La leggenda del violinista sull'oceano

di Inathia Len
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo -Suonata per tromba e violino ***
Capitolo 2: *** 1. Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock ***
Capitolo 3: *** 2 Ehi, Conn, qual è il problema, non sai andare sull'acqua? ***
Capitolo 4: *** 3. Duello con l'inventore del jazz ***
Capitolo 5: *** 4. La Donna ***
Capitolo 6: *** 5. Scendere ***
Capitolo 7: *** 6. Qualcosa nell'ombra ***
Capitolo 8: *** Epilogo - E tutto quel tempo non tornerà mai ***



Capitolo 1
*** Prologo -Suonata per tromba e violino ***


 

 

 

 


Prologo



L’aria era pesante, la strada bagnata e piena di pozzanghere in cui si specchiava la luna, che osservava tutto dall’alto, come sempre. Tutto era lucido di pioggia, tutto aveva ancora quell’odore che sembrava dirti “Oh, attento! Perché prima è venuto giù il diluvio universale… ma non è detto che non ricapiti, eh! Attento!”. E se ti guardavi attorno, non ci vedevi nessuno per strada, perché nessuno era così fesso da andare in giro a quell’ora della notte… o del giorno, che dir si voglia… nessuno era così fesso da uscire di casa, calcarsi il capello sulla testa, infilarsi l’impermeabile e mettere piede fuori dall’androne del proprio palazzo. Nessuno. Nessuno avrebbe lasciato il calore del focolare, del letto, di una moglie affettuosa…

Eppure, un uomo c’era. Un uomo che se ne andava per le strade con il passo di chi ha fretta e al tempo stesso preferirebbe non averne. Il passo di chi ha visto e vissuto troppo, ma non rimpiange nemmeno un istante…

John Watson camminava così, lo sguardo fisso a terra per evitare che le scarpe, non più nuove da quasi dieci anni, si rompessero definitivamente e imbarcassero più acqua del necessario. Così camminava quasi come un bambino, che gioca con se stesso a non pestare le righe per terra… solo che John Watson evitava le pozzanghere e malediceva mentalmente i pochi spiccioli che si ritrovava in tasca, che l’avevano costretto a uscire a quell’ora. Ma si sa, allo stomaco non si comanda… e lo stomaco di John Watson erano giorni che lo insultava e ringhiava per ottenere qualcosa di più di quello che si poteva permettere con i pochi soldi che guadagnava suonando la tromba nei bar e nei caffè.

E così camminava, il passo spedito e appena un po’ zoppo, lo sguardo fisso a terra e la tromba sotto il braccio, chiusa nella custodia nera che era stata la sua casa per quasi quindici anni. Aveva una meta ben precisa in mente, ma non aveva bisogno di alzare lo sguardo per controllare di essere nella direzione giusta. John Watson si fidava dei propri piedi, piedi che avevano visto e camminato di tutto. E sapeva che, anche quella volta, l’avrebbero portato dove doveva.

La sera attorno a lui era nera come la pece, si potevano vedere appena i tre metri davanti al proprio naso e poi basta. Poi potevi anche andare a sbattere contro un palo, che tanto non c’era nessuno che l’avrebbe potuto raccontare. I lampioni c’erano, sì, ma erano più quelli spenti e mal funzionanti che gli altri. Ma alla fine ci facevi l’abitudine. Soprattutto se, come John Watson, anche tu avevi una fede incrollabile nei confronti dei tuoi piedi.

Il negozio che era la meta dell’uomo, faceva angolo tra la strada principale e una vicoletto deserto, che sapeva di piscio e di umido, dal quale già si levava il russare di qualche senza tetto. Era un negozio piccolino, tutto vetrate e legno, con sopra l’insegna che recitava “F. Andom & sons. Compro e vendo musica” scritto in una vernice dorata che il tempo e le intemperie avevano fatto diventare sempre più scrostata e deprimente, facendo assumere alle lettere una sfumatura marroncina.

John Watson si fermò davanti alla porta, fece più salda la presa sul manico della custodia della tromba e poi prese un bel respiro. Nonostante il negozio fosse mezzo vuoto e l’orario fosse più prossimo a quello di apertura che di chiusura, gli avevano detto che Frank Andom praticamente viveva là dentro e che era sempre sveglio per un buon affare. Dei “sons” di cui parlava l’insegna, nessuno aveva mai saputo nulla.

Aprire la porta fu più difficile di quanto avesse pensato inizialmente. Non era chiusa, ma sembrava opporgli resistenza, quasi il legno e il vetro fossero contrari alla sua decisione. Ma lo stomaco protestò di nuovo e John Watson mise a tacere i dubbi ed entrò quasi con una spallata. Il suo ingresso venne sottolineato dalla porta che sbatteva alle sue spalle e un leggero scampanellio.

L’interno del negozio gli fece quasi salire le lacrime agli occhi. Per uno che aveva sempre voluto vivere di musica, quello era quanto di più simile ci fosse al Paradiso Terrestre: dietro un bancone di legno scuro, dove in altri negozi ci sarebbero stati magari dei fucili o delle bottiglie di marca, faceva bella mostra di sé la più grande collezione di ottoni che John Watson avesse mai visto. In ordine, stavano tromboni, tube, bassi tube, corni francesi, cornette in si bemolle, trombe basse… tutti perfettamente lucidi e che sembravano chiamarlo con l’antico canto delle sirene tentatrici. In vetrina, prima di entrare, aveva visto violini, violoncelli, viole e contrabbassi, ma si era imposto di non pensarci. Se si fosse messo a pensare a quello, avrebbe sicuramente fatto retro front e sarebbe tornato di filato al caffè dove aveva l’ingaggio per quella sera…

Nella parte sinistra del negozio, pianoforti vecchi e nuovi, a coda o a parete… ce n’erano persino un paio dai colori improbabili, probabilmente fatti su commissione e poi venduti dopo la crisi del ’29. John Watson la ricordava bene… anche se dov’era lui la crisi si era sentita decisamente meno.

A vedere tutti quegli strumenti, gli sembrava quasi di poterli sentire suonare, suonare quella musica che lui aveva avuto l’onore di sentire… la musica degli dei…

-Siamo chiusi.-

Il signor Frank Andom era sbucato alle sue spalle mentre John Watson aveva gli occhi chiusi per trattenere le lacrime e i ricordi. Era un vecchietto curvo, bianco di capelli –e ne aveva ancora parecchi per essere uno che poteva aver vissuto la Rivoluzione Americana- e dagli occhi neri penetranti. Fissava John Watson –o meglio, la custodia che teneva stretta in mano- con cupidigia, ma la bocca sottile era storta in una smorfia che non faceva ben sperare.

-Siamo chiusi- ribadì, gettando fuori la parole quasi volessero suonare come un insulto. -Non ha visto il cartello? Se ne vada…-

-Mi avevano detto che per un buon affare lei è sempre aperto- obiettò John Watson, prendendo un respiro profondo.

Il signor Andom gli si fece più vicino, lo guardò dal basso verso l’alto –non che avesse molte alternative- e poi inarcò un sopracciglio e stirò la bocca in un ghigno.

-Io non vedo nessun affare. Solo un giovanotto che vuol far perdermi tempo. Chiuda bene la porta dietro di sé quando esce. È una brutta serata e questo ventaccio maledetto mi ha già fatto cambiare tre volte il vetro in un mese…- borbottò, tornando sui suoi passi e scomparendo dietro il bancone, in quello che sembrava un corridoio buio e senza fine.

-Signore, aspetti… io… ehm… sono qui per vedere la mia tromba- confessò tutto d’un fiato John, facendo bloccare il vecchietto sul posto. Metà alla luce, metà al buio. Non si voltò, ma era già un passo avanti, secondo John. –Sono qui per venderla- ribadì, poggiandola sul bancone e aprendo la custodia.

-Da come la teneva stretta, sembrava più intenzionato a portarla a casa dei suoi genitori per annunciare il fidanzamento- commentò Frank Andom, girandosi e salendo su uno sgabellino che gli consentì di osservare bene la tromba. La prese in mano, la guardò dentro e fuori, pigiò i pistoni uno alla volta e poi tutti insieme. Poi tirò un cricco alla campana, poi un secondo… e alla fine la riappoggiò nella custodia, riportando lo sguardo su John.

-Nove sterline e cinquanta, non un centesimo di più- disse, l’aria di uno che ti stava facendo un grosso favore.

John si ritrovò a balbettare cose senza senso, quasi oltraggiato dal prezzo che il vecchietto gli aveva fatto. E va bene che era disperato, e va bene era un signor nessuno e che non c’era mai stata la fila per sentirlo suonare, ma…

-Questa tromba è la mia vita!- protestò, Frank Andom che lo guardava disinteressato. –Insomma, varrà ben più di una decina di dollari, Cristo!-

-Se la mette così, non arriviamo a mezza corona- lo derise l’altro. –Ora, come lo ho già detto, chiuda bene la porta quando esce, senza sbattere.-

-Oh… ma… Ah! E va bene. Nonno, hai vinto tu. Tienitela- si arrese alla fine, vedendo che Andom non alzava la sua offerta. –Ma sappi che ti sei comprato un pezzo di storia- aggiunse, contando i soldi che gli erano stati messi in mano, quasi a voler essere sicuro di non essere ulteriormente truffato. Ma c’erano tutti… c’erano tutti…

Era fatta, ciò per cui era uscito di casa era fatto. Il vecchietto fece anche una qualche battuta sul fatto che si sarebbe dovuto andare a comprare qualcosa di caldo da mangiare, forse per tirargli su il morale. Non sembrava cattivo, ora che lo osservava bene. Con il suo maglioncino senza maniche e il papillon, era anche elegante, a modo suo. E decisamente vestiva meglio di lui, che da giorni aveva addosso lo stesso completo sformato.

Lo vide accatastare quella che fino a pochi attimi prima era stata la sua tromba sopra un mucchio disordinato di altri strumenti. Sembrava così piccola e inutile, trascurabile… era stata la prima e unica tromba che avesse mai avuto. Se l’era tenuta stretta durante la guerra, non l’aveva venduta nemmeno nei periodi di crisi più nera… e ora, solo perché non riusciva a mettere a tacere il ringhiare del proprio stomaco, aveva ceduto.

-Me la faccia suonare almeno un ultima volta- quasi piagnucolò, sentendosi un perfetto idiota. Ma aveva accarezzato e pigiato quei pistoni per quindici anni… era dura dirsi addio e voltare le spalle come si esce dal bagno dopo che si è tirata l’acqua. Non è proprio la stessa cosa. E di certo la sensazione non era la stessa. Perché, delle due, John Watson si sentiva più pesante.

Frank Andom si rialzò dal libro dei conti e cominciò subito a borbottare sul fatto che gli stava facendo perdere un mucchio di tempo, che era tardi e… e un sacco di altre fesserie. Che però zittì in un attimo, non appena vide lo sguardo di John. Tremava. So che sembra impossibile a crederci, ma tremava. Non stava solo piangendo, non aveva gli occhi rossi o pieni di lacrime… era come se l’intero occhio partecipasse del suo dolore. E tremava. L’iride di un blu così scuro da sembrare nera, la pupilla… tremava. E Frank Andom non ebbe il coraggio di dirgli altro. In fondo, a lui che gli fregava?

Non appena disse –D’accordo- con quella sua voce gracchiante, John tornò sui suoi passi e fu accanto al bancone come se non se ne fosse mai allontanato.

E riprese la tromba con mani tremanti, come si accarezzerebbe una vecchia amica dopo che le si è fatto un torto tremendo. Avrebbe voluto dire tutto e niente, con quel tocco, John. Le avrebbe voluto dire che gli dispiaceva, ma che non era più ragazzino che… che bisognava crescere e abbandonare i sogni di gioventù. Le avrebbe voluto dire che c’era stata la guerra, che questo e il resto lo avevano fiaccato più di qualsiasi altra cosa al mondo… e le avrebbe voluto dire che, forse, se non fosse mai sceso da quella benedettissima e maledettissima nave, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa.

Ma non disse nulla di tutto ciò.

Cominciò a suonare.

E suonò qualcosa che conosceva bene come le sue tasche, ma che non si era mai azzardato a suonare prima. Le sue mani si destreggiavano tra i pistoni come, anni prima, altre mani –più candide, affusolate ed eleganti delle sue- avevano danzato sulle corde di un violino… sì… di un violino come quello che stava ascoltando in quel momento. Esattamente quello. Stessi alti e bassi, stessa melodia, stessa storia che le note raccontavano…

Violino e tromba insieme.

A un certo punto dovette bloccarsi, le lacrime erano troppe… ed era convinto che il violino avrebbe smesso con lui, avrebbe giurato che fosse solo nella sua memoria… e invece no, eccolo continuare, eccolo esistere al di là dei suoi ricordi.

Abbassò la tromba e guardò sconvolto il vecchietto che, accanto a un giradischi, lo osservava affascinato.

-Due gocce d’acqua, vero?- gli disse, gli occhi che gli brillavano. Ma John non la pensava allo stesso modo. Lui non aveva mai suona così bene come… -Si sente male? Non svenga qui, per favore- commentò Andom, notando il pallore che si stava diffondendo sul volto dell’altro. -È la musica che ha suonato prima- lo incalzò, vedendo che non otteneva una parola dal giovane uomo che gli stava davanti, aggrappato alla tromba come se fosse l’unica cosa che gli impediva di cadere dritto per terra. –Non la riconosce? Che roba è?- chiese, gli occhi che gli brillavano.

John cominciò a camminare verso quel suono che usciva come a stento dal giradischi, gracchiante quanto la voce dell’uomo di fronte a lui.

-È una musica senza nome… sono davvero in pochi quelli che hanno avuto il privilegio di ascoltarla- riuscì a dire, la voce che gli tremava quasi quanto lo sguardo. Non era possibile… come faceva a esistere quella registrazione? Eppure era lì, davanti ai suoi occhi. Girava sul giradischi, crepata, quasi a volerlo rassicurare che sì, era stata rotta, che sì, non sarebbe dovuta essere… ma che non aveva sognato.

-È tutta mattina che me lo chiedo, ma non riesco a capire chi possa essere questo violinista straordinario…-

-Non credo proprio che lei lo conosca- commentò John, commosso.

-Chi è?- insistette Andom.

-Se le dicessi che questo violista non è mai esistito, non direi una menzogna.-

-Non mi piacciono i segreti- sbuffò il vecchietto, facendosi più vicino e fissando gli occhi neri in quelli tremolanti e blu e di John. –I segreti sanno di mutande sporche- sentenziò. –Su parla! Chi diavolo sta suonando?-

John si allontanò leggermente dalla registrazione, che ora crepitava e basta, perché giunta alla fine.

-Lui è il mio segreto.-

 















Inathia's nook:

Benvenuti e benvenute a questa mia nuova follia. E' già da tempo che avevo in mente una trasposizione "sherlockiana" di questo genere... e finalmente ho raccolto il coraggio a otto mani (sì, ce ne vogliono otto per scrivere e pubblicare cose come queste...) ed eccomi qua.

Per metterlo bene in chiaro, mi baserò principalmente sul film "la leggenda del pianista sull'oceano". Trovo che si adatti meglio alla struttura che voglio dare alla storia. Ma questo non significa che il romanzo di Baricco, "Novecento", verrà ignorato. Assolutamente no. Molti pezzi quasi li copierò pari pari... perché trovo lo stile di Baricco bello eltre ogni dire. Quindi, se in alcuni punti vi sembra particolarmente scritto bene, sappiate che non è tutta farina del mio sacco, ecco. Non sto a mettervi asterischi o a segnalarli ogni volta. Fidatevi, si capirà.

Ora, la storia non sarà lunghissima (almeno, non lo è nella mia testa, ma forse finirò per sbrodolare come mio solito... chissà...) e si baserà principalmente su John e Sherlock, ovviamente. Non ci sarà una storia d'amore nel senso fisico del termine, ma le loro dinamiche, la loro chimica... quella cercherò di mettercela tutta. E farò anche più rimandi possibili alla serie, senza però discostarmi troppo dalla sceneggiatura del film o del libro.

La storia verrà narrata attraverso dei flashback di John... quelli saranno in prima persona e in corsivo. Quando si tornerà al presente, la persona sarà la terza e non ci sarà più il corsivo.

Dovrei riuscire ad aggiornare settimanalmente. Di solito ci riesco e dovrei riuscirci anche questa volta.

Questo è più o meno quanto. Non voglio ora andare a caccia di recensioni (chi mi conosce sa che è ovvio che mi facciano piacere, ma "non solo di recensioni vive l'auitrice), però a questa storia tengo in maniera particolare. Ci ho messo davvero tanto a decidere se pubblicarla o meno. Amo Baricco incodizionatamente, amo il film, amo Tim Roth... e ovviamente amo SherlockBBC. Quindi mi farebbe davvero tanto piacere sapere cosa ne pensate. Anche un cordialissimo "vai a casa che è meglio" mi sta bene.

Ok, questo è davvero tutto.

Un bacione e grazie anche solo per essere arrivati fin qua. Alla settimana prossima (se vorrete)

I.L.

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Capitolo 2
*** 1. Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock ***


 

 

 

 

 

 

Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock



La sua storia me la raccontò la notte che ci conoscemmo. Me la dovette ripetere un paio di volte e ancora altre due, prima che cominciassi a prendere seriamente in considerazione l’idea di credergli. Andiamo… chi nasce su una nave? Cioè, okay, magari di bambini nati sulle navi ce n’erano a pacchi… e magari che ci venivano anche lasciati… era una cosa che i migranti facevano spesso, questo sì. Le donne partorivano durante la traversata e poi, o per avere una bocca in meno da sfamare, o per avere meno problemi all’arrivo, o per provare a dare al piccolo una vita migliore… BAM!, lo lasciavano da qualche parte sulla nave, nella speranza che qualche riccone si facesse impietosire e lo prendesse con sé.

Ma a lui non era andata così, per quello la sua storia aveva dell’incredibile. Il mio amico non solo ci era nato, sul Virginian, ma non ci era neanche mai sceso. Eppure… eppure a guardarlo ti veniva da dire che aveva visto il mondo intero, che se l’era viaggiato tutto…

Fu un macchinista a trovarlo, allo sbarco di New York. Greg Lestrade, pezzo d’uomo con i capelli già brizzolati a neanche cinquant’anni e due bicipiti che avrebbero fatto paura ai titani… di solito se ne stava in sala macchine con gli amici suoi, ma era quasi una regola non scritta che, agli sbarchi, tutti i “topi” della nave se ne andassero in giro. Non facevano granché, non è che si mettessero a prendere il sole sul ponte superiore o facessero finta di saper usare il timone… o usassero il telegrafo per mandare messaggi osceni a chi so io… no… loro si ripulivano la nave. In senso buono, ovviamente. Potevi trovarteli a carponi per i corridoi, che rimestavano nei bidoni dell’immondizia… nella vana speranza che la dea bendata fosse stata dalla loro parte anche quella volta.

I ricconi erano capaci di perdersi qualsiasi cosa.

E Greg Lestrade trovò un bambino.

