Taxi Driver

di candycotton
(/viewuser.php?uid=57157)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** _ primo capitolo ***
Capitolo 2: *** _ secondo capitolo ***



Capitolo 1
*** _ primo capitolo ***




        _ primo capitolo


“Ragazzo, non ho certo tutto il tempo del mondo a mia disposizione, non potresti andare un po’ più veloce?”
Lay guardò contrariato attraverso lo specchietto retrovisore, incontrando gli occhi flaccidi di un vecchio signore vestito di tutto punto, con una cravatta nera che pareva dovesse fargli scoppiare la giugolare da un momento all’altro.
“Mi dispiace, signore, ma sa com’è il traffico qui a New York…”
“Oh, per carità. Non parlarmi del traffico. È una vera vergogna, tutta questa maledetta città lo è. E i tombini? Hai letto dei tombini? Viene su tanta di quella robaccia da quei tombini…”
Lay alzò il volume della radiolina, cercando di isolare la voce fastidiosa di un altro di quei clienti impossibili che sciupavano tutte le loro parole contro quella città con lui, come se gliene importasse qualcosa di starli a sentire.
Aprì il finestrino, facendo entrare nell’abitacolo un po’ del fracasso cittadino, insieme all’aria afosa estiva. A quel punto, la voce del signore seduto dietro si era ridotta ad un ronzio di sottofondo. Lay sorrise, ormai si era abituato.

