che ti scorrazza in casa…”
“Robert non mi ha mai portato alle feste. Non gli piace… mettersi in mostra in situazioni simili” fece spallucce lei, guardando di sotto con aria perplessa.
“Quel ragazzo è davvero fatto al contrario” scosse la testa la bionda. Charlotte sorrise.
“Allora, bambine. Scendiamo? Non vi porto in braccio” le chiamò Tom da metà scala. E le due lo raggiunsero, Charlotte prendendolo sottobraccio.
“Thomas, a rapporto” gli sibilò nell’orecchio Nia.
“Che cosa vuoi?”
“Chi è presente? Chi c’è? Che cosa si fa? A che ora ci rinchiudono? Datti da fare, dimmi qualcosa!”
“Il Signore ha voluto darti occhi e mani, con mio sommo dispiacere, vedi di arrangiarti da sola, che dici?”
“Attento Sidney, non provocarmi…” ringhiò Nia.
“Hei, guarda… quello l’ho già visto da qualche parte” li interruppe Charlotte, indicando un ragazzo impegnato in una conversazione. Era alto, slanciato, capelli folti e scuri.
“Oh… mio… Dio”. Il vocabolario di Nia si ridusse notevolmente, per lo shock.
“Chi è?” chiese confusa Charlotte.
“Uhm?” borbottò Tom voltandosi a guardare. “Dove? Ah. Quello è Ben! L’hai visto perché ha appena finito di girare… aspetta cos’è? Oh si, le Guerre di Narnia, o qualcosa del genere”.
Cronache di Narnia, Cronache, razza di blasfemo” sibilò Nia. Era visibilmente accaldata, le guance in fiamme e lo sguardo lucido e acceso. “Beh che fai lì impalato? Renditi utile, presentacelo!”
“Ma com’è possibile che tu sia diventata di colpo disabile? Devo portarti più spesso alle feste!” le sorrise Tom. “Arrangiati!”
“Tu!” guardò allora Charlotte.
“Ah no, io non conosco nessuno e se sapessero che conosco Robert, non… credo né che farei una bella figura non conoscendo nessuno qui dentro, né ne uscirei viva dai pettegolezzi” scosse il capo Charlotte.
“D’accordo facciamo così” le prese per le braccia Tom. “Andate in giro da sole, io vado a parlare con una persona, affari di lavoro, le feste servono anche a questo, ci vediamo fra una mezz’oretta, d’accordo? E per favore, dai un tranquillante ai tuoi ormoni, perché se Charlotte finisce spennata, giuro che andrai a fare compagnia alle rose sul cornicione: è abbastanza chiaro come concetto, bionda?”
E fu così che le due si ritrovarono sole, circondate da una marea di gente sconosciuta, vestita in abiti di alta sartoria, scintillio di paillettes e strass, morbidezza di raso e cotone pregiato, profumo di dopobarba ed eau de toilette femminile… Charlotte chiuse gli occhi per un secondo, aggrappandosi al braccio di Nia, ripetendosi che poteva farcela. Era solo una stupida festa, era solo caos. Erano solo calore e rumore. Erano solo risate e discorsi accesi. Era solo divertimento. Cercò di scavare a fondo nella sua testa, fra i suoi ricordi, tuffandosi fra le mille immagini d’adolescenza, alla ricerca di un appiglio che le rammentasse come ci si comportasse, che le ridesse la sicurezza che sapeva di possedere, ma che era finita in un mare di polvere. Tom aveva ragione. Lei era sempre la stessa, basta solo ammetterlo ed accettarlo.
“Ti senti male? Hai bisogno d’aria?” le chiese Nia, vedendola impallidire.
“N-no. Sto bene. È solo che non ho l’abitudine… ma posso farcela. È come andare in bicicletta dopo parecchio che hai smesso, giusto?” cercò di sorridere. E forse fu quel sorriso timido a stringere il cuore della ragazza, accanto a lei.
“Andrà benone, è solo una festa chiassosa. E ci sono io” le disse stringendola. “E no, non era una minaccia, non stavolta”.