Lui se ne stava a gattoni sul pavimento della sala da pranzo della prima classe, imprecando tra i denti perché era riuscito solo a racimolare solo un fazzoletto nemmeno tanto pulito e un mezzo sigaro, quando un vagito l’aveva fatto alzare talmente di scatto che a momenti sbatteva la zucca allo spigolo di un tavolo. Poggiato dove di solito stava seduto il violinista dell’orchestra che suonava durante i pranzi e le cene per la prima classe, se ne stava lì, il bambino, in una cassetta per la frutta e agitava i pugnetti quasi per attirare l’attenzione di Greg. L’omone lo prese in mano e gli fece un sorriso sdentato. Non si mise problemi sul come, sul chi o sul perché. Quel bambino era lì per lui, o almeno così il mio amico mi aveva sempre detto. Di questo si era convinto. Anche perché la cassetta dove lui se ne stava recitava sul fianco “T.G. Lemon”. E Greg lo prese come un altro segno: Thanks Greg, ecco che ci stava scritto lì.

Così si prese il bimbo e lo sollevò in alto, scrutandolo sorridente.

-Hello, Lemon!- disse, scoppiando a ridere.

Era il primo giorno del primo mese del primo anno di questo nuovo fottutissimo secolo.

 

 

 

Quando lo riportò in sala macchine, erano in tanti a credere che quel bambino sarebbe diventato un buono a nulla. Nato su una nave, trovato da un macchinista spiantato… aveva per culla la sua cassetta di limoni e per biberon un vecchio innaffiatoio coperto da uno straccio. Ma Greg non demordeva. –C’era scritto T.G. sulla cassetta, cazzoni!- rispondeva a chiunque provasse anche solo a prenderlo in giro. –Lo sapete che vuol dire? Ma certo che no! Voi non sapete leggere!- gridava per tutta la stiva della nave, cullando il suo marmocchio. –Vuol dire “Grazie Greg”. Lo hanno lasciato a me, e io me lo tengo!-

Solo qualche tempo più tardi, sorse il problema del nome. Greg lo chiamava “Lemon”, ma quello era il nome di un frutto, non di un bambino.

-Intanto gli darò il mio nome- proclamò un giorno, zittendo tutte le altre voci. –Greg Lestrade. Poi ci metterò accanto T.G., come fanno i ricconi sui gemelli delle camice. Da un certo tono avere le lettere in mezzo al nome, eh?-

-Eccome!- ribatté un altro macchinista, asciugandosi il sudore dalla fronte. –Tutti gli strafottuti avvocati ce le hanno le lettere in mezzo al nome!-

-Uno dei miei si chiamava John P.T.K. Wonder- esclamò un altro ancora.

-Se mio figlio diventa avvocato, giuro che lo ammazzo con le mie mani- disse Greg, facendo scoppiare a ridere tutti. –Ma il suo nome sarà Greg Lestrade T.G. Lemon. Che ve ne pare?-

-Oh, deve piacere a te, Greg… sei tu la mamma- lo sfotté uno.

-Per piacermi mi piace… è che è corto. Gli manca un finale!-

-Ma non è mica il figlio di un fottuto marchese. Lo hai trovato di martedì? Chiamalo “Martedì”!-

Greg si illuminò tutto e gonfiò il petto.

-L’ho trovato in prima classe, eh? Sullo sgabello del violinista… e come si chiamava quel figlio di puttana? “Sherlock”… l’inglesino… ecco fatto, allora: Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock!- scandì per bene, facendo riecheggiare il nome per tutta la sala macchine, scoppiando poi a ridere.

 

 

Fu Greg a occuparsi di Sherlock mentre lui cresceva. Nessuno doveva sapere di lui, la sua presenza doveva essere praticamente segreta all’equipaggio e al capitano Anderson… ed è per questo che tutti lo conoscevano. Difficile tenere nascosto qualcosa del genere…

Sherlock, da bambino, era diverso dall’uomo che ho conosciuto io. Dall’uomo che io ho… ehm… che ho avuto la fortuna di chiamare amico, ecco. A sentire i racconti del personale e i suoi, quando non stava nella sala macchine con Greg, rannicchiato nel suo lettino, se ne andava in giro per la nave, sempre ben attento a non farsi vedere. E quindi te lo potevi ritrovare in cucina: era la manina che si sporgeva da sotto il bancone e rubava una ditata di quella torta alla frutta che uno della prima classe aveva commissionato per il compleanno della figlia. E la capocuoca, la signora Hudson, chiudeva sempre un occhio per lui. Quando vedevano comparire la sua mano o intuivano la sua sagoma sotto un carrello… sapevano che Sherlock era lì da qualche parte. E quindi gli lasciavano una tortiera da ripulire col dito o una ciotola di panna montata che “casualmente” era avanzata. E questo andava bene fino a che il capitano Anderson non sbucava per una qualche con una qualche ispezione a sorpresa e lo scopriva seduto sul bancone, le gambe incrociate e il viso sporco di crema… in quei casi, era meglio che Sherlock scappasse veloce come il vento. Il capitano non era tipo compassionevole…

A leggere gli insegnò Greg. Era uno dei pochi macchinisti in grado di farlo. Recuperava dei vecchio giornali e su quelli insegnò a Sherlock a leggere. Ma non lo faceva esercitare sulle pagine della cronaca o della politica o di che so io… no. Greg era un patito di corse di cavalli. E non perché scommettesse –a mala pena si poteva permettere i soldi per il quotidiano- ma perché diceva che i nomi dei cavalli lo facevano spisciare.

E così passavano serate intere, dopo che Greg aveva finito il turno: lui seduto al tavolone dove di solito mangiavano e Sherlock sdraiato sopra la pancia, le gambette incrociate e il dito premuto sulla pagina, schiacciato forte perché Greg gli diceva che altrimenti le lettere scappavano via prima che lui avesse il tempo di leggerle. E Greg rideva più forte e più forte mano a mano che andavano avanti perché –lasciatemelo dire- quei nomi erano davvero qualcosa di improbabile. Insomma, c’era da chiedersi se i ricconi facessero a gara per dare al proprio cavallo il nome più assurdo e meno probabile.

 

 

Greg Lestrade fece il marinaio ancora per otto anni, due mesi e undici giorni. Sherlock di questo non mi ha mai parlato, lo sono venuto a sapere dal resto dell’equipaggio. E poi lui me lo ha solo confermato una notte che era particolarmente ubriaco…

Fu un incidente, nessuno avrebbe mai fatto del male al macchinista, ci pensò una carrucola impazzita a centrarlo nella schiena durante una tempesta. Sherlock non c’era, grazie a Dio non era lì… penso fosse da qualche parte a cercare altri giornali per quella sera, perché gli altri li avevano già letti tutti…

Insomma, per farla breve, mentre erano lì che lavoravano come sempre –non era la prima tempesta, non era il primo mare mosso che affrontavano…- Greg si distrasse un attimo. Non so bene perché. Questo particolare non me lo hanno mai spiegato bene… credo che, nonostante fossero passati anni, fosse ancora difficile per molti parlarne. O forse lo facevano per rispettare Sherlock, che ne andava in giro facendosi chiamare solo con l’ultimo nome, quasi Greg Lestrade T.G. Lemon non fosse lui. Lui era solo “Sherlock”.

Comunque, una carrucola si staccò dal suo gancio e prese a vagare impazzita per la sala macchine. E molti si abbassarono, si spostarono… ma non lui. Lui era distratto per chissà che cosa. E la carrucola lo prese in pieno in mezzo alla schiena.

Ci mise tre giorni a morire. Era rotto dentro, non c’era modo di rimetterlo insieme.

E Sherlock passò tutti e tre quei giorni rannicchiato in infermeria accanto al suo letto, con una pila di giornali tanto alta che quasi lo superava. E lesse, imperterrito, per tutti e tre i giorni. E Greg rise, imperterrito, per tutti e tre i giorni. A quanto pare, furono proprio le risate a farcelo restare secco… ma questo a Sherlock non lo dissero mai, ovviamente.

Greg Lestrade morì sulla sesta corsa di Chicago, vinta da Acqua potabile con due lunghezze su Minestrone e cinque su fondotinta blu. Lo avvolsero in un telone e sopra ci scrissero “Thanks Greg” e poi lo buttarono in mare, dopo un veloce ma sentito funerale.

E così Sherlock divenne orfano per la seconda volta. Aveva appena otto anni, ma si era già fatto avanti e indietro dall’America ed Europa per quasi cinquanta volta. E aveva visto il mondo, ma sempre dalla sua nave, non era mai sceso. Era stato sul ponte, una volta si era persino arrampicato sulla vedetta… e si era guardato la terra, le città, la gente… ma non era mai sceso, quello no. Non credo gli fosse neanche mai venuto in mente.

Ma quando Greg morì, il capitano Anderson decise che “quella pagliacciata dell’orfanello che viveva come un topo sulla sua nave” doveva finire. Allo scalo di Southampton, fece salire la polizia con tutta l’intenzione di far scendere Sherlock e mandarlo in un orfanotrofio. Fino a quando c’era stato Greg, alla frase che Sherlock un giorno sarebbe dovuto scendere, andare a scuola, che tutto quello era contro il regolamento… rispondeva “In culo il regolamento!” e nessuno aveva osato mai protestare –visto anche la montagna di uomo che era stato-. Ma ora non c’era più nessuno e il capitano Anderson aveva deciso che ne aveva abbastanza di un bambino che gli lasciava sempre le ditate nelle torte.

Non riuscirono a trovarlo da nessuna parte, però. Lo cercarono per due giorni interi, la polizia che cominciava a spazientirsi e l’equipaggio che sosteneva di non aver mai visto Sherlock in tutta la loro vita. Ci mancò poco che rinchiudessero Anderson… l’automobile per portarlo al manicomio era già pronta…

E così alla fine ripartirono. Anche se la cosa che Sherlock fosse sparito non andava giù a nessuno. Perché si erano affezionati a quel bambino, in tutti quegli anni… alla partenza, quando sentirono le sirene e videro le stelle filanti, sorrisero, sì, ma con il cuore in gola. Perché nessuno sapeva che fine avesse fatto. Si sarebbe potuto tranquillamente pensare a un fantasma, se non fosse stato che praticamente tutti l’avevano conosciuto e ci avevano parlato.

Fu la seconda notte di viaggio, quando ormai non si vedevano più le luci della costa irlandese, che il nostromo corse nella cabina del capitano per svegliarlo. Stava succedendo qualcosa nel salone della prima classe, riuscì a balbettare, prima di scappare via eccitato. Molto meno entusiasta era Anderson, che si era visto svegliare nel cuore della notte. Credo che gli siano partite anche un paio di bestemmie, se non sbaglio… Comunque, si diresse verso la sala da ballo. E si rese conto subito di non essere solo. C’erano quasi tutti i passeggeri, le classi mischiate. Straccioni della terza che praticamente dormivano vestiti e signore della prima imbellettate e con la ciabattine con il tacco. Tutti lì, tutti insieme. Una fiumana di gente che camminava come ipnotizzata.

Ipnotizzata dalla musica.

Anderson la sentì subito. Le luci della sala erano spente, tutti se ne stavano in religioso silenzio… e c’era solo la musica. Lui entrò piano, quasi in punta di piedi, quasi temendo che si trattasse di un sogno e che  potesse scomparire con la stessa velocità con cui esplodono le bolle di sapone. Ma non fu così, non quella volta. Quello non era un sogno o una visione. Perché Anderson non era solo. C’erano i passeggeri. C’era persino il marconista e tre tutti neri della sala macchine, accorsi in tutta fretta. E seduto su uno sgabello, i piedi che nemmeno gli toccavano terra, le gambette che si muovevano a ritmo… Sherlock suonava il violino. Era qualcosa che nessuno aveva mai ascoltato prima. Questa era la cosa con Sherlock e il suo violino. Suonava, ma non avresti saputo dire cosa o perché. Io avevo avuto il privilegio di sentirlo suonare più di tutti… Una volta, una sera in cui stavo facendo particolarmente fatica a prendere sonno, suonò qualcosa per me. Era un qualcosa che non era mai esistito prima, che non sarebbe esistito poi… ma in quell’istante c’era e mi cullava nella notte e mi teneva lontano dagli incubi. Fino a quando le sue dita eleganti toccavano le corde, fino a quando la sua mano diafana e sottile muoveva l’archetto… allora la musica c’era. E ti sarebbe venuto da dire che c’era sempre stata, perché era talmente perfetta, talmente bella… che non poteva essere stata inventata così, su due piedi! E invece sì! E invece sì! Perché lui chiudeva gli occhi e suonava… e se poi gli chiedevi di ripetere quello che aveva fatto, oppure gli domandavi cosa fosse, era capace di spalancare quello sguardo dal colore improbabile e scrutarti col le sopracciglia aggrottate, la testa leggermente reclinata… ed era capace di dirti che non ne aveva la minima idea, di cosa aveva appena suonato. Ed era vero. Tutte le musiche che suonava lui –e non parlo di quelle che facevamo con l’orchestra per i ricconi o le tarantelle in terza classe, ma di quelle completamente e totalmente sue- quelle musiche erano un pezzo unico e tu dovevi ritenerti fortunato ad averle ascoltate in quell’attimo che c’erano state… perché dopo non c’erano già più…

C’era una signora accanto al capitano, in vestaglia rosa e con certe pinzette nei capelli… una piena di soldi, si vedeva, forse la moglie di qualche assicuratore americano… be’, aveva dei lacrimoni così che le scendevano sulla crema da notte. Guardava e piangeva, non la smetteva più. Quando si trovò il capitano di fianco, bollito dalla sorpresa, lui, letteralmente bollito, quando se lo ritrovò di fianco, tirò sul col naso, la riccona dico, tirò su col naso e indicano il violino chiese.

-Come si chiama?-

-Sherlock.-

-Non la canzone, il bambino.-

-Sherlock.-

-Come la canzone?-

Era quel genere di conversazione che un comandante di marina non può sostenere per più di quattro cinque battute. Soprattutto quando ha appena scoperto che un bambino che credeva morto non solo era vivo ma, nel frattempo, aveva imparato a suonare il violino. Piantò la riccona lì dov’era, con le sue lacrime e tutto il resto, e attraversò a passi decisi il salone: pantaloni del pigiama e giacca della divisa non abbottonata. Si fermò solo quando arrivò allo sgabello e al violino. Avrebbe voluto dire tante cose in quel momento, e tra le altre “Dove cazzo hai imparato?”, o anche “Dove diavolo ti eri nascosto?”. Però, come tanti uomini abituati a vivere in divisa, aveva finito anche per pensare, in divisa. Così quello che disse fu:

-Sherlock, tutto questo è assolutamente contrario al regolamento.-

Sherlock smise di suonare. Era già un ragazzino di poche parole e di grande capacità di apprendimento. Guardò il capitano e disse:

-In culo il regolamento.-

 

 

-Sì, nonno. Sì, signor Andom. Nel caso in cui ci fossero ancora dei dubbi, è lui l’autore della melodia di prima. Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock- concluse John, passandosi un fazzolettino sulla fronte e accasciandosi su uno sgabello davanti a un pianoforte.

Frank Andom lo guardò sconvolto, tra le mani la registrazione. La reggeva, quasi lui stesso non fosse sicuro di quello che stava facendo. Perché quella storia non aveva senso, eppure pareva chiara e cristallina come se non fosse potuta essere diversa. Perché quel violinista eccezionale aveva vissuto, eppure non c’era mai stato, se non per pochi eletti.

-E tu… e lui…- balbettò, come se gli si fosse ingarbugliata la lingua. John lo vide sedersi a sua volta e poggiare la registrazione sul pianoforte con cura, come se ne avesse finalmente compreso il grande valore. John ancora non ce la faceva a guardarla senza immaginare le mani di Sherlock spezzarla per la rabbia, perché…

-Cosa, nonno?- chiese John, quasi con un sorriso. –Non mi credi?-

-Oh, quello no… no… e tu ci sei stato? Dove lui suonava, intendo…-

-Sì. Sono stato sul Virginian per sei anni e… e non esagero quando dico che sono stati i più belli della mia vita. Quando ci sono salito ero uno spiantato, un nessuno… e non dico che far parte di quella piccola orchestra che suonava per i ricconi mi abbia reso migliore. O mi abbia reso un trombettista di fama mondiale. Quello no… Ma lui… Ma Sherlock… Lui sì. Lui mi ha reso migliore. E forse, e dico forse, io ho reso migliore lui…-

Frank Andom lo scrutò con occhio critico. Ora vedeva bene le lacrime che scendevano sul volto dell’altro, la scia argentata che si lasciavano dietro, tuffandosi nella barba sfatta e lì rimanendo, bagnandola sempre più. Vedeva bene il suo sguardo tremare sempre di più, quasi pronunciare il nome di quel violinista gli avesse fatto male dentro.

-E lui, Sherlock… lui per te era…- indagò, sporgendosi in avanti verso John, che sollevò la testa di scatto, quasi a voler impedire ad altre lacrime di scendere. Ma non ci fu verso. Non aveva mai raccontato quella storia a nessuno, ma forse era venuto il momento di tirarla fuori una volta per tutte.

-Lui era… Sherlock era…- balbettò, senza sapere bene come finire la frase. –Per me è stato…-

-Capisco- sussurrò Andom, questa volta comprensivo, mettendogli una mano sulle sue. –Ho capito. Ho capito.-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathia's nook:

 

Ma buon giorno a tutti! No, non è un pesce d'Aprile, sto davvero aggiornando. E lo faccio per due motivi: innanzitutto, perché mi avete lasciato talmente tante recensioni che mi sono commossa come una scema (e non è cosa facile, ve lo assicuro!). E' davvero un record per me leggere ben 6 recensioni per un prologo... per di più di una storia che ero stra in forse se scrivere e poi pubblicare. Quindi grazie grazie grazie. Questo capitolo è tutto per voi, che siete la linfa e il motore di questa storia :) In secondo luogo, questo week end non sarò a casa e mi scocciava lasciarvi senza aggiornamento (sorpattutto dopo che eravate state così carine con i commenti...). Il prossimo aggiornamento sarà molto probabilmente o il 10 o il 12 aprile (l'11 sono al Romics... per caso qualcuna di voi bazzicherà da quelle parti?) Comunque, per notizie varie su aggiornamenti anticipati o posticipati, o chiacchiere e sfoghi vari, mi trovate anche su facebook con il nome Inathia Len. Account dedicato al mio alter ego scribacchino :)

E queste erano le note tecniche, passiamo al capitolo.

Come vi avevo già anticipato, la storia sarà principalmente narrata attraverso i flashback di John (segnalati dal corsivo e dalla narrazione in prima persona). Trovo molto più gestibile lo stile baricchiano in questo modo, forse perché Novecento è scritto in prima persona... Comunque, alcune parti sono prese dal libro o alcune scene sono descritte pari pari dal film. 

Ho scelto Greg come "padre" per Sherlock perché secondo me era il personaggio più azzeccato. Nella serie, lo salva dalla droga e da una vita orrenda, qui lo salva da qualcosa di ben peggio (una vita in orfanotrofio... Non che crescere in una sala macchine sia stato megli, ma almeno Greg gli ha voluto bene come un padre!). 

E poi abbiamo Anderson: solo lui poteva essere il capitano burbero, ma alla fine con un cuore d'oro (perché permette a Sherlock di rimanere a bordo e di suonare nell'orchesta). Devo ammettere che avevo pensato anche a Mycroft per questo ruolo, ma alla fine Anderson è molto più comico. 

