Sanguis scripta est - Le grandi battaglie

di TonyCocchi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Azincourt ***
Capitolo 2: *** Isandlwana ***
Capitolo 3: *** Waterloo ***
Capitolo 4: *** Quattro giornate di Napoli ***
Capitolo 5: *** Teutoburgo ***
Capitolo 6: *** Berlino (WW II) ***
Capitolo 7: *** Caporetto ***



Capitolo 1
*** Azincourt ***


hetalia - azincourt

Salve a tutti! ^_^ Rieccomi nuovamente nel fandom di Hetalia!

Sono sempre stato un grande appassionato di storia e in particolare mi ha sempre molto interessato e appassionato l’aspetto militare (armi, tattiche, strategie, curiosità storiche…), quindi, sulla base di altre raccolte di flash e drabble hetaliane che ho letto (in particolare “Coloro che ci resero grandi” e “Nel nome del mondo” di Sachi93, che vi consiglio ^_°) vi propongo anche io la mia raccolta di storie brevi, incentrate sulle battaglie, quelle che più hanno inciso sul corso degli eventi come anche alcune meno conosciute, e ovviamente tutte dal punto di vista delle nostre ben conosciute nazioni!

In realtà non sono sicuro di quanti tasselli si comporrà, né penso aggiornerò con regolarità, sarà una cosa molto sciolta, a seconda delle ispirazioni che mi verranno al momento, ma spero comunque risulti di vostro gradimento, specie per quelli di voi più appassionati di storia come il sottoscritto ^__°

A inaugurare la raccolta, due dei più grandi rivali di sempre, Francia e Inghilterra!

Buona lettura!

 

 

 

 

Azincourt, 25 Ottobre 1415

 

Grida di cavalli vibrano nell’aria.

Grida di uomini, soffocate negli elmi. Soffocate nel fango.

La pioggia ha decretato il loro destino: quella del cielo prima, quella degli inglesi adesso.

Francia è a piedi, il suo destriero è caduto parecchi passi addietro ormai. Ha continuato ad avanzare, mulinando lo spadone, aizzando i suoi, finché due frecce lo hanno raggiunto, l’una alla spalla destra, la seconda all’altro fianco, mozzandogli il fiato.

Ovunque volga lo sguardo vede svolgersi quell’orrendo spettacolo. I suoi cavalieri, il fior fiore della sua nobiltà, della nobiltà di tutta l’Europa, cadono, l’uno dopo l’altro, lenti, goffi, impotenti, senza neanche essere riusciti a raggiungere il nemico.

Loro, addestratisi alla sublime arte della guerra per tutta la vita, periscono per i colpi di un vile nemico che li attacca da lontano, che si fa beffe delle loro colorate insegne e del loro robusto acciaio, piegato con un pezzo di legno e una corda.

Esausto per la fatica di ogni passo su quel pesante terreno e per il sangue versato dalle ferite, si accascia sulle ginocchia. Nelle orecchie il suo respiro roco e affannato.

E grida di cavalli. E grida di uomini.

L’armatura pesa, lo soffoca, quasi non riesce ad alzare il capo, per vederlo avvicinarsi.

Inghilterra si ferma innanzi a lui. Nessuna insegna o usbergo, nessun elmo dal folto pennacchio o fulgore di corazza, solo semplici vesti, bracciali di cuoio, e un sorriso, crudele e affilato, rivolto a lui, a trapassargli lo spirito.

La sua figura oscura quell’unico lembo di sole che il cielo, grigio di nuvole, avido concede quel triste dì. Il dì in cui il giglio annega nella fanghiglia, e il leone gli ride in faccia.

Il dolore delle ferite, il rumore del suo respiro, i lunghi capelli sporchi sulla faccia, l’ombra del nemico su di sé, l’impotenza nel vederlo incoccare.

La corda che si tende scricchiola come la vecchia, misera porta della buia morte che si apre per lui.

Il cavaliere ha perso, ogni cosa: il suo cavallo, il suo elmo, i suoi compagni, il suo orgoglio.

Inghilterra ride, e punta alla sua fronte.

Grida di cavalli. Grida di uomini.