Dopo aver ricevuto la solita povera mancia, lo scaricò davanti ad un alto grattacielo interamente ricoperto da vetrate azzurre.
Avanzò con il taxi sulla strada, tra la confusione di auto che si andavano diradando. Al limitare del marciapiedi, una signora dai lunghi capelli biondi sporgeva il braccio in avanti, con la mano aperta nella sua direzione. Lay rallentò e si accostò al marciapiedi, aspettando che la donna entrasse e chiudesse lo sportello. La osservò dallo specchietto, mentre sistemava qualcosa dentro la sua borsa firmata.
“Dove la porto?”, chiese, notando che lei ci stava impiegando un po’ troppo tempo.
Alzò uno sguardo sorpreso su di lui. Gli allungò un post-it giallo un po’ stropicciato. Lay lo lesse e abbassò il piede sull’acceleratore.
Il tragitto fu abbastanza tranquillo. Lay lanciò di tanto in tanto qualche occhiata alla donna. Guardava il cellulare, giocava con una ciocca di capelli, oppure fissava un punto fuori dal finestrino.
Lay sospirò. Finalmente qualcuno che non gli facesse diventare la testa come un pallone. Dovette imbucare una delle strade maggiormente frequentate. Il traffico impediva alle macchine di avanzare normalmente, c’era un blocco.
Lay lanciò un’occhiata alla donna. “C’è un po’ di traffico in questa zona…”
La donna annuì vagamente.
Passò qualche minuto, e le auto ancora faticavano a diradarsi. Lay aveva aperto il finestrino e ci aveva appoggiato un braccio sopra.
“Scusi, potrebbe accendere l’aria condizionata?”
Lay incontrò gli occhi della donna dallo specchietto. Aveva afferrato la richiesta. Per non dire “Potrebbe chiudere il finestrino”, aveva usato una via meno scortese. Ad ogni modo fece risalire il finestrino e finse di premere qualche pulsante nel pannello vicino al cruscotto.
“Grazie”, fece lei distrattamente, “ehm… scusi, scendo qui”, aggiunse poi. Rovistò nella borsa e allungò la mancia verso Lay, che si voltò per prenderla.
“Come vuole”, le rispose con uno sguardo innocente. Dopotutto non era mica colpa sua se esisteva il traffico.
La donna abbozzò un lieve sorriso e uscì dal taxi.
Lay sospirò e si stiracchiò le braccia sul volante. Guardò l’orologio, era quasi ora che il suo turno finisse.
Era perso con i pensieri oltre il finestrino, quando lo sportello si aprì di botto e due figure si infilarono dell’abitacolo. Lay si voltò, spaventato.
Erano un uomo, interamente vestito di nero e una ragazza.
Era sul punto di dire qualcosa, quando un click secco lo prese di sorpresa.
“Portaci dove ti dico e non fare storie, intesi?”
Lay fece scivolare gli occhi sull’uomo, su qualcosa di luccicante che apparve sotto il suo giubbotto. Era una pistola. Lay percepì il suo cuore accelerare improvvisamente, ebbe quasi paura che gli potesse saltare via dal petto da un momento all’altro. Aprì la bocca ma la richiuse subito dopo.
“Intesi?”, ripetè l’uomo con più foga.
Lay annuì debolmente. Lanciò un’occhiata fugace alla ragazza, prima di voltarsi e risistemarsi al suo posto di guida.
L’uomo in nero la teneva stretta a sé. Potevano essere complici, tuttavia lei non sembrava partecipe di ciò che l’uomo stava facendo. Forse era anche lei un ostaggio, proprio come lo era diventato Lay.
Seguì le indicazioni dell’uomo, provando anche, come lui gli aveva intimato, di farsi strada tra le auto, fino a farlo girare in una stradina laterale. Mentre guidava, Lay cercava il più possibile di tenere lo sguardo fisso davanti a sé. Eppure, qualcosa gli ordinava di voltarsi, per vedere cosa stava succedendo alle sue spalle. Buttò un’occhiata allo specchietto retrovisore ed incontrò in un attimo gli occhi della ragazza. Chiari e profondi, oltre che molto tristi. Ma parevano tranquilli, perché non aveva paura? Quando li alzò su di lui, Lay distolse lo sguardo, confondendolo al di là del vetro.
“Fermati qui”.
Lay arrestò la macchina. Erano in una zona lugubre e fredda, isolata. Del fumo saliva da alcuni tombini e qualche ratto di città si aggirava attorno ai bidoni dell’immondizia. Una scala antincendio di ferro girava attorno ad un basso edificio grigio, dai muri sgretolati.
L’uomo si sporse per aprire lo sportello, diede uno spintone alla ragazza e furono fuori. Prima di andarsene, la pistola fece capolino un’ultima volta nell’abitacolo.
“Prova a dire qualcosa in giro e sei morto”.
Lay annuì, tramortito.
La portiera sbatté. Lay rimase immobile, le braccia tese a impugnare il volante, lo sguardo duro fisso sull’uomo e la ragazza, che stavano entrando nell’edificio. Vide lei voltarsi di un po’ indietro, come per vedere se il taxi era ancora lì o se n’era già andato; se aveva ancora speranze oppure no.
Quando si furono infilati dentro alla porticina di ferro dell’edificio, Lay sussultò sul posto di guida, spalancò la portiera e si precipitò fuori.
Non sapeva cosa gli era preso, cosa diavolo stesse facendo. Eppure sentiva che era la cosa giusta da fare. Sentiva che non poteva lasciarla morire, il perché non lo sapeva, non poteva e basta.
Prese un pezzo di legno, da un mucchio accanto ai bidoni dell’immondizia. Il suo cuore batteva troppo rapidamente, l’adrenalina era in circolo.
Spalancò la porta e si guardò subito attorno. L’uomo e la ragazza stavano salendo velocemente le scale. Lo videro, e l’uomo sparò immediatamente nella sua direzione.
Lay indietreggiò fuori dalla porta, schivando il colpo per miracolo. Tornò dentro: la ragazza aveva fatto volare via la pistola all’uomo. Lui le diede un colpo, scaraventandola giù per le scale.
Poi, si dileguò.
Lay la raggiunse, aiutandola ad alzarsi. “Stai bene?”
Lei si portò una mano alla nuca, che sanguinava. “Uhm…”, sussurrò e svenne.