E infine c'è la signora Hudson, in un cameo... dolcissimo :) (questa era pessima)

Okay, questo è quanto. Spero di ritrovarvi numerose nei commenti come la volta scorsa, perché mi ha fatto davvero davvero tanto piacere.

Comunque, un grazie immenso anche solo per leggere.

Bacio e buona pasqua :)

I.L.

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Capitolo 3
*** 2 Ehi, Conn, qual è il problema, non sai andare sull'acqua? ***


 

 

Ehi, Conn, qual è il problema, non sai andare sull'acqua?


 

 


Io sul Virginian ci salii una bella mattina di primavera. Era il 3 maggio del 1927 e di una sola cosa mi fregava nella vita: suonare la tromba. Ero scappato di casa, mi ero venduto il clarinetto che mio padre, veterano di guerra, aveva sempre voluto che io suonassi e mi ero comprato la mia Conn… la stessa che c’hai in mano tu, nonno, proprio quella lì… insomma. L’atmosfera a casa mia era uno schifo. Mio padre, dopo la guerra, non si era mai ripreso e passava il suo tempo a trascinarsi da una stanza all’altra, la gamba zoppa che lo seguiva passo passo inerte; poi c’era mia mamma… santa donna… ma senza il polso necessario. Era buona, ma tutto qui. Le potevi pisciare in testa che non solo ti diceva grazie, ma ti indicava anche quale parte dei capelli non avevi beccato… e poi c’era mia sorella. Buona quella… Harriet, ma si faceva chiamare Harry, si vestiva da uomo e beveva troppo perché nessuno in casa nostra capiva questo suo modo di fare. Io sarei dovuto essere il figlio modello, il futuro medico con il talento per il clarinetto.

Avevano proprio capito tutto…

Quel giorno marinai il conservatorio, mi fermai nel primo negozio di pegni e ci lasciai il mio strumento per la tromba. E non mi ero mai sentito più fiero di me in tutta la mia vita. Abitavamo poco lontano Southampton, me lo ricordo, e ricordo anche che avevo già visto le navi andare e venire, città galleggianti imponenti bellissime. E ricordo anche che mi sembravano il mio biglietto di sola andata per la fortuna. All’epoca non avevo in mente di rimanerci ben sei anni della mia vita… non avevo idea di chi avrei incontrato… e di cosa avrebbe significato per me…

La mia idea iniziale era di imbarcarmi a Southampton, pagarmi il viaggio suonando la mia Conn e poi scendere in America. Dove non mi interessava, solo il suono della parola già mi faceva sorridere come un deficiente.

Perfetto, no?

No.

Perché il tizio che assumeva sul Virginian, Mike Stamford, disse che la loro orchestra era al completo e che un ragazzino come me poteva anche baciargli il culo. Ok, l’ultima parte non la disse, ma fidatevi che l’ho letta nei suoi occhi porcini e nel modo in cui i suoi doppi menti si mossero quando rise di me.

Ma a me non me ne fregava un cazzo di cosa quel Stamford pensasse. Io la sapevo suonare, quella tromba. L’avevo fatto per mesi di nascosto, chiedendola in prestito ad altri ragazzi… e sapevo di essere bravo. Forse non sarei mai stato un Satchmo… forse nessuno si sarebbe mai ricordato di me… forse un giorno la mia tromba l’avrei venduta nemmeno per dieci dollari… sì, vecchio, sto parlando con te… Comunque, sapevo che ce l’avrei potuta fare. E allora, mentre Mike Stamford stava già parlando con quello dietro di me, tirai fuori la Conn e mi misi a suonare. E la gente intorno, non appena cominciai a darci dentro, si radunò attorno a me e prese a battere le mani e a ballare a tempo. Io ormai ero rosso come un peperone, tenevo gli occhi chiusi e muovevo le dita sui pistoni… e suonavo qualcosa che non avevo mai suonato prima.

Quando finii, vidi anche Mike Stamford tra la folla, gli occhi che gli brillavano. E mi guardava, un dente d’oro che faceva capolino tra gli altri. Mi chiese cosa fosse quello che avevo suonato e io gli risposi che non ne avevo la benché minima idea, perché era vero. E allora il suo sorriso si allargò e gli occhi brillarono ancora di più.

-Se non sai che cos’è- mi disse. –Allora è jazz.-

 

 

 

Sfiga.

Primo viaggio, prima tempesta. Quando si dice che la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo, eh? Dopo appena quattro giorni che stavo, sopra quella benedettissima nave, l’oceano prese a rivoltarsi e a incazzarsi con lui solo sa chi… e chi ci andò di mezzo fu ovviamente il mio stomaco e probabilmente tutto quello che avevo mangiato nella mia miserabile vita fino a quel giorno. E uno che su una nave suona la tromba, può fare ben poco quando all’Oceano gli girano, no? Può giusto evitare di suonare la tromba, ecco, per evitare di peggiorare le cose… e starsene buono nella propria cuccetta. Provare a distrarsi. Ma c’hai ben poco da distrarti se ti senti le budella nel cervello e il cuore sotto i tacchi… e se poi nella tua testa senti una vocina bastarda che ti dice “Hai fatto la fine del topo”… io non ce la volevo fare, la fine del topo.

Così uscii dalla mia cabina e presi a vagare completamente a casaccio per i corridoi. Perché dopo quattro giorni sul Virginian, non potevi certo dire di conoscerla! A mala pena riuscivo ad andare e tornare dal cesso senza perdermi… e anche per quello mi ci era voluto qualche tempo…

Comunque uscii e, schivando scarpe di ricconi lasciate in mezzo al corridoio per la lucidatura, prendendo e sbattendo contro ogni spigolo, finendo contro ogni porta possibile e immaginabile… alla fine realizzai due cose: mi ero perso e stavo per vomitare. Avevo già rischiato di omaggiare il mondo con la mia cena quando mi ero ritrovato –Dio solo sa come- in sala macchine, a sporgermi da un parapetto… ma questa volta era diverso. Mi accucciai sul pavimento, abbracciai uno dei vasi che piacevano tanto alle signore bene e ci rovesciai dentro il mondo, dopo aver tolto i fiori, ovviamente.

E fu a quel punto che sbucò dal buio del corridoio. Vestito di tutto punto, in frac, mi osservava dall’alto verso il basso. Sono sicuro che dovessi essere uno spettacolo pietoso, verde e riverso su un vaso a metà strada tra le cabine della prima classe e la sala da ballo… ma a lui sembrava non importare. Mi osservava quasi con curiosità, la testa leggermente inclinata e gli occhi socchiusi. Stava passeggiando tranquillamente come uno passeggerebbe per il lungomare di Nizza, con lo sguardo tranquillo e il passo sicuro… con la differenza che eravamo in mezzo a una fottuta tempesta. Ma a lui sembrava non importare, era come se anche lui ondeggiasse con la nave, quasi le sue gambe fossero state pensate apposta per una situazione come quella. Era Sherlock.

Lo conoscevo di vista, avevamo suonato insieme un paio di quelle sere e mi ricordavo perfettamente che il direttore della nostra piccola orchestra, ogni sera prima di cominciare, gli si avvicinava con un sorrisetto stretto sulle labbra e quasi lo implorava: “Solo le note normali, okay?”.

Conoscevo già le voci che circolavano su di lui, qualcosa mi era stato detto: aveva ventisette anni e non aveva mai messo piede a terra. Mai. Nemmeno per un secondo. Nemmeno per sbaglio. Questo dicevano, Sherlock era nato sul Virginian e non era mai sceso. E detta così suona una palla colossale… io stesso non ci avevo creduto, all’inizio… ma a vederlo in quel momento, ti sarebbe sembrato impossibile il contrario. Sherlock era un tutt’uno con la nave. Non sarebbe potuto esistere senza.

-Ehi, Conn- mi salutò, le mani in tasca e un leggero sorriso beffardo sul volto. Sembrava quasi che la mia situazione lo divertisse. –Qual è il problema, non sai andare sull’acqua?- mi chiese, mentre mi io sollevavo dal vaso e lo squadravo. -Sei il nuovo trombettista, vero? E la tua tromba è una Conn, eh…- disse, mentre io dentro di me mi chiedevo se quello fosse il momento migliore per fare conoscenza e conversazione. Non poteva aspettare che la mia bocca non fosse piena di vomito? –Vieni. Ce l’ho io la cura per la tua sofferenza- affermò tranquillamente. –Vieni. Potrebbe essere pericoloso- ripeté poi, quando vide che non sembravo intenzionato ad andare da nessuna parte.

E poi prese a camminare, questa volta sicuro che lo stessi seguendo. Beh, seguendo non è proprio la parola giusta. Perché lui procedeva tranquillamente, quasi la tempesta fosse cosa che non gli interessava, quasi fosse cosa non per lui. Sembrava che avesse dei binari sotto quelle fottute gambe lunghe, tanto camminava dritto… e io… io… beh, se uno che su una nave suona tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice “Vieni”, quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Io non avevo la sua compostezza, presi di nuovo qualche spigolo e riuscii a inciamparmi in niente, rimbalzando ovunque. Vidi che si stava dirigendo verso la sala da ballo e le porte quasi si aprirono al suo passaggio, mentre io ovviamente ci cozzai contro. Non avevo la benché minima idea di cosa avesse in mente e lui non sembrava intenzionato a dirmelo… ma forse era meglio così, perché era sicuramente una pazzia e io non avevo le forze per protestare.

Arrivammo dove di solito ci sedevamo noi orchestranti e lo vidi sedersi comodamente sul seggiolino davanti al pianoforte e sistemarsi la coda del frac come se dovesse suonare lui. Poi prese fuori il suo volino, che solo in quel momento notai aveva tenuto con sé per tutto quel tempo, e mi fece cenno di sedermi.

-Togli i fermi- mi disse, mentre io quasi mi sdraiavo sul pianoforte per non cascare dritto per terra. –Su, fidati e togli i fermi- insistette, sistemandosi il violino sulla spalla e socchiudendo gli occhi.

-Ma è una follia- protestai io.

Sherlock roteò gli occhi.

-Fidati di me.-

E io, non so perché, lo feci. Tolsi i fermi del seggiolino e lui poggiò l’archetto sul violino, cominciando da qualche arpeggio classico. E il tutto cominciò ovviamente a muoversi. Era come un sapone nero, che stava cominciando a scivolare per la sala…

-Se non sali adesso non sali più- mi disse lui, gli occhi chiusi.

Questo è matto pensai. Matto, pazzo, fuori di cranio completamente… e io stavo per vomitare una seconda volta.

Ma mi misi a sedere accanto a lui. Tanto, che accidenti avevo da perdere? Ci salgo sul tuo stupido seggiolino, pensai. E che vada tutto in vacca…

E lui attaccò a suonare.

Ora, vecchio, so che non ci crederai, ma è tutto vero. Quello che ho detto prima e, soprattutto, quello dirò ora. Perché non appena Sherlock prese a suonare, fu come se l’Oceano smettesse di essere incazzato con tutto e tutti, e invece si mettesse a ondeggiare la ritmo della musica che usciva da quel violino. E noi ballavamo con lui, noi scivolavamo per la sala… Sherlock teneva gli occhi chiusi e sembrava da un’altra parte, in un altro luogo… e ora so che è così, so che quando suonava entrava in un mondo tutto suo dal quale è impossibile distoglierlo, ma all’epoca era tutto nuovo per me… Andavamo avanti e indietro per tutta la sala da ballo, sfiorando vetrate, tavoli e sedie impilate ai lati. Ogni volta andavamo più vicini e ogni volta ci fermavamo appena in tempo. Quasi l’Oceano ci stesse cullando, quasi non volesse che ci succedesse nulla, nonostante prima mi avesse fatto rimettere l’anima. E io non ci stavo più capendo un accidente… perché Sherlock non stava suonando, lui guidava: guidava me, guidava il seggiolino… ci guidava attraverso la sala, ondeggiando al ritmo della sua musica… e che musica, nonno! Altro che jazz, altro che swing… questa era una musica che non esisteva, che non era esistita prima di quel momento ma che era perfetta per guidarci. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quello che stavamo davvero facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte…

Oh yes.

CRASH!

 

Peccato che la nostra corsa finì presto e contro la vetrata che separava il corridoio della prima classe dalla sala da ballo… credo che riuscimmo, non so come, anche a sfondare parte della parete della cabina del capitano Anderson.

Sherlock disse che quel trucco lo doveva ancora perfezionare. Io, ridacchiando, aggiunsi che sarebbe stato perfetto una volta che avessimo registrato i freni. Sherlock rise con me. Il capitano no. E ci spedì giù in sala macchine a spalare carbone fino a che non avremmo risarcito il danno… le parole precise furono molto meno calme. Credo che ci chiamò anche imbecilli o giù di lì.

Ma a noi non ce ne fregava un cazzo.

E giù, in sala macchine, fu quella notte che Sherlock e io diventammo amici. Per la pelle. O forse…

E ridemmo… Cristo, non ho mai riso tanto in vita mai quanto quella notte. Passammo tutto il tempo a contare quanto poteva fare in dollari tutto quello che avevamo rotto. E più il conto saliva, più ridevamo. E se io ci ripenso, mi sembra quella cosa lì, essere felici. O qualcosa del genere.

Alla fine, buttammo nella fornace anche i badili e ci lasciammo cadere sulla montagna di carbone, stanchi, sporchi e ancora ridenti. Fu allora che glielo chiesi, se era vero quello che si diceva sul fatto che non aveva mai lasciato la nave. E lui mi guardò dritto negli occhi, serio anche se fino a pochi minuti prima avevamo riso come dei fessi…

-Sì- mi rispose. Semplicemente così.

-Ma è vero veramente?-

-Vero veramente.-

Poi alzò lo sguardo verso l’alto, e noi eravamo parecchio in basso in quel momento, nella pancia della nave, alzò lo sguardò verso l’alto e poi si girò verso di me, una mano che gli sosteneva la testa e quegli occhi improbabili che si piantavano nei miei.

-Tu sei di vicino Southampton, vero?-

Io mi limitai ad annuire. Era una cosa che avevo imparato a fare in fretta. Annuire quando Sherlock parlava e mettermi attento, perché non sapevi mai cosa poteva uscire da quella bocca…

-La conosco, sai?- ricominciò.

-La conosci? E come mai?-

-D’inverno è meravigliosa- mormorò e si girò di nuovo sulla schiena, prendendo pezzi carbone e cominciando a buttarli nel fuoco. Mi resi conto che mi mancavano i suoi occhi, il suo sguardo su di me, e allora fui io a mettermi su un fianco e ad osservarlo. –E a Marzo… ah!... arriva sempre un pomeriggio in cui, proprio quando meno te lo aspetti, scende un tetto di nebbia, una barriera netta che si ferma appena sotto le luci dei lampioni e taglia tutto, come una spada bianca. È magico…- sospirò, smettendo di lanciare il carbone e incrociando le braccia dietro la testa, gli occhi a Southampton. –Allora le case perdono i piani alti, gli alberi perdono i rami, la cattedrale perde il campanile e i passanti perdono la testa. Dal collo in su, scompaiono tutti. E quello che riesci a vedere per le piazze sono solo tanti decapitati che camminano- sospirò, io che mi tiravo su e lo guardavo. Non so bene dire come lo guardassi. Con stupore? Con paura? Con affetto? –Si scontrano e si salutano- continuò, ignaro di me e di quello che mi stava succedendo dentro. Ma lui non era lì, Sherlock non era più sdraiato accanto a me… era andato via, era anche lui in una di quelle piazze di cui mi stava parlando, era anche lui uno dei tanti decapitati beneducati.

-Bellissimo- commentai io, riportandolo sul Virginian con me. Lo sentii ridacchiare e si mise a sua volta su un fianco, a un alito di vento da me. Aveva gli occhi che gli brillavano, quasi fosse in attesa di un qualche seguito alle mie parole. Ma non ne avevo, soprattutto non con lui a così pochi centimetri da me… il mio sguardo indugiò sul suo viso e sulle sue labbra un po’ troppo… -Peccato non duri molto- mi ripresi, tirandomi a sedere mentre Sherlock rimaneva sdraiato, a guardarmi con la bocca spalancata e gli occhi che ardevano. –Ma tu come le sai tutte queste cose?-

Sherlock si strinse nelle spalle e tornai sul carbone a mia volta. Ancora non so se indispettito o affascinato da lui. C’era qualcosa che mi piaceva, quello sì. Il suo essere folle, il suo essere così umorale, il suo essere così intenso… ma sapeva anche mandarti in bestia come pochi. Perché non sempre ti ascoltava, non sempre rispondeva alle tue domande… per esempio, come accidenti le sapeva tutte quelle cose, lui che non era mai andato oltre la prua e la poppa del Virginian? Che ne sapeva lui delle piazze di Southampton, degli alberi, della nebbia, dei lampioni… ma se glielo chiedevi, si stringeva nelle spalle e ti rivolgeva uno di quei sorrisi che ti facevano ridere e ti facevano dimenticare la domanda.

 

 

-Come faceva?-

La domanda di Frank lo riportò al presente. L’immagine del giovane Sherlock, sporco di fuliggine, il suo sorriso… tutto svanì, lasciando il posto al negozio di musica. Era ancora notte, ma non era la stessa che aveva passato a spalare carbone con l’uomo che…

Andom lo stava scrutando come voglioso di saperne di più. Si era seduto sul seggiolino di un pianoforte, John ancora se ne stava in piedi e, mentre raccontava, aveva messo la mano sulla registrazione. Frank Andom non aveva idea di che fine questo tizio dal nome improbabile avesse fatto… ma non sembrava allegra. Lo erano stati, felici si intende. Dal modo in cui il giovanotto parlava di quel Sherlock si capiva. Si leggeva tutto in quello sguardo che tremava ogni volta che la memoria lo riportava indietro di anni. E lo si leggeva dal modo in cui stringeva quel vecchio disco, quasi a voler essere sicuro che non sparisse, che non fosse solo il frutto della sua immaginazione.