Il silenzio di una nazione che non ha più speranza alcuna.

 

 

 

 

La battaglia di Azincourt fu un momento cruciale della Guerra dei Cent’Anni e sicuramente, per la Francia, il momento più buio in assoluto. L’esercito francese, composto della migliore cavalleria pesante del tempo, molto più numeroso e addestrato, si lasciò sconfiggere da una forza inglese molto inferiore di numero, in ritirata verso il proprio paese, composta essenzialmente da “plebei” arcieri. Il terreno, per via delle piogge dei giorni precedenti, era un pantano, e gli inglesi, complice il troppo calmo atteggiamento dei francesi (neanche a dirlo sicuri di una facile vittoria), ebbero persino il tempo di piazzare pali acuminati dinanzi le loro file d’arcieri a ulteriore protezione dalle cariche della cavalleria avversaria.

Sotto il tiro incessante degli archi lunghi, rallentati dal fango, i cavalieri francesi dapprima si fecero massacrare, poi, nel ritirarsi in disordine, scompaginarono le fila della loro fanteria che avanzava, creando un caos in cui gli inglesi ebbero gioco facile.

Dopo la sconfitta, la Francia fu costretta a riconoscere il diritto dell’erede al trono inglese di salire anche su quello francese.

Solo l’avvento miracoloso, di lì a poco, di Giovanna D’Arco, avrebbe potuto risollevare le sorti di una nazione ormai rassegnata…

 

INFO

Battaglia di Azincourt: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Azincourt
Arco lungo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Longbow

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Capitolo 2
*** Isandlwana ***


Salve a tutti! Non male, due flashfic in rapida successione (va bene che sono appunto flashfic… XD) ^__^ Peccato a breve dovrò tornare a studiare: la pacchia sta per finire, ahimé… Ma spero che l’ispirazione continui a toccarmi, in modo che possa narrarvi di altri epici e tragici scontri dal punto di vista delle nazioni di Hetalia.

Nello scorso capitolo abbiamo visto Inghilterra trionfare, ora invece è il suo turno di soccombere: la storia ne ha per tutti, nessuno escluso! Buona lettura!

 

 

 

 

Isandlwana, 22 Gennaio 1879

 

“Portate altre munizioni!”
“Non ce ne sono, signore!”
“Trovatele! Subito!”

Ogni nazione possiede una o più cicatrici di cui va particolarmente fiera.

Così era per Inghilterra, che quel giorno conobbe l’ardore dinanzi a cui anche l’orgoglio dell’impero più potente del mondo scende dal piedistallo, quello stesso orgoglio che tante altre volte aveva portato i grandi come lui verso la rovina.

Non v’era in lui alcuna vergogna, se non quella per i propri errori, nell’essersela procurata contro gli ultimi degli ultimi. I primitivi. I selvaggi.

Quel giorno erano dappertutto. Più ne cadevano, più ne arrivavano, sciamavano, giù dalle alture, da ogni direzione: davanti, sulla destra, sulla sinistra, e non si fermavano, malgrado il piombo, malgrado i cannoni, malgrado la storia avesse già decretato il loro destino. Cadevano a centinaia, come bestie al macello, come tali li aveva sempre visti ogniqualvolta vi si era scontrato, e nella sua spocchia non si rese conto finché non furono loro addosso, finché uno di essi saltò, altissimo, oltre i caschi di sughero e le baionette d’acciaio dei suoi uomini, vicinissimo da oscurargli il sole.

Tra le pelli d’animale e le piume di struzzo, incastonati in quella pelle d’ebano, due occhi fiammeggianti come gemme, puntati su di lui come il leone punta una pavida, sgomenta antilope. Un grido raccapricciante e quella lancia cadde giù, sul suo petto, trapassandolo.

Non significò nulla per una guerra già vinta, ma per Inghilterra significò una dolorosa lezione d’umiltà e rispetto.

La cicatrice che gli era stata inferta era la cicatrice di un continente intero.

Popoli fieri, che non si sarebbero fatti spazzare via, docili, senza combattere.

Persone vere, che non si rassegnarono a soccombere solo perché così era scritto.

Leoni veri, e non per via di uno stemma.