Gironzolarono facendo la slalom fra persone impegnate a bere o in una conversazione al blackberry, fra gruppi di uomini e donne lanciati in discorsi incomprensibili, fra camerieri dalle facce scolpite nel marmo e il braccio fermo con i loro vassoi colmi di cibo. Rimasero abbagliate dallo sfarzo e dall’eleganza che trasudavano da ogni singolo angolo di quella villa, quasi fosse una melodia lussuriosa che scivolava nell’aria fondendosi ed impregnandosi i presenti. Man mano che passavano in parte ad un invitato, Charlotte aveva l’impressione di sentirsi minuscola ed insignificante, quasi che tutti fossero divenuti d’improvviso dei gigante e lei altro non fosse che una formica, col rischio di restare schiacciata. Sentì la testa girarle, ma provò a non pensarci.
“Che ne dici se andiamo fuori?” chiese Nia. E l’altra annuì prontamente. Aveva bisogno d’aria.
Il giardino era immenso, ed inondato di luce tanto da non percepire la differenza dall’interno all’esterno. Una piscina enorme e dai bagliori azzurri attirò la loro attenzione. Attorno ai suoi bordi v’erano concentrati quelli che probabilmente erano la gioventù della festa di quella sera. Ragazzi fra i venti e i trent’anni, vestiti fra l’elegante e l’originale, fra il ricercato e il minimalistico. Ridevano, chiacchieravano, facevano brindisi, fermavano i camerieri per prendere altro champagne, si spintonavano amichevolmente, sospiravano e flirtavano… Ragazzi. Giovinezza.
“E così abbiamo trovato la nostra riserva di caccia standard, tesoro” sorrise Nia, passandosi involontariamente la punta della lingua sulle labbra. Si portò poi una mano sulla bocca e guardò Charlotte, “Ma direi prima di andare a prendere qualcosa da bere, mai correre… ho bisogno di riflettere prima”.
“E nei tuoi piani è contemplata anche la mia sopravvivenza, si?”
“È al primo posto, chérie, sempre” le strizzò l’occhio lei, prima di portarla al piano bar. Il ragazzo dietro il bancone le salutò con un sorriso accecante e voce roca. “Due baileys con ghiaccio, grazie” ordinò Nia sorridendogli. Si voltò poi rivolta all’amica, “Partiamo con qualcosa di leggero”.
“Guarda che so cos’è” borbottò lei, offesa.
“Bene! Doppio giro allora, dolcezza!” rise forte l’altra.
Restarono sedute al bancone assaporando la loro crema di whisky ed intavolando una fitta conversazione con il barista che Nia aveva prontamente coinvolto, finendo con lo scoprire che si chiamava James, che aveva ventiquattro anni, che era americano e quella era la terza festa importante a cui partecipava come barista. Un gran affare, così pareva.
Charlotte giocherellava con il bicchiere, passandovi il dito sul bordo, ed ascoltando distrattamente Nia flirtare allegramente con il barista. Aveva perso il filo del discorso da un pezzo ormai, sentiva l’ansia e la tensione scorrerle addosso come un secondo vestito, ma allo stesso tempo era troppo distratta e assente per riuscire a preoccuparsene davvero. Galleggiava in un misto di emozioni che, si disse, forse si era addormentata e quello che stava vivendo non era altro che un sogno dai colori troppo accesi e i suoni assordanti.
Guardò il fondo del bicchiere e le sfumature del liquido cremoso e leggermente alcolico. Dio, da quanto non beveva? La sua ultima festa in grande stile era stata ad un compleanno, quello di Tom per la precisione. Ricordava ancora i nomi degli invitati, lei stessa aveva compilato la lista e mandato gli inviti… “Sei più brava di me nelle pubbliche relazioni, manda tu le lettere, non vorrai che il povero Robert finisca per invitare qualche strana pazza maniaca, vero?” le aveva sussurrato all’orecchio Rob, quel giorno, implorandola di aiutarlo nella gestione della festa a sorpresa.