-Sapeva leggere, Sherlock- rispose John, chiudendo gli occhi e sedendosi a sua volta. Teneva ancora stretta la registrazione da una parte e la tromba dall’altra. E il vecchio non aveva cuore di togliergliela. –Ma non i libri, quelli sono buoni tutti. Lui sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia… tutta scritta addosso. Lui leggeva e, con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… ogni giorno aggiungeva un pezzo a quella immensa mappa che stava disegnando nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro… una mappa meravigliosa…-

Il vecchio rimase in silenzio mentre John finiva di parlare. Gli sembrava impossibile che esistesse qualcuno così. Eppure non poteva nemmeno essere una palla, perché nessuno avrebbe parlato con tanto affetto, con tanta ammirazione, con tanto… di qualcuno che non esisteva. Sarebbe stato crudele. Sarebbe stato da pazzi. Inventare la persona perfetta, così perfetta che te ne potevi… e poi scoprire che non esisteva. No, quel Sherlock doveva esserci stato…

-La vedi quella signora, mi disse una volta, durante un’esibizione. Lui era così, capace di suonare e chiacchierare con me allo stesso tempo- riprese John, -Deve essere tedesca, disse. Guardala. Non sembra una che ha ucciso il marito con la complicità del giovane amante e sta fuggendo con tutta l’eredità? Questa musica non le somiglia, mi chiese, sollevando un sopracciglio nella mia direzione e prendendo a suonare un altro motivo che, anche se prima non c’era stato, era esattamente la musica che avrei scelto per raccontare di quella donna che sedeva tra le prime file. E lo vedi quello lì, disse poi, indicandone un altro. Sembra uno che ha troppi ricordi… la testa gli scoppia ma non riesce a dimenticare niente. Questa è la sua musica. E suonò qualcosa di ancora diverso da prima, ma perfetta per quell’uomo. E mentre suonava, si girava sempre verso di me. Come in attesa che io dicessi o facessi qualcosa. Un cenno di approvazione, o che so io… ma molte volta il mio sguardo valeva di più… e allora attaccava un altro motivo, magari ispirato da una giovane donna che gli volteggiava davanti. E diceva: quella non potrebbe essere una prostituta che sta meditando di farsi monaca? E il mio commento, ogni volta, non poteva che essere: Incredibile! Perché lo era… lui suonava l’anima di chi gli stava davanti, la metteva a nudo senza giudicarla, la studiava… E quello lì, cominciava di nuovo. Altro personaggio, altra musica. Era capace di andare avanti per tutta la sera… Guarda come cammina, diceva. Sembra che il vestito non sia il suo, da come lo indossa. E a me scoppiava da ridere, perché era tutto fottutamente vero. Deve essere un clandestino che si è intrufolato tra i ricchi della prima classe in cerca di avventure galanti, stabiliva e tu lo sapevi che era vero, anche se non aveva mai visto quella persona prima di quel momento… Perché lui il mondo non lo aveva visto mai, ma erano trent’anni che il mondo passava su quella nave. Ed erano quasi trent’anni che lui, su quella nave, lo spiava… e gli rubava l’anima… A volte io a terra ci scendevo. Agli sbarchi, con gli altri ragazzi dell’orchestra. Ma mai con Sherlock. Quello mai. L’avevo capito, anche se non lo comprendevo, che lui non sarebbe mai sceso. E mi chiedevo spesso che facesse là sulla nave, tutto solo… Gli dispiaceva che non ero rimasto con lui? Avrebbe di nuovo passato la serata a tirare calci a lattine che vagavano sul ponte e avevano l’unica colpa di essere lì mentre lui era di mal umore? Perché una volta l’aveva fatto… me lo avevano detto… mi aveva guardato allontanarmi con i ragazzi e poi si era fatto tre o quattro volte da prua a poppa tormentando una lattina…Oppure avrebbe usato il telefono di bordo per chiamare gente a caso? Faceva così, dico davvero vecchio, inutile che fai quella faccia… una volta, mi ha raccontato, ha passato la sera a chiacchierare con una certa Molly Hooper. Povera ragazza… mi sa che si era presa una bella cotta… un’altra donna, Sally Donovan, lo aveva chiamato “pervertito” e gli aveva accattato il telefono in faccia, dopo avergli detto di andare “a farsi fottere”… sapevo anche che chiamava l’ippodromo, con somma gioia dell’operatore, che non lo sopportava più. Sherlock chiamava, si faceva dire i nomi dei cavalli, chiedeva se i suoi preferiti, o quelli che conosceva lui da quando era bambino corressero ancora… e poi riattaccava…-

Il vecchietto si mise a ridere e John prese fiato. Non aveva mai raccontato questa storia a nessuno, mai. Aveva lasciato che gli anni passassero, che le persone andassero e venissero dalla sua vita. Si era sposato, aveva divorziato… poi si era sposato di nuovo e aveva divorziato di nuovo. Aveva cambiato città, cambiato lavoro… si era licenziato ed aveva ripreso a suonare la tromba. Aveva conosciuto altri uomini, donne a non finire… ma se si voltava indietro, nessuno di quei volti gli era chiaro nella memoria. Non quello di Sarah, la sua prima moglie. Non quello di Mary, la seconda… sì, i lineamenti li ricordava vagamente, ma non le avrebbe di sicuro riconosciute in mezzo a una folla. Sherlock sì. Di Sherlock ne era sicuro. Di lui ricordava tutto. I capelli neri e indomabili, che sembravano vivere di vita loro, come impregnati di salsedine per i troppi anni sul mare… gli occhi che non avevano il minimo senso e cambiavano colore quasi tante volte quante il proprietario cambiava umore… e poi c’era il modo in cui camminava, gli eleganti completi che portava, come parlava, cosa diceva… il come lo guardava

-Fu una sera di quelle- riprese John, -che salirono a bordo. Erano due, facevano parte dell’entourage di Jim Moriarty, quello che si vantava di aver inventato il jazz. Suonava il violino come un dio sceso in terra, tutti erano pronti a giurarlo. Chiesero a Sherlock se era lui quello che aveva un nome lungo e scemo e suonava solo se aveva l’oceano sotto le chiappe.-

-E che volevano?-

-Fare una cosa che andava molto di moda all’epoca: un duello per stabilire chi fosse il migliore violinista.-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathia's nook:


Ed eccomi qua con il nuovo capitolo, tutto John-Sherlock-centrico. Il primo incontro, la prima vera chiacchierata... i dialoghi sono principalmente quelli del film, così come anche le situazioni, ma ho fatto del mio meglio per aggiungere dettagli qua e là che ricordassero anche la serie e i John Watson e Sherlock Holmes del canone. Altrimenti che cross-over sarebbe? :P

Volevo ringraziare particolarmente le tre bellissime anime che hanno commentato lo scorso capitolo, SherrySmith, Just Izzy e Maya98. Grazie mille dell'appoggio e delle parole... ma, ehi, sì, dico a te.... dai che non mordo! Dimmi che ne pensi? Vado a smacchiare i leopardi o continuo?

Scherzo (ma non troppo...).

Un bacione e alla prossima settimana,

I.L.

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Capitolo 4
*** 3. Duello con l'inventore del jazz ***


 


Duello con l'inventore del jazz


 

 

 

 



Non ci fu mai così tanta gente a bordo del Virginian come quando, nell’estate 1931, ci salì sopra Jim Moriarty. Accompagnato da uno stuolo di facchini e giornalisti, prese alloggio nella suite più lussuosa di tutta la nave e non si fece vedere in giro fino a quando non fu pronto per la sfida. Lui era uno conosciutissimo, che faceva concerti in giro per mezzo mondo e aveva ammiratori su ammiratori. Bastava il suo nome per riempire teatri interi…

Dicevano che aveva cominciato a suonare in un bordello di New Orleans, che lì aveva accarezzato un violino per la prima volta. E lo dovevi suonare con delicatezza il violino, in un bordello, non volevano mica che facevi troppo baccano… e ci credeva sul serio, di essere il re del jazz.

Dovevano avergli detto che, su una nave, c’era un tizio che sapeva suonare meglio di lui. Sì, doveva essere per forza andata così. Perché tu non ci crederai, vecchio, tu Sherlock non sai nemmeno chi sia e va bene così… ma quindici anni fa c’era gente che saliva sul Virginian solo per sentirlo suonare. Persino il senatore Wilson, una volta, si è fatto il viaggio in terza classe, solo per Sherlock. Perché era lì, in terza classe, che Sherlock suonava davvero. E a volte i migranti tiravano fuori chi una chitarra, chi una fisarmonica, chi semplicemente la voce… e io me ne stavo lì, semplicemente fermo a guardarlo e a guardarli, perché non c’era letteralmente altro che potevi fare. Ammiravi questo miracolo della natura e ti dicevi che avevi un culo grosso così per esserci capitato dentro. Perché Sherlock non era così con tutti, Sherlock non suonava il violino per far addormentare chiunque… ha persino composto qualcosa per me, per le notti in cui la coscienza bastarda rimordeva e io mi sentivo troppo in colpa per aver abbandonato la mia famiglia. E allora mi mettevo sul letto a castello della nostra cuccetta –quello in alto… avevamo provato a far star Sherlock in alto, ma quelle rare volte che dormiva aveva comunque un sonno così agitato che una volta era piombato giù sul pavimento, svegliandomi e facendomi prendere un colpo- insomma, io mi mettevo là sul letto e lui si sedeva sotto, abbracciava il violino e mi suonava una ninna nanna che era un perfetto anatema contro i mostri che occupavano i miei sogni.

Comunque, qualcuno andò da Moriarty e gli parlò di Sherlock. E Moriarty fece il grosso, gesticolando e sorridendo sprezzante con il suo diamante tra i denti. E gli dissero anche che, quando Sherlock era in buona e lo lasciavi fare, era capace di suonare qualcosa che era come dieci jazz messi insieme. Ora, Moriarty aveva un bel caratterino, almeno questo lo sai, eh vecchio? Bene, aveva un caratterino niente male… e proprio non gli andava giù che si dicesse questo, in giro, che si dicesse che Sherlock gli avrebbe fatto le scarpe, se solo avesse messo piede a terra, che avrebbe riempito i teatri più grandi in meno tempo di lui, che avrebbe avuto più successo… insomma, Moriarty sarebbe tornato nei bordelli se solo a Sherlock fosse venuto lo sghiribizzo di scendere dal Virginian. Moriarty allora smise di ridere, tirò fuori la sua rivoltella dal calcio in madreperla e la piantò tra gli occhi di chi gli stava dicendo quelle cose. Ma non sparò, no… “Dov’è questa cazzo di nave?” chiese invece, e tre giorni dopo era a bordo del Virginian.

Quello che lui aveva in mente era un duello. No, niente sangue, vecchio, tranquillo… una sfida a colpi di violino. Cose da musicisti. Niente sangue, no, ma l’odio… oh, l’odio era vero! Note e alcol… e poteva durare anche una notte intera. Una sfida a pezzi di bravura… era anche un certo spettacolo, assistervi…

Il solo problema per questa sfida, era che Sherlock non suonava nemmeno nei porti. Diceva che era un po’ stare terra, lo stare in porto. E quindi Moriarty dovette imbarcarsi sul serio, prendere una cabina e tutto. Pagò di tasca propria il biglietto di andata e ritorno per l’Europa. “È la cosa più idiota che io abbia fatto in vita mia” disse ai giornalisti assiepati davanti al molo 14 di Boston, il giorno della partenza, infarcendo il tutto con qualche bestemmia, che ci stava sempre.

Ora, a Sherlock, a essere onesti, non interessava granché del duello. Era affascinato dalla cosa, questo sì, ma non la capiva fino in fondo. Oppure non gli interessava nemmeno capirla, questo non lo so. Per lui era un qualcosa per distrarsi dalla routine, un qualcosa di nuovo di cui parlare… e poi credo che lui fosse sinceramente affascinato da Moriarty. Passò una settimana intera a documentarsi su di lui su tutti gli scampoli di giornale che trovò sul Virginian e poi spedì me a terra per capire cosa ne pensasse la gente di lui. Voleva seriamente sapere come suonasse Moriarty, l’inventore del jazz.

Alle 21 e 37 del secondo giorno di navigazione, col Virginian spinto a 20 nodi sulla rotta di navigazione per l’Europa, Jim Moriarty si presentò in sala da ballo. Elegantissimo nel suo completo scuro, il fermacravatta che riprendeva i gemelli, la brillantina tra i capelli neri e il diamante che gli scintillava tra i denti. Avrei potuto giurare che avesse anche la sua pistola col calcio in madreperla, là da qualche parte. Non aveva l’aria di uno che aveva fatto tutta quella pagliacciata per perdere. Era lì per polverizzare Sherlock e le voci che giravano su lui, era lì perché poteva anche giocare alle regole del mio… amico… ma alla fine avrebbe piegato sia lui che le sue stupide regole e se ne sarebbe andato a testa alta, probabilmente dopo aver sputato sulla carcassa fumante di Sherlock.

Noi tutti sapevamo cosa fare, quando lo vedemmo entrare. Smettemmo di suonare, i ballerini si fermarono, il barman gli versò un whiskey, che Moriarty bevve mentre camminava verso di noi, gli occhi fissi su quelli di Sherlock. Si stavano studiando, questo era ovvio a tutti. Ma mentre Sherlock sembrava quasi incuriosito, Moriarty lo guardava come si guarda la cacca di un piccione che ti rovina il completo migliore. Questo era Sherlock per lui: la merda di un piccione che gli rovinava la reputazione. E andava lavata via. Col sangue, con l’umiliazione… sembrava non interessargli.

-Alzati da lì- gli disse, indicando, con un cenno della mano che reggeva il bicchiere, il seggiolino del violinista.

-Lei è quello che ha inventato il jazz?-

-Già. E tu sei quello che non suona se non ha l’Oceano sotto il culo?-

-Già.-

Si erano presentati. Moriarty accese una sigaretta e la poggiò sul pianoforte, che era proprio lì accanto a loro, si fece passare il proprio violino e prese a suonare. Senza chiedere il permesso a nessuno, senza dire che la gara stava cominciando… io tirai Sherlock per un braccio, ma lui sembrava non rendersi conto del fatto che stava camminando. I suoi occhi erano fissi sulle mani di Moriarty, sul modo in cui si muovevano sulle corde, su come teneva l’archetto e lo muoveva su e giù, gli occhi socchiusi e la testa che ondeggiava al ritmo della sua musica. Era un ragtime. Ma sembrava una cosa mai sentita. Non suonava, lui scivolava in mezzo alle note. Era come la sottoveste di seta di una donna che scivolava via dal suo corpo. E lo faceva ballando. C’erano tutti i bordelli d’America, in quella musica. Dal cliente di lusso alla prostituta sfatta, dalla maîtresse alla guardarobiera… c’era un mondo racchiuso anche nei silenzi tra un movimento e l’altro. Jim Moriarty finì di ricamare note invisibili sulle corde, simili a cascate di perle e diamanti su un pavimento di marmo, e poi si alzò, la sigaretta stretta tra le mani. Era consumata per metà, ma la cenere era ancora tutta lì, impilata e immobile, quasi avesse avuto paura di cadere per disturbare. La prese e la mise sotto il naso di Sherlock, guardandolo con quel suo ghigno storto.

-Tocca a te, marinaio.-

Sherlock sorrise, credo si stesse divertendo. Era decisamente qualcosa fuori dall’ordinario tutto ciò, e quello che era fuori dall’ordinario gli piaceva un sacco. Però, quello che si mise a suonare, di straordinario aveva ben poco. Non fare quella faccia, vecchio, era sempre lui, sempre il solito Sherlock… ma sembrava quasi non aver afferrato la cosa della competizione. E questo non era molto da lui, fidati… l’ho conosciuto bene… forse troppo…

Beh, fatto sta che si è messo a strimpellare una canzone che aveva sentito da un vecchio migrante qualche tempo prima. Credo si chiamasse Torna indietro paparino, o qualcosa di simile. E non è che fosse brutta, per carità, era una cosina carina, le cui parole erano perfette da storpiare se si era sbronzi –sì, abbiamo fatto anche questo- ma non era proprio la musica adatta a un duello con l’inventore del jazz. Lui la suonò giocando un po’ con i bassi, raddoppiò qualcosa, aggiunse due o tre svolazzi dei suoi… ma rimaneva comunque un qualcosa di abbastanza scemo. Sarei riuscito persino a suonarla io, che col violino sapevo fare giusto quelle tre note che mi aveva insegnato lui.

Jim Moriarty fece la faccia di uno a cui hanno rubato i giocattoli di Natale. E, devo ammettere, che un po’ era divertente. Io mi ero sistemato in disparte, avevo accanto a me la sedia vuota dove stava Sherlock quando non si esibiva… e un po’ me la stavo ridendo sotto i baffi. Però, al tempo stesso, era anche un pochetto umiliante. Insomma, io ero di fatto il suo ammiratore numero uno, il suo migliore amico, il suo… e lui per me era diventato tutto. Ero su quella benedetta nave da quattro anni e possono essere quattro secoli, quando si vive gomito a gomito con qualcuno. E credevo di conoscerlo, credevo di aver imparato ogni sfumatura del suo carattere… ma allora perché non si impegnava un po’ di più? Lui era meglio di quella idiozia che aveva suonato, lui avrebbe potuto fare un panino di Jim Moriarty e mangiarselo per chiudere un buco nello stomaco…

E invece, quando si tolse il violino dalla spalla e si mise a sedere accanto a me, aveva gli occhi che gli brillavano. Credo non avesse proprio idea di cosa significasse quel duello…

Jim Moriarty riprese il suo violino e questa volta attaccò un blues. Un blues che avrebbe commosso anche un macchinista tedesco, tanto era bello… una cosa da lasciarci l’anima. E la gente, quando lo finì, si alzò in piedi e quasi si spellò le mani, a furia di applaudirlo. Applaudii anche io. E, cosa assurda ma alla fine non troppo, applaudì anche Sherlock. E quando toccò di nuovo a lui, chiuse gli occhi pieni di lacrime –sì, si era commosso vecchio… Sherlock si era sciolto come neve al sole. Lui che non piangeva mai, lui che diceva che le emozioni erano solo un bagaglio scomodo e inutile… lui mi andava a piangere proprio nel momento meno indicato…- e con gli occhi socchiusi prese a suonare. E cosa ti suona? Ma il blues che aveva appena finito Jim Moriarty. Probabilmente il ragazzo aveva bisogno di ripetizioni per quanto riguardava la materia “duelli”. Perché la rifece praticamente identica. Okay, forse qualcosina la cambiò, dimezzò il tempo, lo rese più lento… ma il succo rimase quello. E alla fine, giustamente, la gente lo fischiò. E, lo ammetto, anche se non ne vado fiero, lo fischiai anche io. Perché, Cristo, a che gioco stava giocando?

Quando Moriarty riattaccò col suo violino, prima fece una smorfia e borbottò “E allora vai a fare in culo, coglione” e poi partì. Ed era una cosa che, persino io che ero abituato a sentire Sherlock –quando era in buona, eh, non la schifezza che aveva fatto quella sera- persino io rimasi con la bocca spalancata. Suonava a una velocità pazzesca, senza sbagliare una nota, pizzicando le giuste corde, con la perfetta inclinazione dell’archetto… e la gente esplose, letteralmente. Saltarono tutti in piedi, si misero a ballare, a battere le mani, a fischiare e applaudire… giuro, vecchio, avresti detto che era Capodanno, dalle urla e dall’entusiasmo. Ma Moriarty non sentiva niente. Suonava con gli occhi chiusi, un’espressione sul viso che molte volte avevo visto su quello di Sherlock, quando faceva sul serio.

Quando finì, mi voltai verso di lui. Non aveva più lo sguardo ammirato di poco prima, anche ogni minima traccia di commozione era sparita. Serrò la mascella e si girò a sua volta verso di me.

-Dammi una sigaretta- disse, allungando la mano bianca verso di me.

Ora, vecchio, questa te la devo spiegare se no non la capisci. Perché le sigarette di Sherlock le tenevo io, dato che lui aveva deciso di provare a smettere. Ogni tanto gliene concedevo una, ma proprio quando ero in buona. Per il resto, lui le sigarette non le vedeva neanche in fotografia. Aveva trentuno anni e fumava quasi da altrettanti –okay, forse non è vero, ma ero sicuro, nonostante all’epoca sapessi pochissimo di medicina, che i suoi polmoni non fossero del tutto sani… ricordavo di averne parlato con un medico tedesco tempo prima, fervido sostenitore del fatto che il fumo facesse male- e quindi smettere sarebbe stata cosa buona e giusta. Però, in quel momento, capivo che potesse aver bisogno di una sigaretta. La tensione, la sfida –che sembrava finalmente aver capito-. Okay, forse una sigaretta gliel’avrei potuta anche dare. Giusto un contentino. Magari si impegnava sul serio e rispediva quel Moriarty nei suoi bordelli davvero.