 

 

 

 

La battaglia di Isandlwana è uno dei rari esempi nella storia del colonialismo in cui i nativi riuscirono ad avere la meglio su un esercito occidentale. Un reparto accampato di circa 1800 inglesi, complici alcuni errori di valutazione, venne sorpreso e pressoché annientato da una forza di 20.000 guerrieri Zulu.

Sulle prime, forti del fuoco delle loro armi moderne, i britannici riuscirono a contenere l’impeto degli africani, ma questi, con indomito coraggio e selvaggia ferocia, proseguirono nell’assalto fino a raggiungere le linee dei nemici, ormai a corto di munizioni: circondati da una manovra aggirante, furono in pochi a salvarsi. L’evento ebbe un enorme risonanza in patria e costrinse gli inglesi a sospendere momentaneamente le loro iniziative d’espansione contro il regno degli Zulu.

L’evento è raccontato nel dettaglio dal film del 1979 “Zulu Dawn”.

 

INFO

Battaglia di Isandlwana: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Isandlwana

Foto di guerrieri Zulu: https://calafiazulus.files.wordpress.com/2011/07/zulu-the-most-fearsome-black-warriors-2.jpg

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Capitolo 3
*** Waterloo ***


18 Giugno 1815

 

“La Garde recule! La Garde recule!”

Così dunque finiva. Con tre sole parole.

“La Garde recule!”

Tre parole a siglare la fine di un epopea, il crollo di un sogno, e l’inizio del mito.

La Vecchia Guardia indietreggiava, nemmeno lei era stata capace di risollevare le sorti della battaglia, e ormai nulla avrebbe arrestato il panico e lo sconforto dallo spandersi tra le loro fila. Negli anni e nei secoli a venire libri sarebbero stati scritti, gesta narrate, poemi decantati, oceani di capitoli, paragrafi, frasi, aforismi, ma per adesso bastavano tre parole a dire che tutto finiva quel giorno.

Francia era ovviamente al suo fianco anche in quell’occasione. Dall’alto della sua lunghissima vita da nazione aveva ben chiaro che neanche il più grande degli uomini e le sue opere più mirabili sono eterne, che ogni ascesa è preludio di una caduta: in fondo l’aveva sempre saputo, ed ora che il momento era arrivato, avrebbe condiviso con lui i più tragici giorni come quelli più gloriosi, con quello smisurato coraggio con cui egli aveva sempre vissuto.

Gli occhi del suo imperatore erano imperscrutabili come sapeva sarebbero stati nell’ora fatale. Non poteva fare a meno di chiedersi cosa celassero: smisurato orgoglio per le imprese che aveva compiuto e che non sarebbero mai potute essere cancellate qualunque corso la storia avesse preso d’ora in avanti; oppure profonda amarezza nell’assistere in prima fila al venire meno, e stavolta per sempre, ad anni di sforzi, fatiche, progetti, lacrime e sangue versato, quanto aveva patito per essere lì quel giorno solo per vedere tutto vanificato.

A cosa pensi, mio imperatore, mio amico, mio più grande eroe.

Mentre l’esercito si metteva in rotta, i soldati della Guardia intorno a loro, senza quasi venisse loro ordinato, si schierarono in quadrato attorno al grande generale, e con ordine presero a indietreggiare a piccoli passi, decisi a portarlo via al sicuro, anche a costo della vita. Francia e il suo imperatore si lasciarono condurre via, senza mai distogliere lo sguardo dal nemico: di innumerevoli battaglie affrontate insieme quella sarebbe stata l’ultima, non avrebbero certo girato le spalle al pubblico proprio al momento degli applausi.

 

 

 

La celebre battaglia di Waterloo segnò la fine dell’epopea napoleonica. Tornato in Francia dall’esilio dell’isola d’Elba e riconquistato velocemente il potere, tra l’entusiasmo generale dell’esercito e del popolo, Napoleone dovette subito fronteggiare l’ennesima coalizione di stati europei che non tardò a mobilitarsi (la Settima, composta da Inghilterra, Russia, Prussia e Austria). Lo scontro avvenne a Waterloo, nell’odierno Belgio, tra francesi, inglesi e prussiani: fu una battaglia lunga e sanguinosa, con vari rovesci, su cui incise molto la pioggia dei giorni precedenti, che influenzò la mobilità delle artiglierie, uno dei punti di forza della tattica del geniale imperatore.