Sentiva caldo e un dolce profumo di pulito. Qualcosa all’altezza della testa gli doleva. Come se avesse un peso sulla nuca, e gli dava un gran fastidio.
Faticò ad aprire gli occhi, come se nessuno glielo avesse insegnato e lo stesse facendo per la prima volta. Prima fu tutto bianco, poi le cose iniziarono a prendere i loro contorni, intorno a lei. C’era una parete dritta, sopra. Guardò giù e vide il suo corpo, rivestito di panni chiari e puliti. Era stesa su un letto. Fece per alzarsi, la testa le mandò una fitta improvvisa. Gemette, facendo una smorfia.
“Ah, ti sei svegliata finalmente”.
Una voce calma la raggiunse. Vagò con lo sguardo, cercando di mettere a fuoco chi avesse parlato; accanto al letto riconobbe un ragazzo, lo stesso del taxi, quello che l’aveva salvata. Lo fissò ad occhi sgranati.
“Non guardarmi così, non voglio farti niente di male”, fece, allarmato.
Lei scosse il capo, cercando di riprendere maggiore conoscenza. Provò un’altra volta ad alzarsi e questa volta ci riuscì, appoggiando la schiena al cuscino.
“Come ti senti?”
“Tu chi sei?”, chiese lei, aggrottando le sopracciglia.
I lati delle sue labbra si incurvarono un poco. “Non credi sia io a dover fare le domande, sei a casa mia e non ho idea di chi tu sia”.
Lei abbassò lo sguardo. “Scusa, mi hai salvato la vita. Grazie”.
“Direi che così va meglio. Io sono Lay”, si presentò.
Lei tornò a guardarlo. Lay. Quel nome le piaceva, le infondeva sicurezza. Lo osservò, cercando di metterlo a fuoco il più possibile. Aveva i capelli un po’ lunghi ai lati del viso e piuttosto scompigliati, di un biondo spento. Il viso scarno e bello. Due occhi cristallini la fissavano intensamente.
“Mi hai salvato”, ripetè lei.
“Sì, ma ora stai bene?”
Lei pensò al dolore alla testa di poco prima, guardò Lay. “La testa…”
“Già, la testa. Non sono molto esperto in queste cose, ma ho cercato di medicartela come meglio potevo…”
Lei fece per tastarsi la ferita. Sentì la mano di Lay bloccarla.
“No, non toccarla”, le buttò giù la mano. “Ce la fai ad alzarti?”.
La ragazza lo guardò un attimo confusa. Ce la faceva? Non ne aveva idea. Doveva provare. Ma era come se non sapesse nemmeno da che parte iniziare.
Lay parve percepire la sua incertezza. “Dai, ti aiuto io”.
Le mise una mano sulla schiena e con l’altra strinse una delle sue. La sua presa era forte e salda. Lei si alzò in piedi, e rimase accanto al letto, accanto a Lay.
“Tutto bene…”
“Lehna. Mi chiamo Lehna”. Ora sembrava avesse la forza di rimanere in piedi anche da sola.
Lay annuì, guardandola. “Hai di dove andare?”
Lehna parve pensarci un po’ su. Il suo volto di dipinse di un’espressione confusa, assorta. Lay rimase ad aspettare la risposta immobile, scrutandola.
“Non ho una casa”, sussurrò alzando gli occhi lucidi su di lui, lentamente.
La guardò per un attimo ancora, poi abbassò il capo. “Mi dispiace”.