Sherlock prese la sigaretta tra le mani, ma non la accese. La tenne stretta e tornò a sedersi sul suo seggiolino. Sigaretta da una parte e violino nell’altra. La gente intorno ci mise un po’ a capire che fosse lì lì per suonare… ma lui attese, paziente per una volta nella sua vita. E io ero talmente in punta sulla mia sedia che sarei potuto volare via, se solo ci fosse stato un po’ di vento. Perché stava per succedere qualcosa, me lo sentivo. Lui aspettò che tutti finalmente si rendessero conto che voleva suonare, che il duello non era finito come credevano… poi si voltò piano verso Jim Moriarty che se ne stava tranquillo e con un sorriso tronfio a sorseggiare dello champagne. Gli piantò quegli occhi improbabili addosso e, prima di chiuderli per concentrarsi, sussurrò: “Lo hai voluto tu, violinista di merda”.

Poi poggiò la sigaretta sul pianoforte che era lì accanto.

Spenta.

E prese a suonare.

Ora, nonno, giuro che se tu fossi persino stato lì in quel momento, non avresti creduto alle tue orecchie. Il pubblico si bevve tutto praticamente senza respirare, in apnea. Rimasero fermi immobili, le bocche mezze aperte e gli occhi sgranati, fissi sul violino e sull’uomo che lo stava suonando. Aveva cento mani, giuro, in quel momento Sherlock aveva cento mani e sembrava che il violino dovesse scoppiare da un momento all’altro. Anche dopo la scarica finale, anche dopo l’arpeggio finale –che chiunque altro avesse provato a replicare, come minimo gli si sarebbero accavallati i nervi per l’eternità- anche allora rimasero tutti in silenzio, affascinati, ipnotizzati… rimbambiti da Sherlock e dal suo violino e dalla sua musica. In quel silenzio pazzesco, Sherlock finì di suonare e riprese la sigaretta dal piano, la accostò alle proprie corde.

Leggero sfrigolio.

L’aveva accesa.

Giuro.

Bella accesa.

Sherlock la teneva in mano come se fosse una candela, solo allora capii che non aveva intenzione di fumarla. Si avvicinò a Jim Moriarty, che se ne stava in piedi come un fesso, lo champagne in mano e gli occhi praticamente per terra, da quanto erano fuori dalle orbite, gli si avvicinò e gli porse la sigaretta.

-Fumala tu, che il mio medico dice che io non posso. E non si dovrebbe mai discutere con il proprio dottore- disse, girandosi appena e facendomi l’occhiolino. E fu allora che l’incantesimo si ruppe. La gente si lasciò andare in un apoteosi di grida, urla, applausi e casino totale. Tutti volevano toccare Sherlock, tutti avevano una parola da dire, un qualcosa da gridare… e alla fine se lo presero in spalla e lo portarono in trionfo per tutta la sala della musica, Jim Moriarty fermo come un fesso e la sigaretta tra le mani. Se lo portarono in giro, applaudendo e ridendo, cantando e tutto il resto… ma Sherlock, in tutto quello, aveva occhi solo per me, che me ne stavo in disparte, un sorriso aperto e fiero sul volto. Sembrava, con quei suoi occhi, chiedermi se stesse andando tutto bene, se era stato bravo. E io sollevai entrambi i pollici e scoppiai a ridere, facendolo finalmente rilassare e sorridere a propria volta. Ce l’aveva fatta. Cristo se ce l’aveva fatta…-

 

 

 

-E Moriarty?- chiese Andom, mentre John prendeva fiato. –Che fine ha fatto?-

-Oh, lui ha finito il viaggio chiuso nella sua cabina, berciando contro chiunque anche solo tentasse di avvicinarsi. Una vera diva- ridacchiò l’uomo. –Scese a Southampton e tornò in America su un’altra nave. Sherlock, accanto a me, lo osservò scendere dal ponte di terza classe. E tu non immaginerai mai che ha detto, quando finalmente Moriarty uscì dalle nostre vite… “In culo anche il jazz”!-

E questa volta scoppiò a ridere anche il vecchio.

-C’è una cosa, però, che non mi torna- disse Andom, grattandosi la testa bianca e alzando lo sguardo verso John, quasi a chiedergli il permesso per chiedere ancora, per saperne di più. Ma l’uomo sembrava ben disposto ora, quella cosa del duello gli aveva messo addosso una bella allegria e lo sguardo gli tremava di meno. Sentiva, Frank, che c’era qualcosa che non gli stava dicendo. Sentiva che forse quell’amicizia era più stretta di quanto il trombettista volesse far intendere… ma non era quello che gli interessava. Quelli erano fatti suoi, a essere onesti. Lui vendeva e comprava musica e quel Sherlock sembrava essere stato il più grande violinista che avesse mai solcato i mari.

-Dimmi- si strinse nelle spalle John, asciugandosi gli occhi che lacrimavano per il troppo ridere e sistemandosi il capello sulla testa.

-Ma questa registrazione… tu dici che non dovrebbe esistere, no? Eppure c’è… e dici anche che Sherlock non è mai sceso a terra e mi sta bene… ma allora che…?-

-Come fa a esserci una registrazione che non dovrebbe esistere?-

-Eh, precisamente!-

-Beh, nonno… questa è un’altra storia. Niente più duelli, niente di tutto questo, ‘sta volta. Centra una donna, come sempre- confessò, stringendosi nelle spalle e serrando i denti, quasi senza accorgersene. Quasi fosse un riflesso condizionato dal ricordo. –La donna per la quale Sherlock è quasi sceso dal Virginian…-

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Capitolo 5
*** 4. La Donna ***


 

 

La Donna

 

 

 

 

 

Portarono tutti gli apparecchi sul Virginian, per fargli registrare quella musica. O una musica qualsiasi. Il tizio che gli fece firmare il contratto non era proprio un esperto, a lui bastava vendere. E Sherlock gli avrebbe fatto vendere tanti di quei dischi… solo che con lui non potevi mai sapere. Avrebbe suonato? E cosa, avrebbe suonato?

Prima di prendere il suo violino, Sherlock se ne stette quasi venti minuti buoni ad osservare il coso che avrebbe registrato il tutto –sì, coso, nonno. Non me li ricordo i termini tecnici, va bene?-. Però c’ero anche io. Ormai stavo su quella bagnarola da quasi cinque anni, non c’era una singola cosa che non facessimo insieme… quindi c’ero anche io, il giorno della registrazione. Non che Sherlock me lo avesse chiesto, non era da lui venire lì da te, diretto, e dirti “Questa cosa del contratto mi fa una paura boia. Che, sei per caso libero domani pomeriggio?”, ma glielo potevi leggere negli occhi. E quante cose ci ho letto, in quegli occhi, per tutti gli anni che sono stato sul Virginian…

Sherlock, dopo aver scrutato critico tutti i vari apparecchi, tubi, fili e cavi, sembrò rassegnarsi alla cosa –devo ammettere di aver anche un po’ spinto io perché lo facesse. Forse, dentro di me, speravo che, se si fosse reso conto che la sua musica piaceva anche a terra, se si fosse reso conto che c’era davvero un qualcosa per lui là, da qualche parte che non fosse il Virginian, forse un giorno sarebbe sceso con me. Ero giovane e illuso, vecchio… e forse mi ero anche… no, non importa.-

Non gli diedero un via, lo lasciarono libero di fare. Almeno questo di lui lo avevano capito… e lui imbracciò il violino e prese a suonare. È quella musica lì, vecchio, quella che hai tu… no, non importa che la metti su. La conosco… oh se la conosco! Però fai come ti pare, eh… fammela sentire un’altra volta, se proprio ci tieni… okay… oh sì… l’ha suonata tutta guardando fuori dall’oblò, sai? Eravamo nello stanzone dove gli immigrati si stipavano prima di scendere se fuori c’era brutto tempo. Era abbastanza grande per tutte le apparecchiature e Sherlock –anche se non lo aveva mai detto esplicitamente- si trovava più a suo agio a suonare lì. Te l’ho detto, vero nonno? Te l’ho detto che era in terza classe che dava il meglio di sé, vero? Beh, comunque si mise a suonare e io me ne stavo lì, a qualche passo da lui. Le mani in tasca, lo sguardo fisso e commosso, la testa che ondeggiava piano e il cuore pieno di… ma lui non guardava me. Di solito lo faceva, soprattutto quando improvvisava, come stava facendo in quel momento. Sherlock piantava quei suoi occhi assurdi nei miei e mi guardava intensamente per tutta la durata del pezzo. Sembrava quasi cercasse la mia approvazione tutte le volte. Quasi “se piace a John allora è buona musica”. E devo ammettere che la cosa mi piaceva, mi faceva sentire importante.

Ma questa volta no.

Questa volta ero un semplice spettatore, la sua attenzione era altrove.

Ci misi un po’ a vederla, perché il vetro era appannato e sporco. Prima la sentii attraverso la musica, attraverso le note di Sherlock. Era una ragazza, poteva avere al massimo vent’anni. Migrante, forse italiana, come ce n’erano tante, ma questa l’aveva colpito. Lunghi capelli neri acconciati alla meno peggio ma che le donavano un’aria aristocratica che nessun poveraccio aveva, occhi grandi e azzurri, bocca che sembrava essere nata per baciare… era una regina col cappotto con le toppe. E Sherlock la guardava e lei guardava lui. E lui suonava e lei se ne stava ferma immobile. Poi si stropicciò un occhio e io credetti che la magia si fosse interrotta, ma Sherlock sembrava incantato e la musica continuava… ed era così bella, vecchio… quella registrazione non rende, fidati. Era bella.

La ragazza si spostò, scomparve dall’oblò dov’era stata fino a poco prima e Sherlock sembrò riprendersi. Poi, però, ricomparve nell’oblò successivo e in quello dopo ancora… stava passeggiando tranquillamente, era una bella giornata e non c’era nulla di male in questo. Era quello che stava succedendo in Sherlock che mi sconvolgeva. Di donne ne aveva conosciute, aveva avuto anche lui il suo numero di ammiratrici. Dalle più benestanti ed ingioiellate che gli avevano promesso ogni cosa per una notte insieme, alle più spiantate e non per questo meno belle o meno pronte a dargli qualsiasi cosa… ma, che io sapessi, non era mai stato con nessuna. Da quel punto di vista, sembrava non essere umano. Passava il suo tempo con me, suonava, stava con me, pizzicava il violino, scambiava due parole con me… sembrava che alla sua vita non servissimo altro che il violino ed io. Quindi capirai vecchio se ci rimasi di sasso nel capire che quella musica era per quella ragazza sconosciuta, che l’aveva conquistato in meno di cinque minuti. Sono cose a cui nemmeno cinque anni con Sherlock ti preparano…

-Sei stato magnifico. Come sempre- dissi, avvicinandomi, quando la musica finì. La ragazza era scomparsa, ma Sherlock aveva ancora lo sguardo perso fuori dall’oblò, quasi sperava ricomparisse.

Quando sentì che gli avevo rivolto la parola, si voltò verso di me, quasi a cercare conferma che ci credessi davvero, a quel complimento? Ero come avrei potuto mentirgli? Ormai ero completamente…

-Che meraviglia, signor Sherl!- intervenne il tizio della casa discografica, chiamandolo con quel nomignolo che avrebbe fatto rabbrividire uno squalo. –Sono sicuro che questa musica farà scorrere fiumi e fiumi di lacrime, bisogna solo trovarle il nome adatto. Qualcosa come…-

E andò avanti a borbottare nomi, uno più stupido e meno poetico dell’altro. Così mi feci più vicino e mi sedetti accanto a Sherlock, che ancora mi guardava. Era una cosa alla quale non avrei mai fatto l’abitudine. Nemmeno dopo cinque anni. Nemmeno dopo un miliardo. Sherlock era capace di tenere lo sguardo su di te per degli interi minuti senza dire niente, occhi negli occhi… e spesso lo faceva quando eravamo a pochi centimetri di distanza come in quel momento. E devo dire che la cosa mi faceva sudare freddo… ma non era paura, vecchio…

-Hai sentito? La gente l’adorerà. La gente ti adorerà- dissi, battendogli una pacca sulla spalla. –Se solo ti decidessi a fare il grande passo, a inseguirla…-

Sherlock mi guardò confuso. Per un attimo, credo abbia pensato che mi riferissi alla ragazza. Forse quello che aveva detto quello della casa discografica e la prima parte del mio discorso non l’aveva sentita. Capitava spesso con lui: o gli parlavi e non sentiva perché era perso in chissà quale meandro della sua mente, oppure ti parlava senza rendersi conto –o fregandosene- del fatto che tu non fossi più nella stanza con lui. Una volta era successo e mi aveva tenuto il broncio per qualche ora. Mi aveva chiesto di passargli una matita –che, bisogna specificare, era a due centimetri dal tavolo dove stava componendo- solo che io ero uscito e lui se n’era dimenticato o qualcosa di simile. E così aveva dovuto fare lo sforzo enorme di alzarsi e prende lui stesso la matita… insomma, mi aveva inflitto il trattamento del silenzio per qualche ora, come “punizione”…

Quindi era assolutamente possibile che avesse sentito solo una piccola parte di quanto gli avessi detto e avesse capito l’otto per il diciotto.

-Dico che potresti scendere da queste quattro assi di legno e finalmente vivere!- spiegai, prendendo un bel respiro. –La gente ti amerebbe… Cristo, già ti amano senza conoscerti! Potresti fare concerti… vivere di musica esattamente come fai ora, ma sulla terra ferma…

-Signor Sherl, non c’è assolutamente bisogno che lei faccia nulla di tutto questo- mi interruppe il discografico, cacciando le mie parole con un gesto della mano, quasi fossero mosche fastidiose. Ma Sherlock non staccò lo sguardo da me. Gli è sempre importata la mia opinione. Forse è per questo che io mi sono… -Con questa bellezza- riprese l’uomo, indicando teatralmente la macchina, lei potrà continuare con la sua vita di sempre sul Virginian e intanto raggiungere tutti con la sua musica.-

E fece partire la registrazione.

Credo sia stato quello il suo errore.

Perché Sherlock, distogliendo lo sguardo da me, guardò prima il proprio violino, poi le proprie mani, quasi a voler essere sicuro che non fosse lui quello che stava suonando, poi i suoi occhi si fecero di ghiaccio, quando finalmente comprese.

-Ne diffonderemo milioni di copie. Milioni! E tutto il mondo conoscerà la sua musica, signor Sherl…-

-La mia musica non andrà dove non ci sono io- lo gelò, guardando il macchinario come se fosse la cosa più orrenda che avesse mai visto in vita sua. Poi si alzò di scatto e, sotto lo sguardo stupito dell’operatore e furibondo del discografico, si prese la registrazione e, dopo una rapida occhiata a me, si allontanò furibondo, il rumore dei suoi passi sul legno che copriva le proteste e le grida dell’uomo.

 

 

 

-Ma quindi… quindi questa registrazione l’ha presa lui- rifletté Andom, che ora la guardava come un credente guarderebbe una reliquia. John seguì il suo sguardo e quasi sorrise con affetto al vecchio disco. Era, con molte probabilità, l’ultima cosa che gli rimaneva di Sherlock… -E perché è rotta? E cosa centra la ragazza?-

John represse una smorfia. Questa parte non gli piaceva, non gli piaceva per niente. Perché il vecchio non l’aveva visto, come Sherlock aveva guardato quella sconosciuta. Come aveva suonato, rapito e incantato, quando lei era stata con lui. Non poteva capire il pentolone di emozioni che si era agitato in lui: invidia, perché quella ragazza avrebbe potuto averlo, avrebbe potuto avere ciò che John nascondeva persino a se stesso; gelosia, perché Sherlock aveva sì composto per lui, ma non l’aveva mai fatto in quel modo; gioia, perché forse sarebbe riuscito finalmente a farlo scendere da quella nave; e tristezza, perché era consapevole del fatto che, se anche fosse sceso dal Virginian, non l’avrebbe fatto per lui. O con lui. Si sarebbero visti, avrebbero continuato a frequentarsi e, chissà, anche a suonare insieme, ma non sarebbe stata la stessa cosa, John lo aveva capito.

-Oh, nonno, la ragazza centra tutto- ammise John, la testa incassata tra le spalle. –Perché tu non lo hai visto, tu non c’eri… ma quella giovane gli piaceva. Era riuscita, non saprei dirti come, a far breccia nella corazza che Sherlock aveva costruito attorno a sé. E lo aveva fatto senza una parola, ma solo con lo sguardo… Sherlock voleva darle la registrazione, sai? Quindi un po’ speciale doveva essere… tu non sai quante volte ha fatto pratica davanti allo specchio del nostro armadio! Si metteva lì, il pacchetto con il disco in mano, prendeva un respiro profondo, apriva la bocca… e si bloccava. Oppure gli riusciva di dire almeno un paio di parola, prima di ricadere in un balbettio senza senso.-

-E tu?-

John annuì mesto, sollevando lo sguardo.

-E io cosa, nonno?-

Avevano smesso di darsi del “lei” ore prima. Adesso Andom aveva messo su del tè e aveva anche offerto a John dei biscotti, perché davvero aveva l’aria di uno che non mangiava bene da tempo.

-E tu cosa facevi, no? Insomma, si vede che a questo Sherlock ci tenevi. Era tuo amico. O era quel cavolo che ti pareva, a me sinceramente non interessa. Sono troppo vecchio per mettermi problemi per certe cose… però… beh, non deve essere stato bello per te…-

-Con Sherlock era così. O assecondavi le sue pazzie, le sue ossessioni… oppure eri fuori. Non so le l’avrebbe fatto anche con me, non avrei mai voluto provarci. Che facesse quel che gli pareva… se voleva dare la registrazione alla ragazza, oh, ma che facesse pure…- si strinse nelle spalle. –Tanto, di pazzie ne faceva tante, con o senza il mio permesso…-

 

 

 

 

-John, ho fatto una pazzia.-

Entrò così nella nostra cabina una notte. Era fradicio di pioggia, i capelli neri gli stavano tutti incollati sulla fronte, sotto il capello, e gli occhi sembravano ancora più improbabili e cangianti.

Io mi tirai su di scatto dalla mia branda e accesi la luce, stropicciandomi gli occhi. Dovevano essere le tre di notte o giù di lì. Non era strano che Sherlock rientrasse a orari improbabili. Molte sere, soprattutto da quando c’era quella ragazza a bordo, se ne stava fino a tardi giù nello stanzone dove avevamo registrato e suonava. Era l’unico punto della nave dove non avrebbe dato fastidio a nessuno –non che la sua musica fosse un fastidio ma, insomma, certe volte uno vorrebbe anche dormire, ecco- e se ne stava là per ore e ore. In piedi, sdraiato sulle panche, la fronte schiacciata contro l’oblò… e suonava. O componeva. O pizzicava le corde e basta, giusto per pensare e tenere le mani impegnate nel frattempo.