La sorte venne segnata con l’arrivo sul campo di battaglia dell’esercito prussiano; Napoleone tentò un ultimo attacco con i suoi reparti d’élite, la Vecchia Guardia, che non andò però a buon fine. La vista della sconfitta delle truppe scelte, ritenute invincibili, scosse in modo decisivo il morale della fanteria francese; si diffuse rapidamente il panico e tra le fila francesi serpeggiarono le grida "La Garde recule!" (“La Guardia si ritira!)”, e lo sbandamento si estese velocemente lungo tutto lo schieramento di Napoleone.

Benché quella di Waterloo sia stata per il corpo della Guardia Imperiale la giornata più triste, questi reparti si distinsero eroicamente non solo nella battaglia, ma soprattutto nella ritirata, coprendo egregiamente l’esercito francese allo sbando (e salvando la vita al loro imperatore), al costo di perdite ingenti.

Poco tempo dopo Napoleone sarebbe stato mandato in esilio a Sant’Elena, ma ormai la Rivoluzione Francese e la parentesi bonapartiana non potevano essere cancellate e avrebbero fatto sentire il loro peso anche sulla storia futura.

 

 

INFO

Battaglia di Waterloo: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Waterloo

Guardia Imperiale (Napoleonica): http://it.wikipedia.org/wiki/Guardia_imperiale_%28Primo_Impero%29

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Capitolo 4
*** Quattro giornate di Napoli ***


30 Settembre 1943

 

Inconcepibile! Inaudito! Imperdonabile!

Non bastava agli italiani essersi rivelati degli alleati inaffidabili e poi dei vili traditori, osavano anche fargli un simile affronto?

Lui, Germania, che aveva rinchiuso Inghilterra nella sua casa sotto una pioggia di bombe, vedeva la sua immane, superiore potenza, messa in scacco da un popolo di cenciosi. Lui, che aveva ridotto in ginocchio gente del calibro di Francia e Russia non era riuscito a piegare una massa di ribelli cafoni. E ora, a maggior umiliazione, si vedeva preso prigioniero da una masnada di ragazzini poco meno o poco più che imberbi!

Bambini, che parevano star nient’altro che giocando alla guerra, solo con le armi vere; adulti in miniatura ma fatti e finiti, resi tali dalle durezze della vita e della guerra, lo circondavano, lo spintonavano su e giù per i vicoli della città a loro piacimento, gridando, saltando, esultando, facendosi beffe di lui in quel loro incomprensibile, volgare dialetto, dopo avergli sottratto pistola, medaglie, il berretto da ufficiale, forse tutto meno che la divisa. Frastornato dall’assurdità di ciò che gli stava accadendo, si limitava a stringere i denti e imprecare.

Maledetti napoletani e maledetta la loro città! L’avrebbe ridotta in cenere e fango!

Il corteo di giovanotti a un tratto si fermò, e il potente prigioniero incrociò gli occhi con il fratello del suo inutile alleato Italia, il suo meridione; addosso una camicia bianca sporca di polvere e sangue, un fucile a tracolla, se ne veniva giù dalla via incrociando il loro passo.

“Ué, uagliò! E dove lo portate a questo qua?”

“Questo è o’ nostro prigioniero!”

“L’avimma catturato nuje!”

“E chi ve lo tocca! Solo, permettete una piccola soddisfazione?”

Germania, che mai, neanche prigioniero, si sarebbe lasciato intimorire da un avversario tanto infimo, gonfiò il petto e lo incenerì con un’occhiata, ma questi non era affatto interessato a cercare lo sguardo di chi gli aveva portato la morte in casa, anzi, senza una parola, a passo tranquillo, scomparve alle sue spalle… Per poi ricomparire come il forte, bruciante dolore di un calcione nel sedere.

Così, cadeva chi era giunto a Napoli con un carico di armi e prepotenza, tra i lazzi e le risate che i bambini, di nuovo tali, riservano a un adulto che casca per terra.