Charlotte sorrise, se l’era dimenticato… Stava dimenticando come fosse il suono della voce di Robert, come fossero i suoi occhi, come fossero le sue mani e il suo modo di camminare ciondolante. Erano connotazioni impresse nel cuore, ma che la memoria e l’abitudine richiamavano con disperazione per timore che finissero cancellate. Ne aveva bisogno. Avvertiva la sua mancanza come un graffio fondo sulla gola, aveva persino smesso di guardare le loro fotografie assieme, avrebbe arrecato solo dolore… Sentirlo per telefono cominciava a non bastare, cominciava ad essere riduttivo, come l’ora d’aria per un carcerato, e le minime mail mandate erano quasi inesistenti, Rob non amava scrivere a computer. Era come avere un diario le cui pagine sparivano e si cancellavano con il passare del tempo e, per quanto lei si sforzasse di fissare le parole, esse fluttuavano nell’aria lasciandola con un pugno di cenere in mano.
Si portò una mano alla fronte e sospirò. Si, forse era davvero il momento di cambiare e pensare ad altro. In quel modo non andava, inutile girarci attorno.
“Ciao”.
Charlotte quasi lasciò il bicchiere a terra. Si voltò alla sua sinistra e incontrò gli occhi azzurri più grandi e cristallini che avesse mai visto, dopo quelli di Nia.
“C-ciao”.
Era un ragazzo. Non doveva avere più di vent’anni, pensò Charlotte. Aveva dei lineamenti duri ma ingentiliti dal sorriso pieno e lo sguardo giovane. Il ciuffo biondo gli cadeva scompigliato sugli occhi, nascondendoli in parte e dandogli un’aria interessante… Lei lo guardò, legandosi a quegli occhi che era certa di aver già visto, a quel volto che era sicura di aver già incontrato, lo guardò come si guarda un’opera d’arte, come si osserva un fiore particolarmente perfetto, dimenticandosi completamente di avere l’uso della parola.
Fu lui a riportarla alla realtà, sorridendo di nuovo e offrendole la mano, “William, piacere”.


***


La luce era soffusa. Non c’erano rumori. Sentiva caldo.
Robert aprì a fatica gli occhi, sentendo le palpebre pesanti come fossero macigni. Li strizzò un paio di volte prima di riuscire ad abituarsi alla penombra in cui era immerso.
Era a letto, notò, nella sua roulotte. Era sotto le coperte e con addosso solo la sua vecchia t-shirt. Alzò un sopracciglio: o aveva fatto tutto da solo, o… qualcuno l’aveva portato lì e l’aveva spogliato. Cercò di mettersi a sedere ma un improvviso capogiro lo costrinse ad incollarsi al cuscino, implorando perché la stanza smettesse di girare.
“Oh, sei sveglio!”. Una voce femminile gli arrivò all’orecchio e ci impiegò un po’ prima di focalizzare Kristen, seduta sul bordo del letto.
“C-ciao…”
“Come ti senti?”
“Uhmm… come se fossi in caduta libera da un palazzo di settecento piani” mormorò lui massaggiandosi la fronte dolorante. “Che è successo?”
“Non te lo ricordi?” chiese sorpresa lei. “Sei svenuto. Mentre eravamo a cena”.
“Grandioso”.
“Eri ancora vicino a Kellan quando sei caduto, ma non abbastanza perché riuscisse a prenderti al volo. Hai… ehmm… sbattuto la faccia, temo” borbottò lei, quasi si sentisse in colpa.
“Come minimo. Sono riuscito anche a fratturarmi una gamba o incrinarmi una costola, nel caso? Le fortune vengono sempre tutte assieme” biascicò lui.
Kristen rise. “No, eroe. Solo un livido sulla tempia, ma passerà”.
Restarono in silenzio per un po’, poi Kristen raggomitolò le gambe sul letto. “Vuoi qualcosa da mangiare?”
“No, grazie”.
“Dovresti. Ultimamente mangi molto poco”.
“Tu dici? E come fai a dirlo?” chiese lui alzando la testa per guardarla.
“Me ne accorgo” annuì lei, per nulla imbarazzata.