Lay non aveva idea di cosa gli fosse preso. Fare entrare una sconosciuta in casa sua, farla dormire nel suo letto, farle usare i suoi vestiti e il suo bagno. Si sedette alla scrivania mangiata dalle termiti e si mise le mani nei capelli. La sua vita era un totale disastro. Aveva solo diciannove anni, lavorava come tassista nella città più caotica del mondo e viveva in una bettola da due soldi nello scantinato di un palazzo abitato da gente completamente pazza. Aveva a mala pena i soldi per se stesso, e ora c’era un’altra inquilina di cui occuparsi. E non aveva idea di come fare per mandarla via.
Doveva dirle che non c’era posto per lei, lì. Che avrebbe dovuto uscire nella notte e trovarsi un’altra casa, magari affittare la camera di un albergo.
Preparò il discorso da solo più volte, mentre il rumore dell’acqua della doccia che picchiettava sul pavimento del bagno riempiva il silenzio tutt’attorno. Quando sentì il rubinetto chiudersi, si alzò dalla sedia e si avvicinò alla porta.
Lehna uscì dal bagno con addosso solo un asciugamano bianco, che le lasciava scoperte le gambe e le braccia. I capelli scuri le ricadevano ai lati del viso, formando torciglioni umidi che le sfioravano le spalle. Il viso pallido e magro su cui risaltavano i grandi occhi azzurri aveva un’espressione tranquilla, molto più rilassata di poco prima.
Lay la fissò e le parole che si era studiato poco prima gli morirono in bocca. Era inutile, non ce la faceva a dirglielo. Non riusciva a cacciarla da casa sua.
“Scusa, dove posso asciugarmi?”, gli domandò.
Lay le indicò un’altra porta, quella della sua camera. La seguì con gli occhi mentre si allontanava. L’asciugamano abbandonò il suo corpo un attimo prima che la porta si chiudesse su di lei.
Lay sospirò di nuovo. Si nascose il viso con una mano e si maledisse ad alta voce. Il soffio del phon lo fece sussultare. Buttò un’occhiata all’orologio. Le nove e mezza. Era certo che quella notte non avrebbe chiuso occhio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** _ secondo capitolo ***


       


        _ secondo capitolo



“Lay…?”
Lehna lo chiamò flebilmente. “Sì?”, rispose, con il viso accostato alla porta della sua camera.
“C’è qualcosa che possa mettermi addosso?”
Lay rimase in silenzio per qualche secondo. “Guarda nell’armadio e prendi quello che vuoi”.
Non aveva niente per una donna, viveva da solo, era logico che fosse così. Si sarebbe dovuta accontentare di qualche abito maschile, almeno finchè i suoi non fossero stati lavati.
Lehna uscì dopo qualche minuto. Indossava un paio di jeans un po’ larghi e una camicia di flanella, aperta su una canottiera bianca, che era sua.
I suoi capelli neri le stavano gonfi e morbidi, sfiorandole lievemente le spalle e la schiena. Lay cercò di ignorarla, di non guardarla troppo, altrimenti era certo che si sarebbe azzittito per il resto della sera.
“Senti, Lehna… davvero non hai una casa?”, azzardò, cercando di entrare nel discorso.
Lei lo guardò ambigua. “La strada è la mia casa”.
Lay restò immobile. Era forse una barbona? Con chi diavolo stava parlando? Avrebbe tanto voluto saperlo.
“Io non ho molto posto, qui…”, proseguì Lay.
Lei parve illuminarsi. “Ah, scusami. È vero, sto sconvolgendo la tua vita. Mi dispiace, è che pensavo di poter restare, almeno per stasera. È così bello qui… una casa vera, era tanto che non ne vedevo una”.
Lay la fissò. “Sto sconvolgendo la tua vita”, era certo che sarebbe andata proprio così. “Okay, puoi restare per stasera, poi domani vedremo cosa fare”.
“Grazie, Lay”, e, inaspettatamente, lo abbracciò.
Lay l’allontanò quasi subito, abbozzandole un sorriso. “Domani devo andare al lavoro, puoi portare i tuoi vestiti alla lavanderia?”
Lehna lo fissò tranquilla. Poi annuì.
“Bene, è qui dietro l’angolo…”, Lay spiegò a Lehna la strada per arrivare alla lavanderia. “Mi raccomando, stai attenta e non fermarti per nessun motivo”, concluse, prendendola per le spalle.
Lei lo ascoltò con attenzione, cercando di memorizzarsi la strada.
“Su, ora andiamo a dormire, ho già fatto troppo tardi”.
Lehna lo seguì fino in camera sua. Lay si voltò a guardarla, come se si fosse per un attimo dimenticato di lei.
Si grattò il capo con una mano. “Okay, tu dormi nel letto, io vado sul divano”, fece un breve gesto con la mano e uscì dalla stanza, lasciando Lehna da sola.