Da quel giorno, da quei quattro giorni, Germania non mancò mai di portare il dovuto rispetto a quel povero, sfaccendato, imbelle di Romano, che molti, troppi, dimenticavano, e dimenticano tutt’ora, essere anche lui Italia.

 

 

 

Le Quattro Giornate di Napoli (27-30 Settembre 1943) furono il primo caso in cui la Wermacht, l’esercito tedesco, venne costretto a trattare alla pari con una popolazione civile insorta.

Con l’armistizio dell’8 Settembre e lo sbandarsi dell’esercito italiano, i tedeschi occuparono velocemente la penisola, Napoli inclusa, la quale conobbe da subito innumerevoli episodi di violenza e sopraffazione da parte degli ex-alleati. La popolazione civile, esasperata dalle angherie, dai rastrellamenti, e infine dal tentativo di deportare 30.000 persone per il lavoro coatto in Germania, insorse: infuriato, Hitler, ordinò che la città venisse ridotta in “cenere e fango”, ma quando il 1° Ottobre i carri armati alleati entrarono a Napoli, la trovarono già liberata e pacificata.

Ai quattro giorni di intensi combattimenti presero parte uomini, anziani, donne e persino ragazzini: gli “scugnizzi”, giovanissimi, poveri, molti orfani, spiccarono per coraggio nella lotta contro uno dei più potenti eserciti di allora, sgattaiolando fin sotto i carri armati nemici per potervi scagliare contro granate e bottiglie incendiarie.

Per l’episodio, la città di Napoli venne insignita della Medaglia d’Oro al Valore Militare.

Il film del 1962, “Le Quattro Giornate di Napoli”, narra nel dettaglio svariati episodi dell’evento.

 

INFO

Quattro giornate di Napoli: http://it.wikipedia.org/wiki/Quattro_giornate_di_Napoli

Gennaro Capuozzo (caduto ad appena 12 anni, insignito della Medaglia d’Oro al Valore Militare): http://it.wikipedia.org/wiki/Gennaro_Capuozzo

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Capitolo 5
*** Teutoburgo ***


Anno 9 D.C.

 

 

 

“VARE!”

Non c’era, dalle più vaste sale ai più angusti cubicoli degli schiavi, un angolo nell’intero palazzo in cui non s’arrivassero ad udire quelle grida. Sempre lo stesso nome, la stessa frase. In alcuni momenti le parole ruggivano intrise di cieca furia, in altri frammentate da gemiti di cupa, dolorosa disperazione.

“MIHI LEGIONES REDDERE! VARE!”

Così era stato l’intero giorno prima, e il giorno prima ancora.

Roma, ritiratosi in disparte nei suoi alloggi sin dal suo ritorno dal nord, disteso su un triclinio, tra soffici cuscini imbottiti cercava inutilmente di riposare, di riprendersi dalle ferite, quelle del corpo ma soprattutto quelle dello spirito.

Ma non ci sarebbe riuscito, anche senza avere nelle orecchie le urla a squarciagola del suo Princeps Imperator, ridotto a un folle vaneggiante dal momento stesso in cui gli era giunta la notizia. Una cosa è la notizia di un disastro, un’altra è essercisi trovato nel bel mezzo.

Le voci spezzate dei compagni, fidi legionari dell’Urbe, sempre più distanti dietro di sé, che lasciato in pasto ad umana paura il suo orgoglio di milite invitto, si precipitava col cuore in gola tra le buche, i pantani, gli imponenti alberi e le asperità della oscura selva. Fuggiva, Roma, lasciandosi alle spalle uomini, aquile dorate, e quella che sembrava l’ennesima conquista. Inciampava di continuo: i rami e i sassi lo graffiavano e lo ferivano, il fango gli inzaccherava la corazza, ma mai si sarebbe fermato, perché non c’era nulla lì intorno che non temesse.