Robert rise e tornò ad appoggiarsi sul cuscino. “Vabene. Mangerò qualcosa dopo”.
“Meglio così, perché Jackson è appena andato a rubare dalla cucina apposta per te”.
“Jack era qui?”
“E anche Kellan. Se ne sono andati cinque minuti fa… Ma non credo che la cucina sopravviverà a lungo con Kell nei paraggi e senza guinzaglio” commentò solenne lei.
Robert rise di nuovo, sentendo la testa girare forte, ma non vi badò. Tossì un paio di volte, sentendo la gola secca come se avesse ingerito carta vetrata e cercò di rimettersi a sedere. Puntò i gomiti e con una smorfia unica ballonzolò sul cuscino, dovendosi limitare a sollevare solo la schiena. Kristen al vederlo con la faccia distrutta, i capelli ramati sparati per aria e la maglietta storta scoppiò a ridere gettando la testa all’indietro.
“Ma come sei simpatica” borbottò Robert girando la faccia altrove per l’imbarazzo.
“Oh andiamo, dovresti vederti, sembra che ti sia passato un tornado in testa!” rise lei coprendosi la bocca con la mano.
“È il fascino dell’uomo trasandato, sai?”
“Oh ohooo, ceeerto” si batté la fronte Kristen, annuendo come se Robert avesse appena rivelato una verità assoluta. Si fissarono poi per qualche istante, prima di scoppiare entrambi a ridere nuovamente.
E ridevano ancora quando Jackson entrò nella roulotte con un cestino di vimini ed un fazzoletto rosso legato in testa, nemmeno fosse stato la nonna di  Cappuccetto Rosso. Saltellò come un bambino nel vedere che Robert era ancora tutto d’un pezzo e sfoggiò il bottino di guerra che, a detta sua, con tanta fatica era riuscito a sottrarre alla razzia che Kellan stava attuando in cucina.
“È peggio di un panzer, giuro”.
“Per non parlare dei suoi eccelsi gusti culinari” alzò le sopracciglia Kristen.
Robert scartò il suo panino, e fece spallucce. “Per me è uno a posto”.
La ragazza ridacchiò, “Per te, tutto il mondo è buono, tesoro”. E lui sorrise in tutta risposta addentando il panino.
“Come ti senti? Va un po’ meglio?” chiese Jackons, appoggiato al comodino.
 “Beh, la stanza ha smesso di girare, e ora vedo una Kristen anziché due… quindi si, direi che va molto meglio, grazie”annuì lui con aria sollevata.
Kristen dal canto suo gli tirò un pizzicotto sul braccio con aria offesa. “Dopo che sono rimasta qui a vegliarti tutto il tempo? Bel ringraziamento!”
“Un gentleman modello, vero? Lo so” sorrise Rob.
Restarono a chiacchierare per poco più di una mezzoretta, Robert accoccolato fra le lenzuola e il cuscino, Kristen appoggiata al muro ai piedi del letto e Jackson appollaiato sul comodino. Si scambiarono vecchi aneddoti e ricordi dell’infanzia, parlarono di quanto effettivamente il lavoro fosse quasi una riunione di famiglia, tanto l’atmosfera era rilassata ed accogliente, e rifletterono sul fatto che, forse, il pezzo forte doveva ancora venire con il tour di promozione.
“Sarà interessante” disse Kristen, guardandosi le unghie.
“Lo dici con un entusiasmo che potrebbe uccidermi” le rispose Robert. E Jack annuì.
Lei fece spallucce. “Non ho mai amato particolarmente le feste e i discorsi ufficiali… È il lato dark del lavoro che scarterei volentieri”.
“Il lato dark…” le fece eco Robert cercando di capirla.
“Recitare è solo una questione di giornate lavorative, di corse avanti e indietro sul set, di… battute recitate a memoria” cercò di spiegarsi allora lei, agitando le mani. “Scegli i personaggi, c’è quello in cui ti immedesimi meglio e quello che devi convincere a collaborare con la tua personalità. È questo il lavoro dell’attore: perché i tours di promozione e le feste, allora?”