Ma non quella sera. Quella sera doveva aver fatto qualcosa di grosso, se mi veniva a svegliare. Sapeva che odiavo quando lo faceva, quindi doveva esserci sotto qualcosa di grosso.

-Che c’è?- chiesi, mettendomi su un fianco e guardandolo, la testa sostenuta da una mano. E lo guardai mentre andava su e giù per la nostra cuccetta, il cappotto bagnato che gli penzolava addosso e il cappello che perdeva acqua.

-Ho fatto una pazzia.-

-Questo lo avevo sentito. Vai avanti.-

Si passò una mano tra i capelli e poi calcò di nuovo il capello, quasi dovesse uscire da un momento all’altro.

-Hai presente quella ragazza, vero?-

Ricordo che alzai gli occhi al cielo. E chi se la sarebbe scordata?

-Sei riuscito a darle la registrazione?

-No… sono stato dove dorme. Nel dormitorio delle donne di terza classe- specificò, sempre andando avanti e indietro, facendomi venire il mal di mare. E non solo per come camminava…

-Oh. Ehm… bene… uh- fu tutto quello che riuscii ad articolare, non ben sicuro del perché mi fosse improvvisamente venuto un gran mal di pancia e avessi l’istinto di fare qualcosa di violento. A chi te lo lascio immaginare, vecchio… -Che accidenti hai fatto?- chiesi alla fine, battendo gli occhi incredulo.

-Sono andato nel dormitorio di terza classe, John- ripeté lui, spazientito.

Oh, ma certo. Ora faceva anche il difficile… lui poi….

-E… sì, okay. Questa è una cosa decisamente “non buona”, Sherlock- dissi, prendendo un bel respiro mentre lui finalmente si fermava.

-Ma davvero, John? Giuro che non ci ero arrivato- ribatté lui, togliendosi finalmente il cappotto e il cappello e appendendoli per farli asciugare.

-E perché ci sei andato?-

-Io… non lo so.-

Che Sherlock non avesse una risposta questa sì che era una novità. Sherlock era una di quelle persone che sarebbe sopravvissuto alla Morte, cercando di avere l’ultima parola. Ed era una di quelle persone che avrebbe fatto incacchiare Dio, per avere sempre ragione. Quindi, che non sapesse qualcosa… oh, vecchio! Questa davvero non me la sarei mai aspettata.

-Okay, allora andiamo oltre. Che hai fatto quando sei entrato?- chiesi, passandomi una mano sul viso e stropicciandomi gli occhi. Cristo se avevo sonno!

-L’ho cercata- rispose, ricominciando a camminare e facendomi tornare il mal di mare. –E l’ho anche trovata, John… dormiva…-

Io devo aver borbottato qualcosa come “ma non mi dire!”, ma Sherlock non dovette prenderla bene, perché mi lanciò un’occhiataccia…

-Mi sono avvicinato alla sua cuccetta e… John, era bella mentre dormiva. Tu lo sai che non mi sono mai curato di queste cose, che ritengo che siano altre le cose importanti nella vita… ma mentre ero lì, la mia musica che mi riempiva la testa, è stato come un’epifania: quella ragazza è bella.-

-Bene, felici che ci siamo arrivati- sibilai io. –Ora possiamo tornare a letto? O hai qualche altra “epifania”- virgolettai in aria, -da condividere alle tre di notte?-

Sherlock mi scrutò in viso, avvicinandosi. Aggrottò le sopracciglia e mi venne talmente vicino che fui costretto a spostarmi all’indietro per evitare di… per quanto uno strano brivido mi scese lungo la schiena al pensiero…

-L’ho baciata- sussurrò alla fine, a un centimetro dalla mia bocca e gli occhi fissi sulle mie labbra. –L’ho baciata, John-ripeté, questa volta guardandomi negli occhi e facendomi venire una strana voglia matta di… di annullare la distanza. Sì, vecchio, volevo baciare quel figlio di puttana, okay? Volevo prenderlo e sbatterlo contro il muro, baciarlo fino a quando entrambi non avremmo avuto fiato e poi… e poi fare cose che non si dovrebbero nemmeno pensare. Okay, nonno. Okay. Dimentica quello che ti ho detto. Dimentica.

-L’hai baciata?- ripetei. –E lei…-

Sherlock si ritrasse stizzito e io ripresi a respirare normalmente.

-E lei dormiva, no? Sono… sono scappato subito dopo- ammise. Avrei detto che si vergognasse, ma la vergogna non era cosa da Sherlock.

-Pensi di esserti innamorato?- chiesi, cercando di suonare il più naturale possibile. Sherlock era il mio migliore amico, fine della storia. Ed è normale essere un po’ gelosi quando il proprio migliore amico perde la testa per qualcuno, no? Insomma, non ero io quello che andava in giro a baciare sconosciute mentre dormivano… ehi, nonno, via quello sguardo, eh! Ti avevo detto di dimenticare quello che mi è sfuggito prima!

-Non lo so- ammise Sherlock, poggiandosi a uno dei due pali che sorreggeva il letto a castello e lasciando la testa ciondolare all’indietro, pericolosamente vicina alla mia… -Non lo so. Non mi è mai successo prima…-

-Mai?- pigolai, strozzandomi con la mia stessa saliva.

-Mai- confermò lui.

 

 

-Non dirmi che è finita così!- protestò Frank, poggiando la tazza sul piattino e guardando John come oltraggiato. –Era davvero innamorato? È sceso per quella ragazza e non vi siete più visti?-

John scosse la testa, nascondendo un mezzo sorriso. Giocherellò con i pistoni della tromba e poi, finalmente, alzò lo sguardo.

-Sherlock non è mai sceso, nonno. Mai. Come te lo devo dire? Non è sceso per lei, non è sceso con me… starà ancora là sul Virginian che se ne va avanti e indietro… che c’è?- si interruppe bruscamente, notando il lampo che aveva attraversato gli occhi dell’altro.

-E la registrazione? È rotta…- disse, indicandola con la mano con cui reggeva la tazzina.

-Perché Sherlock provò a darla alla ragazza. Poveretto…- commentò. –Si decise all’ultimo. E non dico in senso metaforico, ma proprio all’ultimo! Eravamo al porto, stavano sbarcando tutti… e lui che la inseguiva attraverso la folla, brandendo la registrazione e tenendola alta. Provò a parlare, riuscirono a scambiare due parole –credo che lei l’abbia invitato ad andarla a trovare- ma poi… ma poi la folla li allontanò di nuovo. Sherlock tentò di urlarle qualcosa, ma non era nelle sue corde… e così, alla fine, si limitò a sollevare il capello per salutarla e le augurò buona fortuna. Quando lo ritrovai io, se ne stava su uno dei ponti e la registrazione era spezzata tra le sue mani. Non mi parlò più di quella ragazza, né io gli chiesi di farlo. Non lo facemmo più per le dodici traversate successive. E poi, che motivo c’era? Lui sembrava il solito di sempre, la sua popolarità era al culmine… fino a che un giorno, a metà strada tra Genova a New York… cadde il quadro!-

Il vecchio sembrò tornare al presente e aggrottò le sopracciglia. John lo aveva notato assente negli ultimi minuti ma, avendo condiviso parte della sua vita con Sherlock che aveva la soglia d’attenzione di un bambino piccolo, non ci aveva fatto caso più di tanto. Sembrava che stesse seguendo il filo di chissà quale pensiero… ma questa cosa del quadro lo riportò lì con lui, il pensiero che spariva e si rimpiccioliva nei suoi occhi.

-Quale quadro?- chiese infatti.

-È una metafora, nonno. Per dire che fu in quella primavera, che Sherlock mi parlò per la prima volta, seriamente, di scendere dal Virginian.-

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Capitolo 6
*** 5. Scendere ***


 

 

Scendere

 

 

 

 

 

 

A me ha sempre colpito questa cosa dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla, dico, fran, giù che cadono. Stanno lì, attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile attorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un anima anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora siamo intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, notte. Sette anni dopo, il 13 maggio, alle sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’oceano, Sherlock alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”.

Ci rimasi secco.

 

 

Il vecchio scoppiò in una risata spontanea e John si lasciò sfuggire un sorriso. Ma era vera la cosa del quadro, ci aveva pensato spesso. E sentiva che era il paragone giusto, con Sherlock. Quadri e musicisti, instabili e bellissimi. Opere d’arte fragili e piene di tutto.

-Te lo disse di punto in bianco?-

-Così come te lo sto dicendo ora. E non era un giorno particolare, non era girato o altro… semplicemente voleva scendere.-

-E tu?-

-E io…- annuì mesto John. –E io che ci potevo fare? Sherlock aveva sempre fatto di testa sua. Con lui era così: o ti adeguavi, o passi lunghi e ben distesi, non si sarebbe sentita la tua mancanza. Ma io ci tenevo a lui… nonno, ghigna di nuovo in quel modo e userò questa tromba per… ci tenevo a lui e volevo che fosse felice. Però questa cosa non mi tornava. Insomma, uno non passa trent’anni su una nave e poi decide di scendere così, dall’oggi al domani, praticamente senza dire niente al proprio migliore amico, no?-

-Quindi che facesti?-

 

 

 

A un quadro non si può chiedere. Sembreresti un pazzo a chiedere delle spiegazioni a lui o al chiodo, ma con Sherlock ci potevi parlare. E lui ti rispondeva anche per bene, sensatamente, con garbo, se era in vena.

O se ero io a chiederlo.

Lo trovai sul ponte di terza classe. Le braccia intrecciate e strette addosso, il cappotto nero mosso dal vento e i capelli scuri che si arricciavano ancora di più, impregnandosi di salsedine.

-Perché?- chiesi, mettendomi accanto a lui e calcandomi il cappello sulla testa. Era primavera, ma faceva freddo. Soprattutto se si stava navigando veloci come in quel momento.

-C’è una cosa, laggiù, che devo vedere- rispose, sorridendo appena e voltandosi a guardarmi con quell’aria che voleva dire tutto e niente. Era come se mi prendesse in giro e al tempo stesso mi supplicasse di non lasciarlo mai.

-E sarebbe?-

-Il mare- rispose lui, tutto serio. E forse fu la sua serietà a impedirmi di ridere. Perché, ammettiamolo, era assurda come cosa.

-Il mare?!- replicai scettico.

-Il mare- annuì Sherlock, gli occhi sempre piantati nei miei.

-Sono trentadue anni che lo vedi, il mare.-

E allora lui scosse la testa, un mezzo sorriso che spuntava sulle sue labbra.

-Io lo vedo da qua, John- cominciò a spiegarmi con calma, quasi fosse una nuova teoria scientifica e non la boiata più grande del secolo. –Ma non mi dice nulla. Non mi parla. Se invece io scendessi, se mi mescolassi alla gente laggiù… se mi trovassi un posto dove stare, lontano da tutto questo- continuò, indicando con uno svolazzo della mano la nave e l’Oceano, -se me ne sto un po’ lontano, magari arriverà il giorno in cui arriverò a una costa qualsiasi e il mare mi parlerà.-

Io inarcai un sopracciglio. Intendiamoci, volevo con tutto me stesso che Sherlock scendesse dal Virginian, che diventasse uno “normale”… no, forse quello no, non lo volevo… ma volevo che avesse una vita sua che andasse al di là di questa nave del cavolo. Perché sapevo che un giorno io me ne sarei andato e volevo con tutto me stesso sapere che lui sarebbe stato bene. Quindi, qualunque scusa il suo cervello avesse elaborato, a me stava bene. Bastava che scendesse.

-Mi verrai a trovare, vero?- chiese allora, la voce insolitamente sottile e insicura. Ora non mi guardava, si tormentava le mani pallide.

Dio, mi sembrò di avere un sasso in gola, in quel momento. E pensare che, quella mattina, il mio più grande problema era stato che non trovavo il rasoio per radermi… Mi misi a ridere, allora. E blaterai stronzate sul fatto che certo che lo sarei andato a trovare, che certo che non si sarebbe liberato di me! Che sarei stato ospite suo e di sua moglie tutte le domeniche, che lei avrebbe cucinato e io le avrei fatto i complimenti per l’arrosto… e mentre io ridevo, Sherlock rideva con me. Perché era fatto così: un cervello immenso, un cuore grande che teneva nascosto e un’insicurezza che un giorno lo avrebbe ucciso. Ma se io ridevo, allora la cosa non era grave. Era come se fosse in perenne attesa del mio giudizio. E la risata poteva significare una sola cosa: andava tutto bene.

 

 

 

Fu al terzo gradino che si bloccò. Fermo immobile come un palo.

Era una mattina di marzo, il vento era forte e gli avevo prestato il mio cappello. Okay, glielo avevo dato principalmente perché così avrei avuto una scusa per andarlo a cercare. E lui aveva casualmente dimenticato il suo paio di guanti preferito sopra il mio cuscino.

Che due fessi…

Vabbè, fu come non fu, si bloccò.

Eravamo tutti sui ponti, a guardare la cosa. Era uno spettacolo d’eccezione, la novità dell’anno… persino il capitano Anderson si commosse, quando gli diede la sua prima e ultima paga. Eravamo pronti a dirgli addio, a vedere la sua figura rimpicciolirsi e poi confondersi tra la folla…

Ma lui si bloccò.

Noi a chiederci cosa fosse successo, perché se ne stesse con un piede sospeso tra i secondo e il terzo gradino. Ma Sherlock era di spalle, non avrei potuto leggergli il viso. E ne stette una bella eternità così, nonno, fermo e dritto come un palo. Guardava avanti a sé, sembrava stesse cercando qualcosa. Poi fece una cosa strana: si tolse il capello –il mio vecchio e stupido capello- e lo lasciò cadere oltre la scaletta. Lo osservò volare giù, come un uccello stanco, come una frittata… poi si strinse nelle spalle e prese di nuovo a camminare.

Ma in senso contrario.

Non stava più scendendo, stava risalendo. E aveva sul viso uno dei più bei sorrisi che io gli avessi mai visto. Fece altri due passi e mi si fermò davanti, sempre in attesa della mia approvazione.

-Tu devi essere il nuovo pianista- scherzai, tendendogli la mano. –Mi hanno detto che sei il migliore- risi, quasi sollevato che non se ne fosse andato sul serio. Perché avrei davvero voluto che scendesse… ma allo stesso tempo non volevo. Perché su quella nave, sul Virginian, c’eravamo solo noi due. Se fosse sceso… magari si sarebbe davvero fatto una vita sua. E io non volevo finire nel dimenticatoio. Non quando… non quando mi ero innamorato di lui. Ecco, l’ho detto, vecchio, sei felice?

 

 

 

Frank Andom fece un sorriso sghembo che gli illuminò gli occhi neri.

-L’avevo capito dal momento che sei entrato, John- disse, versandosi dell’altro tè. –Certe cose non sono difficili da vedere- aggiunse, l’aria di una vecchia comare. –A proposito di vedere, ti ha mai detto perché è tornato indietro?-

John si strinse nelle spalle, come svuotato dall’ammissione di poco prima. Era la prima volta che lo diceva ad alta voce, senza zittirsi o senza sentirsi in colpa. Andom non l’avrebbe mai più rivisto e a lui aveva fatto bene cavarselo fuori.

-Non me lo hai mai voluto dire. E io, a essere onesti, non ho mai insistito. Insomma, erano fatti suoi. Solo una cosa mi disse. Era una sera e ce ne stavamo nella nostra cuccetta… disse: “Non dovrai più preoccuparti per me, John. Io non sarò mai più infelice”. Disse così, o una cosa molto simile. E allora seppi che era finita davvero, che non gli sarebbe mai più venuta la mania di scendere…

 

 

 

Il dal Virginian, invece, ci scesi il 21 agosto 1933. A guardare indietro, non ricordo i particolari di quel giorno. Probabilmente li ho rimossi. Probabilmente perché non ne vado fiero.

Non eravamo tipi da addii, Sherlock ed io, quindi non ci dicemmo nulla. Lui non commentò, non fece domande quando glielo dissi, io non provai a convincerlo a venire con me. Avevo capito che quella era una battaglia che non avrei mai vinto.

Tutt’oggi, non so dire perché scesi. Forse perché se sei un marinaio, la tua vita è l’Oceano. Ma se suoni la tromba… ti senti un passeggero a vita. E io non potevo più fare il passeggero. Avevo rintracciato la mia famiglia, avevo sentito che mio padre era morto e che mia sorella aveva seri problemi con l’alcol. Le cose non erano migliorate da quando me n’ero andato, sei anni prima. All’epoca ero stato un ragazzino che aveva inseguito un sogno… e aveva trovato molto di più. Ma non si può vivere nei sogni, per quanto belli e dorati siano. Dovevo scendere e affrontare la realtà come l’uomo che ormai ero. E così andai dal capitano Anderson e diedi le dimissioni. Penso che ci rimase male persino lui… ma prima o poi me ne sarei dovuto andare. Meglio prima, mi dissi.

-Meglio prima- disse Sherlock, guardandomi fisso, senza un accenno di sorriso negli occhi. Forse lo avevo fatto arrabbiare. Forse era triste. Forse non voleva che me ne andassi esattamente come io non volevo farlo senza di lui. Si vedeva che non aveva nessunissima voglia di vedermi scendere quella scaletta.

L’ultima volta che suonammo insieme, fu come la prima: per i ricconi della prima classe, che ci volteggiavamo intorno ignari. E a un certo punto partii per il mio assolo… e sentii il violino venire con me, piano e dolcemente, quasi mi stesse chiedendo il permesso di poterlo fare. E suonammo insieme come non avevamo mai fatto. Senza spartito, senza niente… io che dettavo le regole e Sherlock che mi veniva dietro senza difficoltà. Ci lasciarono andare avanti per un bel po’, quasi tutti sapessero quanto quello fosse speciale per noi. Per me. Per Sherlock. E smisero anche di ballare a un certo punto, perché forse capirono che quella musica, che noi suonavamo a occhi chiusi, non era per loro. Non era per nessuno se non per noi due.

-Guarda quello con la tromba- sentii dire da qualcuno, -guarda com’è buffo! Suona e piange insieme! Sarà ubriaco… oppure è pazzo…-

 

 

Come sono andate le cose dopo che sono sceso di lì è decisamente poco interessante. Ho messo da parte la tromba per qualche anno, sono diventato medico, mi sono sposato… ho fatto quello che Sherlock, storcendo il naso, avrebbe definito “crescere”. Ho fatto anche la guerra, come medico. E sono stato rispedito a casa dopo che mi avevano colpito. Ho divorziato, mi sono sposato una seconda volta… ma nulla mi rendeva davvero felice. Era come se una parte di me –e non tanto piccola- fosse rimasta sul Virginian a suonare la tromba con Sherlock. E infatti ho ripreso a suonarla, ma non era la stessa cosa. Era come se non sapessi più suonare senza l’Oceano sotto le chiappe. E così anche Mary mi ha lasciato…

 

 

-E io sono finito a vendere la tromba per poter vivere- concluse John. –Questa è la mia storia. Nulla di più, nulla di meno.-

Frank sospirò pesantemente, passandosi una mano tra i capelli bianchi. Sembrava essersi dimenticato come si parlasse. E a John quasi venne da ridere, perché lui probabilmente avrebbe provato lo stesso, se gli avessero raccontato una cosa del genere.