Nell’ombra impenetrabile della foresta, nel gelo di quella terra selvaggia come i suoi abitanti, Roma si guardava intorno, trasaliva e gemeva ad ogni rumore di ramoscello spezzato, ad ogni fruscio, ad ogni ondeggiare di rami al vento, ad ogni ombra, sinistra, intravista dietro una delle immense colonne di legno tutto intorno. Perché tra quelle ombre lo stava osservando, seguendo, come un lupo la preda. Lo percepiva in ogni attimo e di sfuggita, dietro gli alberi avvolti nella bruma, riusciva a scorgerlo: appariva e scompariva, come uno spettro del Tartaro. Per singoli attimi incrociava quegli occhi, come lame di ghiaccio puntate su di lui, brillanti come diamanti in quel folto intrico, piccoli lampi impassibili, crudeli, fissi su di lui che aveva osato avventurarsi lì dove non doveva, troppo oltre anche per lui.

Rivedeva ora quello spettro, quel gigante dai biondi capelli, nei suoi incubi.

Incubi che forse sarebbero cessati un giorno, ma qualcosa gli era rimasto dentro e vi aveva posto salde radici. Lui, Roma, l’impero più potente di tutti i secoli, aveva guardato dritto negli occhi il suo opposto, e aveva imparato ad averne paura.

“VARE!”

Lui, la luce della civiltà, non avrebbe mai più osato penetrare il fosco di quel santuario di selvaggia, fiera, indomabile arretratezza.

“VARE!”

In cuor suo ne era certo: Germania non sarebbe mai stato suo.

 

 

 

La Battaglia di Teutoburgo fu un autentica disfatta per Roma: tre intere legioni (circa 15.000 uomini), sotto il comando di Publio Quintilio Varo, in marcia in colonna attraverso la selva tedesca furono completamente annientate da un imboscata dei barbari germani capeggiati da Arminio, in precedenza alleato dei romani stessi.

Sotto il principato di Ottaviano Augusto, la Germania si avviava a diventare una provincia romana a tutti gli effetti, ma il governatore Varo si comportò in maniera dispotica con gli “incivili” germani, accrescendone il risentimento verso i conquistatori. Accecato dalla sua  presunzione di superiorità, non sospettò minimamente che Arminio, capo della tribù dei Cherusci, una delle sue guide, fosse in realtà il capo della ribellione: questi condusse i romani su un terreno impervio dove furono facili prede di un imboscata, dalla quale, stanchi per la lunga marcia, fiaccati dal freddo, non poterono che uscirne massacrati (lo stesso Varo, vistosi perduto, si suicidò) e, se presi vivi, torturati. A ulteriore disonore, le tre aquile-insegne delle legioni andarono perdute, e solo due di esse poterono essere recuperate nel corso di una spedizione punitiva anni dopo.

La notizia fece immenso scalpore nell’impero. Si narra che Augusto, per il dolore dell’accaduto, abbia pianto per giorni, continuando a chiamare Varo perché gli restituisse le sue legioni (“Vare, mihi legiones reddere!”, ovvero “Varo, ridammi le mie legioni!”).

Al di là della perdita di uomini e onore però, a funestare Augusto c’era sicuramente il pensiero che la Germania era stata perduta per sempre: il confine venne posto sul fiume Reno che divenne lo spartiacque tra l’Impero e la barbarie per secoli.

Indubbiamente, senza Teutoburgo, con una Germania pacificata e romanizzata, il corso della storia dell’Impero Romano e dell’umanità sarebbe potuto andare diversamente…

 

 

INFO
Battaglia di Teutoburgo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_foresta_di_Teutoburgo

Arminio: http://it.wikipedia.org/wiki/Arminio

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Capitolo 6
*** Berlino (WW II) ***


Salve a tutti, cari lettori! ^__^

Come avete visto questa raccolta procede, e sebbene sia aggiornata molto saltuariamente (come detto è subordinata alle mie ispirazioni del momento più che a un progetto definito), i commenti sono positivi, sembra anche per l’originalità degli argomenti trattati. Inutile dire che mi fa molto piacere e vi ringrazio di cuore! Magari se volete proporre voi qualche battaglia alla mia attenzione fate pure nei commenti ^__°

Vi lascio ora al prossimo tassello, un tassello abbastanza tragico… Buona lettura!