“Perché se no nessuno verrebbe a vedere il film?” le giunse in aiuto Jackson.
“Si chiama promozione apposta, Kris” concordò Robert. Osservava la ragazza torturarsi le mani e sbattere le palpebre ripetutamente, come se fosse a disagio o come se stesse cercando di esprimere un concetto non semplice.
“Ho solo detto che non mi piace, non che non debbano farla” cacciò la lingua lei, prima di nascondere la faccia dietro un ciuffo di capelli.
Jackson scosse il capo e scese dal comodino.  “Donne, chi le capisce… ha la mia stima” rise scompigliando i capelli di Kris. “Andiamo, lasciamolo dormire. Cat ha detto che puoi prenderti un paio di giorni di riposo Rob, e io ne approfitterei. Passiamo a trovarti domani a pranzo”.
“Grazie, per…” disse lui, indicandosi lo stomaco alludendo al panino, “Buona notte”.
“Dormi bene” lo salutò Jack, scendendo i gradini ed uscendo.
“Cerca di riposare, d’accordo?” si alzò dal letto Kristen. Gli andò vicino e gli diede un bacio leggero sulla fronte. “Ci vediamo domani”.
“Cosa volevi dire, prima?”
La ragazza si fermò e lo guardò in viso. Sospirò. “Solo che… mi terrorizza l’idea che le persone si aspettino da me sempre di più di quello che in realtà io possa dare. Io sono io, non posso inventare qualcosa che non sono. La recitazione è solo un lavoro”.
“Beh, è più semplice di quello che credi allora, no?” le sorrise lui. “Riconoscerai a colpo d’occhio chi riesce a considerarti per la pazza che sei, tralasciando la moltitudine di facce che hai indossato sul grande schermo. Io lo prenderei come un vantaggio… non come una cosa di cui dispiacersi”.
Kristen soppesò le sue parole e parve pensarci su, mordendosi un labbro. “Si, forse è così…” si strinse nelle spalle. “Buona notte, Rob”.
“Buona notte. E grazie per avermi fatto compagnia”.
Lei sventolò la mano in saluto e sparì al di fuori chiudendo la porta della roulotte.

Il ragazzo rimase nel letto a fissare il soffitto così a lungo che perse la cognizione del tempo. Aveva la mente sgombra, come se qualcuno gli avesse fatto il lavaggio del cervello e gli avesse resettato la memoria. L’unica cosa che ricordava era il suo nome, ma diede colpa alla stanchezza. Si, doveva prendersi un paio di giorni di riposo.
Volse l’attenzione all’orologio sul comodino. Erano solo le otto di sera, eppure si sentiva così stanco, doveva aver fatto un bel volo perché ogni parte del corpo gli faceva male. Pensò a quella volta che era in bicicletta, a come aveva guardato distrattamente la vetrina di una biblioteca, per poi trovarsi a tre metri da terra e poi con la faccia contro il cemento del marciapiede. Ricordava ancora lo strillo di sua madre, da brividi.
Ridacchiò all’idea, passandosi la mano fra i capelli. Dio, quanto era imbranato.
“Sei sempre il solito! Ho appena messo a posto, non ci vuole una laurea per camminare in linea retta senza radere al suolo ogni cosa, Rob! Va in cucina, sciò!”
La voce di Charlotte gli scoppiò nella testa, come una granata, e si portò istintivamente le mani alle orecchie, tappandole. Inspirò a fondo più volte, ripetendosi di calmarsi, che era solo stress e stanchezza, che una notte di sonno gli avrebbe fatto bene, si meritava un po’ di riposo. Ma poi si ricordò della festa, dell’invito che aveva ceduto a Tom, per quella sera, e del fatto che Charlotte aveva detto di si. Avrebbe partecipato all’evento.
Non riuscì più a reprimere l’impulso che gli faceva scoppiare la testa, afferrò il cellulare sul comodino, compose un numero in fretta, ed attese.
“Pronto?”
“Ciao Tom”.