Guardò fuori dalla finestra e vide che stava albeggiando. Aveva davvero parlato tutta la notte? Non si sentiva stanco, non gli cadevano le palpebre… era la stessa cosa quando stava alzato a chiacchierare con Sherlock. Non sempre parlavano davvero, a volte non serviva riempire il silenzio di parole… a volte bastava appunto quello, il respiro dell’altro, il sapere di non essere soli in quel mondo galleggiante sperduto in mezzo all’Oceano che era il Virginian.

-E non hai saputo più nulla di lui?- chiese Andom, ora con di nuovo quella strana luce negli occhi. Era un po’ che lo guardava così, si rese conto John, da quando gli aveva detto che Sherlock non era sceso. Mai.

-Abbiamo perso i contatti. Sai, con la guerra in mezzo… e lui viveva in quel mondo dorato lassù, non me la sentivo di trascinarlo nei miei casini, a essere onesti. Però… però sì, ci sono stati dei momenti in cui mi dicevo “Sherlock cosa avrebbe fatto?” o “Sherlock cosa avrebbe detto?”- disse John, ridendo, ma interrompendosi nel vedere gli occhi seri di Frank. –Nonno, che hai?-

-John, ragazzo, io… io non so come dirtelo- disse alla fine lui, alzandosi per mettere via le tazzine. Tra poco era orario di apertura.

-Che succede?-

-Quella registrazione… era in quel pianoforte lì- cominciò, sempre rimanendo di spalle. –Me l’hanno portato ieri mattina. Era nella vecchia nave ospedaliera, quella che vogliono far saltare giù al porto perché è vecchia come il cucco.-

John si alzò di scatto, come se il seggiolino fosse diventato improvvisamente incandescente. Gli era sembrato di riconoscere quel piano, ma si era detto di essersi sbagliato, perché era notte… perché era una notte di ricordi… Ma lui quel pianoforte l’aveva già visto, ci aveva suonato accanto per anni…

-Nonno, qual è il nome della nave che vogliono far saltare?- chiese, cercando di mantenere un tono distaccato e placando l’ansia.

-Virginian, figliolo… ma quel tuo amico, Sherlock… magari alla fine è sceso…- tentò di dire, ma John l’aveva già superato di gran carriera, tromba alla mano.

Si voltò solo quando fu sulla porta, lo sguardo che gli tremava di nuovo.

-No, Sherlock non è mai sceso- disse. -È su quella nave e ora salterà per aria anche lui…-

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Capitolo 7
*** 6. Qualcosa nell'ombra ***



Qualcosa nell'ombra

 

 

 

 

 

John correva.

John aveva corso tante volte nella propria vita, per un motivo o per un altro. La prima volta che si era trovato un lavoro e non aveva messo la sveglia, oppure quella volta che aveva deciso di portare Sarah al cinema e non gli era partita la macchina… persino il giorno del suo matrimonio aveva corso, perché quei confetti del cavolo gli si infilavano ovunque e il ristorante era proprio dietro l’angolo e così aveva preso per mano Mary ed erano corsi via, ridendo come due scemi.

Ma questa volta era una corsa diversa. Non appena Frank Andom aveva pronunciato le parole fatidiche, confermandogli che quella nave ospedaliera che si erano fatti venire lo sghiribizzo di far saltare era proprio il Virginian, era uscito dal negozio quasi avendo le Furie alle calcagna. E va bene che quella nave era vecchia, e va bene che molto probabilmente cadeva a pezzi ed era ormai fuori norma… ma Cristo, volevano prima controllare che fossero scesi tutti?! Perché ne era certo come del fatto di avere gli occhi blu e di essere stato colpito alla spalla in guerra: Sherlock, con la testa dura che aveva, era ancora su quella fottutissima nave.

E allora John correva, il cuore in gola –e non solo metaforicamente parlano- e il fiato corto, le orecchie che gli fischiavano e il corpo che urlava che non ce l’avrebbe mai fatta, perché il porto era lontano e, soprattutto, la sua vita non gli aveva mai concesso un lieto fine che fosse uno…

Svoltò in una via a sinistra e poi prese la prima a destra, saltando il carrellino di una vecchietta che era uscita presto per fare la spesa e ora inveiva contro di lui, agitando il bastone e urlando qualcosa sui “giovani d’oggi”.

John corse come un cretino, non sentendosi più il cuore e credendo di avere un infarto lì, seduta stante. Sentiva Andom che gli gridava qualcosa alle spalle –sperò che non se la fosse presa del fatto che si era tenuto la tromba, poi gliela avrebbe riportata… magari l’avrebbe fatto con Sherlock…- ma non si sarebbe fermato.

Perso nei suoi pensieri, poco ci mancò che andò a sbattere contro un paio di lampioni –mai correre con la testa da un’altra parte, si ricordò con una smorfia, la caviglia che si lamentava del repentino cambio di peso-.

Poi, finalmente, il porto.

Avevano fatto scalo a Plymouth un sacco di volte, avrebbe potuto dire il nome di ogni singolo pub e barista nel raggio di miglia, ma quello non era il momento per una rimpatriata. Non di quel tipo, almeno. Forse dopo, si disse, dopo ci sarà tempo. Quando tutto sarà sistemato…

E con il porto, comparve anche la nave.

Era davvero messa male, mangiata dalla ruggine in ogni singolo centimetro, sembrava che non fosse mai stata nera o bianca, ma fosse nata rossa. Imponente lo era rimasta, ma ora faceva solo pena. C’erano ancora degli uomini al lavoro, uno dei lampadari –che riconobbe essere proprio quello della sala da ballo della prima classe- stava venendo calato proprio in quel momento. Diverse scale erano poggiate alla fiancata e tanti uomini andavano avanti e indietro, tenendo delle valigette in mano…

Dinamite.

Il pensiero colpì John togliendogli definitivamente il fiato.

Si accasciò accanto a un lampione, il cuore in gola e il fiato talmente grosso da non riuscire a respirare, la terribile sensazione che avrebbe vomitato o sputato un polmone da un momento all’altro. Ansimava, piegato sulle ginocchia, la tromba in una mano e un braccio che gli comprimeva lo stomaco, quasi a impedirsi di sboccare. Decisamente non era il momento.

-Ehi, tutto bene?-

Una voce gli fece alzare parzialmente la testa –e il risultato fu che osservò l’uomo di traverso-. L’accento non era di quelle parti, sembrava inglese. O quanto meno britannico… erano anni che non sentiva l’accento di casa sua... La carnagione era chiara, gli occhi anche e i capelli rossicci. Era ben vestito e sembrava avere un mucchio di soldi. Stava appoggiato ad un ombrello e guardava la nave con malcelato schifo.

-Io…?- boccheggiò stupidamente John. –Alla grande- rispose, facendo segno di “okay” con la mano, lasciando la tromba per terra.

-Non si direbbe…- commentò l’altro. –Aveva paura di perdersi la demolizione? Oh, mancano ancora un decina di minuti, non si…-

John si riebbe di scatto e afferrò l’altro per la collottola del vestito elegante.

-Dieci minuti?- riuscì a chiedere, sentendo l’ansia tornare. –Ma non potete! Non… c’è un uomo a bordo!-

L’uomo si liberò dalla presa di John e si sistemò la cravatta. John gli chiese scusa con lo sguardo, ma quello non sembrò accettare.

-Tutto il personale è stato fatto evacuare. Mancavano i lampadari, fino a ieri non avevamo le… come le chiamate voi?... gru? Sì, gru. Ecco, ci mancavano quelle. Ma per il resto siamo pronti… e la nave è stata controllata… secondo lei io farei saltare per aria qualcuno?-

-Le dico che c’è!- insistette John, tossendo. –Ma insomma, chi si crede di essere lei per…-

-Mycroft Holmes, dirigo i lavori di smantellamento- si presentò l’uomo, gelido, porgendogli anche un tesserino di riconoscimento. –E lei sarebbe?- chiese, dopo una pausa, squadrando gli abiti dismessi di John.

-John Watson. Ci facevo il trombettiere là sopra, prima della guerra. Fino al ’33 ci sono stato- disse John, pregando di suonare più importante di quanto in realtà non fosse. –E le dice che c’è un uomo lassù. Perché dovrei, eh, se non fosse vero? Che me ne verrebbe in tasca? Glielo dico io: niente. Niet. Nada. Una cippa impanata e fritta. Le dico che c’è qualcuno lassù, qualcuno che non è mai sceso da quella nave… ora: o lei me lo fa cercare, sospendendo tutto, oppure io trovo il modo di salire comunque su quella nave e allora sì che avrà dei problemi.-

Mycroft Holmes lo scrutò piano.

-Potrei minacciarla di andarsene…-

-Credo che lo troveremmo entrambi molto imbarazzante.-

 

 

 

 

Mezz’ora. Ecco quanto quell’idiota di Holmes gli aveva concesso. Se non fosse stato impossibile, avrebbe detto che quell’uomo assomigliava straordinariamente a Sherlock, per alcuni tratti. Innanzitutto, aveva un’aura di autorità innata. Ma, se Sherlock se ne fregava altamente e si era sempre accontentato di John e della sua musica, Mycroft, in un nanosecondo, aveva messo su una squadra per andare a cercare il suo “amico invisibile”, come lo aveva prontamente ribattezzato.

Tornare sul Virginian dopo quasi quindi anni fu un duro colpo per John. Niente più capitano Anderson che lo scrutava storto, la cui barba nascondeva però un sorriso bonario. Niente più musica soffusa, che sembrava permeare l’aria anche quando nessuno suonava. Niente più chiacchiere dei passeggeri, che ciarlavano in un mescolio di lingue e dialetti e accenti e inflessioni che avrebbe fatto girare la testa a chiunque. Niente più fanfare e stelle filanti che facevano da scenografia alle partenze… niente.

Ora quel posto puzzava di muffa, di chiuso e di vecchio. Le assi, un tempo di parquet lindo e talmente lucido che ti ci potevi specchiare, ora le assi erano state mezze mangiate dai tarli o rinchiodate a forza. E comunque non erano lucide da quel po’ di anni. Anzi, sembravano non esserlo mai state. I corridoi erano invasi da detriti e acqua, quasi la nave stessa si fosse arresa e fosse pronta a essere demolita. John non aveva nulla in contrario, senza il Virginian poteva vivere. Senza Sherlock… ci aveva provato e non era andata granché bene.

Fece strada agli uomini di Mycroft Holmes e raggiunsero il salone da ballo della prima classe. Anche lì, senza più tavolini, sedie, orchestra e ballerini, non si respirava la stessa aria. Anche il lampadario si erano portati via…

-Qui non c’è nessuno, John. Mi creda- tentò di farlo ragionare l’uomo. –Quello che è in questa nave sono sei quintali e mezzo di dinamite. Si fidi, se il suo amico è un po’ intelligente, se n’è andato anni fa e…-

-STIA ZITTO!- lo interruppe John, esasperato dalle sue chiacchiere e dal suo tono condiscendente. –Sherlock è su questa nave, lo so. È solo che… che lo stiamo spaventando. Facciamo troppo casino- disse, ignorando il sopracciglio alzato di Holmes e degli uomini con lui. –Dobbiamo dividerci… no. Anzi. Dovete scendere, lasciarmi solo. Forse così si farà trovare. Vi prego…-

Mycroft Holmes fece ruotare la punta dell’ombrello sul pavimento, mentre pensava. John seguì il movimento, implorando dentro di sé.

-Le do altri venti minuti. Avevo detto mezz’ora giù al porto, ormai sono passati dieci minuti. Ne ha altri venti… finiti quelli, questa bagnarola salta per aria. Con o senza lei a bordo- concluse, puntandogli l’ombrello contro. E John capì che era inutile protestare, dire che quella nave non era possibile ispezionarla da soli in venti minuti… ma era già tanto che gli fossero stati concessi. Era già tanto che quel Mycroft gli avesse, almeno in parte creduto.

Guardò gli uomini uscire e strinse la presa sulla tromba. Forse aveva una vaga idea di dove Sherlock potesse essere. O almeno, sarebbe partito da là. Se lui fosse stato spaventato, se tutte le sue certezze fossero –letteralmente- sul punto di esplodere… lui dove sarebbe andato?

Sarebbe tornato all’inizio.

 

 

 

Non aveva messo piede nella sala macchine dalla sera in cui aveva spalato carbone con Sherlock, ormai quasi venti anni prima. E l’atmosfera, cupa e minacciosa, almeno quella era rimasta. Non c’era più il caldo assassino, che ti faceva sudare ben più di sette camice e puzzare peggio di un caprone sudato; non c’era il vociare e il bestemmiare dei macchinisti, che però riuscivano sempre ad avere una parola gentile per Sherlock, nonostante venisse da “là sopra”. Era stato uno di loro e uno di loro sarebbe rimasto, con o senza Lestrade.

John si avventurò nella penombra, tromba alla mano, scendendo le scale due gradini alla volta, rischiando di cadere e di rimetterci il femore. Sapeva che non avrebbe dovuto chiamarlo, a quello non avrebbe risposto. Ma alla musica…

Una volta arrivato in fondo, dopo aver dato una rapida occhiata alle ombre attorno a lui, prese un gran respiro e prese a suonare. E suonò proprio quella musica, la prima “ninna nanna” che Sherlock avesse mai composto per lui. Perché doveva sapere che era lui… anche perché, quale altro pazzo avrebbe potuto suonare la tromba in una nave che stavano per far esplodere?

E qualcosa si mosse. Proprio quando aveva deciso di mandare tutto in vacca, di tornare da Holmes con la coda tra le gambe e la morte nel cuore… qualcosa si mosse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathia's nook:

Ed eccomi qua di nuovo. Siamo solo a un capitolo dall'epilogo. E diciamo che questo è un po' il prologo a, appunto, l'epilogo. Ha senso? Un prologo all'epilogo... boh. Vabbè...

Niente più flash back, Sherlock comparirà... e sentiremo la sua versione della storia. E del suo finale ;P

Non ho davvero molto da dire se non che ringrazio con tutto il cuore SherrySmith e Just Izzy per essermi state vicine in questo viaggio... ma verrà il tempo dei ringraziamenti ;)

Vi lascio e vi do appuntamento, oltre che alla settimana prossima, alla sezione dei commenti. Mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate...!

I.L.

 

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Capitolo 8
*** Epilogo - E tutto quel tempo non tornerà mai ***


 

 

E tutto quel tempo non tornerà mai

 

 

 

 

 

 

 

John riuscì a mettere meglio a fuoco una porzione non illuminata della sala macchine e il suo cuore perse un battito. Ma sapeva che doveva continuare a suonare… doveva riguadagnarsi la sua fiducia…

Quando finalmente la luce lo illuminò, John abbassò la tromba. Sherlock non era cambiato tanto. Certo, aveva qualche filo grigio in più tra i capelli, ma la chioma era rimasta ribelle e corvina. Indossava un vecchio frac e teneva il cravattino bianco slacciato, quasi fosse finita la serata, e scrutava John con quello sguardo mutevole e improbabile. Sembrava uno indeciso se credere o meno ai fantasmi.

-Ehi, Conn, qual è il problema, non sai andare sull’acqua?- chiese, facendo scoppiare John in una risata che significava tutto e niente. –Seriamente, ancora ti ricordi quella canzoncina?- fece, un raggio di sole che gli illuminava solo gli occhi.

-Ma che hai fatto in tutti questi anni?- domandò John, trattenendosi dal saltargli al collo. E ancora non sapeva se per abbracciarlo o per strozzarlo. Prese una cassa e la trascinò davanti a quella dove si era seduto Sherlock. Ancora gli sembrava impossibile che gli stesse davvero davanti…

-Ho suonato- rispose con sincerità quello.

-Sempre? Anche durante la guerra?-

Sembrava diverso dallo Sherlock che aveva conosciuto lui. Questo non era più il giovane genio che si fumava Moriarty o che mandava a fanculo il capitano Anderson. Non era più nemmeno il bambino che rubava le torte alla signora Hudson e imparava a leggere con Greg Lestrade. E non c’era nemmeno più traccia dell’uomo che fu quando guardò la giovane migrante, componendo. C’era una strana calma nei suoi occhi, nei suoi movimenti… era come se fosse morto e il suo fantasma, che aveva perso tutta l’irruenza della vita, fosse tornato da John per fare due chiacchiere.

-Sempre. Anche quando ormai nessuno ballava più. Anche sotto i bombardamenti. La musica li aiutata a guarire. I feriti dico- aggiunse, come se fosse necessario. Il Virginian era stata una nave ospedaliera…

– Oppure li distraeva… mentre se ne andavano all’altro mondo. Non se ne accorgevano, non se ne rendevano conto, se ascoltavano la musica. La mia era l’ultima faccia che vedevano- disse, senza nascondere una traccia dell’antico orgoglio. –Ho suonato sempre. Fino a quando la nave è arrivata qui.-

-La chiami ancora nave? A me sembra solo una montagna di dinamite pronta a saltare in aria. Un po’ pericoloso, no?- disse, cercando di indirizzare il discorso. Ma a Sherlock sembrava non importare. Lo guardava intensamente come un tempo, un leggero sorriso sul volto inclinato e l’aria seriamente interessata.

-E tu, John? Che ci fai qui con la tua Conn?-

-Io… avevo smesso per un po’. Problemi miei, ma… ma mi è tornata la voglia. Di ricominciare intendo. Ho un sacco di idee nuove, mettiamo su un duo, io e te. O addirittura una band- tentò, cercando di apparire più entusiasta di quanto fosse. In realtà, gli avrebbe anche costruito una sala di registrazioni a mani nude e murando i mattoni col sputo, se solo fosse riuscito a farlo andare via da quella cazzo di nave infarcita di dinamite. –Dai, coraggio Sherlock, vieni giù con me. Ce lo vediamo dal molo il grande botto- lo incoraggiò, ma già leggeva negli occhi il rifiuto. Non sarebbe sceso. Così come non lo aveva fatto quando era morto Lestrade, così come non lo aveva fatto per andare a trovare la ragazza, così come non lo aveva fatto quella mattina di primavera del ’31. Così come non lo aveva fatto quando era sceso lui.

-Io non scenderò da questa nave- disse con quel suo tono tranquillo che avrebbe fatto saltare i nervi a un santo, senza staccare gli occhi da John. -Tutta quella città... non se ne vedeva la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? Su quella maledettissima scaletta era tutto molto bello e io ero grande con quel cappello, facevo il mio figurone e non avevo dubbi, sarei sceso, non c'era problema. Non è quello che vidi che mi fermò, fu quello che non vidi. C'era tutto, ma non c'era una fine. Quello che non vidi era dove finiva tutto quello. La fine del mondo... Ora, tu pensa: in un violino. Le corde iniziano, le corde finiscono. Tu sai che sono quattro, su questo nessuno può fregarti. Non sono infinite loro. Tu, sei infinito, e su quelle corde, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono quattro. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me ci trovo un violino con milioni e milioni di corde, milioni e milioni di corde che non finiscono mai e quelle corde sono infinite... su quelle corde non c'è musica che puoi suonare. Hai tra le mani l'archetto sbagliato: quello è il violino che suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire... tutto quel mondo, che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n'è... non avete paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità? Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la felicità su quelle corde che non erano infinite. Io ho imparato così. La terra... quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonami, ma io non scenderò dalla nave. Al massimo... posso scendere dalla mia vita- concluse, stringendosi nelle spalle senza interrompere il contatto visivo con John. Aveva tenuto gli occhi incollati ai suoi per tutto quel discorso. E John lo aveva ascoltato. In parte lo aveva capito, in parte compreso, in parte l'aveva giudicato un mucchio di stronzate degne del miglior paraculo. Sherlock era meglio di tutto quello, migliore di quella paura che l'aveva attanagliato per anni. Bastava che scendesse con lui, che chiudesse gli occhi su quella dannatissima scaletta per non vedere l'immensità che gli stava davanti... poi ci avrebbe pensato John a lui. A insegnargli a vivere sulla terra. Sherlock gli aveva insegnato a vivere sull'Oceano, forse era venuto il momento di ricambiare il favore. Di insegnargli a vivere sulla terra.