Lehna si svegliò che erano già le dieci e mezza. Si vestì e mangiò un pezzo di pane con la marmellata che Lay le aveva lasciato sul tavolo, poi prese il sacco dei panni sporchi e uscì di casa.
New York era una città incredibilmente caotica, a qualsiasi ora. Lehna non si era ancora molto abituata a quella vita frenetica, non ricordava da quanto tempo, ma non era molto che si trovava lì. Seguì le indicazioni che Lay le aveva dato e che per sicurezza si era appuntata su un post-it.
Arrivò davanti ad un negozietto modesto, accatastato tra una pizzeria a destra e un garage sbarrato sulla sinistra. L’insegna al neon non risaltava molto al sole mattutino, ma tuttavia illuminava di rosa una scritta inclinata: “Lavanderia”.
Lehna entrò. Dentro non era troppo grande, un mucchietto di persone affollavano le sedie. Lehna li scorse velocemente con un breve sguardo: erano per lo più ragazzi di colore, ragazze magrissime con bambini in braccio, uomini sulla trentina con sguardi truci e poco raccomandabili. Lehna abbassò immediatamente gli occhi, cercando più che poteva di tenerli lontani da chiunque la dentro.
Si avvicinò alla prima lavatrice libera che trovò e ci ficcò dentro i suoi vestiti. Si accorse che c’era anche qualche panno non suo. Due camicie a quadretti, due paia di jeans e una maglia a mezze maniche. Erano gli abiti di Lay: evidentemente aveva approfittato dell’occasione per farsi lavare qualcosa che gli serviva. Lehna sorrise inconsapevolmente, e ficcò dentro all’oblò tutto quanto, finchè non fu pieno. Chiuse lo sportello e fece partire la centrifuga.
Sentì parecchi sguardi puntati su di lei. Un bambino iniziò a piangere, e la sua mamma gli intimò il silenzio, dondolandolo avanti e indietro.
Lehna incontrò involontariamente gli occhi di uno degli uomini seduti, che la scrutava fisso.
Lehna aggrottò le sopracciglia e si concentrò sui panni che danzavano dentro all’oblò, ripetendo dentro se stessa: muoviti, muoviti.
Finalmente la centrifuga terminò e lei potè prendere fuori tutta le sue cose. Le rificcò dentro al sacco, lasciò la mancia e si affrettò ad uscire da quel posto.