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Spazio sproloqui


Oh my god! Ce l’abbiamo fatta! O.o
Wellà dolcezze, la bellezza di ben quattordici pa.gi.ne.! Pensavo di spezzarvele a metà a dir il vero, ma poi ho considerato che avete atteso fin troppo e così l’ho tenuto intero e… nel prossimo chap, avremo ancora la festa *-*
Allora, che dire? Sono successe un po’ di cosine interessanti: Nia è esplosa a mo di bomba ad orologeria, tosta la biondina 0.o Ci sono rimasta male io nello scrivere… Tommy è sempre Tommy, so che il suo momento di serietà può stonare un po’ con il suo carattere da simpaticone, ma penso che ci stesse, alla fine tutti abbiamo il nostro attimo di riflessione; ma vedo che poi s’è ripreso a meraviglia, quindi è tutto ok… xD
E Charlotte. Accendiamo un cero, s’è svegliataaaa! L’ha capita, la fanciulla, ci voleva il fungo atomico di Nia, o qua dormivamo ancora sugli allori u.u  Per non parlare della Fata Turchina oltre mare: che dite, la vediamo l’intesa fra lui e Kristina, o… non la vediamo? Uhm?? Ah io lo so come va a finire… u.u Ma voi, che mi dite?
Ultima cosa da aggiungere, avete visto che ho già introdotto due nuovi personaggi, anche se uno è solo nominato: Ben… e William. Ok, Ben è quel divino Apollo di Barnes *-* Ma Will? Dai che lo sapeteee! Vi anticipo che avranno entrambi un ruolo nella storia, Will più di Ben… Ma ne arriveranno altri! ;)


E ora passiamo ai ringraziamenti:
Ello: ehilà! Cara, perdonami, ho fatto aspettare un sacco, eh? ^^’’ Ti ringrazio per aver letto fin qui, e si… le amiche come Nia sono un vero toccasana, chiunque ne abbia una è da considerarsi davvero fortunato! Oh beh, anche se a Nia un corso di diplomazia male non farebbe eh xD Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! Un bacione e grazie ;)
Cherie Lie: ciao :) prima di tutto mi scuso per l’enorme ritardo. Secondo… Grazie infinite. I tuoi commenti mi fanno sempre capire che quello che scrivo non passa inosservato, e non perché io voglia acquistare particolare popolarità o meno, ma perché quello che cerco di trasmettere altro non è che l’idea che persone come loro, attori, sono esattamente come noi. Con sofferenze, pensieri, frustrazioni, dubbi e paure. Probabilmente sono persone che sono ancor più complessate di noi stessi, che erigono facciate e comportamenti a mo di difesa, e, allo stesso tempo, ci invidiano per la nostra libertà… Sono contenta che questa storia ti piaccia e ti faccia emozionare, e ti ringrazio enormemente per il tuo sostegno *-* Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto, nonostante il ritardo. Un bacioneee! :)
_Miss_: ciao bambolina, come andiamo? Allora, ricapitoliamo: Tom si, è un bonaccione, un “casinaro”, un po’ strafottente a volte, ma penso sia uno dei personaggi più sensibili in assoluto nella storia, un po’ come Nia, e a cui sono molto affezionata :) Comunque, Tom si, soffre per la mancanza di Robert, e anche in questo capitolo lo dice, così come Robert ne patisce la lontananza, sono cresciuti assieme, è un po’ come dividere due gemelli… Charlotte dal canto suo, è si sulla buona strada per continuare senza di lui, ma aveva bisogno che qualcuno glielo dicesse a chiare lettere: un conto è saperlo ma non ammetterlo veramente, e un conto è sentirselo dire e accettarlo ;) E ora che succederà? Kristina mi par di capire che non incontra i tuoi favori… ma non temere, non incontra nemmeno i miei, vedremo che fare di lei xD Un bacione e grazie per il commento :)

E ora, grazie infinite a chi l’ha aggiunta fra i preferiti e seguiti, grazieee!!
Ci vediamo al prossimo chap, spero di aggiornare in fretta xD

beth

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