 

 

 

 

1° Maggio 1945

 

La piazza, grigia e deserta, ascoltò il rumore di cingoli e acciaio farsi sempre più vicino.

Il carro armato penetrò in quel desolato vuoto e vi si fermò, dinanzi il palazzo, un tempo bello e potente, ridotto a uno scheletro smorto.

Russia e sua sorella minore fecero capolino dal tetto: tolsero i caschi e fissarono insieme la costruzione in sfacelo, trovandola a dir poco perfetta. Men che in un dettaglio.

Eccitata come una bambina, lei chiese di poter provvedere, e suo fratello, sorridendole dolcemente glielo accordò. Bielorussia allora scese dal mezzo e ridendo, saltellando, e intonando “Kalinka”, entrò nel Reichstag, salì le scale, arrampicandosi così fino al tetto come fosse stato un bellissimo gioco.

Slegò la bandiera di Germania dal pennone, ci sputò sopra, e poi la lanciò nel vuoto, come uno straccio vecchio.

“Poljubi že ty menja! Aj-ljuli, ljuli, aj-ljuli, Poljubi že ty menja!” – canticchiò mentre legava e issava la loro bandiera, rossa di libertà e sangue, che garrì subito, a scherno della città morta intorno a sé.

Russia, dalla piazza, rispose al saluto che la sorellina gli faceva da lassù.

Il suo sorriso era più ampio e splendido che mai: che spettacolo meraviglioso! Come poteva non sentirsi così felice?

Alle sue orecchie giungevano, attraverso le vie e le macerie, i dolcissimi suoni degli ultimi spari dei poveri pazzi, spesso così giovani, che non vedevano l’ora di morire, e che i suoi soldati accontentavano ben volentieri; delle grida di donne e bambine stuprate in ogni angolo della città, tanto simili a quelle che prima aveva dovuto udire in casa sua per causa loro; del pianto dei vecchi, che domandavano al cielo perché avevano dovuto vivere tanto a lungo da ammirare simili follie e sciagure.

Prese un bel respiro e sorrise ancora di più.

Che giornata magnifica!

 

 

 

Furono due sergenti dell’Armata Rossa, Egorov e Kanthria ad issare la bandiera con la falce e il martello sul tetto del Reichstag il 1° Maggio 1945. Sette giorni dopo la Germania si arrese incondizionatamente agli alleati, ponendo fine alla guerra in Europa (Hitler si era suicidato nel suo bunker già il 30 Aprile).

Nel 1945 il destino della Germania Nazista era segnato, stretta ad ovest dagli angloamericani e ad est dai russi; furono questi ultimi a giungere per primi alla capitale dei Reich. Si confrontarono così, dal 16 Aprile al 2 Maggio, da un lato l’inarrestabile potenza e spietatezza dei sovietici, dall’altra il fanatismo visionario dei tedeschi, alcuni dei quali continuarono a vaneggiare di un’impossibile vittoria fino alle ultime fasi di quel tragico assedio: per contrastare gli invasori furono chiamati alle armi persino anziani e ragazzini, un tentativo folle quanto vano.

Nelle ultime fasi della battaglia, le superstiti forze armate tedesche cercarono di sfondare verso ovest, in modo da cercare di farsi prendere prigionieri dagli inglesi o dagli americani.

Non fu comunque una passeggiata per le preponderanti forze sovietiche, che ebbero a contare più di centomila morti… Le peggiori sciagure tuttavia, come sempre in questi casi, si abbatterono sulla popolazione civile. I berlinesi, con la loro città ridotta a un cumulo di macerie, si ritrovarono a subire saccheggi, violenze e stupri di massa, e angherie di ogni genere da parte dei vincitori.

 

 

 

INFO

Battaglia di Berlino: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Berlino

Volksstrurm (Milizia popolare): http://it.wikipedia.org/wiki/Volkssturm

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Capitolo 7
*** Caporetto ***


Ciao a tutti, gente che legge! ^__^ A breve ci sarà il Napoli Comicon! *__*

Il mio lato nerd ovviamente è tutto in fermento! XD Nell’attesa, assecondo le mie fulminee ispirazioni e vi regalo un altro tassello di questa storia di forti sentimenti, ardue lotte e passate glorie ^__°
Buona lettura a tutti!