Ma lui non sarebbe sceso.

Nonostante fossero passati quindici anni dall'ultima volta che si erano visti, sapeva ancora leggere Sherlock. Perché forse quel pazzo era anche in grado di leggere le persone, ma John era riuscito nell'unica cosa che non era mai riuscita a nessuno: leggere Greg Lestrade T.G. Lemon Sherlock. E quindi lo sapeva che non sarebbe sceso, che non avrebbe alzato il culo da quella cassetta di dinamite e non avrebbe ridisceso la scaletta con lui. Non gli avrebbe insegnato a vivere, non l'avrebbe portato in Gran Bretagna, non gli avrebbe fatto conoscere sua madre e non sarebbero stati, quella sera, nel suo piccolo appartamento sopra il ristorante italiano a ridere e a scherzare. Perché la vita non ti da il lieto fine se ti innamori di un caprone con la testa più dura del marmo.

E allora John pianse. Pianse perché un amico, un amore così, non lo ritrovi. Pianse perché ci aveva messo quindici anni a capirlo, ma non voleva una vita senza Sherlock. E pianse perché Sherlock non gli avrebbe mai permesso di rimanere lì con lui, di morire lì con lui. Perché anche se non lo avrebbe mai ammesso e forse nemmeno lo sapeva, era la persona più bella e più altruista che avesse mai vissuto. E il mondo non avrebbe mai saputo nulla di lui, non più. La guerra si era portata via il suo ricordo, la gente non parlava più del violinista che non suonava le note normali sul Virginian e aveva battuto l'inventore del jazz... ora c'era solo John a conservare la sua memoria e quando non ci sarebbe stato più lui...

-In fin dei conti, è come se non fossi mai nato- sussurrò Sherlock, forse per tirarlo su. Ma riuscì solo a fargli scendere più lacrime da quegli occhi che non erano vecchi, ma che erano stanchi come quelli di Matusalemme. -Sei tu l'eccezione, John, solo tu che sai che sono qui... E sei una minoranza, non ti resta che adeguarti. Perdonami amico mio, ma io non scenderò.-

John si accartocciò su se stesso, crollò come gli immani iceberg del nord fanno quando c'è troppo caldo, e si piegò. Incassò la testa sul collo, strinse i pungi, chiuse forte gli occhi... ma le lacrime continuavano, il suo sguardo tremava perché non c'era più nulla da fare. Perché non c'era mai stato nulla da fare e lui era solo un fesso che si illudeva. Ma faceva male lo stesso. Anzi, forse faceva ancora più male. E Sherlock se ne stava lì, di fronte a lui, immobile. La testa leggermente reclinata da un lato, lo sguardo sottile e allo stesso tempo aperto, gli occhi impossibili che osservavano John come a volerselo imprimere nella mente.

E rimasero lì in silenzio per i tutti i minuti che rimanevano a John, lui che cercava inutilmente di frenare le lacrime e Sherlock che lo guardava, tranquillo e composto come era sempre stato.

Poi capirono che era arrivata la fine. E non perché uno dei due gliela diede su e si alzò in piedi, o perché qualcuno venne a chiamare John... no... fu come se entrambi l'avessero sempre saputo. Come se da quel primo incontro, da quella prima volta che avevano davvero parlato, spalando carbone e stupendosi a vicenda, come se da quella volta entrambi avessero saputo che sarebbe finita così, nel ventre di una nave, tra chili e chili di dinamite. Che sarebbe finita in tragedia, quella storia che sarebbe potuta essere tutt'altro e nient'altro al tempo stesso.

Si alzarono in piedi e si misero uno di fronte all'altro, sicuri e impacciati come bambini e vecchi. Poi ci fu l'abbraccio, la stretta che nessuno dei due voleva che finisse e che allo stesso tempo cominciasse. Perché era l'inizio della fine, era una prima e un'ultima volta. Si guardarono intensamente, incatenarono gli occhi per un ultima volta e poi allacciarono le braccia, i corpi, in un incastro che, si scopriva solo allora, era perfetto.

John si aggrappò al frac di Sherlock, lo tenne stretto e affondò il viso nella sua spalla, ispirando quell'odore di mare e dopobarba che solo lui aveva. E Sherlock fece lo stesso, lasciando cadere per un attimo la maschera di serenità e accettazione che aveva indossato da quando avevano cominciato a imbottirgli la nave di dinamite. Con John era sempre potuto essere se stesso, era l'unico... ma questa era l'ultima volta e John doveva ridere, non piangere.

Così si staccò lentamente, forzandosi, lasciando andare la sua ancora. Non lo voleva, ma andava fatto. E John lo guardò con quel suo sguardo emozionato che voleva dire tante cose... Sherlock le sapeva tutte, le sapeva perché erano le stesse che avrebbe voluto dire lui. Ma c'è un tempo per parlare e uno per dirsi addio. Avevano avuto il tempo per parlare, ne avevano avuto tanto... e alla fine non avevano mai detto niente. Sempre a riempirsi la bocca con parole importanti e poi alla fine si perde il succo vero della conversazione. Quindi era il momento dell'addio.

E John, quelle cose non dette, le sentì tutte nella presa di Sherlock sulle sue braccia. Il cuore gli si fece ancora più pesante. Doveva andarsene, era la cosa da fare, Sherlock non lo avrebbe voluto lì nel cuore dell'esplosione... così prese a salire la scaletta, la sua Conn in mano e la gola secca. L'unico rumore nell'aria era quello prodotto dalla suola delle sue scarpe che cozzava contro il metallo, quasi un feroce promemoria di quello che stava facendo. Sapeva che Sherlock lo stava guardando, sentiva il suo sguardo sulla schiena e avrebbe voluto più di ogni altra cosa voltarsi e prendersi almeno quell'unico bacio che... ma non sarebbe cambiato nulla. Sherlock non sarebbe sceso. Non l'aveva seguito la prima volta quindici anni prima, non lo avrebbe fatto ora, non dopo quello che gli aveva detto. Nemmeno dopo le cose non dette.

E così si aggrappò al corrimano, fece presa con le dita e andò in su, passo dopo passo. Poi la voce di Sherlock, che lo fece fermare tra un gradino e l'altro.

-Ehi, John.-

Fa che abbia cambiato idea, fa che abbia cambiato idea, fa che abbia cambiato idea...

-Già me la vedo la scena, arrivato lassù- disse Sherlock, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e l'aria nuovamente tranquilla. No, non aveva cambiato idea. -Quello che cerca il mio nome nella lista e non lo trova. “Come ha detto che si chiama?”- fece, imitando alla perfezione la voce del vecchio capitano Anderson, riuscendo a far spuntare a John un mezzo sorriso tra le lacrime. - “Novecento” “Nortarbartolo, Nosini, Novalis...” “E' che sono nato su una nave” “Come?” “Sono nato su una nave. E ci sono anche morto. Non so se risulta là sopra...” “Oh, naufragio?” “No. Sei quintali e mezzo di dinamite. BUM!”- disse, mimando il gesto dell'esplosione con le mani e gonfiando le guance. E John rise, come uno scemo. Perché era quello il vero addio, Sherlock che lo voleva allegro nonostante tutto. Riprese a salire con la voce di Sherlock che lo cullava, che gli dava il ritmo. Era più facile, ora che non c'era più un silenzio di morte ad accompagnare i suoi passi. - “Tutto bene ora?” “Oh, sì, benissimo. Ci sarebbe solo la faccenda del... sa, si è perso un braccio, nell'esplosione” “Si è perso un braccio?” “Eh, già...” “Beh, dovrebbero essercene un paio di là. Quel è che si è perso?” “Il sinistro” “Ahia” “Sarebbe?” “E' che c'abbiamo solo due destri. Nel caso lei avrebbe problemi a...” “A... cosa?” “No, dico, a prendere un destro...” “A prendere un destro piuttosto che un sinistro? Mah, in linea di massima direi di no. Meglio un destro che niente...” “E' quello che dico anche io. Aspetti che glielo vado a prendere. Ce ne abbiamo due, uno bianco e uno nero” “No, no, per carità, tinta unita, tinta unita. Nulla contro i neri, ma...” Sfiga- riprese, con il suo tono normale, finendo lo spettacolino. E si fermò anche John, arrivato all'ultimo pianerottolo che lo separava dall'ultima rampa di scale prima dell'uscita. -Tutta un'eternità a fare la figura dello scemo. Ti immagini a fare il segno di croce? Non si saprebbe mai quale usare!- commentò, riuscendo persino in una risata non nervosa che trascinò John con sé. -Però, sai che musica con quelle mani... due... destre... se solo trovo un violino...- finì in un sussurro, lo sguardo perso chissà dove. Poi riportò lo sguardo su John e agitò piano la mano, facendogli “ciao”. Voleva dire che era finita?

John riprese a salire. Mancavano pochi gradini ormai, poi sarebbe dovuto scendere, avrebbe dovuto dire a Mycroft Holmes che non era vero che c'era qualcuno a bordo, che si era sbagliato, che erano liberissimi di far saltare la nave. E quando avesse sentito il botto, quando il Virginian fosse saltato... allora avrebbe saputo che era la fine. Anche se, come diceva Sherlock, non si era mai fregati finché si aveva da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla. E John avrebbe fatto così, avrebbe scritto, avrebbe suonato, avrebbe parlato di Sherlock a chiunque lo fosse stato ad ascoltare. E anche a chi non voleva. Perché un uomo così, non andava dimenticato.

Era ormai arrivato in cima, due erano i gradini, se allungava la mano poteva già aprire la porta...

-Sai, John, c'è una cosa che non ti ho mai detto. Una cosa che avrei sempre voluto dire ma non ho mai detto e... e dato che è piuttosto improbabile che ci rivedremo, forse è meglio se te la dico ora.-

Di nuovo quella voce.

John si voltò piano. Sherlock aveva di nuovo lo sguardo fisso su di lui, probabilmente lo aveva guardato per tutta la salita. Aveva parlato piano, quasi borbottato, con quella sua voce profonda e che ti scavava dentro. E John aveva quasi paura di sentire cosa avesse da dire, perché... perché forse lo sapeva, perché era lo stesso che avrebbe voluto dire lui e...

-Sherlock, in realtà, è un nome da donna.-

Ma, ancora una volta, lui riuscì a spiazzarlo. E questa volta John rise così tanto che gli tornarono le lacrime, ma erano di gioia. Perché si sentiva fortunato ad aver conosciuto quell'uomo, quell'idiota.

-Non è vero- riuscì a replicare, asciugandosi gli occhi.

-Ci ho provato- si strinse nelle spalle, nascondendo un sorriso. -John, posso chiederti una cosa?-

Lui annuì.

-Quando scenderai da qui, lo so che vorrai andare il più lontano possibile e, in parte, lo capisco. Ma solo in parte, perché per il resto centra con dei sentimenti, quindi...-

-Vai al punto- lo spronò John. Ora che sapeva dell'inevitabilità della fine di quella storia, voleva che arrivasse il prima possibile. Perché lo torturava con quelle chiacchiere?

-Voglio che tieni gli occhi fissi su di me, sul Virginian. Ti prego, lo faresti per me?-

E John si sentì crollare il mondo addosso. Di nuovo. Ancora. Troppe volte nella stessa giornata. E pensare che dodici ore prima era solo uscito di casa per vendersi la tromba... Ma Sherlock non gli poteva chiedere una cosa del genere, non ora, non prima della...

Provò ad articolare cosa, ma fu solo un balbettio senza senso quello che gli uscì dalla bocca.

-Cosa? Io non... no...-

-Addio, John- disse Sherlock e John capì che era davvero finita.

 

 

 

 

 

 

Alla fine era tornato al negozio. Che altro avrebbe potuto fare? Frank non gli aveva detto nulla, non gli aveva chiesto nulla. Lo aveva visto arrivare, le lacrime che ancora scorrevano sul suo viso e aveva capito. Era vecchio, Frank, non scemo. Aveva sentito l'esplosione e aveva visto il volto di John. Non serviva una laurea per capire che nessunissimo Sherlock avrebbe girato l'angolo con lui.

E ora se ne stavano seduti in negozio. Era esattamente come la notte prima, eppure nulla era uguale.

John se ne stava accasciato su uno sgabello, il capello calato sul viso e gli occhi piantatati a terra. Sembrava invecchiato di almeno cent'anni.

-Tu cosa avresti fatto al mio posto?- chiese a un certo punto, la voce che sembrava venire diretta dall'Oltretomba.

Frank si strinse nelle spalle.

-Non lo so... francamente, mi sarei sentito inutile- ammise alla fine, la radio che dietro di loro ciarlava di cose inutili e faceva pubblicità a prodotti per la casa. Tutto sembrava normale, eppure non lo era.

-Prima o poi le storie finiscono. E non c'è altro da aggiungere- mormorò John, alzandosi e facendo per salutarlo. -Comunque, grazie nonno.-

In negozio c'erano un paio di clienti che curiosavano tra i pianoforti e... e ce n'era uno che, in un angolo, accordava un violino. Se ne stava di spalle, nell'unico posto non illuminato del negozio. Aveva un lungo cappotto nero che John avrebbe potuto giurare di aver già visto anni prima, gonfiato dal vento sulla scaletta di una nave. Era un tipo slanciato e sembrava saperci fare, con quel violino. Muoveva le mani con rapidità e precisione, la testa leggermente inclinata... e i suoi capelli erano ricci e neri, John era pronto a metterci la mano sul fuoco.

Sentì Frank dire qualcosa alle sue spalle, ma le sue parole vennero coperte dal rumore del suo cuore, che gli era balzato in gola. Sarebbe stato da Sherlock, no? Rispuntare fuori quando uno meno se lo aspettava... non era quello che era successo quel giorno? Non era quella la giornata delle cose impossibili?

Poi il violinista si girò, ma il suo sguardo non si posò su John, bensì su Frank che era dietro di lui. Ma il castello di carte di John era già crollato. Quello era un ragazzo, non un uomo che aveva superato i quaranta da un pezzo. E i suoi occhi erano neri, i capelli castani... no, non era Sherlock. Sherlock era morto. Aveva visto l'esplosione, aveva fatto come lui aveva voluto, se n'era stato ritto al porto fino a quando non avevano portato il Virginian al largo e quello non era colato a picco, spaccato in tanti piccoli pezzi. E Sherlock era a bordo. E nessuno si sarebbe potuto salvare da una cosa del genere. Non sarebbe tornato e, prima John se lo fosse messo in testa, meglio sarebbe stato. Non sarebbe sputato fuori da una torta dicendogli sorpresa.

-Mi scusi- disse il ragazzo, urtando John nel raggiungere Frank. -Questo violino, mi potrebbe dire se...-.

-È un ottimo modello- John sentì dire dalla propria voce.

Il ragazzo e Frank si voltarono verso di lui interrogativi.

-Io... io suono la tromba, con i violini ho poco a che fare, ma... conosco... conoscevo un violinista niente male. E usava proprio quel modello lì, quindi... io glielo consiglio- concluse in fretta. -Beh, scusate l'intromissione, me ne vado. Non fate caso a me- borbottò, lasciando i due al violino.

Quasi gli faceva male andarsene, le mani nel cappotto e il cuore pieno. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma la sera prima credeva che i suoi motivi sarebbero stati diversi. Perché non avrebbe più avuto la sua tromba, perché avrebbe venduto l'ultima cosa che lo ancorava al suo passato... e invece ora...

-Ehi, Conn.-

La voce del vecchio lo fermò che era già uscito, ma era ancora sulla soglia. Teneva in mano la sua tromba, con tanto di custodia.

-Tienila- disse, porgendola a John che la rifiutò imbarazzato.

-No, io...-

-Oh, in culo i soldi!- ghignò Frank. -Una bella storia vale più di qualche spicciolo.-

-Okay, nonno- fu l'unica cosa che riuscì a dire allora John e l'altro sapeva che in quelle due piccole parole era racchiuso un mondo. Frank avrebbe voluto poter fare di più per quel giovanotto che gli aveva dato molto di più che un racconto lungo una notte, ma sapeva che John non avrebbe accettato. Nemmeno una cosa misera come assumerlo nel suo negozio. Doveva andare per la sua strada, doveva trovare se stesso, crearsi un'identità indipendente. E ricordare Sherlock. Quello sì che andava fatto...

E allora rimase a guardarlo fino a quando la sua figura non divenne un puntino lontano, appena riflesso dalle pozzanghere superstiti di quella notte. Lo guardò e sperò con tutto se stesso che quella non fosse la fine anche per John Watson, ma che potesse essere un nuovo inizio. Perché aveva ancora tanto da dare al mondo, tanto da raccontare... e aveva tutte le carte in regola per farcela.

 

 

 

 

È dinamite quella che hai sotto il culo, fratello.

Alzati e vattene.

È finita.

Questa volta è finita davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inathias' nook:

E così siamo arrivate alla fine. Avrei davvero voluto concludere con le parole di Baricco, lasciarle così in sospeso... Ma ci sono dei grazie da dire e io non sono tipo che si tira indietro. Soprattutto una volta arrivati alla fine. 

Innanzitutto, un ringraziamento a Just Izzy, la beta da me più bistrattata nell'universo. Questa storia è nata anche per te, quindi grazie. Se l'università non mi uccide del tutto, prometto che sarò più presente. 

Poi c'è SherrySmith, alla quale va una mia personalissima standing ovation per aver recensito puntualmente ogni mio aggiornamento, per avermi detto di continuare quando questa storia era solo un prologhetto... Grazie davvero tanto. Sei una delle poche (perché dire "l'unica mi metteva tristezza) che ha commentato dall'inizio alla fine. E quindi questo prologo è anche per te.

Un salutone a Smaugslayer e Maya98. La prima perchè è una "vecchia fan" (spero leggerai affetto in queste parole), la seconda perché è davvero una gran persona. Spero che quando riuscirai, ti finirai di leggere la storia e vedrai questa dedica... sapendo che non ti ho dimenticata.

E infine, grazie a te, lettore o lettrice temerario, anche solo per aver letto o aperto per caso questa storia, finendo per appassionarti. Se vuoi commentare o lanciarmi dei pomodori (anche se preferirei fossero cucchiaiate di Nutella) ti aspetto nella sezione recensioni.

E così si conlude anche il nostro viaggio, come quello del Virginian (ma noi non saltiamo per aria, okay?). E' stato breve, ma a me è piaciuto. E spero sia stato le stesso per voi e sarà lo stesso per quanti (se mai ci saranno) che leggeranno questa storia tra un po'.

Grazie davvero a tutti per esserci stati,

alla prossima

I.L.

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