Lay tornò a casa verso le sette e mezza della sera. Sospirò, mentre si toglieva la camicia.
“Ciao”.
Lay sussultò e guardò Lehna.
“Scusa, non volevo spaventarti”.
Lay scosse il capo. “Come ti senti oggi?”
Lehna inclinò il capo, avanzando verso di lui. Allungò una mano verso la sua camicia. “Meglio”.
Lay continuò a guardarla confuso. Si accorse che indossava solo una delle sue camicie, che le arrivava fino a metà coscia.
“Dammi, te la sistemo io”, disse, scrutandolo.
Lay gli lasciò la camicia da lavoro tra le mani e distolse lo sguardo da lei.
Lehna gli diede le spalle, e raggiunse la camera da letto.
“Hai fatto quello che ti avevo chiesto?”, domandò Lay, parlando attraverso le camere.
“Ah-ah. Anche i tuoi vestiti sono puliti, ora”, Lehna ricomparve sulla soglia della porta e sorrise. “Tutto bene al lavoro?”
Lay annuì vagamente. “Come al solito”.
Lay raggiunse la sua scrivania e si sedette al computer. Poi alzò uno sguardo su Lehna, come se qualcosa gli si fosse acceso all’improvviso nella testa. “Ehi, vieni un attimo qui”.
Lehna aggrottò la fronte, lo raggiunse.
“Sai usare il computer?”.
Lehna diede un’occhiata al monitor acceso. “Non credo”, mormorò incerta.
“Non hai mai provato?”.
“Non ricordo. La mia memoria è offuscata”.
Lay digitò una password e la schermata principale apparve brillante per tutto lo schermo. “Stavo pensando che potresti usare internet per fare delle ricerche”.
Lehna lo guardò per un secondo. “Ricerche?”.
“Sì, su chi sei, da dove vieni e cose così…”, Lay abbassò di nuovo lo sguardo sul monitor, perché Lehna gli era vicinissima, in piedi ad un soffio da lui.
Sul volto di Lehna apparve un’espressione confusa e contrariata. Si allontanò da Lay e si portò una mano sul volto. “Non voglio sapere niente”.
Lay la seguì con gli occhi, fissando la sua figura di spalle, preoccupata. Non era normale che qualcuno soggetto ad una crisi di coscienza non avesse nessuno stimolo a voler scoprire qualcosa su se stesso o sulla propria vita. Forse Lehna in realtà sapeva chi era, solo che voleva tenerlo nascosto.
“Okay, come vuoi. Ma credi che sia una buona idea rimanere così in bilico tra sapere e non sapere?”
Lehna socchiuse le labbra, ma non rispose. “Tu vuoi che me ne vada da qui”.
Lay sgranò gli occhi. “Ma che stai dicendo?”, continuò a fissarla, aggrottando le sopracciglia.
L’espressione di Lehna era dura, gli occhi bassi. “Lo so che sono un peso per te, mi dispiace”. Prima che Lay potesse ribadire, lei s’incamminò verso la camera da letto, rovistando per raccogliere in fretta le sue cose.
Lay scaraventò indietro la sedia e le si lanciò dietro. “Che stai facendo?”, sospirò sull’uscio della porta.
Lehna non alzò nemmeno lo sguardo su di lui. “Me ne vado”, farfugliò, infilandosi i pantaloni. Si levò la camicia e Lay rimase a guardarla immobile, mentre si metteva la maglia che aveva indosso quando l’aveva salvata.
Gli passò davanti, gettandogli la sua camicia tra le mani e uscì dalla stanza.
“Lehna, aspetta”.
Lehna lo ignorò, facendo per aprire la porta d’ingresso del misero appartamento sottoterra.
“Lehna”, la chiamò ancora Lay, prendendola questa volta per il braccio.
Lei si voltò di scatto, i loro sguardi si incrociarono.
“Non voglio che te ne vada”.
“Lasciami, per favore, non mi va che provi pietà per me”.
Lay sospirò, avvicinandosi a lei. “Non provo nessuna pietà”. Abbandonò la presa sul suo braccio.
“Senti Lay, venire qui è stato un errore. All’inizio non ci ho pensato, perché mi sembrava così bello aver trovato finalmente un posto dove stare, ma ora mi sto rendendo conto che non è questo il mio posto, è il tuo posto e io lo sto solo invadendo”.
“Non hai di dove andare, e io non posso certo lasciarti là fuori da sola. Percui l’unica soluzione è rimanere qui, e quando avrai trovato il tuo posto potrai raggiungerlo, quando vorrai… sei d’accordo?”
Lay non riusciva a smettere di fissare quegli occhi, così intensi. Era così bella, così indifesa e così vicina… avrebbe voluto abbracciarla, stringerla. Voleva sentire l’odore dei suoi capelli morbidi e dirle di indossare di nuovo la sua camicia…
Strinse gli occhi, e abbassò lo sguardo, scacciando quei pensieri dalla sua testa. Che cosa diavolo gli era preso? Non poteva pensare a quelle cose, non certo con Lehna. Non sapeva niente di lei, nonostante da un po’ di tempo a quella parte vivevano insieme sotto lo stesso tetto.
Si era completamente fuso il cervello, o cosa?
“Ehi, stai bene?”
Alzò il suo sguardo sofferto, Lehna gli stava leggermente accarezzando una guancia. Le prese il polso e l’allontanò, cercando di non essere troppo brusco. Biascicò qualcosa a mezza voce.
La guardò di nuovo, sentendosi colpevole di qualcosa che non aveva fatto.
“Grazie, Lay”.
Abbozzò un sorriso, vedendola che ricambiava. Poi, si buttò sui fornelli, mantenendo le distanze da lei.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=306051