 

 

 

12 Novembre 1917

 

La colonna di italiani in pieno sbando si trascinava faticosamente.

Rallentata dal melmoso terreno autunnale, dalla lunga fila di carretti e veicoli, dal marciare strascicato dei militi affranti e delle centinaia di civili sfollati ancora più disperati, la camionetta non faceva che fermarsi e ripartire; e la strada era ancora lunga: era stata ordinata la ritirata fino alla linea del Piave.

Con Romano ad occuparsi della guida, Feliciano aveva la mente libera per rimuginare senza sosta.

Per un attimo ci aveva quasi creduto: l’inutile, debole Italia, la “vorrei ma non posso” delle potenze europee, che ne azzecca una, che si prende le sue rivincite, che riesce a battere Austria e il suo grande impero. Invece eccoli sconfitti e in ritirata, dopo tanti sacrifici nelle trincee, il fronte sfondato, Venezia minacciata, un esercito sul punto di sfaldarsi del tutto… E forse, una volta vinto, Austria avrebbe sfaldato di nuovo anche lui, e gli avrebbe portato via tutto quello che con coraggio e fatica era riuscito a costruire…

Forse Inghilterra e Francia avevano sbagliato ad entusiasmarsi quando aveva offerto loro aiuto. Forse un debole come lui non era fatto per essere una nazione a sé. Forse doveva tirar fuori la bandiera bianca come suo solito, era l’unica cosa che gli riusciva.
Romano, già innervosito dalla guida, non lo perdeva un attimo con la coda dell’occhio, e quando il fratellino cominciò a singhiozzare, ne ebbe fin sopra i capelli.

“E che cazzo, no!”

Inchiodò, e mancò poco che Feli prendesse una sonora nasata sul cruscotto.

“Romano…”
Gli assestò un ceffone in faccia e poi lo tirò a sé per la collottola della divisa.

“Ehi! Ti riprendi?”

“……”

“Ti riprendi?” –domandò l’Italia a sé stessa.

“Mi riprendo…”
“Ti riprendi?”
“Mi riprendo!”
“Bene!”

“Mi riprendo…”

“Sarà meglio!”

Lo mollò ad asciugarsi gli occhi e tirò un sospiro: che fatica con lui!
“Ehi, lì davanti! Volete muovervi?” –gridò qualcuno insieme a un clacson.

“Col cavolo!”

Gli stivali di Romano saltarono giù dal mezzo in quella fanghiglia che era pur sempre la loro terra.
“Noi non ci muoveremo più di un passo!”

Feliciano rialzò gli occhi: cosa avrebbe mai fatto senza di lui?

 

 

 

La battaglia di Caporetto (termine ancora oggi usato nella lingua italiana per designare una disfatta) venne combattuta dal 24 ottobre al 12 novembre 1917.

L’esercito austriaco, forte anche di rinforzi tedeschi, riuscì a travolgere le truppe italiane, fiaccate da continue offensive nei mesi precedenti risoltesi in dei nulla di fatto (complici poi vari errori degli spesso inetti quadri di comando), costringendole ad arretrare fino al fiume Piave, a pochi chilometri da Venezia. Durante la ritirata oltre un milione di persone furono costrette ad abbandonare le proprie case al nemico in piena e in apparenza inarrestabile avanzata. L’avvenimento destò scalpore e spavento: si temette addirittura che la stessa unità nazionale, raggiunta dopo tanti sforzi cinquanta anni prima, potesse essere messa nuovamente in discussione.

Caporetto non rappresentò tuttavia la fine dell’Italia, ma il punto di svolta: gli austriaci vennero fermati sul Piave, e la sostituzione al comando del regio esercito dell’impopolare generale Cadorna con il generale napoletano Armando Diaz si rivelò vincente.

Questi, ricostituiti l’unità e il morale delle truppe, condusse le forze italiane per il resto del conflitto, fino alla vittoria definitiva nella battaglia di Vittorio Veneto.

 

INFO

Battaglia di Caporetto: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Caporetto

Armando Diaz: http://it.wikipedia.org/wiki/Armando_Diaz

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